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Capitolo II
Breve excursus: le immagini cristologiche medievali.
Il seguente progetto di ricerca cerca di
definire la figura del Cristo e dunque, il concetto
d’Incarnazione, negli scritti di Eckhart. Si vuole
indagare, pertanto, se sia possibile parlare di una
specifica cristologia eckhartiana. A tal fine non
sarà inutile soffermarci sulle diverse immagini di
Cristo sviluppate in alcune principali cristologie
medievali, attraverso le quali si è sviluppata una
visione non univoca della mediazione1 del Verbo
incarnato per la salvezza dell’uomo.
Il dibattito sull’identità della persona di
Cristo è stato sempre molto acceso. Il kerygma
apostolico di Gesù nazareno Signore e Messia, morto e
risorto per la salvezza dell’uomo, e dunque il suo
essere contemporaneamente vero Dio e vero uomo,
1 Per un maggior approfondimento del concetto di
mediazione nell’economia della salvezza operata da Cristo si
rimanda al seguente studio: M. BORDONI, L’universalità della salvezza in
Cristo e le mediazioni partecipate in Path, II, 2003, pp. 375-399.
2
verrà, infatti, solo dopo forti contrapposizioni,
definitivamente fissato dal IV concilio di Calcedonia
(451)2, con il dogma cristologico della doppia natura
umana e divina di Cristo nell’unità della sua
persona. Espressione di tale confronto è la crisi
cristologica del V secolo, che vede scontrarsi le
posizioni teologiche di Eutiche e Nestorio: se il
primo afferma, infatti, l’unicità della persona e
della natura di Cristo, cosicché la sua umanità sia
totalmente assorbita nella sua divinità; l’altro, di
contro, per salvaguardare l’umanità di Gesù rispetto
alla sua divinità, giunge a formulare in Cristo la
compresenza di due persone e due nature.
L’interpretazioni eutichiana e nestoriana sono
l’esasperazione del confronto tra le due scuole
teologiche di Alessandria e Antiochia. Se la Chiesa
di Alessandria sottolineava, infatti, l’unità quasi
2 Per una’analisi più dettagliata del Concilio di
Calcedonia e del dogma cristologico sulle due nature di Cristo
nella singolarità della sua persona si rimanda ai seguenti
studi: A. COZZI, Conoscere Gesù nella fede. Una Cristologia, Cittadella,
Assisi 2007; W. KASPER, Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia 2004; G.
O’COLLINS, Cristologia. Uno studio biblico, storico e sistematico su Gesù Cristo,
Queriniana, Brescia 1999; A. GRILLMEIER, Gesù il Cristo nella fede della
Chiesa. Dall’età apostolica al concilio di Calcedonia (451), I, Paideia, Brescia
1982; ID., Gesù il Cristo nella fede della Chiesa. La ricezione del concilio di
Calcedonia (451-518), II, Paideia, Brescia 1996;
3
indistinta delle due nature nell’atto in cui in Verbo
si fa carne e, dunque, tende a esaltare la divinità
di Cristo; la Chiesa di Antiochia, viceversa,
rimarcando la dimensione antropologia
dell’Incarnazione, tendeva a evidenziare l’umanità di
Gesù3.
Da tali differenti sensibilità teologiche si
originano due specifici linguaggi cristologici: il
primo, più caro alla Chiesa latina e più consapevole
della dualità naturale nella singolarità personale
del Cristo, è più attento a descrivere il suo aspetto
umano; il secondo, invece, caratteristico della
Chiesa greca, tende a esaltarne la dimensione
intratrinitaria. Così, se il cristianesimo greco4
sviluppa in particolar modo l’immagine divina del
Cristo, incarnatosi per deificare l’uomo, il
3 Cfr. B. SESBOÜÉ, Cristologia e Soteriologia. Efeso e Calcedonia (secoli IV
e V), in B. SESBOÜÉ - J. WOLINSKI, STORIA DEI DOGMI. IL DIO DELLA
SALVEZZA, I-VIII SECOLO. Dio, la Trinità, il Cristo, l’economia della salvezza, I,
Piemme, Asti 1996, pp. 336-337.4 Per uno studio più dettagliato della teologia greco -
bizantina e del tema dell’esaltazione della natura divina di
Cristo si rimanda ai seguenti lavori: P. BERNARDI, Il Logos teandrico.
La “cristologia asimmetrica” nella teologia bizantino - ortodossa, Città Nuova,
Roma 2013; V. LOSSKIJ, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, EDB,
Bologna 2000; P. EVDOKÏMOV, L’Ortodossia, EDB, Bologna 2010; J.
MEYENDORFF, Cristologia ortodossa, AVE, Roma 1974.
4
cristianesimo latino, a tale raffigurazione, affianca
l’immagine del Redentore sofferente. Per la
tradizione teologica greca:
Il Cristo è (…) il Verbo incarnatosi che dà
all’umanità la vita divina, che ne rende
partecipe l’uomo che lo desidera. La parola
chiave di questa cristologia è divinizzazione,
deificatio (…): la vita divina che unisce uomo e
Dio (…). Cristo è innanzitutto il rivelatore di
Dio, che del Padre ha lo stesso splendore, la
stessa potenza (…). Solo in questa prospettiva è
considerato il sacrificio di Cristo (…), la
sofferenza è presente in Dio, ma non arriva a
toccare la sua inalterabilità (…), la sua
radicale impassibilità5.
La sofferenza del Cristo-uomo è, dunque, nella
teologia dei padri greci, stemperata dalla volontà di
cogliere nel senso ultimo della Rivelazione, la
possibilità da parte dell’uomo di divenire, in
Cristo-Dio, egli stesso divino. Nella deificazione,
accessibile e realizzabile ‘in via’ e non solo in un
5 C. LEONARDI (a cura di), Il Cristo. Testi teologici e spirituali in lingua
latina da Agostino ad Anselmo di Canterbury, vol. III, Mondadori, Milano
2006, pp. xv-xvi.
5
lontano e atemporale futuro escatologico, l’uomo
realizza, pertanto, il senso della propria creazione,
e della missione del Verbo incarnato6. Per i padri
della chiesa latina è centrale, invece, il tema della
salvezza operata dal Cristo, in virtù del suo essere
Dio fatto uomo. Essi sono interessati, infatti, non
tanto alla definizione ontologica del ‘Cristo in sé’,
ma quella soteriologica7 del ‘Cristo per l’uomo’8. Ed
è in tale direzione che i padri latini orientano la
propria riflessione, ovvero ponendo al centro
l’umanità di Cristo, in virtù della quale egli è
unico mediatore e salvatore. Tale dimensione
soteriologica della cristologia latina è resa dalla
figura del Cristo ‘Agnello immolato’ obbediente al
volere del Padre. Così, se la parola chiave di tale6 Cfr. J. MEYENDORFF, La teologia bizantina. Sviluppi e temi dottrinali,
Lampi di stampa, Milano 1999, p. 260; cfr. M. GRONCHI, Trattato su
Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, Queriniana, Brescia 2008, p. 575.7 Per un’attenta analisi del tema della soteriologia dei
padri della Chiesa si rimanda ai seguenti studi: B. STUDER, Il
linguaggio metaforico della soteriologia patristica, in Pagani e cristiani alla ricerca
della salvezza (secoli I-III). XXXIV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Roma
5-7 maggio 2005, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma
2006, pp. 255-261; ID. Dio Salvatore nei padri della chiesa. Trinità, cristologia,
soteriologia, Borla, Roma 2000.8 L. LONGOBARDO, Immagini di salvezza nei primi autori cristiani, in A.
Terracciano (a cura di), Attese e figure di salvezza oggi, PFTIM, Napoli
2009, p. 183.
6
universo cristologico è redemptio, la sua immagine è
quella del Cristo crocifisso e sofferente, la quale,
come evidenzia C. Leonardi, confluirà, attraverso
Agostino e la sua visione del peccato, nella
riflessione medievale successiva:
Questa posizione cristologica si trasmette
insieme al magistero di Agostino (…). Si immette
(…) in tutta la tradizione dell’Occidente (…) la
sua concezione del peccato. (…). Il racconto
della Genesi, sul peccato dei progenitori, viene
letto come il documento di una perdita
irreparabile: l’uomo ha rotto per sempre la
comunicazione con Dio e non è in grado di
ricostruirla. (…). È il tema della salvezza
dell’uomo peccatore che viene particolarmente
sottolineato (…). La teologia (…) mette dunque
l’accento (…) sulla liberazione dell’uomo più
che sulla sua divinizzazione, su Cristo
salvatore più che su Cristo deificatore. (…).
Questa scelta è all’origine di quella che sarà
più tardi, nel pieno Medioevo, la figura
cristica egemone, quella del Cristo crocifisso,
in cui (…) l’umanità del Dio incarnato
costituisce il centro della riflessione
7
teologica (…): un uomo sofferente e morente
rivela il volto divino9.
Il Figlio di Dio è, e sarà ancora, il logos del Padre,
colui per mezzo del quale e in vista del quale sono
create tutte le cose, tuttavia, l’accento è posto
sull’effetto salvifico e restauratore della sua
incarnazione. La stessa dimensione ontologica intorno
alla possibilità della coesistenza delle due nature
nell’unica persona non è mai slegata dal suo
riferimento soteriologico e, dunque, dall’immagine di
Cristo redentore sofferente. Con ciò non si vuole
affermare che il termine deificatio sia assente nel
pensiero medievale latino. Due grandi tradizioni
cristiche attraversano, infatti, il Medioevo latino,
quella della theosis e dell’amartia, le quali,
accentuano, di volta in volta, l’uno o l’altro senso
della missione salvifica operata dal Cristo. È da
tale tensione speculativa che si originano le diverse
rappresentazioni del Cristo medievale, le quali
tentano di coniugare il paradosso filosofico-
teologico della compresenza delle due nature
nell’unità della persona del Verbo incarnato. Esse
sono, dunque, espressione della costituzione
ontologica e soteriologica del Cristo e quindi del9 C. LEONARDI (a cura di), Il Cristo, pp. xvii-xix.
8
suo essere Verbum in se e Verbum pro nobis. Sullo sfondo
della sua identità intra-ed extratrinitaria si
tratteggiano, infatti, molteplici e differenti
raffigurazioni cristiche, le quali descrivono, in
maniera e misura diversa, l’umanità (dimensione
soteriologica) e l’identità (dimensione ontologica)
del Figlio di Dio. Così, se le immagini
soteriologiche, approfondendo il tema del Cristo
‘nuovo Adamo’, descrivono il Figlio di Dio come amico
e medico, signore e giudice dell’umanità, incarnatosi
per liberare e guarire l’uomo dalla malattia del
peccato; quelle ontologiche delineano la figura del
‘Cristo preesistente’, creatore e deificatore
dell’uomo, fondamento e fine oggettivo del mondo. La
riflessione medievale, attraverso tali immagini,
sottolineerà dunque il suo essere fondata sul Dio di
Gesù Cristo, il quale è «struttura stessa
dell’incontro del cristiano con Dio che si qualifica
cristologicamente»10.
Il tema della deificazione umana, già presente
in età carolingia11, svolgerà in ambito domenicano,10 Cristocentrismo, in G. BARBAGLIO - S. DIANICH (a cura di),
Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi)
1988, p. 211.11 In questo periodo, la riflessione cristologica di
Giovanni Scoto Eriugena, la quale, non manca di confrontarsi con
autori della tradizione greca quali Ps-Dionigi Areopagita,
9
attraverso la riflessione cristologica di Eckhart, un
ruolo centrale. Come vedremo, la cristologia
eckhartiana non sarà, infatti, un’argomentazione
sulla necessità razionale o meno della persona di
Cristo di coniugare ipostaticamente le due nature,
umana e divina, nell’unicità soggettiva della sua
persona. Ciò è accaduto nel dodicesimo secolo in
diversi autori, i quali, da Anselmo d’Aosta in poi,
hanno cercato le ragioni del mistero ipostatico
Origene, Gregorio di Nazianzo, Basilio di Cesarea, Massimo il
Confessore, vede in Cristo l’unico capace di restituire all’uomo
l’originaria divinità pre-lapsaria. Adamo con il suo peccare ha
indebolito l’intelletto creaturale, che, non riuscendo a
contemplare le verità in sé, è condannato a vivere nei limiti e
nelle ambiguità della conoscenza naturale delle cose. Solo
Cristo, assumendo la natura umana, e dunque deificandola, riesce
a riorientare lo sguardo dell’intelletto creaturale e dirigerlo
verso le verità eterne di Dio. L'uomo divinizzato è, infatti,
colui che riacquista l’originaria capacità di comprendere il
Verbo divino in sé, nel suo puro manifestarsi. Egli è colui che,
superando le immagine imperfette dell’intelletto creaturale,
riscopre le vera essenza delle cose nell’Intelletto divino.
Nella riflessione eurigeniana, Cristo è, al contempo, l’immagine
del Redentore sofferente e deificatore, Agnello immolato e
Modello originario. In tal senso la sua cristologia cerca una
strada comune tra la tradizione teologica greca e quella latina.
Cfr. G. D’ONOFRIO, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma
2011, pp. 127 e 140-142; cfr. M. GRONCHI, Trattato su Gesù Cristo, pp.
583-584; C. LEONARDI (a cura di), Il Cristo, pp. 379.
10
dell’Incarnazione di Dio. Nel predicatore tedesco,
tale assunto cristologico èe dato per acquisito. P,
pertanto, come cercheremo di evidenziare, non si
tratterà di una cristologia dell’ipostasi, ma di una
cristologia della ‘nascita sempre presente’ del
Figlio di Dio nell’anima dell’uomo nobile, ossia di
colui che con specifiche qualità noetiche e a
determinate condizioni, saprà causare l’Incarnazione
cristica in sé, o meglio nel fondo della propria
anima.
Prima di Eckhart, dunque, la percezione del
tempo come Historia salutis e l’immagine del Cristo uomo-
crocifisso e Dio-redentore, passibile nella ipostasi
personale della pienezza ontologica degli attributi
umani e di quelli divini, trovano la loro
sistematizzazione razionale e il loro approfondimento
scritturale nel dodicesimo secolo. In quegli anni,
infatti, se, da un lato, la Cristianità latina
percepisce se stessa come umanità bisognosa di
perdono, dall’altro, è maggiormente stimolata,
dall’incontro con le altre religioni del Libro, a
legittimare filosoficamente le proprie categorie
cristologiche. I teologi medievali sentirono la
necessità di comprendere e legittimare razionalmente
i principi dogmatici della religione cristiana. Così,
se da un lato cercarono di dimostrare la razionalità
11
e i modi di realizzabilità ontologica dell’unione
ipostatica,; dall’altro lato, proprio in virtù di
tale congiunzione ontologica, sottolinearono del
Cristo il suo essere unico mediatore di salvezza. Dal
confronto con il Giudaismo e l’Islam, i filosofi
medievali vengono, dunque, esortati a dimostrare,
contro ogni fideismo, il valore scientifico delle
loro convinzioni teologico-dottrinali12.
12 Cfr. P. DE FEO, Il Cristo delle scuole. Il dibattito cristologico nella
prima metà del secolo XII, Città Nuova, Roma 2012, p. 336; I. BIFFI,
Figure medievali della Teologia. La costituzione della Teologia medievale, Jaka
Book, Foligno (Pg) 2008, p. 445-447; ID., La filosofia monastica: «saper
Gesù», Jaka Book, Milano 2008, pp. 42- 43; M. D. CHENU, La teologia
nel dodicesimo secolo, Jaka book, Milano 1992, pp. 215-216.
12
La cristologia di Eckhart
L’intento di Eckhart è di assumere come dato di
fatto il dogma ipostatico e da qui procedere a una
riflessione ulteriore. Nel prologo all’Opus
Propositionum è, infatti, detto:
<LW6:051> ◊19◊ (…) in homine assumpto a verbo
concedimus unicum esse personale hypostaticum
ipsius verbi, et nihilominus Christus vere fuit
homo univoce cum aliis ho minibus.
Nell’assunzione della natura umana da parte del
Verbo, ovvero della seconda persona della Trinità, la
natura umana non è svilita, ma è mantenuta nella sua
13
specifica umanità. L’umanità del Verbo è in seguito
avvalorata attraverso l’interpretazione della
pericope evangelica Gv 11, 33, in cui si narra delle
lacrime del Nazareno dinanzi al sepolcro dell’amico
Lazzaro, è detto che Cristo turbò se stesso. Eckhart
interpreta tale avvenimento per rivalutare le
passioni, distinguendole dai vizi in virtù della loro
ragionevolezza. L’uomo virtuoso è colui che non
subisce le passioni, ma le esercita per uno scopo più
grande, egli è tale nella misura in cui non dominato
dai sensi, si serve e controlla le passioni mediante
l’intelletto:
<LW6:259> ◊228◊ Augustinus hoc inducit hic in
Libro quaestionum et l. IX De civitate dei et
ponitur hic in Glossa. Sed communiter diminute
et corrupte in Glossa invenitur propter vitium
scriptorum.# Rursus autem Augustinus eodem libro
IX De civitate dei sic ait: »Stoicis« »non
placet« »passiones cadere« in sapientem,
Peripatetici »has« »in sapientem cadere«
»dicunt«, »sed moderatas rationique subiectas«,
sicut cum »ita praebetur misericordia, ut
iustitia conservetur«. »In disciplina«
christiana »non tamen quaeritur utrum pius
animus irascatur« aut tristetur, »sed unde«.#
14
Notandum ergo quod, dum passio praevenit et
movet rationem, vitium est, utpote contra
ordinem naturae, inferius movet suum superius.
Quando vero ratio praevenit et dictat motum
passionis, virtus est. Unde signanter dicitur
Ioh. de Christo quod 'turbavit semet ipsum.
Così, di contro, coloro che subordinano lo scopo più
grande, ovvero il sommo bene, al particolare e,
dunque, al proprio diletto, sono servi dell’animale
bruto che è in essi, in quanto l’intelletto non
governa i sensi, ma ne è da essi oscurato. I sensi,
afferma il domenicano, se non gestiti sono come la
‘serva portinaia’ che provoca il tradimento di Pietro
(qui simbolo dell’intelletto), ovvero sono coloro che
sviano la retta consapevolezza delle cose. Colui che
è traviato dalla ‘serva portinaia’ permette ai sensi
di offuscare la propria ragione e, pertanto, egli è,
in tal senso, l’uomo vecchio che deve far spazio al
nuovo, attraverso la rescissione dei sensi:
LW6:269> ◊240◊ (…) in talibus intellectus
servit sensui, homo bruto animali (…) Et
notandum quod totum (…) pulchre valde parabolice
plene et pertinenter exponitur de homine malo,
in quo ratio et intellectus non dominatur
15
concupiscentiae sensuali, sed ipsa e converso
dominatur rationi. Haec est ancilla ostiaria,
quae »Petrum«, id est »agnoscentem«, rationem
scilicet, facit negare Christum, de qua
loquuntur omnes evangelistae. ◊245◊ Posset etiam
dici quod inimicus homo est vetus homo, exterior
homo et sensitivum (…). Sicut enim ratio tenet
arcem in bonis humanis, sic sensitivum, pars
inferior animae, radix est et arcem tenet in
malis. Superfluum est, quia praeter esse est,
extra sufficiens est, ut dictum est supra,
circumcidendum est.
Attraverso la ‘circoncisione’ dell’attività dei
sensi, l’uomo riscopre la vera immagine di Dio
nell’uomo, ovvero il Cristo in sé. Tale immagine
cristologica della rivelazione del Figlio all’uomo è,
dunque, la cristificazione dell’uomo, la quale si
avvera nel momento in cui l’uomo si libera
dell’involucro delle immagini esteriori. Colui che
vuole conformarsi alla verità divina e divenire
immagine di Cristo deve lasciar cadere il velo delle
cose inferiori e delle realtà temporali. Ciò che deve
essere lasciato andare non è, tuttavia, un
atteggiamento o una qualità morale, ma è un
determinato modo di vedere ecomprendere le cose
16
create e quelle divine. In Eckhart, al riguardo si
parla di teoria del distacco intellettuale. Tale
teoria caratterizza tutta la speculazione eckhartiana
dai suoi inizi sino alla maturità. Essa, infatti,
evidenzia L. Sturlese, è presente anche nei primi
scritti del maestro domenicano come le Reden, che
furono composte tra il 1295 e 1298. Lo studioso, in
disaccordo con J. Quint e K. Flasch, che ritengono
tale opera un mero esempio di letteratura
devozionale, ne dimostra, viceversa, la profondità
speculativa13. Nei Discorsi, sottolinea Sturlese, vi è
una formulazione del tutto nuova dell’interpretazione
classica della dottrina delle virtù monastiche
contenuta nelle Conlationes e nella Vitas patrum di
Giovanni Cassiano. In Eckhart, al contrario
dell’autore delle vite dei Padri del deserto, manca
infatti qualsiasi riferimento alla severa graduazione
della vita spirituale. Così, se in Cassiano il
presupposto di uno spirito dal cuore puro è
l’esercizio della vita eremitica attraverso il
cammino di purificazione delle tre grandi rinunce
(abdicazione ai beni della terra, abbandono dei vizi
e sgombero delle immagini presenti per poter
13 Cfr. L. STURLESE, Eckhart, Taulero e Suso. Filosofi e mistici nella
Germania medievale, Firenze, Le lettere 2010, p. 15.
17
percepire le realtà spirituali future), diversamente
in Eckhart tutto ciò non è presente14.
Il distacco, dunque, non è, da Eckhart,
tradizionalmente visto come negazione del mondo, ma
come riscoperta intellettuale di sé stessi quale
luogo dell’inabitazione di Dio. L’uomo, infatti,
distaccandosi ritrova il divino dentro di sé, o
meglio costringe Dio a nascere in lui. Così, scrive
Sturlese, l’uomo separato «viene trasformato da Dio e
in Dio essenziato»15. L’individuo, dunque, mediante il14 Cfr. Ivi, pp. 16-17.
Per un ulteriore approfondimento sul pensiero e la
spiritualità monastica medievale si rimanda, inoltre, ai
seguenti studi: P. BESKOW, I. BIFFI, R. CASSANELLI, S. M. FIORASO. S.
M. MALASPINA, C. MARABELLI, R. SPREAFICO, C. STERCAL, M. ZANINELLI,
Estetiche Medievali, Milano, Jaca Book 2009; I. BIFFI, La filosofia
monastica: «Saper Gesù». La costituzione della teologia medievale, Milano, Jaca
Book 2008; G. PENCO, Il Monachesimo fra spiritualità e cultura, Milano, Jaca
Book 1991; G. PICASSO, Sacri canones et monastica regula. Disciplina canonica e
vita monastica nella società medievale, Milano, Vita e Pensiero 2006; K.
RUH, Geschichte der abendländischen Mystik. I. Die Grundlegung durch die
Kirchenväter und die Mönchstheologie des 12. Jahrhunderts. II. Frauenmystik und
franziskanische Mystik der Frühzeit, München, C. H. BECK 1990-1993, trad.
it. M. Fiorillo, I. Storia della Mistica Occidentale. Le basi patristiche e la
teologia monastica del XII secolo; trad. it. G. CAVALLO GUZZO e C. DE
MARCHI, II. Mistica femminile e mistica francescana delle origini, Milano, Vita e
Pensiero 1995-2002.15 L. STURLESE, Eckhart, Taulero e Suso. Filosofi e mistici nella Germania
medievale, cit., p. 17.
18
distacco si divinizza, in quanto impone a Dio di
riversarsi in lui. Così, se l’uomo educa il suo
spirito e i suoi sensi e dirige ogni attività del suo
pensiero dentro e non fuori di sé, Dio non può
negargli la sua presenza. La legge di divinizzazione
dell’uomo è, pertanto, un imperativo per Dio. Come
mostra Sturlese, essa, infatti, non mette in
relazione moralmente l’uomo e Dio, ma li vincola
metafisicamente. A uno spirito distaccato, infatti,
Dio non può dire di no, non può scegliere di fluire o
meno in lui, ma è costretto. A tale dinamica di
svuotamento e rinascita, Dio dunque non può in alcun
modo sottrarsi: egli è metafisicamente, o se si
preferisce, ontologicamente obbligato. Di necessità
(von nôt) scrive Meister Eckhart nelle sue Reden16.
Per metafora potremmo dire che Dio e l’uomo sono come
due vasi comunicanti e la loro rispettiva divinità e
umanità è il liquido che essi contengono. Se l’uomo
si svuota del proprio, ossia delle volizioni
creaturali dell’io, la divinità non può far altro che
fluire nel contenitore ormai vuoto e riempirlo al
pari del primo dal quale fluisce.
Il pensiero, dunque, è il luogo della
divinizzazione, perché, come Dio, è l’indefinibile
principio al di là dell’essere. Al riguardo, nelle16 Cfr. Ivi, p. 18.
19
Questioni parigine Eckhart non identifica mai l’essere
(esse) con il pensiero (intellectus). Cosi, per il
Maestro, se l’essere è il principio per il quale le
cose sono categorialmente determinate, al contrario,
il pensiero è la negazione di tale determinabilità.
Esso è qualcosa che, al pari di Dio, è non creato.
Tale formulazione eckhartiana del pensiero in sé è,
evidenzia Sturlese, il superamento della distinzione,
operata da Alberto Magno e Dietrich di Freiberg, tra
il pensiero umano individuale, creato e immanente
(virtus animae razionalis), e il pensiero divino
sovraindividuale, increato e trascendente
(intellectum in quantum intellectus). Eckhart,
dunque, colma lo iato tra le due diverse forme di
pensiero e ne definisce la loro identità17.
In tal identità, l’uomo apprende di essere
qualcosa d’altro che un semplice intelletto capace di
comprendere le verità divine, ma di essere esso
stesso parte di quelle verità. Ecco, dunque, la
svolta antropologica di Eckhart rispetto all’idea
dell’intellectus adeptus di Alberto Magno. Con questa
dottrina, scrive Sturlese, «Eckhart si colloca nella
tradizione domenicana del primato dell’intelletto
17 Ivi, pp. 22-23.
20
[…]. Ma si tratta di ben più di una presa di
posizione in favore dell’intellettualismo»18.
Chiaro, dunque, perchè quando il predicatore
domenicano parla di ‘circoncisione dei sensi’, non
possiamo ridurre tutto a un ordine di tipo morale. A
non far ciò ci aiuta anche un passo dei sermoni
tedeschi, che ci illustra meglio ciò che Eckhart
intende per ‘circoncisione dei sensi’:
DW I, 5-15. Diu sêle hât zwei ougen, einz inwendic
und einz ûzwendic. Daz inner ouge der sêle ist, daz
in daz wesen sihet und sîn wesen von gote âne allez
mitel nimet: daz ist eigen werk. Daz ûzer ouge der
sêle ist, daz dâ gekêret ist gegen allen crêaturen
und die merket nâch bildelîcher wîse und nâch
kreftlîcher wîse. Welher mensche nû in sich selber
wirt gekêret, daz er bekennet got in sînem eigenen
smacke und in sînem eigenen grunde, der mensche ist
gevrîet von allen geschaffenen dingen und ist in im
selber beslozzen in einem wâren slozze der wârheit,
[…] in den menschen enkumet got niht: er ist dâ
wesentlîche.
Aiutandoci con tale passo, possiamo immaginare che la
‘circoncisione dei sensi’ sia un passaggio di stato18 Ivi, p. 24.
21
cognitivo, che si realizza nel trasmutare da una
conoscenza logico-deduttiva, frutto dell’attività
della ragione mediante l’elaborazione del sensibile,
a una di tipo noetico-intuitiva, che va oltre
l’attività categoriale dei sensi. In questo processo
di svelamento di ciò che l’uomo realmente è, Eckhart
individua due istanze complementari della maturità
intellettiva: il superamento delle gnoseologia e
della metafisica aristotelica e l’unione con Dio.
L’uomo, dunque, è caratterizzato da due movimenti
dello spirito, i quali, descritti da Eckhart con la
metafora agostiniano-avicenniana dei due volti
dell’anima, rappresentano la possibilità dello
spirito di guardare contemporaneamente al mondo e
all’eternità. I due occhi, talvolta resi con i due
volti, l’uno inferiore, l’altro superiore, sono
infatti i due aspetti della conoscenza umana: quello
delle cose create e quello delle verità divine. Così,
se il volto inferiore è la dimensione della
percezione sensibile, il volto superiore è invece la
parte più intima dell’anima (grunt), nel quale Dio,
nascendo (Gottesgeburt), si unisce con essa. Ora,
evidenzia Palazzo, ciò che accomuna il grunt
dell’anima a Dio è la reciproca innominabilità. Come
Dio (Got […] âne namen ist) anche il fondo dell’anima
22
sfugge ai nomi del linguaggio umano (Diu sêle enhât
ouch keinen namen)19.
Con la metafora dell’anima ancipite, Eckhart
afferma la libertà dell’uomo di determinarsi o
secondo il tempo delle creature o secondo l’eternità
delle cose increate e, quindi, la libertà di
accontentarsi o meno delle definizioni razionali di
Dio. Le due parti dell’anima, tuttavia, non sono tra
loro contrapposte, in quanto guardare alle cose
eterne non vuol dire negare l’attività dei sensi,
bensì educarla e dirigerla verso l’increato. Scrive
al riguardo Palazzo:
l’attività dei sensi è un mezzo attraverso cui
l’anima raggiunge quel fondo elevandosi alla
‘regio intellectualis’. Perché ciò avvenga, è
necessario però che si purifichi da una vita
divisa e che entri in una vita unitaria, che
significa trascendere la molteplicità dispersa
dell’esperienza sensibile ripensandola secondo
una prospettiva unitaria […]»20.
19 CFR. A. PALAZZO, “Ez sprichet gar ein hôher meister”: Eckhart e
Avicenna, in «Studi sulle fonti di Meister Eckhart», I, pp. 78-
79.20 Ivi, p. 80
23
L’immagine dei due volti-occhi rappresenta, dunque,
la possibilità dell’anima di vedere il principio
unitario divino sotto la molteplicità del mondo
sensibile e di divenire essa stessa un universo
intellegibile21. Di conseguenza, con l’esortazione
alla circoncisione sensoriale, Eckhart non condanna
l’attività dei sensi in sé, ma ne denuncia la
necessaria gestione intellettuale, se si vuole
giungere ad una retta conoscenza delle cose divine o
realtà spirituali. Con l’educazione dei sensi si ha,
infatti, il superamento dell’intelletto naturale,
appartenente all’uomo biologico, e lo sviluppo
dell’intelletto spirituale dell’uomo nobile. Come ha
dimostrato A. Beccarisi, Eckhart cerca di superare la
dualità aristotelica dell’intelletto agente e
possibile per pervenire a una personale e diversa21 Come per Avicenna nel libro IX della Metaphysica, anche
per Eckhart, l’anima trova la sua perfezione nell’essere un
mondo intellegibile, ovvero un luogo nel quale si avvera
l’universo intellettuale del tutto. Al riguardo, Sturlese
dimostra come l’immagine avicenniana del mondo intellegibile sia
anche il tema centrale della predica tedesca 17, Qui odit animam
suam in hoc mundo etc. In essa, sostiene lo studioso, Eckhart
utilizza l’immagine del seculum intellectum per descrivere la
visione dell’unità intellettuale di Dio e dell’uomo dietro la
molteplicità della vita quotidiana. Unità che è transrazionale,
in quanto nessun pensiero vi appartiene. Cfr. L. STURLESE, Eckhart,
Taulero e Suso. Filosofi e mistici nella Germania medievale, cit., p. 95.
24
teoria gnoseologica dalle chiare sfumature
neoplatoniche. Se, infatti, per Aristotele la dignità
dell’uomo risiede nella sua capacità razionale di
comprendere la realtà per astrazione intellettiva di
immagini e forme dalla materia, al contrario per
Eckhart la vera essenza dell’uomo consiste nel
separarsi intellettivo da tutto ciò che è
rappresentazione del mondo esterno. Per il frate
domenicano, la nobiltà umana risiede, dunque,
nell’abbandono delle categorie creaturali di spazio e
di tempo che vincolano l’intelletto a ciò che non è.
Così, descrivendo l’ideale eckhartiano di uomo,
Beccarisi scrive:
«Non è […] attualizzando nell’intelletto ‘bilde
und forme’ che l’uomo realizza pienamente la sua
umanità, ma piuttosto nell’essere separato ‘von
allen materien und forme’. E tanto più l’uomo è
abegescheiden tanto più conosce e quindi tanto più
è uomo»22.
22 A. BECCARISI, “Der hoeste unter den meistern”: Eckhart e il De Anima di
Aristotele, in «Studi sulle fonti di Meister Eckhart, I»,
Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, hrsg von
R. IMBACH und T. SUAREZ-NANI Freiburg, Academic Press, 2008 pp.
15-16.
25
Colui, pertanto, che voglia riscoprire la vera
essenza della propria natura non può non liberarsi
dai limiti fisici imposti dall’argomentazione
discorsiva. Il senso eckhartiano della nobilitazione
della ragione umana è, dunque, sostiene Beccarisi, il
superamento dell’intellectus agens, fonte della ragione
discorsiva e la trasmutazione dell’intellectus possibilis
nell’intelletto del lasciar far divino, sede della
conoscenza intuitiva. Trasmutazione che avviene
riscoprendo il proprio essere indeterminati e
intellettivamente liberi dai vincoli creaturali.
Scrive, difatti, la studiosa:
L’intelletto umano secondo Eckhart non può
essere spiegato semplicemente secondo categorie
di possibile o agente, [in quanto] se l’uomo
intende andare al di là del mero fatto empirico,
e divenire completamente aperto all’essere ha
solo una possibilità: diventare abegescheiden»23.
Ora tale esigenza speculativa di elevazione
dell’intelletto umano, oltre i limiti naturali della
ragione aristotelica, si attua marginalizzando la
teoria albertina dell’acquisizione graduale del
sapere scientifico ad opera dell’intellectus adeptus.23 Ivi, pp. 21-22.
26
Così, come ha mostrato L. Sturlese, se in Alberto
Magno vi è la visione di una formazione progressiva
dell’intelletto che diventa divino attraverso la
graduale comprensione delle leggi dell’universo, in
Eckhart, viceversa, vi è la concezione di un
intelletto divino connaturale all’essenza stessa
dell’uomo. Nel domenicano, pertanto, l’attenzione è
spostata dalla possibilità scientifica di stabilire e
possedere un sapere universale a quella antropologica
di determinare la natura dell’uomo in quanto tale.
Egli, dunque, a differenza di Alberto, non parla di
acquisizione conoscitiva di se stessi nella verità
della propria natura, ma di riscoperta intellettiva
di ciò che appartiene all’uomo come originariamente e
naturalmente già dato24. In Eckhart, pertanto, non vi
è progressione nel superamento della metafisica
aristotelica, ma un ineludibile salto, con il quale,
avverandosi il passaggio immediato della conoscenza
logico-deduttiva a quella noetico-intuitiva, si
lascia l’uomo biologico e si ritrova l’uomo nobile,
ovvero colui che con spirito distaccato rinuncia a
definire categorialmente Dio.
24 Cfr. L. STURLESE, Intelletto acquisito e divino. La dottrina filosofica di
Alberto il Grande sulla perfezione della ragione umana, in «Giornale critico
della filosofia italiana», LXXII/2, 2003, pp. 161-189, (176-177
e 189).
27
Nel contesto di tale discorso, rilevante è la
predica tedesca 1, la quale, scritta per la prima
domenica di Avvento, si apre con la profezia di
Geremia, secondo il testo della Vulgata25: «Ecce dies
veniunt, dicit Dominus, et suscitabo David germen
iustum» (Ger. 23, 5). Nella propria esegesi, il
predicatore riprende l’immagine agostiniana della
lontananza da Dio, rifunzionalizzandola per una nuova
teoria della conoscenza filosofico - teologica del
divino e dell’umano in quanto tale. Il frate
domenicano, attraverso la definizione di tre gradi di
‘miseria crescente’, descrive il percorso
gnoseologico dell’intelletto umano nella comprensione
e nel superamento della propria distanza da Dio.
Separazione, dunque, non incontrovertibile, ma
colmabile nel e per mezzo dell’intelletto, ossia in
virtù della scoperta da parte di questi della propria
divinità e identità ontologica con Dio. Il primo
grado - riconoscimento di tale condizione miserevole
25 Qui seguiamo la numerazione proposta nell’edizione
critica Meister Eckhart. Le 64 prediche sul Tempo Liturgico, a cura di L.
STURLESE, Bompiani, Milano 2014. Il curatore propone una
ricostruzione liturgica e non tematica delle prediche tedesche
di Meister Eckhart. In seguito, tale edizione verrà indicata con
la sigla (ST) in apice al numero della predica, per distinguerla
da quelle da lui non ancora pubblicate, che sono indicate
unicamente con la sigla DW.
28
(Ez ist ein jaemerlich dinc) è l’immediato
intendimento che tutte le creature, anche le più
belle (die allerschoensten crêaturen), se private
della luce di Dio (ûz dem göttlîchen liethe), perdono
ogni loro capacità di essere piacevoli (lustlich) e
gradevoli (behegelich), per lo spirito:
Naeme man die allerschoensten crêaturen, die
got geschaffen hât, ûz dem göttlîchen liethe
(…) und wurden gewîset einer sêle, si enmohte
deheine wollust noch behagunge an in gehaben,
sunder ir müeste dâ vor grûwen26.
Ne consegue che qualsiasi anima, posta dinanzi a una
tale visione (wurden gewîset einer sêle), non riceve
alcun godimento (wollust), o piacere (behagunge), ma
prova, lì innanzi (dâ vor), soltanto orrore (grûwen).
Eckhart sembrerebbe dire che senza la comprensione
della giusta relazione di dipendenza da Dio, l’uomo
non trova né in sé, né nelle cose alcuna bellezza, ma
solo bruttezza, intesa come privazione di ciò che dà
26 Predigt 1ST n. 4, trad. it. pp. 7 e 9, (Deutsche Werke -
d’ora in poi DW - IV, 87S): Se si togliessero le più belle
creature create da Dio dalla luce divina sotto la quale esse
stanno (…) e venissero mostrate ad un’anima, queste non ne
potrebbe avere alcun godimento né piacere ma dovrebbe inorridire
29
sussistenza e senso al creato. Il predicatore, subito
dopo, afferma infatti che non solo più miserevole
(noch jaemerlîchsten) è l’intellezione dell’uomo di
essere distanti dal proprio fondamento - che,
diversamente da Tommaso d’Aquino, risiede non
nell’essere, ma nell’intelletto e nella superiorità
del secondo rispetto al primo - ma miserrima è la
condizione di colui che si accorge di essere lontano
dalla fonte della propria beatitudine:
Noch jaemerlîcher ist daz, daz der
mensche von dem ist, âne der kein wesen
gehaben mac. Aller jaemerlîcher ist daz, daz
er von dem ist, der sîn êwige saelicheit ist27.
Una triplice intellezione che porta l’anima alla
fruizione della propria felicità nella misura in cui
coglie intellettivamente la propria lontananza da Dio
e vi pone rimedio. Tale distanza, infatti, non è
incolmabile, in quanto nel momento in cui lo spirito
percepisce lo iato tra sé e Dio, in quello stesso
27 Predigt 1ST n. 4, trad. it. p. 9: «Ancor più triste è il
fatto che l’uomo sia lontano da colui senza il quale egli non
può avere alcuna sostanza. Tristissimo è il fatto che egli sia
lontano da colui che è la sua beatitudine eterna».
30
istante, intravede la possibilità della generazione
del Figlio:
Dar umbe was daz ein guot botschaft, daz der
prophête sprichet: ‘sehet, die tage koment,
sprichet der herre, und ich wil erwecken die
gerechten wurzeln Dâvîdes. Dô die âlten veter
bekanten daz jammer, dâ sie inne wâren, dô
schrîeten sie mit ir begerunge in den himel
und wurden in got gezogen mit irm geiste und
lâsen in götlicher wîsheit, daz got geborn
solte werden28.
La nascita del Figlio è dunque una risposta al
desiderio dell’uomo di superare la propria condizione
miserevole, la quale viene intesa dal Maestro non in
chiave etica o ecclesiologica, ma in senso
ontologico, ovvero come una radicale e nuova teoria
dell’umano in quanto tale. Nel contesto della predica
1, il Cristo è dato, infatti, come paladino e28 Predigt 1ST n. 5, trad. it. p. 9: «Perciò fu un buon
messaggio ciò che dice il profeta: ‘Guardate, i giorni arrivano,
dice il Signore, ed io risveglierò la giusta radice di Davide’.
Quando gli antichi padri conobbero la miseria in cui erano,
gridarono con il loro desiderio al cielo e vennero tratti con il
loro spirito in Dio e lessero nella sapienza divina che Dio
sarebbe stato generato».
31
avvocato per sconfiggere i peccati e risanare la
condizione miserevole dell’uomo:
Dar umbe endarf der mensche niht vorhten (…)
unsern herren got. Wan sant Paulus sprichet: der
sun ist uns gegeben ze einem vorsprechen, der ein
wîsheit ist des vaters, der sol wîslîche rede
geben vür alle unser tôrheit und missetât. (…) er
ist uns gegeben ze einem vorvehtære, der vür uns
sigevehten sol in aller unser nôt (…). Dar umbe
endarf der mensche niht vorhten got, er enmüge
mit allen sînen sachen küenlîche ze gote gân29.
Eckhart non sembra qui negare l’idea di Cristo
salvatore e redentore dell’uomo, ossia come colui che
è «venuto a prendere su di sé il peccato dell’uomo,
per cancellarlo e salvare l’uomo»30, e ciò in sintonia
29 Predigt 1ST n. 6, trad. it. pp. 10-11: «L’uomo non deve
temere (…) Dio nostro Signore, perché san Paolo dice: il
Figlio, che è sapienza del Padre, ci è dato come un avvocato e
dovrà offrire sapienti discorsi per ogni nostra stupidità e peccato
(…) egli ci è dato come un paladino che deve vincere per noi in
ogni nostra difficoltà (…). Perciò l’uomo non deve temere Dio, e
che non gli sia possibile andare arditamente verso Dio con tutte
le sue cause». 30 Predigt 1ST n. 7 trad. it. p. 11: «(…) ist er komen ûf
daz ertrîche, daz er des menschen sünde ûf sich genommen hât,
daz er sie vertilgete und den menshen behielte».
32
con il V sermone latino, nel quale a proposito della
grandezza e dell’utilità del sacramento eucaristico è
detto:
<LW4:046> ◊49◊ Utilitas autem huius sacramenti
magna est et universalis: magna quidem, quia
efficit in nobis nunc 'vitam' spiritualem et
tandem aeternam, ut dictum est. Nam ut ex supra
dictis apparet, cum hoc sacramentum sit
rememorativum dominicae passionis, continet in
se Christum passum. Unde quidquid est dominicae
passionis, totum etiam est huius effectus
sacramenti; nihil enim est aliud hoc sacramentum
quam applicatio dominicae passionis ad nos. Non
enim decebat <LW4:047> Christum secundum
praesentiam suam semper esse nobiscum, et ideo
voluit hoc supplere per hoc sacramentum. Unde
manifestum est quod et destruction mortis, quam
Christus moriendo destruxit, et reparatio vitae,
quam resurgendo effecit, est effectus huius
sacramenti. Universalis autem, quia 'vita', quam
confert, non solum est vita unius hominis, sed,
quantum in se est, totius 'mundi', ad quam
sufficiens est mors Christi, Ioh. 2: 'ipse est
propitiatio pro peccatis nostris'.
33
Non dovrebbe essere sbagliato, dunque, affermare che
il frate domenicano, sia nella predica tedesca che in
quella latina, non nega né la sacramentalità del
sacrificio eucaristico, né la passione e resurrezione
di Cristo né la veridicità redentiva
dell’Incarnazione. La predica tedesca, tuttavia,
sembra voler portare il lettore su un piano di
riflessione ulteriore: quello della possibilità di
fruire della somma beatitudine per mezzo della
generazione e rivelazione interiore di Dio.
Avvenimenti dello spirito che, insieme all’idea di
resurrezione e vita eterna, avranno, come vedremo,
valenza prettamente filosofica. In essa si legge,
infatti, che se l’incarnazione di Dio in Maria è
fonte di beatitudine, ancor di più lo è la sua
nascita interiore nell’anima:
(…) grœzer ist daz, daz gotes sun rüerte
menschlîche natûre in unser vrouwen lîbe. Dâ
von ist alliu menschlîche natûre sælic worden
(…). Die allergrœste sælicheit ist daz, daz
got geborn un geoffenbâret wirt in der sêle
an einer geistlîchen einunge 31.
31 Predigt 1ST n. 8, trad. it. p. 13: «(…) grande è il
fatto che il figlio di Dio tocco la natura umana nel corpo di
nostra Signora. Da questo tutta la natura umana è diventata
beata (…). La massima beatitudine è che Dio viene generato e
34
La predica tedesca va oltre sia il dato storico
dell’Incarnazione, sia l’aspetto soteriologico della
redenzione. Essa, rispetto al sermone latino,
presupponendo l’assunto teologico del carattere
redentivo della missione del Figlio, si concentra, in
particolar modo, sull’importanza dell’uomo di divenir
beato (selig). Ciò che va immediatamente detto è che
nelle prediche tedesche il termine peccato non è mai
posto in relazione con il concetto di peccato delle
origini. Eckhart non fa alcun riferimento né al
significato, né al carattere angoscioso di tale
evento, in quanto l’avverarsi del Cristo ne ha
completamente eliminato e azzerato ogni valore e
conseguenza. Nelle prediche vi è, pertanto, una
visione dell’umano totalmente positiva e libera nel
suo autodeterminarsi, priva di qualsiasi bruttura e
legaccio di un immaginario medievale tradizionalmente
schiacciato sull’aspetto moralistico di una storia
umana meritevole di castigo, perché macchiata dal
peccato adamitico32. L’uomo eckhartiano è
ontologicamente buono, poiché portatore in sé di un
germe di assoluta identità con il divino, ossia con
rivelato nell’anima in una unione spirituale».32 Cfr. L. STURLESE (a cura di), Meister Eckhart. Le 64 prediche sul
Tempo Liturgico, Bompiani, Milano 2014, p. XLVIII.
35
il buono in quanto tale (superamento
dell’antropologia della negatività umana). Nelle
prediche tedesche, scrive al riguardo Sturlese:
Del peccato originale e di malvagità radicale
della progenie di Adamo non vi è parola:
l’Incarnazione sembra averle irrevocabilmente
cancellate33.
Cristo è colui, infatti, che, cancellando
definitivamente il peccato delle origini, permette al
l’uomo di ritornare a Dio grazie alla sua mediazione
di avvocato e paladino presso il Padre, ovvero in
virtù del suo essere colui che, assumendo la natura
umana, ha superato definitivamente la condizione
miserevole in cui essa versava. Ecco perché l’uomo
può andare arditamente andare verso Dio (küenliche ze
gote gân) con tutte le sue cause (mit allen sînen
sachen):
Dô der mensche ûz dem paradise gestôzen wart, dâ vür
saste got drîerleie huote. Daz eine was engelische
natûre, daz ander ein viuric swert, daz dritte: daz
ez ze beiden enden sneit. Engelische natûre als vil
als lûterkeit. Dô gotes sun kam ûf daz ertrîche, der
ein lûter spiegel ist âne vlecken, der brach die
33 Ivi, p. LXXIII.
36
êrsten huote ûf und brâhte unschult und lûterkeit in
menschlîche natûre ûf daz ertrîche. (…). Daz viurige
swert bezeichnet die göttlîche viurige minne, âne die
der mensche niht enmac ze himelrîche komen. Die
brâhte Kristus mit im und brach die andern huote ûf.
(…). Diu dritte huote was snîdende swert, daz was
menschlîche jâmerkeit. Die nam unser herre ûf sich an
dem hœhsten (…). Dar umbe ist er komen ûf daz
ertrîche, daz er des menschen sünde ûf sich genommen
hât, daz er sie vertilgete und den menshen behielte.
Aber nû daz himelrîche offen âne allerleie huote; dar
umbe mac der mensche küenlîche ze got gân34.
34 Predigt 1ST n. 7, trad. it. pp. 11 e 13 : «Quando l’uomo
venne scacciato dal paradiso, Dio vi pose una triplice guardia.
La prima era la natura angelica, la seconda una spada
fiammeggiate, la terza - che questa è a doppio taglio. Natura
angelica significa purezza. Quando il figlio di Dio, che è
specchio puro senza macchia, venne sulla terra, egli forza la
prima guardia e porto innocenza e purezza nella natura umana
sulla terra (…). La spada fiammeggiante significa l’amore divino
fiammeggiante, senza il quale l’uomo non può giungere al regno
dei cieli. La portò Cristo con sé, e forzò la seconda guardia
(…). La terza guardia era la spada tagliente che era la miseria
umana. Nostro Signore la prese al massimo grado su di sé (…).
Egli è venuto sulla terra per prendere su di sé il peccato
dell’uomo, per cancellarlo e salvare l’uomo. Ma ora il regno dei
cieli è aperto senza alcuna guardia; perciò l’uomo può
arditamente andare verso Dio».
37
Cosa rimane, dunque, del peccato, privato della sua
dimensione ontologica? Come vedremo, esso non sarà
altro che la condizione esistenziale dell’uomo
esteriore perso e distratto dal e nel molteplice. Il
peccato non è altro che lontananza da Dio, il
guardare dell’uomo nella direzione opposta all’Uno
perché distratto dai molti. Ma cosa significa essere
lontani da Dio, e qual è il modo del peccato (ahte
der sünde)? Il modo del peccato che causa la
lontananza da Dio è il rovesciamento della giusta
prospettiva intellettiva, ossia il confondere la
conoscenza naturale delle cose create con quella
spirituale delle realtà divine. Nel mettere ordine a
tale stravolgimento gnoseologico, e, dunque,
nell’indicare l’esatta direzione verso la quale si
deve dirigere il proprio sguardo, avviene la
‘circoncisione dei sensi’, la quale apre l’intelletto
alla consapevolezza di essere incarnazione del Cristo
stesso.
Nell’interpretazione eckhartiana, le attese
messianiche della nascita di Cristo, perdono la
propria dimensione temporale di attesa del giusto germe
suscitato nella linea di Davide. Il domenicano non è
interessato, infatti, all’aspetto storico
dell’Incarnazione nel grembo della Vergine, ma
piuttosto pone l’accento sulle condizioni ontologiche
38
necessarie affinché tale nascita dell’atteso avvenga
nell’intimo di ogni essere umano, al di là ogni tempo
e luogo. Ciò è schiettamente dichiarato nelle battute
finali del sermone, nelle quali si legge:
Diu invendige geburt gote an der sêle ist ein
vorbrigunge aller irer saelicheit, und die
saelicheit vrumet ir mê, dan daz unser herre
mensche wart in unser vrowen sant Marîen lîbe
und dan daz er daz wazzer rüerte. Waz got ie
geworhte oder getete durch den menschen, daz
enhülfe im niht als umbe eine bônen, er
enwürden vereinet mit gote an einer
geistlîlichen vereinigunge, dâ got geborn
wirt in der sêle und diu sêle geborn wirt in
gote, und her umbe hât got alliu sîniu werk
geworht35.
35 Predigt 1ST n. 9, trad. it. p. 13: «La generazione
interiore di Dio nell’anima è un compimento di tutta la sua
beatitudine, e la beatitudine le giova più del fatto che nostro
Signore divenne uomo nel corpo di nostra signora santa Maria
(…). Ciò che Dio mai agì o fece attraverso l’uomo, non gli
servirebbe un fagiolo, se egli non venisse unito con Dio in
un’unione spirituale, ove Dio viene generato nell’anima e
l’anima viene generata in Dio, e a questo fine che Dio ha agito
tutte le sue azioni».
39
La pienezza della beatitudine, che è nascita di Dio
nell’anima (Diu invendige geburt gote an der sêle ist
ein vorbrigunge aller irer saelicheit), è più utile
(vrumet ir mê) del fatto che il Signore si incarnò
nel corpo di Maria (dan daz unser herre mensche wart
in unser vrowen sant Marîen libe). In Eckhart
l’aspetto storico dell’Incarnazione sembrerebbe non
aver senso se l’anima - ogni anima - non si unisce
spiritualmente con Dio (enwürden vereinet mit gote an
einer geistlîlichen vereinigunge). Ciò che Dio,
infatti, fece e operò per e attraverso l’uomo (waz got
ie geworhte oder getete durch den menschen) non è per
nulla di aiuto (daz enhülfe im niht als umbe eine
bônen), non serve a nulla, in termini di salvezza, se
l’uomo non permette a Dio e all’anima di generare se
stessi l’uno nell’altro (dâ got geborn wirt in der
sêle und diu sêle geborn wirt in gote).
L’indissolubilità del nesso di causalità ontologica
tra la generazione divina dell’anima e la sua
beatitudine è tale, che lo stesso Gesù Cristo,
guardato nella sola dimensione corporea, non può
essere beato come colui che, invece, si scopre luogo
della nascita di Dio. Egli afferma infatti:
Diu allergoeste saelicheit ist daz, daz got
geborn und geoffenbâret wirt in der sêle an
40
einer geistlîchen einunge. Dâ von wirt diu
sêle saeliger dan der lîp unsers herren Jêsû
Kristî âne sîne sêle und âne sîne gotheit,
wan ein ieglichiu saeligiu sêle ist edeler
dan der toetlîche lîp unsers herren Jêsû
Kristî36.
Lo stesso Cristo non può essere beato se non nella
sua integralità di corpo, anima umana e divinità. Il
corpo dell’uomo Gesù considerato senza la sua anima e
la sua divinità, se fosse privo della sua unione con
Dio, sarebbe, pertanto, meno nobile di una qualunque
altra anima umana capace di determinare pienamente se
stessa nella generazione spirituale di Dio. Ma in che
modo è possibile avverare questa generazione divina
nell’anima di un essere umano? Nella predica 1 è
detto che condizione necessaria affinché ciò avvenga
è riconoscere di essere lontani da Dio, collocati
nell’agostiniana ‘regione della dissomiglianza’:
36 Predigt 1ST n. 8, trad. it. p. 13: «La massima
beatitudine è che Dio viene generato e rivelato nell’anima in
una unione spirituale. Da ciò l’anima diviene più beata del
corpo di nostro signore Gesù Cristo senza la sua anima e la sua
Deità, perché ogni anima beata è più nobile del corpo mortale di
nostro signore Gesù Cristo».
41
(…) ist der mensche verre von gote. Dar umbe
ist im daz himelrîche als ein verre vremde
lant (…). Sant Agustînus sprichet (…) dô er
noch unbekêret was, daz ‘er sich verre vant
von gote in einem vremden lande der
unglîcheit’37.
Il passo citato di sant’Agostino, come segnala
l’edizione di Sturlese38, è tratto dal libro VII di
Confessionum libri, nel quale è detto:
(…) intravi in intima mea (…) et vidi
qualicumque oculo animae meae (…) supra
mentem meam lucem incommutabilem (…). Nec ita
erat supra mentem meam, sicut oleum super
aquam nec sicut caelum super terram, sed
superior, quia ipsa fecit me (…). Et cum te
primum cognovi, tu assumpsisti me (…) et
inveni longe me esse a te in regione
dissimilitudinis, tamquam audirem vocem tuam
de excelso: Cibus sum grandium: cresce et37 Predigt 1ST n. 3, trad. it. p. 7: « (…) è l’uomo lontano
da Dio. Di conseguenza il regno dei cieli è in lui come una
lontana terra straniera. (…). Sant’Agostino dice (…) quando non
era ancora convertito, che ‘egli si trovò lontano da Dio in una
regione straniera della dissomiglianza’ ». 38 Cfr. Predigt 1ST, nota 3, p. 7.
42
manducabis me. Nec tu me in te mutabis sicut
cibum carnis tuae, sed tu mutaberis in me39.
Il vescovo di Ippona scopriva la propria lontananza
da Dio, e dunque la propria differenza dal Creatore,
nel momento in cui, ri-entrando in se stesso, ovvero
nell’interiorità di sé (intravi in intima mea), vede
una luce immutabile (lucem incommutabilem), a lui
superiore, perché di lui creatrice (superior, quia
ipsa fecit me). Solo dopo aver capito ciò,
nell’attimo in cui Dio lo eleva a sé, o più
esattamente, lo assume verso sé, Agostino comprende
di essere lontano da lui, nella regione della
dissimilitudine (tu assumpsisti me (…) et inveni
longe me esse a te in regione dissimilitudinis). In
tale passo sembrerebbe delinearsi, pertanto, secondo
alcuni studiosi dell’Ipponense, un percorso
prevalentemente gnoseologico, che delinea la regio
dissimilitudinis come dimensione di ciò che è dissimile da
Dio, dalla quale bisogna affrancarsi, se si vuole
cogliere di Dio in sé, nella sua verità immutabile.
Nelle Confessiones, scrive Armando Bisogno, si esprime
(il) bisogno naturale (…) dell’uomo di
tendere a una verità che superi la parzialità39 AUGUSTINUS, Confessiones, VII, c. 10, n. 16.
43
delle singole percezioni della realtà. (…)
Agostino (è in grado di) comprendere che,
(…) speculativamente, l’ostacolo che
mortifica (…) (il) quaerere è l’incapacità di
svincolarsi dal sensibile per giungere a
quella intuizione del vero che può
realizzarsi solo quando l’occhio riesce a
sollevarsi dall’orizzonte dell’immanenza40.
Tensione e necessità di superamento dell’orizzonte
fenomenico, in virtù della quale la conoscenza
intuitiva è al di là della molteplicità contingente,
come «unità semplice, vera e certa (di) conoscenze
acquisite nelle varie discipline»41. Anche in Eckhart
l’immagine della regio dissimilitudinis indica la condizione
dell’uomo ‘esteriore’ calato, e in qualche modo
disperso, nella realtà del molteplice e, dunque,
l’esigenza di alzarsi spiritualmente e
intellettivamente da questa per comprendere ‘ciò che
Dio realmente è’. Va precisato, tuttavia, che nel
frate domenicano, l’unità della conoscenza non è il
risultato congiunto delle relative e specifiche
discipline, ma è un atto di istantanea e unica
40 A. BISOGNO, Il De magistro di Agostino. Introduzione, testo, traduzione e
commento, Città Nuova, Roma 2015, p. 15 e 19.41 Ivi, p. 48.
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intuizione intellettiva. In Eckhart tale esigenza
speculativa di elevazione dell’intelletto umano oltre
i limiti fenomenici - naturali si attua, come abbiamo
visto, superando la teoria albertina
dell’acquisizione graduale del sapere scientifico. La
generazione di Dio nell’anima, dunque, è un
intuizione dello spirito, che riscopre
intellettivamente il divino. Al riguardo nella
predica pasquale Si consurrexistis cum Christo è detto:
Nû sprichet sant Paulus: ‘sît ir ûfstanden mit
Kristô, sô suochet diu dinc, diu oben sint’.
(…). Etlîche liute die erstânt halbe, sie ûebent
sich an einer tugent und niht an der andern (…)
enahtent niht guotes, aben sie wellent êre
haben. (…). Etlîche liute erstânt alzemâle, sie
erstânt aber niht mit Kristô. Dar umbe, swaz sîn
ist, daz sol alzêmale ûfstân. (…) vinden man
etlîche liute, die erstânt zemâle ûf mit Kristô;
aber er muoz vil wîse sîn, der dâ prüeven sol
ein wâr ûferstân mit Kristô. Die meister
sprechent, ez sî warîu urstende, der niht wider
enstirbet. Ez enist niergen kein tugent sô grôz,
man envinde liute, die sie von natiurlîcher
kraft hânt gewürket, wan zeichen und wunder
würket dicke natiurlîch kraft; wan alliu diu
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ûzer werk, diu man ie vant an den heiligen, diu
hât man ouch vunfen an den heidenen. Dar umbe
sprichet er: ‘ir sult ûferstân mit Kristô’ wan
er ist enoben, (…). Swaz unser ist, daz sol
alzemâle ûferstân. (…). Swer alzemâle ist
ûferstânden mit Kristô, des ist ein zeichen, ob
er got obe zît suochet. Der suchet got obe zît,
der dâ suochet sunder zît. Nû sprichet er:
‘suochet diu dinc, diu oben sint’. Wâ suochet
man? ‘Dâ Kristus gesezzen ist ze der rehten hant
sînes vater’. Wâ sitzet Kristus? Er ensitzet
niergen. Der in iergen suochet, envindet sîn
niht42.
42 Predigt 33ST n. 3, trad. it. p. 13, (DW IV, 35): «Ora
dice san Paolo: ‘se siete risorti con Cristo, cercate le cose
che sono in alto’. (…). Alcune persone risorgono a metà, si
esercitano in una virtù e non nelle altre (…) sono nobili di
natura e non prendono in considerazione nulla dei beni, ma
vogliono l’onore (…). Alcune persone risorgono completamente, ma
non risorgono con Cristo. Perciò quello che è proprio di
qualcuno deve risorgere completamente. (…) si trovano certe
persone che risorgono completamente con Cristo; ma dev’essere
molto sapiente, colui che deve mostrare un vero risorgere con
Cristo. I sapienti dicono che vera resurrezione è quando non si
muore di nuovo. Non c’è da nessuna parte una virtù tanto grande
che non si trovino persone che non l’hanno operata con virtù
naturale, perché la virtù naturale agisce spesso con segni e
prodigi; infatti tutte le azioni esteriori che mai si trovarono
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Sebbene l’esercizio naturale delle virtù elevi
l’uomo, questi non realizza, pienamente se stesso, la
propria divina natura, fintanto che non risorge
completamente con Cristo. La risurrezione con Cristo
non è, pertanto, né un discernimento morale, né un
percorso di acquisizione delle virtù, ma è intelligere
Dio al di là del divenire fenomenico, in quanto in
ogni tempo vi sono stati uomini capaci, con le loro
opere, di distinguersi e manifestare la propria bontà
sul piano meramente morale. Segno della resurrezione
dell’uomo, non è, inoltre, compiere miracoli, ma
l’essere capace di una conoscenza sovracategoriale.
Per il domenicano, l’elevazione dalla regio
dissimilitudinis, e, dunque, la risurrezione dell’anima
umana, risiede nell’abbandono delle categorie
creaturali di spazio e di tempo, che vincolano
l’intelletto a ciò che non è. Solo così, viene a
delinearsi il profilo dell’uomo nobile, ovvero di
nei santi, si sono trovate anche nei pagani. Egli dice: ‘Dovete
risorgere con Cristo’, perché egli è in alto (…). Un segno di
chi è completamente risorto con Cristo è se egli cerca Dio al di
sopra del tempo. Chi cerca Dio al di sopra del tempo lo cerca là
senza tempo. Ora egli dice: ‘cercate le cose che sono in alto’.
Dove si cerca? ‘Ove Cristo è seduto alla destra di suo padre.
Dove siede Cristo? Egli non siede in nessun luogo. Chi lo cerca
in un luogo non lo trova».
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colui che raggiunge la beatitudine. Chi vuole,
pertanto, riscoprire la vera essenza della propria
natura non può non risorgere, ossia non elevarsi
dalle apparenze fenomeniche che si danno nelle
accidentalità di tempo e spazio. Alla luce di ciò,
chiaro sembrerebbe essere il senso delle parole di
Eckhart quando parla di disfacimento dell’uomo:
Ez ist wunderlich: und ist, daz sich der mensche
entuon sol, in dem daz er sich entoun, sô întuot
er kristum und heilicheit und saelicheit und ist
sere grôz. (…). Einez ist in der sêle, in dem
got blôz ist, und die meister sprechent, ez sî
namelôs, und ez enhabe keinen eigenen namen. Ez
ist und hât doch kein eigen wesen, wan ez ist
noch diz noch daz noch hie noch dâ (…). (…) hie
inne nimet diu sêle allez ir leben und wesen
(…), wan diz ist zemâle in gote (…) und dar umbe
ist diu sêle alle zît in gote nâch disem (…).
Ich spriche, daz got êwichliche âne ubderlâz in
disem gewesen ist, und in disem der mensche mit
gote ein ze sînne, dâ behoert gnâde niht zuo,
wan gnâde ist crêatûre, und dâ enhât kein
creature ze tuonne; wan in dem grunde götliches
wesen (…) dâ ist si ein nâch dem grunde. (…) und
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alsô bin ich waerliche der einige sun und
Kristus43.
Solo nell’intimo più profondo dell’anima, laddove non
c’è né tempo, né luogo, né divenire, vi è la vera
natura umana, ovvero la sua totale appartenenza a
Dio, il suo essere totalmente divina, il suo non
essere diverso da Cristo. Lì nel fondo più profondo
dell’anima, l’uomo, che abbandona la propria
dimensione creaturale, si scopre in intimità assoluta
con il Figlio fino a esserne identificato: là,
afferma Eckhart, io sono l’unico Figlio e Cristo (bin
ich waerliche der einige sun und Kristus). Riscoprire
43 Predigt 2ST n. , trad. it. p. 13, (DW IV, 35Q): «È
straordinario: se l’uomo deve disfarsi, nel momento in cu egli
si disfa, egli assume Cristo e santità e beatitudine; ed è assai
grande. (…). C’è qualcosa nell’anima, nel quale Dio è nudamente,
e i maestri dicono che questo è innominato, e non ha un nome
proprio. Questo è, tuttavia non ha alcuna sostanza propria,
perché non ha né questo né quello né qui né là (…). (…) qui
dentro l’anima prende tutta la sua vita e la sua sostanza (…),
perché questo è completamente Dio (…) e perciò l’anima è sempre
in Dio secondo questo (…). Io dico, che Dio eternamente
ininterrottamente è stato in questo; e con il fatto che in
questo l’uomo è uno con Dio, non c’entra la grazia, perché la
grazia è una creatura, e là non ha a che fare nessuna creatura;
perché nel fondo della sostanza divina (…) là essa è uno con
Dio. (…) e dunque io sono veramente il Figlio e Cristo».
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ciò è il senso del vivere umano, il quale si avvera
rientrando in se stessi e riscoprendo quella parte
nascosta dell’anima che nessun nome può definire44
(die meister sprechent, ez sî namelôs, und ez enhabe
keinen eigenen namen). Questa è la vera e unica
sostanza dell’uomo, in quanto essa prende il proprio
essere e la propria vita direttamente da Dio (Ez ist
(…) hie inne nimet diu sêle alez ir leben und wesen
(…), wan diz ist zemâle in gote). Solo disfacendosi
di se stessi riconoscendo la propria condizione
fenomenica, che il Maestro, nella predica 1, chiama
miseria (jâmerkeit), è possibile comprendere non solo
le verità divine oltre le apparenti realtà
contingenti, ma al contempo capire il rapporto
ontologico che l’essere creaturale ha con la
dimensione non increaturale di Dio.
La cristologia eckhartiana è, dunque, è
possibilità degli uomini di ogni tempo di essere
sommamente beati nell’essere uno con Dio, nel loro
autodeterminarsi essi stessi ‘dei Cristo’, ovvero di
natura umana (la dimensione temporale della
corporeità) e divina (la dimensione spirituale
dell’anima). La cristologia eckhartiana è, dunque, un
44 F. RETUCCI, “Her ûf sprichet ein heidenischer meister in dem buoche, daz
dâ heizet daz lieht der liehte”: Eckhart, il Liber de causis e Proclo in «Studi sulle
fonti di Meister Eckhart», I p. 138.