Eckhart’s Latin Works, in: A Companion to Meister Eckhart, ed. by J. Hackett, Leuven, Brill...

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1 Capitolo II Breve excursus: le immagini cristologiche medievali. Il seguente progetto di ricerca cerca di definire la figura del Cristo e dunque, il concetto d’Incarnazione, negli scritti di Eckhart. Si vuole indagare, pertanto, se sia possibile parlare di una specifica cristologia eckhartiana. A tal fine non sarà inutile soffermarci sulle diverse immagini di Cristo sviluppate in alcune principali cristologie medievali, attraverso le quali si è sviluppata una visione non univoca della mediazione 1 del Verbo incarnato per la salvezza dell’uomo. Il dibattito sull’identità della persona di Cristo è stato sempre molto acceso. Il kerygma apostolico di Gesù nazareno Signore e Messia, morto e risorto per la salvezza dell’uomo, e dunque il suo essere contemporaneamente vero Dio e vero uomo, 1 Per un maggior approfondimento del concetto di mediazione nell’economia della salvezza operata da Cristo si rimanda al seguente studio: M. BORDONI, L’universalità della salvezza in Cristo e le mediazioni partecipate in Path, II, 2003, pp. 375-399.

Transcript of Eckhart’s Latin Works, in: A Companion to Meister Eckhart, ed. by J. Hackett, Leuven, Brill...

1

Capitolo II

Breve excursus: le immagini cristologiche medievali.

Il seguente progetto di ricerca cerca di

definire la figura del Cristo e dunque, il concetto

d’Incarnazione, negli scritti di Eckhart. Si vuole

indagare, pertanto, se sia possibile parlare di una

specifica cristologia eckhartiana. A tal fine non

sarà inutile soffermarci sulle diverse immagini di

Cristo sviluppate in alcune principali cristologie

medievali, attraverso le quali si è sviluppata una

visione non univoca della mediazione1 del Verbo

incarnato per la salvezza dell’uomo.

Il dibattito sull’identità della persona di

Cristo è stato sempre molto acceso. Il kerygma

apostolico di Gesù nazareno Signore e Messia, morto e

risorto per la salvezza dell’uomo, e dunque il suo

essere contemporaneamente vero Dio e vero uomo,

1 Per un maggior approfondimento del concetto di

mediazione nell’economia della salvezza operata da Cristo si

rimanda al seguente studio: M. BORDONI, L’universalità della salvezza in

Cristo e le mediazioni partecipate in Path, II, 2003, pp. 375-399.

2

verrà, infatti, solo dopo forti contrapposizioni,

definitivamente fissato dal IV concilio di Calcedonia

(451)2, con il dogma cristologico della doppia natura

umana e divina di Cristo nell’unità della sua

persona. Espressione di tale confronto è la crisi

cristologica del V secolo, che vede scontrarsi le

posizioni teologiche di Eutiche e Nestorio: se il

primo afferma, infatti, l’unicità della persona e

della natura di Cristo, cosicché la sua umanità sia

totalmente assorbita nella sua divinità; l’altro, di

contro, per salvaguardare l’umanità di Gesù rispetto

alla sua divinità, giunge a formulare in Cristo la

compresenza di due persone e due nature.

L’interpretazioni eutichiana e nestoriana sono

l’esasperazione del confronto tra le due scuole

teologiche di Alessandria e Antiochia. Se la Chiesa

di Alessandria sottolineava, infatti, l’unità quasi

2 Per una’analisi più dettagliata del Concilio di

Calcedonia e del dogma cristologico sulle due nature di Cristo

nella singolarità della sua persona si rimanda ai seguenti

studi: A. COZZI, Conoscere Gesù nella fede. Una Cristologia, Cittadella,

Assisi 2007; W. KASPER, Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia 2004; G.

O’COLLINS, Cristologia. Uno studio biblico, storico e sistematico su Gesù Cristo,

Queriniana, Brescia 1999; A. GRILLMEIER, Gesù il Cristo nella fede della

Chiesa. Dall’età apostolica al concilio di Calcedonia (451), I, Paideia, Brescia

1982; ID., Gesù il Cristo nella fede della Chiesa. La ricezione del concilio di

Calcedonia (451-518), II, Paideia, Brescia 1996;

3

indistinta delle due nature nell’atto in cui in Verbo

si fa carne e, dunque, tende a esaltare la divinità

di Cristo; la Chiesa di Antiochia, viceversa,

rimarcando la dimensione antropologia

dell’Incarnazione, tendeva a evidenziare l’umanità di

Gesù3.

Da tali differenti sensibilità teologiche si

originano due specifici linguaggi cristologici: il

primo, più caro alla Chiesa latina e più consapevole

della dualità naturale nella singolarità personale

del Cristo, è più attento a descrivere il suo aspetto

umano; il secondo, invece, caratteristico della

Chiesa greca, tende a esaltarne la dimensione

intratrinitaria. Così, se il cristianesimo greco4

sviluppa in particolar modo l’immagine divina del

Cristo, incarnatosi per deificare l’uomo, il

3 Cfr. B. SESBOÜÉ, Cristologia e Soteriologia. Efeso e Calcedonia (secoli IV

e V), in B. SESBOÜÉ - J. WOLINSKI, STORIA DEI DOGMI. IL DIO DELLA

SALVEZZA, I-VIII SECOLO. Dio, la Trinità, il Cristo, l’economia della salvezza, I,

Piemme, Asti 1996, pp. 336-337.4 Per uno studio più dettagliato della teologia greco -

bizantina e del tema dell’esaltazione della natura divina di

Cristo si rimanda ai seguenti lavori: P. BERNARDI, Il Logos teandrico.

La “cristologia asimmetrica” nella teologia bizantino - ortodossa, Città Nuova,

Roma 2013; V. LOSSKIJ, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, EDB,

Bologna 2000; P. EVDOKÏMOV, L’Ortodossia, EDB, Bologna 2010; J.

MEYENDORFF, Cristologia ortodossa, AVE, Roma 1974.

4

cristianesimo latino, a tale raffigurazione, affianca

l’immagine del Redentore sofferente. Per la

tradizione teologica greca:

Il Cristo è (…) il Verbo incarnatosi che dà

all’umanità la vita divina, che ne rende

partecipe l’uomo che lo desidera. La parola

chiave di questa cristologia è divinizzazione,

deificatio (…): la vita divina che unisce uomo e

Dio (…). Cristo è innanzitutto il rivelatore di

Dio, che del Padre ha lo stesso splendore, la

stessa potenza (…). Solo in questa prospettiva è

considerato il sacrificio di Cristo (…), la

sofferenza è presente in Dio, ma non arriva a

toccare la sua inalterabilità (…), la sua

radicale impassibilità5.

La sofferenza del Cristo-uomo è, dunque, nella

teologia dei padri greci, stemperata dalla volontà di

cogliere nel senso ultimo della Rivelazione, la

possibilità da parte dell’uomo di divenire, in

Cristo-Dio, egli stesso divino. Nella deificazione,

accessibile e realizzabile ‘in via’ e non solo in un

5 C. LEONARDI (a cura di), Il Cristo. Testi teologici e spirituali in lingua

latina da Agostino ad Anselmo di Canterbury, vol. III, Mondadori, Milano

2006, pp. xv-xvi.

5

lontano e atemporale futuro escatologico, l’uomo

realizza, pertanto, il senso della propria creazione,

e della missione del Verbo incarnato6. Per i padri

della chiesa latina è centrale, invece, il tema della

salvezza operata dal Cristo, in virtù del suo essere

Dio fatto uomo. Essi sono interessati, infatti, non

tanto alla definizione ontologica del ‘Cristo in sé’,

ma quella soteriologica7 del ‘Cristo per l’uomo’8. Ed

è in tale direzione che i padri latini orientano la

propria riflessione, ovvero ponendo al centro

l’umanità di Cristo, in virtù della quale egli è

unico mediatore e salvatore. Tale dimensione

soteriologica della cristologia latina è resa dalla

figura del Cristo ‘Agnello immolato’ obbediente al

volere del Padre. Così, se la parola chiave di tale6 Cfr. J. MEYENDORFF, La teologia bizantina. Sviluppi e temi dottrinali,

Lampi di stampa, Milano 1999, p. 260; cfr. M. GRONCHI, Trattato su

Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, Queriniana, Brescia 2008, p. 575.7 Per un’attenta analisi del tema della soteriologia dei

padri della Chiesa si rimanda ai seguenti studi: B. STUDER, Il

linguaggio metaforico della soteriologia patristica, in Pagani e cristiani alla ricerca

della salvezza (secoli I-III). XXXIV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Roma

5-7 maggio 2005, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma

2006, pp. 255-261; ID. Dio Salvatore nei padri della chiesa. Trinità, cristologia,

soteriologia, Borla, Roma 2000.8 L. LONGOBARDO, Immagini di salvezza nei primi autori cristiani, in A.

Terracciano (a cura di), Attese e figure di salvezza oggi, PFTIM, Napoli

2009, p. 183.

6

universo cristologico è redemptio, la sua immagine è

quella del Cristo crocifisso e sofferente, la quale,

come evidenzia C. Leonardi, confluirà, attraverso

Agostino e la sua visione del peccato, nella

riflessione medievale successiva:

Questa posizione cristologica si trasmette

insieme al magistero di Agostino (…). Si immette

(…) in tutta la tradizione dell’Occidente (…) la

sua concezione del peccato. (…). Il racconto

della Genesi, sul peccato dei progenitori, viene

letto come il documento di una perdita

irreparabile: l’uomo ha rotto per sempre la

comunicazione con Dio e non è in grado di

ricostruirla. (…). È il tema della salvezza

dell’uomo peccatore che viene particolarmente

sottolineato (…). La teologia (…) mette dunque

l’accento (…) sulla liberazione dell’uomo più

che sulla sua divinizzazione, su Cristo

salvatore più che su Cristo deificatore. (…).

Questa scelta è all’origine di quella che sarà

più tardi, nel pieno Medioevo, la figura

cristica egemone, quella del Cristo crocifisso,

in cui (…) l’umanità del Dio incarnato

costituisce il centro della riflessione

7

teologica (…): un uomo sofferente e morente

rivela il volto divino9.

Il Figlio di Dio è, e sarà ancora, il logos del Padre,

colui per mezzo del quale e in vista del quale sono

create tutte le cose, tuttavia, l’accento è posto

sull’effetto salvifico e restauratore della sua

incarnazione. La stessa dimensione ontologica intorno

alla possibilità della coesistenza delle due nature

nell’unica persona non è mai slegata dal suo

riferimento soteriologico e, dunque, dall’immagine di

Cristo redentore sofferente. Con ciò non si vuole

affermare che il termine deificatio sia assente nel

pensiero medievale latino. Due grandi tradizioni

cristiche attraversano, infatti, il Medioevo latino,

quella della theosis e dell’amartia, le quali,

accentuano, di volta in volta, l’uno o l’altro senso

della missione salvifica operata dal Cristo. È da

tale tensione speculativa che si originano le diverse

rappresentazioni del Cristo medievale, le quali

tentano di coniugare il paradosso filosofico-

teologico della compresenza delle due nature

nell’unità della persona del Verbo incarnato. Esse

sono, dunque, espressione della costituzione

ontologica e soteriologica del Cristo e quindi del9 C. LEONARDI (a cura di), Il Cristo, pp. xvii-xix.

8

suo essere Verbum in se e Verbum pro nobis. Sullo sfondo

della sua identità intra-ed extratrinitaria si

tratteggiano, infatti, molteplici e differenti

raffigurazioni cristiche, le quali descrivono, in

maniera e misura diversa, l’umanità (dimensione

soteriologica) e l’identità (dimensione ontologica)

del Figlio di Dio. Così, se le immagini

soteriologiche, approfondendo il tema del Cristo

‘nuovo Adamo’, descrivono il Figlio di Dio come amico

e medico, signore e giudice dell’umanità, incarnatosi

per liberare e guarire l’uomo dalla malattia del

peccato; quelle ontologiche delineano la figura del

‘Cristo preesistente’, creatore e deificatore

dell’uomo, fondamento e fine oggettivo del mondo. La

riflessione medievale, attraverso tali immagini,

sottolineerà dunque il suo essere fondata sul Dio di

Gesù Cristo, il quale è «struttura stessa

dell’incontro del cristiano con Dio che si qualifica

cristologicamente»10.

Il tema della deificazione umana, già presente

in età carolingia11, svolgerà in ambito domenicano,10 Cristocentrismo, in G. BARBAGLIO - S. DIANICH (a cura di),

Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi)

1988, p. 211.11 In questo periodo, la riflessione cristologica di

Giovanni Scoto Eriugena, la quale, non manca di confrontarsi con

autori della tradizione greca quali Ps-Dionigi Areopagita,

9

attraverso la riflessione cristologica di Eckhart, un

ruolo centrale. Come vedremo, la cristologia

eckhartiana non sarà, infatti, un’argomentazione

sulla necessità razionale o meno della persona di

Cristo di coniugare ipostaticamente le due nature,

umana e divina, nell’unicità soggettiva della sua

persona. Ciò è accaduto nel dodicesimo secolo in

diversi autori, i quali, da Anselmo d’Aosta in poi,

hanno cercato le ragioni del mistero ipostatico

Origene, Gregorio di Nazianzo, Basilio di Cesarea, Massimo il

Confessore, vede in Cristo l’unico capace di restituire all’uomo

l’originaria divinità pre-lapsaria. Adamo con il suo peccare ha

indebolito l’intelletto creaturale, che, non riuscendo a

contemplare le verità in sé, è condannato a vivere nei limiti e

nelle ambiguità della conoscenza naturale delle cose. Solo

Cristo, assumendo la natura umana, e dunque deificandola, riesce

a riorientare lo sguardo dell’intelletto creaturale e dirigerlo

verso le verità eterne di Dio. L'uomo divinizzato è, infatti,

colui che riacquista l’originaria capacità di comprendere il

Verbo divino in sé, nel suo puro manifestarsi. Egli è colui che,

superando le immagine imperfette dell’intelletto creaturale,

riscopre le vera essenza delle cose nell’Intelletto divino.

Nella riflessione eurigeniana, Cristo è, al contempo, l’immagine

del Redentore sofferente e deificatore, Agnello immolato e

Modello originario. In tal senso la sua cristologia cerca una

strada comune tra la tradizione teologica greca e quella latina.

Cfr. G. D’ONOFRIO, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma

2011, pp. 127 e 140-142; cfr. M. GRONCHI, Trattato su Gesù Cristo, pp.

583-584; C. LEONARDI (a cura di), Il Cristo, pp. 379.

10

dell’Incarnazione di Dio. Nel predicatore tedesco,

tale assunto cristologico èe dato per acquisito. P,

pertanto, come cercheremo di evidenziare, non si

tratterà di una cristologia dell’ipostasi, ma di una

cristologia della ‘nascita sempre presente’ del

Figlio di Dio nell’anima dell’uomo nobile, ossia di

colui che con specifiche qualità noetiche e a

determinate condizioni, saprà causare l’Incarnazione

cristica in sé, o meglio nel fondo della propria

anima.

Prima di Eckhart, dunque, la percezione del

tempo come Historia salutis e l’immagine del Cristo uomo-

crocifisso e Dio-redentore, passibile nella ipostasi

personale della pienezza ontologica degli attributi

umani e di quelli divini, trovano la loro

sistematizzazione razionale e il loro approfondimento

scritturale nel dodicesimo secolo. In quegli anni,

infatti, se, da un lato, la Cristianità latina

percepisce se stessa come umanità bisognosa di

perdono, dall’altro, è maggiormente stimolata,

dall’incontro con le altre religioni del Libro, a

legittimare filosoficamente le proprie categorie

cristologiche. I teologi medievali sentirono la

necessità di comprendere e legittimare razionalmente

i principi dogmatici della religione cristiana. Così,

se da un lato cercarono di dimostrare la razionalità

11

e i modi di realizzabilità ontologica dell’unione

ipostatica,; dall’altro lato, proprio in virtù di

tale congiunzione ontologica, sottolinearono del

Cristo il suo essere unico mediatore di salvezza. Dal

confronto con il Giudaismo e l’Islam, i filosofi

medievali vengono, dunque, esortati a dimostrare,

contro ogni fideismo, il valore scientifico delle

loro convinzioni teologico-dottrinali12.

12 Cfr. P. DE FEO, Il Cristo delle scuole. Il dibattito cristologico nella

prima metà del secolo XII, Città Nuova, Roma 2012, p. 336; I. BIFFI,

Figure medievali della Teologia. La costituzione della Teologia medievale, Jaka

Book, Foligno (Pg) 2008, p. 445-447; ID., La filosofia monastica: «saper

Gesù», Jaka Book, Milano 2008, pp. 42- 43; M. D. CHENU, La teologia

nel dodicesimo secolo, Jaka book, Milano 1992, pp. 215-216.

12

La cristologia di Eckhart

L’intento di Eckhart è di assumere come dato di

fatto il dogma ipostatico e da qui procedere a una

riflessione ulteriore. Nel prologo all’Opus

Propositionum è, infatti, detto:

<LW6:051> ◊19◊ (…) in homine assumpto a verbo

concedimus unicum esse personale hypostaticum

ipsius verbi, et nihilominus Christus vere fuit

homo univoce cum aliis ho minibus.

Nell’assunzione della natura umana da parte del

Verbo, ovvero della seconda persona della Trinità, la

natura umana non è svilita, ma è mantenuta nella sua

13

specifica umanità. L’umanità del Verbo è in seguito

avvalorata attraverso l’interpretazione della

pericope evangelica Gv 11, 33, in cui si narra delle

lacrime del Nazareno dinanzi al sepolcro dell’amico

Lazzaro, è detto che Cristo turbò se stesso. Eckhart

interpreta tale avvenimento per rivalutare le

passioni, distinguendole dai vizi in virtù della loro

ragionevolezza. L’uomo virtuoso è colui che non

subisce le passioni, ma le esercita per uno scopo più

grande, egli è tale nella misura in cui non dominato

dai sensi, si serve e controlla le passioni mediante

l’intelletto:

<LW6:259> ◊228◊ Augustinus hoc inducit hic in

Libro quaestionum et l. IX De civitate dei et

ponitur hic in Glossa. Sed communiter diminute

et corrupte in Glossa invenitur propter vitium

scriptorum.# Rursus autem Augustinus eodem libro

IX De civitate dei sic ait: »Stoicis« »non

placet« »passiones cadere« in sapientem,

Peripatetici »has« »in sapientem cadere«

»dicunt«, »sed moderatas rationique subiectas«,

sicut cum »ita praebetur misericordia, ut

iustitia conservetur«. »In disciplina«

christiana »non tamen quaeritur utrum pius

animus irascatur« aut tristetur, »sed unde«.#

14

Notandum ergo quod, dum passio praevenit et

movet rationem, vitium est, utpote contra

ordinem naturae, inferius movet suum superius.

Quando vero ratio praevenit et dictat motum

passionis, virtus est. Unde signanter dicitur

Ioh. de Christo quod 'turbavit semet ipsum.

Così, di contro, coloro che subordinano lo scopo più

grande, ovvero il sommo bene, al particolare e,

dunque, al proprio diletto, sono servi dell’animale

bruto che è in essi, in quanto l’intelletto non

governa i sensi, ma ne è da essi oscurato. I sensi,

afferma il domenicano, se non gestiti sono come la

‘serva portinaia’ che provoca il tradimento di Pietro

(qui simbolo dell’intelletto), ovvero sono coloro che

sviano la retta consapevolezza delle cose. Colui che

è traviato dalla ‘serva portinaia’ permette ai sensi

di offuscare la propria ragione e, pertanto, egli è,

in tal senso, l’uomo vecchio che deve far spazio al

nuovo, attraverso la rescissione dei sensi:

LW6:269> ◊240◊ (…) in talibus intellectus

servit sensui, homo bruto animali (…) Et

notandum quod totum (…) pulchre valde parabolice

plene et pertinenter exponitur de homine malo,

in quo ratio et intellectus non dominatur

15

concupiscentiae sensuali, sed ipsa e converso

dominatur rationi. Haec est ancilla ostiaria,

quae »Petrum«, id est »agnoscentem«, rationem

scilicet, facit negare Christum, de qua

loquuntur omnes evangelistae. ◊245◊ Posset etiam

dici quod inimicus homo est vetus homo, exterior

homo et sensitivum (…). Sicut enim ratio tenet

arcem in bonis humanis, sic sensitivum, pars

inferior animae, radix est et arcem tenet in

malis. Superfluum est, quia praeter esse est,

extra sufficiens est, ut dictum est supra,

circumcidendum est.

Attraverso la ‘circoncisione’ dell’attività dei

sensi, l’uomo riscopre la vera immagine di Dio

nell’uomo, ovvero il Cristo in sé. Tale immagine

cristologica della rivelazione del Figlio all’uomo è,

dunque, la cristificazione dell’uomo, la quale si

avvera nel momento in cui l’uomo si libera

dell’involucro delle immagini esteriori. Colui che

vuole conformarsi alla verità divina e divenire

immagine di Cristo deve lasciar cadere il velo delle

cose inferiori e delle realtà temporali. Ciò che deve

essere lasciato andare non è, tuttavia, un

atteggiamento o una qualità morale, ma è un

determinato modo di vedere ecomprendere le cose

16

create e quelle divine. In Eckhart, al riguardo si

parla di teoria del distacco intellettuale. Tale

teoria caratterizza tutta la speculazione eckhartiana

dai suoi inizi sino alla maturità. Essa, infatti,

evidenzia L. Sturlese, è presente anche nei primi

scritti del maestro domenicano come le Reden, che

furono composte tra il 1295 e 1298. Lo studioso, in

disaccordo con J. Quint e K. Flasch, che ritengono

tale opera un mero esempio di letteratura

devozionale, ne dimostra, viceversa, la profondità

speculativa13. Nei Discorsi, sottolinea Sturlese, vi è

una formulazione del tutto nuova dell’interpretazione

classica della dottrina delle virtù monastiche

contenuta nelle Conlationes e nella Vitas patrum di

Giovanni Cassiano. In Eckhart, al contrario

dell’autore delle vite dei Padri del deserto, manca

infatti qualsiasi riferimento alla severa graduazione

della vita spirituale. Così, se in Cassiano il

presupposto di uno spirito dal cuore puro è

l’esercizio della vita eremitica attraverso il

cammino di purificazione delle tre grandi rinunce

(abdicazione ai beni della terra, abbandono dei vizi

e sgombero delle immagini presenti per poter

13 Cfr. L. STURLESE, Eckhart, Taulero e Suso. Filosofi e mistici nella

Germania medievale, Firenze, Le lettere 2010, p. 15.

17

percepire le realtà spirituali future), diversamente

in Eckhart tutto ciò non è presente14.

Il distacco, dunque, non è, da Eckhart,

tradizionalmente visto come negazione del mondo, ma

come riscoperta intellettuale di sé stessi quale

luogo dell’inabitazione di Dio. L’uomo, infatti,

distaccandosi ritrova il divino dentro di sé, o

meglio costringe Dio a nascere in lui. Così, scrive

Sturlese, l’uomo separato «viene trasformato da Dio e

in Dio essenziato»15. L’individuo, dunque, mediante il14 Cfr. Ivi, pp. 16-17.

Per un ulteriore approfondimento sul pensiero e la

spiritualità monastica medievale si rimanda, inoltre, ai

seguenti studi: P. BESKOW, I. BIFFI, R. CASSANELLI, S. M. FIORASO. S.

M. MALASPINA, C. MARABELLI, R. SPREAFICO, C. STERCAL, M. ZANINELLI,

Estetiche Medievali, Milano, Jaca Book 2009; I. BIFFI, La filosofia

monastica: «Saper Gesù». La costituzione della teologia medievale, Milano, Jaca

Book 2008; G. PENCO, Il Monachesimo fra spiritualità e cultura, Milano, Jaca

Book 1991; G. PICASSO, Sacri canones et monastica regula. Disciplina canonica e

vita monastica nella società medievale, Milano, Vita e Pensiero 2006; K.

RUH, Geschichte der abendländischen Mystik. I. Die Grundlegung durch die

Kirchenväter und die Mönchstheologie des 12. Jahrhunderts. II. Frauenmystik und

franziskanische Mystik der Frühzeit, München, C. H. BECK 1990-1993, trad.

it. M. Fiorillo, I. Storia della Mistica Occidentale. Le basi patristiche e la

teologia monastica del XII secolo; trad. it. G. CAVALLO GUZZO e C. DE

MARCHI, II. Mistica femminile e mistica francescana delle origini, Milano, Vita e

Pensiero 1995-2002.15 L. STURLESE, Eckhart, Taulero e Suso. Filosofi e mistici nella Germania

medievale, cit., p. 17.

18

distacco si divinizza, in quanto impone a Dio di

riversarsi in lui. Così, se l’uomo educa il suo

spirito e i suoi sensi e dirige ogni attività del suo

pensiero dentro e non fuori di sé, Dio non può

negargli la sua presenza. La legge di divinizzazione

dell’uomo è, pertanto, un imperativo per Dio. Come

mostra Sturlese, essa, infatti, non mette in

relazione moralmente l’uomo e Dio, ma li vincola

metafisicamente. A uno spirito distaccato, infatti,

Dio non può dire di no, non può scegliere di fluire o

meno in lui, ma è costretto. A tale dinamica di

svuotamento e rinascita, Dio dunque non può in alcun

modo sottrarsi: egli è metafisicamente, o se si

preferisce, ontologicamente obbligato. Di necessità

(von nôt) scrive Meister Eckhart nelle sue Reden16.

Per metafora potremmo dire che Dio e l’uomo sono come

due vasi comunicanti e la loro rispettiva divinità e

umanità è il liquido che essi contengono. Se l’uomo

si svuota del proprio, ossia delle volizioni

creaturali dell’io, la divinità non può far altro che

fluire nel contenitore ormai vuoto e riempirlo al

pari del primo dal quale fluisce.

Il pensiero, dunque, è il luogo della

divinizzazione, perché, come Dio, è l’indefinibile

principio al di là dell’essere. Al riguardo, nelle16 Cfr. Ivi, p. 18.

19

Questioni parigine Eckhart non identifica mai l’essere

(esse) con il pensiero (intellectus). Cosi, per il

Maestro, se l’essere è il principio per il quale le

cose sono categorialmente determinate, al contrario,

il pensiero è la negazione di tale determinabilità.

Esso è qualcosa che, al pari di Dio, è non creato.

Tale formulazione eckhartiana del pensiero in sé è,

evidenzia Sturlese, il superamento della distinzione,

operata da Alberto Magno e Dietrich di Freiberg, tra

il pensiero umano individuale, creato e immanente

(virtus animae razionalis), e il pensiero divino

sovraindividuale, increato e trascendente

(intellectum in quantum intellectus). Eckhart,

dunque, colma lo iato tra le due diverse forme di

pensiero e ne definisce la loro identità17.

In tal identità, l’uomo apprende di essere

qualcosa d’altro che un semplice intelletto capace di

comprendere le verità divine, ma di essere esso

stesso parte di quelle verità. Ecco, dunque, la

svolta antropologica di Eckhart rispetto all’idea

dell’intellectus adeptus di Alberto Magno. Con questa

dottrina, scrive Sturlese, «Eckhart si colloca nella

tradizione domenicana del primato dell’intelletto

17 Ivi, pp. 22-23.

20

[…]. Ma si tratta di ben più di una presa di

posizione in favore dell’intellettualismo»18.

Chiaro, dunque, perchè quando il predicatore

domenicano parla di ‘circoncisione dei sensi’, non

possiamo ridurre tutto a un ordine di tipo morale. A

non far ciò ci aiuta anche un passo dei sermoni

tedeschi, che ci illustra meglio ciò che Eckhart

intende per ‘circoncisione dei sensi’:

DW I, 5-15. Diu sêle hât zwei ougen, einz inwendic

und einz ûzwendic. Daz inner ouge der sêle ist, daz

in daz wesen sihet und sîn wesen von gote âne allez

mitel nimet: daz ist eigen werk. Daz ûzer ouge der

sêle ist, daz dâ gekêret ist gegen allen crêaturen

und die merket nâch bildelîcher wîse und nâch

kreftlîcher wîse. Welher mensche nû in sich selber

wirt gekêret, daz er bekennet got in sînem eigenen

smacke und in sînem eigenen grunde, der mensche ist

gevrîet von allen geschaffenen dingen und ist in im

selber beslozzen in einem wâren slozze der wârheit,

[…] in den menschen enkumet got niht: er ist dâ

wesentlîche.

Aiutandoci con tale passo, possiamo immaginare che la

‘circoncisione dei sensi’ sia un passaggio di stato18 Ivi, p. 24.

21

cognitivo, che si realizza nel trasmutare da una

conoscenza logico-deduttiva, frutto dell’attività

della ragione mediante l’elaborazione del sensibile,

a una di tipo noetico-intuitiva, che va oltre

l’attività categoriale dei sensi. In questo processo

di svelamento di ciò che l’uomo realmente è, Eckhart

individua due istanze complementari della maturità

intellettiva: il superamento delle gnoseologia e

della metafisica aristotelica e l’unione con Dio.

L’uomo, dunque, è caratterizzato da due movimenti

dello spirito, i quali, descritti da Eckhart con la

metafora agostiniano-avicenniana dei due volti

dell’anima, rappresentano la possibilità dello

spirito di guardare contemporaneamente al mondo e

all’eternità. I due occhi, talvolta resi con i due

volti, l’uno inferiore, l’altro superiore, sono

infatti i due aspetti della conoscenza umana: quello

delle cose create e quello delle verità divine. Così,

se il volto inferiore è la dimensione della

percezione sensibile, il volto superiore è invece la

parte più intima dell’anima (grunt), nel quale Dio,

nascendo (Gottesgeburt), si unisce con essa. Ora,

evidenzia Palazzo, ciò che accomuna il grunt

dell’anima a Dio è la reciproca innominabilità. Come

Dio (Got […] âne namen ist) anche il fondo dell’anima

22

sfugge ai nomi del linguaggio umano (Diu sêle enhât

ouch keinen namen)19.

Con la metafora dell’anima ancipite, Eckhart

afferma la libertà dell’uomo di determinarsi o

secondo il tempo delle creature o secondo l’eternità

delle cose increate e, quindi, la libertà di

accontentarsi o meno delle definizioni razionali di

Dio. Le due parti dell’anima, tuttavia, non sono tra

loro contrapposte, in quanto guardare alle cose

eterne non vuol dire negare l’attività dei sensi,

bensì educarla e dirigerla verso l’increato. Scrive

al riguardo Palazzo:

l’attività dei sensi è un mezzo attraverso cui

l’anima raggiunge quel fondo elevandosi alla

‘regio intellectualis’. Perché ciò avvenga, è

necessario però che si purifichi da una vita

divisa e che entri in una vita unitaria, che

significa trascendere la molteplicità dispersa

dell’esperienza sensibile ripensandola secondo

una prospettiva unitaria […]»20.

19 CFR. A. PALAZZO, “Ez sprichet gar ein hôher meister”: Eckhart e

Avicenna, in «Studi sulle fonti di Meister Eckhart», I, pp. 78-

79.20 Ivi, p. 80

23

L’immagine dei due volti-occhi rappresenta, dunque,

la possibilità dell’anima di vedere il principio

unitario divino sotto la molteplicità del mondo

sensibile e di divenire essa stessa un universo

intellegibile21. Di conseguenza, con l’esortazione

alla circoncisione sensoriale, Eckhart non condanna

l’attività dei sensi in sé, ma ne denuncia la

necessaria gestione intellettuale, se si vuole

giungere ad una retta conoscenza delle cose divine o

realtà spirituali. Con l’educazione dei sensi si ha,

infatti, il superamento dell’intelletto naturale,

appartenente all’uomo biologico, e lo sviluppo

dell’intelletto spirituale dell’uomo nobile. Come ha

dimostrato A. Beccarisi, Eckhart cerca di superare la

dualità aristotelica dell’intelletto agente e

possibile per pervenire a una personale e diversa21 Come per Avicenna nel libro IX della Metaphysica, anche

per Eckhart, l’anima trova la sua perfezione nell’essere un

mondo intellegibile, ovvero un luogo nel quale si avvera

l’universo intellettuale del tutto. Al riguardo, Sturlese

dimostra come l’immagine avicenniana del mondo intellegibile sia

anche il tema centrale della predica tedesca 17, Qui odit animam

suam in hoc mundo etc. In essa, sostiene lo studioso, Eckhart

utilizza l’immagine del seculum intellectum per descrivere la

visione dell’unità intellettuale di Dio e dell’uomo dietro la

molteplicità della vita quotidiana. Unità che è transrazionale,

in quanto nessun pensiero vi appartiene. Cfr. L. STURLESE, Eckhart,

Taulero e Suso. Filosofi e mistici nella Germania medievale, cit., p. 95.

24

teoria gnoseologica dalle chiare sfumature

neoplatoniche. Se, infatti, per Aristotele la dignità

dell’uomo risiede nella sua capacità razionale di

comprendere la realtà per astrazione intellettiva di

immagini e forme dalla materia, al contrario per

Eckhart la vera essenza dell’uomo consiste nel

separarsi intellettivo da tutto ciò che è

rappresentazione del mondo esterno. Per il frate

domenicano, la nobiltà umana risiede, dunque,

nell’abbandono delle categorie creaturali di spazio e

di tempo che vincolano l’intelletto a ciò che non è.

Così, descrivendo l’ideale eckhartiano di uomo,

Beccarisi scrive:

«Non è […] attualizzando nell’intelletto ‘bilde

und forme’ che l’uomo realizza pienamente la sua

umanità, ma piuttosto nell’essere separato ‘von

allen materien und forme’. E tanto più l’uomo è

abegescheiden tanto più conosce e quindi tanto più

è uomo»22.

22 A. BECCARISI, “Der hoeste unter den meistern”: Eckhart e il De Anima di

Aristotele, in «Studi sulle fonti di Meister Eckhart, I»,

Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, hrsg von

R. IMBACH und T. SUAREZ-NANI Freiburg, Academic Press, 2008 pp.

15-16.

25

Colui, pertanto, che voglia riscoprire la vera

essenza della propria natura non può non liberarsi

dai limiti fisici imposti dall’argomentazione

discorsiva. Il senso eckhartiano della nobilitazione

della ragione umana è, dunque, sostiene Beccarisi, il

superamento dell’intellectus agens, fonte della ragione

discorsiva e la trasmutazione dell’intellectus possibilis

nell’intelletto del lasciar far divino, sede della

conoscenza intuitiva. Trasmutazione che avviene

riscoprendo il proprio essere indeterminati e

intellettivamente liberi dai vincoli creaturali.

Scrive, difatti, la studiosa:

L’intelletto umano secondo Eckhart non può

essere spiegato semplicemente secondo categorie

di possibile o agente, [in quanto] se l’uomo

intende andare al di là del mero fatto empirico,

e divenire completamente aperto all’essere ha

solo una possibilità: diventare abegescheiden»23.

Ora tale esigenza speculativa di elevazione

dell’intelletto umano, oltre i limiti naturali della

ragione aristotelica, si attua marginalizzando la

teoria albertina dell’acquisizione graduale del

sapere scientifico ad opera dell’intellectus adeptus.23 Ivi, pp. 21-22.

26

Così, come ha mostrato L. Sturlese, se in Alberto

Magno vi è la visione di una formazione progressiva

dell’intelletto che diventa divino attraverso la

graduale comprensione delle leggi dell’universo, in

Eckhart, viceversa, vi è la concezione di un

intelletto divino connaturale all’essenza stessa

dell’uomo. Nel domenicano, pertanto, l’attenzione è

spostata dalla possibilità scientifica di stabilire e

possedere un sapere universale a quella antropologica

di determinare la natura dell’uomo in quanto tale.

Egli, dunque, a differenza di Alberto, non parla di

acquisizione conoscitiva di se stessi nella verità

della propria natura, ma di riscoperta intellettiva

di ciò che appartiene all’uomo come originariamente e

naturalmente già dato24. In Eckhart, pertanto, non vi

è progressione nel superamento della metafisica

aristotelica, ma un ineludibile salto, con il quale,

avverandosi il passaggio immediato della conoscenza

logico-deduttiva a quella noetico-intuitiva, si

lascia l’uomo biologico e si ritrova l’uomo nobile,

ovvero colui che con spirito distaccato rinuncia a

definire categorialmente Dio.

24 Cfr. L. STURLESE, Intelletto acquisito e divino. La dottrina filosofica di

Alberto il Grande sulla perfezione della ragione umana, in «Giornale critico

della filosofia italiana», LXXII/2, 2003, pp. 161-189, (176-177

e 189).

27

Nel contesto di tale discorso, rilevante è la

predica tedesca 1, la quale, scritta per la prima

domenica di Avvento, si apre con la profezia di

Geremia, secondo il testo della Vulgata25: «Ecce dies

veniunt, dicit Dominus, et suscitabo David germen

iustum» (Ger. 23, 5). Nella propria esegesi, il

predicatore riprende l’immagine agostiniana della

lontananza da Dio, rifunzionalizzandola per una nuova

teoria della conoscenza filosofico - teologica del

divino e dell’umano in quanto tale. Il frate

domenicano, attraverso la definizione di tre gradi di

‘miseria crescente’, descrive il percorso

gnoseologico dell’intelletto umano nella comprensione

e nel superamento della propria distanza da Dio.

Separazione, dunque, non incontrovertibile, ma

colmabile nel e per mezzo dell’intelletto, ossia in

virtù della scoperta da parte di questi della propria

divinità e identità ontologica con Dio. Il primo

grado - riconoscimento di tale condizione miserevole

25 Qui seguiamo la numerazione proposta nell’edizione

critica Meister Eckhart. Le 64 prediche sul Tempo Liturgico, a cura di L.

STURLESE, Bompiani, Milano 2014. Il curatore propone una

ricostruzione liturgica e non tematica delle prediche tedesche

di Meister Eckhart. In seguito, tale edizione verrà indicata con

la sigla (ST) in apice al numero della predica, per distinguerla

da quelle da lui non ancora pubblicate, che sono indicate

unicamente con la sigla DW.

28

(Ez ist ein jaemerlich dinc) è l’immediato

intendimento che tutte le creature, anche le più

belle (die allerschoensten crêaturen), se private

della luce di Dio (ûz dem göttlîchen liethe), perdono

ogni loro capacità di essere piacevoli (lustlich) e

gradevoli (behegelich), per lo spirito:

Naeme man die allerschoensten crêaturen, die

got geschaffen hât, ûz dem göttlîchen liethe

(…) und wurden gewîset einer sêle, si enmohte

deheine wollust noch behagunge an in gehaben,

sunder ir müeste dâ vor grûwen26.

Ne consegue che qualsiasi anima, posta dinanzi a una

tale visione (wurden gewîset einer sêle), non riceve

alcun godimento (wollust), o piacere (behagunge), ma

prova, lì innanzi (dâ vor), soltanto orrore (grûwen).

Eckhart sembrerebbe dire che senza la comprensione

della giusta relazione di dipendenza da Dio, l’uomo

non trova né in sé, né nelle cose alcuna bellezza, ma

solo bruttezza, intesa come privazione di ciò che dà

26 Predigt 1ST n. 4, trad. it. pp. 7 e 9, (Deutsche Werke -

d’ora in poi DW - IV, 87S): Se si togliessero le più belle

creature create da Dio dalla luce divina sotto la quale esse

stanno (…) e venissero mostrate ad un’anima, queste non ne

potrebbe avere alcun godimento né piacere ma dovrebbe inorridire

29

sussistenza e senso al creato. Il predicatore, subito

dopo, afferma infatti che non solo più miserevole

(noch jaemerlîchsten) è l’intellezione dell’uomo di

essere distanti dal proprio fondamento - che,

diversamente da Tommaso d’Aquino, risiede non

nell’essere, ma nell’intelletto e nella superiorità

del secondo rispetto al primo - ma miserrima è la

condizione di colui che si accorge di essere lontano

dalla fonte della propria beatitudine:

Noch jaemerlîcher ist daz, daz der

mensche von dem ist, âne der kein wesen

gehaben mac. Aller jaemerlîcher ist daz, daz

er von dem ist, der sîn êwige saelicheit ist27.

Una triplice intellezione che porta l’anima alla

fruizione della propria felicità nella misura in cui

coglie intellettivamente la propria lontananza da Dio

e vi pone rimedio. Tale distanza, infatti, non è

incolmabile, in quanto nel momento in cui lo spirito

percepisce lo iato tra sé e Dio, in quello stesso

27 Predigt 1ST n. 4, trad. it. p. 9: «Ancor più triste è il

fatto che l’uomo sia lontano da colui senza il quale egli non

può avere alcuna sostanza. Tristissimo è il fatto che egli sia

lontano da colui che è la sua beatitudine eterna».

30

istante, intravede la possibilità della generazione

del Figlio:

Dar umbe was daz ein guot botschaft, daz der

prophête sprichet: ‘sehet, die tage koment,

sprichet der herre, und ich wil erwecken die

gerechten wurzeln Dâvîdes. Dô die âlten veter

bekanten daz jammer, dâ sie inne wâren, dô

schrîeten sie mit ir begerunge in den himel

und wurden in got gezogen mit irm geiste und

lâsen in götlicher wîsheit, daz got geborn

solte werden28.

La nascita del Figlio è dunque una risposta al

desiderio dell’uomo di superare la propria condizione

miserevole, la quale viene intesa dal Maestro non in

chiave etica o ecclesiologica, ma in senso

ontologico, ovvero come una radicale e nuova teoria

dell’umano in quanto tale. Nel contesto della predica

1, il Cristo è dato, infatti, come paladino e28 Predigt 1ST n. 5, trad. it. p. 9: «Perciò fu un buon

messaggio ciò che dice il profeta: ‘Guardate, i giorni arrivano,

dice il Signore, ed io risveglierò la giusta radice di Davide’.

Quando gli antichi padri conobbero la miseria in cui erano,

gridarono con il loro desiderio al cielo e vennero tratti con il

loro spirito in Dio e lessero nella sapienza divina che Dio

sarebbe stato generato».

31

avvocato per sconfiggere i peccati e risanare la

condizione miserevole dell’uomo:

Dar umbe endarf der mensche niht vorhten (…)

unsern herren got. Wan sant Paulus sprichet: der

sun ist uns gegeben ze einem vorsprechen, der ein

wîsheit ist des vaters, der sol wîslîche rede

geben vür alle unser tôrheit und missetât. (…) er

ist uns gegeben ze einem vorvehtære, der vür uns

sigevehten sol in aller unser nôt (…). Dar umbe

endarf der mensche niht vorhten got, er enmüge

mit allen sînen sachen küenlîche ze gote gân29.

Eckhart non sembra qui negare l’idea di Cristo

salvatore e redentore dell’uomo, ossia come colui che

è «venuto a prendere su di sé il peccato dell’uomo,

per cancellarlo e salvare l’uomo»30, e ciò in sintonia

29 Predigt 1ST n. 6, trad. it. pp. 10-11: «L’uomo non deve

temere (…) Dio nostro Signore, perché san Paolo dice: il

Figlio, che è sapienza del Padre, ci è dato come un avvocato e

dovrà offrire sapienti discorsi per ogni nostra stupidità e peccato

(…) egli ci è dato come un paladino che deve vincere per noi in

ogni nostra difficoltà (…). Perciò l’uomo non deve temere Dio, e

che non gli sia possibile andare arditamente verso Dio con tutte

le sue cause». 30 Predigt 1ST n. 7 trad. it. p. 11: «(…) ist er komen ûf

daz ertrîche, daz er des menschen sünde ûf sich genommen hât,

daz er sie vertilgete und den menshen behielte».

32

con il V sermone latino, nel quale a proposito della

grandezza e dell’utilità del sacramento eucaristico è

detto:

<LW4:046> ◊49◊ Utilitas autem huius sacramenti

magna est et universalis: magna quidem, quia

efficit in nobis nunc 'vitam' spiritualem et

tandem aeternam, ut dictum est. Nam ut ex supra

dictis apparet, cum hoc sacramentum sit

rememorativum dominicae passionis, continet in

se Christum passum. Unde quidquid est dominicae

passionis, totum etiam est huius effectus

sacramenti; nihil enim est aliud hoc sacramentum

quam applicatio dominicae passionis ad nos. Non

enim decebat <LW4:047> Christum secundum

praesentiam suam semper esse nobiscum, et ideo

voluit hoc supplere per hoc sacramentum. Unde

manifestum est quod et destruction mortis, quam

Christus moriendo destruxit, et reparatio vitae,

quam resurgendo effecit, est effectus huius

sacramenti. Universalis autem, quia 'vita', quam

confert, non solum est vita unius hominis, sed,

quantum in se est, totius 'mundi', ad quam

sufficiens est mors Christi, Ioh. 2: 'ipse est

propitiatio pro peccatis nostris'.

33

Non dovrebbe essere sbagliato, dunque, affermare che

il frate domenicano, sia nella predica tedesca che in

quella latina, non nega né la sacramentalità del

sacrificio eucaristico, né la passione e resurrezione

di Cristo né la veridicità redentiva

dell’Incarnazione. La predica tedesca, tuttavia,

sembra voler portare il lettore su un piano di

riflessione ulteriore: quello della possibilità di

fruire della somma beatitudine per mezzo della

generazione e rivelazione interiore di Dio.

Avvenimenti dello spirito che, insieme all’idea di

resurrezione e vita eterna, avranno, come vedremo,

valenza prettamente filosofica. In essa si legge,

infatti, che se l’incarnazione di Dio in Maria è

fonte di beatitudine, ancor di più lo è la sua

nascita interiore nell’anima:

(…) grœzer ist daz, daz gotes sun rüerte

menschlîche natûre in unser vrouwen lîbe. Dâ

von ist alliu menschlîche natûre sælic worden

(…). Die allergrœste sælicheit ist daz, daz

got geborn un geoffenbâret wirt in der sêle

an einer geistlîchen einunge 31.

31 Predigt 1ST n. 8, trad. it. p. 13: «(…) grande è il

fatto che il figlio di Dio tocco la natura umana nel corpo di

nostra Signora. Da questo tutta la natura umana è diventata

beata (…). La massima beatitudine è che Dio viene generato e

34

La predica tedesca va oltre sia il dato storico

dell’Incarnazione, sia l’aspetto soteriologico della

redenzione. Essa, rispetto al sermone latino,

presupponendo l’assunto teologico del carattere

redentivo della missione del Figlio, si concentra, in

particolar modo, sull’importanza dell’uomo di divenir

beato (selig). Ciò che va immediatamente detto è che

nelle prediche tedesche il termine peccato non è mai

posto in relazione con il concetto di peccato delle

origini. Eckhart non fa alcun riferimento né al

significato, né al carattere angoscioso di tale

evento, in quanto l’avverarsi del Cristo ne ha

completamente eliminato e azzerato ogni valore e

conseguenza. Nelle prediche vi è, pertanto, una

visione dell’umano totalmente positiva e libera nel

suo autodeterminarsi, priva di qualsiasi bruttura e

legaccio di un immaginario medievale tradizionalmente

schiacciato sull’aspetto moralistico di una storia

umana meritevole di castigo, perché macchiata dal

peccato adamitico32. L’uomo eckhartiano è

ontologicamente buono, poiché portatore in sé di un

germe di assoluta identità con il divino, ossia con

rivelato nell’anima in una unione spirituale».32 Cfr. L. STURLESE (a cura di), Meister Eckhart. Le 64 prediche sul

Tempo Liturgico, Bompiani, Milano 2014, p. XLVIII.

35

il buono in quanto tale (superamento

dell’antropologia della negatività umana). Nelle

prediche tedesche, scrive al riguardo Sturlese:

Del peccato originale e di malvagità radicale

della progenie di Adamo non vi è parola:

l’Incarnazione sembra averle irrevocabilmente

cancellate33.

Cristo è colui, infatti, che, cancellando

definitivamente il peccato delle origini, permette al

l’uomo di ritornare a Dio grazie alla sua mediazione

di avvocato e paladino presso il Padre, ovvero in

virtù del suo essere colui che, assumendo la natura

umana, ha superato definitivamente la condizione

miserevole in cui essa versava. Ecco perché l’uomo

può andare arditamente andare verso Dio (küenliche ze

gote gân) con tutte le sue cause (mit allen sînen

sachen):

Dô der mensche ûz dem paradise gestôzen wart, dâ vür

saste got drîerleie huote. Daz eine was engelische

natûre, daz ander ein viuric swert, daz dritte: daz

ez ze beiden enden sneit. Engelische natûre als vil

als lûterkeit. Dô gotes sun kam ûf daz ertrîche, der

ein lûter spiegel ist âne vlecken, der brach die

33 Ivi, p. LXXIII.

36

êrsten huote ûf und brâhte unschult und lûterkeit in

menschlîche natûre ûf daz ertrîche. (…). Daz viurige

swert bezeichnet die göttlîche viurige minne, âne die

der mensche niht enmac ze himelrîche komen. Die

brâhte Kristus mit im und brach die andern huote ûf.

(…). Diu dritte huote was snîdende swert, daz was

menschlîche jâmerkeit. Die nam unser herre ûf sich an

dem hœhsten (…). Dar umbe ist er komen ûf daz

ertrîche, daz er des menschen sünde ûf sich genommen

hât, daz er sie vertilgete und den menshen behielte.

Aber nû daz himelrîche offen âne allerleie huote; dar

umbe mac der mensche küenlîche ze got gân34.

34 Predigt 1ST n. 7, trad. it. pp. 11 e 13 : «Quando l’uomo

venne scacciato dal paradiso, Dio vi pose una triplice guardia.

La prima era la natura angelica, la seconda una spada

fiammeggiate, la terza - che questa è a doppio taglio. Natura

angelica significa purezza. Quando il figlio di Dio, che è

specchio puro senza macchia, venne sulla terra, egli forza la

prima guardia e porto innocenza e purezza nella natura umana

sulla terra (…). La spada fiammeggiante significa l’amore divino

fiammeggiante, senza il quale l’uomo non può giungere al regno

dei cieli. La portò Cristo con sé, e forzò la seconda guardia

(…). La terza guardia era la spada tagliente che era la miseria

umana. Nostro Signore la prese al massimo grado su di sé (…).

Egli è venuto sulla terra per prendere su di sé il peccato

dell’uomo, per cancellarlo e salvare l’uomo. Ma ora il regno dei

cieli è aperto senza alcuna guardia; perciò l’uomo può

arditamente andare verso Dio».

37

Cosa rimane, dunque, del peccato, privato della sua

dimensione ontologica? Come vedremo, esso non sarà

altro che la condizione esistenziale dell’uomo

esteriore perso e distratto dal e nel molteplice. Il

peccato non è altro che lontananza da Dio, il

guardare dell’uomo nella direzione opposta all’Uno

perché distratto dai molti. Ma cosa significa essere

lontani da Dio, e qual è il modo del peccato (ahte

der sünde)? Il modo del peccato che causa la

lontananza da Dio è il rovesciamento della giusta

prospettiva intellettiva, ossia il confondere la

conoscenza naturale delle cose create con quella

spirituale delle realtà divine. Nel mettere ordine a

tale stravolgimento gnoseologico, e, dunque,

nell’indicare l’esatta direzione verso la quale si

deve dirigere il proprio sguardo, avviene la

‘circoncisione dei sensi’, la quale apre l’intelletto

alla consapevolezza di essere incarnazione del Cristo

stesso.

Nell’interpretazione eckhartiana, le attese

messianiche della nascita di Cristo, perdono la

propria dimensione temporale di attesa del giusto germe

suscitato nella linea di Davide. Il domenicano non è

interessato, infatti, all’aspetto storico

dell’Incarnazione nel grembo della Vergine, ma

piuttosto pone l’accento sulle condizioni ontologiche

38

necessarie affinché tale nascita dell’atteso avvenga

nell’intimo di ogni essere umano, al di là ogni tempo

e luogo. Ciò è schiettamente dichiarato nelle battute

finali del sermone, nelle quali si legge:

Diu invendige geburt gote an der sêle ist ein

vorbrigunge aller irer saelicheit, und die

saelicheit vrumet ir mê, dan daz unser herre

mensche wart in unser vrowen sant Marîen lîbe

und dan daz er daz wazzer rüerte. Waz got ie

geworhte oder getete durch den menschen, daz

enhülfe im niht als umbe eine bônen, er

enwürden vereinet mit gote an einer

geistlîlichen vereinigunge, dâ got geborn

wirt in der sêle und diu sêle geborn wirt in

gote, und her umbe hât got alliu sîniu werk

geworht35.

35 Predigt 1ST n. 9, trad. it. p. 13: «La generazione

interiore di Dio nell’anima è un compimento di tutta la sua

beatitudine, e la beatitudine le giova più del fatto che nostro

Signore divenne uomo nel corpo di nostra signora santa Maria

(…). Ciò che Dio mai agì o fece attraverso l’uomo, non gli

servirebbe un fagiolo, se egli non venisse unito con Dio in

un’unione spirituale, ove Dio viene generato nell’anima e

l’anima viene generata in Dio, e a questo fine che Dio ha agito

tutte le sue azioni».

39

La pienezza della beatitudine, che è nascita di Dio

nell’anima (Diu invendige geburt gote an der sêle ist

ein vorbrigunge aller irer saelicheit), è più utile

(vrumet ir mê) del fatto che il Signore si incarnò

nel corpo di Maria (dan daz unser herre mensche wart

in unser vrowen sant Marîen libe). In Eckhart

l’aspetto storico dell’Incarnazione sembrerebbe non

aver senso se l’anima - ogni anima - non si unisce

spiritualmente con Dio (enwürden vereinet mit gote an

einer geistlîlichen vereinigunge). Ciò che Dio,

infatti, fece e operò per e attraverso l’uomo (waz got

ie geworhte oder getete durch den menschen) non è per

nulla di aiuto (daz enhülfe im niht als umbe eine

bônen), non serve a nulla, in termini di salvezza, se

l’uomo non permette a Dio e all’anima di generare se

stessi l’uno nell’altro (dâ got geborn wirt in der

sêle und diu sêle geborn wirt in gote).

L’indissolubilità del nesso di causalità ontologica

tra la generazione divina dell’anima e la sua

beatitudine è tale, che lo stesso Gesù Cristo,

guardato nella sola dimensione corporea, non può

essere beato come colui che, invece, si scopre luogo

della nascita di Dio. Egli afferma infatti:

Diu allergoeste saelicheit ist daz, daz got

geborn und geoffenbâret wirt in der sêle an

40

einer geistlîchen einunge. Dâ von wirt diu

sêle saeliger dan der lîp unsers herren Jêsû

Kristî âne sîne sêle und âne sîne gotheit,

wan ein ieglichiu saeligiu sêle ist edeler

dan der toetlîche lîp unsers herren Jêsû

Kristî36.

Lo stesso Cristo non può essere beato se non nella

sua integralità di corpo, anima umana e divinità. Il

corpo dell’uomo Gesù considerato senza la sua anima e

la sua divinità, se fosse privo della sua unione con

Dio, sarebbe, pertanto, meno nobile di una qualunque

altra anima umana capace di determinare pienamente se

stessa nella generazione spirituale di Dio. Ma in che

modo è possibile avverare questa generazione divina

nell’anima di un essere umano? Nella predica 1 è

detto che condizione necessaria affinché ciò avvenga

è riconoscere di essere lontani da Dio, collocati

nell’agostiniana ‘regione della dissomiglianza’:

36 Predigt 1ST n. 8, trad. it. p. 13: «La massima

beatitudine è che Dio viene generato e rivelato nell’anima in

una unione spirituale. Da ciò l’anima diviene più beata del

corpo di nostro signore Gesù Cristo senza la sua anima e la sua

Deità, perché ogni anima beata è più nobile del corpo mortale di

nostro signore Gesù Cristo».

41

(…) ist der mensche verre von gote. Dar umbe

ist im daz himelrîche als ein verre vremde

lant (…). Sant Agustînus sprichet (…) dô er

noch unbekêret was, daz ‘er sich verre vant

von gote in einem vremden lande der

unglîcheit’37.

Il passo citato di sant’Agostino, come segnala

l’edizione di Sturlese38, è tratto dal libro VII di

Confessionum libri, nel quale è detto:

(…) intravi in intima mea (…) et vidi

qualicumque oculo animae meae (…) supra

mentem meam lucem incommutabilem (…). Nec ita

erat supra mentem meam, sicut oleum super

aquam nec sicut caelum super terram, sed

superior, quia ipsa fecit me (…). Et cum te

primum cognovi, tu assumpsisti me (…) et

inveni longe me esse a te in regione

dissimilitudinis, tamquam audirem vocem tuam

de excelso: Cibus sum grandium: cresce et37 Predigt 1ST n. 3, trad. it. p. 7: « (…) è l’uomo lontano

da Dio. Di conseguenza il regno dei cieli è in lui come una

lontana terra straniera. (…). Sant’Agostino dice (…) quando non

era ancora convertito, che ‘egli si trovò lontano da Dio in una

regione straniera della dissomiglianza’ ». 38 Cfr. Predigt 1ST, nota 3, p. 7.

42

manducabis me. Nec tu me in te mutabis sicut

cibum carnis tuae, sed tu mutaberis in me39.

Il vescovo di Ippona scopriva la propria lontananza

da Dio, e dunque la propria differenza dal Creatore,

nel momento in cui, ri-entrando in se stesso, ovvero

nell’interiorità di sé (intravi in intima mea), vede

una luce immutabile (lucem incommutabilem), a lui

superiore, perché di lui creatrice (superior, quia

ipsa fecit me). Solo dopo aver capito ciò,

nell’attimo in cui Dio lo eleva a sé, o più

esattamente, lo assume verso sé, Agostino comprende

di essere lontano da lui, nella regione della

dissimilitudine (tu assumpsisti me (…) et inveni

longe me esse a te in regione dissimilitudinis). In

tale passo sembrerebbe delinearsi, pertanto, secondo

alcuni studiosi dell’Ipponense, un percorso

prevalentemente gnoseologico, che delinea la regio

dissimilitudinis come dimensione di ciò che è dissimile da

Dio, dalla quale bisogna affrancarsi, se si vuole

cogliere di Dio in sé, nella sua verità immutabile.

Nelle Confessiones, scrive Armando Bisogno, si esprime

(il) bisogno naturale (…) dell’uomo di

tendere a una verità che superi la parzialità39 AUGUSTINUS, Confessiones, VII, c. 10, n. 16.

43

delle singole percezioni della realtà. (…)

Agostino (è in grado di) comprendere che,

(…) speculativamente, l’ostacolo che

mortifica (…) (il) quaerere è l’incapacità di

svincolarsi dal sensibile per giungere a

quella intuizione del vero che può

realizzarsi solo quando l’occhio riesce a

sollevarsi dall’orizzonte dell’immanenza40.

Tensione e necessità di superamento dell’orizzonte

fenomenico, in virtù della quale la conoscenza

intuitiva è al di là della molteplicità contingente,

come «unità semplice, vera e certa (di) conoscenze

acquisite nelle varie discipline»41. Anche in Eckhart

l’immagine della regio dissimilitudinis indica la condizione

dell’uomo ‘esteriore’ calato, e in qualche modo

disperso, nella realtà del molteplice e, dunque,

l’esigenza di alzarsi spiritualmente e

intellettivamente da questa per comprendere ‘ciò che

Dio realmente è’. Va precisato, tuttavia, che nel

frate domenicano, l’unità della conoscenza non è il

risultato congiunto delle relative e specifiche

discipline, ma è un atto di istantanea e unica

40 A. BISOGNO, Il De magistro di Agostino. Introduzione, testo, traduzione e

commento, Città Nuova, Roma 2015, p. 15 e 19.41 Ivi, p. 48.

44

intuizione intellettiva. In Eckhart tale esigenza

speculativa di elevazione dell’intelletto umano oltre

i limiti fenomenici - naturali si attua, come abbiamo

visto, superando la teoria albertina

dell’acquisizione graduale del sapere scientifico. La

generazione di Dio nell’anima, dunque, è un

intuizione dello spirito, che riscopre

intellettivamente il divino. Al riguardo nella

predica pasquale Si consurrexistis cum Christo è detto:

Nû sprichet sant Paulus: ‘sît ir ûfstanden mit

Kristô, sô suochet diu dinc, diu oben sint’.

(…). Etlîche liute die erstânt halbe, sie ûebent

sich an einer tugent und niht an der andern (…)

enahtent niht guotes, aben sie wellent êre

haben. (…). Etlîche liute erstânt alzemâle, sie

erstânt aber niht mit Kristô. Dar umbe, swaz sîn

ist, daz sol alzêmale ûfstân. (…) vinden man

etlîche liute, die erstânt zemâle ûf mit Kristô;

aber er muoz vil wîse sîn, der dâ prüeven sol

ein wâr ûferstân mit Kristô. Die meister

sprechent, ez sî warîu urstende, der niht wider

enstirbet. Ez enist niergen kein tugent sô grôz,

man envinde liute, die sie von natiurlîcher

kraft hânt gewürket, wan zeichen und wunder

würket dicke natiurlîch kraft; wan alliu diu

45

ûzer werk, diu man ie vant an den heiligen, diu

hât man ouch vunfen an den heidenen. Dar umbe

sprichet er: ‘ir sult ûferstân mit Kristô’ wan

er ist enoben, (…). Swaz unser ist, daz sol

alzemâle ûferstân. (…). Swer alzemâle ist

ûferstânden mit Kristô, des ist ein zeichen, ob

er got obe zît suochet. Der suchet got obe zît,

der dâ suochet sunder zît. Nû sprichet er:

‘suochet diu dinc, diu oben sint’. Wâ suochet

man? ‘Dâ Kristus gesezzen ist ze der rehten hant

sînes vater’. Wâ sitzet Kristus? Er ensitzet

niergen. Der in iergen suochet, envindet sîn

niht42.

42 Predigt 33ST n. 3, trad. it. p. 13, (DW IV, 35): «Ora

dice san Paolo: ‘se siete risorti con Cristo, cercate le cose

che sono in alto’. (…). Alcune persone risorgono a metà, si

esercitano in una virtù e non nelle altre (…) sono nobili di

natura e non prendono in considerazione nulla dei beni, ma

vogliono l’onore (…). Alcune persone risorgono completamente, ma

non risorgono con Cristo. Perciò quello che è proprio di

qualcuno deve risorgere completamente. (…) si trovano certe

persone che risorgono completamente con Cristo; ma dev’essere

molto sapiente, colui che deve mostrare un vero risorgere con

Cristo. I sapienti dicono che vera resurrezione è quando non si

muore di nuovo. Non c’è da nessuna parte una virtù tanto grande

che non si trovino persone che non l’hanno operata con virtù

naturale, perché la virtù naturale agisce spesso con segni e

prodigi; infatti tutte le azioni esteriori che mai si trovarono

46

Sebbene l’esercizio naturale delle virtù elevi

l’uomo, questi non realizza, pienamente se stesso, la

propria divina natura, fintanto che non risorge

completamente con Cristo. La risurrezione con Cristo

non è, pertanto, né un discernimento morale, né un

percorso di acquisizione delle virtù, ma è intelligere

Dio al di là del divenire fenomenico, in quanto in

ogni tempo vi sono stati uomini capaci, con le loro

opere, di distinguersi e manifestare la propria bontà

sul piano meramente morale. Segno della resurrezione

dell’uomo, non è, inoltre, compiere miracoli, ma

l’essere capace di una conoscenza sovracategoriale.

Per il domenicano, l’elevazione dalla regio

dissimilitudinis, e, dunque, la risurrezione dell’anima

umana, risiede nell’abbandono delle categorie

creaturali di spazio e di tempo, che vincolano

l’intelletto a ciò che non è. Solo così, viene a

delinearsi il profilo dell’uomo nobile, ovvero di

nei santi, si sono trovate anche nei pagani. Egli dice: ‘Dovete

risorgere con Cristo’, perché egli è in alto (…). Un segno di

chi è completamente risorto con Cristo è se egli cerca Dio al di

sopra del tempo. Chi cerca Dio al di sopra del tempo lo cerca là

senza tempo. Ora egli dice: ‘cercate le cose che sono in alto’.

Dove si cerca? ‘Ove Cristo è seduto alla destra di suo padre.

Dove siede Cristo? Egli non siede in nessun luogo. Chi lo cerca

in un luogo non lo trova».

47

colui che raggiunge la beatitudine. Chi vuole,

pertanto, riscoprire la vera essenza della propria

natura non può non risorgere, ossia non elevarsi

dalle apparenze fenomeniche che si danno nelle

accidentalità di tempo e spazio. Alla luce di ciò,

chiaro sembrerebbe essere il senso delle parole di

Eckhart quando parla di disfacimento dell’uomo:

Ez ist wunderlich: und ist, daz sich der mensche

entuon sol, in dem daz er sich entoun, sô întuot

er kristum und heilicheit und saelicheit und ist

sere grôz. (…). Einez ist in der sêle, in dem

got blôz ist, und die meister sprechent, ez sî

namelôs, und ez enhabe keinen eigenen namen. Ez

ist und hât doch kein eigen wesen, wan ez ist

noch diz noch daz noch hie noch dâ (…). (…) hie

inne nimet diu sêle allez ir leben und wesen

(…), wan diz ist zemâle in gote (…) und dar umbe

ist diu sêle alle zît in gote nâch disem (…).

Ich spriche, daz got êwichliche âne ubderlâz in

disem gewesen ist, und in disem der mensche mit

gote ein ze sînne, dâ behoert gnâde niht zuo,

wan gnâde ist crêatûre, und dâ enhât kein

creature ze tuonne; wan in dem grunde götliches

wesen (…) dâ ist si ein nâch dem grunde. (…) und

48

alsô bin ich waerliche der einige sun und

Kristus43.

Solo nell’intimo più profondo dell’anima, laddove non

c’è né tempo, né luogo, né divenire, vi è la vera

natura umana, ovvero la sua totale appartenenza a

Dio, il suo essere totalmente divina, il suo non

essere diverso da Cristo. Lì nel fondo più profondo

dell’anima, l’uomo, che abbandona la propria

dimensione creaturale, si scopre in intimità assoluta

con il Figlio fino a esserne identificato: là,

afferma Eckhart, io sono l’unico Figlio e Cristo (bin

ich waerliche der einige sun und Kristus). Riscoprire

43 Predigt 2ST n. , trad. it. p. 13, (DW IV, 35Q): «È

straordinario: se l’uomo deve disfarsi, nel momento in cu egli

si disfa, egli assume Cristo e santità e beatitudine; ed è assai

grande. (…). C’è qualcosa nell’anima, nel quale Dio è nudamente,

e i maestri dicono che questo è innominato, e non ha un nome

proprio. Questo è, tuttavia non ha alcuna sostanza propria,

perché non ha né questo né quello né qui né là (…). (…) qui

dentro l’anima prende tutta la sua vita e la sua sostanza (…),

perché questo è completamente Dio (…) e perciò l’anima è sempre

in Dio secondo questo (…). Io dico, che Dio eternamente

ininterrottamente è stato in questo; e con il fatto che in

questo l’uomo è uno con Dio, non c’entra la grazia, perché la

grazia è una creatura, e là non ha a che fare nessuna creatura;

perché nel fondo della sostanza divina (…) là essa è uno con

Dio. (…) e dunque io sono veramente il Figlio e Cristo».

49

ciò è il senso del vivere umano, il quale si avvera

rientrando in se stessi e riscoprendo quella parte

nascosta dell’anima che nessun nome può definire44

(die meister sprechent, ez sî namelôs, und ez enhabe

keinen eigenen namen). Questa è la vera e unica

sostanza dell’uomo, in quanto essa prende il proprio

essere e la propria vita direttamente da Dio (Ez ist

(…) hie inne nimet diu sêle alez ir leben und wesen

(…), wan diz ist zemâle in gote). Solo disfacendosi

di se stessi riconoscendo la propria condizione

fenomenica, che il Maestro, nella predica 1, chiama

miseria (jâmerkeit), è possibile comprendere non solo

le verità divine oltre le apparenti realtà

contingenti, ma al contempo capire il rapporto

ontologico che l’essere creaturale ha con la

dimensione non increaturale di Dio.

La cristologia eckhartiana è, dunque, è

possibilità degli uomini di ogni tempo di essere

sommamente beati nell’essere uno con Dio, nel loro

autodeterminarsi essi stessi ‘dei Cristo’, ovvero di

natura umana (la dimensione temporale della

corporeità) e divina (la dimensione spirituale

dell’anima). La cristologia eckhartiana è, dunque, un

44 F. RETUCCI, “Her ûf sprichet ein heidenischer meister in dem buoche, daz

dâ heizet daz lieht der liehte”: Eckhart, il Liber de causis e Proclo in «Studi sulle

fonti di Meister Eckhart», I p. 138.

50

discorso non di somiglianza, ma di identità. L’uomo

nell’anima deve scoprirsi non ‘come Cristo’ (a sua

imitazione), ma ‘il Cristo’.