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federalismi.it n. 15/2013
IL DIVIETO INTERNAZIONALE DI TORTURA.
TRATTAMENTI INUMANI NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI ITALIANI*
di
Sacha Tagnani
(Laureato in Giurisprudenza
Università degli Studi di Urbino)
24 luglio 2013
Sommario: 1. Tortura tra storia e legalità. 2. Il divieto internazionale di tortura e trattamenti
inumani o degradanti. 3. Le regole carcerarie europee e le condanne della Corte di Strasburgo.
4. La condizione degli istituti penitenziari italiani. 5. L’istituto penale minorile di Nisida e la
Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato.
1. Tortura tra storia e legalità.
Nell’era moderna, si è soliti credere che la pratica della tortura sugli esseri umani sia un
fenomeno del passato, una questione, cioè, che attiene a quei momenti della storia umana che
vanno dimenticati, sepolti o rimossi dalla memoria. Allo stesso modo, si pensa che la tortura
abbia avuto luogo solo in determinati posti, in certe epoche storiche, e su “particolari
categorie di persone”, basti ricordare l’esperienza europea, risalente al XV secolo, della lotta
alle streghe. Purtroppo, la realtà è ben diversa da quanto appena detto; sembrerà, quindi,
difficile da accettare, ma oggi, in molte parti del mondo, e forse più che in altre epoche, la
tortura è una pratica legalizzata.
* Articolo sottoposto a referaggio.
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La tortura è parte integrante della società umana, di conseguenza lo è anche della legislazione
degli Stati e della prassi giuridica dei vari paesi, la sua legittimazione (tortura intesa come
reato e come pratica giuridicamente ammessa) ha inizio dal basso Medioevo è termina verso
la fine del Settecento (dove si darà luogo ai primi interventi legislativi per vietarla), anche se
la sua origine storica è molto più lontana; la tortura, infatti, veniva già praticata, anche se con
modalità e per ragioni diverse, già in epoca classica.
Nell’antichità greca e romana la tortura era intesa quale strumento giudiziario per estorcere
dall’imputato informazioni o confessioni su determinati fatti; questa pratica veniva
considerata come un vero e proprio strumento di prova, utilizzata soprattutto sugli schiavi e
sulle donne 1.
Nel V secolo a.C., Atene era una città retta sul maschilismo, sul paternalismo e sullo
schiavismo, al vertice di questa società, di natura piramidale, sedeva il “maschio-greco” capo
politico e militare della polis, al di sotto, in una posizione di netta inferiorità politico-sociale,
vi erano: la donna, lo schiavo e lo straniero (essi erano sottoposti a violenze e abusi di ogni
genere che, a volte, sconfinavano nella tortura).
L’ordine sociale ateniese si fondava, quindi, su due differenti status sociali: quello di
“cittadini attivi” (o semplici cittadini) e quello di “cittadini passivi” (o non cittadini).
I primi erano gli uomini adulti che godevano del diritto di partecipare alla vita pubblica,
militare, politica e religiosa; i secondi (“non cittadini”) erano tutte le altre persone sprovviste
di questi privilegi. Il ruolo sociale della donna, per esempio, si limitava alla procreazione,
all’allevamento della prole, alla cura della casa e alla fedeltà verso il marito.
Lo schiavo doveva obbedienza al proprio dominus (lo schiavo nell’antichità era considerato
poco più che una res) che poteva fare di lui ciò che voleva, addirittura venderlo come merce
al miglior offerente (o come accadeva a Roma al di là del Tevere).
Nella città ateniese, del V secolo a.C., non vi erano solo la donna e lo schiavo a essere
socialmente discriminati (essi erano considerati esseri umani inferiori, estranei alla vita
politica e di conseguenza estromessi da tutte le decisioni più importanti che riguardavano la
collettività); i greci credevano, infatti, che il clima mite e temperato da cui provenivano li
rendesse un popolo “superiore” e più “intelligente” rispetto alle popolazioni provenienti dal
“freddo” nord Europa o “dall’arido” Egitto (i greci parlavano di superiorità naturale rispetto
alle popolazioni nordiche e meridionali: le prime, viste come civiltà inferiori, rozze e prive di
cultura; e le seconde, ritenute docili e servili, adatte per servirli).
1 M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, p. 25.
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Alla luce delle forti discriminazioni socio-razziali è evidente che la polis greca, almeno in età
classica, non fu una società fondata sull’uguaglianza delle persone e sul riconoscimento dei
loro diritti fondamentali; questo concetto emerge molto chiaramente in alcuni autori classici.
Uno dei maggiori esponenti di questa teoria fu il maestro Talete, “di tre cose sono
riconoscente alla sorte: essere nato “uomo e non bestia, maschio e non femmina, greco e non
barbaro” 2.
Aristotele, altro autore dell’epoca e figlio del medico di corte di Alessandro Magno, pose al
vertice dell’ideale di humanitas il maschio greco, e al di sotto, in posizione di assoluta
inferiorità, la donna, il barbaro e lo schiavo, quest’ultimo ritenuto una res (Aristotele fu uno
dei primi autori classici a parlare di schiavitù per natura).
“[…] Gli schiavi eran cose. Come cose, non si poteva logicamente ammettere che
riconoscessero la forza innata del vero e la sanità del giuramento. Come cose, non se ne
potevano saggiare la veridicità se no colla prova di sofferenze materiali” 3.
In Grecia e a Roma la tortura non si limitava a mero strumento giudiziario per ottenere la
confessione da parte del “reo”, ma poteva essere impiegata anche per estorcere la deposizione
dei testimoni. Se con le popolazioni greche e romane la tortura ha avuto una sua utilità
processuale, poi con l’avvento dell’alto Medioevo la tortura ha incontrato una fase di
apparente arresto non di ordine etico-morale, ma semmai per la natura politica e giuridica
della prima società medioevale. È nel basso Medioevo che si manifesta un rinnovato interesse
per la pratica della tortura, questo in virtù dal nuovo ordine giuridico-politico e dal
consolidarsi di una visione gerarchica della società umana. In questo nuovo ordine sociale i
sovrani attribuivano solo a determinate classi di soggetti (nobili, clero, lord, grandi proprietari
terrieri) particolari “libertà e privilegi” (libertà personale, esenzione fiscale, esenzione
militare, etc.). I comuni medioevali erano organizzati per ceti e per classi: il nobile era diverso
dal servo, il contadino dal guerriero, il laico dall’ecclesiastico, il padre dal figlio, il marito
dalla moglie, e così via. In questo sistema fortemente classista ed elitario non c’era spazio per
una teoria dei diritti a carattere universale. L’uomo medioevale, per rappresentare
metaforicamente l’ordinamento sociale in cui viveva, inventò la c.d. “metafora del corpo” 4.
Con questa finzione si immaginava che la città fosse ideata come un corpo umano: dove al
comando, al vertice della “piramide sociale” (in sostituzione degli organi vitali: cuore e
2 G. Giliberti, Introduzione storica ai Diritti Umani, Torino, 2012, pp. 39-44.
3 Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, vol. I, cit., p. 13, Cit. da M. La Torre e M. Lalatta
Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, p. 27. 4 P. Costa, Cittadinanza, Bari, 2009, p. 15.
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cervello), stavano gli uomini più potenti (uomini di chiesa, ricchi proprietari terrieri, cavalieri,
nobili), e al di sotto di questa elite, (sottomessi e alla mercé dei più potenti – rappresentati
come le parti del corpo meramente esecutrici e non vitali: braccia e gambe) stavano i comuni
cittadini. In questa forma di organizzazione di tipo “feudale” non c’erano diritti per tutti, ma
solo per pochissimi e ricchissimi privilegiati, non si poteva nemmeno lontanamente pensare
ad una società di eguali.
In questa epoca, molti giuristi europei furono favorevoli alla pratica della tortura (in
particolare Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi); la dottrina di questi giuristi giustificò
e regolarizzò nell’ambito della prassi giudiziaria il ricorso alla tortura come metodo
confessorio. Il diritto comune medioevale prevedeva che la tortura venisse ordinata dal
giudice con sentenza: l’imputato prima di essere sottoposto al supplizio, veniva sentito dallo
stesso giudice (che lo ammoniva) e poi messo davanti a un boia (per terrorizzarlo), qui il reo
poteva decidere di confessare il suo “male” (espiando così il suo “peccato”) oppure rimanere
in silenzio (ed essere torturato). Se l’imputato confessava durante la tortura, lo stesso doveva
entro le ventiquattro ore successive ripetere la confessione dinnanzi al giudice, se invece
decideva di rifiutarsi o ritrattava allora veniva nuovamente posto sotto tortura.
Nell’Europa basso medioevale furono diverse le Corti europee che sostennero la pratica della
tortura e addirittura la legalizzarono; esempi emblematici, in merito, sono quelli
dell’esperienza spagnola con Alfonso X, nelle Siete Partidas, oppure quella francese, con
l’Ordonnance criminelle, di Luigi XIV, emanata nel 1670, dove la tortura era prevista come
supplemento di prova in tutti quei giudizi in cui si trattava di reati per i quali veniva
comminata la pena capitale 5.
La tortura come strumento giudiziario, legalizzata nel basso Medioevo, si intreccia con la
pratica della stregoneria e della caccia alle streghe; in Europa, infatti, tra il XV e il XVIII
secolo furono celebrati centinaia di processi alle streghe, accusate di adorare Satana o di
dedicarsi alla magia. La stregoneria cessa di essere un reato solo alla fine del XVIII secolo,
ma anche quando la stregoneria cesserà di essere un reato, rimarrà il problema
dell’antropologia negativa riferita alla donna: non solo malvagia, ma anche incline al peccato.
Secondo alcuni autori, la ragione della caccia alle streghe non va ricercata tanto nel verificarsi
di strani eventi, imputabili appunto alle streghe, ma va individuata nella scelta di eliminare le
classi più deboli, quella delle donne anziane, strane, vedove, nubili e povere, usate come
5 M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, pp. 30-32.
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capro espiatorio del panico sociale, alimentato dalle forze politiche (borghesia) per la propria
sicurezza, per spiegare le sciagure naturali, ma anche le crisi delle classi più povere a fronte
della nascita del latifondismo.
La tortura non ha avuto solo la funzione giudiziaria di obbligare le persone (testimoni o
imputati) a confessare reati, anche se non realmente commessi, ma, già in epoca classica, era
strumento utilizzato per irrogare pene esemplari nel caso di gravi crimini a carico sia di
schiavi quanto di cittadini; la pena esemplare (spesso le pene venivano eseguite in piazze o in
luoghi pubblici davanti alle folle eccitate) serviva da deterrente per gli altri sudditi.
La questione della tortura non si limita solo al profilo giudiziario (confessione e punizione),
ma consta anche di un profilo politico; infatti, come molti hanno sottolineato, vi è una
relazione profonda tra tortura e politica, più precisamente tra tortura e potere assoluto, e tra
tortura e utilità comune. Il primo aspetto è legato al terrore, alla paura, e all’orrore che la
tortura riesce ad alimentare negli uomini; il secondo attiene all’utilità comune che la tortura
“parrebbe” favorire, seppur ledendo i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo.
Una delle più gravi forme di tortura politica della prima modernità, legata alla tirannia e al
potere assoluto, riguarda il genocidio degli Indios d’America, all’alba del Nuovo Mondo. In
America, gli spagnoli accamparono come titoli legali della conquista lo “jus inventionis” di
stampo privatistico invocato da Colombo (dato che gli Indios erano stati scoperti, e poiché
erano considerati degli “infedeles” e peccatori, la loro sottomissione era volontaria).
L’umana follia spinse gli europei a gesti violenti e disumani verso le popolazioni native
americane, che determinarono lo sterminio di massa degli Indios d’America.
Nel 1530, l’autore spagnolo Francisco de Vitoria, considerato oggi uno dei padri fondatori del
diritto internazionale pubblico, capovolse la teoria di Colombo della sottomissione per natura
degli Indios, proponendo una diversa teoria dei titoli legali della conquista americana da parte
degli spagnoli. Lo studioso di Salamanca pensò a un ordine mondiale costruito su una società
di Stati sovrani, tutti liberi e indipendenti, dove la “sovranità interna” (intesa come potere da
esercitare all’interno dei propri confini) era regolata da leggi costituzionali degli Stati, e dove
la “sovranità esterna” (intesa come potere all’esterno) si reggeva sullo “jus gentum” di origine
romana, ripreso dalla tradizione cristiana. De Vitoria riconobbe agli Indios la qualità di esseri
umani e non di “sub-umani” (come ritenevano i primi pensatori europei); inoltre, gli attribuì
tutta una serie di diritti naturali (diritti della prima modernità), tra cui: lo jus comunicationis,
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lo jus commercii, lo jus migrandi e lo jus occupationis 6. I tempi, però, non erano ancora
maturi per un reale riconoscimento dei diritti fondamentali, e nonostante l’apertura verso le
nuove popolazioni scoperte, De Vittoria, riconobbe agli spagnoli il diritto di muovergli guerra
come sanzione alle ingiurie subite (anche se la reale motivazione degli spagnoli e degli
europei in generale non fu mai quella delle ingiurie, ma realisticamente quella della conquista
territoriale e dello sfruttamento delle risorse minerarie presenti nel Nuovo Mondo).
Altra forma di tortura politica, strettamente affine alla vicenda degli indiani d’America, è
quella della tortura come lotta al nemico politico; la tortura è ritenuta, a certe condizioni,
legale e addirittura giusta, nonché politicamente opportuna. Essa è usata per incutere e
alimentare paura, ma più in generale per annientare il nemico o l’avversario anche
ideologicamente insidioso (esempi tipici di questa forma di tortura sono stati il Nazismo e il
Fascismo).
In Inghilterra, seppur con qualche interruzione tra il XVI e il XVII secolo, la tortura non trovò
ratifica legislativa né giudiziaria. L’Inghilterra ha rappresentato un “unicum” rispetto a tutti
gli altri Stati europei: la “Petition of Rights” (1628); l’atto “dell’Habeas Corpus” (1679); il
“Bill of Rights” (1689) e “l’Act of Settlement” (1701) sono, non solo, semplici concessioni
politiche da parte dei re di turno, ma provvedimenti fondamentali per la democrazia moderna.
È solo a partire dal Settecento che si registra una “vittoria del diritto e dei diritti” sulla tortura,
vantando in rapida successione provvedimenti legislativi che hanno preveduto il divieto di
tortura.
Tra i paesi europei, prima fu la Svezia nel 1734, poi la Prussia con l’abolizione totale voluta
da Federico II nel 1754. A questa notevole riforma legislativa fecero seguito la Sassonia nel
1770, la Polonia nel 1776, la Francia nel 1780 (con la totale abolizione della tortura
giudiziaria); seguirono nel 1786 il Granducato di Toscana, nel 1787 il Belgio e nel 1789 la
Sicilia 7. Dopo la Sicilia, i primi modelli storici di democraticità e di lotta contro la tortura
risalgono all’epoca delle grandi rivoluzioni del XVII Secolo; tali modelli hanno in comune la
lotta contro l’arbitrio.
La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America (4 luglio 1776) esprime i valori
dell’etica della grazia e della religione; i diritti che furono dichiarati in questo altissimo
documento sono per lo più diritti naturali e innati dell’uomo (vita, libertà – anche contro la
tortura – e proprietà furono alla base della Dichiarazione americana).
6 L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Bari, 2004, pp. 15-18.
7 M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, p. 57.
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Anche nella Francia del XVII secolo l’assenza di diritti scritti e della loro protezione giuridica
da parte delle istituzioni (soprattutto per le classi più povere organizzate nel c.d. Terzo Stato)
portò alla guerra civile; conclusa la Rivoluzione Francese, infatti, gli ideali di libertà,
fraternità ed eguaglianza trovarono riconoscimento nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo
e del Cittadino del 26 agosto 1789, dove all’art. 9 si proibisce ogni rigore e uso della forza al
di là di quanto sia necessario per l’arresto del reo. Il modello francese, in totale rottura
costituzionale con l’Ancienne Regime, fu ispirato dall’etica laica e dal pre-liberalismo; dopo la
rivoluzione, i francesi non vennero più considerati come “sudditi” di un re, ma come
“cittadini” di Francia. La grande differenza che si pone tra il modello inglese (di riforma
costituzionale) e quello francese (di totale rottura con l’assetto costituzionale precedente) è
stato alla base dell’ulteriore processo storico dei diritti umani, che termina con il
costituzionalismo moderno. Il costituzionalismo è un processo storico con il quale i “sudditi”
o meglio i “cittadini”, senza più distinzioni di classi, chiedono ai sovrani assoluti il
riconoscimento dell’eguaglianza di fronte alla legge e il rispetto dei diritti umani.
I valori fondamentali del costituzionalismo moderno riguardano: una Costituzione scritta (una
catalogo di diritti fondamentali riportati in una carta rigida e programmatica); un Parlamento
elettivo (base della democrazia e della partecipazione popolare); il diritto di agire in giudizio
per la tutela delle libertà fondamentali e dei diritti del’uomo (attraverso l’istituzione di
tribunali civili accessibili da tutti); l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (il
principio dell’uguaglianza formale intesa come pari diritti e pari punti di partenza per tutti);
uno Stato di diritto (dove tutti i cittadini sono sottoposti a leggi generali ed astratte e non più
all’arbitrio di un solo uomo); leggi che sono approvate dal un organo elettivo (il
riconoscimento del potere legislativo in capo al Parlamento); la proporzionalità tra la pena e il
reato commesso (divieto di tortura).
Un’altra motivazione a favore della tortura politica, si concentra sulla sicurezza pubblica e sul
contributo che la tortura saprebbe apportarvi a fronte di delitti particolarmente efferati e
destabilizzanti; in questo caso la tortura agirebbe in sostituzione della pena (magari detentiva)
ritenuta misura troppo lieve per certe categorie di rei, che invece nella tortura troverebbero la
giusta punizione, non solo fisica ma anche morale.
Come si ricordava in precedenza, la “tortura legalizzata” cominciò a perdere consensi nell’età
delle grandi Rivoluzioni, soprattutto con quella francese del 1789, ma già in precedenza,
diversi autori manifestarono dubbi sull’ammissibilità di un tale strumento in funzione
giudiziaria e politica. In particolare i Padri della Chiesa (Agostino o ancora papa Niccolò I)
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ebbero a manifestare la propria contrarietà con argomenti già ben sviluppati; essi, insieme a
tanti altri (ancora prima Quintiliano nell’Istitutio oratoria), dichiararono la tortura una pratica
assolutamente inutile. Papa Niccolò I, sostenne che la tortura: “non può essere ammessa in
base né a una legge divina, né a una legge umana, poiché la confessione deve essere
spontanea e non indotta; né è da ricavare con la violenza, bensì volontariamente” 8. Anche
per Beccaria la tortura non solo è ingiusta come mezzo per estorcere la confessione, ma per di
più, anche nel caso in cui il sospettato sia reo, la tortura è inutile per farlo confessare e svia
necessariamente le indagini.
Altri autori hanno parlato di irrazionalità o di insicurezza sociale della tortura; nel primo caso
la tortura sarebbe irrazionale giacché è contraria a ogni possibile requisito di giustizia ed
equità, contraria a ogni valorizzazione della responsabilità morale delle proprie azioni, e nella
seconda ipotesi perché renderebbe il giudizio privo di valore, potendo con la tortura,
anticipare di gran lunga la pena.
Oggi la situazione della tortura non è molto diversa rispetto al passato, nel senso che ci sono
giuristi secondo i quali la tortura, in particolari casi, difenderebbe la dignità dell’uomo (questi
giuristi ammettono la tortura come pratica lecita in alcune ipotesi, per esempio: quando uno
Stato si trova in uno stato di emergenza, per il pericolo imminente di un attentato
dinamitardo, sarebbe legittimato all’uso della tortura sul terrorista per scoprire dove si trova la
bomba; oppure, in altri casi, per garantire la sicurezza pubblica, ad esempio, nel caso in cui
un cittadino venisse sequestrato e fosse in pericolo di vita, le autorità sarebbero legittimate
all’uso di pratiche coercitive per estorcere dai sequestratori informazioni utili ai fini del
ritrovamento; e ancora, per ragioni di interesse politico o della ragion di Stato).
Concludendo sul punto, il nodo della questione resta sempre quello relativo alla connessione
esistente tra tortura e diritto, tra legalizzazione della tortura o sua definitiva abolizione; da
sempre, giuristi e studiosi scrivono e parlano di tortura, alcuni l’hanno osteggiata, altri
l’hanno odiata, secondo altri ancora la tortura difenderebbe la dignità umana. Una soluzione
non si è ancora raggiunta, ma un fatto è certo, e cioè che con la tortura si viola quanto di più
intimo e sacro c’è in una persona: la sua dignità, la sua umanità e la sua libertà. Con la tortura
non esistono né vincitori né vinti, a perdere è l’uomo, ad essere sconfitto è il diritto, e a
naufragare è lo Stato; le sofferenze che derivano dalla tortura non colpiscono solo il
prigioniero, che patisce fisicamente e mentalmente gli effetti della violenza subita, ma anche
8 M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, pp. 58-59.
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il suo carnefice. “Il problema della tortura non è che essa tende a sfuggire al controllo e a
diventare illegale. Ciò che è sbagliato nella tortura è che essa infligge danni irrimediabili sia
a colui che la applica, sia al prigioniero che la subisce. Essa viola gli impegni fondamentali a
tutela della dignità umana” 9.
2. Il divieto internazionale di tortura e trattamenti inumani o degradanti.
Le disposizioni contro la tortura sono di rango costituzionale e ricorrono nei documenti
fondativi dello Stato democratico e poi nelle fonti di derivazione internazionale. Le fonti
interne ai vari paesi sono innumerevoli, si cercherà perciò di indicare le più simboliche.
La Costituzione spagnola del 1812, all’art. 303, dispone quanto segue: “Non si impiegherà più
la tortura né metodi violenti”. La successiva Costituzione spagnola del 1978, prevede che: “il
diritto tiene talmente in considerazione la vita e l’integrità fisica e morale che, in nessun
caso, si può sottoporre qualcuno a tortura o a pene o trattamenti disumani o degradanti”. Tra
le fonti interne di rango superiore c’è anche l’art. 13 della Costituzione italiana; quest’ultima
non menziona espressamente la tortura, ma è a essa che si riferisce, quando dispone in quello
stesso articolo che: “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte
a restrizione di libertà”. Esemplare è anche l’art. 174 del codice penale spagnolo: “Commette
tortura l’autorità o il funzionario pubblico che abusando del suo potere e al fine di ottenere
una confessione o informazioni su qualunque persona o di punirla per qualche fatto compiuto
o che si sospetta abbia compiuto o per qualche ragione basata su un qualche tipo di
discriminazione, la sottopone a condizioni o procedure che per loro stessa natura, durata e
altre circostanze, le procurano sofferenze fisiche e morali, la soppressione o la diminuzione
delle sue facoltà cognitive di intendere e volere e che, in qualche altro modo, attentano alla
sua integrità morale”.
La lotta contro la tortura, non si ferma alle sole norme interne, ma trova il suo fondamento
giuridico anche nelle norme del diritto internazionale, dove il divieto di tortura assurge a
rango di jus cogens.
Dal Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – approvata
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 – si legge: “Considerato
che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro
diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della
pace nel mondo; Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno
9 M. Ignatieff, Il male minore: l’etica politica nell’era del terrorismo globale, Milano, 2006, pp. 201-2012, Cit.
da M. La Torre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013, p. 170.
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portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un
nuovo mondo in cui gli stessi esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della
libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo.
L’Assemblea Generale proclama la dichiarazione universale come ideale comune da
raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni”.
Diverse sono le fonti internazionali che disciplinano il divieto di tortura e trattamenti inumani
o degradanti. L’art. 5 della DUDU prevede che: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a
tortura o a trattamenti o a punizione crudeli, inumane o degradanti”; l’art. 3 della CEDU,
riportandosi largamente al dettato della DUDU, stabilisce che: “Nessun individuo può essere
sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Di notevole importanza è l’art. 3 della Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei
prigionieri di guerra del 1949, la quale statuisce che: “Sono e rimangono vietate, in ogni
tempo e luogo le violenze contro la vita e l’integrità corporale […], le mutilazioni, i
trattamenti crudeli, le torture e i supplizi”. Il divieto è ripreso dal Patto internazionale sui
diritti civili e politici del 1966, all’art. 7, per il quale: “nessuno può essere sottoposto alla
tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”.
Il 2 febbraio 1985, l’Italia ha firmato, procedendo alla ratifica il 12 gennaio 1989, la
Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli,
inumane e degradanti. In ambito europeo, il 26 settembre 1987, è stata firmata a Strasburgo la
Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e
degradanti, entrata in vigore il primo febbraio 1989. Per garantire che gli Stati non violino le
norme ivi comprese sono stati istituiti dei comitati di investigatori (CAT) e (CPT) che visitano
(con cadenze periodiche) gli istituti di pena e le caserme dei paesi ratificanti. Gli investigatori
che, durante le visite, abbiano riscontrato violazioni dei diritti umani devono denunciarle nei
loro rapporti.
Questi rapporti sono nati come “rapporti confidenziali” tra Comitati e Paesi membri; agli Stati
era riconosciuto il diritto di decidere se pubblicare o no il rapporto con le proprie
controdeduzioni.
In una prima fase, gli Stati decisero di tenere segreti i rapporti, ma poi a partire dai primi anni
’90, sull’esempio dell’Inghilterra, iniziarono a renderli pubblici.
Una delle prime, autorevoli, definizioni della tortura a livello internazionale risale all’art. 1
della Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura ed altri
trattamenti crudeli, inumani e degradanti, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 9
dicembre 1975 – con risoluzione n. 3452 – come: “qualsiasi atto per il quale il dolore o delle
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sofferenze acute fisiche e o mentali, sono deliberatamente inflitte ad un individuo da parte di
pubblici ufficiali o sotto loro istigazione, allo scopo di ottenere da esso o da un terzo
informazioni o confessioni, di punirlo per un atto commesso, o allo scopo di intimidirlo o di
intimidire altre persone”.
Ai fini della tortura, rileva l’esperienza di Antonio Cassese, esperto giurista italiano, che è
stato rappresentante del governo italiano in vari organi dell’Onu, oltre ad aver presieduto, dal
1989 al 1993, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (CPT).
È grazie allo studioso italiano che si è chiarita la differenza di significato tra tortura e
trattamenti inumani o degradanti. Cassese, dopo aver visitato per diversi anni le carceri
europee, ha chiarito che: “Nella tortura la disumanità è deliberata; una persona compie
volontariamente contro un’altra atti che non solo feriscono quest’ultima nel corpo o
nell’anima, ma ne offendono la dignità umana. Nella tortura c’è insomma l’intenzione di
umiliare, offendere o degradare l’altro, di ridurlo a cosa” 10
.
Diversamente, dice, i trattamenti inumani o degradanti: “sono il risultato di tante azioni e
circostanze; spesso esse costituiscono la concertazione dei comportamenti più svariati di
numerose persone. In secondo luogo, nei trattamenti disumani o degradanti quasi sempre
manca la volontà di umiliare, offendere o avvilire. Essi sono oggettivamente contrari al senso
di umanità, senza che si possa necessariamente discernere un’intenzione malvagia in chi li
infligge” 11
.
Secondo Amnesty International 12
, su 192 Stati, per ben 132 è provato che esercitino la tortura
più o meno sistematicamente. Il problema non riguarda solo Paesi del terzo mondo, ma anche
Stati più industrializzati; per esempio, gli Stati Uniti d’America, lo hanno espresso
chiaramente davanti al Comitato dell’ONU per la lotta contro la tortura (CAT), che sorveglia
l’applicazione della Convenzione del 1984.
Le norme della Convenzione Onu, hanno sostenuto gli americani, non sono self-executing,
cioè non sono direttamente applicabili all’interno dello Stato americano che può disattenderle
di fronte allo “stato di necessità”. A proposito di questo, prima della scadenza del suo
mandato, il Presidente Bush, ha parlato di “metodi di interrogatorio rafforzati” contro gli
affiliati di al-Qaida, parole che verosimilmente celano la pratica della tortura.
10
A. Cassese, Umano-Disumano, Roma-Bari, 1994, pp. 55-56. 11
A. Cassese, Umano-Disumano, Roma-Bari, 1994, pp. 56. 12
www.Amnesty.it, Relazione del 3.3.2001.
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Ritornando all’ipotesi dello “stato di necessità”, è evidente che lo stesso sia un mezzo per
eludere il divieto di tortura; le forze di polizia, infatti, facendo forza su tale mezzo, sono
autorizzate ad usare, nei confronti di determinati sospettati, metodi coercitivi per ottenere
informazioni o confessioni ritenute urgenti, senza essere perseguibili per aver violato il
divieto di tortura sancito dalla Convenzione Onu.
Un notevole passo in avanti, nella lotta contro la tortura, è stato fatto in Israele, dove la Corte
Suprema ha dichiarato la nullità di qualsiasi direttiva amministrativa che consentisse ai
militari di praticare metodi coercitivi, che a volte sconfinavano nella tortura. Anche in questo
Stato, però, rimane il problema dello stato di necessità (il militare o il poliziotto possono
sempre dichiarare che c’è allarme per un ordigno, e la persona detenuta sa dove è stata messa
quella bomba; per salvare centinaia di persone si potrà sottoporre il detenuto a metodi
coercitivi, fino a trascendere nella tortura).
Anche in Germania, come in Israele, sono stati fatti dei passi da gigante per combattere la
pratica della tortura. Nel 2004, la Corte di Francoforte 13
, ha condannato il vicecapo della
polizia e un agente: il primo per aver ordinato al suo subordinato di usare metodi coercitivi, e
il secondo per aver minacciato il ricorso a quei metodi (il caso riguardava un ragazzo reo di
aver sequestrato il figlio di un banchiere per ottenere da lui un risarcimento milionario). In
questo clamoroso caso giudiziario, gli agenti sono stati entrambi condannati per uso di
“metodi coercitivi”; le prove raccolte durante l’interrogatorio, con questi metodi, non sono
state considerate dalla Corte, che ha comunque condannato all’ergastolo il giovane
sequestratore responsabile del rapimento e dell’omicidio del ragazzino.
La novità di questa pronuncia non sta tanto nel aver riconosciuto la penale responsabilità degli
agenti di polizia per uso di metodi coercitivi vicini alla tortura, ma in quella di aver
riconosciuto larghe attenuanti agli imputati che avrebbero agito per stato di necessità.
Il principio che emerge da questa decisione dei giudici tedeschi è molto innovativo, e cioè: se
un agente della polizia si sente obbligato ad usare metodi duri o addirittura a praticare la
tortura per salvare una vita umana, potrà farlo ma commetterà un crimine del quale si dovrà
prendere la responsabilità di quell’atto estremo, sapendo che pagherà personalmente anche se
potrà ottenere le attenuanti.
Antonio Cassese, in “L’esperienza del male”, ha raccontato di aver trovato, durante gli
innumerevoli viaggi presso caserme e carceri europee, alcune tracce di tipi di tortura; la
13
A. Cassese, L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra, Bologna, 2011, pp.145-
148.
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“Palestinian hanging”, per esempio: in cui il detenuto ha le mani legate dietro la schiena ed è
sollevato dai polsi e appeso ad un gancio. Lo si tiene sollevato per circa 20 minuti e poi si
ricomincia. Questa tortura non produce fratture ai polsi, ma solo leggere slogature dell’omero
difficilmente visibili. Un altro tipo di tortura è chiamata “falaqa”: si pratica con l’uso di un
bastone con il quale si danno piccoli colpi alla pianta del piede del torturato, a seguito dei
colpi inferti il piede si gonfia visibilmente, i torturatori, per non essere scoperti, usano lo
yogurt come rimedio naturale 14
.
L’avvocato americano, Alan Morton Dershowitz, ha criticato aspramente il comportamento
degli Stati che celano la pratica della tortura con l’attenuante dello stato di necessità, e ha
chiesto agli stessi di smetterla di esseri ipocriti e cercare di disciplinare giuridicamente i casi
eccezionali in cui la tortura può essere praticata. Dershowitz, dichiara che: “in circostanze
eccezionali un membro delle forze dell’ordine, dei servizi sociali, o dell’esercito può
ravvisare la necessità di ricorrere a una di queste tecniche. In questo caso, se il problema si
pone a livello penale, potrà invocare lo stato di necessità” 15
.
Amnesty International è l’organizzazione internazionale che negli anni ha prestato più
attenzione alla pratica della tortura, ha svolto, infatti, innumerevoli indagini in più di 195
paesi di tutto il mondo. I dati emersi sono, per certi aspetti, sconcertanti. La tortura che ha
avuto nel Medioevo la sua massima sublimazione, ha ritrovato negli ultimi decenni grande
vitalità.
Nel 2000, i sostenitori di Amnesty International hanno dato vita ad una campagna
internazionale contro la tortura insieme ad associazioni dei diritti umani, con l’obbiettivo di
prevenire la tortura ed eliminare qualsiasi discriminazione nel mondo; per questa campagna
Amnesty International ha svolto indagini, dal 1997 a metà 2000, in 195 paesi.
Dall’indagine emerge che la maggioranza delle persone sottoposte a tortura, da parte di agenti
di polizia e militari, sono detenuti per reati comuni. La ricerca rileva che tra i metodi più
comuni di tortura, c’è quello delle percosse, adottato da agenti e militari di 150 paesi; le
percosse vengono inflitte con pugni, calci, bastoni, fili elettrici e manganelli. Le vittime
patiscono contusioni, emorragie interne, fratture ossee, danni irreparabili agli organi interni, e
in certi casi sopraggiunge anche la morte.
14
A. Cassese, L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra, Bologna, 2011, pp.
149-150. 15
A. Cassese, L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra, Bologna, 2011, p.144.
www.federalismi.it 14
Sono molto diffuse anche la violenza sessuale, e l’utilizzo dell’elettroshock (accertato in 40
paesi), soffocamento (oltre 30 paesi), finte esecuzioni o minacce di morte (oltre 50 paesi);
altre forme sono lo spegnimento di sigarette sul corpo, la privazione del sonno e delle
funzioni sensitive (esiste un caso simile in Italia che ha portato a processo – motivazioni
depositate il 7 febbraio 2012 – 5 agenti della polizia penitenziaria per le violazioni subite da 2
detenuti nel carcere di Asti).
Amnesty International rivela che le vittime di torture non hanno una particolare fisionomia,
possono cioè essere di qualunque età, religione, etnia o sesso; il più delle volte, dichiara Am.
In., sono criminali comuni che provengono dalla povertà. C’è anche un chiaro rapporto tra
tortura e razzismo, infatti, negli USA e in Europa, molte delle persone sottoposte a tortura
sono uomini e donne di colore o appartenenti a minoranze etniche; in tutta Europa i Rom sono
visti come dei criminali abituali e per questo subiscono pestaggi abituali da parte delle forze
di polizia. Purtroppo, nemmeno i bambini possono sottrarsi a questa macabra pratica; è
emerso che in più di 50 paesi, le forze di polizia abbiano usato la tortura su bambini e
bambine. Non è tutto, molti bambini sono sottoposti ad abusi e violenze sessuali da parte
degli agenti di polizia che dovrebbero invece custodirli in sicurezza; questo accade soprattutto
a quei bambini che vivono di piccoli crimini o di prostituzione. Am. In. dichiara che in alcuni
paesi i proprietari di negozi “assumono” dei sicari che ripuliscono le strade uccidendo molti di
questi bambini. In Uganda migliaia di bambini sono reclutati nel gruppo di opposizione
armata “Esercito della Resistenza di Dio” e costretti a prendere parte a omicidi di iniziazione.
Mentre i ragazzi combattono per le strade, morendo invano e per guerre non loro, le ragazzine
vengono usate come schiave sessuali.
Nel 1997, Amnesty International, ha raccolto innumerevoli denunce di donne che sono state
sottoposte ad abusi e violenze sessuali in più di 50 paesi di tutto il mondo. Dall’indagine è
emerso che le donne costituiscono la maggioranza dei rifugiati e degli sfollati di tutto il
mondo e sono estremamente vulnerabili agli stupri nei campi e lungo i confini; ad esempio, le
donne di Timor Est (Indonesia) nel 1999, pare siano state costrette a prostituirsi e tenute in
schiavitù sessuale dagli agenti e dalle milizie indonesiane. Am. In. dichiara che negli ultimi
15 anni il flusso e la produzione globale di strumenti atti alla tortura ha avuto un altissimo
incremento; i prodotti più richiesti sono stati gli strumenti per l’elettroshock. Negli anni
Novanta questo mezzo di tortura è stato utilizzato in carceri, centri di detenzione, caserme in
60 paesi del mondo; in almeno 20 sono stati usati bastoni e pistole appositamente costruite per
essere usate su esseri umani. Cesare Beccaria, in tempi non sospetti, scrisse, in “Dei delitti e
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delle pene”, in merito alla tortura: “Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e
di condannare i deboli innocenti”.
Mi si lasci terminare dicendo che, nonostante tutto quello che si è fatto e si cerca di fare per
eliminare la pratica della tortura nel mondo e nonostante le vittime di torture siano sempre i
più deboli e i più indifesi, la vera atrocità risiede nella “dolosa” sottrazione degli Stati al
rispetto degli obblighi internazionali, e soprattutto nel fatto che molti di essi, tra cui anche
l’Italia, non hanno ancora previsto il reato di tortura nel proprio codice penale.
A questo punto, una domanda sorge spontanea: fino ad ora si è parlato della tortura praticata
dagli Stati sugli uomini liberi, e dei divieti nazionali e internazionali previsti allo scopo di
difenderli, ma quando la tortura viene praticata su persone che sono sotto la custodia dello
Stato, perché detenute in carceri o in altri luoghi di detenzione, quali sono, se esistono, i
mezzi che corrono in difesa del cittadino?
3. Le regole carcerarie europee e le condanne della Corte di Strasburgo.
La richiesta di giustizia da parte dei cittadini ha obbligato tutti gli Stati, o quasi, a prevedere
delle norme che limitino la libertà personale degli individui che si sono resi autori di crimini.
Anche la Costituzione italiana riconosce, solo in ipotesi espressamente previste dalla legge,
restrizioni della libertà personale per coloro che si sono resi responsabili di gravi reati
(comma II° e III° dell’art. 13 Cost.). Ma se è pur vero che ogni paese prevede delle norme che
restringono la libertà personale per evidenti motivi di giustizia, nessuno Stato, Costituzione o
legge potrà mai privare un uomo o una donna della propria dignità. La lotta per i diritti,
perciò, non si deve arrestare solo davanti alle vittime o agli innocenti, deve andare oltre, deve
fare un ulteriore sforzo in avanti e garantire protezione a quelle persone che vivono in uno
status soggettivo particolarmente critico. I diritti umani devono valere anche per i
“condannati”, anche loro sono esseri umani; essi hanno diritto al rispetto della propria dignità
di uomini, anche se questo comporta un grande sforzo che non sempre è facile da compiere
(soprattutto in riferimento ai condannati che hanno commesso i reati più infamanti e verso i
quali molti ammetterebbero l’uso della tortura come sanzione). Le fonti internazionali ed
europee in materia di organizzazione carceraria non discendono solo dalle Convenzioni del
1984 e del 1987, ma anche da diverse Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa e dai Rapporti annuali del Comitato del Consiglio d’Europa per la
prevenzione della tortura; queste fonti costituiscono la cd. “Carta dei diritti dei detenuti”.
Le regole basilari europee, i c.d. standard minimi, per il trattamento dei detenuti sono
enunciate in due note Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: la
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prima è la R(87)3, e la seconda, che costituisce l’ultima e attuale versione, è la R(2006)2. Con
la Raccomandazione del 2006, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha inteso
rivedere e aggiornare le precedenti Regole Penitenziarie del 1987, nella convinzione che sia
necessario prendere atto degli sviluppi intervenuti nelle politiche penali e nelle pratiche di
gestione delle carceri, in un Europa che ha vissuto negli ultimi anni un importante
ampliamento dei propri confini e del numero degli Stati Membri. Dal Preambolo della
R(87)3, si legge che le finalità delle regole penitenziari europee sono: “di stabilire un insieme
di regole minime su tutti gli aspetti dell’amministrazione penitenziaria che siano essenziali
per assicurare delle condizioni umane di detenzione e un trattamento positivo nel quadro di
un sistema moderno e progressivo”.
La Raccomandazione del 1987 prevede, nella Parte Seconda, la c.d. “gestione del sistema
penitenziario” dove si dettano, nell’ordine, tutta una serie di norme concernenti: l’ingresso e
la registrazione dei detenuti (nessuno può essere ricevuto senza un titolo di detenzione valido,
etc.); l’assegnazione e la classificazione dei detenuti (per l’assegnazione dei detenuti ai diversi
istituti o regimi penitenziari deve essere considerata la loro posizione giuridica, le esigenze
particolari del loro trattamento, le esigenze sanitarie, il sesso e l’età, etc.); i locali di
detenzione (i detenuti devono in linea di principio essere alloggiati durante la notte in camere
individuali, salvo nel caso in cui sia considerata vantaggiosa una sistemazione in comune con
altri detenuti, etc.); l’igiene personale (i detenuti devono essere obbligati a mantenere pulite le
loro persone e, per questo fine, essi devono disporre di acqua e degli articoli di toilette
necessari per loro igiene e pulizia, etc.); il vestiario e gli effetti letterecci (i detenuti che non
sono autorizzati a portare indumenti propri devono ricevere un vestiario adatto al clima e tale
da mantenerli in buona salute. Tale vestiario non deve essere in alcuna maniera degradante o
umiliante, etc.); l’alimentazione (l’acqua potabile deve essere disponibile per ogni detenuto,
etc.); i servizi sanitari (ogni istituto penitenziario deve disporre almeno dell’opera del medico
generico, etc.); la disciplina e le punizioni, fino al trasferimento dei detenuti. Per completezza,
preme ricordare che la R(87)3 non si limita solo a regolare la “gestione del sistema
penitenziario”, ma bensì, tratta, nella Terza e nella Quarta Parte, anche del “Personale” e degli
“Obbiettivi del trattamento e regime” (lavoro, istruzione, educazione fisica, sport, attività
ricreative e preparazione alla dimissione). L’attuale versione delle regole penitenziarie
europee, come già segnalato, è rappresentata dalla R(2006)2, che ha riveduto e aggiornato le
precedenti Regole Penitenziarie del 1987; la Raccomandazione del 2006 detta altrettante
regole inderogabili per il trattamento dei detenuti negli istituti penitenziari. Nella prima parte:
raccomanda il rispetto della dignità umana, il divieto di discriminazione, e l’uguaglianza nel
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trattamento dei detenuti; inoltre, affida agli ispettori del CPT il potere di visitare gli istituti di
pena europei, senza preavviso o autorizzazione. La seconda parte della R(2006)2 riguarda
l’organizzazione penitenziaria: igiene, assistenza sanitaria, finestroni in ogni cella per l’aria e
per la luce, adeguati spazi per i detenuti, adozione di celle individuali. La stessa
Raccomandazione obbliga gli Stati a garantire l’efficienza degli istituti di pena anche in
periodi di forte sovraffollamento (in merito a ciò si raccomanda agli Stati di non giustificare
l’inefficienza delle proprie carceri con la mancanza di risorse finanziarie, e si ricorda ai paesi
il loro dovere di garantire, comunque, i basilari diritti dei propri detenuti, anche in periodi di
grave crisi). Notevole attenzione è rivolta allo svolgimento di attività lavorative, ricreative, e
formative da parte dei detenuti. La R(2006)2 richiede, infine, ai vari paesi di dividere i
detenuti per età e soprattutto per posizione giuridica al fine di evitare promiscuità che possano
pregiudicare il godimento delle libertà personali e della privacy (regola già prevista nel 1987).
La R(84)12 si occupa, invece, della “detenzione degli stranieri”, questi si trovano a vivere in
una condizione molto più drammatica e complessa di quella in cui si trovano i detenuti
nazionali; la ragione risiede nel fatto che gli stranieri provengono da paesi diversi, hanno
religioni diverse, lingue diverse e potrebbero, per questa serie di motivazioni, avere dei
problemi di socializzazione con gli altri detenuti. Di fronte a questa serie di criticità, la
R(84)12 cerca di dare delle risposte, ad esempio: attraverso l’imposizione di attività
lavorative, educative, formative (insegnamento della lingua e interazione con gli altri detenuti
della stessa nazionalità) e corsi culturali, che potrebbero inserire lo straniero nella vita del
carcere, allontanandolo così dal pericolo dell’isolamento.
La R(99)22 riguarda il sovraffollamento carcerario di molti Stati europei, tra cui anche
l’Italia. Nella raccomandazione si insiste sull’importanza delle misure alternative alla pena
detentiva (detenzione domiciliare oppure libertà condizionata); inoltre, si invitano gli Stati a
portare avanti riforme dirette alla depenalizzazione di certi tipi di reati. Si consiglia, per
diminuire la popolazione carceraria, la progettazione e la costruzione di nuovi, e più capienti
istituti penitenziari, oppure, nei casi di emergenza, di riconoscere l’indulto o l’amnistia.
L’altra fonte internazionale in materia di organizzazione carceraria riguarda l’attività di
investigazione del CPT (Comitato per la prevenzione della tortura in seno al Consiglio
d’Europa) che si conclude con i vari rapporti, poi pubblicati dagli Stati, sulla situazione dei
diritti umani nelle carceri. Il rapporto CPT/Inf(92)3, del dicembre 1992, per la prima volta
indica le misure minime delle celle; queste dovrebbero essere di 7 mq (celle individuali) con
almeno 2 metri di distanza tra le pareti e 2 metri e mezzo di altezza. Nel 2010, il Consiglio dei
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Diritti Umani dell’ONU ha sottoposto l’Italia alla Universal Periodic Review, al termine della
quale sono state rivolte al governo italiano 92 raccomandazioni.
In particolare, sono due le raccomandazioni che riguardano il problema delle carceri italiane:
la raccomandazione n. 45, ad esempio, denuncia il problema del sovraffollamento carcerario
italiano; con la raccomandazione n. 46, invece, si è richiamata l’Italia sull’adozione di misure
alternative alla carcerazione, ivi compresa la possibilità ai cittadini stranieri di espiare la pena
nei paesi di provenienza. L’art. 3 della CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), come già detto precedentemente, sancisce il
divieto assoluto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti verso ogni essere umano; nel
caso di violazioni di questa norma di jus cogens (norma che ha forza di legge tra gli Stati ed è
inderogabile), oltre al ruolo non giudiziario del CPT (Comitato per la prevenzione della
tortura del Consiglio d’Europa), emerge quello giudiziario della Corte Europea dei diritti
dell’Uomo con sede a Strasburgo (istituita in seno alla CEDU nel 1959). L’Italia è stata più
volte condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per violazione dell’art. 3 CEDU.
Ci sono alcuni casi particolarmente interessanti che mostrano gravi violazioni del nostro paese
alle regole europee appena descritte. Nel 2008, l’Italia è stata condannata al pagamento, in
favore di un cittadino italiano detenuto, di una somma pari a 5.000 euro a titolo di
risarcimento del danno per violazione dell’art. 3 CEDU. La vicenda giudiziaria è la seguente:
il richiedente era stato condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise d’Appello di Roma nel
gennaio 2002; esso sosteneva di aver subito, durante la sua permanenza in carcere, trattamenti
inumani, vietati ai sensi dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti umani. Il qui
presente caso, Scoppola c/Italia, rappresentata un importante precedente perché sancisce
l’incompatibilità di un certo stato di salute fisica con la condizione detentiva. Scoppola al
momento della condanna aveva 67 anni e versava in uno stato di salute fisica precaria,
peggiorata a seguito della frattura del femore nel 2006. Il Tribunale di Sorveglianza
competente aveva già emesso nel 2006 un ordinanza con la quale imponeva una misura
alternativa alla detenzione; pochi mesi dopo, la stessa ordinanza, veniva revocata per
mancanza di un domicilio adatto alle condizioni del richiedente. Fu, infine, deciso il
trasferimento del richiedente presso il penitenziario di Parma dove venne segnalato un
peggioramento del suo stato fisico e mentale a causa dell’allontanamento familiare.
Considerati questi fatti, la Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU,
chiarendo che si è trattato di “pena inumana”; nella sentenza si legge infatti: “Trattandosi, in
particolare, di persone private della libertà, l’articolo 3 impone allo Stato l’obbligo positivo
di assicurarsi che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della
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dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad
un logorio o ad una afflizione di tali intensità da eccedere il livello inevitabile di sofferenza
inerente alla detenzione […]. Le condizioni di vita carceraria di una persona malata devono
garantire la protezione della salute con riguardo alle contingenze ordinarie e ragionevoli
della detenzione […]. Nell’implementare i principi suindicati la Corte ha già altre volte
concluso che mantenere in detenzione per un periodo prolungato una persona di età
avanzata, e per giunta, malata può ricadere nel quadro di quanto previsto all’art. 3” 16
.
L’altro caso riguarda un cittadino bosniaco, Izet Sulejmanovic, condannato a un anno e 9 mesi
di reclusione per furto, ricettazione e falso. La vicenda processuale è la seguente:
Sulejmanovic detenuto presso l’istituto di Roma-Rebibbia, denunciava il grave stato di
sovraffollamento della sua cella, di 16 mq, circa, che lo stesso doveva dividere con altri
cinque detenuti. La Corte, con la sentenza del 16 luglio 2009, ha condannato l’Italia a versare
la somma di 1.000 euro a titolo di risarcimento del danno morale per violazione dell’art. 3
CEDU. La Corte ha dichiarato che l’Italia non ha prestato la dovuta attenzione al problema
del sovraffollamento, oltre a non aver adottato nessuna misura che potesse compensare il
grave stato di sovraffollamento dell’istituto in questione. In merito alla dimensione della cella,
i giudici della Corte di Strasburgo, hanno ribadito che: “Lo Stato deve assicurarsi che le
condizioni detentive di ogni detenuto siano compatibili con il rispetto della dignità umana,
che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad un disagio o ad
una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e
che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto
siano adeguatamente assicurate” 17
.
L’ultima questione che si vuol proporre in questa sede riguarda la sentenza della Corte
Europea dei diritti dell’Uomo, pronunciata l’8 gennaio 2013 – Causa Torreggiani e altri c.
Italia; questa pronuncia della Corte di Strasburgo costituisce, soprattutto in riferimento alle
precedenti, una sentenza pilota, emessa ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, che affronta,
di nuovo, il problema strutturale del malfunzionamento delle carceri italiane. La Corte
Europea di Strasburgo oltre a valutare la richiesta presentata dai ricorrenti nel caso specifico,
identifica i casi che sono da ricondursi a una medesima categoria e che sono quindi imputabili
a un mal funzionamento comune dello Stato citato in giudizio (in questo caso l’Italia). Il
meccanismo della sentenza pilota è una procedura che permette alla Corte, attraverso la
16
Caso Scoppola c/Italia, Strasburgo, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza del 10 giugno 2008, ricorso
n. 50550/06. 17
Caso Sulejmanovic c/Italia, Strasburgo, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza del 16 luglio 2009,
ricorso n. 22635/03.
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trattazione del singolo ricorso, di identificare un problema strutturale, rilevabile in casi simili,
e individuare pertanto una violazione ricorrente dello Stato contraente. In una sentenza pilota,
infatti, il ruolo della Corte Europea è non solo quello di pronunciarsi sulla violazione della
Convenzione nel caso specifico, bensì anche quello di identificare il problema sistematico e
dare precise indicazioni al legislatore nazionale sui rimedi necessari nel rispetto del principio
di sussidiarietà.
Di conseguenza, il rimedio adottato dallo Stato contraente o comunque il pacchetto di misure
deve essere effettivo cioè tale da poter, in conformità con la Convenzione, adeguatamente
risolvere il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari.
Il ricorso Torreggiani e altri 18
, depositato a Strasburgo nel 2009, è stato presentato da sette
ricorrenti contro lo Stato italiano per violazione dell’art. 3 della CEDU; i ricorrenti si
trovavano a scontare le rispettive pene presso gli istituti di detenzione di Busto Arsizio e
Piacenza. Dal ricorso è emerso un problema di sovraffollamento e mancanza di spazi, in
quanto ogni cella era occupata da tre detenuti e ognuno di loro aveva meno di tre metri
quadrati di spazio vitale. La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha considerato che non solo
lo spazio vitale indicato non sia conforme alle previsioni minime individuate dalla propria
giurisprudenza, ma inoltre che tale situazione detentiva sia stata aggravata dalle generali
condizioni di mancanza di acqua calda per lunghi periodi, mancanza di ventilazione e luce.
Tali condizioni, considerate nel loro insieme, costituiscono una violazione degli “standard
minimi” di vivibilità determinando una situazione di vita degradante per i detenuti. La
compensazione pecuniaria per i danni morali subiti in violazione dell’articolo 3 della
Convenzione è stato quantificata dalla Corte in una somma di circa 100.000 euro per tutti i
ricorrenti. Questa vicenda ha di nuovo sottolineato il serio problema di compatibilità con l’art.
3 della Convenzione, che si manifesta anche in relazione ad altri ricorsi relativi alle condizioni
detentive di altre carceri italiane. La Corte, in costanza di tali ripetute inadempienze, ha
invitato l’Italia a risolvere entro un anno dall’emissione della sentenza Torreggiani la
questione del sovraffollamento carcerario.
18
Caso Torreggiani e altri c/Italia, Strasburgo, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza dell’8 gennaio
2013, Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10.
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4. La condizione degli istituti penitenziari italiani.
Il DAP 19
– Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria italiana – (dati ufficiali del 29
febbraio 2012) ha dichiarato che il problema del sovraffollamento delle carceri italiane ha
raggiunto criticità difficilmente risolvibili. In Italia, dati ufficiali del febbraio 2012, ci sono
206 istituti penitenziari che ospitano 66.832 detenuti, mentre la capienza regolamentare è di
soli 45.742 posti.
La regione con più detenuti è la Lombardia (9.388 detenuti a fronte di 5.384 posti
regolamentari), cui segue la Campania (8.034 detenuti, con capienza prevista di 5.793 posti).
Il sovraffollamento carcerario non è un problema solo in Italia, negli ultimi anni, infatti,
l’incremento costante della popolazione carceraria ha colpito quasi tutti gli Stati europei con
percentuali drammatiche: Finlandia + 101,2%; UK: Scozia 106,8%; Francia 114,9%; Belgio
128,4%; Cipro 158,5 (dati del Council of Europe Annual Penal Statistics, Space I, Survey
2009).
Il nostro paese, nel 2008, contava una percentuale di occupazione del 129.9%, nel 2009 del
148%, seguita solo dalla Serbia e da Cipro. Altri Stati come la Germania, la Francia e il
Regno Unito, hanno registrato, tra il 2008 e 2009, un’inversione di tendenza di segno
positivo, cosa che purtroppo non è avvenuta in Italia.
Nel 2011, la Corte Suprema degli USA e la Corte Costituzionale tedesca hanno emesso due
sentenze molto interessanti atte a risolvere o almeno migliore il problema del
sovraffollamento carcerario. Il principio che emerge da queste nuovissime pronunce riguarda
la preminenza della dignità umana dei detenuti sulla pena detentiva; in altre parole, se gli Stati
non sono in grado di garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei condannati (per problemi
di sovraffollamento, mancanza di spazi o carenza di risorse economiche) hanno il dovere di
scarcerarli ed inserirli in “liste di attesa penitenziaria” 20
.
La Germania, solo per i reati minori, ha introdotto le c.d. “liste di attesa penitenziaria” dove
sono registrati i nomi dei condannati in libertà; lo scopo di questo nuovo istituto è quello di
limitare l’incremento della popolazione carceraria. In altre parole, i condannati rimangono
fuori, in libertà, fino a quando non si liberino posti a sufficienza per poterli ospitare nei vari
istituti di pena; con questo sistema, oltre a limitare il sovraffollamento, si garantiscono i diritti
fondamentali dei condannati non più costretti a vivere in celle sovraffollate.
19
Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei
diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, pp. 40-44. 20
Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei
diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p. 9.
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Il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani, che ha portato il governo a
dichiarare lo stato di emergenza nazionale nel 2010 e a varare il c.d. “piano carceri”, non
risiede solo nella mancanza di spazi, ma anche in tutta una serie di problematiche ulteriori.
Tra queste criticità emergono chiaramente: il problema dell’elevato “turnover” 21
dei detenuti,
che ogni anno porta 90.000 persone provenienti dalla libertà in carcere dove vi restano per
brevi periodi; il progressivo aumento dei detenuti stranieri, che superano il 30% della
popolazione totale; la carenza di organico in ambito penitenziario, che presenta (dati del
2012) una carenza nell’amministrazione penitenziaria di circa 6.000 unità; la forte carenza di
magistrati di sorveglianza, con uno scoperto del 15% circa.
Ad aggravare la situazione del sistema carcerario italiano hanno anche contribuito diverse
leggi di recente emanazione, tra cui: la legge n. 49/2006 sulle droghe; la legge
sull’immigrazione (modifiche al testo unico sull’immigrazione D.lgs. 286/98); l’introduzione
del reato di clandestinità (introdotto con la legge n. 94/2009) e la Legge ex Cirielli del 2005.
La questione del sovraffollamento carcerario non è solo un problema di spazi (celle minuscole
che ospitano più persone, in certi casi sprovviste di bagni o finestre per la luce e l’aria fresca),
ma è profondamente legato allo stile di vita che si conduce in carcere. La Costituzione
italiana, all’art. 27, comma III°, statuisce che: “Le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; dal dettato
della norma si desume, senza ombra di dubbio, che il ruolo sociale della pena debba tendere
alla “rieducazione” e “riabilitazione” del condannato e non, invece, alla sua “morte sociale”.
Il lavoro costituisce lo strumento principale del trattamento rieducativo del detenuto, grazie al
lavoro il condannato ha la possibilità di tenersi occupato, scongiurando il pericolo di rimanere
isolato. Il detenuto, grazie al lavoro, ha maggiori possibilità di reinserimento sociale, una
volta espiata la pena, allontanandosi per sempre dal circuito criminale. Particolarmente
interessante, sul piano del lavoro penitenziario, è l’iniziativa posta in essere dalla Regione
Sicilia che, in virtù della legge ragionale n. 16 del 1999, consente ai detenuti in espiazione di
pena, di ottenere un finanziamento pari a 25.000 euro, non in denaro ma in materie prime, per
l’avvio di una attività imprenditoriale autonoma. In diversi anni dall’approvazione di questa
legge, sono stati più di 100 i reclusi che hanno usufruito dei benefici di questa legge; le
21
Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei
diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p. 46.
www.federalismi.it 23
attività più diffuse sono state quelle di falegnameria, produzioni alimentari e lavori di sartoria
22.
Le carceri, in teoria, dovrebbero essere luoghi di espiazione della pena in sicurezza, ai
detenuti dovrebbero essere garantiti i diritti fondamentali, tra cui anche l’assistenza
psicologica e morale; l’aiuto di psicologi, psichiatri ed educatori riduce fortemente
l’autolesionismo, gli atti vandalici e il suicidio dei detenuti. Nelle carceri italiane, dati forniti
dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel 2010, si sono suicidati 55 detenuti, e
nel 2011, circa 63 (di cui 38 italiani e 25 di nazionalità estera). Dal 2000 al febbraio 2012,
sono stati 700 i detenuti che si sono uccisi e ammonta a 1.954 il totale dei morti in carcere. I
suicidi e l’autolesionismo sono il risultato dell’assenza di adeguati spazi, di aiuti psicologici o
psichiatrici e la difficoltà di partecipare ad attività lavorative o ricreative, che portano i
detenuti a gesti estremi 23
.
I momenti più critici si verificano nelle fasi di trasferimento di un detenuto da un istituto
all’altro o in seguito alla comunicazione della sentenza definitiva (Dati emersi nel corso di
una audizione del 12 ottobre 2012 con il capo del DAP fino al 2 febbraio 2012 – Commissario
Ionta – organizzata dalla Commissione Straordinaria del Senato per i diritti umani).
L’inviolabilità della persona, in questo specifico caso del detenuto, non deve far dimenticare
alcune vicende drammatiche quali la morte di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e di altri ancora,
morti in carcere o in ospedale dopo essere stati fermati dalle forza dell’ordine, in situazioni
poco chiare e in tutti i casi sotto la custodia dello Stato.
Quella di Giuseppe Uva è una storia dalle mille ombre che dopo 5 anni non si è ancora risolta.
I fatti sono dell’estate 2008 dopo un fermo da parte dei carabinieri di Varese per schiamazzi
notturni. La notte del fermo, Uva è stato trattenuto in Caserma per diverse ore insieme a un
amico (che testimonierà di aver udito per tutta la notte le urla di dolore e di supplica di Uva,
trattenuto dai militari in un’altra stanza della Caserma). Verso le 08.30 i militari richiedono un
ricovero urgente (Tso) nell’interesse del paziente, ritenuto incontrollabile e violento.
Trasportato all’ospedale Uva morirà alle 10.30 per arresto cardiaco (secondo la difesa della
parte civile la morte sarebbe stata determinata dalla somministrazione di medicinali
sconsigliati nel caso di assunzione di alcol). Dopo diversi anni dall’accaduto le indagini non
sembrano aver fatto luce sulla vicenda.
22
Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei
diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p. 58. 23
Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei
diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p. 60.
www.federalismi.it 24
Una prima inchiesta per omicidio colposo ha visto imputati due medici, che hanno avuto in
cura Giuseppe Uva all’ospedale di Varese: il primo impiegato presso il pronto soccorso
(avrebbe somministrato a Uva farmaci con effetto sedativo) e il secondo presso il reparto di
psichiatria (avrebbe somministrato altri farmaci dello stesso genere). Nell’udienza preliminare
il giudice ha deciso per il non luogo a procedere nei confronti del medico del pronto soccorso
ritenendo che la somministrazione dei farmaci non sarebbe stata la causa del decesso di Uva.
Non è di certo questa le sede per giudicare le decisioni dei magistrati (sia nella fase delle
indagini, sia in quella dibattimentale), e non è altrettanto questo il luogo dove si farà giustizia,
ma riportare le parole di chi ha visto con i propri occhi il corpo senz’anime di Giuseppe Uva è
un dovere, soprattutto nei confronti di chi come lui ha dovuto subire violenze e abusi da parte
di chi, almeno in teoria, avrebbe dovuto garantirne la sicurezza e l’inviolabilità.
Dal racconto di Luisa Uva (sorella di Giuseppe Uva) giunta quel giorno all’ospedale: “E mi
sono messa a guardare mio fratello. Sulla mano aveva un livido enorme. Prendo la macchina
fotografica e inizio a scattare. Su tutto il fianco era blu, sono sicura che non erano i segni
dell’ipostasi, io ne ho visti di morti, ho visto mio zio, mia zia e quei segni erano lividi. Poi
vedo il pannolone. E mi chiedo: perché aveva il pannolone? Mia sorella prende il sacchetto
in cui c’erano i pantaloni e li guardiamo. Erano pieni di sangue sul cavallo. Metto via i
pantaloni e guardo le scarpe da ginnastica che gli avevo comprato io dieci giorni prima e che
adesso erano tutte consumate. Gli slip non c’erano. Gli ho tolto il pannolone e ho visto il
sangue” 24
[…].
Qui di seguito si riporta un breve frammento di quanto scritto dal giudice a proposito della
consulenza tossicologica disposta dall’accusa: “La sussistenza dell’errore (nella
somministrazione di quei farmaci a chi ha abusato di alcool) non emerge in termini di
certezza […], la professoressa Vignali si esprime nel senso di impiego “sconsigliato” dei
quattro farmaci somministrati alla vittima, in concomitanza con l’uso di alcool etilico, senza
tuttavia affermare la sussistenza di un vero e proprio errore professionale nel concreto” 25
.
In conclusione, in questa vicenda, cosa sia realmente accaduto a Giuseppe Uva quella notte in
caserma non è ancora stato chiarito, e forse la verità di quella notte rimarrà per sempre sepolta
tra ombre, omissioni e anomalie. Dalla descrizione fatta dagli agenti di polizia sul
comportamento di Uva (soprattutto in riferimento alle numerose ferite riscontrate sul suo
corpo) emergono incertezze e contraddizioni. Un agente di polizia riferisce di violente testate
di Uva contro l’armadio; altri poliziotti parlano di testate sul pavimento e di calci sferrati
24
L. Manconi e V. Calderone, Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011, pp. 162-163. 25
L. Manconi e V. Calderone, Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011, p. 164.
www.federalismi.it 25
contro i mobili. A seguito dei calci i carabinieri mettono a verbale che Uva si è procurato
delle “lievi lesioni ed escoriazioni agli arti inferiori” (cosa difficile da dimostrare dato che
nessuno degli agenti racconta di aver visto nudo, oppure senza pantaloni Giuseppe Uva).
Anche al momento dell’ingresso in pronto soccorso ci sono delle anomalie. Le lesioni sul
corpo di Uva non vengono riportate in cartella clinica, né sono state fatte le necessarie
radiografie.
L’altra vicenda riguarda la morte di Stefano Cucchi. I pm hanno rinviato a giudizio tredici
persone tra medici, agenti di polizia penitenziaria e un funzionario dell’amministrazione
penitenziaria. Per i medici i reati vanno dal falso ideologico, all’abuso d’ufficio,
dall’abbandono di persona incapace, al rifiuto in atti d’ufficio fino al favoreggiamento
all’omissione di referto.
Dal libro “Quando hanno aperto la cella”: “Quel corpo, incredibilmente e disperatamente
magro, prosciugato. La maschera di ematomi sul viso, dalle palpebre fino agli zigomi. Un
occhio aperto, quasi fuori dall’orbita, uno completamente chiuso. Le strisce sulla schiena, le
lesioni. Il livido nero sul coccige. Segni di bruciature sulla testa e sulle mani” 26
.
L’Odissea di Stefano Cucchi inizia la notte del 15 ottobre 2009 quando viene fermato dai
carabinieri che lo trovano in possesso di alcuni grammi di hashish (dai verbali delle forze
dell’ordine sembrerebbero una ventina); in seguito all’arresto, Cucchi viene trasportato in due
diverse caserme dove rimarrà, rinchiuso in una cella, per tutta la notte. Il giorno successivo le
forze dell’ordine lo trasporteranno in tribunale per l’udienza del processo direttissimo. Il
giudice, dopo il rinvio della causa, deciderà per la misura cautelare della custodia in carcere.
In carcere Stefano Cucchi deciderà di iniziare uno sciopero della fame come segno di protesta,
denunciando di aver subito violenze da parte dei carabinieri la notte dell’arresto, ma nessuno
lo ascolterà, nemmeno quei dottori e quegli agenti che lo avevano in custodia e che avrebbero
dovuto indagare. Uno degli elementi più importanti della vicenda attiene alle innumerevoli
volte in cui lo stesso Cucchi avrebbe richiesto l’assistenza del proprio legale di fiducia, che
nessuno però aveva avuto la premura di avvisare. Nei giorni successivi alla detenzione Cucchi
verrà trasferito in ospedale dove le sue condizioni peggioreranno vertiginosamente, il
giovane, debilitato dallo sciopero della fame, perderà circa 15 kg. I giorni dopo il ricovero
saranno un vero e proprio calvario per Cucchi e per la sua famiglia, il ragazzo verrà spostato
più volte dal carcere all’ospedale, fino a morire in condizioni poco chiare (sul certificato di
26
L. Manconi e V. Calderone, Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011, p. 17.
www.federalismi.it 26
morte, del 22 ottobre, si legge: “Si certifica che il signor Stefano Cucchi è deceduto per
presunta morte naturale in data odierna alle ore 6.45”). Il giudice dell’udienza preliminare
scrive: “le condizioni fisiche di Stefano erano palpabili (dalle diagnosi risulta, infatti: “una
frattura del corpo vertebrale L3 dell’imosoma sinistra e una frattura della vertebra coccigea”)
e visibili a ciascuno, erano ben note nel contesto della polizia penitenziaria per la pluralità di
soggetti che l’avevano visto ed accompagnato. Non c’era spazio a dubbi di sorta in ordine al
fatto che Stefano fosse stato picchiato” 27
.
In questo quadro, la responsabilità appare nitida e chiara. Stefano Cucchi ha prima subito
violenze (presumibilmente in caserma) e poi è stato letteralmente abbandonato a se stesso
(durante i giorni di ricovero in ospedale nessuno si è accorto delle sue reali condizioni di
salute).
Le vicende occorse a Uva e a Cucchi, note al grande pubblico per la risonanza mediatica che
hanno scatenato, rimandano a un concetto teorico rilevante. Tutti sanno che tra i primi doveri
attribuiti allo Stato c’è da sempre quello di garantire l’inviolabilità fisica e morale delle
persone (sudditi prima, cittadini poi). Sin dal 1215, con la Magna Charta, lo Stato si è
impegnato a “non mettere le mani” sul corpo delle persone; a non limitare cioè la libertà
personale, garantendo l’immunità da arresti arbitrari.
Grazie al principio dell’habeas corpus si è quindi avviato un processo volto a sancire, in capo
ai governanti, più ampi doveri di astensione e garanzie di intangibilità delle libertà
individuali, soprattutto nei confronti di coloro che erano sottoposti a detenzione. Da questo,
notevolissimo, valore ne è disceso un altro, altrettanto fondamentale, che è quello
dell’affermazione del diritto universale all’inumanità della tortura e dei trattamenti inumani o
degradanti.
Come già ricordato, l’Italia non ha ancora previsto nel codice penale il reato di tortura; di
fatto, questa scelta, impedisce di perseguire e punire i responsabili di atti gravissimi come
quelli che hanno avuto come protagonisti non volontari Stefano Cucchi e Giuseppe Uva.
Un caso analogo a quelli appena citati riguarda i fatti di Asti. Il 30 gennaio 2012, il Tribunale
di Asti ha assolto: perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, cinque agenti della
polizia penitenziaria per le violenze subite da due detenuti nel carcere di quella città. La
sentenza si riferisce a episodi di tortura sistematicamente esercitata nei confronti dei due
detenuti da parte degli agenti. I giudici raccontano di “violenze fisiche sistematiche”,
27
L. Manconi e V. Calderone, Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011, p. 215.
www.federalismi.it 27
“privazione del sonno”, “del cibo”, “dell’acqua e dei servizi”, e l’uso del tutto disumano delle
celle “lisce” (cioè prive di materassi, di vetri e di caloriferi nei mesi invernali). Nel caso di
specie risulterebbe inequivocabile per i giudici, che i cinque agenti siano stati autori in
maniera “scientifica e sistematica” di atti di tortura contro i due detenuti. In questa vicenda
quello che provoca sdegno e rabbia è il fatto che gli agenti sono stati imputati per i reati di
abuso di autorità e lesioni, quando invece gli episodi ricostruiti si attaglino perfettamente alla
definizione di tortura data dalla Convenzione Onu del 1984.
Tra le novità più importanti che il nostro paese ha proposto per migliorare la “situazione
carceri” c’è l’istituzione della figura del “Garante dei diritti dei detenuti” a livello comunale,
provinciale e regionale. Questo istituto nacque in Svezia nel 1809 con il compito principale di
sorvegliare l’applicazione delle leggi e dei regolamenti da parte dei giudici e degli ufficiali.
La figura del Garante dei diritti consiste nel ricevere segnalazioni sul mancato rispetto della
normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati.
Altresì, i Garanti hanno il potere di rivolgersi all’autorità competente per chiedere chiarimenti
o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. I Garanti, inoltre, possono
effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti di pena senza autorizzazione,
secondo quanto disposto dagli artt. 18 e 67 dell’ordinamento penitenziario (novellati dalla
legge n. 14/2009). Attualmente, i garanti regionali sono presenti in Campania, Emilia
Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana e Umbria; vi sono inoltre 6
garanti provinciali e 21 comunali.
Nel 2008 è stata istituita la Conferenza Nazionale dei Garanti regionali istituti per legge, la
Conferenza ha la funzione di pianificare iniziative volte alla tutela dei diritti dei detenuti e al
loro reinserimento sociale.
Quest’ultima parte concernente il binomio “diritti umani-carceri”, non può concludersi
omettendo o tacendo delle altre “importantissime” criticità del sistema penitenziario italiano,
quali maggiormente: il problema dei bambini e delle detenute madri, il problema dei
transessuali e degli omosessuali in carcere e la questione dei detenuti italiani all’estero.
A livello nazionale, come emerso da varie audizioni fatte dalla Commissione straordinaria del
Senato per i diritti umani, erano presenti al 30 giugno 2011, ben 53 madri con 54 bambini.
Secondo la legislazione italiana, infatti, i bambini, che non abbiano altri parenti a cui essere
affidati, vivono in carcere con le proprie madri fino al compimento dei tre anni. Negli ultimi
anni le cose sono migliorate, soprattutto a seguito della legge Finocchiario del 2001 e della
legge 21 aprile 2011, n. 62 (legge sulle detenute madri); in particolare, la legge del 2011, ha
allungato a sei anni il limiti di età dei figli sotto il quale è possibile la custodia fuori dal
www.federalismi.it 28
carcere (già prevista dalla legge Finocchiaro: con la quale le madri potevano espiare la pena
presso la propria abitazione o altro luogo di privata dimora) con l’obbiettivo di evitare ai
bambini il duplice trauma dell’allontanamento dalla madre e della vita in un ambiente poco
adatto alla loro crescita.
Un formidabile esempio, nel rapporto bambini e detenute madri, è stato quello attuato dalla
Associazione romana “A Roma, insieme – Leda Colombini” fondata nel 1991 da Leda
Colombini. L’associazione, nei vent’anni di attività nel carcere di Roma Rebibbia, ha ottenuto
che i bambini escano di giorno per frequentare asili esterni e che il sabato svolgano attività di
ricreazione in città, ospiti di famiglie di volontari 28
.
In Italia, rappresenta una novità assoluta la progettazione degli ICAM (Istituti di custodia
attenuata per madri detenute), da costruire entro il 2014, dove madri e bambini (qualora sia
disposta la custodia per esigenze cautelari di massima rilevanza) dovrebbero vivere in un
ambiente più familiare.
Gli ICAM, per ora ne è stato realizzato solo uno a Milano, sono stati progettati per superare il
diverso istituto delle c.d. “Case famiglia protette”, istituti di custodia per esigenze cautelari di
massima rilevanza (attualmente ve ne sono pochissime in funzione) istituiti con la legge n. 62
del 21 aprile 2011.
La ratio ispiratrice della nuova normativa carceraria è quella di garantire una nuova tutela
assicurando una crescita armoniosa e senza traumi per figli minori conviventi di donne
indagate, imputate o condannate: gli istituti penitenziari a custodia attenuata di detenute madri
(ICAM) hanno caratteristiche strutturali diverse rispetto a quelli classici (Case famiglia
protette) e sono modellati piuttosto sulle caratteristiche di una casa di civile abitazione. Negli
obbiettivi principali del Governo c’è quello di attuare, grazie agli ICAM, un regime
penitenziario di tipo familiaristico comunitario incentrato sulla responsabilizzazione del ruolo
genitoriale. Alla data attuale, l’unica esperienza di questo genere è quella milanese, che
rappresenta un unicum nel nostro paese. L’ICAM si trova al centro di Milano in un edificio di
proprietà dell’amministrazione provinciale.
All’interno dell’Istituto milanese lavorano un ispettore di polizia penitenziaria e responsabile
dell’ICAM, cinque agenti, tutti rigorosamente in borghese, e dei medici che assicurano
assistenza tutti i giorni, 24 ore su 24, uno psicologo, una volta alla settimana, e un pediatra.
Prima dell’esperienza milanese tutto ciò non era nemmeno lontanamente immaginabile; i
28
Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei
diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, pp. 76-78.
www.federalismi.it 29
bambini (stiamo parlando di bambini più piccoli di 3 anni) detenuti insieme alle madri, erano
obbligati a vivere all’interno di carceri, in uno stato di totale degrado e terrore, tra sbarre,
porte metalliche, agenti di polizia penitenziaria e altre detenute (in molti casi in crisi di
astinenza da sostanze stupefacenti). All’interno, la struttura assomiglia più a un’abitazione
che a un carcere, l’unica porta che rimane chiusa è quella principale; non esistono inferiate
sulle finestre oppure porte metalliche che dividono gli ambienti. La “casa milanese” dispone
di stanze per il gioco dei bambini, stanze per i colloqui, una grande cucina dove le donne
incontrano i familiari la domenica, e una sala studio, dove le detenute imparano a leggere e a
scrivere oppure studiano per conseguire un titolo di studio con l’aiuto di tre insegnanti. Infine,
per i bimbi, la dieta è stabilita dal pediatra e i più grandi hanno il diritto di poter andare
all’asilo all’esterno; la ragione di queste decisioni risiede nel fatto di voler tenere per più
breve tempo possibile i bambini rinchiusi nella struttura, anche se la stessa di per se è già
molto accogliente 29
.
Per quello che riguarda, invece, la situazione degli omosessuali e transessuali in carcere, il
DAP (Dipartimento della amministrazione penitenziaria), con dati ufficiali del settembre
2011, ha dichiarato che sono 104 le persone tra omosessuali dichiarati e transessuali accolti
nei vari istituti di pena del Paese. Lo stesso dipartimento, più alcuni volontari, hanno rilevato
che le criticità maggiori riguardano l’assenza di “reparti dedicati” all’interno degli istituti di
pena, con la conseguenza che molte transessuali sono inserite nelle sezioni maschili, non
essendo riconosciuto loro lo status di donna.
Dalle audizioni con i volontari e il personale carcerario emerge che se un omosessuale nel
momento in cui entra in carcere si dichiara tale, viene messo in isolamento o insieme alle
persone transessuali 30
. Allo stesso modo un transessuale può essere assegnata al reparto
maschile, non a quello femminile. In queste condizioni non sono infrequenti episodi di
violenza, cui l’unico rimedio è l’isolamento. Per meglio capire il fenomeno, si può vedere
come è organizzato un istituto di pena italiano nell’accoglienza delle persone transessuali e
omosessuali: l’istituto di Rebibbia dispone di un reparto dedicato, il G8, e ospita quindici
persone (al settembre 2011), di cui una è omosessuale dichiarato, le altre transessuali. A
Rebibbia, i detenuti transessuali provengono soprattutto da paesi del Sud America, come la
29
www.ristretti.org, lettera del 14 febbraio 2011. 30
Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei
diritti umani negli istituti penitenziari italiani e nei centri di accoglienza per migranti, Roma 2012, p.79.
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Colombia, l’Argentina, il Perù e il Brasile. I reati compiuti da questi detenuti sono soprattutto
legati alla tossicodipendenza e allo sfruttamento della prostituzione.
I problemi dei carcerati transessuali e omosessuali non riguardano solo l’assenza di reparti
dedicati all’interno delle carceri, ma anche i rapporti con il personale della polizia
penitenziaria; secondo la Commissione straordinaria del Senato per i diritti umani, che ha
approvato nel marzo 2012 il rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti di pena italiani,
occorrerebbero dei corsi di formazione specifica per sensibilizzare gli operatori su questo
tema.
Infine, in relazione ai detenuti italiani all’estero, il Ministero degli affari esteri ha dichiarato
che, al 2011, erano 2.905 gli italiani carcerati all’estero e lo Stato, attraverso strutture
diplomatiche, non è sempre in grado i fornire loro un’assistenza adeguata. I problemi
maggiori riguardano le persone detenute in Paesi esteri, maggiormente del Terzo Mondo,
dove non vengono riconosciuti ai detenuti i diritti fondamentali. Ai fini dell’argomento, giova
ricordare il recente “Pacchetto Severino” che ha apportato diverse novità al sistema penale e
penitenziario del nostro paese.
Le misure introdotte dalla legge n. 9 del 17 febbraio 2011, sono mirate principalmente a
ridurre il problema del sovraffollamento. Più in precisione, il provvedimento ha introdotto due
modifiche nell’art. 558 del codice di procedura penale. Con la prima, si prevede che, nei casi
di arresto in flagranza di reato, il giudizio direttissimo debba essere necessariamente tenuto
entro le 48 ore dall’arresto. Con la seconda modifica, viene introdotto il divieto di condurre in
carcere le persone arrestate, per reati di non particolare gravità, prima della loro presentazione
dinanzi al giudice per la convalida dell’arresto e il giudizio direttissimo (in tali casi,
l’arrestato dovrà essere custodito dalle forze di polizia).
La legge n. 9 del 2011, consentirà, inoltre, di applicare la detenzione presso il domicilio,
innalzando da 12 a 18 mesi la pena detentiva che può essere scontata presso il domicilio del
condannato anziché in carcere.
L’altro importante intervento normativo riguarda il Disegno di legge: “Delega al Governo in
materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, pene
detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli
irreperibili”. Con la depenalizzazione si prevede la trasformazione in illecito amministravo
dei reati puniti con la sola pena pecuniaria, con esclusione dei reati in materia edilizia,
ambiente, territorio e paesaggio, immigrazione, alimenti e bevande.
Il secondo punto è quello della sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili:
la delega prevede che la sospensione del dibattimento comporta una sospensione della
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prescrizione per un periodo pari a quello previsto per la prescrizione del reato. Questo periodo
dovrà servire a portare il processo a conoscenza dell’imputato.
Il terzo punto riguarda il procedimento con messa alla prova: è prevista in caso di reati non
particolarmente gravi (puniti con pene detentive non superiori a 4 anni). La sospensione con
messa alla prova è rimessa a una richiesta dell’imputato, da formularsi sino alla dichiarazione
di apertura del dibattimento di primo grado. La messa alla prova consiste in una serie di
prestazioni, tra le quali un’attività lavorativa di pubblica utilità, il cui esito positivo estingue il
reato.
L’ultimo punto è quello delle pene detentive non carcerarie: reclusione e arresto presso
l’abitazione o altro luogo di privata dimora (per le pene detentive non superiori a 4 anni); le
nuove pene saranno applicate dal giudice della cognizione.
Riassumendo sul punto “carceri italiane”, la situazione attuale è la seguente: la Corte di
Strasburgo ha invitato l’Italia a migliorare e a risolvere definitivamente il problema del
sovraffollamento carcerario (l’Italia ha un anno di tempo a partire dall’8 gennaio 2013); negli
ultimi giorni è stato approvato il “decreto sfolla carceri” con il quale nel giro di due anni
dovrebbero esserci 6000 detenuti in meno nelle celle, ma non in libertà (indulto o amnistia)
quanto ai domiciliari o in comunità terapeutiche, oppure nei casi davvero minimi, sottoposti a
programmi di lavori socialmente utili. Tra le novità più importanti del decreto, poi, ci sono
una serie di ritocchi che permettono di eliminare una serie di rigidità accumulatesi nel tempo
(per esempio: l’obbligo di carcerazione per i recidivi, o per reati tipo l’incendio boschivo, o
per i clandestini).
Concludendo sulla situazione italiana delle carceri, giova sicuramente ricordare l’ottimo
esempio (aimè, uno dei pochi casi presenti sul territorio italiano) di efficienza dimostrato
dall’Istituto penale minorile di Nisida, che è stato visitato dagli esperti della Commissione
straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato nell’estate del 2011.
5. L’istituto penale minorile di Nisida e la Commissione straordinaria per la tutela e la
promozione dei diritti umani del Senato
La Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, si è
recata nell’agosto 2011 presso l’istituto penale minorile di Nisida. Sull’isola, all’epoca, erano
ospitati 67 ragazzi (59 maschi e 9 femmine), 32 con condanne definitive, 35 in attesa di
giudizio. 27 i ragazzi che assumevano stupefacenti. Il personale in servizio contava su 66
agenti a fronte di una pianta organica di 76 unità; la caratteristica interessante è che il
personale non è in uniforme ma indossa abiti civili.
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Tra gli interventi più importanti che sono stati realizzati nell’istituto c’è sicuramente quello
che riguarda l’attivazione di due classi di scuola elementare, due di scuola media e un corso
sperimentale di scuola superiore per i ragazzi che non abbiano studiato.
I ragazzi, a Nisida, possono usufruire di diversi campi da calcio, basket e pallavolo oltre al
passatempo educativo della pet teraphy (l’istituto ospita alcuni animali, tra cui anche dei
conigli); inoltre, i ragazzi sono occupati giornalmente presso alcuni laboratori, tra cui:
laboratori di pasticceria, di falegnameria, di ceramica, dove possono imparare un mestiere e
meglio socializzare tra loro.
Diversamente da molti altri istituti di pena italiani (Roma Regina Coeli – agosto 2011 – 1145
persone recluse a fronte di 640 posti; Bologna Dozza – luglio 2011 – 1120 detenuti a fronte
dei 882 tollerabili; Palermo Ucciardone – marzo 2009 – 699 detenuti a fronte di una capienza
di 520 detenuti) dove il sovraffollamento e la mancanza di spazi ha determinato non pochi
problemi (autolesionismo, suicidi, tentati suicidi, vandalismo) a Nisida ogni cella è munita di
bagno e ampi finestroni, e ospita un numero limitato di ragazzi (ognuno con il proprio letto e
con il proprio armadietto). Molto diversa è la condizione dei detenuti negli altri istituti di pena
italiani, dove la vita quotidiana si svolge essenzialmente nelle celle, con letti a castello. In
esse si consumano i pasti, si guarda la televisione, si dorme, si legge e si scrive, poche sono le
ore d’aria (solo due o tre al giorno).
A Nisida, i ragazzi trascorrono gran parte del tempo all’aria aperta. Uno dei maggiori
problemi segnalati dalla Commissione consiste nell’offrire ai ragazzi un’alternativa una volta
lasciato l’istituto; negli ultimi anni si è cercato di porre rimedio attraverso una piccola rete di
cittadini imprenditori riuniti in associazione impegnati a offrire qualche opportunità e
attraverso borse di lavoro.
L’Istituto, inoltre, fa parte di un progetto europeo che studia e cerca di trovare soluzioni alle
forme di devianza minorile, sull’isola, infatti è presente il Centro europeo di studi (CEUS) e
l’Osservatorio sulla devianza minorile. Il minore che compie dei reati deve essere recuperato
prima di essere di immesso di nuovo nella società. A Nisida i ragazzi vengono coinvolti in
numerose attività tese a sviluppare la loro capacità creativa e far loro imparare un mestiere,
così una volta scontata la pena, possono tornare alla vita di tutti i giorni e avere meno
possibilità di commettere di nuovo dei reati 31
.
31
Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Rapporto sullo stato dei
diritti umani negli istituti penitenziari italiani, Roma 2012, p. 151.
www.federalismi.it 33
“Apprendere che nella battaglia della vita si può facilmente vincere l’odio con l’amore, la
menzogna con la verità, la violenza con l’abnegazione dovrebbe essere un elemento
fondamentale nell’educazione di un bambino” 32
.
FONTI BIBLIOGRAFICHE
CASSESE A., L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra,
Bologna 2011.
COSTA P., Cittadinanza, Bari, 2009.
FERRAJOLI L., La sovranità nel mondo moderno, Bari, 2004.
GILIBERTI G., Introduzione storica ai diritti umani, Torino, 2012.
LA TORRE M. & LALATTA COSTERBOSA M., Legalizzare la tortura?, Bologna, 2013.
MANCONI L. & CALDERONE V., Quando hanno aperto la cella, Milano, 2011.
COMMISSIONE STRAORDINARIA PER LA TUTELA E LA PROMOZIONE DEI
DIRITTI UMANI DEL SENATO DELLA REPUBBLICA, Rapporto sullo stato dei diritti
umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in
Italia, Roma 2012.
WWW.AMNESTY.IT, relazione del 3.3.2001.
WWW.RISTRETTI.ORG, lettera del 14 febbraio 2011.
32
Cit. Mahatma Gandhi.