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ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE Università di Messina D. 45.1.1.6 (Ulp. 48 ad Sab.): lingue straniere e conceptio verborum della stipulatio nella prospettiva di Ulpiano 1. «Edictum Caracallae» e «sermo Latinus». — È a tutti no- to il disarmante squilibrio che si osserva allorché si mette a raf- fronto la portata potenzialmente dirompente 1 della generale concessione (salva la discussa eccezione dei peregrini dediticii 2 ) 1 #Il carattere «epocale» del provvedimento di Caracalla, nonostante alcune in- terpretazioni dottrinali di segno tendenzialmente riduttivo (per le quali, v. infra nt. 10), è ben evidenziato, ancora in tempi recenti, da G. CRIFÒ, Civis. La cittadinanza tra antico e moderno 3 (Bari 2003) 39; nello stesso senso e dello stesso A., cfr., con maggiori approfondimenti, Il diritto e l’ideologia del buon governo, in AA.VV., Sto- ria della società italiana III. La crisi del Principato e la società imperiale (Milano 1996) 637 ss.; per affermazioni di analoga portata, cfr., solo per limitarsi qui a ripor- tare alcuni esempi: G. GROSSO, Lezioni di storia del diritto romano 5 (Torino 1965) 465, che considera l’Editto di Caracalla «una svolta nell’applicazione e nella vita del diritto romano»; le (ormai classiche) pagine di A.N. SHERWIN-WHITE, The Roman Citizenship 2 (Oxford 1973) 281 ss.; P. CATALANO, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano I (Torino 1990) 70, che sottolinea come, in conse- guenza della constitutio, si fosse invertito il rapporto tra cittadinanza e non cittadinan- za, divenendo la prima la regola e l’eccezione la seconda; P. DESIDERI, La romanizza- zione dell’Impero, in Storia di Roma II. L’impero mediterraneo 2. I principi e il mondo, dir. A. SCHIAVONE (Torino 1991) 624, per il quale con questo editto «si concludeva almeno formalmente il processo di romanizzazione»; F. SCHULZ, I principii del diritto romano (trad. it. Firenze 1995, rist. anast. dell’ed. Firenze 1946) 106, che collega pro- prio all’Editto il sorgere della «nazione dell’Impero romano»; J.P. CORIAT, Le prince législateur (Roma 1997) 500, secondo cui «elle réalise l’égalité et l’unité des sujets à l’intérieur de la cité universelle qu’est l’Empire romain, elle parfait, au niveau du droit, l’harmonie et l’unité de l’oikoumène qui, dans l’ordre du mond, est à l’image de la grande cité que constitue l’Univers dans la cosmologie stoïcienne». 2 #Sull’esistenza della quale non tutti peraltro, com’è risaputo, convengono: cfr., ad es., A. D’ORS, Estudios sobre la Constitutio Antoniniana II. Los dediticios y el edicto

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ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE Università di Messina

D. 45.1.1.6 (Ulp. 48 ad Sab.): lingue straniere e conceptio

verborum della stipulatio nella prospettiva di Ulpiano

1. «Edictum Caracallae» e «sermo Latinus». — È a tutti no-to il disarmante squilibrio che si osserva allorché si mette a raf-fronto la portata potenzialmente dirompente1 della generale concessione (salva la discussa eccezione dei peregrini dediticii2)

1#Il carattere «epocale» del provvedimento di Caracalla, nonostante alcune in-

terpretazioni dottrinali di segno tendenzialmente riduttivo (per le quali, v. infra nt. 10), è ben evidenziato, ancora in tempi recenti, da G. CRIFÒ, Civis. La cittadinanza tra antico e moderno3 (Bari 2003) 39; nello stesso senso e dello stesso A., cfr., con maggiori approfondimenti, Il diritto e l’ideologia del buon governo, in AA.VV., Sto-ria della società italiana III. La crisi del Principato e la società imperiale (Milano 1996) 637 ss.; per affermazioni di analoga portata, cfr., solo per limitarsi qui a ripor-tare alcuni esempi: G. GROSSO, Lezioni di storia del diritto romano5 (Torino 1965) 465, che considera l’Editto di Caracalla «una svolta nell’applicazione e nella vita del diritto romano»; le (ormai classiche) pagine di A.N. SHERWIN-WHITE, The Roman Citizenship2 (Oxford 1973) 281 ss.; P. CATALANO, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano I (Torino 1990) 70, che sottolinea come, in conse-guenza della constitutio, si fosse invertito il rapporto tra cittadinanza e non cittadinan-za, divenendo la prima la regola e l’eccezione la seconda; P. DESIDERI, La romanizza-zione dell’Impero, in Storia di Roma II. L’impero mediterraneo 2. I principi e il mondo, dir. A. SCHIAVONE (Torino 1991) 624, per il quale con questo editto «si concludeva almeno formalmente il processo di romanizzazione»; F. SCHULZ, I principii del diritto romano (trad. it. Firenze 1995, rist. anast. dell’ed. Firenze 1946) 106, che collega pro-prio all’Editto il sorgere della «nazione dell’Impero romano»; J.P. CORIAT, Le prince législateur (Roma 1997) 500, secondo cui «elle réalise l’égalité et l’unité des sujets à l’intérieur de la cité universelle qu’est l’Empire romain, elle parfait, au niveau du droit, l’harmonie et l’unité de l’oikoumène qui, dans l’ordre du mond, est à l’image de la grande cité que constitue l’Univers dans la cosmologie stoïcienne».

2#Sull’esistenza della quale non tutti peraltro, com’è risaputo, convengono: cfr., ad es., A. D’ORS, Estudios sobre la Constitutio Antoniniana II. Los dediticios y el edicto

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della civitas romana a tutti gli abitanti dell’orbis disposta da Antonino Caracalla nel 212 (o 213) d.C.3 con la trascurabile ri-sonanza con cui tale intervento imperiale è ritratto nelle fonti giuridiche: le raccolte postclassiche e la compilazione giusti-nianea non ci hanno restituito direttamente neanche il testo dell’Editto de civitate danda e l’unico frammento che ad esso si richiami, peraltro in modo assai fugace, è D. 1.5.17 (Ulp. 22 ad ed.)4. Ma, al di là dell’atteggiamento dei giuristi (a proposi- de Caracala, in AHDE. 15 (1944) 162 ss., 201 ss., secondo cui nell’Editto di Caracalla non si faceva affatto menzione dei dediticii. Una preziosa rassegna delle diverse posi-zioni dottrinali suscitate dall’integrazione ¯ˆÚ[d˜] ÙáÓ [‰Â‰]ÂÈÙÈΛˆÓ di P. Giss. 40 è in H.W. BENARIO, The Dediticii of the Constitutio Antoniniana, in TAPhA. 85 (1954) 188 ss., cui si può aggiungere G.I. LUZZATTO, s.v. «Peregrini (diritto romano)», in NNDI. XII (Torino 1965) 935 s., e F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana2 IV.2 (Na-poli 1975) 781 ss.; per altre varianti integrative, cfr. P.A. KUHLMANN, Die Giessener li- terarischen Papyri und die Caracalla-Erlasse. Edition, Übersetzung und Kommentar (Giessen 1994) 234 ss. (con rinvio alla bibliografia ivi segnalata); per un esame delle problematiche connesse a P. Giss. 40, cfr., più di recente, P. PINNA PARPAGLIA, Sacra peregrina, civitatis Romanorum, dediticii nel papiro Giessen 40 (Sassari 1995) 13 ss.

3#Ovviamente sterminata la letteratura sull’argomento ed impossibile richia-

marla qui in modo completo; per comodità, faccio rinvio all’ampia bibliografia rac-colta da C. SASSE, Literaturübersicht zur Constitutio Antoniniana, in JJP. 14 (1962) 109 ss.; per gli Autori più recenti, cfr. le preziose indicazioni di dottrina contenute, exempli causa, in L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico: alle radici di una nuova storia (Roma 2007) 67 nt. 102; V. MAROTTA, La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I-III d.C.). Una sintesi (Torino 2009) 117 ss.; ID., La cittadinanza romana nell’ecumene imperiale, in Storia d’Euro- pa e del Mediterraneo VI. Da Augusto a Diocleziano, cur. G. TRAINA (Roma 2009) 564 ss., 591 s.; A. TORRENT, La Constitutio Antoniniana. Reflexiones sobre el papi-ro Giessen 40 I (Madrid 2012) passim.

4#In orbe Romano qui sunt ex constitutione imperatoris Antonini cives Romani

effecti sunt. A tale passo si può aggiungere un altro sfuggevole accenno da parte di Giustiniano in Nov. 78.5 del 539 d.C., a proposito della condizione dei liberti, dove tuttavia il provvedimento è erroneamente rimesso alla paternità di Antonino Pio. Già in precedenza simili errori di attribuzione erano peraltro stati commessi da Aurelio Vittore (Liber de Caes. 16.12) e da Giovanni Crisostomo [Hom. LV in Acta Apostol. 48.1, in J.P. MIGNE, Patrologia Graeca (Paris 1857-1866), di seguito semplicemente citata come P.G., 60.333], che riferivano rispettivamente la norma de qua a Marco Aurelio e ad Adriano. Per il modesto rilievo che caratterizza la questione della citta-dinanza in particolare nella legislazione giustinianea (che, di per sé, potrebbe da solo dare ragione dell’oblio di quelle fonti che alla estensione della cittadinanza disposta da Caracalla dovevano originariamente riferirsi), cfr. le stringenti annotazioni di F. GO-RIA, Romani, cittadinanza ed estensione della legislazione imperiale nelle costituzioni

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to del quale, pertanto, non molto si può inferire a causa del- l’esiguità dei riferimenti che sono a nostra disposizione5), il ri- di Giustiniano, in La nozione di «romano» tra cittadinanza e universalità. Atti del II Seminario Internazionale di Studi Storici ‘Da Roma alla terza Roma’. Roma 21-23 aprile 1982 (Napoli 1984) 277 ss. (spec. 285 ss.); diversamente, cfr. peraltro M. TALAMANCA, Gli ordinamenti provinciali nella prospettiva dei giuristi tardoclassici, in Istituzioni giuridiche e realtà politiche nel Tardo Impero (III-V sec. d.C.). Atti di un incontro tra storici e giuristi. Firenze 2-4 maggio 1974, cur. G.G. ARCHI (Milano 1976) 197 s. e nt. 277, che, partendo dalla circostanza che il riferimento ulpianeo alla Constitutio Antoniniana, conservato in D. 1.5.17, fosse nel contesto originario del tutto marginale (per il quadro palingenetico del frammento, precise indicazioni in V. MAROTTA, La cittadinanza romana cit. 103 s., a cui rinvio), ritiene che i due luoghi del Corpus Iuris Civilis nei quali ad essa ci si richiama sembrerebbero dar prova «di un interesse dei compilatori ... ché essi altrimenti non sarebbero ricorsi all’escerpi- mento di un passo tanto marginale per ricordarne l’esistenza».

5#I riflessi che la Constitutio Antoniniana può aver prodotto sulla letteratura

giurisprudenziale venuta alla luce successivamente ad essa, se si considera la già ri-cordata non sopravvivenza di trattazioni ad hoc, non possono che essere ricercati obliqua via e venire osservati pertanto solo in modo frammentario, attraverso la con-siderazione delle possibili mutazioni indotte da tale provvedimento sulla ricostru-zione concreta di specifici profili giuridici. Al problema occorrerebbe, pertanto, ac-costarsi senza lasciarsi sedurre da troppo facili generalizzazioni, ma in modo essen-zialmente topico, tenendo conto non soltanto delle differenze osservabili da giurista a giurista, quanto (e soprattutto) della ineludibile varietà di incidenza dell’innova-zione di Caracalla sulle fattispecie concrete: se, ad es., come comunemente si ritiene, quest’incidenza può essere stata modesta in relazione agli assetti delle preesistenti strutture amministrative, sia pure incentivando in esse uno spontaneo processo di li-vellamento, non è detto infatti che ugual sorte debba essere riscontrata in altri setto-ri, anche al di fuori delle questioni direttamente connesse con lo status hominum. Sulla scorta di ciò, mi sembrerebbe pertanto sconsigliabile rivestire di rigida impre-scindibilità quell’assunto (del tutto plausibile, peraltro, in relazione allo specifico am-bito sottoposto ad analisi, vale a dire la sfera pubblicistica) che tenderebbe a quantifi-care in termini per lo più minimalistici l’impatto di questa misura politica sul modus cogitandi dei prudentes. Il pensiero non può che andare all’approfondito ed autore-vole studio condotto da M. TALAMANCA, Gli ordinamenti provinciali cit. 95 ss., che, a termine di un’ampia e dettagliata rassegna di testimonianze giurisprudenziali, così giungeva a concludere in ordine a questo punto (a p. 198): «Ciò riconferma, per Ul-piano, ma anche per i giuristi contemporanei, come Paolo, e – in certi limiti – anche per i successivi, come Macro e Marciano, una certa insensibilità ai problemi dell’esten-sione della cittadinanza in sé considerata, che non può non essere connessa con un particolare tipo di atteggiamento nei confronti della realtà provinciale, in cui soprat-tutto gli effetti della constitutio dovevano farsi sentire»; per l’A., tali effetti iniziaro-no concretamente ad essere avvertiti soltanto sui giuristi di una generazione imme-diatamente successiva. Tuttavia, come già abbiamo avuto occasione di anticipare, l’ambito da cui muoveva tale ricerca era centrato prevalentemente sulla sfera pub-

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serbo nei riguardi dell’iniziativa assunta dall’Imperatore della dinastia Severa era, più in generale, un dato comune anche al racconto degli storici coevi e di quelli vissuti nei decenni im-mediatamente successivi6: nessun riscontro da parte di Erodia-no (autore di otto libri di ^IÛÙÔÚ›·È Ùɘ ÌÂÙa M¿ÚÎÔÓ ‚·ÛÈÏ›·˜, che coprivano l’arco temporale dal 180 al 238 d.C.7), né nella blicistica, restando viceversa piuttosto sullo sfondo i riferimenti al diritto privato (lo rilevava l’A. stesso a p. 222, allorché precisava che «la prospettiva dalla quale so-no state condotte le analisi che precedono e che riguardano l’opera dei singoli giuri-sti ... è stata, più o meno rigorosamente, incentrata su un momento che noi po-tremmo chiamare pubblicistico ... Rimane, ovviamente, un altro angolo visuale da cui saggiare la posizione assunta dai prudentes romani nei confronti della realtà provinciale, e cioè quello relativo alle strutture del diritto privato»); ciò non toglie, pertanto, che in quest’ultimo settore gli iurisperiti rivelassero talora – come meglio si vedrà nel prosieguo della nostra indagine – una significativa permeabilità alle con-seguenze indotte dalla generalizzazione della civitas.

6#A proposito del possibile significato di questo silenzio che si osserva negli

scrittori contemporanei all’Editto, cfr., spec., le considerazioni di T. SPAGNUOLO VIGORITA, Cittadini e sudditi tra II e III secolo, in Storia di Roma III. L’età tardo-antica 1. Crisi e trasformazioni, dir. A. SCHIAVONE (Torino 1993) 6 ss. e ID., Città e Impero. Un seminario sul pluralismo cittadino nell’Impero romano (Napoli 1996) 98 ss. [al quale adde V. MAROTTA, Ulpiano e l’Impero I (Napoli 2000) 166 ss.], secondo cui si tratterebbe comunque di un’omissione sintomatica. Viceversa, è incline a ridi-mensionare la portata di questo mancato ricordo nelle fonti coeve, G. ZECCHINI, La Constitutio Antoniniana e l’universalismo politico di Roma, in L’ecumenismo politico nella coscienza dell’Occidente. Bergamo 18-21 settembre 1995. Alle radici della casa comune europea, cur. L. AIGNER FORESTI, A. BARZANÒ, C. BEARZOT, L. PRANDI, G. ZECCHINI II (Roma 1998) 350 ss. Non pochi (ed animati da toni elogiativi) i richiami che si rinvengono, d’altro canto, nella letteratura non giuridica dei secoli successivi, in specie in quella di matrice cristiana: per Giovanni Crisostomo (Hom. LV in Acta Apo-stol. 48.1 cit.), la cittadinanza romana, prima riservata a pochi e poi aperta a tutti, era una ÌÂÁ¿Ï[Ë] ÚÔÓÔÌ›[·]; Agostino [De civit. Dei 5.17, in J.P. MIGNE, Patrologia La-tina (Paris 1844-1864), qui di seguito semplicemente abbreviata come P.L., 41.161] elogia la disposizione de qua, come gratissime atque humanissime fact[a]; Sidonio Apollinare (Epist. 1.6.2, in P.L. 58.455 s.) chiama patria libertatis quella in qua unica totius mundi civitate soli barbari et servi peregrinantur; per Prudenzio (Contra Symm. 2.601 ss., in P.L. 60.228) ... Deus, undique gentes / Inclinare caput docuit sub legibus iisdem, / Romanosque omnes fieri ... A giudizio di G. ZECCHINI, La Consti-tutio Antoniniana e l’universalismo cit. 355, questi passi (ed altri ancora segnalati dall’A.) testimonierebbero «la popolarità e la perdurante memoria tra i provinciali di un provvedimento, che essi avvertirono come la sanzione giuridica del loro passag-gio da vinti e sudditi a cittadini e partecipi di un’unica patria e di un unico impero».

7#Secondo G. MARASCO, Erodiano e la crisi dell’impero, in ANRW. II.34.4

(Berlin-New York 1997) 2875, il silenzio dello storico greco su questo punto sa-

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Vita Antonini Caracallae dell’Historia Augusta8, mentre nella ^PˆÌ·ÈÎc ^IÛÙÔÚ›· di Cassio Dione9 tutta l’attenzione è assorbi-ta dai propositi fiscali sottesi all’innovazione, derivanti dal- l’estensione a tutti gli abitanti dell’Impero della vicesima here- rebbe, peraltro, da intendere come il risultato di «una precisa scelta» ideologica, correlata sia alla raffigurazione di Caracalla all’insegna del topos del tyrannos – in rapporto al quale una misura con finalità prevalentemente fiscali, come la Constitu-tio Antoniniana (tenendo fede ad una spiegazione che già era stata addotta da Cas-sio Dione, sulla quale v. subito oltre nel testo) poco avrebbe in realtà contribuito al quadro che dell’attività dell’Imperatore lo scrittore intendeva delineare –, sia (e so-prattutto, nella visione dell’A.) al «sentimento dell’unità dell’impero ... poiché la misura non modificava i reali rapporti fra Roma e i suoi sudditi». In generale, per una rivalutazione dell’affidabilità del resoconto storico di Erodiano, nonostante non poche voci dottrinali ancora contrassegnate da un certo scetticismo a questo ri-guardo, cfr. soprattutto i numerosi contributi di F. CÀSSOLA: Sulla vita e sulla per-sonalità dello storico Erodiano, in Nuova Riv. Stor. 41 (1957) 213 ss.; Erodiano e le sue fonti, in Rend. Accad. di Napoli 32 (1957) 165 ss.; e spec. Sull’attendibilità dello storico Erodiano, in Atti Accad. Pontan. 6 (1957) 191 ss.; nella «mera trascuratezza e mancanza di sensibilità storica» da parte dello storico rinviene tuttavia, ancora di recente, G. ZECCHINI, La Constitutio Antoniniana e l’universalismo cit. 353, le ra-gioni di tale omertà.

8#Un riferimento sia pure soltanto indiretto all’Editto potrebbe, tuttavia, co-

gliersi in un cursorio inciso che si legge nell’incipit della biografia di Settimio Severo scritta da Elio Sparziano (H.A. Vita Sev. 1.2), nel quale si ricorda che la famiglia dell’Imperatore era romana ed appartenente all’ordo equester ante c iv i tatem omnibus datam ; contra, comunque, la dottrina che ancora resta maggioritaria, che intende omnibus come riferito a tutti gli abitanti di Leptis (città natia dell’Im- peratore), ai quali la cittadinanza romana era stata attribuita già precedentemente sotto Traiano: cfr., exempli causa, A.R. BIRLEY, Septimius Severus the African em-peror (London 1971) 42 ss.; T. SPAGNUOLO VIGORITA, Cittadini e sudditi cit. 7 nt. 8; V. MAROTTA, La cittadinanza romana cit. 101.

9#Dio Cass. 77(78).9.4-5: ... ÙáÓ Ù ÙÂÏáÓ ÙáÓ Ù ôÏÏˆÓ L ηÈÓa ÚÔÛη٤‰ÂÈÍÂÓ,

ηd ÙÔÜ Ùɘ ‰ÂοÙ˘ mÓ àÓÙd Ùɘ ÂåÎÔÛÙɘ ñ¤Ú Ù ÙáÓ àÂÏ¢©ÂÚÔ˘Ì¤ÓˆÓ Î·d ñbÚ ÙáÓ Î·Ù·ÏÂÈÔÌ¤ÓˆÓ ÙÈÛd ÎÏ‹ÚˆÓ Î·d ‰ˆÚÂĘ âÔ›ËÛ ¿Û˘, Ù¿˜ Ù ‰È·‰Ô¯a˜ ηd Ùa˜ àÙÂÏ›·˜ Ùa˜ âd ÙÔ‡ÙÔȘ Ùa˜ ‰Â‰Ô̤ӷ˜ ÙÔÖ˜ ¿Ó˘ ÚÔÛ‹ÎÔ˘ÛÈ ÙáÓ ÙÂÏ¢ÙÒÓÙˆÓ Î·Ù·Ï‡Û·˜ (ÔG ≤ÓÂη ηd ^PˆÌ·›Ô˘˜ ¿ÓÙ·˜ ÙÔf˜ âÓ ÙFÉ àÚ FÉ ·éÙÔÜ, ÏfiÁˆ ÌbÓ ÙÈÌáÓ, öÚÁˇ ‰b ¬ˆ˜ Ï›ˆ ·éÙá ηd âÎ ÙÔÜ ÙÔÈÔ‡ÙÔ˘ ÚÔÛ›FË ‰Èa Ùe ÙÔf˜ ͤÓÔ˘˜ Ùa ÔÏÏa ·éÙáÓ Ìc Û˘ÓÙÂÏÂÖÓ, उÂÈÍÂÓ). Com’è noto, questa parte della Storia Romana non è purtroppo giunta fino a noi nella sua stesura originale, ma soltanto tramite excerpta ed epitomi di età bizantina: per la tradizione testuale dell’opera di Cassio Dione, cfr., funditus, C.M. MAZZUCCHI, Alcune vicende della tradizione di Cassio Dione in epo-ca bizantina, in Aevum 53 (1979) 94 ss. In generale, a proposito dell’ispirazione fi-scale del provvedimento messa in luce da Cassio Dione, cfr., per tutti, l’analisi di J.P. CORIAT, Le prince législateur cit. 499 ss.

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ditatum et manumissionum, dal pagamento della quale i pere-grini erano invece stati esentati fino a quel momento. Questa «indifferenza dei contemporanei per una misura in apparenza così grandiosa fa supporre – come è stato prontamente osser-vato – che il suo impatto con la multiforme società imperiale non sia stato traumatico, e modesti i suoi effetti, almeno sul breve periodo»10.

10#Così, ad es., T. SPAGNUOLO VIGORITA, Cittadini e sudditi cit. 8 (afferma-

zione in seguito ribadita dall’A. anche in Città e Impero cit. 102); ma in questo stes-so senso si era già pronunciato in pagine ormai famose M. ROSTOVZEV, Storia eco-nomica e sociale dell’Impero Romano (trad. it. Firenze 1966) 483 ss., evidenziando come «la cittadinanza romana era ormai ... un onore così a buon mercato da avere perduto ogni valore», sicché «la concessione di Caracalla non fece bene ad alcuno e non ebbe reale importanza sociale o politica» (p. 484). Un marcato svilimento dell’importanza della misura voluta da Caracalla si nota anche in A. SEGRÈ, La Co-stituzione Antoniniana e il diritto dei «novi cives», in Iura 17 (1966) 1 ss., che pensa ad «una cittadinanza molto sui generis», la quale avrebbe lasciato intatta la possibili-tà per i nuovi cittadini di continuare ad avvalersi del proprio ÔÏ›ÙÂ˘Ì· (p. 4). Tut-tavia, a fronte di tali letture restrittive, è probabilmente preferibile l’impostazione che smorza la forza innovativa dell’Editto attraverso l’idea che la constitutio avesse realizzato, con l’estensione della cittadinanza, una sorta di presa d’atto di «una si-tuazione generale di attesa in tal senso», posto che «la cittadinanza romana era stata applicata già da tempo in modo capillare in tutte le provincie ...» [così, ad es., O. BUCCI, Le provincie orientali dell’Impero romano. Una introduzione storico-giuri- dica (Roma 1998) 137; su questa stessa scia di pensiero anche tanti altri prima di lui, cfr., solo per citarne alcuni: F. DE MARTINO, Storia della costituzione2 IV.2 cit. 777; L. AMIRANTE, Una storia giuridica di Roma (Napoli 1994) 548 s.; A. GUARINO, Storia del diritto romano12 (Napoli 1998) 374, che giustamente nega essersi trattato di «una estemporanea riforma»], al punto che non era certamente più possibile attri-buirle i medesimi tratti che a lungo l’avevano contraddistinta: cfr. C. MASI DORIA, Modelli giuridici, prassi di scambio e medium linguistico. Un itinerario dell’espan- sionismo romano (Napoli 2012) 30, che, a ragione, scrive di una «civitas ormai svuo-tata ... di quei contenuti fortemente politici che ne avevano connotato la struttura in età repubblicana». D’altro canto, l’alta valenza simbolica dell’attribuzione non sem- brerebbe potersi disconoscere (non la negava, peraltro, neanche M. ROSTOVZEV, Storia economica cit. 484, allorché sottolineava come sotto l’aspetto storico essa «segna la fine di un periodo e l’inizio di un altro») e soprattutto doveva essere di-stintamente avvertita anche dai sudditi provinciali, come è possibile dedurre da una certa enfasi che si respira negli appellativi riferiti a Caracalla nelle iscrizioni succes-sive al provvedimento: si consideri, in quest’ottica, il titolo di Magnus (per imitatio Alexandri) che compare in alcune iscrizioni a ridosso della constitutio de civitate danda e che ad essa sembra in qualche misura essere collegato, nonché l’epiteto di ï ÛˆÙcÚ Ùɘ ¬Ï˘ ÔåÎÔ˘Ì¤Ó˘ con cui si rivolge all’Imperatore severo un AéÚ‹ÏÈÔ˜ M¤Ï[·˜] (v. CIG. 4680 = IGRR. I 1064), cioè proprio uno di quei provinciali benefi-

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Sennonché, alcune testimonianze di non molto successive alla Constitutio Antoniniana, sulle quali nella seconda metà del secolo scorso una dottrina assai autorevole ha appuntato la propria riflessione11, hanno contribuito a riaprire una di-scussione probabilmente mai del tutto sopita, a proposito delle conseguenze di questa concessione sul diritto che i novi cives sarebbero stati chiamati ad applicare, tra i sostenitori da una parte della tesi del Mitteis12 e dell’Arangio-Ruiz13 (favore-voli all’idea dell’abrogazione degli ordinamenti locali e dell’os- servanza esclusiva del diritto romano) e quanti invece hanno scelto di posizionarsi sulla scia della ricostruzione elaborata in particolar modo da Schönbauer14 (sintetizzabile attraverso la ben nota formula della cd. ‘doppia cittadinanza’)15 dall’al- ciati dalla concessione; cfr., per queste testimonianze, A. MASTINO, Antonino Ma-gno, la cittadinanza e l’impero universale, in La nozione di «romano» cit. 559 ss.; per la mancanza di epigrafi e conii celebrativi della constitutio e per le deduzioni conseguenti, cfr., invece, V. MAROTTA, La cittadinanza romana cit. 101.

11#Mi riferisco al fondamentale contributo di M. TALAMANCA, Su alcuni passi di Menandro di Laodicea relativi agli effetti della ‘Constitutio Antoniniana’, in Stu-di in onore di E. Volterra V (Milano 1971) 433 ss.

12#Cfr. L. MITTEIS, Reichsrecht und Volksrecht in den östlichen Provinzen des

römischen Kaiserreichs. Mit Beiträgen zur Kenntniss des griechischen Rechts und der spätrömischen Rechtsentwicklung (Leipzig 1891).

13#Cfr. V. ARANGIO-RUIZ, L’application du droit romain en Egypte après la

constitution Antoninienne, in Bull. Inst. Egypte 29 (1946-1947, ma 1948) 83 s. [= Studi epigrafici e papirologici (Napoli 1974) 258 ss., da cui in prosieguo si cita]; dello stesso A., cfr. anche: Sul problema della doppia cittadinanza nella Repubblica e nel- l’Impero romano, in Scritti in onore di F. Carnelutti I (Padova 1950) 53 ss. [= Scritti di diritto romano IV (Napoli 1977) 157 ss.] e s.v. «Editto di Caracalla», in NNDI. VI (Torino 1960) 402 ss.

14#E. SCHÖNBAUER, Reichsrecht gegen Volksrecht? Studien über die Bedeutung

der Constitutio Antoniniana für die römische Rechtsentwicklung, in ZSS. 51 (1931) 277 ss.; ID., Reichsrecht,Volksrecht und Provinzialrecht. Studien über die Bedeutung der Constitutio Antoniniana für die römische Rechtsentwicklung, in ZSS. 57 (1937) 309 ss.; ID., Rechtshistorische Urkundenstudien. Die Inschrift von Rhosos und die Constitutio Antoniniana, in Archiv für Papyrusforschung und verwandte Gebiete 13 (1939) 177 ss.; ma il principio della cd. ‘doppia cittadinanza’ era già stato sostenuto in precedenza anche da A. SEGRÈ, La Costituzione Antoniniana, in Riv. It. di Fil. 54 (1926) 471 ss.; del quale cfr. pure La Costituzione Antoniniana e il diritto cit. 1 ss. (spec., sul punto, p. 5 nt. 11, ove richiami anche ad altri contributi dello stesso A.).

15#Una panoramica di estrema sintesi, ma non per questo approssimativa,

delle due diverse impostazioni dottrinali si può leggere in E. VOLTERRA, I diritti

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 346

tra16. Questi passi sono essenzialmente rappresentati da un in-ciso di carattere autobiografico tratto dall’Encomio di Origene, tradizionalmente attribuito (anche se oggi non senza qualche perplessità17) a Gregorio il Taumaturgo e risalente alla prima metà del III secolo d.C. locali, in I diritti locali nelle province romane con particolare riguardo alle condi-zioni giuridiche del suolo. Atti del Convegno Internazionale. Roma 26-28 ottobre 1971 (Roma 1974) 55 ss. [ora in Scritti giuridici V (Napoli 1993) 399 ss.], ed in M. AMELOTTI, Reichsrecht, Volksrecht, Provinzialrecht. Vecchi problemi e nuovi do-cumenti, in SDHI. 65 (1999) 211 ss. Una rivisitazione in senso critico di tutta la problematica, come prospettata fino a quel momento, si trova in M. TALAMAN-CA, Su alcuni passi di Menandro di Laodicea cit. 436 ss., che appoggia la ricostru-zione proposta da Mitteis e da Arangio-Ruiz (cfr., ad es., i rilievi conclusivi di p. 559). Per una impostazione diversa della questione, che sottolinei il carattere rigidamente unilaterale dei due orientamenti dottrinali contrapposti, cfr. J.M. MODREZEJEWSKI, La règle de droit dans l’Egypte romaine (État des questions et prospectives de recherches), in Proceedings of Twelfth International Congress of Papyrology (Toronto 1970) 317 ss., seguito, da ultimo, anche da V. MAROTTA, La cittadinanza romana cit. 133 ss.; per ampi ragguagli sul tema e sulla letteratura, cfr. anche F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana2 IV.2 cit. 777 ss.; G.I. LUZZATTO, Roma e le provincie I. Organizzazione, economia e società (Bologna 1985) 418 ss.; più recentemente, L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici cit. 71 ss.

16#È stata, invero, suggerita anche una terza soluzione, incline a considerare la

sopravvivenza dei diritti locali alla stregua di norme consuetudinarie, integrative ri-spetto al diritto ufficiale: per questa impostazione, cfr. F. GALLO, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto. Lezioni di diritto romano (Torino 1993) 177 ss., che così scrive: «La concessione della cittadinanza non determinò ... la totale eliminazione dei preesistenti diritti locali, bensì la loro riduzione, attraverso la loro considerazione come consuetudo, al rango di fonte sussidiaria rispetto al diritto ro-mano» (p. 194 s.); nella medesima visuale e dello stesso A., cfr. anche La consuetu-dine nel diritto romano, in Atti del Colloquio romanistico-canonistico. Roma feb-braio 1978 (Roma 1979) 98 ss. [= Opuscula selecta (Padova 1999) 189 ss., part. 196 s., da cui cito]; ID., Le consuetudini locali nell’esperienza romana prima e dopo la concessione della ‘civitas romana’ ai peregrini, in Diritto generale e diritti particolari nell’esperienza storica. Atti del Congresso Internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto. Torino 19-21 novembre 1998 (Roma 2001) 303 ss. Per un’analisi degli usi locali in particolare nella realtà egiziana, cfr. anche J.M. MODREZEJEWSKI, Diritto romano e diritti locali, in Storia di Roma III. L’età tardoantica 2. I luoghi e le culture, dir. A. SCHIAVONE (Torino 1993) 985 ss.

17#Per i dubbi sulla paternità di Gregorio il Taumaturgo di questo panegirico,

faccio rinvio alla recente edizione di M. RIZZI, Encomio di Origene. Introduzione, traduzione e note (Milano 2002) 9 nt. 1, dove la questione è sinteticamente discussa con indicazioni di letteratura.

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1.7.31-41. <Oé ÌcÓ> ‰b àÏÏa η› Á ÙeÓ ÓÔÜÓ ≤ÙÂÚfiÓ ÙÈ Ì¿©ËÌ· ‰ÂÈÓᘠâÈÏ·Ì‚¿ÓÂÈ, ηd Ùe ÛÙfiÌ· Û˘Ó‰ÂÖ <ÙcÓ Á>Ï<á>ÙÙ·Ó, Âú ÙÈ Î·d ÌÈÎÚeÓ ÂåÂÖÓ ÙFÉ ^EÏÏ‹ÓˆÓ â©ÂÏ‹Û·ÈÌÈ ÊˆÓFÉ, Ôî ©·˘Ì·ÛÙÔd ìÌáÓ <ÓfiÌ>ÔÈ, Ôx˜ ÓÜÓ Ùa ¿ÓÙˆÓ ÙáÓ ñe ÙcÓ ^PˆÌ·›ˆÓ àÚ¯cÓ àÓ©ÚÒˆÓ Î·Ù¢©‡ÓÂÙ·È Ú¿ÁÌ·Ù·, <ÔûÙÂ> Û˘ÁΛÌÂÓÔÈ ÔûÙ ηd âÎÌ·Ó©·ÓfiÌÂÓÔÈ àٷϷȈÚá˜Ø ùÓÙ˜ ÌbÓ ·éÙÔd ÛÔ<Ê>Ô› Ù <ηd àÎÚ>È‚ÂÖ˜ ηd ÔÈΛÏÔÈ Î·d ©·˘Ì·ÛÙÔ›, ηd Û˘ÓÂÏfiÓÙ· ÂåÂÖÓ ^EÏÏËÓÈÎÒÙ·ÙÔÈØ âÎÊÚ·- Û©¤ÓÙ˜ <‰b ηd> ·Ú·‰Ô©¤ÓÙ˜ ÙFÉ ^PˆÌ·›ˆÓ ʈÓFÉ, ηٷ- ÏËÎÙÈÎFÉ ÌbÓ Î·d àÏ·˙fiÓÈ, ηd Û˘Û¯ËÌ·ÙÈ˙Ô̤ÓFË <¿ÛFË> ÙFÉ âÍÔ˘Û›÷· ÙFÉ ‚·ÛÈÏÈÎFÉ, ÊÔÚÙÈÎFÉ ‰b ¬Ìˆ˜ âÌÔ›18.

E, soprattutto, da un breve estratto di un trattato di orato-

ria epidittica scritto da Menandro Retore negli ultimi decenni dello stesso secolo, con cui si consigliava di espungere dalla ce-lebrazione delle città l’elogio dei ÓfiÌÔÈ delle singole fiÏÂȘ, ormai divenuto non più attuale:

de div. gen. dem. 3.363.10. àÏÏa Ùe ÙáÓ ÓfiÌˆÓ âÓ ÙÔÖ˜ ÓÜÓ ¯ÚfiÓÔȘ ô¯ÚËÛÙÔÓØ Î·Ùa ÁaÚ ÙÔܘ ÎÔÈÓÔf˜ ÙáÓ ^PˆÌ·›ˆÓ ÓfiÌÔ˘˜ ÔÏÈÙ¢fiÌ©·, ö©ÂÛÈ ‰’ ôÏÏË fiÏȘ ôÏÏÔȘ ¯ÚÉÙ·È, âÍ zÓ ÚÔÛÉÎÂÓ âÁΈÌÈ¿˙ÂÈÓ 19.

Non è ovviamente possibile, in questa sede, entrare nel

merito dell’interpretazione che vedrebbe in essi (ed in specie nel brano di Menandro) un tassello a sostegno della tesi del- la non sopravvivenza degli ordinamenti locali successivamente al 212 d.C., sostenuta, come detto, da Mitteis e da Arangio-Ruiz20; è un altro l’aspetto che qui si vuole mettere a fuoco.

18#Il brano è qui riprodotto tenendo conto dell’edizione di H. CROUZEL, Gré-

goire le Thaumaturge. Remerciement à Origène suivi de La lettre d’Origène à Gré-goire. Texte grec, introduction, traduction et notes (Paris 1969) 96 ss., pubblicata nella Collana della Sources Chrétiennes al n. 148.

19#Il testo è tratto dall’edizione di D.A. RUSSELL, N.G. WILSON, Menander

rhetor. A commentary (Oxford 1981) 66. 20

#Cfr. le conclusioni cui infine perviene M. TALAMANCA, Su alcuni passi di Menandro di Laodicea cit. 551 ss., spec. 559. Di avviso diverso, invece, V. MAROT-TA, La cittadinanza romana cit. 153 s., che, a proposito di Menandro, condivide la

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Questi testi, infatti, sembrano offrire qualche spunto an-che relativamente al problema della lingua in campo giuridico successivamente al provvedimento assunto da Antonino Ca-racalla. Se nel consiglio di Menandro è implicita l’esortazione ai cultori dell’ars oratoria di prendere ormai la dovuta fami-liarità con i ÎÔÈÓ[Ôd] ÙáÓ ^PˆÌ·›ˆÓ ÓfiÌ[ÔÈ], è proprio con lo stu-dio di queste leggi che si cimenta l’autore dell’Encomio ad Origene, le quali, pur se ëÏÏËÓÈÎÒÙ·ÙÔÈ (conformi cioè allo spi-rito greco), sono redatte e trasmesse in latino (âÎÊÚ·Û©¤ÓÙ˜ ‰b ηd ·Ú·‰Ô©¤ÓÙ˜ ÙFÉ ^PˆÌ·›ˆÓ ʈÓÉ). Testimonianze partico-larmente preziose, perché provenienti proprio da due espo-nenti di quella ÎÔÈÓ‹ orientale, grecoloquente, chiamata ades-so, ancor più che in passato21, ad apprendere il latino per la conoscenza delle leggi romane, divenute (almeno sul pia- no della forma) patrimonio comune di tutti gli abitanti del- l’Impero.

Ebbene, al di là della magna quaestio del rapporto tra di-ritto romano e diritti locali all’indomani dell’Edictum Cara-callae, per la soluzione della quale questi passi sono stati mes-si (reciprocamente ed in conformità alla visuale prescelta) a contributo, ciò che preme ai nostri fini evidenziare è che essi sembrano muovere dall’idea di una stretta correlazione tra ci- diversa interpretazione di J.M. MODREZEJEWSKI, Ménandre de Laodicée et l’Édit de Caracalla, in ID., Droit impérial et traditions locales dans l’Egypte romain (Alder-shot 1990) 335 ss.

21#Già in precedenza, infatti, non era infrequente che gli appartenenti all’aristo-

crazia provinciale mandassero i propri figli a studiare il diritto nella capitale: si con-sideri come emblematico, in questo senso, un episodio che si legge nella Vita di Apollonio di Tiana [7.42: òOÓÙ· Á¿Ú Ì \AÚο‰· âÎ MÂÛÛ‹Ó˘ Ôé Ùa ^EÏÏ‹ÓˆÓ â·›- ‰Â˘ÛÂÓ, àÏÏ’âÓÙ·Ü©· öÛÙÂÈÏ ̷©ÂÛfiÌÂÓÔÓ õ©Ë ÓÔÌÈο; ediz. C.L. KAYSER, Flavii Philostrati Opera I (Lipsiae 1870) 295], nel quale Filostrato narra dell’incontro di Apollonio con un ragazzo Arcade, che si lamenta del fatto che il proprio padre lo abbia costretto a studiare diritto a Roma, anziché fornirgli un’educazione tradizio-nale nel modo dei greci; sul passo, cfr. le osservazioni di V. MAROTTA, La letteratu-ra giurisprudenziale tra III e IV secolo: il problema della recitatio processuale (te- sto di una lezione tenuta a Napoli presso l’Associazione di Studi Tardoantichi il 20 maggio 2008, disponibile on line all’indirizzo: http://www.studitardoantichi.org/ einfo2/file/Lezione%20Marotta.pdf) 11 nt. 54; cfr. anche ID., La cittadinanza ro-mana cit. 142 e nt. 235.

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vitas romana e norme soggettivamente applicabili22 e, dal pun-to di vista della lingua – che è22poi il profilo che, in questa sede,

22#Porgendo un rapido sguardo alla situazione vigente in età imperiale prima

della Constitutio Antoniniana, può dirsi piuttosto frequente, nella dottrina che si è occupata del problema, il ricorso allo schema della doppia cittadinanza: l’acquisto della civitas, senza far venir meno la condizione di ÔÏ›Ù˘ della propria comunità d’origine, attribuiva al beneficiato nuovi privilegi e la facoltà di avvalersi delle strut-ture giuridiche proprie dei cittadini romani [un prospetto generale, per quanto sin-tetico, sul contenuto del diritto di cittadinanza si può leggere in U. COLI, s.v. «Ci-vitas», in NNDI. III (Torino 1959) 341 ss., e G. CRIFÒ, s.v. «Cittadinanza (diritto romano)», in ED. VII (Milano 1960) 130]. Già dall’ultima età repubblicana (ma for-se ancor prima, a partire dal IV secolo a.C.) erano state infatti gettate le basi per il superamento del principio di territorialità del diritto, che a lungo aveva caratteriz-zato l’ordinamento della Città-Stato romana [cfr., per approfondimenti e per un confronto con il mondo delle fiÏÂȘ greche, M. TALAMANCA, I mutamenti della cittadinanza, in MEFRA. 103 (1991) 703 ss., part. 709 ss.], anche se tale svolgimento era andato delineandosi, ancora in questa fase, lungo direttive non sempre univoche [sia sufficiente raffrontare, a questo fine, le contrastanti enunciazioni che si ritrova-no in Cicerone, nella Pro Balbo (27-30) per un verso – in cui la cittadinanza romana veniva considerata incompatibile con qualsiasi altra cittadinanza: Duarum civitatum civis noster esse iure civili nemo potest: non esse huius civitatis qui se alii civitati dica-rit potest (§ 28) – e nel De legibus (2.5) per un altro – dove si distinguono due patrie, quella naturale e quella giuridica: Ego mehercule et illi et omnibus municipibus duas esse censeo patrias, unam naturae, alteram civitatis: ut ille Cato, quom esset Tusculi natus, in populi Romani civitatem susceptus est, ita<que> quom ortu Tusculanus es-set, civitate Romanus, habuit alteram loci patriam, alteram iuris; su questi passi, cfr., per tutti, L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Cittadini e territorio: consolidamento e tra-sformazione della civitas romana (Roma 2000) 178 ss., che – sulla scia di F. De Vis-scher – interpreta l’inciso della Pro Balbo nel senso che il divieto della doppia citta-dinanza «si doveva applicare essenzialmente ‘ai cittadini romani d’origine’», posto che per i nuovi cittadini di origine straniera esso trovava applicazione solo allorché essi si fossero trasferiti a Roma rinunciando al loro statuto locale]. Venendo al pe-riodo imperiale, l’affermazione del modello della doppia cittadinanza costituisce – per ribadire le parole di V. MAROTTA, La cittadinanza romana cit. 93 – «un dato empirico solitamente accettato dagli studiosi», che trova riscontri significativi nelle fonti. Per considerare, sia pure soltanto per indicem, alcuni documenti tra i più noti e discussi, basterà qui ricordare l’iscrizione di Rhosos [o Epistulae Octaviani Caesaris de Seleuco navarcha – il cui testo si può leggere in FIRA.2 I n. 55 –, nelle quali Otta-viano, nel concedere la cittadinanza (insieme a privilegi fiscali, alla dispensa dal ser-vizio militare e da ogni pubblico ufficio) al navarca Seleuco (ed ai suoi familiari) co-me ricompensa per i servigi resi nella guerra civile, lasciava comunque che egli fosse soggetto alle norme locali, attribuendogli tuttavia il diritto di scegliere, nell’ambito di una lite giudiziaria, di dare applicazione al diritto romano o agli ú‰ÈÔÈ ÓfiÌÔÈ; in ar-gomento, cfr. F. DE VISSCHER, Le statut juridique des noveaux citoyens romains et

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ci interessa prendere in esame –, tra processo di romanizzazio-ne delle province (in specie di quelle orientali) e generalizza-zione del sermo Latinus23. In verità, c’era già stato in passato l’inscription de Rhosos, in L’antiquité classique 14 (1945) 11 ss. e (1946) 29 ss. = Nouvelles études cit. 51 ss., da cui cito; al quale adde, da ultimo, A. RAGGI, Seleuco di Rhosos. Cittadinanza e privilegi nell’Oriente greco in età tardo-repubblicana (Pisa 2006)] e la Tabula Banasitana [in AE. (1971) 534], che riproduce un’analoga conces-sione disposta da Marco Aurelio in favore dei membri della gens Zegrensium per la fedeltà da loro dimostrata, con la clausola salvo iure gentis; su questa clausola e sui problemi sollevati da questo documento la letteratura è rapidamente divenuta cospi-cua, anche per i possibili risvolti sull’interpretazione della cd. ‘clausola di salvaguar-dia’ contenuta nell’Editto di Caracalla nel testo ricavabile da P. Giss. 40: cfr., ex mul-tis, W. SESTON, M. EUZENNAT, La citoyenneté romaine au temps de Marc Aurèle et de Commode d’après la Tabula Banasitana, in CRAI. (1961) 317 ss.; ID., Un dossier de la chancellerie romaine: la Tabula Banasitana. Étude de diplomatique, in CRAI. (1971) 468 ss.; A.N. SHERWIN WHITE, The Tabula of Banasa and the Constitutio Antoniniana, in JRS. 63 (1973) 86 ss.; E. VOLTERRA, La ‘Tabula Banasitana’. A pro-posito di una recente pubblicazione, in BIDR. 77 (1974) 407 ss. [= Scritti giuridici III (Napoli 1991), da cui cito, 309 ss. e 338 ss. in particolare per la clausola salvo iure gentis]; A. TORRENT, La Constitutio Antoniniana cit. 65 ss. Orbene, questa ‘perso-nalità’ del diritto romano (traggo l’espressione parafrasando O. BUCCI, Le provincie orientali cit. 142, che così scriveva: «... il diritto romano è, fino alla Constitutio An-toniniana, un ‘diritto personale’ che si accompagna agli altri diritti dell’Impero») non deve, per converso, essere condotta a troppo rigide conseguenze: già dal tenore di queste concessioni si vede che il possesso dello status civitatis non comportasse ex se l’applicazione delle norme romane; e ciò anche facendo astrazione da un’opzio- ne individuale in tal senso, come è ben attestato da un altro importante documento epigrafico noto con il nome di epistula di Marco Aurelio agli Ateniesi [pubblicata da J.H. OLIVER, Marcus Aurelius. Aspects of civic and cultural policy in the East (Princeton 1970) 1 ss.]. Si tratta di una serie di decisioni assunte da Marco Aurelio, suscitate da appellationes rivolte all’Imperatore da parte di cittadini ateniesi, in rela-zione all’elezione a talune cariche pubbliche; sulla controversia già si erano pronun-ciati i tribunali locali in prima istanza, nonostante alcuni dei convenuti (come è pos-sibile ricavare dai loro nomi) godessero altresì della cittadinanza romana; né ciò im-pedì a Marco Aurelio di dare soluzione alla controversia non mercè le norme roma-ne ma dando applicazione a quelle di diritto attico. Sul contenuto dell’epigrafe, sulle vicende che hanno portato al processo in questione e sui problemi da esso suscitati in ordine al cd. procedimento per relationem, cfr., praecipue, S. GIGLIO, L’epistola di Marco Aurelio agli Ateniesi, in AARC. IV (Perugia 1981) 549 ss., ove altra bibliogra-fia; riserve sull’utilità della fonte de qua per la conoscenza del procedimento per re-lationem invece in F. ARCARIA, Referre ad Principem. Contributo allo studio delle epistulae imperiali in età classica (Milano 2000) 165 nt. 20.

23#Anche questa seconda connessione, peraltro, non deve apparire, se si guarda,

ancora una volta, alla realtà antecedente l’Edictum de civitate danda, così scontata;

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qualche episodio emblematico, raccolto dagli storici, nel quale questo legame era stato inteso in modo a tal•punto stringente

• ne è dimostrazione tra le più cospicue, per quanto a me sembra, in particolare la sfera degli atti giudiziali. Mi limito qui a richiamare alcuni resti papirologici, che tanto hanno dato da discutere alla dottrina per la soluzione di interrogativi di non poco momento in relazione a profili rilevantissimi del processo provinciale [cfr., per tutti, A. BISCARDI, Nuove testimonianze di un papiro arabo-giudaico per la storia del processo provinciale romano, in Studi in onore di G. Scherillo I (Milano 1972) 111 ss., e K. HACKL, Der Zivilprozeß des frühen Prinzipats in den Provinzen, in ZSS. 114 (1997) 156 e nt. 76, con rinvio ad altra letteratura da essi segnalata], ma che hanno qualcosa da offrire anche al problema che qui ci occupa. Una serie di fortu-nati ritrovamenti, venuti alla luce agli inizi degli anni ’60 nei territori di quella che un tempo era la provincia romana di Arabia Petrea, ha consentito di leggere le char-tae costituenti l’archivio personale di una donna di nome Babatha, la quale, per sfuggire ai disordini conseguenti all’insurrezione ebraica scoppiata nel 132 d.C. [no-ta come rivolta di Bar Kokhba; per notizie e relative cause, cfr., exempli causa, A.M. RABELLO, Giustiniano, ebrei e samaritani alla luce delle fonti storico-letterarie, ec-clesiastiche e giuridiche I (Milano 1987) 19 ss., con fonti e bibliografia], abbandonò il villaggio di residenza per cercare rifugio in una grotta presso il Mar Morto (dove, presumibilmente, trovò infine la morte), portando con sé gli atti giuridici per lei più importanti [ripubblicati, più recentemente, da N. LEWIS (cur.), The documents from the Bar Kokhba Period in the Cave of Letters. Greek Papyri (= P. Yadin) (Jerusalem 1989)]. Tra questi documenti, che hanno prevalentemente carattere negoziale [com-pravendite, mutui, donazioni, contratti matrimoniali: per un quadro generale faccio rinvio alle sintetiche indicazioni di L. MIGLIARDI ZINGALE, Storie di donne nel II secolo d.C.: il deserto di Giudea restituisce le ‘chartae’ di famiglia, in Atti Acc. Lig. Sc. Lett. (Genova 2003) 441 ss., che ho avuto modo di consultare soltanto nel testo che si trova pubblicato on line al seguente indirizzo: http://www. archaeogate.org/ vicinooriente/article/20/1/storie-di-donne-nel-ii-secolo-dc-il-deserto-di-giudea-html], spicca un vero e proprio dossier processuale, avente ad oggetto una controversia che vedeva come protagonisti degli ebrei (lo si arguisce dai relativi nomi giudaici), e cioè la donna stessa in opposizione ai tutori del figlio (orfano del padre), accusati di aver mal gerito il patrimonio pupillare [l’intera vicenda è dettagliatamente ricostruita da H.M. COTTON, The guardianship of Jesus son of Babatha: Roman and local law in the province of Arabia, in JRS. 83 (1993) 94 ss.]; dagli atti rinvenuti sappiamo che il processo era stato intentato a Petra davanti al governatore provinciale: si rammenti, infatti, che sia i peregrini alicuius civitatis – ove godessero della doppia cittadinanza –, sia i peregrini nullius civitatis – i quali non potevano contare invece su alcuna au-torità giurisdizionale propria – adivano il tribunale del governatore provinciale, do-ve avrebbero comunque avuto applicazione i Ùɘ ¯ÒÚ·˜ ÓfiÌÔÈ [cfr., per la deroga che sembra apportare su questo punto proprio l’archivio di Babatha, i rilievi di M. TALAMANCA, «Ius gentium» da Adriano ai Severi, in La codificazione del diritto dall’antico al moderno. Incontri di studio. Napoli gennaio-novembre 1996 (Napoli 1998) 214 nt. 74; per la distinzione tra le due categorie di peregrini, cfr., per tutti,

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da comportare la sanzione della perdita della cittadinanza per quanti non intendessero affatto la lingua•dei Latini: a proposi-

• ID., in Lineamenti di storia del diritto romano2 (Milano 1989) 515 ss.]. Ebbene, i relativi documenti processuali [v. P. Babatha 12-15 e 27 = P. Yadin 1.12-15; ai quali devono essere aggiunti P. Babatha 28-30 = P. Yadin 1.28-30, che recano un modulo in bianco in triplice stesura, che doveva servire da allegato ai primi, nel quale veniva riprodotta in lingua greca il testo della formula edittale dell’actio tutelae, unica fon-te pervenutaci che ne tramandi integralmente il tenore: cfr. D. MANTOVANI, Le formule del processo privato romano. Per la didattica delle Istituzioni di diritto ro-mano2 (Padova 1999) 56 s. e nt. 161 e 162] sono stati redatti – così venendo al punto che qui ci preme evidenziare – in greco ma con sottoscrizioni in aramaico e nabateo [cfr. L. MIGLIARDI ZINGALE, Diritto romano e diritti locali nei documenti del Vici-no Oriente, in SDHI. 65 (1999) 220 ss.; per un quadro generale della lingua prescel-ta nei documenti contrattuali ritrovati in Palestina, cfr. E. VOLTERRA, Nuovi docu-menti per la conoscenza del diritto vigente nelle provincie romane (a proposito di una recente pubblicazione), in Iura 14 (1963) 29 ss., spec. 34 = Scritti giuridici VII (Napoli 1999) 577 ss., spec. 582]. Non è possibile non cogliere, nella scelta della lin-gua greca, l’esito di un compromesso, evidentemente non osteggiato dalle stesse au-torità romane, dal momento che né sarebbe stato possibile (ove anche avessero vo-luto) per esse accedere agevolmente alle lingue indigene, né opportuno imporre l’uso del latino, che avrebbe ingenerato complicazioni pratiche non indifferenti non tanto genericamente nella popolazione locale, quanto in particolare presso gli scribi di professione (per la diffusione nelle province di repertori di formule processuali predisposti da tabelliones bilingui, cfr. ancora A. BISCARDI, Nuove testimonianze di un papiro arabo-giudaico cit. 140 ss.), maggiormente a loro agio con la lingua greca [sintetizza efficacemente quest’aspetto, F. MONTANARI, La letteratura greca in età imperiale, in Storia di Roma II. L’impero mediterraneo 3. La cultura e l’impero, dir. A. SCHIAVONE (Torino 1989) 581 s.: «... la prevalenza del greco come lingua di co-municazione internazionale era data anche dal fatto che la classe dirigente romana normalmente conosceva il greco, mentre erano assai pochi i grecofoni in grado di usare bene il latino»; nello stesso senso, cfr. anche G.W. BOWERSOCK, La Grecia e le province orientali, in Storia di Roma II.2 cit. 409]. Questa non è l’unica testimo-nianza che va nella direzione ora segnalata, potendosi addurre altri esempi dello stesso tenore [v. P. Babatha 23-26 e 34 = P. Yadin 1.23-26 e 34, attinenti ad un’altra controversia della stessa Babatha su questioni ereditarie, trattata anch’essa dinanzi al tribunale del governatore provinciale; ed, inoltre, anche se un poco successivo ri-spetto al periodo che abbiamo preso qui in considerazione, il cd. dossier del Medio Eufrate – contenente petizioni rivolte al governatore provinciale o in generale alle autorità romane nella prima metà del III secolo d.C., scritte prevalentemente in gre-co pur non essendo questa la lingua parlata dai sottoscriventi – proprio da ultimo analizzato nel dettaglio, ed in specie in relazione al processo provinciale nel Princi-pato, da G.D. MEROLA, Per la storia del processo provinciale romano. I papiri del Medio Eufrate (Napoli 2012) passim] e, non meno importante, la riscontrata pre-senza nei documenti negoziali dei provinciali, ancor prima della costituzione Anto-

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to di Claudio, Svetonio (5.16) racconta, ad esempio, che splen-didum virum Graeciaeque•provinciae principem, verum Latini

• niniana, della cd. ‘clausola stipulatoria’ (ηd âÂÚˆÙË©Âd˜ óÌÔÏfiÁËÛ·), alla quale si faceva ricorso proprio per attrarre l’atto negli schemi di tutela romani [sul punto, cfr. D. SIMON, Studien zur Praxis der Stipulationklausel (München 1964)]; per la sua diffusione in Egitto solo dopo la concessione di Caracalla, cfr. V. ARANGIO-RUIZ, L’application du droit romain en Egypte cit. 287 ss.; A. SEGRÈ, La Costituzione An-toniniana e il diritto cit. 11 ss.; O. MONTEVECCHI, Note sull’applicazione della Con-stitutio Antoniniana in Egitto, in Quaderni Catanesi 10 (1988) 17 ss. [= Scripta Se- lecta (Milano 1998) 367, da cui in prosieguo cito; contra, propenso a negare la deri-vazione di tale clausola dalla stipulatio romana, F. DE VISSCHER, La pseudo-stipu- lation âÂÚˆÙË©Âd˜ óÌÔÏfiÁËÛ·, in Symbolae R. Taubenschlag II (1957) 161 ss. = Études de droit romain public et privé. Troisieme serie (Milano 1966) 309 ss.]. Si ha in tal modo una conferma non soltanto della sostanziale veridicità di quegli spunti pre-senti in alcune fonti non giuridiche (v. Plut. Praec. ger. rei publ. 814 f s. e gli altri ri-ferimenti testuali indicati da T. SPAGNUOLO VIGORITA, Cittadini e sudditi cit. 26; ID., Città e Impero cit. 117) che ritraggono (e stigmatizzano, come appunto nel caso di Plutarco) in modo piuttosto frequente il ricorso dei provinciali ai tribunali romani anziché a quelli propri, quanto specialmente della circostanza che il processo di ro-manizzazione delle province orientali non passasse necessariamente attraverso l’im- posizione della lingua latina negli atti giuridici. Una testimonianza sulla vita di Apollonio di Tiana, raccolta da Filostrato (5.36) risulta, a questo proposito, alquanto indicativa, portandoci ancor più indietro nel tempo: secondo il suo biografo, il filo-sofo avrebbe infatti messo in guardia l’imperatore Vespasiano [nell’aneddotico in-contro avvenuto nel Serapeo di Alessandria nel 69 d.C.: Phil. Vita Apoll. 5.27; sulla questione della sua storicità, cfr. F. GROSSO, La ‘Vita di Apollonio di Tiana’ come fonte storica, in Ann. Fac. Fil. e Lett. Univ. Stat. di Milano 7 (1954) 333 ss, spec. 395 e 525] dagli inconvenienti derivanti dalla prassi di inviare nelle province grecofone go-vernatori che non intendessero la lingua di coloro che andavano ad amministrare: T› ÏÔÈeÓ àÏÏ’õ ÂÚd ÙáÓ ìÁÂÌfiÓˆÓ ÂåÂÖÓ, ÔQ ☠Ùa ö©ÓË ÊÔÈÙáÛÈÓ, Ôé ÂÚd zÓ ·éÙe˜ âΤ̄ÂȘ, àÚÈÛÙ›Ó‰ËÓ Á¿Ú Ô˘ Ùa˜ àÚ¯a˜ ‰ÒÛÂȘ, àÏÏa ÂÚd ÙáÓ ÎÏËÚˆÛÔÌ¤ÓˆÓ Ùe ôÚ¯ÂÈÓØ ÙÔ‡ÙˆÓ ÁaÚ ÙÔf˜ ÌbÓ ÚÔÛÊfiÚÔ˘˜ ÙÔÖ˜ ö©ÓÂÛÈÓ, L ‰È¤Ï·¯ÔÓ, ÊËÌd ‰ÂÖÓ ¤ÌÂÈÓ, ó˜ ï ÎÏÉÚÔ˜, ëÏÏËÓ›˙ÔÓÙ·˜ ÌbÓ ^EÏÏËÓÈÎáÓ ôÚ¯ÂÈÓ, ®ˆÌ·˝˙ÔÓÙ·˜ ‰b ïÌÔÁÏÒÙÙˆÓ Î·d ͢ÌÊÒÓˆÓ. ≠O©ÂÓ ‰b ÙÔÜÙ’ âÓ©˘Ì‹©ËÓ, Ϥ͈: ηÙa ÙÔf˜ ¯ÚfiÓÔ˘˜, ÔR˜ âÓ ¶ÂÏÔ- ÔÓÓ‹Ûˆ ‰ÈFËÙÒÌËÓ, ìÁÂÖÙÔ Ùɘ ^EÏÏ¿‰Ô˜ ôÓ©ÚˆÔ˜ ÔéÎ Âå‰g˜ Ùa ^EÏÏ‹ÓˆÓ, ηd Ô鉒Ôî ≠EÏÏËÓ¤˜ ÙÈ âΛÓÔ˘ ͢ӛÂÛ·ÓØ öÛÊËÏÂÓ ÔyÓ Î·d âÛÊ¿ÏË Ùa ÏÂÖÛÙ·, Ôî ÁaÚ Í‡Ó‰ÚÔ› Ù ηd ÎÔÈÓˆÓÔd Ùɘ âÓ ÙÔÖ˜ ‰ÈηÛÙËÚ›ÔȘ ÁÓÒÌ˘ âη‹Ï¢ÔÓ Ùa˜ ‰›Î·˜ ‰È·Ï·‚fiÓÙ˜ ÙeÓ ìÁÂÌfiÓ·, œÛÂÚ àÓ‰Ú¿Ô‰ÔÓ [C.L. KAYSER, Flavii Philostrati Opera I cit. 197 s.]. In questa prospettiva, sembrano invero cogliere nel segno e suscettibili anzi di ben rap-presentare tale aspetto anche al di là della vicenda processuale documentata dal- l’archivio di Babatha (con riferimento alla quale erano state pensate) le considera-zioni che si possono leggere in H.J. WOLFF, Le droit provincial dans la province ro-maine d’Arabie, in RIDA. 23 (1976) 278 [cfr. anche, con ulteriori ampliamenti, ID., Römisches Provinzialrecht in der Provinz Arabia (Rechtspolitik als Instrument der

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sermonis ignarum, non modo albo iudicum erasit, sed in pere-grinitatem redegit24; e si tratta – è bene avvertirlo – di un’indi- cazione non di poco conto, se è vero che altrove lo stesso Im-peratore è descritto piuttosto di ‘manica larga’ nell’attribuzio- ne della cittadinanza romana, al punto da suscitare apertamen-te delle critiche25. Tuttavia, con la generalizzazione dello status Beherrschung), in ANRW. II.13 (Berlin-New York 1980) 763 ss.], secondo cui «que ces documents soient rédigés en grec, le fait nous apparaît ... comme la manifestation d’une politique délibérée du pouvoir romain en matière de justice. Dans l’intérêt d’un contrôle et d’une mise en ordre sans frottements des relations juridiques de la population pérégrine on impose à celle-ci ... et pour des actes juridiques qu’elle dési-rait voir reconnus comme valables par les autorités romaines, l’emploi d’une langue qui, familière à tout fonctionnaire romain, était en même temps mieux connue dans ces régions orientales que la latin»; sulla stessa scia anche T. SPAGNUOLO VIGORITA, Cittadini e sudditi cit. 37, che pensa ad una «scelta accetta ai governanti romani se non da essi imposta», e G.D. MEROLA, Per la storia del processo provinciale romano cit. 31, la quale si riferisce al greco che si riscontra nei papiri orientali come ad un «‘medium of trasmission’ nei rapporti tra la popolazione locale e i Romani». In ge-nerale, per una revisione della communis opinio tendenzialmente ostile ad ammettere l’uso di una lingua diversa dal latino nel campo dell’amministrazione della giustizia, cfr., funditus, C. RUSSO RUGGERI, C. 7.45.12 ed il problema della legittimità del- l’uso della lingua greca nell’amministrazione della giustizia in età imperiale, in que-sto stesso volume, che, dopo un attento esame delle fonti, ritiene (a p. 615) che «l’uso del greco negli atti processuali venisse sovente incoraggiato anche dalla volontà im-periale, e ciò già molto tempo prima di quando Arcadio ed Onorio autorizzarono ufficialmente i giudici a tam latina quam graeca lingua sententias proferre».

24#V. anche Dio Cass. 50.17.4; su questi passi, cfr. M.J. BRAVO BOSCH, Il bilin-

guismo in Roma (dal III sec. a.C. al II d.C.) attraverso le testimonianze delle fonti letterarie, in Iura 60 (2012) 192 e nt. 49, che evidenzia significativamente che «con il progressivo affermarsi del potere imperiale, i Romani perdono quello che in un cer-to senso era un complesso d’inferiorità, sicché in tutto il periodo dell’alto Impero abbiamo una prevalenza del latino».

25#Si consideri, in questa prospettiva, il discorso che Tacito fa pronunciare a

Claudio in Senato nel 48 d.C. [il cui testo è altresì parzialmente conservato nella cd. ‘Tabula Lugdunensis’, consultabile, tra gli altri loci, in FIRA.2 I n. 43, a proposito della quale indicazioni essenziali, con relativa bibliografia, si possono reperire in P. LEPORE, Introduzione allo studio dell’epigrafia giuridica latina (Milano 2010) 120 ss.], favorevole alla concessione ai maggiorenti della Gallia Comata della possibilità di accedere alle cariche magistratuali a Roma: v. Tac. Ann. 11.23.1-25.1 [sulla valen-za di questo discorso ad evidenziare una «presa di posizione sull’Impero ... di parte romana», cfr. P. DESIDERI, La romanizzazione cit. 593 s.]. Per alcune testimonianze sulle resistenze dell’aristocrazia senatoria romana e dell’élite culturale verso tale po-litica dell’Imperatore, v. Sen. Apocol. 3.3 e de ben. 6.19.2 ss.; Dio Cass. 60.17.5 ss.

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di cittadino voluta da Caracalla, quella relazione dovette evi-dentemente assumere una dimensione ed una problematicità del tutto nuove rispetto al passato26.

Beninteso, vale la pena di ricordare, anche se soltanto per incidens, un dato per lo più condiviso dalla dottrina moderna e cioè il carattere tendenzialmente non espansionistico della po-litica linguistica dell’Impero, la quale non venne mai27 ufficial- mente orientata nella direzione di rimpiazzare con l’idioma la-tino la poliedricità delle lingue parlate all’interno dei propri confini28; né, peraltro, si può non mettere in debita luce un

26#Con le parole di G. CRIFÒ, Ecumene e cittadinanza, in ºÈÏ›·. Scritti per G.

Franciosi I (Napoli 2007) 633, è appena il caso di ricordare che «quel provvedimento [i.e. la Constitutio Antoniniana] definisce la civitas Romana come segno effettivo di appartenenza all’impero ...; consente ... l’indifferenziata applicabilità di uno stesso diritto per tutti i cittadini e il consistente processo di adattamento della vita giuridica dei nuovi cittadini al diritto ufficiale ...». Un precedente nella storia romana può, pe-raltro, cogliersi, ancorché con tutte le necessarie cautele nascenti dalla diversità di presupposti, modalità ed ampiezza del fenomeno, nel processo di romanizzazione del territorio italico, iniziato, a partire almeno dalla Guerra Latina e conclusosi con l’estensione generalizzata della cittadinanza a tutti gli Italici successivamente alla grande rivolta della Guerra Sociale (90-88 a.C.); per le direttrici di tale espansione, cfr. G. CLEMENTE, Dal territorio della città all’egemonia in Italia, in Storia di Roma II. L’impero mediterraneo 1. La repubblica imperiale, dir. A. SCHIAVONE (Torino 1990) 19 ss.; per gli assetti giuridici che ne derivarono, cfr. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana2 II (Napoli 1973) 78 ss.; V. MAROTTA, La cittadinanza romana cit. 17 ss.; una «messa a punto» della problematica de qua, con indicazione di altra bibliografia, in G. LURASCHI, La questione della cittadinanza nell’ultimo secolo della Repubblica, in Res publica e Princeps. Vicende politiche, mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano. Atti del Convegno Internazionale di Diritto Romano. Copanello 25-27 maggio 1994, cur. F. MILAZZO (Napoli 1996) 35 ss.; per le vicende e le forme in particolare della conquista dell’Italia settentrionale, indispensabile lo studio condotto da G. LURASCHI, Foedus ius latii civitas. Aspetti costituzionali della romanizzazione in transpadana (Padova 1979); sul tema della romanizzazione della penisola italica, sintetiche ma preziose indicazioni in E. CAM-PANILE, L’assimilazione culturale del mondo italico, in Storia di Roma II.1 cit. 305 ss.

27#Si considerino, nondimeno, con l’effetto di attutire un po’ la perentorietà di

tale giudizio, anche i passi richiamati infra nella nota subito appresso. 28#Su entrambi questi aspetti, rinvio alle considerazioni di E. CAMPANILE, Le

lingue dell’Impero, in Storia di Roma. IV. Caratteri e morfologie, dir. A. SCHIAVO-NE (Torino 1989) 679 ss., spec. 686 ss.; cfr. pure, anche se in relazione alla sfera let-teraria, F. MONTANARI, La letteratura greca cit. 582, che evidenzia come le regioni orientali greche o grecizzate non avvertirono mai nel rapporto con Roma la necessi-

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aspetto che ha ormai ricevuto ampia conferma nei ritrovamenti documentali, vale a dire la diffusione del greco ben oltre il suo areale d’origine, quale lingua soprattutto (anche se non solo, come abbiamo visto29) del commercio internazionale30; ma un conto è la lingua della quotidianità, un altro – lo si intuisce – l’ineludibile tecnicismo del sermo iuridicus31. tà di assimilarne anche la cultura. Nello stesso senso, cfr. inoltre più di recente B. ROCHETTE, Le latin dans le monde grec. Recherches sur la diffusion de la langue et des lettres latines dans le provinces hellénophones de l’Empire romain (Bruxelles 1997) 69 ss., spec. 82 s. Ciò non toglie, peraltro, che dietro alcuni giudizi degli scrit-tori della Roma imperiale trasudasse talora, sul piano ideologico, un convinto com-piacimento per l’intervenuta romanizzazione della lingua nella penisola italiana; un segno indubbiamente emblematico di quest’atteggiamento può scorgersi nel noto passo di Plin. N.H. 3.39: Nec ignoro ingrati ac segnis animi existimari posse merito, si obiter atque in transcursu ad hunc modum dicatur terra omnium terrarum alum-na eadem et parens, numine deum electa quae caelum ipsum clarius faceret, sparsa congregaret imperia ritusque molliret et tot populorum discordes ferasque linguas sermonis commercio contraheret ad conloquia et humanitatem homini daret brevi-terque una cunctarum gentium in toto orbe patria fieret. Nello stesso ordine d’idee, deve intendersi la testimonianza di Valerio Massimo, anche se riferita all’esercizio del potere dei magistrati e dei promagistrati (2.2.2: Magistratus vero prisci quanto-pere suam populique Romani maiestatem retinentes se gesserint hinc cognosci potest, quod inter cetera obtinendae gravitatis indicia illud quoque magna cum perseveran-tia custodiebant, ne Graecis umquam nisi latine responsa darent. Quin etiam ipsos linguae volubilitate, qua plurimum valent, excussa per interpretem loqui cogebant non in urbe tantum nostra, sed etiam in Graecia et Asia, quo scilicet Latinae vocis honos per omnes gentes venerabilior diffunderetur), che C. MASI DORIA, Modelli giuridici cit. 75 s., considera un «interessante modello dell’imperialismo linguistico romano». Su entrambi questi passi, cfr., altresì, i rilievi di A.L. PROSDOCIMI, Le lin-gue dominanti e i linguaggi locali, in Lo spazio letterario di Roma antica II. La cir-colazione del testo, dir. G. CAVALLO, P. FEDELI, A. GIARDINA (Roma 1989) 57 ss.

29#V. retro nt. 23.

30#Significativamente R. YARON, The competitive coexistence of Latin and

Greek in the Roman Empire, in Collatio iuris romani. Études dédiées à H. Ankum II (Amsterdam 1995) 658, individua l’esistenza di «two competing languages, pri-marily divided geographically». Ancor più esplicitamente, cfr. P. VEYNE, L’impero greco romano. Le radici del mondo globale2 (trad. it. Milano 2007) 7, che non esita a definire l’impero romano come «un impero bilingue», dal momento che «la lingua vernacolare, o veicolare, in uso nella metà occidentale era il latino, mentre nell’area del Mediterraneo e nel Vicino Oriente si parlava greco».

31#Per la specificità del linguaggio giuridico, cfr. G. NOCERA, Il linguaggio del

diritto in Roma, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano 22-25 ottobre 1985 (Milano 1988) 527 ss. Che anche i Romani fossero coscienti delle peculiarità della lingua giuridica rispetto a quella comune, è mostrato da D. MANTOVANI, Lin-

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2. La lingua dei commerci: il caso emblematico della «stipu-latio». — Ecco perché viene spontaneo, a questo punto, chie-dersi se, volgendo lo sguardo dal ‘diritto oggettivo’ al ‘diritto soggettivo’32, ed in particolare alla forma verbale degli atti giu-ridici posti in essere dai privati, le lingue parlate nei territori dell’Impero diverse dal latino (e principalmente il greco nel contesto del Mediterraneo, vera e propria lingua veicolare, an-tesignana dell’inglese dei nostri tempi) si fossero trovate, ad un certo punto, a dover pagare un esoso tributo al processo di romanizzazione inevitabilmente indotto (o, rectius, soltanto accelerato) dalla costituzione di Caracalla, sfociando infine nell’adozione, con l’imposizione della forza o per lo più spon-taneamente, di «un’unica lingua ufficiale» in sostituzione della molteplicità delle varie lingue vernacolari33.

L’interrogativo sembra dimostrarsi più denso di conse-guenze con riguardo agli atti inter vivos34, dal momento che i gua e diritto. Prospettive di ricerca fra sociolinguistica e pragmatica, in Studi in ono-re di R. Martini II (Milano 2009) 676 [ed in Il linguaggio giuridico. Prospettive in-terdisciplinari, cur. G. GARZONE, F. SANTULLI (Milano 2008) 20], attraverso Cic. De leg. 2.18, nel quale l’Arpinate notava essere i legum verba paulo antiquiora, quam hic sermo est, questo allo scopo di conferire loro maggiore autorità.

32#Utilizzo queste categorie nel senso che tradizionalmente è loro attribuito

nella manualistica moderna [cfr., per tutti, l’ampia discussione in M. BRUTTI, Il di-ritto privato nell’antica Roma2 (Torino 2011) 65 ss.] – e cioè per contrapporre il si-stema delle norme di una data comunità visto nel suo complesso al potere ricono-sciuto ai privati di agire entro gli schemi di tutela previsti dall’ordinamento –, ben consapevole della loro estraneità, almeno a livello di teorizzazione, alle fonti roma-ne, nelle quali è comunque possibile riscontrare un uso di ius in senso soggettivo o oggettivo [come ricordava M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano (Milano 1990) 71].

33#Così sembrerebbe ritenere, ad esempio, A. DELL’ORO, Le costituzioni in

greco nei frammenti dei «Digesta», in Studi in onore di G. Scherillo II (Milano 1972) 756, al quale appartiene il virgolettato citato su nel testo.

34#La possibilità di far utilizzo di lingue diverse da quella latina negli atti giuri-

dici inter vivos a forma libera potrebbe essere induttivamente ricavata da quei passi giurisprudenziali che ammettono i muti o i sordi alla conclusione di negozi nei qua-li è sufficiente il raggiungimento dell’accordo per il loro perfezionamento (v. ad es., con riferimento ai sordi, D. 44.7.48, Paul. 16 ad Plaut.: In quibuscumque negotiis sermone opus non est sufficiente consensu, iis etiam surdus intervenire potest, quia potest intellegere et consentire, veluti in locationibus conductionibus, emptionibus et

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negozi testamentari, se si mette da parte l’istituto del fede-commesso35, potevano validamente concludersi (oltre che con l’adibizione delle formalità mancipatorie) unicamente median-te certa et sollemnia verba, non traducibili in lingue diverse da quella romana36. Tuttavia, la difficoltà per i novi cives grecofoni di testare secondo forme con le quali non potevano avere suffi-ciente dimestichezza venne – com’è noto – ben presto tempera-ta, a partire da una costituzione di Alessandro Severo che per-mise loro (è dubbio se limitatamente all’Egitto o dappertutto) l’utilizzo della lingua greca37; ciò, unito alla circostanza che, ceteris); per quest’impostazione e con l’indicazione di altri esempi rispetto a quello ora citato, cfr. A. WACKE, Gallisch, Punisch, Syrisch oder Griechisch statt Latein? Zur schrittweisen Gleichberechtigung der Geschäftssprachen im römischen Reich, in ZSS. 110 (1993) 20 s. [nello stesso senso, dello stesso A., cfr. anche El pluralismo lingüístico y su reglamentación jurídica en el Imperio Romano, in Seminarios Com-plutenses de Derecho Romano 11 (1999) 121 s.]; tuttavia, l’argomento va utilizzato con cautela, potendo dar luogo, in certi casi, a dei ‘falsi positivi’, posto che le due si-tuazioni raffrontate (vale a dire, l’uso di lingue straniere e l’ammissione dei muti o dei sordi alla conclusione di negozi giuridici non verbali) non sono pienamente so-vrapponibili in ogni situazione: si pensi, per fare un esempio, alla difficoltà pratica di accertare la corrispondenza, per verificare il raggiungimento del consenso o un in-tervenuto dissenso, di dichiarazioni negoziali complesse pronunciate dai contraenti in due lingue diverse, laddove, per converso, al muto, in grado di comprendere le al-trui affermazioni, sarebbe stato sufficiente approvarle con un semplice cenno del ca-po; circostanza, questa, che avrebbe potuto consigliare nella prassi negoziale e nelle valutazioni casistiche dei giuristi un differente trattamento delle due fattispecie.

35#Per un attento studio sull’uso del greco nelle disposizioni fedecommisarie,

condotto attraverso l’esame delle consultationes di Cervidio Scevola e del noto frammento ulpianeo conservato in D. 32.11 pr., cfr., da ultimo, A.S. SCARCELLA, Il bilinguismo nei fedecommessi e il ruolo di intermediario del giurista tra istituti giu-ridici romani e novi cives, come strumenti di integrazione sociale, in AUPA. 55 (2012) 617 ss., che riconosce nell’uso del greco da parte del disponente «uno stru-mento per rendere più facilmente e puntualmente comprensibile la propria volontà espressa attraverso il fedecommesso; quest’ultimo era stato infatti disposto in un codicillo confermato o in un testamento, atti che per tutto il periodo classico pote-vano validamente essere redatti solo in latino» (p. 629).

36#Allo stesso modo, per operare un parallelismo, di quanto accadeva ad esem-

pio nel caso della sponsio (v. Gai 3.93). Per i legati ciò viene affermato esplicitamen-te nelle fonti: v. Gai 2.281: Item legata Graece scripta non valent; fideicommissa ve-ro valent. Nello stesso senso, v. anche Tit. Ulp. 25.9.

37#Concordi sul punto: M. AMELOTTI, Il testamento romano attraverso la pras-

si documentale. Le forme classiche di testamento (Firenze 1966) 217 ss.; L. MIGLIAR-

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per le disposizioni di ultima volontà, doveva risultare del tutto spontaneo ricorrere di preferenza all’uso della madrelingua da parte del testatore38, rende plausibile supporre che nel campo degli atti mortis causa i ÁÚ¿ÌÌ·Ù· ^EÏÏËÓÈο non dovettero ri-sentire significative limitazioni39.

Al quesito che abbiamo poco sopra sollevato in relazione agli atti inter vivos cercheremo di dare una risposta mettendo a fuoco i dati desumibili da alcuni passi giurisprudenziali dell’età dei Severi, nei quali si trova direttamente affrontato il proble-ma dell’utilizzo di una lingua diversa dal latino, limitando le nostre considerazioni al negozio verbale della stipulatio, che non soltanto si presentava immediatamente funzionale al mon-do dei commerci latamente inteso, ma nel quale, soprattutto, do-vette essere avvertita sin da molto presto la necessità di coniuga-re il formalismo che ne caratterizzava in modo tipico la struttu-ra giuridica con l’esigenza pratica di avvalersi, per la conclu- DI ZINGALE, I testamenti romani nei papiri e nelle tavolette d’Egitto. Silloge di do-cumenti dal I al IV secolo d.C.3 (Torino 1997) 5 s., che evidenzia «un ovvio ritorno alla lingua greca», e B. ROCHETTE, La langue des testaments dans l’Égypte du IIIe s. ap. J.-C., in RIDA. 47 (2000) 449 ss., che rileva (a p. 452 s.), peraltro, già la scarsa incidenza della Constitutio Antoniniana nel modificare l’uso della lingua greca nell’Egitto romano. Per un’accurata ricostruzione del contenuto e della motivazio-ne della costituzione di Alessandro Severo, che trae spunto dalla concreta analisi dei documenti testamentari redatti dai neocittadini egiziani posteriormente ad essa, cfr. A.S. SCARCELLA, Libertà di forma nei negozi mortis causa: fondamento per il rico-noscimento normativo dell’uso del greco, in questo stesso volume, p. 570 ss., con in-dicazione di altra dottrina cui faccio rinvio.

38#Per quest’osservazione, intuitiva e per ciò stesso realistica, cfr. M. TALA-

MANCA, I clienti di Q. Cervidio Scevola, in BIDR. 103-104 (2000-2001) 558. 39

#Ciò sarebbe provato quanto meno per l’Egitto, dove gli studi delle fonti pa-pirologiche non hanno rivelato alcuna sensibile restrizione: cfr., in questa direzione, G. NENCIONI, La lingua latina nell’antico Egitto, in AA.VV., Egitto moderno e an-tico (Varese-Milano 1941) 319 s., per il quale «la concessione di Caracalla non ha portato ... un più ampio ed energico affermarsi del latino in Egitto; piuttosto il con-trario, un grave imbarazzo ... nell’uso linguistico, che si risolse in un’estensione del greco ad atti da cui prima era di regola escluso» (p. 320); parzialmente difforme la conclusione a cui giunge O. MONTEVECCHI, Note sull’applicazione cit. 367, secon-do la quale, in ogni caso, «l’applicazione del diritto romano e l’obbligo del bilingui-smo, o addirittura della lingua latina, furono limitati ai testamenti e ai pochi altri at-ti connessi con la successione e con la tutela».

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sione di affari tra individui appartenenti a contesti geografici differenti, anche delle lingue straniere. Vengono così partico-larmente in rilievo alcuni brani appartenenti al corpus ulpianeo, aventi in comune tutti la stessa origine: il commentario ai libri tres iuris civilis di Sabino40. La circostanza non può, a ben vede-re, che confortare, non soltanto ove si consideri la provenienza siriana del giurista (originario di Tiro41) e la collocazione della sua produzione proprio negli anni immediatamente successivi all’Editto di Caracalla42, ma anche la possibilità di cogliere in quest’opera, in modo probabilmente più spontaneo che altro-ve43, tracce di una stratificazione della riflessione giuridica che

40#Per una ricostruzione del contenuto e della struttura dei libri tres iuris civi-

lis di Sabino, sulla base dei commentari di Pomponio, Paolo ed Ulpiano, cfr., am-plius, R. ASTOLFI, I Libri tres iuris civilis di Sabino2 (Padova 2001) 9 ss.

41#Lo rivela, senza mascherare un fiero orgoglio, Ulpiano stesso in uno scorcio

dell’opera De censibus, conservato in D. 50.15.1 pr. (1 de cens.): Sciendum est esse quasdam colonias iuris Italici, ut est in Syria Phoenice splendidissima Tyriorum co-lonia, unde mihi origo est, nobilis regionibus, serie saeculorum antiquissima, armipo-tens, foederis quod cum Romanis percussit tenacissima ... Sul frammento, cfr., in par-ticolare, G. CRIFÒ, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in ANRW. II.15 (Berlin-New York 1976) 714 s., che evidenzia, peraltro, come nell’espressione unde mihi origo est, qui utilizzata da Ulpiano, non debba necessariamente scorgersi un riferimento alla città natia del giurista, intendendo forse egli semplicemente allu-dere, in un senso più ampio, alla comunità alla quale giuridicamente sentiva di ap-partenere.

42#Il dato è generalmente condiviso; cfr., tra gli altri, T. HONORÉ, Ulpian. Pio-

neer of Human Rights2 (Oxford 2002) 9 ss.; M. BRUTTI, I giuristi del II e del III se-colo d.C., in Lineamenti di storia2 cit. 451; in particolare, secondo la ricostruzione cronologica ipotizzata, sulla base degli spunti presenti nelle sue opere, dallo stesso A.M. HONORÉ, The Severan lawyers. A preliminary survey, in SDHI. 28 (1962) 208 ss., il commentario ad Sabinum sarebbe stato scritto da Ulpiano sotto Caracalla sino al libro trentatreesimo e per la restante parte sotto Macrino o Eliogabalo.

43#Secondo F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana (trad. it. Firenze

1968) 379 s., Ulpiano infatti, intendendo dar vita ad un vero e proprio restatement dell’interpretazione dello ius civile, «riportava la più antica letteratura così esaurien-temente che questo commento era più che sufficiente per gli scopi del pratico e di-spensava da ogni bisogno di risalire ai libri più antichi» (p. 380). In generale, sulle ca-ratteristiche della scrittura di Ulpiano, sovente infarcita di citazioni della giurispru-denza precedente, al punto da essere stata lungamente sottodimensionata in dottri-na l’originalità del suo pensiero, cfr. A. SCHIAVONE, Linee di storia del pensiero giuridico romano (Torino 1994) 221 ss., che, sia pure da un angolo visuale ristretto quale la sistematica dei contratti come ricostruibile dal quarto libro del commenta-

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permettano di isolare adeguatamente la novità del contributo offerto proprio dal giurista severiano su questo tema.

3. D. 45.1.1.6 di Ulpiano ed il problema delle stipulazioni linguisticamente miste. — Il testo più importante a questo fine va estrapolato dal quarantottesimo libro del commentario di Ulpiano ad Sabinum ed è in verità un testo molto conosciuto, avendo ricevuto ripetuta considerazione da parte della dottri-na, anche a causa del sospetto che abbia subito ritocchi non formali da parte dei commissari di Giustiniano44; attiene alla conceptio verborum della stipulatio e precisamente alla ammis-sibilità di lingue straniere rispetto a quella latina ed in generale alla possibilità che l’interrogatio e la responsio venissero pro-nunciate in due lingue tra loro differenti.

D. 45.1.1.6 (Ulp. 48 ad Sab). Eadem an alia lingua respon-deatur, nihil interest. Proinde si quis Latine interrogaverit, respondeatur ei Graece, dummodo congruenter responde-atur, obligatio constituta est: idem per contrarium. Sed utrum hoc usque ad Graecum sermonem tantum protra-himus an vero et ad alium, Poenum forte vel Assyrium vel cuius alterius linguae, dubitari potest. Et scriptura Sabini, sed et verum patitur, ut omnis sermo contineat verborum obligationem, ita tamen, ut uterque alterius linguam intel-legat sive per se sive per verum interpretem45.

rio ad edictum, giunge a mettere in evidenza l’importanza dell’apporto del giurista severiano in un momento storico caratterizzato, per la prima volta nella società im-periale romana, da uno spostamento di baricentro dal sapere specialistico di un ceto dirigenziale al sapere funzionale ad un vero e proprio legislatore statale. Su questa ‘riscoperta’ del valore di Ulpiano da parte della più recente dottrina, cfr. L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici cit. 87.

44#Cfr., per un rapido quadro (che tiene conto, d’altronde, solo della letteratu-

ra prodotta fino ai primi decenni del secolo scorso), Index interpolationum III (Weimar 1935) 372 s.

45#Il passo si trova così riprodotto nell’edizione mommseniana dei Digesta Iu-

stiniani Augusti II (Berolini 1963) 650, ma v. infra nel testo ed al § 7 per alcune ri-serve.

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Il contesto palingenetico dal quale il frammento è stato prelevato (senza peraltro essere stato apparentemente modifi-cato) dai compilatori46 è quello della corrispondenza oggettiva tra la domanda e la risposta nella stipulatio (v. D. 45.1.1.3-5), alla quale il giurista classico collegava, con un salto meno for-zato di quanto non appaia prima facie (come meglio avremo modo di renderci conto più avanti: v. infra § 6), anche la con-gruenza dal punto di vista linguistico. Sotto quest’ultimo pro-filo, emergono, nell’articolazione del brano, due questioni, tra loro in qualche misura connesse, dal momento che soltanto la soluzione favorevole della prima dà adito alla seconda.

Il primo problema, al quale il testo fornisce una soluzione positiva, è costituito dall’ammissibilità delle stipulationes lin-guisticamente miste, nelle quali, secondo il caso preso diretta-mente in esame dal giurista, si faccia contestuale utilizzo della lingua latina e di quella greca: se si interroga in latino, si può validamente rispondere in greco (e lo stesso al contrario)? È possibile – si afferma – e l’obbligazione è in questo modo con-stituta, purché – viene precisato però immediatamente dopo – dummodo congruenter respondeatur. Ebbene – è necessario a questo punto chiedersi –, come si rispondeva congruenter? Oc-correva una pedissequa traduzione in lingua greca del verbo latino espresso nella domanda (ad esempio: Facies?/ÔÈ‹Ûˆ), oppure ciò non era indispensabile, essendo sufficiente che dal-le espressioni utilizzate dai contraenti si potesse comunque ar-guire il raggiungimento dell’accordo?

Per comprendere appieno la portata di questi interrogativi, è bene intanto premettere che, seppure il discrimine tra il testo commentato (i libri iuris civilis sabiniani) ed il commento (di Ulpiano) non è più avvertibile ictu oculi nella veste giustinianea con la quale il passo ci è stato tramandato47, secondo un’inter-

46#Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis II (Lipsiae 1889) 1186 s.

47#Cfr., per questa difficoltà, F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza cit. 377 e

380, dove si evidenzia che la separazione tra lemmi e commento è nel Digesto, quasi dappertutto, ormai oscurata, anche se talora può essere ancora possibile coglierla; sulla natura lemmatica del commento di Ulpiano (così come quello degli altri com-

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pretazione, che risale indietro fino al Cuiacio48, buona parte dell’inizio del frammento (sino a contrarium precisamente) sa-rebbe da ascrivere al pensiero di Sabino49, con la conseguenza di poter credere che il giudizio favorevole all’ammissibilità di stipulazioni così congegnate risalisse già alla giurisprudenza dell’inizio del Principato. Questa ipotesi, ove si accettasse, do-vrebbe tuttavia ricevere una qualche conferma all’interno del manuale gaiano; conferma che, a ben vedere, si fa fatica invece a riscontrare, anche se il discorso deve giocoforza fare affida-mento su un locus delle Istituzioni che purtroppo si presenta in un modo un po’ problematico ai nostri occhi,

Gai 3.95. Illud dubitari potest, si quis [interroganti da r i s p o n d e s ? respondeat pr om i t to ve l dabo , an recte obligetur]; aut si quis [interroganti p r o m i t t i s ? respon-deat ï Ì Ô Ï Ô Á á an recte obligetur].

La formulazione testé riportata è, infatti, il risultato di

un’integrazione generalmente suggerita dagli editori moderni50 mentari ai libri di Sabino scritti da Pomponio e Paolo) e sui criteri utilizzati dalla dottrina per l’accertamento del lemma, cfr. R. ASTOLFI, I Libri tres iuris civilis cit. 1 e nt. 2, per altre indicazioni bibliografiche.

48#Cfr. J. CUJACIUS, Operae X (Neapoli 1758) 526. 49

#Questa lettura è proposta, ancora di recente, da R. ASTOLFI, I Libri tres iuris civilis cit. 195; l’A. trova supporto, per tale ricostruzione, in Gai 3.93, in cui il giuri-sta antoniniano propone, come esempi di lingue diverse da quella latina, un’interro- gatio ed una responsio espresse in greco, ma – come si dirà più ampiamente infra nella parte finale di questo stesso paragrafo – nel manuale è presa in esame una fatti-specie strutturalmente diversa (i.e., stipulazione tutta conclusa in lingua greca) ri-spetto a quella trattata nella prima parte di D. 45.1.1.6 (i.e., stipulazione bilingue).

50#Cfr., exempli causa, V. ARANGIO-RUIZ, A. GUARINO, Breviarium iuris ro-

mani8 (Milano 1998) 124, che ibidem alla nt. 1 rimanda a P. KRUEGER, G. STUDE-MUND, Gai Institutiones ad Codicis Veronensis Apographum Studemundianum no-vis curis actum in usum scholarum, in Collectio librorum iuris anteiustiniani in usum scholarum7, cur. P. KRUEGER, T. MOMMSEN, G. STUDEMUND I (Berolini 1923) 123. Ritiene che «the doubt discussed may have been as to difference in the language of question and answer, or as to the admissibility of other tongues than Latin and Greek», F. DE ZULUETA, The Institutes of Gaius. Text with critical notes and trans- lation I (Oxford 1946) 182 nt. 1; più di recente, cfr. H.L.W. NELSON, U. MANTHE, Gai Institutiones III 88-191. Die Kontraktsobligationem. Text und Kommentar (Berlin 1999) 34 e 117 s. Per una ipotesi diversa, cfr., tuttavia, S. RICCOBONO, Sti-

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sulla scorta di quanto si legge in Theoph. Par. 3.15.151, dal momento che il folium 60r del Codice Veronese resta, ad ecce-zione delle poche parole che costituiscono l’incipit del paragra-fo (tutte fortunatamente contenute in un folium diverso, il 104v), per noi illeggibile in parte qua52. Tuttavia, la ricostru-zione proposta può considerarsi altamente probabile, se si tie-ne presente che anche la nota lacuna delle formule stipulatorie greche esemplificate nel poco distante Gai 3.93 (omesse nel Codice Veronese, come comunemente si ritiene, a motivo della non conoscenza di questa lingua da parte del copista53), viene senza remore colmata dagli interpreti moderni facendo ricorso pulatio ed instrumentum nel diritto giustinianeo, in ZSS. 35/36 (1914-1915) 255 nt. 1 [in seguito citato come Stipulatio ed instrumentum (1914-1915) cit.], che supponeva una parziale corrispondenza tra il lacunoso § 95 del terzo libro delle Istituzioni con gli esempi conservati (sia pure solo in parte rispetto all’originale ulpianeo) in D. 45.1.1.2, dove il giurista doveva occuparsi genericamente delle forme di una valida risposta da parte del promissor [nello stesso senso e dello stesso A., cfr. anche Stipu-lation and the theory of contract (Cape Town 1957) 38 nt. 37]; però, per le ragioni subito indicate su nel testo, sembra preferibile la soluzione accolta dalla maggior parte degli editori, al più – come anche viene da alcuni talora proposto – sembrando più pertinente, se si vuole far perno a questo fine sul commentario ad Sabinum di Ulpiano, proprio il § 6 di D. 45.1.1 che qui ci occupa. In generale, per un rapido quadro degli studi e delle edizioni delle Istituzioni di Gaio apparsi successivamente alla pubblicazione dell’Apografo studemundiano, cfr. F. BRIGUGLIO, Il Codice Ve-ronese in trasparenza. Genesi e formazione del testo delle Istituzioni di Gaio (Bolo-gna 2012) 242 ss.

51#K·d Ôé‰b â¿Ó·ÁΘ qÓ ÙFÉ ·éÙFÉ ‰È·Ï¤ÎÙˆ ëοÙÂÚÔÓ Î¯ÚÉÛ©·È, àÏÏ’õÚÎÂÈ Ùe

êÚÌÔ‰›ˆ˜ Úe˜ ÙcÓ âÂÚÒÙËÛÈÓ àÔÎÚ›Ó·Û©·È ÙcÓ àfiÎÚÈÛÈÓ ÔxÔÓ âaÓ âÂÚˆÙ‹ÛF˘ Ì «Promitt i s?», ‰‡Ó·Ì·È ÂåÂÖÓ «ïÌÔÏÔÁá», j âÎ ÙÔÜ âÓ·ÓÙ›Ô˘, âaÓ Âú F˘ ÌÔÈ «ïÌÔÏÔÁ ֘ ;» ‰‡Ó·Ì·È àÔÎÚ›Ó·Û©·È «promitto» [ed. C. FERRINI, Institutio-num graeca Paraphrasis Theophilo antecessori II (Berlin 1897, rist. Aalen 1967) 323].

52#Cfr. G. STUDEMUND, Gaii Institutionum Commentarii Quattuor Codicis Veronensis denuo collati Apographum (Leipzig 1873, rist. Osnabrück 1965) 152 s.; Gai Codex rescriptus in Bibliotheca Capitulari Ecclesiae Cathedralis Veronensis, cur. F. BRIGUGLIO (Firenze 2012) 175 e 270.

53#Sulle omissioni e sugli errori relativi a vocaboli greci riscontrabili nel Codice

Veronese, che troverebbero spiegazione nella mancanza di conoscenza della lingua greca da parte del copista, cfr. G. STUDEMUND, Gaii Institutionum Commentarii Quattuor cit. xxii; F. BRIGUGLIO, La paternità di Gaius in una scritta ritrovata del Codice Veronese delle Institutiones (Bologna 2008) 30 s. [= MEP. 11 (2008) 223 e nt. 85; ora anche in ID. (cur.), Gai Codex rescriptus cit. 21 nt. 49 e ID., Il Codice Vero-nese in trasparenza cit. 288 s. e nt. 74].

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allo stesso tratto della Parafrasi teofilina54, il tenore della quale lascerebbe credere che l’antecessor bizantino seguisse più da vicino, in questo frangente del discorso, proprio il manuale classico invece che quello imperiale55: il punto corrispondente delle Istituzioni giustinianee (3.15.156) non riserva infatti alcun

54#Il richiamo della Parafrasi di Teofilo (3.15.1), per colmare la lacuna de qua,

era già propugnato da J.F.L. GOESCHEN, Gai Institutionum Commentarii IV (Ber-lin 1824) 237.

55#A partire dalle note ricerche condotte da C. FERRINI sul finire dell’Ottocen-

to [cfr., in particolare: La parafrasi di Teofilo ed i Commentari di Gaio, in Rendicon-ti II s. 16 (1883) 56 ss. = Opere I (Milano 1929) 15 ss.; Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, in AG. 37 (1886) 353 ss. = Opere I cit. 132 ss.; I commentari di Gaio e l’indice greco delle Istituzioni, in Byzantinische Zeitschrift 6 (1897) 547 ss. = Opere I cit. 81 ss., da cui si cita], è stata per lungo tempo largamente condivisa, anche se all’interno di un quadro spesso caratterizzato da una certa varietà di prospettazioni, l’opinione che, per la redazione della Parafrasi, Teofilo avesse attinto ad un ηÙa fi‰·˜ o quanto meno ad un’opera di commento in greco delle Istituzioni gaiane venuta alla luce dalle scuole di diritto di Berito o Costantinopoli; sebbene oggi si tenda per lo più a mettere in dubbio la necessità di una tale ‘mediazione’ in lingua greca del manuale di Gaio [cfr., per questa rivisitazione dell’orientamento fino ad allora pressoché maggio-ritario, G. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, in AUPA. 45.1 (1998) 307 e ID., La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, in RHD. 68 (2000) 430 nt. 36, dove l’A., per spiegare la familiarità dell’antecessor con questa fonte, suppone l’utilizzo da parte dello stesso di appunti portati a lezione nei corsi sulle Institutiones gaiane], la presenza diffusa nella Parafrasi di prestiti dal manua-le classico è un dato oggettivo e unanimemente riconosciuto dalla dottrina, che è sem-pre più incline a spiegarlo con la particolare familiarità dell’antecessor con questa fonte, oggetto diretto del corso d’insegnamento tenuto da Teofilo nel primo anno [cfr., sul punto, C. RUSSO RUGGERI, Gaio, la Parafrasi e le ‘tre anime’ di Teofilo, in SDHI. 78 (2012) 197 ss., che significativamente pensa ad «un condizionamento culturale e del- l’esperienza acquisiti durante i corsi di I anno condotti sul testo gaiano» (p. 199)]. La letteratura sui rapporti tra la Parafrasi teofilina e le Istituzioni gaiane è, come ben si sa, assai vasta e non sarebbe possibile darne qui un’esaustiva rassegna; mi limito pertanto a segnalare, in aggiunta agli Autori già menzionati in questa stessa nota, alcuni fonda-mentali contributi, facendo rinvio per il resto alle indicazioni bibliografiche ivi di volta in volta contenute: P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istitu-zioni di Giustiniano, in Studi in onore di B. Biondi I (Milano 1965) 1 ss.; B. SANTALU-CIA, Contributi allo studio della Parafrasi di Teofilo, in SDHI. 31 (1965) 171 ss. (per la dottrina più risalente, cfr. in particolare gli Autori ivi citati alla nt. 2); U. ROBBE, Una nuova ricerca sulla Parafrasi di Teofilo, in Studi in onore di G. Grosso I (Torino 1968) 149 ss.; N. VAN DER WAL, J.H.A. LOKIN, Historiae iuris Graeco-Romani delineatio. Les sources du droit byzantin de 300 à 1453 (Groningen 1985) 125.

56#In hac re olim talia verba tradita fuerunt: spondes? spondeo, promittis? promit-

to, fidepromittis? fidepromitto, fideiubes? fideiubeo, dabis? dabo, facies? faciam ...

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cenno ai verba graeca utilizzabili nella stipulatio. Teofilo per-tanto, nel riferirli, deve averli trovati riprodotti altrove, secon-do l’ipotesi che pare più immediata proprio nelle Institutiones di Gaio57, che fino al 533 avevano costituito oggetto diretto del suo insegnamento al corso del primo anno58. Nulla di strano che l’esempio di stipulazione mista (promittis?/ïÌÔÏÔÁá, ïÌÔ- ÏÔÁÂÖ˜;/promitto), addotto dal Parafraste nel suo commento al-le Istituzioni giustinianee, sia stato anch’esso rinvenuto nel pa-ragrafo gaiano che noi oggi non riusciamo più a leggere. Eb-bene, facendo affidamento sulla bontà di questa ricostruzione, il passo offre all’interprete indicazioni preziose.

Dopo aver esemplificato nel § 93 l’utilizzo di verbi diffe-renti da spondere59 nella verborum obligatio iuris gentium60,

57#Tra i luoghi raccolti da C. FERRINI, I commentari di Gaio cit. 82 ss., nei

quali il Parafraste avrebbe tenuto presente più il dettato gaiano che quello del ma-nuale imperiale, è segnalato invero proprio Par. 3.15.1, sia pure limitatamente al punto Ùe ÌbÓ «spondes? spondeo» Ôé ÌÂÙÂÊÚ¿˙ÂÙÔ ëÏÏËÓÈÛÙd (p. 99).

58#Sull’insegnamento del diritto al tempo di Giustiniano e sui corsi di lezione

tenuti da Teofilo, che già nella costituzione Haec quae necessario è detto vir claris-simus comes sacri nostri consistorii et iuris in hac alma urbe doctor (§ 1), cfr., per tut-ti, Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici, cur. J.H.A. LOKIN, B.H. STOLTE (Pavia 2011) 118 ss.

59#Diversamente dall’opinione che può senz’altro ritenersi prevalente, B. NI-

CHOLAS, The form of stipulation in Roman Law, in LQR. 69 (1953) 63 ss., è del- l’idea che i verbi indicati da Gaio debbano reputarsi tassativi, così che la loro elen-cazione costituiva un numero chiuso; contra già A. WINKLER, Gaius III,92. An- lässlich der These von B. Nicholas: nur die hier genannten Stipulationsformen seien bis zum jahre 472 zugelassen gewesen, in RIDA. 5 (1958) 603 ss., per la quale, non vi sarebbero argomenti decisivi a supporto di questa tesi e pertanto conclude nel senso che «die klassische mündliche Stipulation durch Frage und kongruente Ant- wort mit beliebigen Verben, deren gebräuchlichste Gaius in III,92 angibt, vollzogen werden konnte» (p. 635); nello stesso senso, più di recente anche R. ZIMMERMANN, The law of obligations. Roman foundations of the Civilian Tradition (rist. Oxford 1996) 72, secondo cui tale ipotesi «is not impossible, but it is unlikely».

60#Secondo la dottrina, il riferimento al ius gentium contenuto in Gai 3.93 [che

S. SOLAZZI, Due note alle Istituzioni di Gaio, in Atti del Congresso Intern. di Dirit-to Romano III (Milano 1953) 307 ss. = Scritti di diritto romano V (Napoli 1972) 463 ss., considerava una glossa; ma, in senso contrario, cfr. G. LOMBARDI, Sulla presunta glossa in Gai 3.93, in SDHI. 17 (1951) 279 ss.] costituisce esempio tipico di uno dei due significati con i quali l’espressione ius gentium che compare nelle fonti può es-sere intesa e precisamente di quello che M. TALAMANCA, «Ius gentium» cit. 192 s.,

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 367

contemplando anche il caso che essi fossero ad Graecam vo-cem express[i]61, il giurista dell’età degli Antonini manifestava nel § 95 i dubbi personali (e, forse, altresì dei suoi contempo-ranei62, come potrebbe far pensare l’espressione, dal tono im- denomina significato «dogmatico o normativo», che individuava, in una prospettiva concreta, quali istituti propri del ius civile potessero trovare applicazione anche agli stranieri (in contrapposizione al significato «descrittivo o sociologico», che si può riscontrare ad esempio in Gai 1.1); per questa distinzione, in relazione specifica-mente a Gai 3.93, cfr. già G. LOMBARDI, Sul concetto di ius gentium (Roma 1947) 135. L’inquadramento della stipulatio nell’ambito dello ius gentium e la conseguente disponibilità anche da parte dei peregrini insieme all’affermarsi nella prassi della forma greca dovettero avvenire piuttosto rapidamente già nell’ambito dell’espansio- ne economica repubblicana [sul punto, cfr., exempli causa, G. GROSSO, «Syngra-phae», «stipulatio» e «ius gentium», in Labeo 17 (1971) 13, ora in Scritti storico giu-ridici III (Torino 2001) 748 ss.].

61#«Questa precisazione – come giustamente osserva G. COPPOLA, L’exem-

plum Graeci sermonis e la prospettiva di una società multiculturale in Gaio, in que-sto stesso vol., pp. 148-149 – non è priva di significato in quanto ammette che le parti contraenti possano esprimersi, nel concludere un’obligatio verbis, anche in lingua greca con effetti validi iure gentium, e quindi tali promesse sarebbero state sanzionate nel processo formulare da un’actio in personam con formula con oporte-re ex fide bona»; secondo l’A., tale apertura verso la lingua greca nel caso della stipu-latio (insieme ad altri exempla, come il noto Gai 3.141 a proposito del prezzo nell’emptio venditio, oppure i riferimenti alla legislazione solonica in D. 10.1.13 e 47.22.4, o ancora i raffronti con termini greci per precisare il significato di venenum e telum rispettivamente in D. 50.16.236 pr. e 50.16.233.2, nei quali il richiamo a ter-mini o concetti greci non può dirsi limitato ad un mero imprestato lessicale), testi-monierebbe a favore di una «vera e propria concezione cosmopolita della realtà giu-ridica», verosimilmente trasmessa a Gaio dagli insegnamenti di matrice stoica assor-biti dal giurista negli anni della formazione (p. 167). Per una rivalutazione della pro-spettiva comparatistica e sovranazionale nelle Istituzioni gaiane, in reazione peral-tro ad un diffuso (almeno, fino a quel momento) atteggiamento dottrinale tendente a ridimensionare, viceversa, l’interesse dei giuristi romani per la conoscenza dei di-ritti stranieri (per questa caratterizzazione, cfr., exempli causa, F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza cit. 135 s.), cfr. l’approfondito studio, con esame di una serie di passi, di F. GORIA, Osservazioni sulle prospettive comparatistiche nelle Istituzioni di Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista. Atti del Convegno Tori-nese in onore del Prof. S. Romano. Torino 4-5 maggio 1978 (Milano 1981) 211 ss.; in questo stesso senso, cfr. anche R. MARTINI, Diritto romano e diritti stranieri, in Index 26 (1998) 411 s., a proposito delle «vere e proprie affermazioni comparatisti-che», valorizzabili sul piano didattico, che si riscontrano specialmente in Gaio.

62#Sul problema della presunta arretratezza delle Institutiones di Gaio e della

loro inadeguatezza a rispecchiare con fedeltà il diritto vigente al tempo in cui ven-nero redatte, cfr., passim, gli atti del Simposio Romanistico Internazionale svoltosi a

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personale, dubitari potest63) a proposito della possibilità di am- mettere verbi appartenenti a due63lingue differenti, probabil- Napoli dal 16 al 19 dicembre 1965, pubblicati in Gaio nel suo tempo. Atti del Sim-posio Romanistico, cur. A. GUARINO, L. BOVE (Napoli 1966); in particolare, cfr. F. CASAVOLA, Gaio nel suo tempo, ibidem 1, che giudica l’opera gaiana «ad un tempo più antica e più moderna rispetto all’età in cui è stata composta» (v. anche p. 8, dove l’A. riconosce che il programma di studio trasfuso nelle Institutiones «è più antico di Gaio di almeno due secoli»); J. MACQUERON, Storia del diritto ed arcaismo in Gaio, ibidem 79, secondo cui «Gaio, a forza di frequentare i vecchi autori, è talora giunto al punto di conservare anche terminologie e concezioni giuridiche non più consone al suo tempo»; O. ROBLEDA, Osservazioni su «Gaio nel suo tempo», ibi-dem 142 ss.; G. SCHERILLO, Gaio e il sistema civilistico, ibidem 145 ss.; cui adde A.M HONORÉ, Gaius: a biography (Oxford 1962) 122 ss.; C.A. MASCHI, Il diritto romano I. La prospettiva storica della giurisprudenza classica (diritto privato e pro-cessuale)2 (Milano 1966) xvi s., restio ad accettare l’idea di un Gaio «per ignoranza abituale, in arretrato o ... per tendenza un arcaicizzante».

63#Da una verifica, compiuta avvalendomi della BIA., ho potuto appurare che

in Gaio tale espressione (dubitari potest) ricorre soltanto in un’altra occasione all’interno delle Institutiones (in 1.129, precisamente) e che in altre due circostanze la stessa locuzione si riscontra in opere diverse dal manuale istituzionale raccolte grazie ai Digesta (in D. 3.6.6 e 40.12.9 pr.). Nel primo di questi casi [Gai 1.129; per un primo inquadramento della problematica discussa nel passo, cfr. L. D’AMATI, Civis ab hostibus captus. Profili del regime classico (Milano 2004) 27 ss.], il contesto è costituito dalla trattazione degli effetti della prigionia bellica sulla patria potestas ed in particolare del problema se, verificatasi la morte del paterfamilias in stato di prigionia, l’acquisto della condizione di sui iuris da parte dei figli debba considerarsi avvenuto al momento della morte oppure allorché egli è stato fatto prigioniero: di fronte a tale quesito, appunto, Gaio, senza prendere posizione, affermava che dubi-tari potest [per maggiori approfondimenti sulla questione, faccio rinvio a R. QUA-DRATO, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii (Napoli 1979) 102 ss., che al riguardo evidenzia (a p. 105), attraverso il richiamo di altri passi giuri-sprudenziali, «l’esistenza pregressa di un orientamento giurisprudenziale non uni-voco»]. In D. 3.6.6 (Gai. 4 ad ed. prov.), il problema era rappresentato dalla determi-nazione del dies a quo, a partire dal quale cominciare a computare l’anno dell’actio de calumnia in quadruplum, intentabile contro chi avesse ricevuto denaro per citare un terzo senza fondamento in giudizio, vale a dire se dal giorno della conclusione dell’accordo calunniatorio o da quello in cui la vittima della calunnia ne avesse avu-to conoscenza. Normalmente, infatti, il decorso del tempo doveva intendersi corre-lato al possesso della potestas experiundi e, di regola, non incideva su di esso, nel senso di escluderlo, l’ignorantia facti, cioè la mancata conoscenza della situazione di fatto che legittimava l’esercizio dell’azione; tuttavia, l’applicazione generalizzata di tale principio poteva dare adito a degli inconvenienti, come appunto nell’actio de calumnia per il caso ora richiamato, dove la vittima era ovviamente estranea all’ac- cordo criminoso e pertanto far decorrere il tempo dall’accordo anziché dalla cono-

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 369

mente per l’intrinseca difficoltà di accertare in questo caso un’omogeneità di significato (promittis?/ïÌÔÏÔÁá), come sem-bra suggerire il non casuale accostamento di quest’ipotesi a quel-la caratterizzata da due espressioni verbali latine tra loro evi-dentemente non congruenti (dari spondes?/promitto vel dabo).

Al di là delle motivazioni che ne stavano alla base, le per-plessità evidenziate da Gaio non possono, per quanto qui inte-ressa, che indurci a rifiutare la tesi secondo cui la prima par- te di D. 45.1.1.6 riflettesse l’originale scrittura sabiniana: tale apertura nei confronti delle stipulazioni linguisticamente miste, ove già di Sabino, sarebbe stata – è agevole immaginare – certa-mente fatta propria dal giurista antoniniano (dichiaratamente aderente alla corrente sabiniana64) o, quanto meno, avrebbe do- scenza avrebbe significato una lesione delle sue legittime aspirazioni di tutela [sul tema, cfr. M. AMELOTTI, ‘Actiones perpetuae’ e ‘actiones temporales’ nel processo for- mulare, in SDHI. 22 (1956) 212 s.]; il dubitari potest nasceva dalla possibilità di consentire, in questo caso, un’eccezione alla regola della non scusabilità dell’igno- rantia facti [sulla quale, cfr. la nitida ricostruzione di F.C. SAVIGNY, Sistema del di-ritto romano attuale III (trad. it. Torino 1891) 527 ss.: «... poteva nascere un dubbio ... per le azioni con utile tempus ... se l’attore dovesse dirsi nell’impossibilità di agire anche pel fatto di non conoscere la violazione del suo diritto» (p. 529 s.)]. Nel- l’ultimo testo (D. 40.12.9 pr., Gai. ad ed. praet. urb. tit. de lib. caus.), infine, si pone la questione se, intentata la vindicatio in servitutem di uno schiavo da parte del pro-prietario e dell’usufruttuario, l’assenza in iure di uno dei due impedisse o meno al pretore di far contestare la lite all’altro, per la ragione che non debet alterius collu-sione aut inertia alteri ius corrumpi [sulle due possibili interpretazioni di questa mo-tivazione, cfr. M. BRETONE, Servus communis. Contributo alla storia della compro-prietà romana in età classica (Napoli 1958) 125 ss., secondo cui, inoltre, da questo frammento gaiano e dai paragrafi che immediatamente lo seguono emergerebbe «la divergenza dei giuristi classici sul modo di intendere la communio del servo» (p. 125); sul passo, da ultimo, cfr. anche S. SCIORTINO, Studi sulle liti di libertà nel di-ritto romano (Torino 2009) 285 s., con rinvio ad altra bibliografia ivi segnalata]. Ora, se si guarda a questi esempi, sembra che il dubitari potest di Gaio alludesse non tanto ad una perplessità individuale del giurista, ma, di più, all’esistenza di una vera e propria dissensio giurisprudenziale.

64#Com’è quasi superfluo ricordare, l’adesione di Gaio alla secta sabiniana è te-

stimoniata all’interno delle Institutiones dall’appellativo nostri praeceptores riservato ai maestri di questa scuola (v. Gai 1.196, 2.15, 2.37, 2.123, 2.200, 2.217, 2.219, 2.231, 3.87, 3.98, 3.103, 3.141, 3.167a, 3.168, 4.78, 4.114; v. anche 2.223, dove appare soltanto nostri ed inoltre 1.196 e 2.195, nei quali invece si riscontra l’aggiunta ceterique), posto in contrapposizione all’inciso diversae scholae auctores utilizzato per rivolgersi ai

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 370

vuto costituire un punto in un certo modo archimedico nella relativa trattazione delle Istituzioni65, mentre questo non pare essere avvenuto. Da qui sembra prendere corpo un’ipotesi rico-struttiva differente da quella tradizionalmente prospettata: e cioè che l’ammissibilità di una stipulatio come quella descritta nel testo ulpianeo si sia raggiunta a conclusione di un trend evo-lutivo, le premesse del quale si iniziano ad osservare solo negli anni successivi alla stesura del manuale gaiano.

4. Ampliare il campo visivo per intendere la cornice. — Utili indicazioni verso la direzione adesso tracciata sembrerebbero poter venire dalla considerazione dell’atteggiamento tenuto dai giuristi coevi o posteriori a Gaio dinanzi a talune questioni, che, pur non attenendo direttamente al profilo della lingua uti-lizzata dagli stipulanti, ad esso erano comunque implicitamente connesse; si tratta di testimonianze che ci consentono di coglie-re lo sfondo generale entro il quale l’interpretatio prudentium poteva muoversi nell’accostarsi a quell’aspetto. In quest’ottica, possiamo prendere le mosse, anzitutto, da un brevissimo fram- mento del commentario pomponiano a Sabino,

D. 45.2.4 (Pomp. 24 ad Sab.). Duo rei promittendi sive ita interrogati ‘spondetis?’ respondeant ‘spondeo’ aut ‘spon-

giuristi appartenenti invece alla scuola dei proculiani. Sul significato comunque per lo più ‘metaforico’ dell’espressione e non allusivo a figure concrete di insegnanti, cfr., per tutti, E. STOLFI, Il modello delle scuole in Pomponio e Gaio, in SDHI. 63 (1997) 2 nt. 2 [nello stesso senso, dello stesso A., cfr. Studi sui «Libri ad edictum» di Pom-ponio II (Milano 2001) 32 nt. 46]; per la posizione di Gaio all’interno della scuola sabi-niana, cfr., altresì, le pagine [non sempre condivisibili peraltro: cfr., per alcune riserve, G.G. ARCHI, rec. di A.M HONORÉ, Gaius: a biography (Oxford 1962), in SDHI. 29 (1963) 424 ss.] scritte a questo proposito da A.M HONORÉ, Gaius cit. 29 ss.

65#Anche se si condivide l’idea di un Gaio «per lo più neutrale» (cfr. G. GROS-SO, Osservazioni su Gaio, in Gaio nel suo tempo cit. 33) e votato «à l’objectivité scientifique» [cfr. O. STANOJEVIĆ, Gaius noster (Amsterdam 1989) 101], che non parteggiasse apertamente per una o l’altra delle contrapposte soluzioni delle scuole che di volta in volta riferiva nel manuale, non può certo immaginarsi che egli addi-rittura trascurasse di proposito, omettendo di farne menzione, un’opinione comun-que formatasi all’interno della scuola nella quale dichiarava di essersi formato.

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 371

demus’, sive ita interrogati ‘spondes?’ respondissent ‘spon- demus’, recte obligantur.

Il problema giuridico che il passo sottende nasce dalla con-

ceptio verborum della stipulatio correale passiva. Giova premet-tere, a questo proposito, che lo schema verbale tipico per obbli-gare in solidum due (o più) promissores consisteva nella succes-sione, in un contesto temporale ordinariamente omogeneo (an-che se non necessariamente)66, di due (o più) domande stipulato-rie distinte da parte dell’unico creditore seguite da altrettante au-tonome risposte dei debitori (spondes?/spondeo e idem spondes?/ spondeo)67, nelle quali l’unitarietà della fattispecie obbligatoria era assicurata dall’identità della prestazione dovuta, esplicita-mente richiamata nell’anafora della domanda (idem debitum)68.

66#Per i problemi posti dal requisito dell’unitas actus nella stipulazione correale

classica e per il suo progressivo ridimensionamento nella riflessione dei giuristi, cfr. funditus: E. ALBERTARIO, Le obbligazioni solidali. Corso di diritto romano (Milano 1944) 35 ss.; G. SACCONI, Studi sulle obbligazioni solidali da contratto in diritto roma-no (Milano 1973) 2 ss.; M. TALAMANCA, s.v. «Obbligazioni (diritto romano)», in ED. XXIX (Milano 1979) 51 nt. 354; A. STEINER, Die römischen Solidarobligationen. Eine Neubesichtigung unter aktionenrechtlichen Aspekten (München 2009) 80 ss.

67#Questa, comunemente considerata la forma base della solidarietà passiva nel-

la stipulatio, è ancora ricordata in I. 3.16 pr. (Et stipulandi et promittendi duo plu- resve rei fieri possunt ... duo pluresve rei promittendi ita fiunt: ‘Maevi, quinque au-reos dare spondes? Sei, eosdem quinque aureos dare spondes?’ respondeant singuli separatim ‘spondeo’) ed emergerebbe già da un passo di Giavoleno (D. 45.2.2, Iav. 3 ex Plaut.: Cum duo eandem pecuniam aut promiserint aut stipulati sunt, ipso iure et singuli in solidum debentur et singulis debent; ideoque petitione acceptilatione unius tota solvitur obligatio), evidentemente rimaneggiato dai giustinianei e, non a caso, collocato quasi in apice all’interno del titolo rubricato de duobus reis constituendis (D. 45.2); per le proposte di emendamenti e per le implicazioni sulla struttura ver-bale della stipulatio, cfr. C.A. CANNATA, Corso di istituzioni di diritto romano II.1 (Torino 2003) 136 ss.; in generale, sulla ratio di questa forma stipulatoria, preziose considerazioni in E. ALBERTARIO, Le obbligazioni solidali cit. 37, che così ne spie-gava la funzione: «Lo scopo di un blocco di domande fatte all’unico debitore da par-te dei creditori, prima che il debitore risponda, o di un blocco di risposte da parte dei creditori [lapsus evidente per debitori], dopo l’esaurimento delle interrogazioni fatte a ciascuno di essi dall’unico creditore, era manifestamente quello di evitare la con-clusione di stipulazioni separate e di costruire invece, con un solo dialogo, un’unica stipulazione con identica prestazione integrale ...».

68#Sull’identità del debito, intesa come presupposto essenziale della solidarietà

ex stipulatione, cfr., in particolare, E. ALBERTARIO, Le obbligazioni solidali cit. 32

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 372

A fronte di questa forma, Pomponio nel passo in esame ammet-teva, tuttavia, delle varianti, come ad esempio la possibilità che l’interrogatio e la responsio si coniugassero, nel contesto di un’unica stipulatio, entrambe al plurale: Spondetis?/spondemus; ma il giurista si spingeva ancora oltre, includendo ex professo nella valutazione positiva anche il caso che ad una domanda formulata al plurale si fosse data da parte di ciascuno dei duo conrei debendi una risposta al singolare (spondetis?/spondeo + spondeo), o l’ipotesi esattamente contraria (spondes?/sponde- mus)69, o anche – come è da credere70 – che essi avessero potu-to persino rispondere in modo tra loro diseguale (spondetis?/ spondeo + spondemus). Lo zelo con il quale Pomponio – con-temporaneo di Gaio71 – riporta le diverse alternative, per ri- ss.; G. SACCONI, Studi sulle obbligazioni solidali cit. 175 ss.; A. STEINER, Die römi-schen solidarobligationen cit. 87 ss.; per il diverso problema dell’unità o pluralità dei vincoli obbligatori nell’obbligazione solidale romana, cfr., in particolare, G. BRAN-CA, Unum debitum e plures obligationes, in Studi in onore di P. de Francisci III (Mi-lano 1956) 141 ss.

69#Cfr. G.G. ARCHI, Sul concetto di obbligazione solidale, in Conferenze ro-

manistiche a ricordo di G. Castelli (Milano 1940) 241 ss. [= Scritti di diritto romano I (Milano 1981) 281 ss., da cui cito, in part. 293 nt. 31]; A. STEINER, Die römischen solidarobligationen cit. 74.

70#Così suppone, ad es., C.A. CANNATA, Corso di istituzioni II.1 cit. 138 s.,

sulla base del convincimento che qui Pomponio intendesse esemplificare solo alcu-ne delle combinazioni possibili, «ma l’insieme del suo discorso vuole evidentemente significare che – posto che la forma strettamente corretta sarebbe: ‘S: Spondetis? P1 + P2: Spondeo.’ – qualunque variante entro questo schema è accettabile, e dunque pure, ad esempio: ‘S: Spondetis? P1: Spondeo. P2: Spondemus.’, ovvero ‘S: Spondes? P1: Spon-demus. P2: Spondeo.’». Importante, peraltro, è evidenziare che, al di là delle diverse varianti di forma, la struttura e la disciplina del rapporto solidale vennero elaborate dalla giurisprudenza in modo pur sempre unitario: per questo rilievo, cfr. G.G. AR- CHI, La funzione del rapporto obbligatorio solidale, in SDHI. 8 (1942) 193 ss. [= Scritti di diritto romano I cit. 371 ss., da cui cito, spec. 385 su questo aspetto].

71#E, forse, da lui conosciuto personalmente, anche se il punto non è determi-

nante ai fini del nostro discorso. Com’è noto, infatti, l’esistenza di un rapporto per-sonale tra i due (di colleganza nell’insegnamento se non giungendo addirittura a supporre Gaio maestro di Pomponio) o comunque anche soltanto di una reciproca conoscenza dipende dall’interpretazione che si predilige, dopo aver superato il pro-blema della sua autenticità, di D. 45.3.39, Pomp. 22 ad Quint. Muc. (Cum servus, in quo usum fructum habemus, proprietatis domino ex re fructuarii vel ex operis eius nominatim stipuletur, adquiritur domino proprietatis: sed qua actione fructuarius re-

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 373

marcare che i debitori ‘recte obligantur’ anche attraverso tutte queste varianti di forma (e quindi pure in caso di mancata con-cordanza tra il plurale ed il singolare o viceversa della doman-da e della risposta)72, pare tradire, in ultima analisi, proprio la preoccupazione di rimuovere ogni possibile dubbio circa la lo-ro rispondenza allo schema verbale riconosciuto come tipico e lascia sufficientemente comprendere, mentre se ne propone un ‘ammorbidimento’, quale rigore (finanche dal punto di vista della correttezza morfologica delle dichiarazioni scambiate dalle parti73) dovesse ispirare, sino al tempo degli Antonini, il ciperare possit a domino proprietatis, requirendum est. Item si servus bona fide nobis serviat et id, quod nobis adquirere poterit, nominatim domino suo stipulatus fuerit, ei adquiret: sed qua actione id reciperare possumus, quaeremus. Et non sine ratione est, quod Gaius noster dixit, condici id in utroque casu posse domino), situandosi a favore o meno della possibilità di riferire il Gaius noster che vi si legge proprio a Gaio giurista degli Antonini oppure a Gaio Cassio Longino; nel primo caso, tale passo recherebbe l’unica citazione pervenutaci di Gaio nella letteratura giuridica classica: su di esso ed, in generale, sul problema dei rapporti tra Gaio e Pomponio, cfr., ex multis: A.M HONORÉ, Gaius cit. 11 e 26; F. CASAVOLA, Gaio nel suo tempo cit. 2; P. PESCANI, Difesa minima di Gaio, in Gaio nel suo tempo cit. 83 nt. 4; O. ROBLEDA, Osservazioni cit. 142; D. NÖRR, Pomponius oder ,Zum Geschichtsver- ständnis der römischen Juristen‘, in ANRW. II.15 cit. 563 ss. [qui citato nella trad. it. reperibile in Rivista di Diritto Romano 2 (2002) 167 ss., in part. 180 ss.]; O. STANO-JEVIĆ, Gaius noster cit. 4 ss.; E. STOLFI, Il modello delle scuole cit. 8 nt. 27. In ogni caso, anche prescindendo da questo aspetto, è peraltro un dato sotto gli occhi di tutti quanto numerosi siano nella letteratura romanistica gli studi che accostano Gaio e Pomponio, (anche) perché è da essi che deriviamo gran parte delle notizie a proposito delle scuole dei giuristi: cfr., exempli causa, in aggiunta agli A. già citati in questa stessa nota, D. LIEBS, Gaius und Pomponius, in Gaio nel suo tempo cit. 61 ss.; H. ANKUM, Towards a Rehabilitation of Pomponius, in Daube Noster. Essays in legal history for David Daube (Edinburgh-London 1974) 1; D. PUGSLEY, Gaius or Sextus Pomponius, in RIDA. 41 (1994) 353 ss. [che però giunge addirittura ad iden-tificarli; sul punto, cfr. le obiezioni sollevate da O. STANOJEVIĆ, Gaius and Pompo-nius. Notes on David Pugsley, in RIDA. 44 (1997) 333 ss.].

72#Considerato che lo stipulator avrebbe potuto interrogare cumulativamente

entrambi i debitori e questi rispondergli individualmente (spondetis/spondeo + spon-deo), o, mutatis mutandis, avrebbe potuto rivolgersi partitamente a ciascuno di essi e ricevere una risposta comprensiva (spondes? + spondes?/spondemus), oppure an-cora interrogarli una tantum e sentirli rispondere singolarmente ma in modo reci-procamente diverso (spondetis?/spondeo + spondemus).

73#Non si trascuri, ancora in questa medesima visuale, la perfetta corrispon-

denza temporale dei verbi utilizzati nella domanda e nella risposta, come riportati

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 374

requisito della sollemnitas e della congruentia dei verba stipu-lationis74.

La seconda testimonianza che può venire utile al nostro di-scorso è particolarmente emblematica, perché attinta da un’ope- ra a carattere spiccatamente isagogico come le Institutiones di Fio- rentino, e potrebbe forse condurci già dentro l’età dei Severi75,

D. 45.1.65 pr. (Flor. 8 inst.). Quae extrinsecus et nihil ad praesentem actum pertinentia adieceris stipulationi, pro

nei vari exempla riferiti dalle fonti: v. Gai 3.92 (Dari spondes? spondeo, dabis? dabo, promittis? promitto, fidepromittis? fidepromitto, fideiubes? fideiubeo, facies? faciam) e 93 – come integrato sulla base di Teoph. Par. 3.15.1: v. retro nt. 54 – (¢ÒÛÂȘ; ¢ÒÛˆØ ^OÌÔÏÔÁÂÖ˜; ^OÌÔÏÔÁáØ ¶›ÛÙÂÈ ÎÂχÂȘ; ¶›ÛÙÂÈ ÎÂχˆØ ¶ÔÈ‹ÛÂȘ; ¶ÔÈ‹Ûˆ); PS. 2.3.1 (Spondes? spondeo, dabis? dabo, promittis? promitto, fidei tuae erit? fidei meae erit); I. 3.15.1 (Spondes? spondeo, promittis? promitto, fidepromittis? fidepro-mitto, fideiubes? fideiubeo, dabis? dabo, facies? faciam).

74#Congruenza che riecheggia, del resto, assai distintamente anche nella defini-zione contenuta in un altro notissimo frammento pomponiano, D. 45.1.5.1 (26 ad Sab.): Stipulatio autem est verborum conceptio, quibus is qui interrogatur daturum facturumve se quod interrogatus est responderit.

75#Ciò ovviamente ove si accolga la tesi che riporta l’opera de qua proprio a

questo periodo; tesi difesa, pur in tempi recenti, ad esempio da S. QUERZOLI, Il sa-pere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones (Napoli 1996) 33 ss., che, prendendo come spunto la regola esposta nell’ottavo libro delle Institutiones (e con-tenuta in D. 13.7.35 pr.) della prevalenza nelle obbligazioni garantite da pegno delle usurae sulla sors, ritenuta conforme alla disciplina normativa imperiale introdotta da un rescritto di Settimio Severo e Caracalla riportato da Ulpiano (v. D. 46.3.5.2), de-duce la datazione del manuale di Fiorentino (o, quanto meno, a partire dal suo otta-vo libro, che conteneva proprio il brano che qui stiamo considerando), nell’ambito dell’età severiana, e precisamente «tra gli anni finali del Principato di Settimio Severo – o iniziali di quello di Caracalla – e l’età di Severo Alessandro, dunque tra il primo e il quarto decennio del III secolo d.C.» (p. 42). La collocazione temporale delle Insti-tutiones di Fiorentino resta tuttavia controversa, se si considera che essa è viceversa ancora individuata dalla maggior parte della dottrina all’interno dell’esperienza giu-ridica degli Antonini [per questo orientamento, cfr., ex multis: R. ORESTANO, s.v. «Fiorentino», in NNDI. VII (Torino 1961) 373; A. GUARINO, L’esegesi delle fonti del diritto romano I (Napoli 1968) 225; F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza cit. 280; M. BRUTTI, I giuristi del II e del III secolo cit. 449; M. BRETONE, Storia del diritto ro-mano13 (Bari 2006) 270; G. BASSANELLI SOMMARIVA, Lezioni di diritto privato roma-no I (Santarcangelo di Romagna 2011) 262; L. FASCIONE, Storia del diritto privato ro-mano3 (Torino 2012) 464]; per l’accostamento a quella dei Severi, cfr., però, anche O. LENEL, Palingenesia I cit. 172, dove Fiorentino è detto «Ulpiani et Pauli ... aequalis» e gli altri A. indicati da S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino cit. 34 nt. 34.

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 375

supervacuis habebuntur nec vitiabunt obligationem, veluti si dicas: ‘arma virumque cano: spondeo’, nihilo minus va- let. 1. Sed et si in rei quae promittitur aut personae appella-tione varietur, non obesse placet: nam stipulanti denarios eiusdem quantitatis aureos spondendo obligaberis: et servo stipulanti Lucio domino suo, si Titio, qui idem sit, datu-rum te spondeas, obligaberis.

Lo spirito che anima il principium è quello del maestro

che, per rendere più intelligibile la spiegazione agli allievi, si avvale di un esempio dal tono volutamente «icastico»76, come appunto il richiamo del celeberrimo primo emistichio posto all’apertura dell’Eneide (Arma virumque cano), che, conside-rando che l’opera virgiliana era una lettura consueta all’interno delle scuole di grammatica e di retorica77, doveva risultare ai discenti alquanto familiare. Il ricorso ad un esempio dal sapore tanto paradossale mirava, nelle intenzioni del giurista, a rende-re ancor più evidente il principio che egli aveva appena finito di enunciare, vale a dire che tutto ciò che extrinsecus et nihil ad praesentem actum pertinen[s] si fosse aggiunto ai verba pro-nunciati nella stipulatio non avrebbe dovuto essere preso in considerazione ai fini della correttezza dell’atto compiuto; in altri termini, la presenza di elementi estranei, del tutto avulsi rispetto allo schema verbale nel quale l’obbligazione era stata trasfusa, non avrebbe affatto compromesso la contrazione del vincolo obbligatorio78. Se nell’insegnamento che Fiorentino

76#Prendo a prestito quest’aggettivo da A. GUARINO, Diritto privato romano12

(Napoli 2001) 832, il quale del tutto verosimilmente pensa ad un espediente per «sollecitare l’attenzione e la memoria dei giovani lettori».

77#Cfr. per tutti, su questo punto, G.F. GIANOTTI, I testi nella scuola, in Lo

spazio letterario II cit. 446 ss.; cfr. anche, per quanto concerne in modo particolare il genere della grammatica, M. DE NONNO, Le citazioni dei grammatici, in Lo spa-zio letterario di Roma antica III. La ricezione del testo, dir. G. CAVALLO, P. FEDE-LI, A. GIARDINA (Roma 1990) 605.

78#Sul passo, cfr., praecipue, S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino cit. 235 s.; cui

adde C. GANDOLFI, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano (Milano 1966) 325 nt. 279, e E.A. MEYER, Legitimacy and law in the roman world (Cambridge 2004) 257. Cfr., altresì, S. RICCOBONO, Stipulatio ed instrumentum

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 376

impartiva ai propri studenti viene, anche in questo caso, agevole percepire, in traluce e come presupposto implicito di tutto il di-scorso, il carattere certamente rigido ed inelastico del formali-smo che ancora caratterizzava i verba stipulationis (comprova-to, se non altro, dal fatto che solo quanto è extrinsecus79 alla conceptio verborum non viti[at] obligationem, mentre tutto ciò che ne è invece intrinseco non può, a fortiori, che dover essere rispettato scrupolosamente), è altrettanto evidente, al contem-po (ed in fondo, nella medesima scia già osservata a proposito del passo di Pomponio), il non secondario obiettivo del giuri-sta di ‘salvare’ una stipulazione che concretamente introduceva elementi di diversità rispetto allo schema formale dal quale di-pendeva la validità dell’atto stipulatorio.

Ulteriormente più in là sembra poterci condurre l’esame del brano (anch’esso tratto dalle Institutiones Florentini) che i compilatori hanno scelto di porre nell’immediato seguito (D. 45.1.65.1). Si fa l’ipotesi di chi nella risposta abbia modificato, in rapporto alla domanda che gli è stata rivolta, la rei aut per-sonae appellatio: ad esempio, è stato risposto aurei per denari (senza però variarne la quantità) oppure ad un servo che ha stipulato per il padrone Lucio si è promesso di dare, invece che a questi, a Tizio, qui idem sit; anche in queste ipotesi il promis-sor si obbliga80. È bene ricordare, a tal riguardo, che il debitore non era tenuto a ripetere, nel contesto della responsio, esatta- (1914-1915) cit. 252; F. PASTORI, Il negozio verbale in diritto romano (Milano 1994) 269 [nello stesso senso e dello stesso A., cfr. già Appunti in tema di sponsio e stipula-tio (Milano 1961) 246]; R. ZIMMERMANN, The law of obligations cit. 73, i quali, da una prospettiva diversa rispetto a quella qui considerata, ritengono questo brano ri-levante in ordine al problema della continuità dell’atto della stipulatio. Per una so-luzione conforme, con riguardo però all’inserimento nella formulazione della do-manda di una condizione impossibile, v. già Celso in D. 45.1.97 pr.: Si ita stipulatus fuero: ‘te sisti? nisi steteris, hippocentaurum dari?’ proinde erit, atque ‘te sisti’ so-lummodo stipulatus essem.

79#Sul significato di extrinsecus, qui utilizzato per evidenziare la carenza di

connessione fra la stipulatio e quelle clausole ad essa aggiunte che nulla avevano a che vedere con l’atto compiuto, cfr. F. MUSUMECI, Vicenda storica del «tignum iunctum», in BIDR. 81 (1978) 264 ss.

80#Cfr. S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino cit. 235 s.

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 377

mente il tenore della domanda rivoltagli, ben potendo limitarsi a dire spondeo (o altro diverso verbo utilizzato dallo stipulator), ma, se avesse deciso di ribadirne il contenuto, avrebbe dovuto ad id quod interrogatus est respondere (Gai 3.102)81. Tuttavia, per Fiorentino, anche in quest’ultimo caso, una mera appella-tionis variatio, che non si fosse cioè tradotta in una diversità della res significata, non elideva la congruenza della risposta alla domanda e non ostava pertanto al sorgere dell’obbligazione.

Ciò che è importante evidenziare è che questo stesso inse-gnamento riaffiora, in forma ancora più esplicita sì da assumere quasi un respiro generale, in una sententia di Paolo (che, nono-stante i ben noti dubbi che investono la classicità della compila-zione82, non può – anche considerando la prossimità con l’im- postazione di Fiorentino ora veduta – che rispecchiare nella

81#Nec enim necesse est in respondendo eadem omnia repeti, quae stipulator ex-

presserit (I. 3.19.5). Sul punto, cfr. P. VOCI, La dottrina romana del contratto (Milano 1946) 133, che ben rileva come, in quest’ipotesi, «il testo dell’accordo, divenuto forma, è trattato come tale»; a cui adde R. ZIMMERMANN, The law of obligations cit. 74.

82#Relativamente alla paternità paolina, al tempo ed al luogo di redazione delle

Pauli Sententiae, com’è noto, esiste una letteratura amplissima – mi limito qui a ri-chiamare alcuni fondamentali contributi: M. LAURIA, Ricerche su «Pauli sententia-rum libri», in Ann. Un. Macerat. 6 (1930) 33 ss. [= Studii e ricordi (Napoli 1983) 150 ss.]; E. VOLTERRA, Sull’uso delle Sententiae di Paolo presso i compilatori del Brevia-rium e presso i compilatori giustinianei, in Atti del Congresso Internazionale di Dirit-to Romano. Bologna e Roma 17-27 aprile 1933, I (Pavia 1934) 35 ss., spec. 161 ss. [= Scritti giuridici IV (Napoli 1993) 141 ss., spec. 267 ss.]; G. SCHERILLO, L’ordina- mento delle Sententiae di Paolo, in Studi in onore di S. Riccobono I (Palermo 1936) 41 ss. [= Scritti giuridici I (Milano 1986) 85 ss.]; E. LEVY, Pauli Sententiae. A Palin-genesia of the Opening Titles as specimen of Research in West Roman Vulgar Law (Ithaca-New York 1945) vii ss.; M.A. DE DOMINICIS, Di alcuni testi occidentali delle ‘Sententiae’ riflettenti la prassi postclassica, in Studi Arangio Ruiz IV (Napoli 1953) 507 ss.; M. BIANCHI FOSSATI VANZETTI (cur.), Pauli Sententiae. Testo e interpreta-tio (Padova 1995) xiii ss.; A. D’ORS, De nuevo sobre los estratos de las ‘Pauli Senten-tiae’, in BIDR. 98-99 (1995-1996) 1 ss. – ed un dibattito tuttora non del tutto chiuso. La tesi maggiormente seguita è nel senso di considerarle un’antologia di passi paolini (ma anche di altri giuristi) realizzata in Occidente in età dioclezianea e successiva-mente ulteriormente rimaneggiata per accogliere innovazioni normative introdotte nei secoli IV e V; anche se non mancano, pure in tempi recentissimi, inviti a porsi di-nanzi a queste questioni con maggiore cautela, senza escludere a priori la possibilità di riconoscerne la paternità allo stesso Paolo [cfr., in questo senso, proprio recentis-simamente, I. RUGGIERO, Immagini di ius receptum nelle Pauli sententiae, in Studi in onore di R. Martini III (Milano 2010) 425 ss., soprattutto 436 ss.].

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 378

sostanza proprio il pensiero del giurista severiano83), dove è senz’altro più che evidente la netta contrapposizione tra diversa nomina ed una significatio ed il maggior peso di quest’ultima ui primi nella diagnosi sulla validità dell’atto realizzato. s

D. 45.1.136 pr. (Paul. 5 sent.) (= PS. 5.7.2a). Si sub una si-gnificatione diversis nominibus ea res quae in stipulatum deducitur appellatur, non infirmat obligationem, si alter al-tero verbo utatur.

Quando la res che è stata dedotta nella stipulatio può essere

designata, sub una significatione, attraverso più nomi, non in-firmat obligationem l’essersi serviti nella responsio di un nomen differente da quello che è stato impiegato nella interrogatio84.

E, probabilmente, ancora come svolgimento di tali premes-se, deve intendersi la significativa estensione suggerita da Ulpia-no dell’irrilevanza dell’error in nomine85 pure alla stipulatio86,

83#Ed, infatti, il frammento non viene segnalato come sospetto neanche nell’Index

interpolationum III cit. 397. 84

#Sul passo, cfr., praecipue, A. CARCATERRA, Semiotica e linguistica dei giuri-sti romani (esame di testi), in Studi in onore di C. Sanfilippo VI (Milano 1985) 140, che adduce questo testo, insieme ad altri exempla, per dimostrare la consapevole di-stinzione presso i giuristi romani tra il ‘significante’ (ÛËÌ·›ÓÔÓÙ·, esemplificato dal-la ʈӋ o dal ÁÚ¿ÌÌ· dei Greci e dalla vox e dalle litterae dei Latini) ed il ‘significa-to’ (ÛËÌ·ÈÓfiÌÂÓÔÓ, vale a dire il sensus o la significatio).

85#L’irrilevanza dell’error in nomine si trova ripetutamente affermata in rela-zione ai negozi a forma libera ed a quelli non più ripetibili: v. D. 18.1.9.1 (Ulp. 28 ad Sab.), per l’emptio venditio; D. 41.2.34 pr. (Ulp. 7 disp.), in materia di traditio del possesso; D. 28.1.21.1 (Ulp. 2 ad Sab.), D. 30.4 pr. (Ulp. 5 ad Sab.), D. 35.1.17.1 (Gai. 2 de leg. ad ed. praet.) e I. 2.20.29, per gli atti mortis causa. Si tratta di passi in più punti ritoccati dai compilatori, ma in modo da non intaccare la classicità del principio dell’irrilevanza, comune del resto anche alla visione giustinianea [anche se sulla base di una motivazione diversa: cfr., per questo aspetto, U. ZILLETTI, La dot-trina dell’errore nella storia del diritto romano (Milano 1961) 420 ss.]; su questi ed altri passi e sull’error in nomine in generale, cfr., in aggiunta allo studio di Zilletti ora cit.: P. VOCI, L’errore nel diritto romano (Milano 1937) 112 ss. [dello stesso A., cfr. anche s.v. «Errore (diritto romano)», in ED. XV (Milano 1966) 231]; E. BETTI, s.v. «Errore (diritto romano)», in NNDI. VI (Torino 1960) 661; J.G. WOLF, Error im römischen Vertragsrecht (Köln-Graz 1961).

86#In D. 18.1.9 pr.-1 (In venditionibus et emptionibus consensum debere inter-

cedere palam est: ceterum sive in ipsa emptione dissentiant sive in pretio sive in quo alio, emptio imperfecta est. Si igitur ego me fundum emere putarem Cornelianum, tu

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 379

nonostante il rigore che ancora ne caratterizzava, come ben sappiamo, la forma verbale e la necessaria correlativa con-gruenza delle dichiarazioni.

D. 45.1.32 (Ulp. 47 ad Sab.). Si in nomine servi, quem sti-pularemur dari, erratum fuisset, cum de corpore constitis-set, placet stipulationem valere.

Così, se i contraenti avessero sbagliato entrambi a designa-

re il nome dello schiavo, ma non vi fosse stata incertezza sulla sua esatta individuazione, in conseguenza del fatto che l’ogget- to dell’obbligazione fosse comunque ben determinato aliter (ad esempio dalle circostanze nelle quali si era svolto l’atto: si pensi al caso che lo schiavo in questione fosse stato lì presente e lo si fosse potuto quindi indicare con precisione), la stipula-tio era da reputarsi senz’altro valida87; ed al medesimo risultato mihi te vendere Sempronianum putasti, quia in corpore dissensimus, emptio nulla est. Idem est, si ego me Stichum, tu Pamphilum absentem vendere putasti: nam cum in corpore dissentiatur, apparet nullam esse emptionem. 1. Plane si in nomine dissentia-mus, verum de corpore constet, nulla dubitatio est, quin valeat emptio et venditio: nihil enim facit error nominis, cum de corpore constat), Ulpiano stesso, nel ventotte-simo libro del commentario ad Sabinum (in quella parte che non si esita a definire il ‘Trattato di Ulpiano sull’errore’), fissava precisamente i confini dell’error in nomine (non invalidante) e dell’error in corpore (invalidante) nella emptio venditio, che pote-vano talora rischiare di perdere nettezza. Nella compravendita di uno schiavo ab-sent[is], infatti, il dissensus in nomine poteva tradursi in un dissensus in corpore; dove, per converso, la presenza fisica dello schiavo nel luogo in cui la vendita era avvenuta avrebbe permesso di escludere una differenza nell’oggetto del contratto [cfr. M.J. SCHERMAIER, L’errore nella storia del diritto, in Roma e America. Diritto romano comune 24 (2007) 205 s.]. Anche per questa dicotomia nomen/corpus (che era già presente nel pensiero ulpianeo, pure se si espunge da D. 18.1.9.1 il generico enuncia-to finale nihil ... constat e si considera la contrapposizione error in nomine/error in corpore un’espressione tipica della visione bizantina, come fa U. ZILLETTI, La dottrina dell’errore cit. 80 e 420 ss.) – al pari della più dibattuta questione della differenza tra corpus e substantia, risolta dal giurista severiano, nel notissimo passo collocato dai compilatori immediatamente di seguito (D. 18.1.9.2) in relazione al vino ed all’aceto, sulla base dell’ÔéÛ›· Argument [cfr., amplius, M.J. SCHERMAIER, Materia. Beiträge zur Frage der Nathurphilosophie im klassischen römischen Recht (Wien-Köln-Weimar 1992) 155 ss.] – il ragionamento di Ulpiano non sembra (come anche si vedrà nel para-grafo successivo) potersi considerare immune da contaminazioni filosofiche.

87#Cfr. M. KASER, Das römische Privatrecht2 I (München 1971) 239 e nt. 34. A

proposito della prospettiva dalla quale doveva porsi il giurista classico, in rapporto

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 380

– come lascia credere la sententia paolina prima richiamata – il giurista sarebbe giunto pure nel caso di errore commesso da uno soltanto degli stipulanti, a condizione naturalmente che circa l’identicità del corpus non sorgessero dubbi.

Alla base di questa impostazione non si fa fatica ad avver-tire un comune motivo di fondo: la presa d’atto della potenzia-le fallibilità della comunicazione linguistica88; presa d’atto che per converso alla differente interpretazione della regola dell’irrilevanza dell’error in nomine da parte dei compilatori giustinianei, cfr. U. ZILLETTI, La dottrina dell’er- rore cit. 421, che inquadra nell’ambito del problema della certezza (o meno) del- l’oggetto del contratto, e non della rappresentazione subiettiva delle parti, la preoc-cupazione principale di Ulpiano. Un’impostazione simile, in riferimento all’errore in generale, emerge anche in J.G. WOLF, Error cit. 1 ss., e F. WIEAKER, Irrtum, Dis-sens oder gegenstandslose Leistungsbestimmung?, in Mélanges P. Meylan I (Lau- sanne 1963) 383 ss., ai quali soprattutto si deve quella dottrina che, da parte dello stesso Wieaker, è stata denominata «Identifikationstheorie» (p. 393); discussione critica degli argomenti e riserve sono state espresse, peraltro, da P. CORNIOLEY, Er-ror in substantia, in materia, in qualitate, in Studi in onore di G. Grosso cit. II 251 ss. ; per un panorama sulla dottrina dell’errore, in connessione con il problema del consensus, fondamentale il quadro tratteggiato da C. CASCIONE, Consensus. Pro-blemi di origine, tutela processuale, prospettive sistematiche (Napoli 2003) 178 ss., spec. 184 ss., con rinvio a letteratura ulteriore rispetto a quella qui indicata. Senza che sia possibile entrare nel merito di queste ricostruzioni dottrinali, mi limito sol-tanto a ricordare l’importanza di un’avvertenza metodologica già segnalata da G. PROVERA, Note esegetiche in tema di errore, in Studi in onore di P. De Francisci cit. II 161 [ed ancor prima da M. LAURIA, L’errore nei negozi giuridici, in Riv. dir. civ. 19 (1927) 313 ss.], e cioè che ogni tentativo di sistemazione della disciplina dell’er- rore sconta in partenza la difficoltà della dimensione eminentemente casistica che accompagnava ogni valutazione compiuta al riguardo dai giuristi classici.

88#È un problema del quale i giuristi si mostrano perfettamente consapevoli. All’età degli Antonini risale una delle sue più chiare attestazioni in relazione all’interpretazione degli atti di ultima volontà. Tizio, in un codicillo, aveva lasciato a Mevio tutti i suoi iuvenes e Marcello, chiamato a pronunciarsi su chi dovesse inten-dersi per iuvenis, rispose che la questione doveva essere rimessa alla valutazione del giudice, perché non enim in causa testamentorum ad definitionem utique descen-dendum est, cum plerumque abusive loquantur nec propriis nominibus ac vocabulis semper utantur (v. D. 32.69.1); il giurista avvertiva, in altri termini, la difficoltà di ri-farsi sempre ed in ogni caso, per l’interpretazione delle parole addotte dal disponen-te, alla definizione corrente, dal momento che i testatori per lo più usano i termini e le parole in modo inappropriato. Sull’importanza di questo passo, che probabil-mente può inquadrarsi dalla parte di Tuberone nella polemica che vide quest’ultimo contrapposto a Servio nella questione se andasse ricercato il significato obiettivo o individuale dei termini adoperati dalle parti [v. D. 33.10.7.2 (Cels. 19 dig.), passo

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 381

è probabile potesse essere agganciata al dibattito, che aveva ca-ratterizzato trasversalmente l’organizzazione del sapere filoso-fico per tutto il II secolo d.C., intorno al problema dell’origine del linguaggio e, in generale, alla capacità delle parole di poter costituire un valido strumento di conoscenza. Su questo terre-no può, in effetti, esser stato gettato un seme suscettibile di produrre frutti anche nella costruzione giurisprudenziale ed aver contribuito, non soltanto con un ruolo di mera giustifica-zione a posteriori89, all’affermazione di quella tendenza, che abbiamo visto or ora esemplificata dai passi di Fiorentino, Paolo e Ulpiano, a spostare sempre più l’attenzione dai verba in sé e per sé presi al significato ad essi concretamente attribui-to dalle parti negoziali.

5. ... e le possibili sottostanti suggestioni filosofiche. — In ve-rità, è subito doveroso premettere che, secondo la dottrina che questo famosissimo, che sovente ha attirato l’attenzione della dottrina: cfr., tra gli altri: R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano II (Padova 1969) 158 ss., spec. 164 ss.; R. MARTINI, Ancora sul legato di vesti, in Labeo 17 (1971) 157 ss.; R. ASTOLFI, Legato di una categoria economico-sociale, in Labeo 20 (1974) 374 ss.; A. MANTELLO, ‘Beneficium’ servile-‘debitum’ naturale. Sen., de ben. 3.18.1 ss.-D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post. Lab.) (Milano 1979) 243 ss.; O. BEHRENDS, Gesetz und Sprache. Das römische Gesetz unter dem Einfluß der Hellenistischen Philosophie, in Nomos und Gesetz.Ursprünge und Wirkungen des griechischen Gesetzesdenkens. VI Symposion der Kommission‚ Die Funktion des Gesetzes in Geschichte und Ge- genwart, cur. O. BEHRENDS, W. SELLERT (Göttingen 1995) 135 ss., ora in O. BEH- RENDS, Institut und Prinzip I (Göttingen 2004) 91 ss., da cui cito, 156 (per il passo di Celso)], cfr., praecipue, R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani (Milano 1966) 250 ss., 373 e 125 ss. (per la controversia tra Servio e Tuberone); cui adde C. GANDOLFI, Studi sull’interpretazione cit. 58 ss.; R. ASTOLFI, Studi sull’oggetto dei legati II cit. 294 s.

89#Sui rapporti tra la filosofia greca e la giurisprudenza classica e sulla funzione

svolta dalla prima, che, prevalentemente, sarebbe stata quella di giustificare ex post soluzioni giurisprudenziali già ampiamente elaborate e adottate nella prassi, interes-santi osservazioni nella relazione (dal titolo Res, materia, substantia: la concezione del mondo e il diritto romano) tenuta da M.J. SCHERMAIER al XV Convegno Inter-nazionale di Diritto Romano di Copanello Lido (8-11 giugno 2010). In attesa della pubblicazione degli atti del convegno, alcune indicazioni si possono reperire nella mia cronaca apparsa su Iura 59 (2011) 467 ss., spec. 470 s.

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 382

si è occupata da vicino in particolare del passo delle Institutio-nes Florentini90, l’irrilevanza dell’appellationis variatio enuncia-ta in D. 45.1.65.1 implicherebbe un evidente allontanamento proprio da una delle più importanti teorie linguistiche del pen-siero antico, quella elaborata in seno alla secta degli Stoici. Tut-tavia, se questa conclusione – come risulterà meglio più avanti – si può fondamentalmente condividere, non bisogna tuttavia ca-dere nell’errore di immaginare un’assoluta estraneità della ri-flessione giurisprudenziale da tali problematiche, un’eco delle quali può ancora avvertirsi distintamente anche nella soluzione caldeggiata da Fiorentino, almeno sotto il profilo degli strumenti concettuali sottintesi dal giurista, che sembrano invero presup-porre la distinzione, formulata per la prima volta (per quanto ne sappiamo) proprio da uno dei fondatori di quella scuola filo-sofica, Crisippo91, tra ÛËÌ·›ÓÔÓÙ· e ÛËÌ·ÈÓfiÌÂÓ·92, portato es-senziale della cd. ‘teoria stoica del significato’ (Ùe ÏÂÎÙfiÓ).

90#Cfr. S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino cit. 231 ss., che (anche) sulla scorta

di questo brano, giunge ad etichettare (a p. 207) Fiorentino come uno «stoico im-perfetto». Secondo l’A., in particolare, l’interesse degli Stoici verso queste proble-matiche sarebbe dipeso dallo stretto legame ritenuto fra logos e linguaggio, così che, in relazione precisamente alla soluzione accolta in D. 45.1.65.1, se ne potrebbe de-durre che, «qualora il giurista avesse ritenuto plausibile – sulla scia di influenze stoiche – una relazione biunivoca fra logos e vocabolo, non avrebbe certo potuto accogliere il principio che la variazione dell’appellatio non fosse d’ostacolo alla in-dividuazione della res o della persona» (p. 236).

91#Senza il quale – affermava un verso che circolava già tra i suoi contempora-

nei – non ci sarebbe stata la Stoa: v. Diog. Laërt. 7.183, in S.F.V. 2.6.38 [= J. AB AR-

NIM, Stoicorum veterum fragmenta II (Stutgardiae 1964) 3]: Eå Ìc ÁaÚ qÓ ÃÚ‡- ÛÈÔ˜, ÔéÎ iÓ qÓ ™ÙÔ¿. Su Crisippo, considerato con Zenone uno dei padri fonda-tori della scuola stoica, cfr., per tutti, M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimen-to spirituale I (trad. it. Firenze 1967) 39 ss. (per notizie biografiche) e 58 ss. (per il suo contributo alle dottrine stoiche del linguaggio); in generale, a proposito delle teorie linguistiche degli stoici, cfr., amplius, lo studio di C. ATHERTON, The Stoics on ambiguity (Cambridge 1993) 93 ss.]. Sull’interesse dei giuristi romani verso tali aspetti, cfr. le sintetiche considerazioni di A. CARCATERRA, Semantica degli enun-ciati normativo-giuridici romani. Interpretatio iuris (Bari 1972) 11 ss.

92#Per Crisippo, tutta la dialettica si risolveva, infatti, nell’indagine sui ÛËÌ·›-

ÓÔÓÙ· e sui ÛËÌ·ÈÓfiÌÂÓ·; v. Diocles Magnes apud Diog. Laërt. 7.62, in S.F.V. 2.122.5-6 [= J. AB. ARNIM, Stoicorum II cit. 38]: T˘Á¯¿ÓÂÈ ‰b ·≈ÙË [i.e. ‰È·ÏÂÎÙÈÎc], ó˜ ï ÃÚ‡- ÛÈfi˜ ÊËÛÈ, ÂÚd ÛËÌ·›ÓÔÓÙ· ηd ÛËÌ·ÈÓfiÌÂÓ·.

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 383

Sulla scorta di quanto riferitoci dal filosofo scettico Sesto Empirico (v. Adv. math. 8.1.11), che scriveva (verosimilmen-te93) proprio in quel torno di anni e nella veste in realtà di de-trattore di tale approccio metodologico, con i primi (ÛËÌ·›- ÓÔÓÙ·) gli Stoici erano soliti designare il semplice suono della voce, ad esempio ‘Dione’ (zÓ ÛËÌ·ÖÓÔÓ ÌbÓ ÂrÓ·È ÙcÓ ÊˆÓ‹Ó, ÔxÔÓ ÙcÓ «¢›ˆÓ»); con i secondi (ÛËÌ·ÈÓfiÌÂÓ·), invece, la rap-presentazione mentale della res espressa dalla voce, il cui con-cetto era in questo modo reso manifesto agli interlocutori, concetto che invece gli stranieri (Ôî ‚¿Ú‚·ÚÔÈ), che ignoravano la lingua greca, non riuscivano a comprendere, anche se udi-vano correttamente la voce (Ùe ÚÄÁÌ· Ùe ñ’·éÙɘ ‰ËÏÔ‡- ÌÂÓÔÓ Î·d Ôy ìÌÂÖ˜ ÌbÓ àÓÙÈÏ·Ì‚·ÓfiÌ©· ÙFÉ ìÌÂÙ¤Ú÷· ·Ú˘ÊÈ- Ûٷ̤ÓÔ˘ ‰È·ÓÔ›÷·, Ôî ‰b ‚¿Ú‚·ÚÔÈ ÔéÎ â·˝Ô˘ÛÈ Î·›ÂÚ Ùɘ ʈÓɘ àÎÔ‡ÔÓÙ˜); da entrambi dovevano, poi, essere tenu- ti distinti i veri e propri oggetti della realtà, denominati Ù˘Á- ¯¿ÓÔÓÙ· (Ù˘Á¯¿ÓÔÓ ‰b Ùe âÎÙe˜ ñÔΛÌÂÓÔÓ, œÛÂÚ ·éÙe˜ ï

93#L’incertezza trae origine dal fatto che disponiamo di scarsissime notizie sul-

la sua vita e non molto è possibile dedurre, a questo scopo, dai pochi spunti auto-biografici che qua e là emergono nei suoi scritti; gli elementi testuali più affidanti provengono da alcune citazioni contenute nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio (9.87 e 116), che lascerebbero propendere per collocare l’acme della sua attività sul finire del II secolo d.C. (all’incirca tra il 180 ed il 190 d.C.) [cfr., in questo senso: H. VON ARNIM, s.v. «Sextus Empiricus», in PWRE. II.A2 (Stuttgart 1923) col. 2057 ss.; A. RUSSO, Sesto Empirico. Contro i matematici – libri I-VI. Introduzione, tradu-zione e note (Bari 1972) xxxix; L. FLORIDI, Sextus Empiricus. The transmission and Recovery of Pyrrhonism (Oxford 2002) 4 s., con una dettagliata discussione di tutti i dati utili] o, al più tardi nei primi decenni del III (tra il 200 ed il 220) [cfr. S. MAZ-ZARINO, Diritto e fonti letterarie: sulla datazione di alcuni testi fondamentali, in BIDR. 65 (1962) 65, che lo pone tra il 200 e 230; D.K. HOUSE, The life of Sextus Empiricus, in Classical Quarterly 30 (1980) 227 ss.; F. ADORNO, La filosofia antica IV. Cultura, filosofia, politica e religiosità nel II-VI secolo d.C. (rist. Milano 1992) 164 nt. 29]; anche M. DAL PRA, Lo scetticismo greco2 II (Bari 1975) 463 (a cui ri-mando anche per la tesi, rimasta però isolata, che anticipa addirittura all’età di Traiano la collocazione temporale di Sesto: v. p. 462 e nt. 4), e A. MANTELLO, Le ‘classi nominali’ per i giuristi romani. Il caso d’Ulpiano, in SDHI. 61 (1995) 240 nt. 63, sono dell’idea di inquadrare il periodo centrale della vita di Sesto entro questi due estremi e cioè tra il 180 ed il 220 d.C.; più indeterminata, invece, la posizione di G. REALE, Storia della filosofia greca e romana3 VI (Milano 2010) 171 nt. 1, che ne colloca la vita nella seconda metà del II secolo d.C. e la morte agli inizi del III.

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 384

¢›ˆÓ)94. Lasciando da parte questi ultimi, ai fini del nostro di-scorso è importante cominciare a mettere a fuoco come, anco-ra sul finire del II secolo d.C. (o addirittura in principio del III, secondo la collocazione temporale che delle opere di Sesto si predilige), uno dei cardini della dialettica della Stoa antica95 – e cioè l’essere ogni proposizione linguistica costituita da una duplicità di livelli, che, utilizzando una terminologia tipica del-la moderna semiotica, possiamo rispettivamente chiamare ‘si-gnificanti’ e ‘significati’96 – costituisse argomento attuale di di-scussione, sia pure per essere reso bersaglio di critiche.

Volgendo lo sguardo più a ritroso, già Aristotele, nel pri-mo capitolo del De interpretatione (16a.3 ss.)97, aveva distinto,

94#S.F.V. 2.166.16-22 (= J. AB ARNIM, Stoicorum II cit. 48).

95#Con riguardo in generale alla dialettica degli Stoici, numerosi sono gli studi

che si possono consultare; nell’impossibilità di richiamarli qui in modo esaustivo, fornisco un’indicazione di massima, rinviando alle note bibliografiche che in que- sti lavori si possono trovare: cfr., ex plurimis, C.A. VIANO, La dialettica stoica, in AA.VV., Studi sulla dialettica (Torino 1958) 63 ss.; M. MIGNUCCI, Il significato della logica stoica (Bologna 1965) passim; B. MATES, Stoic Logic2 (Berkeley-Los Angeles 1973) passim; M. FREDE, Die stoische Logik (Göttingen 1974) passim; i sin-goli studi raccolti in Les Stoïciens et leur logique2, dir. J. BRUNSCHWIG (Paris 2006).

96#Questi concetti sono stati teorizzati compiutamente per la prima volta nel

principio del secolo scorso, nelle lezioni ginevrine di Ferdinand de Saussure (poi confluite nel Cours de linguistique générale, pubblicato nel 1922 sulla base degli ap-punti presi dagli allievi durante i corsi tenuti dall’insigne studioso negli anni che vanno dal 1907 al 1911): cfr. F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale18 (trad. it. Bari 2003) 83 ss.; ma – come abbiamo visto – questa distinzione si ritrova in nuce già nella Stoa più antica ed in Crisippo precisamente.

97#òEÛÙÈ ÌbÓ ÔsÓ Ùa âÓ ÙFÉ ÊˆÓFÉ ÙáÓ âÓ ÙFÉ „˘ FÉ ·©ËÌ¿ÙˆÓ Û‡Ì‚ÔÏ·, ηd Ùa

ÁÚ·ÊfiÌÂÓ· ÙáÓ âÓ ÙFÉ ÊˆÓFÉ. K·d œÛÂÚ Ôé‰b ÁÚ¿ÌÌ·Ù· ÄÛÈ Ùa ·éÙ¿, Ôé‰b ʈӷd ·î ·éÙ·›Ø zÓ Ì¤ÓÙÔÈ Ù·ÜÙ· ÛËÌÂÖ· ÚÒÙˆÓ, Ù·éÙa ÄÛÈ ·©‹Ì·Ù· Ùɘ „˘¯É˜, ηd zÓ Ù·ÜÙ· ïÌÔÈÒÌ·Ù·, Ú¿ÁÌ·Ù· õ‰Ë Ù·éÙ¿ ... òEÛÙÈ ‰’, œÛÂÚ âÓ ÙFÉ „˘ FÉ ïÙb ÌbÓ ÓfiËÌ· ôÓ¢ ÙÔÜ àÏ˩‡ÂÈÓ j „‡‰ÂÛ©·È, ïÙb ‰b õ‰Ë z àÓ¿ÁÎË ÙÔ‡ÙˆÓ ñ¿Ú¯ÂÈÓ ©¿ÙÂÚÔÓ, Ô≈Ùˆ ηd âÓ ÙFÉ ÊˆÓFÉ [per maggiore comodità di lettura, riporto qui di seguito la trad. it. del passo che si può leggere in Aristotele. Organon3, cur. G. COLLI (Milano 2011) 57: «Ordunque, i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luo-go nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i mede-simi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tut-ti ... D’altro canto, come nell’anima talvolta sussiste una nozione, che prescinde dal vero o dal falso, e talvolta invece sussiste qualcosa, cui spetta necessariamente o di

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 385

a questo proposito, due piani, separando i suoni vocali (Ùa âÓ ÙFÉ ÊÔÓFÉ) o le lettere scritte (Ùa ÁÚ·ÊfiÌÂÓ·), segni non univoci per tutti, dalle affezioni dell’anima (Ùa ·©‹Ì·Ù· Ùɘ „˘¯É˜) da essi generate, identiche viceversa per ogni individuo98, allo scopo di far emergere, sebbene da un punto di vista logico-funzionale e non ontologico come invece avrebbero in seguito teorizzato gli Stoici99, il carattere necessariamente relativo100 del rapporto che legava la forma al contenuto dello strumento linguistico101. Questa separatezza del linguaggio dalla dimen-sione della realtà, che caratterizzava la concezione peripatetica, essere vero o di essere falso, così avviene pure per quanto si trova nel suono della vo-ce»]. Per un analitico commento di questo passo, cfr. C.W.A. WHITAKER, Aristotle’s De interpretatione. Contradiction and dialectic (Oxford 1996) 9 ss.

98#Come scrive D. DI CESARE, La semantica nella filosofia greca (Roma 1980)

163, «oggetto di riflessione è in questo passo il rapporto interno al segno linguistico forma-contenuto ..., in termini moderni significante-significato (anche se questa terminologia non è del tutto adeguata)».

99#Cfr., su questo punto, E. RIVERSO, Il linguaggio nel pensiero filosofico e pe-

dagogico del mondo antico (Roma 1973) 109 ss.; D. DI CESARE, La semantica cit. 100#La possibilità di ingannarsi a causa delle parole che, pertanto, ne consegue

è ribadita da Aristotele in De soph. elench. 7 (169a.30 s. e 36 ss.): ÷ÏÂeÓ ÁaÚ ‰ÈÂÏÂÖÓ ÔÖ· óÛ·‡Ùˆ˜ ηd ÔÖ· ó˜ ëÙ¤Úˆ˜ ϤÁÂÙ·È ... ¢Èe ηd ÙáÓ ·Úa ÙÉÓ Ï¤ÍÈÓ ÔyÙÔ˜ ï ÙÚfiÔ˜ ©ÂÙ¤Ô˜, ÚáÙÔÓ ÌbÓ ¬ÙÈ ÌÄÏÏÔÓ ì à¿ÙË Á›ÓÂÙ·È ÌÂÙ’ôÏÏˆÓ ÛÎÔÔ˘Ì¤ÓÔȘ j η©’·ñÙÔ‡˜ (ì ÌbÓ ÁaÚ ÌÂÙ’ôÏÏÔ˘ ÛΤ„Ș ‰Èa ÏfiÁˆÓ, ì ‰b η©’·ñÙeÓ Ôé¯ wÙÙÔÓ ‰È’·éÙÔÜ ÙÔÜ Ú¿ÁÌ·ÙÔ˜) [«Infatti è difficile distinguere quali cose si dicono nello stesso modo e quali in modo diverso ... Perciò questo modo deve porsi tra quelli che si costituiscono in seguito all’espressione: innanzitutto perché l’errore si origina in misura maggiore quando si effettua l’indagine assieme ad altri che da se stessi (in-fatti la ricerca insieme a un altro <si compie> per mezzo di discorsi, mentre quella personale <si compie>, in misura non minore, mediante la cosa stessa)» – trad. it. di M. ZANATTA, Aristotele. Le confutazioni sofistiche2 (Milano 2000) 151]. Sul caratte-re convenzionale del segno linguistico nel pensiero aristotelico, cfr., ex multis, G. FANO, Saggio sulle origini del linguaggio (Torino 1962) 206 s.; I. DÜRING, Aristote-le (trad. it. Milano 1976) 104.

101#Cfr., ancora, D. DI CESARE, La semantica cit. Secondo E. RIVERSO, Il lin-

guaggio nel pensiero filosofico cit. 87, «qui è chiaro che si cerca di risolvere un pro-blema fondamentale posto dall’esistenza di diverse lingue: com’è possibile la comu-nicazione e com’è possibile che il linguaggio abbia una portata oggettiva, se si pre-senta in forme così diverse come sono diverse fra loro le lingue?». Il carattere con-venzionale è espressamente ribadito da Aristotele nell’inizio del secondo capitolo del De interpretatione (16a.19 s.): ≠OÓÔÌ· ÌbÓ ÔsÓ âÛÙd ʈÓc ÛËÌ·ÓÙÈÎc ηÙa Û˘Ó- ©‹ÎËÓ ôÓ¢ ¯ÚfiÓÔ˘, w˜ ÌˉbÓ Ì¤ÚÔ˜ âÛÙd ÛËÌ·ÓÙÈÎeÓ Î¯ˆÚÈṲ̂ÓÔÓ.

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risaltava ancor più nitidamente in un ampio stralcio del pri- mo capitolo delle Confutazioni Sofistiche (v. De soph. elench. 165a.6-17), in cui il filosofo di Stagira, nel tracciare la distin-zione tra linguaggio verbale e linguaggio numerico, metteva in guardia dai limiti intrinseci degli çÓfiÌ·Ù·, se raffrontati con l’infinità dei Ú¿ÁÌ·Ù·, chiosando come fossero più numerose le cose rispetto alle parole che le designano e pertanto inevita-bile che con un unico nome si denominassero più oggetti (Ta ÌbÓ ÁaÚ çÓfiÌ·Ù· ¤ڷÓÙ·È Î·d Ùe ÙáÓ ÏfiÁˆÓ ÏÉ©Ô˜, Ùa ‰b Ú¿ÁÌ·Ù· ÙeÓ àÚÈ©ÌeÓ ôÂÈÚ¿ âÛÙÈÓ. \AÓ·ÁηÖÔÓ ÔsÓ Ï›ˆ ÙeÓ ·éÙeÓ ÏfiÁÔÓ Î·d ÙÔûÓÔÌ· Ùe íÓ ÛËÌ·›ÓÂÈÓ)102. È, questo, un inci-

102#Riporto, qui di seguito, il brano per esteso per cogliere anche il contesto

della citazione: \EÂd ÁaÚ ÔéÎ öÛÙÈÓ ·éÙa Ùa Ú¿ÁÌ·Ù· ‰È·Ï¤ÁÂÛ©·È ʤÚÔÓÙ·˜, àÏÏa ÙÔÖ˜ çÓfiÌ·ÛÈÓ àÓÙd ÙáÓ Ú·ÁÌ¿ÙˆÓ ¯ÚÒÌ©· ó˜ Û˘Ì‚fiÏÔȘ, Ùe Û˘Ì‚·ÖÓÔÓ âd ÙáÓ çÓÔÌ¿ÙˆÓ Î·d âd ÙáÓ Ú·ÁÌ¿ÙˆÓ ìÁԇ̩· Û˘Ì‚·›ÓÂÈÓ, η©¿ÂÚ âd ÙáÓ „‹ÊˆÓ ÙÔÖ˜ ÏÔÁÈ˙Ô̤ÓÔȘ. Te ‰’ÔéÎ öÛÙÈÓ ¬ÌÔÈÔÓØ Ùa ÌbÓ ÁaÚ çÓfiÌ·Ù· ¤ڷÓÙ·È Î·d Ùe ÙáÓ ÏfiÁˆÓ ÏÉ©Ô˜, Ùa ‰b Ú¿ÁÌ·Ù· ÙeÓ àÚÈ©ÌeÓ ôÂÈÚ¿ âÛÙÈÓ. \AÓ·ÁηÖÔÓ ÔsÓ Ï›ˆ ÙeÓ ·éÙeÓ ÏfiÁÔÓ Î·d ÙÔûÓÔÌ· Ùe CÓ ÛËÌ·›ÓÂÈÓ. ≠øÛÂÚ ÔyÓ ÎàÎÂÖ Ôî Ìc ‰ÂÈÓÔd Ùa˜ „‹ÊÔ˘˜ ʤÚÂÈÓ ñfi ÙáÓ âÈÛÙËÌfiÓˆÓ ·Ú·ÎÚÔ‡ÔÓÙ·È, ÙeÓ ·éÙeÓ ÙÚfiÔÓ Î·d âd ÙáÓ ÏfiÁˆÓ Ôî ÙáÓ çÓÔÌ¿ÙˆÓ Ùɘ ‰˘Ó¿Ìˆ˜ ôÂÚÔÈ ·Ú·ÏÔÁ›˙ÔÓÙ·È Î·d ·éÙÔd ‰È·ÏÂÁfiÌÂÓÔÈ Î·d ôÏÏˆÓ àÎÔ‡ÔÓÙ˜ («Poiché infatti non è possibile discutere addu-cendo le cose stesse, ma ci serviamo dei nomi come di simboli in luogo delle cose, riteniamo che quel che accade per i nomi accada anche per le cose, come nel caso dei ciottoli per coloro che calcolano. Ma la somiglianza non sussiste: infatti i no-mi e la quantità dei discorsi sono limitati, invece le cose sono infinite di numero. Pertanto è necessario che il medesimo discorso e l’unico nome significhino più cose. Come dunque anche nel caso precedente coloro che non sono abili a sposta-re i ciottoli sono ingannati da coloro che lo sanno <fare>, nello stesso modo anche in quello dei discorsi coloro che sono inesperti della capacità dei nomi incappano in paralogismi, sia quando discutono essi stessi, sia quando ascoltano altri» – Trad. it. tratta da M. ZANATTA, Aristotele. Le confutazioni sofistiche2 cit. 121). Un articolato commento di questo passo si può leggere in D. DI CESARE, La semantica cit. 182 ss. Può essere inoltre interessante evidenziare che questo squarcio aristotelico è ritenu-to aver lasciato tracce nella scrittura di Ulpiano (v. D. 19.5.4, a proposito del quale considerazioni infra in questo stesso paragrafo), al punto da poter costituire un e-sempio di quello sfondo culturale dal quale Ulpiano avrebbe «mutuato la correla-zione ‘vera-simulata philosophia’» nel famoso e tanto discusso D. 1.1.1.1 [la lette-ratura sull’argomento è estesissima; cfr., per tutti e per richiamare qui solo alcuni degli studi più recenti: A. MANTELLO, Un illustre sconosciuto tra filosofia e prassi giuridica Eufrate d’Epifania, in Sodalitas. Scritti in onore di A Guarino II (Napoli 1984) 963 ss., spec. 978 ss., dove in verità si propone una differente chiave di let-tura e si ipotizza che la polemica ulpianea fosse rivolta contro Origene e contro le

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so importante, che, come si vedrà, ritroveremo richiamato, qua-si testualmente, da Ulpiano, in tal modo avendo una prova della familiarità del giurista severiano verso tali discussioni. Per il momento, limitiamoci a notare che il problema non era estra-neo nemmeno alla riflessione stoica, se è vero che lo stesso Cri-sippo, qualche tempo dopo Aristotele, aveva finito per conve-nirne, con l’avvertire – stando a Gell. 11.12103 – che omne ver-bum ambiguum natura es[t], quoniam ex eodem duo vel plura accipi possunt. Ciò nondimeno, il segno linguistico conservava, nella tradizione di marca stoica, un’evidenza semantica, tanto da considerarsi possibile che ¿ÓÙ· ÁaÚ Ùa Ú¿ÁÌ·Ù· ‰Èa Ùɘ âÓ ÏfiÁÔȘ ©ÂˆÚ›·˜ ïÚÄÛ©·È104, in quanto ciò che differisce l’uomo dagli animali non è tanto il ÏfiÁÔ˜ ÚÔÊÔÚÈÎfi˜ (dacché anche i corvi, i pappagalli e le gazze emettono voci articolate), ma quel-lo âӉȿ©ÂÙÔ˜, cioè mentale: avendo il concetto (l’öÓÓÔÈ·), egli ha subito la intellezione del segno (ÛËÌ›Ԣ ÓfiËÛȘ)105. correnti neoplatoniche ebraico-cristiane; M. SCHERMAIER, Ulpian als ‘wahrer Phi-losoph’. Notizien zum Selbstverständnis eines römischen Juristen, in Ars boni et aequi. Festschrift für W.Waldstein zum 65. Geburstag (Stuttgart 1993) 301 ss.; W. WALDSTEIN, Römische Rechstwissenschaft und wahre Philosophie, in Index 22 (1994) 31 ss.; ID., Zum Problem der vera philosophia bei Ulpian, in Collatio II cit. 607 ss.; U. MANTHE, Beiträge zur Entwicklung des antiken Gerechtigkeitsbegrif- fes II: Stoische Würdigkeit und die iuris praecepta Ulpians, in ZSS. 114 (1997) 1 ss., che vede punti di contatto con alcuni passi talmudici; A. SCHIAVONE, Giuristi e Principe nelle Istituzioni di Ulpiano. Un’esegesi, in SDHI. 69 (2003) 3 ss., spec. 21 e nt. 43; G. FALCONE, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’. Sulla raffi- gurazione ulpianea dei giuristi (D. 1.1.1.1), in AUPA. 49 (2004) 66; V. MAROTTA, Iustitia, vera philosophia e natura. Una nota sulle Institutiones di Ulpiano, in Testi e problemi del giusnaturalismo romano, cur. D. MANTOVANI, A. SCHIAVONE (Pavia 2007) 563 ss., con rinvio ad altra letteratura ivi richiamata e discussa; di quest’A. cfr. già Multa de iure sanxit. Aspetti della politica del diritto di Antonino Pio (Milano 1988) 135].

103#Gell. 11.12, in S.F.V. 2.152.29-30 (J. AB ARNIM, Stoicorum II cit. 45).

104#Diog. Laërt. 7.83, in S.F.V. 2.130.39-1 (J. AB ARNIM, Stoicorum II cit. 39 s.).

105#Sext. Emp. Adv. math. 8.3.275, in S.F.V. 2.135.18-22 (J. AB ARNIM, Stoico-

rum II cit. 43); v. anche S.F.V. 2.223.1-8 (J. AB ARNIM, Stoicorum II cit. 74). Sul- l’estraneità alla scuola stoica più antica della distinzione tra ÏfiÁÔ˜ ÚÔÊÔÚÈÎfi˜ e âӉȿ©ÂÙÔ˜, nonché sulle perplessità relative alla sua formulazione da parte degli Stoici, ben potendo essere stati i loro avversari ad inserirla nel dibattito in questi termini, sebbene essa possa senz’altro essere considerata come «uno sviluppo delle

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Alla base di questa fiducia degli Stoici sulla capacità degli çÓfiÌ·Ù· di ritrarre fedelmente la realtà v’era, quale premessa teorica, il posizionarsi degli appartenenti a quella scuola, in re-lazione ad una querelle sull’origine del linguaggio che aveva (come ben documenta Platone106) radici lontane ma che mo- premesse» emerse nell’ambito di quella impostazione, cfr. M. POHLENZ, La Stoa cit. 61 e nt. 6.; per la sua riconducibilità agli Stoici, cfr. anche O. BEHRENDS, Gesetz und Sprache cit. 148 s.

106#Alla questione dell’origine del linguaggio (rectius, al problema dell’çÚ©fiÙ˘ çÓÔÌ¿ÙˆÓ, cioè della correttezza dei nomi intesa come capacità di raffigurare la real-tà: così D. DI CESARE, La semantica cit. 90) Platone aveva dedicato un dialogo inte-ro, il Cratilo, nel quale aveva messo in bocca agli interlocutori le teorie che si divi-devano fin da allora il campo, quella convenzionalistica difesa nel dialogo da Ermo-gene e quella naturalistica sostenuta da Cratilo [per la loro riconduzione rispettiva-mente alla dottrina dei Megarici e dei Cinici, cfr. N. ABBAGNANO, Dizionario di fi-losofia3 (Torino 1998) 643 ss.; cfr., altresì, P. MATTHEWS, La linguistica greco-latina, in Storia della linguistica, cur. G.C. LEPSCHY I (Bologna 1990) 203, che inquadra la disputa «nel contesto di una generale opposizione, nel pensiero del V secolo, tra ‘legge’ (nómos) e ‘natura’ (phúsis)»]. Così, se da una parte Ermogene faceva dipen-dere la nascita delle parole da un mero accordo tra gli uomini [v. Crat. 384 c-d: EPMO°ENH™ – K·d ÌcÓ öÁˆÁÂ, t ™ÒÎÚ·Ù˜, ... Ôé ‰‡Ó·Ì·È ÂÈÛ©ÉÓ·È ó˜ ôÏÏË ÙȘ çÚ©fiÙ˘ çÓfiÌ·ÙÔ˜ j Û˘Ó©‹ÎË Î·d ïÌÔÏÔÁ›·. \EÌÔd ÁaÚ ‰ÔÎÂÖ ¬ÙÈ ôÓ Ù›˜ Ùˇ ©ÉÙ·È ùÓÔÌ·, ÙÔÜÙÔ ÂrÓ·È Ùe çÚ©fiÓØ Î·d iÓ ·s©›˜ Á ≤ÙÂÚÔÓ ÌÂÙ·©ÉÙ·È, âÎÂÖÓÔ ‰b ÌËΤÙÈ Î·ÏFÉ, Ô˘‰bÓ wÙÙÔÓ Ùe ≈ÛÙÂÚÔÓ çکᘠö¯ÂÈÓ ÙÔÜ ÚÔÙ¤ÚÔ˘, œÛÂÚ ÙÔÖ˜ ÔåΤٷȘ ìÌÂÖ˜ ÌÂÙ·ÙÈ©¤Ì©·Ø Ôé ÁaÚ Ê‡ÛÂÈ ëοÛÙˆ ÂÊ˘ÎÂÓ·È ùÓÔÌ· Ôé‰bÓ Ôé‰ÂÓ›, àÏÏa ÓfiÌ ˇ ηd ö©ÂÈ ÙáÓ â©ÈÛ¿ÓÙˆÓ Ù ηd ηÏÔ‡ÓÙˆÓ. Trad. it. tratta da Platone. Tutte le opere2, cur. E.V. MALTESE (Roma 2010) 229 ss.: «ERMOGENE – Ma io, o Socrate, ... non posso convincermi che esista altra correttezza di nome se non la convenzione e l’accordo comune. A me pare infatti che quando uno dà il nome a qualcosa, questo sia il nome giusto: e se poi ne mette al suo posto un altro, e non la chiama più con quello, l’ultimo nome non è affatto meno giusto del primo, come quando noi cam-biamo nome ai nostri servi, non per nulla questo nome cambiato è meno giusto di quello di prima. Infatti per natura non c’è cosa alcuna che abbia nome, ma soltanto per la regola e la consuetudine di coloro che si sono abituati a chiamarla in una de-terminata maniera»], dall’altra Cratilo si richiamava ad un principio di natura che rendeva ogni nome giusto di per sé, tanto per i Greci che per gli stranieri [v. Crat. 390 d-e: ™øKPATH™ – KÈÓ‰˘Ó‡ÂÈ ôÚ·, t \EÚÌfiÁÂÓ˜, ÂrÓ·È Ôé Ê·ÜÏÔÓ, ó˜ Ûf ÔúÂÈ, ì ÙÔÜ çÓfiÌ·ÙÔ˜ ©¤ÛȘ, Ôé‰b Ê·‡ÏˆÓ àÓ‰ÚáÓ Ôé‰b ÙáÓ âÈÙ˘¯fiÓÙˆÓ. K·d KÚ·Ù‡ÏÔ˜ àÏË©É Ï¤ÁÂÈ Ï¤ÁˆÓ ʇÛÂÈ Ùa çÓfiÌ·Ù· ÂrÓ·È ÙÔÖ˜ Ú¿ÁÌ·ÛÈ, ηd Ôé ¿ÓÙ· ‰ËÌÈÔ˘ÚÁeÓ çÓÔÌ¿ÙˆÓ ÂrÓ·È, àÏÏa ÌfiÓÔÓ âÎÂÖÓÔÓ ÙeÓ àԂϤÔÓÙ· Âå˜ Ùe ÙFÉ Ê‡ÛÂÈ ùÓÔÌ· kÓ ëοÛÙˆ ηd ‰˘Ó¿ÌÂÓÔÓ ·éÙÔÜ Ùe Âr‰Ô˜ ÙÈ©¤Ó·È Âú˜ Ù Ùa ÁÚ¿ÌÌ·Ù· ηd Ùa˜ Û˘ÏÏ·‚a˜. Trad. it. tratta da Platone cit. 241: «SOCRATE – C’è ben da supporre dunque, o Er-mogene, che non sia cosa di poco conto l’apposizione del nome, come tu pensi, né per uomini da poco, né per il primo che capita, e dice bene Cratilo sostenendo che

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strava ancora tangibili segni di vitalità nel II secolo d.C.107, dalla parte dell’assunto che107i nomi sono stati dati alle cose se- gli oggetti traggono i nomi dalla natura e che non tutti sono artefici di nomi, ma so-lo chi si attiene a quello che è per natura il nome per ogni singolo oggetto e che è in grado di introdurre l’idea sia nelle lettere che nelle sillabe»]. Platone, invece, faceva enunciare a Socrate una sorta di mediazione tra le due posizioni, per la quale i nomi sono stati attinti dalla natura delle cose da un legislatore [v. Crat. 388 b-c ed e: ™øKPATH™ – òOÓÔÌ· ôÚ· ‰È‰·ÛηÏÈÎfiÓ Ù› âÛÙÈÓ ùÚÁ·ÓÔÓ Î·d ‰È·ÎÚÈÙÈÎeÓ Ùɘ ÔéÛ›·˜ œÛÂÚ ÎÂÚÎd˜ ñÊ¿ÛÌ·ÙÔ˜; ... ™øKPATH™ – NÔÌÔ©¤ÙÔ˘ ôÚ· öÚÁˆ ¯Ú‹ÛÂÙ·È ï ‰È‰·Ûη- ÏÈÎe˜ ¬Ù·Ó çÓfiÌ·ÙÈ ¯ÚÉÙ·È. Trad. it. tratta da Platone cit. 237: «SOCRATE – Il nome dunque è un mezzo atto a insegnare e a farci cogliere l’essenza, come fa la spola con il tessuto? ... SOCRATE – Il maestro dunque quando si serve del nome dovrà fare uso dell’opera del legislatore»; 435 c-d: ™øKPATH™ – ... \EÌÔd ÌbÓ ÔsÓ Î·d ·éÙá àÚ¤ÛÎÂÈ ÌbÓ Î·Ùa Ùe ‰˘Ó·ÙeÓ ¬ÌÔÈ· ÂrÓ·È Ùa çÓfiÌ·Ù· ÙÔÖ˜ Ú¿ÁÌ·ÛÈÓØ àÏÏa Ìc ó˜ àÏË©á˜, Ùe ÙÔÜ ^EÚÌÔÁ¤ÓÔ˘˜, Áϛۯڷ Fq ì ïÏÎc ·≈ÙË Ùɘ ïÌÔÈfiÙËÙÔ˜, àÓ·ÁηÖÔÓ ‰b Fq ηd Ù ˇá ÊÔÚÙÈÎá ÙÔ‡Ùˆ ÚÔÛ¯ÚÉÛ©·È, ÙFÉ Û˘Ó©‹ÎFË, Âå˜ çÓÔÌ¿ÙˆÓ çÚ©fiÙËÙ·. \EÂd úÛˆ˜ ηٿ Á Ùe ‰˘Ó·ÙeÓ Î¿ÏÏÈÛÙ’iÓ Ï¤ÁÔÈÙÔ ¬Ù·Ó õ ÄÛÈÓ õ ó˜ Ï›ÛÙÔȘ ïÌÔ›ÔȘ ϤÁËÙ·È, ÙÔÜÙÔ ‰’âÛÙd ÚÔÛ‹ÎÔ˘ÛÈÓ, ·¥Û¯ÈÛÙ· ‰b ÙÔéÓ·ÓÙ›ÔÓ. Trad. it. tratta da Platone cit. 313: «SOCRATE – ... Anche a me certo dà particolare soddisfazione che i nomi, per quan-to è possibile, siano simili agli oggetti. Ma facciamo attenzione che questa attrazio-ne della somiglianza non sia veramente, come dice Ermogene, vischiosa, e che non sia poi necessario avvalersi della goffa convenzione, per la correttezza dei nomi. Giacché probabilmente ci si esprimerebbe nella maniera migliore, qualora si parlas-se con elementi o tutti o in massima parte simili, cioè adeguati agli oggetti»]. Sul fat-to che entrambe le soluzioni contrapposte – origine naturalistica o convenzionali-stica dei nomi – pervenissero, di fatto, al medesimo risultato dell’esattezza del rap-porto semantico e sulla sua fallibilità invece secondo il pensiero di Platone, cfr., funditus, N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia3 cit. 643 s. e 649; nello stesso sen-so, anche P. MATTHEWS, La linguistica greco-latina cit. 209. Per la distanza che se-parerebbe la posizione di Aristotele da quella di Platone, distanza che dipenderebbe sostanzialmente dal rifiuto del primo di riconoscere un fondamento ontologico del linguaggio, cfr. I. DÜRING, Aristotele cit. 80 s.; anche se si può concordare nel rite-nere la derivazione da Platone delle nozioni fondamentali del problema [cfr., a que-sto proposito, G. MORPURGO-TAGLIABUE, Linguistica e stilistica di Aristotele (Ro- ma 1967) 37 ss.].

107#Ciò si evince, ad esempio, dalla ripresa di Gellio delle dottrine filonaturali-

stiche di Nigidio Figulo, grammatico neopitagorico che sappiamo essere stato ami-co di Cicerone (in Ep. ad fam. 4.13.3, Cicerone lo definisce omnium doctissim[us] et sanctissim[us] et maxima quondam gratia et mihi certe amicissim[us]. Per informa-zioni su di lui, cfr., passim, A. DELLA CASA, Nigidio Figulo [Roma 1962]), v. Gell. 10.4.1-3: 1. Nomina verbaque non positu fortuito, sed quadam vi et ratione naturae facta esse P. Nigidius in grammaticis commentariis docet, rem sane in philosophiae discertationibus celebrem. 2. Quaeri enim solitum aput philosophos, ʇÛÂÈ Ùa çÓfiÌ·- Ù· sint õ ©¤ÛÂÈ. 3. In eam rem multa argumenta dicit, cur videri possint verba esse na-

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condo natura (ʇÛÂÈ)108 e non in conseguenza di una conven- turalia magis quam arbitraria [su questo brano, in relazione specialmente all’impor- tanza delle problematiche linguistiche nell’epoca di Servio Sulpicio Rufo, cfr. A. MANTELLO, ‘Beneficium’ servile - ‘debitum’ naturale cit. 245 ss. Quest’estratto delle Noctes Atticae è, peraltro, una chiara prova (ed andrebbe unita ad altre testimonian-ze successive di segno analogo, sulle quali v. subito infra nel testo e nelle note se-guenti) a favore dell’attualità nelle scuole filosofiche della controversia circa l’origi- ne del linguaggio ancora al tempo dello stesso Gellio, considerata dallo scrittore ce-lebr[is] in philosophiae discertationibus e solit[a] aput philosophos; in questa prospet-tiva, cfr. ancora A. MANTELLO, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezio-ni giuridiche di Paolo, in BIDR. 33-34 (1991-1992) 413 s., in cui il passo gelliano è preso in considerazione, sia pure con doverosa cautela (v. le avvertenze di p. 413 nt. 128), a proposito delle concezioni linguistiche di Paolo; nonché, dello stesso A., Le ‘classi nominali’ cit. 238]; oppure dal ricordo della questione de qua nel Didascalico del platonico Alcinoo: v. Didasc. 6. Sulla discussione sorta in dottrina a proposito dell’attribuzione della paternità di quest’opera [un manuale elementare di filosofia platonica – ma con contaminazioni aristoteliche e neopitagoriche: cfr. E. STOLFI, Il modello delle scuole cit. 90 nt. 425, e ID., Studi sui «Libri ad edictum» II cit. 16 nt. 32, con altra dottrina – verosimilmente della metà del II secolo d.C.: per approfon-dimenti, cfr. P. DONINI, Le scuole l’anima l’Impero: la filosofia antica da Antioco a Plotino (Torino 1982) 103 ss., e ID., Testi e commenti, manuali e insegnamento: la forma sistematica e i metodi della filosofia in età postellenistica, in ANRW. II.36.7 (Berlin-New York 1994) 5057 ss.)] ad Alcinoo o ad Albino, ormai per lo più risolta a favore del primo, cfr. J. WHITTAKER, Platonic Philosophy in the Early Centuries of the Empire, in ANRW. II.36.1 (Berlin 1987) 83 ss., con rinvio alla dottrina ivi di-scussa; G. REALE, Storia della filosofia greca e romana3 VII (Milano 2010) 107 nt. 10; diversamente, cfr. tuttavia P. MORAUX, L’Aristotelismo presso i Greci II.2. L’Ari- stotelismo nei non-Aristotelici nei secoli I e II d.C. (trad. it. Milano 2000) 15 ss. Cfr., altresì, G. INVERNIZZI, Il Didaskalikos di Albino e il Medioplatonismo (Roma 1976), che contiene la trad. italiana ed un commento del manuale.

108#Di quest’avviso anche gli Epicurei: [v. Diog. Laërt. 10.75-76: \AÏÏa ÌcÓ

ñÔÏËÙ¤ÔÓ Î·d ÙcÓ ÙáÓ àÓ©ÚÒˆÓ Ê‡ÛÈÓ ÔÏÏa ηd ·ÓÙÔÖ· ñfi ÙáÓ ·éÙcÓ ÂÚÈÂÛÙÒÙˆÓ Ú·ÁÌ¿ÙˆÓ ‰È‰·¯©ÉÓ·› Ù ηd àÓ·Áη۩ÉÓ·ÈØ ÙeÓ ‰b ÏÔÁÈÛÌeÓ Ùa ñe Ù·‡Ù˘ ·ÚÂÁÁ˘Ë©¤ÓÙ·, ηd ≈ÛÙÂÚÔÓ â·ÎÚÈ‚ÔÜÓØ Î·d ÚÔÛÂÍ¢ÚdÛÎÂÈÓ âÓ Ì¤Ó ÙÈÛÈ, ©ÄÙÙÔÓØ âÓ ‰¤ ÙÈÛÈ, ‚Ú·‰‡ÙÂÚÔÓØ Î·d âÓ Ì¤Ó ÙÈÛÈ, ηÙa ÂÚÈfi‰Ô˘˜ ηd ¯ÚfiÓÔ˘˜ Ì›˙Ô˘˜ àe ÙáÓ ÙÔÜ à›ÚÔ˘Ø âÓ ‰¤ ÙÈÛÈ, ηْâÏ¿ÙÙÔ˘˜. ≠O©ÂÓ Î·d Ùa çÓfiÌ·Ù· âÍ àگɘ Ìc ©‹ÛÂÈ ÁÂÓ¤Û©·È, àÏÏ’ ·éÙa˜ Ùa˜ ʇÛÂȘ ÙáÓ àÓ©ÚÒˆÓ, η©’ ≤ηÛÙ· ö©ÓË ú‰È· ·Û¯Ô‡Û·˜ ¿©Ë, ηd ú‰È· Ï·Ì‚·ÓÔ‡Û·˜ Ê·ÓÙ¿ÛÌ·Ù·, 剛ˆ˜ ÙeÓ à¤Ú· âΤÌÂÈÓ, ÛÙÂÏÏfiÌÂÓÔÓ ñÊ’ëοÛÙˆÓ ÙáÓ ·©áÓ Î·d ÙáÓ Ê·ÓÙ·ÛÌ¿ÙˆÓ, ó˜ ôÓ ÔÙ ηd ì ·Úa ÙÔf˜ ÙfiÔ˘˜ ÙáÓ â©ÓáÓ ‰È·ÊÔÚa ÂúË. 76. ≠YÛÙÂÚÔÓ ‰b ÎÔÈÓᘠη©’≤ηÛÙ· ö©ÓË Ùa ú‰È· Ù©ÉÓ·È, Úe˜ Ùe Ùa˜ ‰ËÏÒÛÂȘ wÙÙÔÓ àÌÊÈ‚fiÏÔ˘˜ ÁÂÓ¤Û©·È àÏÏ‹ÏÔȘ, ηd Û˘ÓÙÔ̈٤ڈ˜ ‰ËÏÔ˘Ì¤Ó·˜. «Le parole, egli disse, non sono in principio create per convenzione; ma è la stessa natura umana che, influenzata da determinate emozioni e in vista di determinate immagini, fa sì che gli uomini emettano l’aria in modo ap-propriato alle singole emozioni ed immagini. Le parole sono dapprima diverse per la

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zione intercorsa tra i primi uomini109 (©¤ÛÂÈ)110. Sebbene scar-seggino le trattazioni ad hoc a nostra disposizione111, questa dottrina è indirettamente testimoniata, nell’ultimo secolo prima dell’era volgare, da Varrone e da Dionigi di Alicarnasso, debi-tori di uno schema, di patente retaggio stoico, per cui i nomi sa-rebbero stati assegnati in modo certamente consapevole, seppu-re non arbitrariamente, ma sotto la guida della natura112 (la quale dux fuit ad vocabula imponenda homini113 e ÔÈÔÜÛ· ÌÂÌËÙÈÎÔf˜ ηd ©ÂÙÈÎÔf˜ äÌĘ ÙáÓ çÓÔÌ¿ÙˆÓ, Ôx˜ ‰ËÏÔÜÙ·È Ùa Ú¿ÁÌ·Ù· ηٿ ÙÈÓ·˜ ÂéÏfiÁÔ˘˜ ηd ÎÈÓËÙÈÎa˜ Ùɘ ‰È·ÓÔ›·˜ ïÌÔÈfiÙËÙ·˜114), così da riprodurre con veridicità le proprietà degli oggetti designati115; se in principio i nomi sarebbero stati diversità delle genti, che dipende anche dai luoghi; ma poi vengono rese comuni af-finché i loro significati siano meno ambigui e più rapidamente comprensibili» – trad. it. tratta da N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia3 cit. 646, dove anche un’analisi della teoria di Epicuro. V., altresì, Lucr. De nat. rer. 5.1027 s.: At varios linguae soni-tus natura subegit / mittere et utilitas expressit nomina rerum ...]. Per maggiori det-tagli sull’impostazione epicurea del problema dell’origine del linguaggio, cfr.: G. FANO, Saggio sulle origini cit. 201 s.; E. RIVERSO, Il linguaggio nel pensiero filosofico cit. 115 ss. e 139 ss.; D. DI CESARE, La semantica cit. 205 ss.; P. MATTHEWS, La lin-guistica greco-latina cit. 210 s.

109#Come, invece, affermava Aristotele: v. De interpr. 16a.19 s. (òOÓÔÌ· ÌbÓ ÔsÓ

âÛÙd ʈÓc ÛËÌ·ÓÙÈÎc ηÙa Û˘Ó©‹ÎËÓ ôÓ¢ ¯ÚfiÓÔ˘ ...) e 16a.27 s. (Te ‰b ηÙa Û˘Ó- ©‹ÎËÓ, ¬ÙÈ Ê‡ÛÂÈ ÙáÓ çÓÔÌ¿ÙˆÓ Ôé‰¤Ó âÛÙÈÓ, àÏÏ’¬Ù·Ó Á¤ÓËÙ·È Û‡Ì‚ÔÏÔÓ ...).

110#V. Orig. Contrad. Cels. 1.24, in S.F.V. 2.146.38-43 (J. AB ARNIM, Stoicorum II cit. 44): \EÌ›ÙÂÈ Âå˜ ÚÔΛÌÂÓÔÓ ÏfiÁÔ˜ ‚·©f˜ ηd àfiW®ËÙÔ˜, ï ÂÚd ʇÛˆ˜ çÓÔÌ¿ÙˆÓ, fiÙÂÚÔÓ, ó˜ ÔúÂÙ·È \AÚÈÛÙÔÙ¤Ï˘, ©¤ÛÂÈ âÛÙd Ùa çÓfiÌ·Ù· j, ó˜ ÓÔÌ›˙Ô˘ÛÈ Ôî àe Ùɘ ™ÙÔĘ, ʇÛÂÈ, ÌÈÌÔ˘Ì¤ÓˆÓ ÙáÓ ÚÒÙˆÓ ÊˆÓáÓ Ùa Ú¿ÁÌ·Ù·, η©’zÓ Ùa çÓfiÌ·Ù·, η©e ηd ÛÙÔȯÂÖ¿ ÙÈÓ· Ùɘ âÙ˘ÌÔÏÔÁ›·˜ ÂåÛ¿ÁÔ˘ÛÈÓ.

111#Ben lo evidenzia, tra gli altri, M. POHLENZ, La Stoa cit. 66 nt. 11.

112#Illuminante, anche in questo caso, M. POHLENZ, La Stoa cit. 67: «In tal

modo gli Stoici, nella controversia sull’origine del linguaggio, pervengono a una so-luzione conciliativa. I nomi sono imposti dal logos dell’uomo con un preciso atto di volontà (©¤ÛÂÈ), eppure sono nello stesso tempo di origine naturale (ʇÛÂÈ), in quan-to le denominazioni corrispondono alla physis delle cose denominate».

113#V. Varr. De l.L. 6.2.3.

114#V. Dion. Hal. De comp. verb. 16.

115#Un dato facilmente riscontrabile è il transitare di questa dottrina, che po-

tremmo chiamare della «potenzialità rappresentativa della parola» (prendo qui in prestito questa felice espressione da A. MANTELLO, Le ‘classi nominali’ cit. 227), dalla filosofia stoica alla Ù¤¯ÓË dei ÁÚ·ÌÌ·ÙÈÎfiÈ alessandrini, come si comprende dal riferimento all’ÔéÛ›· nelle definizioni del nome comune (ùÓÔÌ· ÚÔÛËÁÔÚÈÎfiÓ) e

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pochi (allo scopo di rendere più agevole il loro apprendimen-to116), presto essi si sarebbero moltiplicati grazie all’uso (Û˘Ó‹- ©ÂÈ·)117, in conseguenza del quale sarebbe tuttavia risultata ta-lora scolorita l’originaria purezza della relazione tra ÛËÌ·ÖÓÔÓ e ÛËÌ·ÈÓfiÌÂÓÔÓ, senza peraltro risultarne sconfessata; aspetto, questo, riconosciuto dallo stesso Crisippo, autore di un’ope- ra – il De inaequabilitate sermonis –, il cui proposito, a dire di Varrone, era proprio quello di ostendere similes res dissimilibus verbis et dissimiles similibus esse vocabulis notatas118.

In ogni caso, già sul finire del II secolo la visuale che trat-teggiava il linguaggio come un’espressione senz’altro rivela-trice del ÏfiÁÔ˜ doveva esercitare un fascino più ridotto rispet-to al passato, a motivo non tanto di quel «ristagno quasi asso-luto del lavoro di elaborazione concettuale» nel quale era or- del nome proprio (ùÓÔÌ· ·ÚÈÔÓ) in Dionisio Trace (Ars gramm. 12) ed alla ÔÈfi- Ù˘, cioè alla qualità delle cose, in Apollonio Discolo (De synt. 2.22). Approfondi-menti su questi passi in A. MANTELLO, Le ‘classi nominali’ cit. 228 e 241. Sul proble-matico rapporto tra gli Stoici ed i grammatici alessandrini, cfr. P. MATTHEWS, La lin-guistica greco-latina cit. 261, dove è importante la considerazione che pone in evidenza la possibilità di cogliere «uno sviluppo storico secondo il quale un metodo di studio linguistico prese forma, in un primo tempo, entro la struttura della filosofia stoica, per essere poi usato dai grammatici e specializzato in una direzione differente».

116#Impositicia nomina esse voluerunt quam paucissima, quo citius ediscere pos-sent – scrive Varr. De l.L. 8.5.

117#V. Varr. De l.L. ibidem: ... declinata quam plurima, quo facilius omnes qui-

bus ad usum opus esset dicerent. Sulla capacità dell’uso di modificare nel tempo il si-gnificato proprio delle parole, v. anche Gell. 12.13.5, che riferisce, a tal proposito, il pensiero del grammatico del II secolo d.C. Sidonio Apollinare: Non enim verborum tantum communium verae atque propriae significationes longiore usu mutantur, sed legum quoque ipsarum iussa consensu tacito oblitterantur. Sul ‘parallelismo di strut-tura’ indotto dalla comune natura consuetudinaria di lingua e diritto, che il brano di Gellio ora richiamato mostra già essere conosciuto dagli antichi, cfr., ora, D. MAN-TOVANI, Lingua e diritto cit. 674 e nt. 4. Per il ricorso alla consuetudo grammaticale in Varrone, da lui distinta in mala ed in recta, ed in Gellio, che considerava l’uso come un fattore di inquinamento della lingua, cfr., già, V. SCARANO USSANI, L’uti- lità e la certezza. Compiti e modelli del sapere giuridico in Salvio Giuliano (Milano 1987) 131, con fonti ed altra bibliografia.

118#V. Varr. De l.L. 9.1, in S.V.F. 2.151.25-28 (J. AB ARNIM, Stoicorum II cit.

45). Cfr., sul punto, M. POHLENZ, La Stoa cit. 70 nt. 16, secondo il quale per Var-rone l’intento di Crisippo sarebbe stato quello di mettere in evidenza le discrepanze tra la forma fonetica ed il significato delle parole.

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mai caduta la secta stoica119, ma soprattutto dei colpi inferti dalle vedute di matrice empirico-scettica120, che all’incirca ne-gli stessi anni circolavano negli ambienti filosofici (e non solo probabilmente), grazie in particolar modo alle notazioni po-lemiche del pirroniano Sesto121, nei cui scritti era incarnata una vera e propria reazione al dogmatismo prodotto da quel-la koinè culturale costituita da ascendenze platoniche-peri- patetiche-stoiche-epicuree che era venuta via via emergendo durante l’età imperiale122. Nelle pagine del filosofo empiri-

119#L’espressione tra virgolette è presa a prestito da P. DONINI, Le scuole l’ani-

ma l’Impero cit. 160 [dello stesso A., cfr. anche Testi e commenti cit. 5033, dove si evidenzia che «ai tempi di Galeno non esistevano più filosofi stoici preoccupati (o capaci?) di elaborare logicamente difese efficaci della dottrina della loro scuola ...»]; anche se è vero che la reazione degli Stoici agli attacchi provenienti soprattutto dalla critica scettica (per la quale v. subito sopra nel testo) può essere andata smarrita nel naufragio che ha interessato gli scritti di questa scuola: per questa annotazione, cfr. G. CORTASSA, Il programma dello scettico: struttura e forme di argomentazione del primo libro delle ‘Ipotiposi pirroniche’ di Sesto Empirico, in ANRW. II.36.4 (Berlin-New York 1990) 2700 s. Sul processo di decadenza della filosofia della Stoa, iniziato subito dopo la scomparsa di Marco Aurelio, cfr., in generale e per tutti, le sintetiche ma chiare pagine di G. REALE, Storia della filosofia greca3 VI cit. 406 ss.

120#Utilizzo volutamente tale generica locuzione, ben consapevole delle diffe-

renze che pur sussistevano secondo Sesto (v. Pyrr. Hyp. 1.34.236) tra la dottrina empi-rica e quella scettica in ordine all’incomprensibilità dei fatti non-evidenti: in argomen-to, cfr. l’analisi accurata di J. ALLEN, Pyrronism and Medical Empiricism: Sextus Empi-ricus on evidence and inference, in ANRW. II.37.1 (Berlin-New York 1993) 652 ss.; cfr. anche F. STOK, La scuola medica Empirica a Roma. Problemi storici e prospettive di ri-cerca, ibidem 600 ss., spec. 608 ss., con ampia discussione della letteratura.

121#«Lo ‘scetticismo’ nasce con Sesto» – scrive, infatti, F. ADORNO, Sesto Em-

pirico: metodologia delle scienze e ‘scetticismo’ come metodo, in Lo scetticismo anti-co. Atti del Convegno organizzato dal Centro di Studio del pensiero antico del C.N.R. Roma 5-8 novembre 1980, cur. G. GIANNANTONI II (Napoli 1981) 453; a questo stesso studio faccio, altresì, rinvio, per l’importante considerazione, che sca-turisce in realtà dalle fonti stesse (v. Diog. Laërt. 1.20 e gli altri richiami ai passi se-stiani cit. alla nt. 2 di p. 451 s.), che solo a partire da Sesto sarebbe possibile parlare dello scetticismo come di un ‘atteggiamento’ di pensiero, inteso come modo di pen-sare in forma scettica (ÊÈÏÔÛÔÊ›·, ‰‡Ó·ÌȘ o àÁˆÁc ÛÎÂÙÈ΋) – v. p. 450 ss. Sui principi dello Scetticismo pirroniano e sull’adesione ad essi da parte di Sesto, cfr. J. ALLEN, The Skepticism of Sextus Empiricus, in ANRW. II.36.4 cit. 2582 ss.

122#Il dogmatismo era espresso, nella visione di Sesto, da quelle filosofie che pretendevano di essere giunte alla verità; ma soprattutto il filosofo empirico ave- va in mente, per quanto riguarda la logica, per sua stessa ammissione (v. Pyrr. Hyp. 1.14.65), gli Stoici. Sulla metodologia scettica in chiave antidogmatica, cfr. F. ADOR-

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co123 era difatti possibile leggere, in relazione al nostro tema, una forte presa di posizione a123favore della relatività del lin- NO, Sesto Empirico: metodologia delle scienze cit. 449 ss., spec. 462 ss., dove la for-mazione di questo «comune modo di pensare» [in qualche misura avallato dallo stesso potere imperiale: si ricordi, in proposito, l’istituzione – ricordata da diversi scrittori: v. Dio Cass. 72.31.3; Phil. Vit. Soph. 2.2 (566); Luc. Eun. 3 – da parte di Marco Aurelio, nel 176, di quattro cattedre di filosofia ad Atene sovvenzionate con soldi pubblici e ripartite proprio tra Platonici, Aristotelici, Stoici ed Epicurei; in ar-gomento, cfr., per tutti, V. MAROTTA, Multa de iure sanxit cit. 149 nt. 193, e G. COP-POLA, Cultura e potere. Il lavoro intellettuale nel mondo romano (Milano 1994) 320 ss., dove un’articolata analisi delle fonti e discussione della dottrina; ai quali adde, da ultimo, L. DI PINTO, Cura studiorum. Tra pensiero giuridico e legislazione imperia-le (Napoli 2013) 80 ss.; sulle ragioni dell’esclusione dello Scetticismo dall’insegna- mento pubblico, cfr. P. DONINI, Scetticismo, Scettici e cattedre imperiali, in Lo scet-ticismo antico cit. 679 ss., per il quale «se non si previde un insegnamento stabile e continuato delle dottrine scettiche, non fu per una preclusione personale o per una pregiudiziale filosofica dell’Imperatore stoico», ma per motivazioni interne allo Scetticismo, quale la difficoltà di riconoscervi lo statuto di ·¥ÚÂÛȘ (p. 687)], tanto da generare agli occhi degli Scettici una sorta di dogma, è tracciata con lucidità; cui adde, soprattutto per il rapporto con l’Empirismo ed il Razionalismo, J. ALLEN, Pyrronism and Medical Empiricism cit. 646 ss. Sulla progressiva tendenza verso uno stemperamento delle differenze tra le varie scuole filosofiche nel corso del II secolo d.C., cfr., praecipue: J.M. ANDRÉ, Les écoles philosophiques aux deux premiers siè-cles de l’Empire, in ANRW. II.36.1 cit. 55.; cui adde E. STOLFI, Il modello delle scuole cit. 90 s., che evidenzia «la difficoltà di guardare alle filosofie d’età imperiale ... come a realtà indipendenti e contrapposte, inchiodate a inconciliabili bagagli dot-trinali». Sulle diverse componenti di pensiero che confluirono in quella che si suole definire come ‘filosofia neoplatonica’, cfr., exempli causa, F. ROMANO, Studi e ri-cerche sul neoplatonismo (Napoli 1983) 12 s.

123#Ma non solo: perplessità simili è possibile riscontrare in alcuni scritti dello

scienziato, pressoché contemporaneo, Galeno. Nell’apertura del trattato De diffe-rentia pulsuum (1.1), esprimeva il desiderio di insegnare la scienza senza fare uso dei nomi [EéÍ·›ÌËÓ ÌbÓ iÓ Î·d Ì·©ÂÖÓ Î·d ‰È‰¿Í·È ‰‡Ó·Û©·È Ùa Ú¿ÁÌ·Ù·, ¯ˆÚd˜ ÙáÓ â’·éÙÔÖ˜ çÓÔÌ¿ÙˆÓ ..., in Medicorum graecorum opera quae exstant, cur. D.C.G. KÜHN VIII (Lipsiae 1824) 493, dove si trova anche la seguente trad. lat.: Optarem equidem et percipi et tradi posse res citra ipsarum nomina ...], pur riconoscendo l’im- possibilità di farne a meno; non a caso, scrisse un’opera appositamente dedicata a questo tema, il De captionibus in dictione [il cui testo si può leggere in Medicorum graecorum opera quae exstant, cur. D.C.G. KÜHN XIV (Lipsiae 1827) 582 ss. e sul quale cfr., da ultimo, A. SCHIAPARELLI, Galeno e le fallacie linguistiche (Venezia 2002)]; per approfondimenti sull’approccio di Galeno al problema del linguaggio, cfr. R. CHIARADONNA, Platonismo e teoria della conoscenza stoica tra II e III sec. d.C., in Platonic Stoicism – Stoic Platonism. The dialogue between Platonism and Stoicism in Antiquity, eds. M. BONAZZI, C.M. HELMIG (Louvain 2007) 217 ss.; per l’importanza di Galeno all’interno del contesto greco-romano dei suoi tempi, cfr.

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guaggio (che presentava, in parte qua, dei punti di contatto con il pensiero aristotelico124, come abbiamo già visto): il si-stema delle parole non aveva, per Sesto, un’inequivocità auto-referenziale, ma necessitava di un elemento esterno e prelimi-nare ad esso per risultare efficace e comprensibile, che poteva essere costituito da un accordo tra i loquenti (©¤ÛȘ)125, dal- l’uso corrente da parte della maggioranza degli individui ap-partenenti ad una stessa comunità (ÎÔÈÓc Û˘Ó‹©ÂÈ·)126, o, anco- G.W. BOWERSOCK, Greek sophists in the Roman Empire (Oxford 1969) 59 ss.; sull’appartenenza di Galeno alla cultura filosofica di tipo neoplatonico, cfr. P. DO-NINI, Le scuole l’anima l’Impero cit. 124 ss.

124#Sul rapporto tra Sesto e gli esponenti della scuola peripatetica, cfr. L. REPI-

CI CAMBIANO, Sesto Empirico e i Peripatetici, in Lo scetticismo antico cit. 691 ss., la quale mette in luce, tra l’altro, alcuni esempi nei quali le teorie peripatetiche sono utilizzate da Sesto come punto d’appoggio per la sua polemica contro lo Stoicismo.

125#V. Sext. Emp. Adv. math. 1.4.37-38: ^O ‰b ÏfiÁÔ˜ õÙÔÈ ÛËÌ·›ÓÂÈ ÙÈ j Ôé

ÛËÌ·›ÓÂÈ. K·d ÌˉbÓ ÌbÓ ÛËÌ·›ÓˆÓ Ôé‰b ‰È‰¿ÛηÏfi˜ ÙÈÓfi˜ âÛÙÈ, ÛËÌ·›ÓˆÓ ‰b õÙÔÈ Ê‡ÛÂÈ ÛËÌ·›ÓÂÈ ÙÈ j ©¤ÛÂÈ. K·d ʇÛÂÈ ÌbÓ Ôé ÛËÌ·›ÓÂÈ ‰Èa Ùe Ìc ¿ÓÙ·˜ ¿ÓÙˆÓ àÎÔ‡ÂÈÓ, ≠EÏÏËÓ·˜ B·Ú‚¿ÚˆÓ ηd B·Ú‚¿ÚÔ˘˜ ^EÏÏ‹ÓˆÓ j ≠EÏÏËÓ·˜ ^EÏÏ‹ÓˆÓ j B·Ú‚¿ÚÔ˘˜ B·Ú‚¿ÚˆÓØ 38. ©¤ÛÂÈ ‰b ÂúÂÚ ÛËÌ·›ÓÂÈ, ‰ÉÏÔÓ ó˜ Ôî ÌbÓ ÚÔηÙÂÈÏËÊfi- Ù˜ Ùa η©’zÓ ·î ϤÍÂȘ ÎÂÖÓÙ·È Î·d àÓÙÈÏ‹„ÔÓÙ·È ÙÔ‡ÙˆÓ, Ôé Ùe àÁÓÔÔ‡ÌÂÓÔÓ âÍ ·éÙáÓ ‰È‰·ÛÎfiÌÂÓÔÈ, Ùe ‰’¬ÂÚ Fõ‰ÂÈÛ·Ó àÓ·ÓÂÔ‡ÌÂÓÔÈ, Ôî ‰b ¯ÚF‹˙ÔÓÙ˜ Ùɘ ÙáÓ àÁÓÔÔ˘Ì¤ÓˆÓ Ì·©‹Ûˆ˜ ÔéΤÙÈ [«La parola, invece, o esprime il significato di qual-cosa o non lo esprime. Se essa non esprime nessun significato, non è neppure mae-stra di nulla; se, invece, essa significa qualcosa, essa esprime il significato di tale cosa o per natura o per convenzione. Per natura essa non esprime nessun significato per il semplice fatto che non tutti sono in grado di capire quello che tutti gli altri dicono – i Greci quello che dicono i barbari, i barbari quello che dicono i Greci; anzi nep-pure i Greci riescono a capire quello che i Greci dicono o i barbari quello che dico-no i barbari. Se, invece, la parola esprime un significato per convenzione, è ovvio che soltanto quelli che già precedentemente abbiano appreso gli oggetti ai quali so-no convenzionalmente applicate le espressioni verbali, apprenderanno anche queste ultime, senza però ricevere, in virtù di queste, insegnamenti su ciò che precedente-mente ignoravano, ma rinnoveranno quello che già sapevano; chi, invece, aspiri ad imparare cose a lui sconosciute, verrà meno al suo intento». Trad. it. tratta da A. RUSSO, Sesto Empirico. Contro i matematici cit. 15 s.].

126#V. Sext. Emp. Adv. math. 1.10.179: ¢ÈfiÂÚ Âå Ôî ÁÚ·ÌÌ·ÙÈÎÔd ñÈÛ¯ÓÔÜÓÙ·È

Ù¤¯ÓËÓ ÙÈÓa ÙcÓ Î·ÏÔ˘Ì¤ÓËÓ àÓ·ÏÔÁ›·Ó ·Ú·‰ÒÛÂÈÓ, ‰È’w˜ ηْâÎÂÖÓÔÓ ìÌĘ ÙeÓ ëÏÏËÓÈÛÌeÓ àÓ·Áο˙Ô˘ÛÈ ‰È·Ï¤ÁÂÛ©·È, ñÔ‰ÂÈÎÙ¤ÔÓ ¬ÙÈ àÛ‡ÛÙ·Ùfi˜ âÛÙÈÓ ·≈ÙË ì Ù¤¯ÓË, ‰ÂÖ ‰b ÙÔf˜ çکᘠ‚Ô˘ÏÔ̤ÓÔ˘˜ ‰È·Ï¤ÁÂÛ©·È ÙFÉ àÙ¤¯Óˇ ηd àÊÂÏÂÖ Î·Ùa ÙeÓ ‚›ÔÓ Î·d ÙFÉ Î·Ùa ÙcÓ ÎÔÈÓcÓ ÙáÓ ÔÏÏáÓ Û˘Ó‹©ÂÈ·Ó ·Ú·ÙËÚ‹ÛÂÈ ÚÔÛ·Ó¤¯ÂÈÓ [«Perciò <tenendo presente che> i grammatici promettono di offrire in dono la co-siddetta analogia come una certa arte e che per mezzo di essa, in realtà, ci vogliono

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ra, da ciò che egli denominava esperienza dell’utile (âÌÂÈÚ›· ÙÔÜ ¯ÚËÛ›ÌÔ˘)127.

Ora, dopo queste essenziali annotazioni sulla problematica del linguaggio presso le scuole del pensiero filosofico – indi-spensabili per poter comprendere appieno i termini del dibatti-to ancora in corso all’inizio dell’età severiana –, e tornando con la mente ai brani giurisprudenziali dai quali siamo partiti, il loro accostamento alla impostazione di Sesto adesso delineata pare discendere – si potrebbe dire – da sé e senza troppa fatica128. costringere a parlare secondo quel certo tipo di ellenismo, bisogna allora sottolinea-re l’inconsistenza di una tale arte e affermare, altresì, che chi vuole parlare corretta-mente, deve rispettare la parlata immediata e semplice della vita quotidiana e osser-vare le norme della comune consuetudine della maggioranza». Trad. it. tratta da A. RUSSO, Sesto Empirico. Contro i matematici cit. 63; il corsivo è dell’A.]. La nega-zione di un’arte dell’ellenismo identificata con l’analogia insegnata dai grammatici ed il dipendere del corretto parlare invece, secondo Sesto, dall’uso comune, sono ampiamente discussi nei capitoli successivi (dal 176 al 240, precisamente).

127#V. Sext. Emp. Pyrr. Hyp. 2.22.256-257: Eå ÁaÚ ì àÌÊÈ‚ÔÏ›· ϤÍȘ âÛÙd ‰‡Ô

ηd Ï›ˆ ÛËÌ·›ÓÔ˘Û· ηd ·î ϤÍÂȘ ÛËÌ·›ÓÔ˘ÛÈ ©¤ÛÂÈ, ¬Û·˜ ÌbÓ ¯Ú¤ÛÈÌfiÓ âÛÙÈÓ àÌÊÈ‚ÔÏ›·˜ ‰È·Ï‡ÂÛ©·È, ÙÔ˘Ù¤ÛÙÈ Ùa˜ öÓ ÙÈÓÈ ÙáÓ âÌÂÈÚÈáÓ, Ù·‡Ù·˜ Ôî η©’ëοÛÙËÓ Ù¤¯ÓËÓ âÁÁÂÁ˘ÌÓ·Ṳ̂ÓÔÈ ‰È·Ï‡ÛÔÓÙ·È, ÙcÓ âÌÂÈÚ›·Ó ö¯ÔÓÙ˜ ·éÙÔd Ùɘ ñ’·éÙáÓ ÂÔÈË̤Ó˘ ©ÂÙÈÎɘ ¯Ú‹Ûˆ˜ ÙáÓ çÓÔÌ¿ÙˆÓ Î·Ùa ÙáÓ ÛËÌ·ÈÓÔ̤ӈÓ, ï ‰b ‰È·ÏÂÎÙÈ- Îe˜ Ô鉷Ìᘠ... 257. ... õ‰Ë ‰b ηd ηÙa ÙeÓ ‚›ÔÓ ô¯ÚÈ Î·d ÙÔf˜ ·Ö‰·˜ ïÚáÌÂÓ ‰È·ÛÙÂÏÏÔ̤ÓÔ˘˜ àÌÊÈ‚ÔÏ›·˜, zÓ ì ‰È·ÛÙÔÏc ¯ÚËÛÈ̇ÂÈÓ ·éÙÔÖ˜ ‰ÔÎÂÖ. Eå ÁÔÜÓ ÙȘ ï̈ӇÌÔ˘˜ ÔåΤٷ˜ ö¯ˆÓ ÎÂχÔÈ ·È‰›ÔÓ ÎÏË©ÉÓ·È ·éÙá ÙeÓ M¿ÓËÓ, Âå Ù‡¯ÔÈ, (ÙÔÜÙÔ ÁaÚ ÙÔûÓÔÌ· ÙÔÖ˜ ÔåΤٷȘ öÛÙˆ ÎÔÈÓfiÓ) ‡ÛÂÙ·È ï ·Ö˜ ÔÖÔÓ ... O≈Ùˆ˜ ì âÓ ëοÛÙÔȘ âÌÂÈÚ›· ÙÔÜ ¯ÚËÛ›ÌÔ˘ ÙcÓ ‰È·ÛÙÔÏcÓ ÂåÛ¿ÁÂÈ [«E invero che l’amfibolia è una parola che significa due o più cose, e le parole hanno un significato convenzionale, quante amfibolie torna conto risolvere – cioè quelle che cadono nel campo di qualche espe-rienza –, queste le risolveranno coloro che sono esercitati in ciascun’arte, avendo essi la pratica dell’uso convenzionale delle parole da essi stessi creato in vista delle cose significate; ma il Dialettico non lo potrà fare in nessun modo ... Nella vita comune vediamo che perfino i ragazzi distinguono le amfibolie, la cui distinzione paia ad essi tornare utile. Per es., se uno ha due servitori omonimi, e ordini a un bimbo di fargli venire Mane (poniamo sia questo il nome comune ai due servitori), il bimbo doman-derà quale dei due deve chiamare ... Così in ciascun caso l’esperienza dell’utile indu-ce alla distinzione». Trad. it. da Sesto Empirico. Schizzi pirroniani, cur. A. RUSSO (Bari 1988) 118; cfr., altresì, v ss., dove utili indicazioni generali sul contenuto delle ¶˘ÚÚˆÓ›·È ^YÔÙ˘ÒÛÂȘ di Sesto].

128#Su questo punto si può convenire, senza remore, con S. QUERZOLI, Il sape-

re di Fiorentino cit. 234 s., quando afferma che «nelle Institutiones Florentini il re-cupero delle teorie convenzionalistiche diveniva dunque conseguenza dell’insuffi-

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Fiorentino, Paolo ed Ulpiano danno l’impressione – lo aveva-mo già anticipato – di muovere anch’essi da una premessa co-mune e cioè che il controllo della corrispondenza tra la rispo-sta e la domanda stipulatorie non può arrestarsi ai verba in quanto tali, di per sé non decisivi, ma deve giungere più in profondità a valutare la significatio che le parti contraenti han-no inteso assegnare alle parole; può darsi, infatti, che – per dirla al modo di Paolo – uno stesso significato possa essere espresso diversis nominibus, che è poi l’esempio addotto da Fiorentino nelle Institutiones; o ancora che, a causa di un erro-re, ad uno stesso corpus (nell’ipotesi contemplata da Ulpiano, cienza del verum nel fornire un utile criterio di comunicazione. Il rifiuto delle teorie stoiche, che privilegiavano i contenuti ‘ontologici’ del nome ... si giustifica-va con la necessità di individuare criteri interpretativi ‘certi’ delle scelte linguisti-che, assicurati dalle abitudini della comunità e non dalla corrispondenza del vo-cabolo al logos in esso racchiuso». È opportuno soltanto avvertire che la possibi-lità che l’uso linguistico avesse incrinato nel tempo l’esattezza dei nomi era pre-sente agli stessi Stoici, come si desume da ciò che Varrone sintetizzava essere il propositum del De inaequabilitate sermonis di Crisippo e dalla testimonianza di Sesto Empirico circa l’esistenza di punti di vista differenti all’interno della stessa scuola stoica con riferimento alla distinzione tra la proposizione e la ‘cosa stessa’ [su tali divergenze, cfr. A. RUSSO, Sesto Empirico. Contro i logici. Introduzione, traduzione e note (Bari 1975) xxxiii e nt. 54, da cui ho tratto anche il virgolettato che precede; del resto, che, nella diatriba tra ‘analogisti’ ed ‘anomalisti’ (le cui fila erano rispettivamente capeggiate da Aristarco di Samotracia e da Cratete di Mal-lo), le teorie anomaliste di Cratete, che davano importanza all’uso nell’analisi lin-guistica, fossero di derivazione stoica è detto apertis verbis da Varrone (v. De l.L. 9.1.1-3): cfr. I. RAMELLI, Esegesi allegorico-etimologica stoica negli interpreti di Omero di età alessandrina, in I. RAMELLI, G. LUCCHETTA, Allegoria I. L’età clas-sica (Milano 2004) 177 ss. e 190 ss., dove è anche discusso il problema dell’attendi- bilità di Varrone come fonte di conoscenza di questa celebre polemica tra gram-matici [cfr. altresì, sull’argomento, P. MATTHEWS, La linguistica greco-latina cit. 255 ss.; A. MANTELLO, L’analogia nei giuristi tardo repubblicani e augustei. Im-plicazioni dialettico-retoriche e impieghi tecnici, in Studi in onore di R. Martini II cit. 608 nt. 8, in cui la controversia de qua è richiamata solo incidenter tantum (di questo stesso A., sul tema, v. però subito infra in questa stessa nota)]. Questa con-sapevolezza è ben evidenziata in dottrina da M. POHLENZ, La Stoa cit. 69 s.; sulla riconducibilità agli Stoici del motivo della corruzione dei segni linguistici causata dalla Û˘Ó‹©ÂÈ·, cfr., ampiamente, anche A. MANTELLO, ‘Beneficium’ servile - ‘de-bitum’ naturale cit. 246 ss., e ID., Le ‘classi nominali’ cit. 240 nt. 62, con citazione nelle note di altra dottrina alla quale faccio rinvio.

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ad uno schiavo) i contraenti si riferiscano impiegando deno-minazioni differenti. Il nome utilizzato, in questi casi, non po-teva dirsi risolutivo ex se, analogamente a quanto Sesto ritene-va a proposito dei ÛËÌÂÖ· âÓ‰ÂÈÎÙÈο (i segni indicativi), quei segni cioè che non sono osservabili insieme con la cosa desi-gnata129, come per l’appunto le parole, che, in quanto tali non hanno valore conoscitivo, perché o sono comprese prima della cosa significata ed allora nulla aggiungono ad essa o sono com- prese dopo e quindi a nulla servono130.

È possibile, dunque, che la giurisprudenza del periodo dei Severi abbia subito una qualche suggestione da questi scenari? Centriamo il nostro discorso sulla figura di Ulpiano, sì da cer-care elementi che ci possano poi venire utili per la compren-sione di D. 45.1.1.6, che resta l’oggetto principale della nostra attenzione. Le incerte informazioni di carattere prosopografi-co di cui disponiamo per la vita di Sesto131 scoraggiano la ri-cerca di possibili contatti personali tra i due, né, pensando agli

129#Sulla distinzione tra segni indicativi e segni rammemorativi (ÛËÌÂÖ· ñÔ-

ÌÓËÛÙÈο) secondo gli Stoici, così come riferito da Sesto (v. Pyrr. Hyp. 2.10.100 s. e Adv. math. 8.3.151 ss.), che criticava i primi ma accettava i secondi, cfr. M. DAL PRA, Lo scetticismo greco2 II cit. 491 ss.; J. ALLEN, Pyrronism and Medical Empiri-cism cit. 661 ss.; S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino cit. 237 s.; O. CALABRESE, Breve storia della Semiotica: dai Presocratici ad Hegel (Milano 2001) 29 ss.

130#V. Sext. Emp. Pyrr. Hyp. 2.11.118 e Adv. math. 8.3.156 ss.

131#A parte le incertezze sul piano cronologico (che abbiamo già segnalato re-

tro alla nt. 93), altri dubbi concernono infatti il suo Paese d’origine (forse la Libia o l’Egitto) e l’individuazione dei luoghi dove visse e svolse l’attività di filosofo (pro-babilmente non in un unico posto, bensì ad Atene, Alessandria e Roma, visto che negli scritti sembra tradire una conoscenza di aspetti peculiari di tutte e tre queste città). In Pyrr. Hyp. 3.18.120, egli dice di aver insegnato nello stesso luogo del suo maestro (Erodoto di Tarso), ma non lo nomina e quindi l’indicazione non ci aiuta granché (cfr. G. REALE, Storia della filosofia greca3 VI cit. 171 nt. 1). Nella direzio-ne segnalata, cfr. M. DAL PRA, Lo scetticismo greco2 II cit. 463 s., secondo il quale, sebbene non possa dedursi alcunché di certo da queste notizie, è «molto probabile che Sesto abbia vissuto in tutte e tre queste città»; F. ADORNO, La filosofia antica IV cit. 164 nt. 29; più cauto, da ultimo, L. FLORIDI, Sextus Empiricus cit. 3 ss., che, in definitiva, giudica questi riferimenti «not very indicative». A parte ciò, gli studio-si sono pressoché unanimemente d’accordo, invece, sulla sua ‘grecità’, sebbene por-tasse un nomen latino, dato che chiama ‘nostri’ i costumi degli Elleni (per tutti, cfr. A. RUSSO, Sesto Empirico. Contro i matematici cit. xl).

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anni della formazione ed agli insegnamenti che Ulpiano può avervi ricevuto132 o alla possibile sua frequentazione del cd.

132#Il riconoscimento di tali insegnamenti e la determinazione del peso da essi

avuto sulla riflessione giuridica ulpianea costituiscono profili che, grazie anche a quel rinnovato interesse che si riscontra nella più recente dottrina per lo studio della personalità culturale dei giuristi [come autorevolmente raccomandato anni addietro da V. ARANGIO-RUIZ, Gli studi di storia del diritto romano, in Cinquant’anni di vi-ta intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di B. Croce per il suo ottantesimo anniversario II (Napoli 1950) 342 = Scritti di diritto romano IV (Napoli 1977) 150, da cui cito, che riteneva un compito imprescindibile dello storico del diritto quello di «esige[re] la conoscenza dell’ambiente intellettuale entro il quale quei prudenti svolgevano l’opera loro, dei filosofi che leggevano, dei problemi politici ed econo-mici che occupavano allora le menti degli uomini di cultura»], hanno dato luogo ad un numero rilevantissimo di contributi, sebbene i risultati raggiunti non possano tuttora considerarsi sempre stabili né del tutto appaganti. In generale, la ricerca della misura in cui aspetti specifici della cultura personale di un giurista possano aver agi-to sulla sua produzione, in modo da orientarla in un verso anziché in un altro, non è di per sé quasi mai apprezzabile oggettivamente ed il più delle volte questa correla-zione finisce per avere – è bene non scordarlo – un carattere pressoché congetturale [per non dire del rischio che tale indagine possa cadere in una sorta di «storia dei luoghi ideologici dei giuristi», di scarsa utilità concreta, come già saggiamente avver-tito da A. SCHIAVONE, Studi sulle logiche dei giuristi romani (Napoli 1971) 2, del quale è il corsivo della citazione riportata]. Nonostante quest’avvertenza, non celata esplicitamente o implicitamente del resto da quanti si sono occupati di tali indagini, l’esplorazione del background culturale di Ulpiano è stata percorsa da più parti, a partire dagli ormai classici studi di P. FREZZA, La cultura di Ulpiano, in SDHI. 34 (1968) 363 ss. [ora in Scritti II (Romae 2000) 645 ss., da cui in prosieguo cito], se-condo cui il giurista «non accusa ... l’influenza del pensiero stoico, ma quella della tradizione neoplatonica, predominante in Siria almeno dal tempo di Origene» (p. 369) e mostra familiarità con le opere retoriche e logiche di Aristotele (p. 372 s.); di G. CRIFÒ, Ulpiano cit. 715 ss., spec. 734 ss., per il quale Ulpiano era un abituale frequentatore del circolo di Giulia Domna ed al suo interno doveva aver avuto oc-casione di incontrare i maggiori rappresentanti della vita culturale dei suoi tempi; di T. HONORÉ, Ulpian2 cit. 22 ss. [su cui, cfr., anche se in relazione alla prima edizio-ne del volume, P. FREZZA, La persona di Ulpiano (a proposito del volume di Tony Honoré), in SDHI. 49 (1983) 412 ss. = Scritti III cit. 527 ss.]. Non poche sono sta- te, poi, le prese di posizione assunte nell’ambito di ricerche che, prendendo di mira aspetti diversi o l’esegesi di specifici passi ulpianei (in questo caso, il primo pensiero non può che andare a D. 1.1.1.1, su cui v. già retro gli A. segnalati alla nt. 102, ed al-la notissima definizione di ius naturale custodita da D. 1.1.1.3, per la quale v. la dot-trina immediatamente richiamata qui appresso), hanno affrontato, sia pure en pas-sant, la questione delle fonti filosofiche dalle quali Ulpiano possa aver ereditato una qualche forma d’ispirazione: citando qui soltanto che degli esempi, attinenti per la maggior parte al problema della derivazione del concetto ulpianeo di ius naturale,

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·ÎÏÔ˜ di Giulia Domna133, siamo in grado di inferire senza margini di dubbio133una conoscenza diretta da parte del giurista cfr.: D. NÖRR, Ethik von Jurisprudenz in Sachen Schatzfund, in BIDR. 75 (1972) 38 s.; J. MODRZEJEWSKI, Ulpien et la nature des animaux, in La filosofia greca e il dirit-to romano. Atti del Colloquio italo-francese. Roma 14-17 aprile 1973, I (Roma 1976) 184; G. LANATA, Legislazione e natura nelle novelle giustinianee (Napoli 1984) 216 s. (che non dubita della conoscenza da parte di Ulpiano di Galeno o, comunque, del suo pensiero); W. WALDSTEIN, Bemerkungen zum ius naturale beiden klassischen Juristen, in ZSS. 105 (1988) 702 ss.; P.A. VANDER WAERDT, Philosophical influence on Roman Jurisprudence? The case of Stoicism and natural law, in ANRW. II.36.7 cit. 4892, che vede una probabile ispirazione nelle vedute di Pitagora ed Empedocle sugli esseri viventi, escludendo risolutamente un’influenza stoica tanto da giungere persino a «to rule out the hypothesis of substantive Stoic influence on Roman Ju- risprudence of the classical period» (p. 4894); A. MANTELLO, Il sogno, la parola, il diritto cit. 406 s. [in cui è particolarmente rilevante, per il discorso che stiamo con-ducendo, l’osservazione che «nelle affermazioni ulpianee (sullo ius naturale) è pos-sibile rintracciare solo cultura ufficiale, imperiale. Meglio, un pitagorismo funziona-le e omogeneo a tale cultura ...»]; ID., Le ‘classi nominali’ cit. 233 ss.; M. BRETONE, Storia del diritto romano13 cit. 349, che, in relazione all’idea ulpianea di diritto natu-rale, intravvede non soltanto una «remota ascendenza in Pitagora e in Empedocle», ma anche «echi» accademici o teofrastei; P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano (Torino 2012) 95 ss. Come si può notare anche da queste scarne indicazioni dottrinali, risulta senza dubbio conferma-to, pure per Ulpiano, un aspetto già ampiamente messo in luce dalla dottrina in rela-zione in generale alla giurisprudenza imperiale, vale a dire l’eclettismo filosofico dei giuristi: «Intellettuali di ricca e versatile formazione, non obbedienti rigidamente ai dogmata o ai praecepta di alcuna scuola» – come scrive E. STOLFI, rec. di D. NÖRR, Römisches Recht: Geschichte und Geschichten. Der Fall Arescusa et alii (Dig. 19.1.43 sq.) (München 2005), in SDHI. 73 (2007) 561 nt. 73 [nello stesso senso, dello stesso A., cfr. pure Pensiero ‘epiclassico’ e problemi di metodo, in Labeo 48 (2002) 441 nt. 151 e Il modello delle scuole cit. 88 ss., ove anche ampi riferimenti bibliografici].

133#Il rapporto di Ulpiano con questo circolo culturale organizzato per volontà

della moglie di Settimio Severo [cfr. A. MAGNANI, Giulia Domna Imperatrice filo-sofa (Milano 2008) passim, spec. 55 ss. a proposito del circolo filosofico] resta – co-me si sa – ancora non esattamente definito, sebbene sembri possibile registrare una certa tendenza ad ammettervi, seppure soltanto come ipotesi, una non estraneità del giurista: fonti e discussioni in P. FREZZA, La cultura cit. 651; G.W. BOWERSOCK, Greek sophists cit. 101 ss.; D. NÖRR, Ethik von Jurisprudenz cit. 28 ss.; G. CRIFÒ, Ulpiano cit. 734 ss.; T. HONORÉ, Ulpian2 cit. 22 ss. e 31 s.; A. MANTELLO, Il sogno, la parola, il diritto cit. 406; V. SCARANO USSANI, L’ars dei giuristi. Considerazioni sullo statuto epistemologico della giurisprudenza romana (Torino 1997) 143 e nt. 128; A. SCHIAVONE, Giuristi e Principe cit. 22. È stato ipotizzato in dottrina che al-le riunioni del circolo di Giulia Domna partecipasse anche Ateneo, autore dei Deipnosofisti, ed anzi che da «quel circolo [egli] pot[esse] aver tratto ispirazione

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siriano delle opere del filosofo scettico134. Proviamo, tuttavia, ad ammettere questa possibilità134come ipotesi di lavoro, per per il suo ‘banchetto dei sofisti’» (cfr. G. CRIFÒ, Ulpiano cit. 736); ora, com’è noto, tra i commensali [la cui storicità ha dato e dà tuttora adito a discussioni notevoli; per un quadro generale dell’opera, cfr. Ateneo. I deipnosofisti. I dotti a banchetto, prog. L. CANFORA I (Roma 2001) xi ss.] di questo banchetto lo scrittore greco po-neva un OéÏÈ·Óe˜ ï T‡ÚÈÔ˜, descritto con tratti estremamente pedanti e sopran-nominato ÎÂÈÙÔ‡ÎÂÈÙÔ˜ (cioè sempre intento a chiedere ‘si trova o non si trova’; v. Ath. 1.1e), la cui identificazione con il nostro Ulpiano giurista, benché tenacemente difesa (cfr., ancora, G. CRIFÒ, Ulpiano cit. 734), non può considerarsi affatto sicura [si vedano le condivisibili riserve manifestate, a questo proposito, da M. TALA-MANCA, Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR. 80 (1977) 238 ss., so-prattutto per quanto concerne le evidenti discrasie in ordine alle circostanze della morte], per cui qualsiasi deduzione che da ciò possa farsi relativamente alle cono-scenze ed alla personalità culturale di Ulpiano risulterebbe troppo labile per potervi fare affidamento.

134#Per quanto almeno a me consti (e sono pienamente consapevole che l’at-

testazione dei cd. ‘fatti negativi’ non è mai – come ben si sa – di per sé granché sicu-ra), sembra appena il caso di rilevare come l’esistenza di possibili profili di conso-nanza tra gli scritti ulpianei ed il pensiero di Sesto ed in generale la filosofia di tipo scettico non abbia attirato sinora la dovuta attenzione presso gli interpreti moderni; tra i pochi che vi hanno scorto una possibile relazione, cfr. A. MANTELLO, Le ‘classi nominali’ cit. 240, che, pur sottolineando l’impossibilità di accertare una conoscen-za diretta da parte di Ulpiano delle dottrine di Sesto, ravvisa, pensando a D. 19.5.4 (sul quale v. poco infra nel testo e nt. 152), un «confronto impressionante». Mag-giori discussioni ha, invece, suscitato la possibile influenza in genere della scepsi scettica sull’elaborazione dei prudentes dei tempi precedenti: per alcuni esempi, cfr. F. CASAVOLA, Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d.C.: il senso del passa-to, in ANRW. II.15 cit. 160 ss., ora in Giuristi adrianei (Napoli 1980) 49 ss., secon-do cui due noti testi di Nerazio (D. 1.3.21 e 22.6.2) «sembrano ‘in dialogo’ proprio con lo scetticismo pirroniano ...» (p. 162) [contra, cfr. tuttavia M. TALAMANCA, Per la storia della giurisprudenza cit. 302 ss. e A. CARCATERRA, ‘Ius finitum’ e ‘facti in-terpretatio’ nella epistemologia di Nerazio Prisco (D. 22,6,2), in Studi in onore di A. Biscardi V (Milano 1982) 430 s.]; P. CERAMI, La concezione celsina del «ius». Pre-supposti culturali e implicazioni metodologiche I. L’interpretazione degli atti autori-tativi, in AUPA. 38 (1985) 10 ss. [che ricollega la concezione celsina dello ius come ars boni et aequi risultante da D. 1.1.1 allo scetticismo metodologico; cfr., tuttavia, le perplessità manifestate a proposito di questa relazione da F. GALLO, Sulla defini-zione celsina del diritto, in SDHI. 53 (1987) 7 ss., ora in L’officium del pretore nella produzione e applicazione del diritto (Torino 1997) 221 ss., da cui cito, spec. 252 ss., su quest’aspetto, che, peraltro, non esclude «l’esistenza di coincidenze» tra la con-cezione celsina e la dottrina scettica che si legge in Sesto (p. 253 e nt. 124)]; V. SCA-RANO USSANI, Empiria e dogmi. La scuola proculiana fra Nerva e Adriano (Torino 1989) 131 s. nt. 162 (ancora sul pensiero di Celso ed in particolare a proposito del

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comprendere se essa abbia non solo le forze per reggersi in piedi (anche se su un piano meramente congetturale), ma so-prattutto risvolti concreti che possano risultare poi utili al no-stro discorso.

Cominciamo col ricordare che l’educazione filosofica dei giovani appartenenti all’élite della società imperiale avveniva all’ombra delle quattro principali dottrine: platonica, aristote-lica, stoica ed epicurea135. Questo è sicuramente testimoniato per Apollonio di Tiana136 e per Galeno137, ma non abbiamo motivo di credere che non si trattasse di una prassi generaliz-zata, tanto più avendo nella mente l’iniziativa di Marco Aure-lio di istituire cattedre pubbliche di filosofia nella città di Ate-ne soltanto per ciascuna di queste quattro scuole138. La pratica rigetto del metodo della retorica nell’interpretazione dei verba legis); S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino cit. 237 s. (con riguardo alla teoria dei segni rammemorativi e dei segni indicativi – per i quali v. già retro la nt. 129 – che avrebbe prodotto perce-pibili echi nel manuale di Fiorentino).

135#Cfr. E. STOLFI, Il modello delle scuole cit. 88 s. e nt. 419. 136

#V. Phil. Vita Apoll. 1.7: \EÓÙ·Ü©· ͢ÓÂÊÈÏÔÛfiÊÔ˘Ó ÌbÓ ·éÙá ¶Ï·ÙÒÓÂÈÔ› Ù ηd ÃÚ˘Û›ÂÈÔÈ Î·d Ôî àe ÙÔÜ ÂÚÈ¿ÙÔ˘, ‰È‹ÎԢ ‰b ηd ÙáÓ \EÈÎÔ‡ÚÔ˘ ÏfiÁˆÓ, Ôé‰b ÁaÚ ÙÔ‡ÙÔ˘˜ àÂÛÔ‡‰·˙Â, ÙÔf˜ ‰¤ Á ¶˘©·ÁÔÚ›Ԣ˜ àÚÚ‹Ùˆ ÙÈÓd ÛÔÊ›÷· Í˘Ó¤Ï·‚ [C.L. KAYSER, Flavii Philostrati Opera I cit. in Philostratus. The life of Apollonius of Tyana I (London 1960) 16].

137#V. Gal. De affect. dignot. 1.8: ^YÔÏËÚÒÛ·˜ ‰b ÙÂÛÛ·ÚÂÛηȉ¤Î·ÙÔÓ öÙÔ˜,

õÎÔ˘ÔÓ ÊÈÏÔÛfiÊˆÓ ÔÏÈÙáÓ, âd ÏÂÖÛÙÔÓ ÌbÓ ™Ùˆ˚ÎÔÜ ºÈÏÔ¿ÙÔÚÔ˜ Ì·©ËÙÔÜ, ‚Ú·¯fÓ ‰¤ ÙÈÓ· ηd ¶Ï·ÙˆÓÈÎÔÜ Ì·©ËÙÔÜ °·˝Ô˘, ‰Èa Ùe Ìc Û¯ÔÏ¿˙ÂÈÓ ·éÙeÓ, Âå˜ ÔÏÈÙÈÎa˜ àÛ¯ÔÏ›·˜ ëÏÎfiÌÂÓÔÓ ñe ÙáÓ ÔÏÈÙáÓ, ¬ÙÈ ÌfiÓÔ˜ ·éÙÔÖ˜ â‰fiÎÂÈ ‰›Î·Èfi˜ Ù ηd ¯ÚËÌ¿ÙˆÓ ÂrÓ·È ÎÚ›ÙÙˆÓ, ÂéÚfiÛÈÙfi˜ Ù ηd Ú÷ÄÔ˜. \EÓ ÙÔ‡Ùˇ ‰¤ ÙȘ ηd ôÏÏÔ˜ qÏ©Â ÔÏ›Ù˘ ì̤ÙÂÚÔ˜ âÍ àÔ‰ËÌ›·˜ Ì·ÎÚĘ, \AÛ·Û›Ô˘ ÙÔÜ ¶ÂÚÈ·ÙËÙÈÎÔÜ Ì·©ËÙc˜, ηd ÌÂÙa ÙÔÜÙÔÓ àe ÙáÓ \A©ËÓáÓ ôÏÏÔ˜ \EÈÎÔ‡ÚÂÈÔ˜, zÓ ê¿ÓÙˆÓ ï ·ÙcÚ ‰È’âÌb ÙÔÜ ‚›Ô˘ ηd ÙáÓ ‰ÔÁÌ¿ÙˆÓ âͤٷÛÈÓ âÔÈÂÖÙÔ, ÛfÓ âÌÔd Úe˜ ·éÙÔf˜ àÊÈÎÓÔ‡ÌÂÓÔ˜ [in Medicorum graecorum V cit. (Lipsiae 1823) 41 s., dove si può leg-gere anche la trad. lat. che segue: Postquam annum implevissem decimumquartum, audiebam philosophos civiles, saepissime Stoicum Philopatoris discipulum, parvo quoque tempore Platonicum Gai discipulum, eo quod ipsi non vacaret, ut qui ad ci-vilia negotia a civibus traheretur, quia solus ipsis aequus, pecuniae contemptor, nec-non accessu facilis et mitis iudicabatur. Interea autem venit et alius, civis noster, ex longa peregrinatione, Aspasii Peripatetici discipulus, et post hunc ab Athenis alius Epicureus, quorum omnium vitam et dogmata mea causa pater inquirebat, mecum ad eos profectus].

138#V. le fonti e la dottrina riportate retro alla nt. 122.

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didattica aveva prodotto, peraltro, una letteratura manualistica di contenuto divulgativo, che aveva il proposito di sintetizzare e semplificare dottrine complesse altrimenti difficili da com-prendere (ed anche, probabilmente, ormai da reperire diretta-mente attraverso le opere originali)139, della quale non molto ci è pervenuto se non due significative eccezioni, il Didascalico di Alcinoo per la filosofia platonica ed i commentari aristotelici di Alessandro di Afrodisia140, nei quali i problemi del linguag-gio e della logica in genere trovavano uno spazio certamente non marginale141. A queste letture anche Ulpiano non doveva,

139#Letteratura didattica che, peraltro, non sembra avesse a monte un comune

modello di insegnamento, bensì riflettesse la personalità e gli orientamenti dei sin-goli professori: cfr., su questo punto, S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino cit. 70 ss.

140#Sulla mancata conservazione di una corrispondente letteratura scolastica di

matrice stoica [salvo poche eccezioni, per le quali cfr., exempli causa, R.B. TODD, The Stoics and their Cosmology in the first and second centuries A. D., in ANRW. II.36.3 (Berlin 1989) 1376, e M. ISNARDI PARENTE, Ierocle stoico. Oikeiosis e doveri so-ciali, ibidem 2203, in relazione all’opera \H©ÈÎc ™ÙÔȯ›ˆÛȘ di Ierocle] e sulle ragioni che verosimilmente l’hanno determinata, probabilmente non ravvisabili interamente in un incidente del caso, cfr., amplius, P. DONINI, Testi e commenti cit. 5089 ss.

141#V., per il Didascalico, in particolare il cap. 6, già cit. retro alla nt. 107. Per

quanto attiene ad Alessandro di Afrodisia (della vita del quale pressoché nulla co-nosciamo, tranne forse – perché da lui stesso riferito: v. De fat. 164.1-3 – che tenne la cattedra peripatetica ad Atene sotto Settimio Severo: cfr. P. DONINI, Le scuole l’anima l’Impero cit. 220; F. ADORNO, La filosofia antica IV cit. 64; G. REALE, Sto-ria della filosofia greca3 VI cit. 233 nt. 1), non può considerarsi casuale la decisione di privilegiare, nella scelta degli scritti aristotelici da commentare, la spiegazione proprio delle opere logiche o della Metafisica (così crede anche P. DONINI, Testi e commenti cit. 5040, secondo cui «questa preferenza può forse essere spiegata con il desiderio di assicurare innanzitutto alla sistemazione della filosofia aristotelica una salda struttura logico-ontologica»). A proposito del problema dei nomi e dei signi-ficanti, v., ad es., Alex. In Metaph. 274.2-15 [^AÍÈÔÖ ‰c âÚˆÙÄÓ ÙeÓ ÚÔۉȷÏÂÁfiÌÂ- ÓÔÓ, Âå ϤÁˆÓ ÙÈ ÛËÌ·›ÓÂÈ ‰È’zÓ Ï¤ÁÂÈ Ù ηd çÓÔÌ¿˙ÂÈ Î·d ë·˘Ùá ηd ôÏψ, ηd öÛÙÈ ÙÈ Î·©’Ôy Ê¤ÚˆÓ Ùe ùÓÔÌ· ηd n ÛËÌ·›ÓÂÈÓ ‚Ô˘ÏfiÌÂÓÔ˜ ϤÁÂÈ Ù ηd ÚÔʤÚÂÙ·È ·éÙfi. ^O ÁaÚ Ï¤ÁˆÓ ÌˉbÓ ÛËÌ·›ÓÂÈÓ ‰È’zÓ Ï¤ÁÂÈ Ù ηd ëàÔÎÚ›ÓÂÙ·È, ÔyÙÔ˜ ÔûÙ’iÓ Úe˜ ·ñÙeÓ Ï¤ÁÔÈ ÙÈ ÔûÙ Úe˜ ôÏÏÔÓ. Oé‰b ÁaÚ Ùa ÓÔ‹Ì·Ù· öÛÙ·È ÛËÌ·›ÓÔÓÙ¿ ÙÈ, Ôx˜ àÓÙd ÙáÓ çÓÔÌ¿ÙˆÓ Î·d ÙÔÜ ÏfiÁÔ˘ ¯ÚÉÙ·È Úe˜ ·ñÙfiÓ. Eå ÁaÚ qÓ ÙÈ Ù·ÜÙ· ÛËÌ·›ÓÔÓÙ·, qÓ iÓ ÙÔÖ˜ ÛËÌ·ÈÓÔ̤ÓÔȘ ñ’·éÙáÓ Î·d çÓfiÌ·Ù· Ù›©ÂÛ©·È, ηd Ô≈Ùˆ˜ iÓ qÓ Î·d ì ʈÓc ÛËÌ·›ÓÔ˘Û·. O≈Ùˆ ‰b ·éÙe˜ iÓ ïÌÔÏÔÁÔ›Ë Ìc ¯ÚÉÛ©·È ÏfiÁ ˇ Ø ï ÁaÚ ÏfiÁÔ˜ ʈÓc ÛËÌ·ÓÙÈ΋. ^OÌÔ›ˆ˜ ‰b àÓ·ÈÚÂÖ ÏfiÁÔÓ ÎiÓ Ï¤ÁFË ÌˉbÓ ÌÄÏÏÔÓ ÛËÌ·›ÓÂÈÓ ·éÙeÓ j Ìc ÛËÌ·›ÓÂÈÓ. Eå ÔsÓ Ìc ÛËÌ·›ÓÔÈ ¬Ù·Ó ϤÁÔÈ ÙÈ, ÔûÙ’iÓ ‰È·Ï¤ÁÂÛ©·È ÂúËØ ¿ÏÈÓ ÁaÚ ÔyÙÔ˜ ¬ÌÔÈÔ˜ Á›ÓÂÙ·È Ê˘Ùá. òAÓ ‰b ‰È‰á ηd Û˘Á¯ˆÚFÉ ÛËÌ·›ÓÂÈÓ ‰È’zÓ Ï¤ÁÂÈ, ÙÔÜÙÔ

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verosimilmente, aver mancato di accostarsi ed esse hanno la-sciato tracce ancora visibili qua e là nella sua scrittura142. Baste-rà un esempio, attinto da un contesto assai significativo pro-prio per le evidenti implicazioni sul piano terminologico143, a persuaderci: 143

Ï·‚fiÓÙ·˜ ‰˘Ó·ÙeÓ öÛÙ·È öÏÂÁ¯ÔÓ ÙÔÜ ÚÔÎÂÈ̤ÓÔ˘ ÔÈ‹Û·Û©·ÈØ àÓÙd ÁaÚ ÙÔÜ âϤÁ¯Ô˘ ÙFÉ àԉ›ÍÂÈ â¯Ú‹Û·ÙÔ. «Aristotele pensa allora che si debba chiedere all’interlocu- tore se, quando parla, esprime qualcosa sia per sé sia per l’altro, con le cose che dice e che nomina, ossia se c’è una cosa, attribuendo alla quale il nome e volendo significa-re la quale egli parla e pronuncia il nome. Infatti chi sostiene di non esprimere nulla con le cose che dice e che risponde, non potrebbe dire qualcosa né a se stesso né a un altro, poiché neppure i pensieri, che con se stesso usa al posto delle parole e del di-scorso, significherebbero qualcosa: se questi significassero qualcosa, sarebbe possi-bile anche assegnare un nome alle cose che da essi vengono significate, e così anche la voce avrebbe un significato. In questo modo costui ammetterebbe di non essersi ser-vito del discorso, poiché il discorso è una voce capace di significare. Costui annulle-rebbe ugualmente il discorso anche se sostenesse di esprimere qualcosa quando par-la, allora non si può fare nessuna discussione, perché diventa di nuovo simile a una pianta. Se poi l’avversario concede e ammette di esprimere qualcosa con le cose che dice, una volta assunto ciò sarà possibile confutare la tesi che ha proposto». Trad. it. da Alessandro di Afrodisia. Commentario alla Metafisica di Aristotele, cur. G. MO-VIA (Milano 2007) 649], dove, in relazione al principio di non contraddizione [in ar-gomento, cfr. M. MIGNUCCI, Alessandro interprete di Aristotele: luci ed ombre del commento a Metaph. °, in Alessandro di Afrodisia e la «Metafisica» di Aristotele, cur. G. MOVIA (Milano 2003) 93 ss., e K.L. FLANNERY, Logica e significato nel commento di Alessandro di Afrodisia a Metafisica IV, ibidem 135 ss.; in entrambi i casi con indica-zione di altra dottrina], il punto di partenza della confutazione è costituito proprio dal domandare all’avversario se, quando parla, esprima qualcosa. In generale sulla figura di Alessandro di Afrodisia, cfr., per tutti, R.W. SHARPLES, Alexander of Aphrodisias: Scholasticism and Innovation, in ANRW. II.36.2 (Berlin-New York 1987) 1176 ss.

142#È, a questo proposito, da condividere l’idea di G. LANATA, Legislazione e

natura cit. 217, per cui «la cultura di Ulpiano, sicuramente larghissima, includeva anche un interesse non meramente ornamentale per la filosofia».

143#Stando, infatti, a O. LENEL, Palingenesia II cit. 1131 (fr. 2747), che unisce il

frammento de quo a quello portato in D. 19.5.13 pr.-1, l’originaria sedes materiae ulpianea doveva rimandare al problema della sussunzione dei negotia atipici entro gli schemi contrattuali riconosciuti ed alla tematica dei contratti innominati in gene-re [in proposito, cfr., altresì, R. QUADRATO, «Iuris conditor», in Index 22 (1994) 92, per il quale il passo doveva forse costituire «l’inizio o ... solo la premessa teorica di un discorso che il giurista sta[va] svolgendo sul tema dei contratti atipici»; per le fattispecie negoziali ivi rappresentate e per il problema della tutela processuale, cfr., tra gli altri, A. SCHIAVONE, Studi sulle logiche cit. 159 ss.; A. BURDESE, Sul ricono-scimento civile dei c.d. contratti innominati, in Iura 36 (1985) 33; F. GALLO, Synal-lagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 405

D. 19.5.4 (Ulp. 30 ad Sab.). Natura enim rerum conditum est, ut plura sint negotia quam vocabula144. Per la natura delle cose – scrive Ulpiano – sono più i nego-

tia che si manifestano nella vita reale che i vocabula atti a de-nominarli. Si tratta di un inciso brevissimo e perspicuo nel suo significato estrinseco, ma ciò nondimeno in più occasioni di-scusso in dottrina145 ed accostato al problema della concezione del linguaggio presso il giurista di Tiro146, che, anche prima fa- spunti per la revisione di impostazioni moderne II (Torino 1995) 176 ss.; G. SAN-TUCCI, Il socio d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabiità (Padova 1997) 10 nt. 21]. L’alta valenza del brano per la problematica de qua è ben eviden-ziata da A. MANTELLO, Le ‘classi nominali’ cit. 236.

144#Non è, peraltro, l’unico esempio che è possibile richiamare a questo fine.

Altrettanto indicativo di probabili reminiscenze ulpianee di tali discussioni filosofi-che è anche l’inciso finale di D. 30.4 pr. (... rerum enim vocabula immutabilia sunt, hominum mutabilia), che potrebbe anche integrare una citazione tratta da Pompo-nio, il cui pensiero è subito prima richiamato [così B. ALBANESE, Tre studi celsini, in AUPA. 34 (1973) 117 s. e nt. 46 = Scritti giuridici II (Palermo 1991) 1257 s. e nt. 46, che considera hominum mutabilia forse un’aggiunta ulpianea; ed a Pomponio rimanda, altresì, D. NÖRR, Pomponius cit. 236 nt. 430, che non scioglie peraltro il dubbio se l’inciso rifletta la teoria platonica delle idee o della fisica stoica: v. biblio-grafia ivi richiamata; per l’attribuzione ad Ulpiano, cfr., invece, le condivisibili an-notazioni di A. MANTELLO, Le ‘classi nominali’ cit. 244 nt. 71], ed ha un chiaro an-tecedente nel dialogo platonico del Cratilo, nella parte in cui vengono contrapposti i nomi degli uomini a quelli delle cose, queste soltanto avendo sempre la medesima condizione: v. Crat. 397 b: Ta ÌbÓ ÔsÓ ÙáÓ ìÚÒˆÓ Î·d àÓ©ÚÒˆÓ ÏÂÁfiÌÂÓ· çÓfiÌ·Ù· úÛˆ˜ iÓ ìÌĘ âÍ··Ù‹ÛÂÈÂÓØ ÔÏÏa ÌbÓ ÁaÚ ·éÙáÓ ÎÂÖÙ·È Î·Ùa ÚÔÁfiÓˆÓ âˆÓ˘Ì›·˜, Ôé‰bÓ ÚÔÛÉÎÔÓ âÓ›ÔȘ ... Ta ÌbÓ ÔsÓ ÙÔÈ·ÜÙ· ‰ÔÎÂÖ ÌÔÈ ¯ÚÉÓ·È âÄÓØ ÂåÎe˜ ‰b Ì¿ÏÈÛÙ· ìÌĘ ÂñÚÂÖÓ Ùa çکᘠΛÌÂÓ· ÂÚd Ùa àÂd ùÓÙ· ηd ÂÊ˘ÎfiÙ· [trad. it. tratta da Pla-tone cit. 251: «Ora i nomi che vengono usati per gli eroi e per gli uomini forse pos-sono trarci in inganno: molti di essi infatti sono stati posti per così per eponimia con quelli degli antenati, pur non confacendosi per alcuni ... Ma a me pare che dob-biamo tralasciare nomi di tale fatta, mentre mi pare verisimile che troveremo so-prattutto nomi posti con giustezza nelle cose che si trovano sempre nella stessa condizione e sono così per natura»].

145#Ciò in dipendenza della sua riconducibilità ad una delle tematiche da sem-

pre più dibattute, vale a dire il tema dei nova negotia e dei contratti innominati: cfr. A. SCHIAVONE, Studi sulle logiche cit. 179 nt. 28, dove il testo è considerato espres-sione di una «radicata posizione naturalistica ed antinominalista ... nel campo delle teorie contrattualistiche» da parte di Ulpiano (riserve sull’effettiva utilità di tali eti-chette in A. MANTELLO, Le ‘classi nominali’ cit. 238).

146#Cfr. G.G. ARCHI, Dal formalismo negoziale repubblicano al principio giu-

stinianeo «cum sit iustum voluntates contrahentium magis quam verborum con-

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 406

cie, mostra di essere un evidente calco aristotelico, precisamente di quel frammento delle Confutazioni sofistiche che già abbia-mo avuto modo in precedenza di conoscere: Ta ÌbÓ ÁaÚ çÓfi- Ì·Ù· ¤ڷÓÙ·È Î·d Ùe ÙáÓ ÏfiÁˆÓ ÏÉ©Ô˜, Ùa ‰b Ú¿ÁÌ·Ù· ÙeÓ àÚÈ©ÌeÓ ôÂÈÚ¿ âÛÙÈÓ (De soph. elench. 165a.10-12)147. In en-trambi gli squarci ciò che si evidenzia è la non automatica corri-spondenza tra i negotia (Ú¿ÁÌ·Ù·) ed i vocabula (çÓfiÌ·Ù·) e pertanto il carattere indeffettibilmente relativo ed arbitrario dello strumento linguistico. Ora, oltre che nella filosofia aristo-telica, Ulpiano poteva, ai suoi tempi, trovare spunti di simile tenore proprio nella polemica sestiana avverso quelle filosofie considerate dogmatiche148, ed in particolare, per quanto qui ci ceptionem inspicere» (C.I. 8,16 [17], 9), in SDHI. 46 (1980) 14 s. (= Scritti di diritto romano I cit. 459 s.), secondo cui Ulpiano, in questo caso, farebbe «la filosofia del- l’événement», limitandosi a constatare il fenomeno e prendendone atto; A. MAN-TELLO, Le ‘classi nominali’ cit. 235 ss.

147#Il parallelismo con il pensiero aristotelico è evidenziato da più parti in dot-

trina: cfr. P. FREZZA, La cultura cit. 654; G. LANATA, Legislazione e natura cit. 217; A. SCHIAVONE, Giuristi e Principe cit. 21 nt. 43.

148#Illuminante, sotto questo profilo, l’esordio ed i primissimi capitoli delle

¶˘ÚÚˆÓ›·È ^YÔÙ˘ÒÛÂȘ, dove è tracciato il disegno ispiratore di questa sorta di ‘enciclopedia dello Scetticismo in compendio’ [per questa definizione, cfr. Sesto Empirico. Schizzi pirroniani cit. viii]: ¢ÈfiÂÚ úÛˆ˜ ηd âd ÙáÓ Î·Ùa ÊÈÏÔÛÔÊ›·Ó ˙ËÙÔ˘Ì¤ÓˆÓ Ôî ÌbÓ ÂñÚËÎ¤Ó·È Ùe àÏË©b˜ öÊ·Û·Ó, Ôî ‰’àËÊ‹Ó·ÓÙÔ Ìc ‰˘Ó·ÙeÓ ÂrÓ·È ÙÔÜÙÔ Î·Ù·ÏËÊ©ÉÓ·È, Ôî ‰b öÙÈ ˙ËÙÔÜÛÈÓ. K·d ÂñÚËÎ¤Ó·È ÌbÓ ‰ÔÎÔÜÛÈÓ Ôî ˆ˜ ηÏÔ‡ÌÂÓÔÈ ‰ÔÁÌ·ÙÈÎÔ›, ÔxÔÓ Ôî ÂÚd \AÚÈÛÙÔÙ¤ÏËÓ Î·d \E›ÎÔ˘ÚÔÓ Î·d ÙÔf˜ ÛÙˆÈÎÔf˜ ηd ôÏÏÔÈ ÙÈÓ¤˜ ... (Pyrr. Hyp. 1.1.2-3) [«Così, anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avrebbero affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di averla trovata coloro che, con denominazione particolare, so-no chiamati Dogmatici, come gli Aristotelici, gli Epicurei, gli Stoici ed altri ...»; trad. it tratta da op. ult. cit. 3]; v. anche Pyrr. Hyp. 1.7.14 [^O ÌbÓ ÁaÚ ‰ÔÁÌ·Ù›˙ˆÓ ó˜ ñ¿Ú¯ÔÓ Ù›©ÂÙ·È Ùe ÚÄÁÌ· âÎÂÖ n ÏbÁÂÙ·È ‰ÔÁÌ·Ù›˙ÂÈÓ, ï ‰b ÛÎÂÙÈÎe˜ Ùa˜ ʈÓa˜ Ù›©ËÛÈ Ù·‡Ù·˜ Ôé¯ ó˜ ¿ÓÙˆ˜ ñ·Ú¯Ô‡Û·˜. «Poiché colui che dogmatizza pone co-me vera e reale la sua asseverazione così detta dogmatica, mentre lo Scettico pone queste espressioni non come vere e reali in senso assoluto». Trad. it. tratta da op. ult. cit. 6], in cui c’è la differenza fondamentale con i Dogmatici, e 1.8.17 [Eå ‰¤ ÙȘ ·¥ÚÂÛÈÓ ÂrÓ·È Ê¿ÛÎÂÈ ÙcÓ ÏfiÁ ˇˆ ÙÈÓd ηÙa Ùe Ê·ÈÓfiÌÂÓÔÓ àÎÔÏÔ˘©ÔÜÛ·Ó àÁˆÁ‹Ó, âΛÓÔ˘ ÙÔÜ ÏfiÁÔ˘ ó˜ öÛÙÈÓ çکᘠ‰ÔÎÂÖÓ ˙ÉÓ ñÔ‰ÂÈÎÓ‡ÔÓÙÔ˜ ... ηd âd Ùe ⤯ÂÈÓ ‰‡Ó·Û©·È ‰È·Ù›ÓÔÓÙÔ˜, ·¥ÚÂÛ›Ó Ê·ÌÂÓ ö¯ÂÈÓØ àÎÔÏÔ˘©ÔÜÌÂÓ Á¿Ú ÙÈÓÈ ÏfiÁˇ ηÙa Ùe Ê·ÈÓfiÌÂÓÔÓ ñÔ‰ÂÈÎÓ‡ÓÙÈ ìÌÖÓ Ùe ˙ÉÓ Úe˜ Ùa ¿ÙÚÈ· ö©Ë ηd ÙÔf˜ ÓfiÌÔ˘˜ ηd Ùa˜ àÁˆÁa˜ ηd Ùa ÔåÎÂÖ· ¿©Ë. «Se, invece, per setta s’intende un indirizzo che aderi-

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 407

interessa, avverso la pretesa della Ù¤¯ÓË ÁÚ·ÌÌ·ÙÈ΋ di spiegare, servendosi di regole asettiche ed avulse dall’esperienza concre-ta, il fenomeno linguistico in quanto tale149; si legga, ad esempio, sce, in conformità del fenomeno, a una certa maniera di ragionare, come quella che ci mostra in qual modo è possibile sembrare di vivere rettamente ... e tende a darci la facoltà di sospendere il nostro giudizio, allora diciamo che lo Scettico ha una setta. Aderiamo, infatti, a una maniera di ragionare che c’insegna, in conformità del feno-meno, a vivere secondo i costumi, le leggi, le istituzioni degli avi e le nostre proprie affezioni». Trad. it. tratta da op. ult. cit. 7]. Su questi passi e sul programma filosofico della corrente scettica così come delineato nel primo libro delle Ipotiposi pirroniche, cfr., amplius, G. CORTASSA, Il programma dello scettico cit. 2696 ss. Ma, soprattutto, nell’ottica della risonanza che le concezioni sestiane potrebbero aver avuto sul pensie-ro di Ulpiano, uno spunto significativo, anche se non valorizzato in dottrina, parrebbe desumersi da quell’insistere con tono polemico del medico empirico con l’espressione ηÏÔ˘Ì¤ÓË ÊÈÏÔÛÔÊ›· (la cd. filosofia), che si riscontra più volte all’interno delle Ipoti-posi pirroniche (v. Pyrr. Hyp. 1.2.6, 2.1.1, 2.16.205) per designare il sistema filosofico tradizionalmente basato sulla canonica triplice scansione della logica, della fisica e dell’etica; espressione che sembra quasi riecheggiare, non troppo da lontano, la si-mulata philosophia di D. 1.1.1.1. Che nella contrapposizione tra vera e simulata filo-sofia il giurista di Tiro intendesse prendere le distanze da un modello tradizionale di sapere, è stato giustamente prospettato da più parti: cfr., tra gli altri, F. GALLO, La ‘verità’: valore sotteso alla definizione celsina del diritto, in Diritto@Storia 7 (2008) (disponibile on line al seguente indirizzo: http://www.dirittoestoria.it/7/Tradizione-Romana/Gallo-Verit-valore-definizione-celsina-diritto.htm), che così scrive: «... Ul-piano, parlando di vera philosophia, si è riferito all’elaborazione dei giuristi, da lui contrapposta a quella svolta in campo filosofico e giudicata (per l’ambito giuridico) un sapere simulato, in quanto rispondente solo in apparenza alla realtà e alle esigen-ze umane. La circostanza che il giureconsulto ha enunciato la propria critica nel ma-nuale istituzionale fa ritenere che egli abbia avuto di mira concezioni per un verso, concernenti il diritto e, per l’altro, in auge al suo tempo. Erano tali le idee radicate nella visione del diritto naturale e tramandate congiuntamente ad essa nella filosofia stoica ...». Quanto la correlazione vera e simulata philosophia fosse, del resto, tra-sversale e coinvolgesse differenti ambienti culturali nel II secolo d.C., nel rapporto tra sapere teorico e pratica, mostra un breve inciso dei Pensieri di Marco Aurelio (1.16.18; il contesto è quello nel quale l’Imperatore enumera i debiti di gratitudine che sente verso gli uomini, tra i quali menziona appunto, come debito paterno, «l’onore at-tribuito ai veri filosofi e d’altra parte il rispetto per gli altri, pur senza lasciarsi inganna-re da costoro»), sul quale cfr., amplius, V. MAROTTA, Multa de iure sanxit cit. 121 ss., dove si possono leggere numerose altre testimonianze in grado di ben restituirci l’idea dell’aspra polemica nei riguardi della degenerazione della filosofia.

149#Riporto qui di seguito un’espressione di A. RUSSO, Sesto Empirico. Contro

i matematici cit. xv, che ben rende l’idea dell’atteggiamento polemico del filosofo di fronte alla grammatica: «Sesto rileva la boriosa vacuità dei diversi indirizzi gramma-ticali e ad essi contrappone la Û˘Ó‹©ÂÈ· della vita reale».

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 408

Sext. Emp. Adv. math. 1.7.145. EúÂÚ ÁaÚ Ê‡ÛÂÈ Ùa çÓfi- Ì·Ù· qÓ Î·d Ìc ÙFÉ Î·©’≤ηÛÙÔÓ ©¤ÛÂÈ ÛËÌ·›ÓÂÈ, â¯ÚÉÓ ¿Ó- Ù·˜ ¿ÓÙˆÓ àÎÔ‡ÂÈÓ, ≠EÏÏËÓ·˜ ‚·Ú‚¿ÚˆÓ ηd ‚·Ú‚¿ÚÔ˘˜ ^EÏÏ‹ÓˆÓ Î·d ‚·Ú‚¿ÚÔ˘˜ ‚·Ú‚¿ÚˆÓ. Oé¯d ‰¤ Á ÙÔÜÙÔØ ÔéÎ ôÚ· ʇÛÂÈ ÛËÌ·›ÓÂÈ Ùa çÓfiÌ·Ù·150;

nel quale il filosofo rifugge, per spiegare il sistema dei nomi, da ogni astrazione naturalistica e pone l’accento sulla loro varia-bilità nelle diverse lingue, frutto di quella convenzione parti-colare che è, volta per volta, alla base della comprensione del significato delle parole (ÙFÉ Î·©’≤ηÛÙÔÓ ©¤ÛÂÈ ÛËÌ·›ÓÂÈ); per cui, non sembrerebbe azzardato supporre che (anche) nel Corpus Sextianum (come, probabilmente, pure nelle pagine dedicate dal medico-filosofo Galeno alla imperfezione dei nomi nel rap-presentare la realtà empirica151), egli possa avere avuto, in parte qua, un possibile referente culturale152. Il che – si badi bene –

150#«Se, infatti, i nomi esistessero per natura e non assumessero in v i rtù

d i una convenzione un s igni f ica to in ogni caso part icolare , risulte-rebbe di necessità che ognuno sarebbe in grado di ascoltare e comprendere ogni al-tro e i Greci capirebbero i barbari, e questi non solo capirebbero i Greci, ma si capi-rebbero anche tutti tra loro» (trad. it. tratta da A. RUSSO, Sesto Empirico. Contro i matematici cit. 51).

151#V. retro nt. 123. Crede che «le proposte di Galeno» possano «aver esercita-

to un influsso non momentaneo o superficiale» su Ulpiano, G. LANATA, Legisla-zione e natura cit. 216.

152#Non ne dubita A. MANTELLO, Le ‘classi nominali’ cit. 240 s., che, se ho ben

compreso il suo punto di vista, intende per di più dimostrare, dopo aver accostato D. 19.5.4 di Ulpiano al locus dell’Adversus mathematicos di Sesto citato su nel testo (ed ai paragrafi che lo precedono immediatamente) ed averne trovato il raffronto «impressionante», come in entrambe le fonti non si rinneghi l’«idea di un fonda-mento naturale dei nomi»; argomenti in tal senso sarebbero da un lato quel natura enim rerum conditum est con cui si apre l’affermazione ulpianea e che sembra ri-mandare al «momento della costituzione/creazione di qualcosa» – al punto da poter dire che «Ulpiano potesse essere sensibile alle discussioni dell’epoca sul fondamen-to del linguaggio, e rifiutare al contempo una critica radicale delle visioni naturali-stiche» – e dall’altro (cfr. ibidem nt. 62) taluni spunti (come l’accenno all’origine della vita umana in cui le parole sarebbero state pronunciate riproducendo i suoni naturali o ancora alle emozioni suscitate del tutto naturalmente in conseguenza dell’essere un nome ad esempio maschile pur se riferito a cose di segno femminile) presenti nel discorso di Sesto (nella parte che ho, invero, omesso di citare e per la quale rinvio all’articolo di Mantello), nei quali si potrebbe percepire un’eco delle

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 409

non implica di per sé una necessaria adesione del giurista siria-no altresì agli esiti finalistici della metodologia scettica – vale a dire la sospensione del giudizio nell’ottica del raggiungimento dell’àÙ·Ú·Í›·153 –, ma, più semplicemente, il riconoscimento della possibile utilità, in certi casi, degli strumenti logici da essa impiegati e, in particolare, il ridimensionamento dell’argomen- tazione dialettica e del pensiero dogmatico, a tutto vantaggio della conoscenza empirica e dell’esperienza comune risultante dall’osservazione della vita pratica154. Quanto peso Ulpiano dottrine linguistiche di stampo stoico. In verità, però, il riferimento che Ulpiano qui fa alla natura rerum potrebbe anche non sottintendere direttamente la questione dell’origine del linguaggio e dell’impositio nominum dibattuta nelle scuole filosofi-che, ma più semplicemente il fatto naturale che una realtà perennemente in evolu-zione dà vita a nuove figure giuridiche più velocemente di quanto impieghi l’uomo ad attribuire loro un nome (cfr., in questo senso, per quanto mi sembra, R. QUA-DRATO, «Iuris conditor» cit. 92, che nota appunto la formulazione «‘empiristica’, con la quale l’intellettuale severiano registra il proliferare di negozi nella pratica del-le relazioni commerciali ...»); altrimenti, come si verrebbe a coniugare nel pensiero ulpianeo il fondamento naturalistico dei nomi con la mancata corrispondenza tra negotia e vocabula? Se ogni nome è tale per natura e comprende in sé le qualità di ciò che denomina, nessuna ‘entità’ ne sarebbe in definitiva sprovvista; mentre così non è – rileva appunto Ulpiano. È vero che anche agli Stoici, strenui difensori (co-me abbiamo visto) della teoria dell’origine naturale della lingua, era presente il fatto che, in corso di tempo, l’uso avesse finito per corrompere questa rispondenza dei nomi alle qualità delle cose significate (v. retro nt. 118), ma ciò non sposta – a mio parere – il nodo che resta fondamentale nel testo ulpianeo e cioè che nomi e cose non hanno di per sé una correlazione universale; e questo non soltanto sembra esse-re un dato indubbiamente a favore dell’ipotesi che anche per Ulpiano l’impositio nominum dovesse rappresentarsi come il frutto di una convenzione da valorizzarsi caso per caso (si consideri, peraltro, che il contesto nel quale l’affermazione era in-serita era quello – come abbiamo visto retro alla nt. 143 – della riconducibilità o meno delle nuove fattispecie negoziali ai nomina già riconosciuti), quanto soprat-tutto pare evidenziare che per il giurista il sistema dei nomi potesse risultare talora arbitrario ed insicuro. In ogni caso, ciò che soprattutto conta ai fini del discorso che stiamo conducendo è la possibilità di immaginare una conoscenza di Ulpiano del pensiero di Sesto, che, anche nella prospettiva valorizzata dall’A., risulterebbe, co-me ipotesi di lavoro, avvalorata.

153#Cfr., per un quadro generale, J. ALLEN, The Skepticism of Sextus Empiricus

cit. 2597 ss.; G. CORTASSA, Il programma dello scettico cit. 2714 ss. 154

#Gli esempi che si possono addurre, in relazione a Sesto, sono numerosi; mi limito qui a richiamare soprattutto quelli che si ritrovano all’interno del cap. 22 del secondo libro delle ¶˘ÚÚˆÓ›·È ^YÔÙ˘ÒÛÂȘ, dedicato appunto ai sofismi: v. Pyrr. Hyp. 2.22.236 [≠OÛ· ÌbÓ ÛÔÊ›ÛÌ·Ù· 剛ˆ˜ ì ‰È·ÏÂÎÙÈÎc ‰‡Ó·Û©·È ‰ÔÎÂÖ ‰ÈÂϤÁ¯ÂÈÓ,

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dovesse attribuire alla ·Ú·ÎÔÏÔ‡©ËÛȘ ÙáÓ Ú·ÁÌ¿ÙˆÓ (cioè, con le parole di Sesto, alla comprensione•dei fatti) mostra, per

• ÙÔ‡ÙˆÓ ì ‰È¿Ï˘ÛȘ ô¯ÚËÛÙfi˜ âÛÙÈÓØ ¬ÛˆÓ ‰b ì ‰È¿Ï˘ÛȘ ¯ÚËÛÈ̇ÂÈ, Ù·ÜÙ· ï ÌbÓ ‰È·- ÏÂÎÙÈÎe˜ ÔéÎ iÓ ‰È·Ï‡ÛÂÈÂÓ, Ôî ‰b âÓ ëοÛÙFË Ù¤¯ÓFË ÙcÓ âd ÙáÓ Ú·ÁÌ¿ÙˆÓ ·Ú·- ÎÔÏÔ‡©ËÛÈÓ âÛ¯ËÎfiÙ˜. Trad. it. tratta da Sesto Empirico. Schizzi pirroniani cit. 114: «Di quanti sofismi la dialettica crede di potere, per facoltà propria, dare la confuta-zione, la loro risoluzione è inutile. Di quanti, invece, la risoluzione è utile, questi non il Dialettico potrebbe risolvere, sì bene, coloro che in ciascun’arte possiedono una conoscenza in base ai fatti»]; 2.22.239-240, per un esempio tangibile del diffe-rente modus agendi proposto [¶¿ÏÈÓ Ù ⛠ÙÈÓÔ˜ ˘Ú¤ÛÛÔÓÙÔ˜ ηÙa ‡ÎÓˆÛÈÓ âÈÙÂٷ̤ÓËÓ âÚˆÙË©¤ÓÙÔ˜ ÙÔÜ ÙÔÈÔ‡ÙÔ˘ ÏfiÁÔ˘ Ùa âÓ·ÓÙ›· ÙáÓ âÓ·ÓÙ›ˆÓ å¿Ì·Ù¿ âÛÙÈÓØ âÓ·ÓÙ›ÔÓ ‰b ÙFÉ ñÔÎÂÈ̤ÓFË ˘ÚÒÛÂÈ Ùe „˘¯ÚfiÓØ Î·Ù¿ÏÏËÏÔÓ ôÚ· ÙFÉ ñÔÎÂÈ̤ÓFË ˘ÚÒÛÂÈ Ùe „˘¯ÚfiÓ ï ÌbÓ ‰È·ÏÂÎÙÈÎe˜ ìÛ˘¯¿ÛÂÈ, ï ‰b å·ÙÚe˜ Âå‰g˜ Ù›Ó· Ì¤Ó âÛÙÈÓ ÚÔËÁÔ˘Ì¤Óˆ˜ ÚÔÛÂ¯É ¿©Ë, Ù›Ó· ‰b Û˘ÌÙÒÌ·Ù· ÙÔ‡ÙˆÓ, âÚÂÖ Ìc âd ÙáÓ Û˘ÌÙˆ- Ì¿ÙˆÓ ÚÔÎfiÙÂÈÓ ÙeÓ ÏfiÁÔÓ ... àÏÏ’âd ÙáÓ ÚÔÛ¯áÓ ·©áÓ, ηd ÙcÓ ÌbÓ ÛÙ¤ÁÓˆÛÈÓ ÂrÓ·È ÚÔÛ¯É, ≥ÙȘ Ôé ÙcÓ ‡ÎÓˆÛÈÓ àÏÏa ÙeÓ ¯·Ï·ÛÙÈÎeÓ ÙÚfiÔÓ Ùɘ âÈÌÂÏ›·˜ à·ÈÙÂÖ, Ùe ‰b Ùɘ â·ÎÔÏÔ˘©Ô‡Û˘ ©ÂÚÌ·Û›·˜ Ôé ÚÔËÁÔ˘Ì¤Óˆ˜ ÚÔÛ¯¤˜, ¬©ÂÓ Ìˉb Ùe ηٿÏÏËÏÔÓ ÂrÓ·È ‰ÔÎÔÜ ·éÙFÉ. Trad. it. tratta da op. ult. cit. 114 s.: «Se, a proposito di una persona colta dalla febbre in seguito a un’ostruzione grave, si pone questo ragionamento: ‘i contrari sono rimedi dei contrari. Ma il freddo è il contrario della febbre del caso. Dunque il freddo è il rimedio consentaneo alla febbre del caso’, il Dialettico se ne starà zitto. Il medico, invece, che sa quali sono le affezioni morbo-se primarie e persistenti, e quali, invece, i loro sintomi, dirà che il ragionamento non verte sui sintomi ... ma sulle affezioni morbose primarie e persistenti; e che l’ostru- zione è un’affezione persistente, che richiede un genere di cura che allenti, non con-densi; e che l’ardore febbrile seguitone non è un fatto primario e persistente, onde, nemmeno pare essere un rimedio conveniente ad esso <l’acqua fredda>»]; 2.22.246, per una chiara enunciazione della supremazia dell’osservazione comune sui dogmi [\AÚÎÂÖ Á¿Ú, ÔrÌ·È, Ùe âÌ›ڈ˜ Ù ηd à‰ÔÍ¿ÛÙˆ˜ ηÙa Ùa˜ ÎÔÈÓa˜ ÙËÚ‹ÛÂȘ Ù ηd ÚÔÏ‹„ÂȘ ‚ÈÔÜÓ, ÂÚd ÙáÓ âÎ ‰ÔÁÌ·ÙÈÎɘ ÂÚÈÂÚÁ›·˜ ηd Ì¿ÏÈÛÙ· ö͈ Ùɘ ‚ȈÙÈÎɘ ¯Ú›·˜ ÏÂÁÔÌ¤ÓˆÓ â¤¯ÔÓÙ·˜. Trad. it. tratta da op. ult. cit. 116: «Pertanto, è suffi-ciente, penso, vivere secondo l’esperienza e senza dogmi, in conformità delle osser-vazioni comuni e delle prenozioni che sono in noi, sospendendo il giudizio su quanto vien detto dalla sottigliezza dialettica, che trovasi del tutto fuori di ciò ch’è utile per la vita»]. «L’antidogmatismo scettico – commenta M. BRETONE, Storia del diritto romano13 cit. 345 – poteva conciliarsi con un’apertura pragmatica verso l’espe- rienza quotidiana»; per questo aspetto della riflessione di Sesto, cfr. l’utile sintesi di G. REALE, Il pensiero antico (Milano 2001) 403 s. Un’aspra critica rivolta verso le inutili dispute filosofiche del tempo si poteva riscontrare, come abbiamo già segna-lato (v. retro nt. 123), anche in Galeno: cfr. P. DONINI, Le scuole l’anima l’Impero cit. 125, che da essa fa discendere l’abbandono nel medico-filosofo dell’idea del primato della filosofia sulle altre forme del sapere; cfr., anche, V. MAROTTA, Multa de iure sanxit cit. 136: «La stanchezza per la filosofia verbalistica si congiunge spes-so ‘al tentativo di ravvisare una più autentica filosofia in singole attività e professio-

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restare a D. 19.5.4, quell’ablativo natura rerum che apre signifi-cativamente il passo. Ciò – per quanto a me sembra – non tan-to diversamente da quanto una parte della dottrina ha già, ad esempio, prospettato per Salvio Giuliano155, non a caso il giu-rista più sovente richiamato da Ulpiano156, del quale costituiva un presumibile punto di riferimento, anche laddove questi non lo citasse apertis verbis (come nel noto passo del ÛˆÚ›Ù˘ con-tenuto in D. 50.16.177)157.

A questo punto, possiamo ulteriormente chiederci se l’impostazione scettico-empirica di Sesto non potesse offrire ad Ulpiano, oltre alla tensione ‘antidogmatica’ (e – potremmo anche dire – ‘antinominalista’) che abbiamo osservato sinora, ni specifiche’» [il virgolettato è derivato dall’A. da M. ISNARDI PARENTE, Techne, in PP. 16 (1961) 295]. Che questa temperie culturale, con la proposizione di un mo-dello di sapere tendente a considerare ogni disciplina come «un sapere complessivo, comprendente anche quello filosofico», possa aver prodotto delle suggestioni nel pensiero ulpianeo, così come sostenuto, tra gli altri, da V. SCARANO USSANI, L’ars dei giuristi cit. 127 ss., con altra dottrina cui rinvio, persuade convintamente, ancor di più avendo in mente i passi di Sesto che abbiamo sinora considerato.

155#Mi riferisco all’approfondita ricerca di V. SCARANO USSANI, L’utilità e la

certezza cit. 161 ss., spec. 182 s., per l’influenza delle metodologie empiriche di To-lomeo, Galeno e Sesto Empirico, considerate qui sullo stesso piano, su Africano e Giuliano.

156#Utile, per questa rilevazione, la tabella che si può leggere in T. HONORÉ,

Ulpian2 cit. 130. 157

#Passo (compreso nel quarantasettesimo libro ad Sabinum) che, com’è noto, riproduce, quasi alla lettera, un frammento dei Digesta giulianei inserito dai com-missari di Giustiniano in D. 50.17.65 [in tema, cfr. G. VENDITTELLI CASOLI, I pa-radossi stoico-megaici del ÛˆÚ›Ù˘ e dello ôÔÚÔ˜ nel Digesto, in AG. 158 (1960) 139 ss., favorevole alla genuinità dei due testi; R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi cit. 191 s.; V. SCARANO USSANI, L’utilità e la certezza cit. 164 s.]. Su Giuliano come ‘guida e fonte principale’ di Ulpiano, cfr., per tutti, P. DE FRANCISCI, Nuovi stu- di intorno alla legislazione giustinianea durante la compilazione delle pandette, in BIDR. 22 (1910) 160 ss. e nt. 2, che, sulla base del confronto tra i libri III-IV dell’ad Sabinum ulpianeo ed i libri XXIX-XXX dei Digesta di Giuliano, riteneva di poter affermare che «Ulpiano copiava o seguiva davvicino Giuliano non pure dove lo cita, ma spesso anche là dove si potrebbe credere che esponga il proprio pensiero». Per le citazioni dello scolarca adrianeo da parte dei giuristi severiani nella forma della sen-tentia, cfr., amplius, E. STOLFI, Per uno studio del lessico e delle tecniche di citazione dei giuristi severiani: le «sententiae prudentium» nella scrittura di Papiniano, Paolo e Ulpiano, in Rivista di Diritto Romano 1 (2001) 1 ss. (disponibile on line all’indirizzo http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano0102stolfi.pdf).

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anche qualche spunto più specifico, da venire utile nella que-stione del plurilinguismo in campo giuridico; ed in questo sen-so, un parallelo tra la lingua parlata e la moneta, che si può leggere nell’Adversus mathematicos (1.10.178), mi sembra po-er essere particolarmente sintomatico: t

≠øÛÂÚ ÁaÚ âÓ fiÏÂÈ ÓÔÌ›ÛÌ·Ùfi˜ ÙÈÓÔ˜ ÚÔ¯ˆÚÔÜÓÙÔ˜ ηÙa Ùe âÁ¯ÒÚÈÔÓ ï ÌbÓ ÙÔ‡Ùˆ ÛÙÔȯáÓ ‰‡Ó·Ù·È ηd Ùa˜ âÓ âΛÓFË ÙFÉ fiÏÂÈ ‰ÈÂÍ·ÁˆÁa˜ à·Ú·Ô‰›ÛÙˆ˜ ÔÈÂÖÛ©·È, ï ‰b ÙÔÜÙÔ ÌbÓ Ìc ·Ú·‰Â¯fiÌÂÓÔ˜ ôÏÏÔ ‰¤ ÙÈ Î·ÈÓeÓ ¯·Ú¿ÛÛˆÓ ë·˘Ù ˇá ηd ÙÔ‡Ùˆ ÓÔÌÈÛÙ‡ÂÛ©·È ©¤ÏˆÓ Ì¿Ù·ÈÔ˜ 穤ÛÙËÎÂÓ, Ô≈Ùˆ ÎàÓ Ùá ‚› ˇ ï Ìc ‚Ô˘ÏfiÌÂÓÔ˜ ÙFÉ Û˘Ó‹©ˆ˜ ·Ú·‰Â¯©Â›ÛFË, η©¿ÂÚ ÓÔÌ›ÛÌ·ÙÈ, ïÌÈÏ›÷· ηٷÎÔÏÔ˘©ÂÖÓ àÏÏ’ 剛·Ó ·ñÙá Ù¤ÌÓÂÈÓ Ì·Ó›·˜ âÁÁf˜ âÛÙ›Ó.

«Come, invero, in una città – scrive Sesto – ove sia vigente

un certo costume locale, colui che si conforma a questo riesce ad eseguire i propri affari senza impacci, mentre colui che non accetti quei costumi, ma si metta a coniar moneta per conto proprio e voglia dare ad essa corso legale, è semplicemente uno stupido, così anche nei rapporti umani chi non vuole seguire quella parlata che, come una moneta è abitualmente accettata, ma intenda crearsene un’altra secondo la propria taglia, è a po-chi passi dalla follia»158. L’importanza che il filosofo scettico assegnava alla Û˘Ó‹©ÂÈ· ed all’esperienza concreta faceva sì che egli ritenesse impossibile imporre, a priori, una lingua a disca-pito di un’altra159 e ciò ci dà modo di comprendere quanto il

158#La trad. it. riportata è presa da A. RUSSO, Sesto Empirico. Contro i matema-

tici cit. 62 s. 159

#Precedenti di segno simile, del resto, erano già presenti tanto nel Cratilo platonico (v. 389 d-e e 390 a: Eå ‰b Ìc Âå˜ Ùa˜ ·éÙa˜ Û˘ÏÏ·‚a˜ ≤ηÛÙÔ˜ ï ÓÔÌÔ©¤Ù˘ Ù›©ËÛÈÓ, Ôé‰bÓ ‰ÂÖ ÙÔÜÙÔ àÌÊÈÁÓÔÂÖÓØ Ôé‰b ÁaÚ Âå˜ ÙeÓ ·éÙeÓ Û›‰ËÚÔÓ ±·˜ ¯·ÏÎÂf˜ Ù›©ËÛÈÓ ÙÔÜ ·éÙÔÜ ≤ÓÂη ÔÈáÓ Ùe ·éÙe ùÚÁ·ÓÔÓØ àÏÏ’¬Ìˆ˜, ≤ˆ˜ iÓ ÙcÓ ·éÙcÓ å‰¤·Ó àԉȉá, â¿ÓÙ âÓ ôÏÏˇ Ûȉ‹Úˇ , ¬Ìˆ˜ çکᘠö¯ÂÈ Ùe ùÚÁ·ÓÔÓ, â¿ÓÙ âÓ©¿‰Â â¿ÓÙ âÓ ‚·Ú‚¿ÚÔȘ ÙȘ ÔÈFÉ ... OéÎÔÜÓ Ô≈Ùˆ˜ àÍÈÒÛÂȘ ηd ÙeÓ ÓÔÌÔ©¤ÙËÓ ÙfiÓ Ù âÓ©¿‰Â ηd ÙeÓ âÓ ÙÔÖ˜ ‚·Ú‚¿ÚÔȘ, ≤ˆ˜ iÓ Ùe ÙÔÜ çÓfiÌ·ÙÔ˜ Âr‰Ô˜ àԉȉ ˇá Ùe ÚÔÛÉÎÔÓ ëοÛÙˆ âÓ ïÔÈ·ÈÛÔÜÓ Û˘ÏÏ·‚·Ö˜, Ôé‰bÓ ¯Â›Úˆ ÓÔÌÔ©¤ÙËÓ ÂrÓ·È ÙeÓ âÓ©¿‰Â j ÙeÓ ïÔ˘ÔÜÓ ôÏÏÔ©È. Trad. it. tratta da Platone cit. 239: «E anche se ciascun legislato- re non li [i.e. i nomi] compone con le stesse sillabe, non bisogna per questo essere

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pensiero di Sesto potesse ben riflettere la temperie dell’età seve-riana, caratterizzata dalla preoccupazione, maggiormente avver-tita nella cultura ellenistica, che l’estensione generalizzata della civitas voluta da Caracalla finisse per comportare il soffoca-mento dei diritti e delle lingue locali160.

6. «Congruentia verborum» e «responsio in alia lingua». — Non abbiamo – è vero – la prova che Ulpiano avesse in qual-che modo subito l’influenza di questo dibattito filosofico sulla valenza dei nomi, ancora abbastanza vivo ai suoi tempi, ma gli indizi che abbiamo raccolto ci offrono una valida cornice cul-turale entro la quale iscrivere quell’approccio meno rigido che abbiamo constatato nella giurisprudenza dell’età dei Severi di fronte ai verba stipulationis, ormai presi in considerazione non più soltanto in sé e per sé, ma in connessione con la significatio attribuita loro dalle parti del contratto; proprio sullo sfondo di questo background è possibile che fossero venute emergendo alcune condizioni favorevoli per il riconoscimento della validi-tà delle stipulazioni bilingui. Ad ogni buon conto, dalla tolle-ranza (come abbiamo visto) della sinonimia all’interno della dubbiosi: infatti neppure ogni fabbro, pur facendo lo stesso strumento per lo stesso scopo, fa ricorso allo stesso ferro; tuttavia purché renda la stessa idea, sia pure con un ferro diverso, lo strumento riesce bene lo stesso, sia che lo si costruisca qui sia tra i barbari ... Dunque tu avrai la stessa considerazione del legislatore sia qui tra noi che tra i barbari; finché riesce a rendere l’idea del nome adeguato a ciascun og-getto, sia pure con sillabe qualsiasi, non sarà per nulla un legislatore peggiore, qui o in qualunque altro luogo»), quanto nei Problemata (10.38 s.), che, seppure non inte-ramente attribuibili ad Aristotele, sono comunque considerati d’ispirazione autenti-camente aristotelica [per i dubbi di autenticità, cfr. Studi sui Problemata Physica aristotelici, cur. B. CENTRONE (Napoli 2011) 9 ss., in cui si ritiene che il trattato possa essere stato composto nell’ambito del primo Peripato], dove la causa della va-rietà delle lingue viene individuata nelle scelte arbitrarie degli uomini sui nomi; per entrambi questi spunti, faccio rinvio, per tutti, alle considerazioni di D. DI CESARE, La semantica cit. 100 ss.

160#Su questa linea anche S. MAZZARINO, Diritto e fonti letterarie cit. 59 s. e 65,

prendendo spunto da Sext. Emp. Pyrr. Hyp. 3.24.211, in cui il filosofo scettico, in possesso della cittadinanza romana (come mostra il prenome Sesto), etichettava co- me Ù˘Ú·ÓÓÈÎ[e˜] il potere di patria potestas tipico dei Romani.

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medesima lingua all’utilizzo di vocaboli appartenenti a patri-moni linguistici differenti ma dal significato sostanzialmen- te corrispondente il tragitto non era lungo e dovette essere percorso rapidamente da Ulpiano stesso, come documenta D. 45.1.1.6 che stiamo sottoponendo al nostro esame.

Al di là, peraltro, degli ipotetici referenti filosofici che ab-biamo tentato di rintracciare, non vanno persi di vista neanche i risvolti sociali indotti dal riconoscimento di questa tipologia di stipulazioni. Possiamo, invero, chiederci: quali ragioni do-vevano incoraggiare la conclusione di stipulazioni miste dal punto di vista della lingua? Perché, se due contraenti di madre-lingua diversa (nell’esempio verosimilmente più ricorrente nel-la pratica, uno parlante latino ed un altro greco) riuscivano a comprendersi reciprocamente nelle rispettive lingue, non sce-glievano di formalizzare l’accordo tramite verba appartenenti ad una soltanto di esse? In altre parole, perché un greco, inter-rogato in latino ed in grado di comprendere la domanda che gli era stata rivolta, non tentava di rispondere nella medesima lingua? La risposta a questi quesiti riposa in un dato empirico, familiare ad ogni esperienza di comunicazione interlinguistica, e cioè che è di gran lunga più semplice intendere il significato di quanto ci viene detto in una lingua che non conosciamo suf-ficientemente bene, che provare ad esprimersi in quella stessa lingua in modo corretto161. Se si tiene presente ciò, si com-prende facilmente come proprio l’apertura della giurispruden-za romana verso le stipulazioni miste contribuiva, in concreto, ad ulteriormente agevolare le relazioni e gli scambi commer-ciali tra soggetti, che, pur godendo ormai (dopo l’Editto di Ca-racalla) della stessa civitas, non possedevano ancora un adegua-to livello di conoscenza dell’idioma latino. Il rigore verbale ti-pico della stipulatio avrebbe, diversamente, scoraggiato di fatto

161#Lo ben rileva anche A. WACKE, Gallisch, Punisch, Syrisch cit. 24 s.: «... so

kam dies den Bedürfnissen des geschäftlichen Verkehrs entgegen: Sprachliche Barrie-ren bildeten keine Handelsschranken; jeder durfte sich in der ihm vertrauten ange-stammten Sprache ausdrücken, wenn er die Sprache seines Geschäftspartners nur pas-siv verstand» (nello stesso senso e dello stesso A., cfr. El pluralismo lingüístico cit. 125).

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a stringere obbligazioni attraverso questa forma contrattuale tra individui alloglotti, per il pericolo, in caso di errore, di ve-dere annullato successivamente l’affare concluso.

Possiamo tornare, a questo punto, al quesito dal quale era-vamo partiti nell’analisi di D. 45.1.1.6; tale passo attesta – co-me si ricorderà – il giudizio favorevole di Ulpiano (ma non già di Sabino, sulla scorta della ricostruzione che abbiamo in pre-cedenza avallato nel § 3) a proposito dell’ammissibilità di sti-pulazioni miste latino/greco, dummodo congruenter respon- deatur; ed il problema stava appunto nel comprendere a quali condizioni questa congruenza potesse considerarsi rispettata.

Per quanto riguarda l’anafora del verbo162, tenendo presenti i passi che abbiamo visto retro nel § 4, non possiamo che dedur-re che non dovesse più arrecare particolare scandalo l’utiliz- zo nella responsio di un vocabolo formalmente differente ma avente nell’alia lingua un significato corrispondente a quello che lo stipulator avesse espresso nella domanda (ad es.: Dabis? ¢ÒÛˆ): nei termini codificati dalla dottrina stoica, uno stesso ÛËÌ·ÈÓfiÌÂÓÔÓ poteva essere in concreto espresso da più ÛËÌ·›- ÓÔÓÙ·, come accadeva all’interno della stessa lingua in caso di sinonimia, oppure, a fortiori, tra lingue diverse. Per converso, resistenze ancora insuperate dovevano porsi per il ricorso ad un verbo dal significato del tutto disomogeneo (ad es.: Promit-tis? ¢ÒÛˆ), pure se attestante in senso ampio il raggiungimento dell’accordo, per le stesse ragioni che spingono a considerare non classica l’ammissibilità di una risposta del tipo Quid ni? (v. D. 45.1.1.2)163, e cioè l’oggettiva difficoltà di spiegare, in ca-

162#Interessante l’osservazione che si legge in C.A. CANNATA, Corso di istitu-

zioni II.1 cit. 65, che lega la necessità della ripetizione del verbo nella risposta non ad un dato di forma, bensì ad «un’esigenza della grammatica», non conoscendo per lungo tempo la lingua latina gli avverbi di affermazione o negazione equivalenti al nostro sì e no; di modo che – conclude l’A. – allorché l’uso linguistico finì per ac-quisirli, anche la struttura della stipulatio ebbe a modificarsi: il passaggio evolutivo sarebbe registrato da D. 45.1.1.2 di Ulpiano (che invece la dottrina reputa general-mente interpolato: v. infra la nota seguente) con la risposta quidni.

163#Per l’interpolazione di D. 45.1.1.2, è la dottrina prevalente; cfr., tra gli altri:

S. RICCOBONO, Stipulatio ed instrumentum (1914-1915) cit. 255 (= Stipulation cit.

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so contrario, quale spinta innovativa avrebbe avuto, due secoli dopo, la tanto discussa riforma leonina del 472 d.C., che, fa-cendo nostre le parole di Giustiniano (I. 3.15.1), sollemnitate verborum sublata sensum et consonantem intellectum ab utra-que parte solum desiderat, licet quibuscumque verbis expressus est164. La congruenza raccomandata anche in questo caso da Ulpiano, ed a più riprese contemporaneamente sottolineata con insistenza anche dagli altri giuristi165, restava pur sempre 38); J.G. WOLF, Error cit. 52 e nt. 93; M. KASER, Das römische Privatrecht2 I cit. 540 nt. 25; M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano cit. 562 (pur se dubbioso ed in-cline a ritenere che la problematica fosse stata almeno prospettata in epoca classica); A. WACKE, Gallisch, Punisch, Syrisch cit. 26 nt. 50; R. ZIMMERMANN, The law of obligations cit. 74; A. GUARINO, Diritto privato romano12 cit. 832; V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di Diritto Romano14 (Napoli 2002) 326; A. CORBINO, A. METRO, Le causae di obligatio nella riflessione giurisprudenziale romana (Messina 2009) 68.

164#Il testo della costituzione è riprodotto [sia pure, probabilmente, in una forma

abbreviata, come ebbe a suggerire già R. BONINI, Ricerche di diritto giustinianeo (Mi-lano 1968) 42 nt. 65] dai compilatori in C. 8.37(38).10 [IMP. LEO A. ERYTHRIO PP.: Omnes stipulationes, etiamsi non sollemnibus vel directis, sed quibuscumque verbis pro consensu contrahentium compositae sint, legibus cognitae suam habeant firmitatem. D. k. Ian. Constantipoli Marciano cons. (a. 472)]. Non è importante, né in qualche modo conducente ai nostri fini, prendere partito sulla controversia dottrinale sorta a proposi-to della reale portata della costituzione e cioè se essa si fosse limitata ad abolire la ne-cessità dei verba sollemnia [cfr. S. RICCOBONO, Stipulatio ed instrumentum (1914-1915) cit. 271 ss., ed in ZSS. 43 (1922) 263 s., 274 [in seguito citato come Stipulatio ed instrumentum (1922) cit.]; J.C. VAN OVEN, Remarques sur Gai 3.91, in Iura 1 (1950) 31 s.; F. PASTORI, Appunti in tema di sponsio cit. 216 s.; G. DIÒSDI, Giustiniano e la «stipulatio», in Labeo 17 (1971) 46], oppure avesse sancito anche la validità della forma scritta [cfr. G.G. ARCHI, Indirizzi e problemi del sistema contrattuale nella legislazione da Costantino a Giustiniano, in Scritti di diritto romano in onore di C. Ferrini (Milano 1946) 709 s.; A. BISCARDI, Il problema storico del diritto giustinianeo, in Atti Congr. Intern. di Diritto Romano e di Storia del Diritto. Verona 27-29 settembre 1948 II (Mi-lano 1951) 243 s.; A. WINKLER, Gaius III,92 cit. 628 ss.; V. ARANGIO-RUIZ, Istituzio-ni di Diritto Romano14 cit. 331]. Sul provvedimento e sul carattere comunque innova-tivo della riforma, cfr., in aggiunta agli A. ora citati: B. BIONDI, Contratto e stipulatio (Milano 1953) 288 ss.; G. DIÒSDI, Contract in Roman Law. From the Twelve Tables to the Glossators (Budapest 1981) 60 s.; G. SACCONI, Ricerche sulla stipulatio (Napoli 1989) 152 s.; A. CORBINO, Il formalismo negoziale nell’esperienza romana. Lezioni (Torino 1994) 103 s.; e, soprattutto, A.S. SCARCELLA, La legislazione di Leone I (Mila-no 1997) 213 ss., con approfondita discussione dei motivi che devono aver indotto la cancelleria di Leone ad emanare una disciplina tanto radicalmente nuova.

165#È impossibile, invero, non accorgersi dell’insistenza con la quale, in specie a

livello definitorio, la giurisprudenza dell’età severiana rimarcasse ancora l’impor-

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agganciata ai verba e ad essi doveva essere in ultima istanza commisurata, anche se l’attenzione andava sempre più incen-trandosi sul significato concretamente attribuitovi dagli stipu-lanti e quindi sugli estremi della conventio, inevitabilmente in-tercettata attraverso l’interpretazione delle parole; una con-gruenza, pertanto, non più meramente lessicale (medesimo vo-cabolo), ma di significati (medesimo senso). È questo un risul-tato al quale deve avere concorso, in un rapporto in cui non è agevole determinare esattamente il ruolo di causa e di effetto, proprio il riconoscimento di stipulazioni concluse in due lin-gue diverse, dal momento che in esse il requisito della con-gruentia verborum (la cui verifica doveva risultare evidente-mente più delicata laddove il promissor non si fosse limitato a rispondere ripetendo il verbo della domanda, ma avesse inclu-so nella responsio gli estremi della conventio166) doveva essere necessariamente valutato con un certo margine di tolleranza, reso inevitabile dal dato, fisiologico, che non ogni parola è per-fettamente ed universalmente traducibile in un’altra lingua167. tanza della congruentia delle dichiarazioni stipulatorie: si leggano, in quest’ottica, PS. 2.3.1 (Stipulatio est verborum conceptio, ad quam quis congrue interrogatus respondet ...), D. 44.7.52.2, Mod. 2 reg. (Verbis, cum praecedit interrogatio et sequi-tur congruens responsio). Si tratta, peraltro, di enunciazioni generali [ma non per questo solo teoriche, tralatizie ed incapaci di rispecchiare la realtà viva dell’istituto, come ben sottolineava S. RICCOBONO, Stipulatio ed instrumentum (1914-1915) cit. 260], prive di specificazioni ulteriori, che di per sé non consentono di sciogliere il dubbio se il rispetto di tale requisito venisse accertato soltanto su un piano mera-mente formale oppure in maniera più ampia considerando anche gli estremi della conventio sottostante. Probabilmente con il tema della congruentia verborum aveva a che fare anche D. 45.1.35.2 (tratto dal XII libro ad Sabinum di Paolo), in apparen-za rivolto alla locatio conductio ed all’emptio venditio; ma senza dubbio il suo teno-re originario doveva essere un altro e riferirsi alla stipulatio ed alla congruità delle dichiarazioni delle parti, come lascia credere la frase ad interrogationem non re-sponderit: per quest’interpretazione, cfr. già S. RICCOBONO, La forma della stipula-tio. A proposito del fr. 35 § 2 D. 45,1, in BIDR. 31 (1921) 29 ss.

166#V. retro nt. 81.

167#Delle difficoltà insite in ogni operazione di traduzione erano perfettamente

consci anche i Romani. Cicerone (Lib. de opt. gen. orat. 5.14), che aveva tradotto dal greco in latino i Discorsi di Demostene e di Eschine, si cautelava da possibili obiezioni col premettere di aver atteso a questo lavoro non da interpres bensì da orator, più preoccupato di genus omne verborum vimque serva[re] che di verbum

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Ebbene, questo margine di tolleranza sin dove poteva spin-gersi nell’ottica di Ulpiano? Un ausilio alla soluzione di questo interrogativo può probabilmente venire dalla considerazione del contesto d’appartenenza del nostro passo, posto dai compi-latori giustinianei ma anche dal Lenel nella sua Palingenesia168 in coda ad un ampio squarcio del commentario ulpianeo ai tres libri iuris civilis (al quale è collegato attraverso un significativo eadem, attestante una stretta inerenza), dedicato alla trattazione di tre fattispecie diverse di incongruenza sostanziale tra inter-rogatio e responsio: pro verbo reddere, sulla base dell’idea che dovesse essere importante offrire al letto-re non l’esatto numero delle parole ma il loro peso (non enim ea me adnumerare lectori putavi oportere, sed tamquam appendere). La difficoltà di rendere in versi la-tini le oscure scoperte dei Greci, a causa della povertà della lingua, lamentava Lu-crezio nel De rerum natura (1.136-139: Nec me animi fallit Graiorum obscura re-perta / difficile inlustrare Latinis versibus esse, / multa novis verbis praesertim cum sit agendum / propter egestatem linguae et rerum novitatem) e simile prudenza ostentava anche Modestino (v. D. 27.1.1.1: ¶ÔÈ‹ÛÔÌ·È ‰b ó˜ àÓ Ôrfi˜ Ù t ÙcÓ ÂÚd ÙÔ‡ÙˆÓ ‰È‰·Ûηϛ·Ó Û·ÊÉ, àÊËÁÔ‡ÌÂÓÔ˜ Ùa ÓfiÌÈÌ· ÙFÉ ÙáÓ ^EÏÏ‹ÓˆÓ ÊˆÓFÉ, Âå ηd Ôr‰· ‰‡ÛÊ·ÛÙ· ÂrÓ·È ·éÙa ÓÔÌÈ˙fiÌÂÓ· Úe˜ Ùa˜ ÙÔÈ·‡Ù·˜ ÌÂÙ·‚ÔÏ¿˜. Trad. lat.: «Fa-ciam vero, quatenus potero, de his rebus doctrinam manifestam interpretans iura graecorum lingua, etsi novi vix explicabilia ea existimari per huiusmodi transla-tiones») nell’esposizione in lingua greca della disciplina romana delle excusationes tutelae (il cui contenuto era pertanto concepito originariamente in latino: cfr. A. WACKE, Gallisch, Punisch, Syrisch cit. 18), avvertendo sin dal proemio di essere consapevole delle insidie derivanti dal tradurre i termini giuridici. Sul passo di Mo-destino, cfr., da ultimo e per tutti, G. VIARENGO, Studi su Erennio Modestino. Pro-fili biografici (Torino 2009) 12 ss., ove altre indicazioni di letteratura, la quale, par-tendo dal presupposto che il giurista avesse «un’ottima conoscenza sia della lingua che del diritto greco», spiega l’esplicita presa d’atto delle difficoltà sottese alla com-posizione dell’opera, espressa dall’autore subito nell’incipit, con il «reale disagio di chi ... avverte di muoversi su un terreno nuovo». Limitandoci a prendere in consi-derazione le due lingue più importanti, il latino ed il greco, gli esempi di traduzioni difficoltose che sarebbe possibile fare sono innumerevoli; per avere un’idea, è suffi-ciente scorrere i numerosi testi, nei quali espressioni in lingua greca erano utilizzate per meglio intendere termini tecnici latini, addotti, ad esempio, da M. MARRONE, Nuove osservazioni su D. 50.16 «de verborum significatione», in Seminarios Com-plutenses de Derecho Romano 7 (1995) 173 ss. e da R. MARTINI, Terminologia greca nei testi dei giuristi romani, in Scientia iuris e linguaggio nel sistema giuridico roma-no. Atti del Convegno di Studi. Sassari 22-23 novembre 1996, cur. F. SINI, R. ORTU (Milano 2001) 137 ss.

168#V. retro nt. 46.

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D. 45.1.1.3 (Ulp. 48 ad Sab.): Si quis simpliciter interrogatus responderit: ‘si illud factum erit, dabo’, non obligari eum constat: aut si ita interrogatus: ‘intra kalendas quintas?’ re-sponderit: ‘dabo idibus’, aeque non obligatur: non enim sic respondit, ut interrogatus est. Et versa vice si interrogatus fuerit sub condicione, respon-derit pure, dicendum erit eum non obligari. Cum adicit ali-quid vel detrahit obligationi, semper probandum est vitia-tam esse obligationem, nisi stipulatori diversitas respon-sionis ilico placuerit: tunc enim alia stipulatio contracta esse videtur.

D. 45.1.1.4 (Ulp. 48 ad Sab.): Si sti-pulanti mihi ‘de-cem’ tu ‘viginti’ re-spondeas, non esse contractam obliga-tionem nisi in de-cem constat. Ex contrario quoque si me ‘viginti’ in-terrogante tu ‘de-cem’ respondeas, obligatio nisi in de-cem non erit con-tracta: licet enim oportet congruere summam, attamen manifestissimum est viginti et decem inesse.

D. 45.1.1.5 (Ulp. 48 ad Sab.): Sed si mihi Pamphi-lum stipulanti tu Pamphi lum e t Stichum spopon- deris, Stichi ad- iectionem pro su- pervacuo haben-dam puto: nam si tot sunt stipula- tiones, quot cor-pora, duae sunt q u o d a m m o d o stipulationes, una utilis, alia inuti- lis, neque vitiatur utilis per hanc inutilem.

Dalla lettura sinottica di questi paragrafi il lettore moder-

no non può che restare disorientato, per la circostanza che essi apportano tre diverse soluzioni ai tre casi di incongruenza prospettati. Nel § 3, di fronte a differenze concernenti l’inse- rimento (o meno) nella conceptio verborum di una condizione o di un termine (ad es., il creditore ha interrogato puramente ed il debitore si è impegnato sub condicione oppure vi sono state discrasie nel termine preso in considerazione), la diagnosi del giurista sarebbe stata nel senso che l’obbligazione non po-tesse sorgere, poiché cum adicit aliquid vel detrahit obligatio-ni, semper probandum est vitiatam esse obligationem, nisi sti-pulatori diversitas responsionis ilico placuerit. Nel § 4, si pren-de in esame l’ipotesi di differenze nella somma stipulata: lo sti-pulator ha interrogato per dieci ed il promissor ha risposto ven-ti o viceversa; in entrambi i casi, nonostante l’evidente diversi-tas, la stipulatio si sarebbe intesa come conclusa per la somma minore, alla quale la dichiarazione contenente l’importo ecce-

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dente sarebbe stata automaticamente ridotta, sulla base dell’in- tuitiva argomentazione che manifestissimum est viginti et de-cem inesse. Il § 5 prospetta, infine, la situazione del creditore che, chiedendo Pamphilus, si è sentito rispondere Pamphilus et Stichus; anche qui la stipulatio sarebbe stata considerata valida-mente contratta, anche se limitatamente al solo Pamphilus, sul quale l’accordo della parti poteva dirsi validamente raggiunto, sebbene per una ragione ulteriore rispetto alla fattispecie consi-derata precedentemente: dal momento che tot sunt stipulatio-nes, quot corpora, è come se le parti avessero posto in essere due stipulazioni, una utilis e l’altra inutilis, senza che quest’ultima pregiudicasse in qualche modo la prima. Come si può vedere, tre indirizzi diversi – conclusione della stipulatio se la diversi-tas è accettata prontamente dallo stipulator; conclusione della stipulatio grazie alla correzione automatica della dichiarazione divergente; conclusione della stipulatio considerando come non apposta l’aggiunta che configura l’incongruenza – per tre fatti-specie, che, pur presentando tratti specifici, avevano in comu-ne il difetto di fondo, la non rispondenza della risposta del de-bitore alla domanda del creditore.

È difficile credere che tale difformità di conclusioni fosse originaria e quindi derivasse da Ulpiano stesso, seppure non impossibile in assoluto potendo essere il risultato di un’impo- stazione del giurista essenzialmente topica, mutevole da caso in caso; più agevole, però, considerarla conseguenza di un’im- perfetta sovrapposizione di elementi nuovi su quelli classici169, anche perché in tale direzione spingono numerosi indizi di al-terazioni170. La conclusione del § 3, che incarna un’attenua- zione della regola poco prima enunciata, per la quale deve con-siderarsi vitiata l’obbligazione quando, al momento della tra-

169#Quest’aspetto è stato già evidenziato in dottrina: cfr. G. DIÓSDI, Giustinia-

no e la «stipulatio» cit. 50, che nota come l’aggiornamento operato dai compilatori giustinianei sui testi classici della stipulatio non sempre possa ritenersi riuscito per-fettamente.

170#Per un primo quadro delle interpolazioni proposte, cfr. l’Index interpola-

tionum III cit. 372.

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sfusione nella risposta del promittente, qualcosa le viene ag-giunto o tolto, è infatti fortemente sospetta: affermare che, se la diversa risposta ilico (probabilmente, un vuoto ossequio dei bizantini al requisito dell’unitas actus) placuerit stipulatori, alia stipulatio contracta esse videtur significa, invero, rimuovere al-la radice proprio l’esistenza del problema prospettato nella prima parte del brano171; qui non è in discussione la possibilità che una controproposta del debitore potesse andar bene al creditore – non siamo più nella fase che potremmo chiamare delle ‘trattative precontrattuali’ –, ma in che modo giudicare l’atto formalizzato dalle parti nei verba stipulationis. Depurato di questo tratto finale, il frammento verrebbe così a porsi sulla stessa linea del manuale gaiano (3.102)172, che inquadrava tra le risposte mancate quella nella quale si fosse introdotta una condizione non menzionata nella domanda173.

171#Assai pertinente mi sembra, da quest’angolazione, l’osservazione di S. RIC-

COBONO, Stipulatio ed instrumentum (1922) cit. 269, che, a proposito della parte fi-nale del § 3, giudicava l’interpolazione evidente: «l’annotazione legislativa rappre-senta efficacemente la stipulatio come una conversazione, che assume valore dalla conchiusione, e non è detto che il ‘placere sibi’ non possa essere suggellato da un espressivo cenno del capo» [nello stesso senso, cfr. anche Stipulatio ed instrumen- tum (1914-1915) cit. 248, 256, e Stipulation cit. 31, 39]. Cfr., altresì, C.A. CANNA-

TA, Corso di istituzioni II.1 cit. 68 nt. 215, che considera sicura l’interpolazione (o glossema che sia), perché, se fosse valida l’alia stipulatio, «la relativa proposta partirebbe così dal promissor».

172#Adhuc inutilis est stipulatio, si quis ad id, quod interrogatus erit, non re-

sponderit, velut ... si ego pure stipuler, tu sub condicione promittas. V. anche I. 3.19.5, che riprende l’insegnamento gaiano, estendendolo ad altre ipotesi: Praeterea inutilis est stipulatio, si quis ad ea quae interrogatus erit non respondeat, veluti ... si ille pure stipuletur, tu sub condicione promittas, vel contra, si modo scilicet id expri-mas, id est si cui sub condicione vel in diem stipulanti tu respondeas: «Praesenti die spondeo».

173#Sottolineano, invece, un progresso rispetto a Gaio quanti non si pongono il

problema della genuinità della chiusa del passo, ammettendone implicitamente la paternità di Ulpiano: cfr., per questa prospettiva: B. BIONDI, Contratto e stipulatio cit. 298 s., per il quale l’alia stipulatio che si sarebbe venuta a concludere in seguito all’accettazione della modifica da parte dello stipulator sarebbe stata in regola con l’oralità e con l’unitas actus; F. PASTORI, Appunti in tema di sponsio cit. 237 s. (nello stesso senso, egli si pronuncia in Il negozio verbale cit. 261 s.). Secondo l’A., si avrebbe riguardo in questo caso, similmente a quanto avviene nel contratto moder-

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Neanche il § 4 appare a posto; benché ancora abbastanza di recente si sia tentato di dimostrarne la classicità174, il detta- to non scorre lineare: la doppia costruzione negativa (non es- se contractam ... nisi ... e obligatio nisi in decem non erit con-tracta); la locuzione ex contrario, che, invece di introdurre una no, «alla corrispondenza tra proposta e accettazione in ordine al contenuto nego-ziale» ed il giurista, come dimostrerebbe la conclusione del brano, muoverebbe, per dare soluzione al caso, «dalla considerazione dell’accordo»; in questo senso, mentre Gaio si sarebbe preoccupato della rispondenza formale, Ulpiano avrebbe dato mag-gior considerazione al consenso. Alla valorizzazione da parte di Ulpiano della vo-luntas sui verba, della sostanza sulla forma, pensa anche G. SACCONI, Ricerche sul- la stipulatio cit. 17 s., che, partendo dall’espressioni usate nel passo (Cum adicit ... obligationem), giunge a concludere che «la discordanza tra la richiesta dello stipu-lans e la risposta del promissor, da cui dipende l’invalidità del negozio, rivela piutto-sto un disaccordo sul contenuto dell’obligatio anziché apparire semplicemente co-me un vizio di forma».

174#Cfr. R. BACKAUS, In maiore minus est. Eine justinianische „regula iuris” in

den klassischen Rechtsquellen - Herkunft, Anwendungsbereich und Funktion, in ZSS. 100 (1983) 136 ss., spec. 152 ss. su D. 45.1.1.4, nell’ambito di una dettagliata ri-cerca avente ad oggetto le numerose attestazioni nella giurisprudenza classica del- l’argumentum in maiore minus est. Secondo l’A., il principio in maiore minus est avrebbe, in relazione alla stipulatio, «die Funktion, deutlich zu machen, daß die fe-hlende Kongruenz der Erklärungen von stipulator und promissor einer teilweisen Wirksamkeit der stipulatio – bei entsprechendem hypothetischen Willen der Par-teien – ausnahmsweise nicht entgegensteht. Weil decem in viginti enthalten sind, liegt eigentlich eine echte Ausnahme vom Kongruenzprinzip gar nicht vor» (p. 155). In precedenza, favorevoli alla sua classicità si erano già mostrati B. BIONDI, Contrat-to e stipulatio cit. 299 s. (per il quale i giuristi ormai non andavano «alla caccia spieta-ta della nullità della stipulatio per qualunque imperfezione verbale ... ma cerca[vano], per quanto possibile, di salvarla in omaggio alla effettiva e reale volontà delle parti»); F. PASTORI, Appunti in tema di sponsio cit. 236 s. (= Il negozio verbale cit. 260 s.), che vedeva nel contrasto tra la posizione di Gaio e quella di Ulpiano il contrapporsi di due tendenze giurisprudenziali, conservatrice l’una ed innovatrice l’altra e ri-spondenti a due diversi momenti dell’evoluzione storica del contratto verbale. Men-tre, successivamente a Backaus, questa opinione è stata sostenuta da G. SACCONI, Ricerche sulla stipulatio cit. 17 ss., che sembra attribuire al giurista severiano la pre-dilezione per un’impostazione sostanziale nella valutazione della corrispondenza tra domanda e risposta; da M.J. SCHERMAIER, Auslegung und Konsensbestimmung. Sachmängelhaftung, Irrtum und anfängliche Unmöglichkeit nach römischen Kauf- recht, in ZSS. 128 (1998) 254 nt. 87, che ritiene che D. 45.1.1.4 possa riflettere un «spätklassisches Recht»; da R. ASTOLFI, I Libri tres iuris civilis cit. 195. Cfr., anche, C.A. CANNATA, Corso di istituzioni II.1 cit. 68 nt. 216, secondo cui bisogna am-mettere che le interpolazioni del passo che sono state suggerite non siano «assolu-tamente sicure».

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regola opposta rispetto a quella appena indicata, come ci si aspetterebbe, porta all’applicazione proprio di quella stessa re-gola; il costrutto finale licet ... attamen che chiude il passo, di frequente ricorrenza nelle costituzioni di Giustiniano mentre assente nel latino classico175; sono tutti indizi di un qualche ri-maneggiamento successivo. Peraltro, ancor più dei rilievi legati alla forma espressiva, è la regola suggerita che suscita motivate perplessità per l’esperienza giuridica classica: come poteva am-mettersi, ad esempio, che la responsio diversa del debitore e a lui stesso più favorevole potesse sempre e comunque concludere validamente la stipulatio? Nel passo si prende ad esempio il ca-so di chi interrogando per venti si senta rispondere dieci, ma l’automatismo con cui è imposta la riduzione avrebbe importa-to l’applicazione della regola anche in caso di risposta irrisoria da parte del debitore, in ipotesi anche per uno176.

Né, d’altra parte, può sfuggire che sarebbe probabilmen- te troppo sbrigativo affermarne una integrale rielaborazione postclassica, immaginando aggiunti i due nisi in decem e l’inte- ra chiusa finale177: se entrambe le ipotesi descritte (responsio

175#Cfr., per questo rilievo, C. FERRINI, Licet ... attamen ..., in BIDR. 13 (1902)

213 ss. [= Opere V (Milano 1930) 229 ss., da cui in seguito cito]. 176#In verità, anche prescindendo da quest’ipotesi estrema, non è comunque

condivisibile che sempre ed in ogni caso il creditore potesse avere interesse per una somma minore rispetto a quella inizialmente proposta, come sembra invece credere R. BACKAUS, In maiore minus est cit. 155 nt. 99, quando afferma che «aber wer vi-ginti sagt und will, will allenfalls hypothetisch auch decem». Quest’ovvia considera-zione era già in R. ZIMMERMANN, Richterliches Moderationsrecht oder Totalnichtig- keit? Die rechtliche Behandlung anstössig - übermässiger Verträge (Berlin 1979) 131; in relazione a questa «hypothetical intention», cfr. E. METZGER, The buyer who wants to pay more, in Roman legal tradition 3 (2006) 118 e nt. 13 a proposito del passo ulpianeo. Cfr., altresì e più recentemente, N. RAMPAZZO, Consenso parziale e conformità del regolamento negoziale alle volontà delle parti nel diritto romano clas-sico, in RIDA. 55 (2008) 414, che, del tutto convincentemente, rileva come l’automa- tismo della soluzione faccia sì che «non [vi sia] traccia del consueto intervento cor-rettivo del giurista che tempera le esigenze di ciascuno e la seconda parte del fram-mento in particolare si sottrae ad un parametro di ragionevolezza e di bilanciamento di interessi».

177#Come ritiene la dottrina assolutamente prevalente: cfr. C. FERRINI, Licet

cit. 236 s.; O. GRADENWITZ, ‘Licet enim legibus soluti sumus attamen legibus vivi-mus’, in ZSS. 26 (1905) 350 ss.; S. RICCOBONO, Stipulatio ed instrumentum (1914-

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per una somma rispettivamente superiore o inferiore all’inter- rogatio) avessero ricevuto in età classica il medesimo tratta-mento, perché non considerarle unitariamente invece di artico-larle separatamente ex professo?

Probabilmente, allora, ha visto giusto chi ha creduto di po-ter immaginare una proposta differenziata da parte di Ulpiano, cioè considerare valida, sia pure per una somma minore, la sti-pulatio allorché il debitore avesse risposto in modo per sé più oneroso (viginti invece che decem) ed invalida invece l’ipotesi inversa (decem e non viginti)178 – solo la limitazione nisi in de-cem, in questo secondo caso, configurerebbe un’interpolazio- ne179. Del resto, la diversa considerazione nel frammento ul- 1915) cit. 248 e 256 (= ID., Stipulation cit. 31 e 39); F. WIEACKER, Textstufen klassi- scher Juristen (Göttingen 1960) 377; U. ZILLETTI, La dottrina dell’errore cit. 406 nt. 135; M. KASER, Das römische Privatrecht2 I cit. 239 nt. 28; R. ZIMMERMANN, Richterliches Moderationsrecht cit. 131 (dello stesso A., cfr. anche The law of obli-gations cit. 74 s.); A. GUARINO, La congruenza delle somme, in ANA. 97 (1986) 156 ss. [ora in Pagine di diritto romano VI (Napoli 1995) 220 ss., da cui in seguito cito], che tuttavia pensa ad una rielaborazione pregiustinianea [nello stesso senso e dello stesso A., cfr. Intervento conclusivo, in Atti del Seminario sulla problematica con-trattuale. Milano 7-9 aprile 1987, I (Milano 1988) 310 s., dove si paragona il con-tratto della stipulatio ai moderni contratti ‘per adesione’; dello stesso avviso, prece-dentemente, già H.E. TROJE, ‘Ambiguitas contra stipulatorem’, in SDHI. 27 (1961) 132 nt. 181].

178#Per quest’ipotesi ricostruttiva, cfr. già N. RAMPAZZO, Consenso parziale e

conformità cit. 415 ss., secondo cui in questo modo si riuscirebbe ad armonizzare il frammento ulpianeo con Gai 3.102 e con D. 19.2.52 di Pomponio, relativo ad un’ipotesi simile di incongruenza nelle somme del contratto di locatio conductio (a proposito del quale brano, ampia discussione nelle pagine precedenti: 407 ss.), oltre ad essere confermata dalla lettura di D. 45.1.1.5, immediatamente posto di seguito al nostro passo.

179#Nel ricostruire il dettato del brano, allo scopo di salvaguardarne parzial-mente l’autenticità, peraltro non occorre, per quanto a me pare, immaginare un arti-ficioso cambio di posizione tra viginti e decem e l’espunzione (perché, a mio giudi-zio, è invece significativa la sua presenza) del tratto nisi ... constat nella prima frase (come suggerito da N. RAMPAZZO, Consenso parziale e conformità cit. 415), essen-do sufficiente considerare come aggiunte postclassiche il quoque e nisi in decem del secondo periodo ed anticipare tutta la chiusa licet ... inesse ponendola a spiegazione della validità parziale della prima ipotesi di stipulatio presa in esame (permettendo così di legare bene il manifestissimum est con il constat). Se si condivide quest’idea, il tenore originario del passo poteva suonare nel modo che segue: Si stipulanti mihi ‘decem’ tu ‘viginti’ respondeas, non esse contractam obligationem nisi in decem con-

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pianeo delle due situazioni si evince tra le quinte; che la prima stipulatio dovesse reputarsi valida una volta ridotta all’importo minore, Ulpiano scrive che constat («è pacifico»180); che la se-conda stipulatio, invece, non erit contracta è il giurista di Tiro ad affermarlo. Mentre, in altri termini, una risposta di conte-nuto superiore rispetto alla domanda non doveva, presso la co-scienza giuridica del tempo, suscitare questioni ed ostare alla conclusione della stipulatio nei limiti dell’importo coperto dal-la domanda, Ulpiano si sarebbe probabilmente interrogato sul-la possibilità di adottare la stessa soluzione, vale a dire la vali-dità per la somma più piccola (nisi in decem), per la fattispecie analoga ma invertita, giungendo però alla soluzione negativa; ciò, verosimilmente, proprio a causa di quella stessa criticità che abbiamo prima segnalato: l’eccessiva penalizzazione che un meccanismo automatico come quello rappresentato com-portava alle ragioni del creditore.

Quasi sicuramente immune da ritocchi posteriori, invece, il § 5181. Il ricorso al principio tot sunt stipulationes quot res182, possibile in questo caso perché l’oggetto della prestazione promessa dal debitore erano state due res distinte (gli schiavi Pamphilus e Stichus), rendeva più agevole salvare il contratto, considerandolo concluso nei limiti dell’«area di sovrapposi-zione comune alle dichiarazioni rese dalle parti»183 e intenden- stat: licet enim oportet congruere summam, attamen manifestissimum est viginti et decem inesse. Ex contrario [quoque] si me ‘viginti’ interrogante tu ‘decem’ respon-deas, obligatio [nisi in decem] non erit contracta. Con la sola variante del tratto fina-le (da obligatio a contracta), sostituito con inutilis erit stipulatio, anche C.A. CAN-NATA, Corso di istituzioni II.1 cit. 92, condivide la ricostruzione del testo qui pro-posta e l’idea che il giurista potesse ammettere una soluzione differente per le due fattispecie presentate.

180#Sul fatto che qui constat esprimesse il consenso sul punto di tutti i giuristi, concorda anche C.A. CANNATA, Corso di istituzioni II.1 cit. 68 nt. 212.

181#Che non è, infatti, neanche menzionato tra i passi sospetti dell’Index inter-

polationum III cit. ibidem. 182

#Sulla cui frequenza all’interno del XLV libro del Digesto, in frammenti non sospetti dal punto di vista sostanziale, faccio rinvio al mio La «maior dissensio» sulla chiamata disgiuntiva nel «legatum sinendi modo rei», in Index 36 (2008) 110 nt. 33.

183#Prendo in prestito l’espressione da N. RAMPAZZO, Consenso parziale e con-

formità cit. 416. A differenza, peraltro, della fattispecie prospettata nel § 4 (dove,

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do come non pronunciata l’adiectio (pro supervacuo haben-dam puto); Ulpiano ricorreva, in questo caso, alla finzione che due stipulazioni erano state poste in essere: una utilis (quella avente ad oggetto Panfilo, in relazione al quale le dichiarazioni stipulatorie erano state conformi) ed un’altra inutilis (relativa a Stico), carente di congruentia184, che tuttavia non viziava la precedente (neque vitiatur utilis per hanc inutilem).

Ora, mettendo assieme i dati desumibili dall’esame di que-sto lungo estratto (secondo la ricostruzione che di esso abbia-mo dato) del commentario ulpianeo ad Sabinum, diventa pos-sibile enucleare una linea d’azione comune. Posto innanzi a stipulazioni che in passato sarebbero state dichiarate tout court inutili per difetto della congruentia verborum, Ulpiano tenta-va, dove possibile, di salvare in via interpretativa la validità dell’atto concluso. Allorché la responsio del debitore fosse sta-ta più ampia dell’interrogatio dello stipulator, ma tale da ri-comprendere al suo interno anche questa, ecco che la non per-fetta rispondenza delle dichiarazioni poteva non risultare com- promettente: così in caso di somma minore inclusa nella mag-giore (D. 45.1.1.4) o dello schiavo Panfilo nominato dal pro-missor insieme a Stico (D. 45.1.1.5); dove quest’inclusione nella risposta della res domandata non potesse aversi, come in D. 45.1.1.3, perché le entità significate erano del tutto diverse e come si è visto, la riduzione da parte del debitore nella responsio della pretesa del creditore non poteva essere salvata nel periodo classico), in questo caso l’ipotesi re-ciproca inversa (interrogatio per plures res e responsio pronunciata dal debitore per una soltanto di esse) era positivamente valutata dalla giurisprudenza, come risulta dalla sua esplicita ammissione da parte di Paolo, ancora in forza dello stesso argo-mento della duplicità di stipulazioni: v. D. 45.1.83.4 (Item si ego plures res stipuler, Stichum puta et Pamphilum, licet unum spoponderis, teneris: videris enim ad unam ex duabus stipulationibus respondisse).

184#Sottolinea lo sforzo argomentativo del giurista ed il ricorso alla finzione

delle due stipulazioni separate, nonostante l’unicità della conceptio verborum, B. BIONDI, Contratto e stipulatio cit. 300. Cfr., sul punto, anche R. ZIMMERMANN, The law of obligations cit. 74, e M. ETELVINA DE LAS CASAS LEÓN, ‘De inutilibus stipulationibus’ (Madrid 2006) 152 s., che analizza le implicazioni di questa finzione (che «tiende a romper la dependencia de ambas estipulaciones») rispetto alla possi-bilità o meno di parlare per il diritto romano di una nullità parziale.

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comunque incommensurabili tra di loro, lì il proposito di sot-trarre alla diagnosi di invalidità la stipulazione arretrava. Peral-tro, che, a questo scopo, il giurista non guardasse sic et simpli-citer alla voluntas contrahentium185, ma ai verba nei quali essa era stata trasfusa, lo si arguisce dalla motivazione che accom-pagna la soluzione indicata in D. 45.1.1.5, in cui la validità del-la stipulatio non veniva fatta poggiare sul consenso di entrambi gli stipulanti sul nome di Panfilo (come pure si sarebbe potuto, ove alla conventio si fosse attribuito valore di per sé), ma sulla circostanza che, almeno per una delle due stipulazioni cui le parti avevano dato vita, sussistesse la congruentia verborum186.

Identica direttiva Ulpiano avrebbe potuto seguire nel giu-dicare della congruità dei verba di una stipulazione bilingue. Era pressoché impossibile che le parole pronunciate da ciascu-no degli stipulanti nel proprio sermo fossero perfettamente equivalenti, potendo le une avere un significato iponimo o ipe-ronimo rispetto alle altre. Se si fosse attribuito alle parti il po-tere di impugnare il contratto ogniqualvolta i lemmi utilizzati avessero presentato sfumature diverse di significato, la stabilità e la certezza dell’affare intrapreso sarebbe stata inevitabilmente compromessa. Da qui, quella proposta di tolleranza di cui par-lavamo, che poteva far considerare validamente concluse le sti-pulazioni nelle quali i verba della responsio del debitore aves-sero nella propria area semantica il significato (o i significati)

185#Come, invece, crede G. SACCONI, Ricerche sulla stipulatio cit. 17 s., che,

proprio partendo dai passi contenuti nei §§ 3-6 di D. 45.1.1, ricostruisce il rapporto tra verba e voluntas in Ulpiano in modo tale che il giurista dovesse dare sempre maggiore prevalenza alla seconda sui primi.

186#La sfumatura è colta da F. PASTORI, Appunti in tema di sponsio cit. 234 (= Il negozio verbale cit. 258 s.), che, però, riporta la paternità della soluzione a Sabino («è ... assai verosimile – scrive l’A. – che detta soluzione risalga a Sabino e cerchi di salvare la validità della stipulatio, senza superare la vecchia regola dello ius civile, per la quale il problema della congruenza era considerato con riguardo alla rispon-denza delle dichiarazioni»); quest’idea, tuttavia, non pare persuasiva, se non altro per il fatto che, anche se si ammettesse in via congetturale la sua risalenza sino a Sa-bino, trascurerebbe il fatto che la sua riproposizione da parte di Ulpiano, senza se-gnali che indichino una presa di distanza, non può che tradursi in un’adesione del giurista severiano e nella sua vigenza ancora temporibus illis.

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 428

indicati dal creditore nella interrogatio, anche laddove essi ne avessero di ulteriori.

7. «Omnis sermo contineat verborum obligationem». — Possiamo, arrivati a questo punto, fissare i momenti cruciali della linea evolutiva che è emersa in chiaroscuro dall’esame fi-nora condotto e che si inserisce nel più generale processo di ab-battimento dell’originario rigore delle forme verbali187. Questo rigore, che ancora al tempo di Gaio doveva esigere un’assoluta corrispondenza lessicale – nel senso che, laddove i due prota-gonisti del negozio avessero fatto uso della stessa lingua, non vi sarebbe stata alternativa all’utilizzo nella risposta dell’identico verbo adoperato nella domanda188 – e che, di conseguenza, rendeva ancora problematico l’impiego di due lingue diverse (dove la congruenza poteva essere soddisfatta solo da espres-sioni tutt’al più fungibili nel contenuto), appare invece allen-tarsi, ma non del tutto obliterarsi, nell’impostazione di Ulpia-no. In coerenza con un indirizzo interpretativo, che ha posto sempre più l’accento sui corpora a discapito dei nomina in quanto tali e che ha iniziato a lasciar tracce nei giuristi già fin dal principio dell’età dei Severi189, forse avvertendo la sugge-stione della disputa filosofica sulla valenza dei nomi e sull’ori- gine del linguaggio ancora in auge temporibus illis190, per il giurista di Tiro la congruentia verborum era ormai soddisfatta non più soltanto dall’identità lessicale, ma pure da un’affinità di significato; almeno quando le parole espresse nella responsio intercettassero il significato, anche senza restarne esaurite, di quelle oggetto dell’interrogatio191.

Quanto abbiamo rilevato pone sotto una luce più chiara il senso della seconda questione prospettata nel frammento ul-

187#Le tappe di questo percorso sono ben schematizzate da A. CORBINO, Il

formalismo negoziale cit. 81 ss. 188

#V. retro § 3. 189

#V. retro § 4. 190

#V. retro § 5. 191

#V. retro § 6.

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 429

pianeo – che, per comodità di lettura, riporto qui di seguito nel tratto interessato:

Sed utrum hoc usque ad Graecum sermonem tantum pro-trahimus an vero et ad alium, Poenum forte vel Assyrium vel cuius alterius linguae, dubitari potest. Et scriptura Sa-bini, sed et verum patitur, ut omnis sermo contineat ver-borum obligationem, ita tamen, ut uterque alterius lin-guam intellegat sive per se sive per verum interpretem

relativa alla possibilità di ammettere nella stipulatio bilingue, ac-canto al greco, altre lingue, come il punico, l’assiro (rectius, l’ara- maico192), vel cuius alterius linguae. A leggere il testo così come riprodotto nell’edizione mommseniana193, il dubbio (dubitari potest) parrebbe prospettato e risolto positivamente già da Sabi-no, per il quale omnis sermo contine[t] verborum obligationem e questa soluzione lo stesso Ulpiano, nel commentarla, mostre-rebbe di condividere (sed et verum patitur194). Tuttavia, se si ri-cordano le perplessità che abbiamo visto in precedenza conno-tare Gai 3.95195, non può non destare un certo imbarazzo l’idea che già si ascrivesse a Sabino la paternità del principio secondo cui sarebbe stato possibile impiegare nella responsio della stipu-latio qualsiasi sermo, purché ciascuno dei due stipulanti avesse compreso le affermazioni dell’altro (ita tamen, ut uterque alte-rius linguam intellegat); e questo per la stessa ragione formulata quando abbiamo avanzato seri dubbi a proposito dell’idea che il primo periodo di D. 45.1.1.6 sarebbe stato estratto da Ulpiano dai libri iuris civilis Sabini: una svolta di questo tipo, ove riferi-bile già al giurista augusteo, avrebbe, infatti, dovuto spazzare

192#Cfr. A. WACKE, Gallisch, Punisch, Syrisch cit. 26 ed, amplius, U. MANTHE,

Assyrius sermo: Ulp. D. 45.1.1.6, in Mélanges Fritz Sturm (Liège 1999) 357 ss., con altra bibliografia, in cui l’A. tenta di spiegare perché il giurista chiamasse tale lingua Assyrius sermo, invece della più comune denominazione ‘siriaca’, trovando riscontri dell’espressione ulpianea nelle fonti talmudiche.

193#V. retro nt. 45.

194#Nella Glossa III (Venetiis 1574) 619, si legge sed verum puto.

195#V. retro § 3.

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 430

via i dubbi che invece si colgono ancora nel manuale gaiano ad-dirittura con riguardo al greco.

Per questo motivo, non sembra per nulla azzardata la sup-posizione del Dirksen196, che, spostando in avanti il punto e sostituendo et con ex197, ricostruiva così la frase che chiude il penultimo periodo: ... dubitari potest ex scriptura Sabini; in questo modo, arretrando l’incertezza al tempo di Sabino. Se si accetta questa ricostruzione, diviene ancora più marcata la no-vità della posizione ulpianea – espressa significativamente da quel sed, in evidente contrapposizione con il dubbio prospet-tato appena prima –, non più limitata ad una passiva adesione ad un’impostazione tramandata ex ante. In altri termini, men-tre al tempo di Sabino ed ancora in quello di Gaio era ammes-so che due cives concludessero una stipulatio in lingua greca (si modo Graeci sermonis intellectum habeant, come si premura di avvertire Gai 3.93)198, oppure che due peregrini si servissero del sermo Latinus (ove lo comprendessero) – di modo che non occorresse una necessaria correlazione tra la lingua e la nazio-nalità dei contraenti –, alla possibilità di una stipulazione bi-lingue si dovette pervenire solo tempo dopo, secondo un’evo- luzione che pare essere portata a maturazione solo con l’età dei Severi, dapprima verosimilmente con riferimento alle due lin-gue principali (il latino ed il greco) e successivamente anche per altre lingue parlate nell’oikoumene; è di tutta evidenza che in questo modo la giurisprudenza veniva incontro, attraverso

196#Cfr. H.E. DIRKSEN, Civilistische Abhandlung I (Berlin 1820) 89 s.; ma già

in precedenza, per analoga ricostruzione, cfr. la Glossa III cit. ibidem. Contra, am-mettendo l’apertura verso qualsiasi altra lingua già in Sabino, cfr. F. PASTORI, Ap-punti in tema di sponsio cit. 226 e 241 s. (= Il negozio verbale cit. 265); A. WACKE, Gallisch, Punisch, Syrisch cit. 26 ss.; H. ANKUM, La forma dell’acceptilatio nella re-altà giuridica di Roma nel periodo classico, in RIDA. 45 (1998) 277 s.; C.A. CAN-NATA, Corso di istituzioni II.1 cit. 65 nt. 205.

197#Et scriptura è la dizione che si trova nel Codex Florentinus; ex scriptura, si

legge in altri manoscritti del Digesto e nella Glossa III cit. ibidem: cfr., sul punto, T. MOMMSEN, Digesta Iustiniani II cit. 650.

198#L’ammissibilità della forma greca doveva essere il frutto di un’evoluzio-

ne collegata con l’espansione economica dell’epoca repubblicana: cfr. G. GROSSO, «Syngraphae» cit. 13 [ora in Scritti storici giuridici III cit. 748 ss.].

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 431

l’eliminazione delle barriere linguistiche, alle esigenze dei traf-fici commerciali199, divenute più pressanti a causa dell’enorme numero di cives romani non latinoloquenti venutosi a creare all’indomani dell’Editto sulla cittadinanza.

Ciò detto, però, se si guarda ad altri testi ulpianei, attinenti sempre al tema delle obligationes nate verbis, si scopre un giu-rista più prudente. Si consideri, infatti:

D. 46.1.8 pr. (Ulp. 47 ad Sab.). Graece fideiussor, et ita ac-cipitur: ÙFÉ âÌFÉ ›ÛÙÂÈ ÎÂχˆ ϤÁˆ ©¤Ïˆ sive ‚Ô‡ÏÔÌ·È: sed et si ÊËÌ› dixerit, pro eo erit atque si dixerit ϤÁˆ.

Così come per le stipulationes cd. ‘principali’, anche per le

stipulazioni accessorie di garanzia la pratica aveva, da tempo, sostituito un regime di tipicità200 con un sistema aperto, carat-terizzato da libertà di forme201. Già Gaio registra moduli ver-bali diversi da quelli che contraddistinguevano rispettivamente la sponsio, la fidepromissio e la fideiussio (v. Gai 3.116202) e si

199#Per questo rilievo, cfr. A. WACKE, Gallisch, Punisch, Syrisch cit. 24 s.

200#Di «rigida unità di contenuto negoziale postulata dalle forme più antiche

di adpromissio» (cioè idem spondes? e idem fidepromittis), scrive M. TALAMANCA, «Alia causa» e «durior condicio» come limite dell’obbligazione dell’«adpromissor», in Studi in onore di G. Grosso III (Torino 1970) 120, in relazione al fatto che in ori-gine il contenuto del negozio obbligatorio principale e di quello di garanzia dove-vano coincidere perfettamente.

201#Su quest’evoluzione e sul passo gaiano, cfr., amplius: F. DE MARTINO, Le

garanzie personali dell’obbligazione I (Roma 1940) 31 ss., dove, tra l’altro, si può trovare una difesa della sua genuinità contro il sospetto di costituire un glossema; J. COUDERT, Recherches sur les stipulations et les promesses pour altrui en droit romain (Nancy 1957) 63, secondo cui «la pratique avait probablement imaginé tout un ensemble de formes aberrantes que le droit savant ignorait ou affectait d’ignorer»; P. FREZZA, Le garanzie delle obbligazioni I. Le garanzie personali (Padova 1962) 22, che individua nella prassi di ripetere il verbo usato nelle diverse forme di interroga-zione la nascita di queste varianti; M. TALAMANCA, s.v. «Fideiussione (storia)», in ED. XVII (Milano 1968) 329 s.; F. BRIGUGLIO, ‘Fideiussoribus succurri solet’ (Mila-no 1999) 14 nt. 17; C.A. CANNATA, Corso di istituzioni II.1 cit. 147 ss.

202#Sponsor ita interrogatur: IDEM DARI SPONDES? fidepromissor ita: IDEM FI-

DEPROMITTIS? fideiussor ita: IDEM FIDE TUA ESSE IUBES? Videbimus de his autem, quo nomine possint proprie appellari, qui ita interrogantur: IDEM DABIS? IDEM PRO-MITTIS? IDEM FACIES?

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 432

pone la questione (che poi dimentica tuttavia di risolvere) del loro inquadramento entro i tre schemi riconosciuti, date le im-portanti differenze nella loro struttura203; la possibilità di avva-lersi del greco (attraverso una traduzione in questa lingua della corrispondente forma latina ma non soltanto204) dovette essere riconosciuta assai presto e pertanto Ulpiano non affermava qui nulla di nuovo. Avrebbe il giurista potuto porsi, anche in que-sto ambito, il problema delle stipulazioni di garanzia concluse in lingue diverse da quella greca, ma non lo ha fatto, né in que-sto frammento né, per quanto ne sappiamo, altrove205. Se, in questo caso, ciò potrebbe anche dipendere dalle scelte dei com-pilatori giustinianei, leggiamo ancora

D. 46.4.8.4 (Ulp. 48 ad Sab.). ... quia hoc iure utimur, ut iuris gentium sit acceptilatio: et ideo puto et Graece posse

203

#Per alcune notazioni ‘isagogiche’ su queste differenze strutturali, cfr. F. BRIGUGLIO, ‘Fideiussoribus succurri solet’ cit. 11 ss., con rinvio alla letteratura ivi raccolta, e ID., Un puntino denso di significati: nuove indagini paleografiche sulla terminologia della formula stipulatoria delle obbligazioni di garanzia (Bologna 2008) 1 ss.; cfr., altresì, da ultimo, M.G. ZOZ, Brevi considerazioni sull’assunzione di responsabilità per debito altrui (Trieste 2011) 4 ss. (consultabile on line al seguente indirizzo: http://hdl.handle.net/10077/5700).

204#Il brano di Ulpiano si occupa della forma verbale della fideiussio (Graece fi-

deiussor, et ita accipitur ...). Ora, nel manuale gaiano non si trova indicata la risposta del fideiussore, ma doveva suonare, dato il tenore della domanda, id fide mea esse iubeo [cfr., sul punto, C.A. CANNATA, Corso di istituzioni II.1 cit. 155; a proposito della questione se l’esatta formula stipulatoria della fideiussio fosse id (o) idem tua fide esse iubes? e sulle implicazioni derivanti dalla scelta di una o dell’altra soluzione, cfr., amplius, F. BRIGUGLIO, Intorno all’originaria caratterizzazione della ‘fideius-sio’ quale assunzione di responsabilità per un debito altrui (a proposito della tesi di Werner Flume circa l’ammissibilità della fideiussio «für die verpflichtung zu persön- linchen leistungen, in BIDR. 100 (1997) 700 nt. 5, e ID., ‘Fideiussoribus succurri solet’ cit. 24 ss., che propende per la lezione id; per la differenza con i formulari della spon-sio e della fidepromissio, recanti invece idem, cfr., dello stesso A., Un puntino denso di significati cit. 22 ss.], che è la forma attestata da Ep. Gai 2.9.2 e quella che per pri-ma compare, tradotta in lingua greca, in D. 46.1.8 pr. (ÙFÉ âÌFÉ ›ÛÙÂÈ ÎÂχˆ); ad essa potevano aggiungersi le varianti ϤÁˆ, ©¤Ïˆ, ‚Ô‡ÏÔÌ·È o ÊËÌ›.

205#È, pertanto, solo una congettura l’affermazione di A. WACKE, Gallisch,

Punisch, Syrisch cit. 33, secondo cui «Bürgschaften mußte man darum bald auch in griechischer Sprache zulassen, aber gewißnicht nur in griechischer» (così l’A. si esprime anche in El pluralismo lingüístico cit. 130).

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 433

acceptum fieri, dummodo sic fiat, ut Latinis verbis solet: ö¯ÂȘ Ï·‚gÓ ‰ËÓ¿ÚÈ· ÙfiÛ·; ö¯ˆ Ï·‚ÒÓ.

Da D. 46.4.14 di Paolo206 veniamo a sapere che l’accepti-

latio, per produrre la liberazione del debitore, doveva consenti-re cum obligatione e che i verba del negozio estintivo e del- l’atto costitutivo dell’obbligazione dovevano inter se congruere; questo stretto nesso rendeva imprescindibile una disciplina il più possibile unitaria dei due atti. Così, una volta ammessa la stipulatio bilingue, il riconoscimento di un’acceptilatio anch’es- sa bilingue avrebbe dovuto discendere, come conseguenza, del tutto naturalmente; per non dire dell’opportunità di non impe-dire che stipulazioni concluse interamente in latino o in greco potessero formare oggetto di un’acceptilatio concretizzata in una lingua diversa da quella pronunciata nell’atto che aveva dato vita all’obbligazione, ciò a fortiori se si considera che al negozio estintivo poteva accedere anche un soggetto diverso da quello iniziale207.

Eppure, nel passo in esame, Ulpiano si contentava (si con-sideri, infatti, che subito prima aveva esordito dicendo che iu-ris gentium [est] acceptilatio) di pronunciarsi a favore (quasi come fosse una sua personale opinione: Et ideo puto) soltanto della lingua greca (a condizione, peraltro, che in questa si ri-producessero le consuete formule latine: dummodo sic fiat, ut Latinis verbis solet)208, senza neppure menzionare altri idio-

206#Nisi consentiat acceptilatio cum obligatione et nisi verum est, quod in ac-

ceptilatione demonstratur, imperfecta est liberatio, quia verbis verba ea demum re-solvi possunt, quae inter se congruunt. Per un primo inquadramento del passo, cfr.: S. SOLAZZI, L’estinzione dell’obbligazione nel diritto romano I (Napoli 1935) 259 ss., con illustrazione dei sospetti d’interpolazione; H. ANKUM, La forma dell’ac- ceptilatio cit. 275 s.

207#Ad esempio, un sottoposto (filius o servus che fosse), previa novazione

dell’obbligazione da estinguere con l’acceptilatio (v. D. 46.4.13.10 di Ulpiano, che menziona il tutor, il curator ed il procurator): su questa possibilità, da taluno non ammessa, cfr., amplius, G. COPPOLA BISAZZA, Dallo iussum domini alla contempla-tio domini. Contributo allo studio della storia della rappresentanza (Milano 2008) 152 ss., con rinvio ad altra letteratura sull’argomento.

208#Com’è noto, in relazione alla permanenza in età classica avanzata del rigore

formale dell’acceptilatio (che si esplicava nell’utilizzo di una delle due forme am-

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 434

mi209; ed a favore di un’acceptilatio nella quale tanto la doman-da che la risposta avvenissero nella medesima lingua. Può darsi che questa cautela fosse funzionale all’intento di mettere a ri-paro i creditori dal rischio di estinguere le proprie ragioni di credito rispondendo positivamente a domande che non avesse-ro compreso alla perfezione; ed un rischio del genere diventava più concreto proprio nell’utilizzo di lingue meno diffuse ri-spetto a quella greca.

È questo motivo pratico – ritengo – che stava anche alla base del fatto per cui, nonostante le coeve e diffuse tendenze al cosmopolitismo (influenti, in una certa misura, anche su Ul-piano210), la questione se ammettere o meno nella stipulatio forme linguistiche diverse rispetto a quella greca era stata posta concretamente all’attenzione del giurista di Tiro. L’incertezza, infatti, poteva scaturire dal requisito della congruentia verbo-rum, il rispetto del quale doveva risultare più disagevole pro-prio laddove si fosse fatto ricorso a lingue meno diffuse come messe – Quod ego tibi promisi acceptumne habes? habeo e Acceptumne facis? facio: v. Gai 3.169 e D. 46.4.7 di Ulpiano – o delle loro traduzioni greche ex D. 46.4.8.4), la dottrina si è divisa; da una parte, quella che può considerarsi l’opinione ancora pre-valente è nel senso di ritenere che l’acceptilatio classica fosse un atto che richiedesse una forma ben precisa (cfr., per quest’impostazione, tra gli altri: S. SOLAZZI, L’estin- zione dell’obbligazione I cit. 247; H. ANKUM, La forma dell’acceptilatio cit. 265 ss., spec. 284); dall’altra, la tesi di A. WATSON, The form and nature of acceptilatio in Classical Roman Law, in RIDA. 8 (1961) 391 ss. [= Studies in Roman Private Law (London 1991) 193 ss.], di recente supportata con nuovi argomenti (ricavati dalla pubblicazione di P. Ant. 22, contenente un estratto del commentario ulpianeo all’editto) da E. METZGER, A fragment of Ulpian on acceptilatio and intertium, in SDHI. 72 (2006) 111 ss., spec. 121 ss., secondo la quale l’acceptilatio era un atto in-formale per il diritto classico. Per un rapido quadro dell’evoluzione dell’istituto, cfr. M. BIANCHINI, s.v. «Remissione del debito (storia)», in ED. XXXIX (Milano 1988) 760 ss.

209#Ridimensionano questo silenzio nei riguardi delle aliae linguae, pensan-

do che qui Ulpiano avesse citato il greco solo allo scopo di fare un esempio, A. WACKE, Gallisch, Punisch, Syrisch cit. 31 s. (= El pluralismo lingüístico cit. 129), e H. ANKUM, La forma dell’acceptilatio cit. 278.

210#Anche se è probabilmente eccessiva l’affermazione di T. HONORÉ, Ulpian2

cit. 85, che «Ulpian’s exposition of Roman law and administration in over 200 books can be regarded as the legal corollary of the cosmopolitan and egalitarian movement that culminated in the Antonine constitution».

D. 45.1.1.6 (ULP. 48 AD SAB.) 435

il punico o l’aramaico esemplificate dal giurista211, rendendo in-dispensabile l’ausilio di specifici interpreti bilingui (ut uterque alterius linguam intellegat ... sive per verum interpretem212), cer-tamente più difficili da reperire nei luoghi di contrattazione213; senza trascurare, per di più, la maggiore complessità di accer-tarne l’eventuale violazione successivamente alla conclusione della stipulazione, di fronte ad esempio a pretestuose afferma-zioni di invalidità della promessa verbale una volta conclusa.

Non poteva, dunque, appartenere alla visione di Ulpiano l’idea di dare un ingresso sregolato nel mondo giuridico a qualsivoglia parlata locale, magari sotto la spinta ideologica di un principio d’uguaglianza di tutte le lingue che si trovavano nell’Impero e di tutela delle minoranze; viceversa, egli concepì un’apertura a favore delle aliae linguae solo a condizione che esse fossero conosciute in concreto (o almeno conoscibili) dal-

211#Non a caso – saremmo tentati di credere. Il punico era infatti la lingua della

famiglia imperiale (v. Ps. Aur. Vict. Epit. de Caes. 20.8, a proposito dell’ottima co-noscenza da parte di Settimio Severo di questa lingua) e l’aramaico la lingua che ad Ulpiano era familiare fin dalla giovinezza [cfr. R. YARON, Semitism in Ulpian?, in TR. 55 (1987) 13 («If Greek was Ulpian’s language at school, the vernacular Ara-maic would have been the language of the servants at his home ... rarely will a child have grown up in those parts of the world without a fair knowledge of Aramaic»), e U. MANTHE, Assyrius sermo cit. 364].

212#Secondo S. RICCOBONO, Stipulatio ed instrumentum (1914-1915) cit. 257 (= Stipulation cit. 40), l’intervento di un terzo nella dinamica stipulatoria deve reputar-si, per l’età classica, qualcosa di «incredibile» e quindi interpolata la frase che lo esprime; tuttavia, proprio le considerazioni che abbiamo svolto su nel testo sembra-no avvalorare invece l’importanza di questa figura come strumento di mediazione tra esperienze linguistiche diverse in un momento, come quello vissuto da Ulpiano, nel quale erano più possibili che mai le relazioni tra persone, che, pur sottoposte alla stessa disciplina giuridica, provenivano da comunità culturalmente distanti. In que-sto stesso senso, sottolinea l’importanza del ruolo dell’interpres in questo preciso frangente, A. WACKE, Gallisch, Punisch, Syrisch cit. 30, a giudizio del quale anzi col tempo «sive per se bildete ... die Ausnahme, per interpretem hingegen die Regel» (co-sì anche in El pluralismo lingüístico cit. 128). Per quanto riguarda la qualifica di ve-rus, associata ad interpres nel brano di Ulpiano, essa non deve far pensare ad un «au-torisierten, staatlich beglaubigten Dolmetscher» (ibidem), ma alla capacità dell’inter- prete di riportare in modo fedele ed affidabile le dichiarazioni che è chiamato a tra-durre; così la intende anche F. GALLO, La ‘verità’ cit.

213#Alla difficoltà di trovare interpreti competenti pensa A. WACKE, Gallisch,

Punisch, Syrisch cit. 27.

ALESSANDRO CUSMÀ PICCIONE 436

la controparte romana. La Constitutio Antoniniana, che «ebbe ricadute ed effetti secondari maggiori degli scopi che persegui-va»214, aveva proiettato un numero enorme di neocittadini – ma non per questo propensi ad abbandonare le proprie origini, così come testimoniava il greco Strabone (5.1.10c 216), condividen-done in fondo lo spirito, per i popoli italici dopo la Guerra so-ciale: «Ora sono tutti Romani, ma nondimeno alcuni si dicono Umbri e Tirreni, così come Veneti, Liguri ed Insubri»215 –, al-loglotti e di usi differenti, a muoversi sullo stesso terreno giuri-dico; il diritto romano avrebbe potuto soccombere in conse-guenza dell’impatto, come probabilmente tempo dopo sarebbe accaduto con la cd. ‘volgarizzazione’, ma ancora in principio del III secolo l’argine era costituito dall’interpretatio pruden-tium, che incanalava gli elementi nuovi nella tradizione giuri-dica romana. Così, il riconoscimento della pari legittimità delle lingue straniere rispetto a quella latina doveva fare i conti con la disciplina caratteristica della stipulatio e con la congruentia verborum in modo particolare. Ciò a riprova del fatto che, an-che relativamente a materie non direttamente coinvolte dalla estensione della cittadinanza, gli effetti del provvedimento di Caracalla furono distintamente avvertiti dai giuristi e da essi filtrati216.

214

#Così, F. COSTABILE, Storia del diritto pubblico romano3 (Reggio Calabria 2012) 342.

215#Sul passo, cfr. L. AIGNER FORESTI, Il federalismo nell’Italia antica (fino

all’89 a.C.), in Il federalismo nel mondo antico, cur. G. ZECCHINI (Milano 2005) 118, che evidenzia come l’acquisizione della cittadinanza romana non portò, data la diversità delle tradizioni culturali delle popolazioni italiche da quelle romane, alla creazione di una «identità nazionale profonda».

216#V. retro quanto dicevamo nella nt. 5, a proposito dell’idea, prospettata da

autorevole dottrina, che un modesto effetto dovette invece produrre la misura seve-riana sul coevo pensiero giurisprudenziale.