Tipologie Lavoro

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LEZIONE: “LE VARIE TIPOLOGIE DI RAPPORTO DI LAVOROPROF. FRANCESCO MANICA

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Le varie tipologie di rapporto di lavoro

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1  Lavoro autonomo e lavoro subordinato-------------------------------------------------------------- 3 

2  Contratto e rapporto di lavoro: la subordinazione ------------------------------------------------ 8 

Le varie tipologie di rapporto di lavoro

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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1 Lavoro autonomo e lavoro subordinato

La distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato trova oggi un indubbio riferimento

negli artt. 2094 e 2222 del codice civile che, rispettivamente, tratteggiano le figure del lavoratore

subordinato e di quello autonomo. Prima che si concretizzasse l’attuale assetto normativo, abbiamo

assistito ad un lungo e tortuoso cammino evolutivo, dalla cui analisi non si può prescindere per

elaborare un’adeguata distinzione delle figure in esame.

Il codice civile del 1865 disciplinava in generale la “locazione delle opere”, nella quale

erano ricompresi tanto il lavoro subordinato (locatio operarum) che il lavoro autonomo (locatio

operis). L’art. 1570 infatti, definiva “la locazione delle opere” come “il contratto per cui una delle

parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede”. L’art 1627 precisava, poi,

che “vi sono tre principali specie di locazione di opere e d’industria: 1° quella per cui le persone

obbligano la propria opera all’altrui servizio; 2° quella de’ vetturini si per terra come per acqua,

che si incaricano del trasporto delle persone o delle cose; 3° quella degli imprenditori di opere ad

appalto o cottimo” .

Dalle norme riportate non emergevano con chiarezza i connotati giuridici del lavoro

subordinato. Questo veniva definito con la generica espressione usata nel n. 1 dell’art. 1627 come

“locazione della propria opera all’altrui servizio”; mentre era da riferire soprattutto al lavoro

autonomo a successiva elencazione contenuta al n. 2 (trasporto di cose e di persone) ed al n. 3

(opere ad appalto o cottimo) delle altre specie di locazione di opere.

Vale la pena di notare come questa sistemazione lasciasse nell’ombra la distinzione tra

lavoro subordinato ed autonomo, collocandola all’interno della figura della locazione di cose, quale

tipo unitario del contratto di lavoro.

In tale ambito la disciplina del contratto di locazione delle opere si occupava quasi

esclusivamente del lavoro autonomo o “locatio operis” contemplato nelle sue forme tipiche del

trasporto e dell’appalto, regolando le obbligazioni e la responsabilità delle parti. L’unica norma

specificatamente riferibile al lavoro subordinato era l’art. 1628, dove si disponeva che “nessuno può

obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa, con ciò

vietando, in sostanza, la perpetuità o la tendenziale perpetuità del contratto anche se, di fronte alla

prassi addirittura dominante di contratti a tempo indeterminato, era concordemente ammessa la

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stipulazione del contratto “sine die”, giustificato come contratto sottoposto a disdetta e pertanto pur

sempre a termine, anche se incerto.

Nel corso del 18° e del 19° secolo (periodo della dottrina pandettistica) la distinzione tra la

“locatio operis” e la “locatio operarum” era finalizzata al raggiungimento di uno specifico

obbiettivo: stabilire la diversa imputazione e ripartizione tra le parti dei rischi inerenti la prestazione

lavorativa.

Il primo di tali rischi, detto anche rischio del lavoro, è quello incidente sull’utilità prodotta

dalla prestazione di lavoro. E cioè l’alea che incide per sua natura sul risultato produttivo

dell’erogazione delle energie di lavoro ed è dipendente dalla difficoltà tecnico-economica del

risultato medesimo, attenendo, pertanto, alla produttività ed all’organizzazione del lavoro.

Il secondo rischio è quello dell’impossibilità (o mancanza) del lavoro, sopravvenuta per

effetto del caso fortuito o della forza maggiore eventualmente ostativi dell’esecuzione della

prestazione: si tratta dell’alea incidente sulla perdita totale o parziale del corrispettivo da parte del

lavoratore.

Qualche esempio può servire a chiarire la distinzione tra i due tipi di rischio e, quindi, tra

“locatio operis” e “locatio operarum”. Esempi di rischio dell’impossibilità del lavoro si possono

ravvisare in tutte le ipotesi di fortuito impedimento del lavoratore a prestare le proprie energie, sia

per cause soggettive (gravidanza, malattia, infortunio, invalidità) che per cause oggettive

(interruzione dell’attività produttiva per eventi artificiali o naturali che possono andare dalla

mancanza della forza motrice oppure dalla materia prima). Come esempi, invece, di rischio

incidente sull’utilità della prestazione, possono essere richiamati i vari fattori ostativi della

produttività del lavoro tali da influenzare il rendimento della prestazione: si va dai fattori naturali (il

classico fulmine che distrugge il prodotto finito dal lavoratore prima che il creditore possa disporne)

ai fattori di natura tecnica ed economica, quali gli imprevisti del materiale da lavorare che

allunghino i tempi di lavorazione o, ancora, il rincaro della materia prima o semilavorata o della

forza motrice tale da accrescere i costi di lavorazione e, di riflesso, da abbassare il margine di utile

della prestazione.

Il rischio dell’impossibilità o c.d. mancanza di lavoro è sempre sopportato dal lavoratore, sia

nella “locatio operis” che nella “locatio operarum”, giusta la regola comune nei contratti a

prestazioni corrispettive, secondo la quale “casum sentit debitor” (cfr. artt. 1225 e 1226 c.c. del

1865 e art. 1463 c.c. vigente): in virtù di tal principio il debitore è esonerato dall’obbligo di eseguire

la prestazione divenuta impossibile ma perde il diritto alla controprestazione.

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Il rischio dell’utilità del lavoro è invece collegato concretamente alla variabilità economica

del rendimento delle energie di lavoro prestate dal locatore (sia delle opere che dell’opera) e perciò

all’incertezza del valore del risultato produttivo delle energie stesse. questo rischio della difficoltà

della prestazione o dell’organizzazione del lavoro è ripartito tra i contraenti in modo diverso nella

locazione d’opera e nella locazione delle opere: nella prima è integralmente a carico del locatore o

lavoratore autonomo, il quale si obbliga appunto a prestare “l’opus perfectum”, qualunque sia il

costo sopportato per ottenere il risultato futuro. Nell’altra, il rischio del risultato produttivo è a

carico del conduttore o imprenditore, poiché il lavoratore subordinato si obbliga a prestare le

proprie energie di lavoro limitandosi a sopportare soltanto il “periculum” della mancanza di lavoro.

La distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo emerge dunque da un processo di

elaborazione concettuale a conclusione del quale si perviene alla classificazione che distingue

l’attività del lavoro e il risultato del lavoro come oggetto della locazione, rispettivamente, di opere e

dell’opera.

Per quanto apparentemente chiara e netta, la distinzione tra attività e risultato del lavoro è, in

realtà, ambigua. Essa, infatti, se da un lato mette in rilievo la sostanziale identità dell’oggetto della

prestazione (che è sempre il bene economico della forza lavoro) dovuta dal lavoratore nei due tipi di

contratto, dall’altro ne differenzia la natura secondo la diversa imputazione del rischio del lavoro,

senza nulla dire intorno al contenuto oggettivo-funzionale delle due specie di obbligazioni. In

questo modo, però, resta una grave incertezza per ciò che attiene ai connotati che

contraddistinguono sotto il profilo oggettivo-funzionale le due specie di obbligazioni lavorative. Si

spiega così il successivo ricorso al criterio della subordinazione o dipendenza verso il conduttore,

nel quale viene identificato il connotato socialmente tipico della “locatio operarum” e, nello stesso

tempo, il tratto saliente della relativa obbligazione.

Si perviene così, nella sostanza, attraverso l’utilizzazione della categoria della locazione

delle opere, ad estendere ai lavoratori subordinati la disciplina della antica locazione di cose ed in

tal modo si fa maturare gradualmente il distacco del contratto di lavoro subordinato dall’originario

tronco comune anche ai differenti tipi di contratto di lavoro autonomo (appalto, trasporto, deposito,

mandato, contratto d’opera).

La legislazione sociale dell’epoca (18° e 19° secolo) individuava il fenomeno della

subordinazione del lavoratore da un padrone o sorvegliante, in chiave prevalentemente descrittiva,

sulla base del collegamento tra la prestazione e l’azienda industriale.

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Va tuttavia notato come nella legislazione del periodo esaminato fosse assente una

definizione della subordinazione.

Tale lacuna è stata colmata dalla giurisprudenza, in particolare quella dei probiviri, che ha

utilizzato la nozione del rapporto di servizio come criterio distintivo dell’obbligazione del

lavoratore a sottoporsi alle determinazioni dell’imprenditore per ciò che concerne sia

l’organizzazione del lavoro sia la disciplina aziendale.

La nozione di subordinazione, così come elaborata nella giurisprudenza, si presenta

ambivalente: alla tradizionale distinzione tra attività e risultato del lavoro si sovrappone la

dipendenza dell’organizzazione del lavoro, caratteristica della nuova figura sociale e professionale

dell’operaio o lavoratore salariato.

In una prospettiva analoga si colloca anche il legislatore del Codice Civile del 1942 e, prima

ancora, della legge sul contratto di impiego privato e/o lavoro non prevalentemente manuale

(R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825). Quest’ultimo, infatti, ha ravvisato nell’attività professionale e

nell’esercizio di mansioni di collaborazione (art. 1) c.d. fiduciaria, il connotato specifico della

subordinazione dell’impiegato. A sua volta l’attuale Codice Civile identifica l’elemento

caratterizzante la subordinazione nella collaborazione, in particolare quest’ultima viene definita

come il risultato tecnico funzionale della prestazione di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione

dell’imprenditore, resa dal lavoratore in cambio della retribuzione.

La tratteggiata evoluzione storica sottolinea la continuità esistenziale tra la nozione moderna

del contratto di lavoro e quella tradizionale della “locatio operarum”, ma dimostra altresì come

l’alternativa tra risultato ed attività del lavoro sia stata progressivamente sostituita da quella tra

autonomia e subordinazione della prestazione resa dal lavoratore.

Il percorso tracciato fino ad ora, ci porta alle definizioni contenuta negli artt. 2094

(subordinazione) e 2222 (lavoro autonomo) c.c. .

Rimandando al paragrafo successivo l’analisi della subordinazione, soffermiamoci sulla

seconda fattispecie in esame.

Il connotato tipico che contraddistingue la categoria dei contratti di lavoro autonomo è la

finalizzazione al risultato dell’opera finita.

Nel sistema del vigente Codice Civile, tale categoria comprende, oltre al contratto d’opera

previsto dall’art. 2222 che si pone come fattispecie residuale, altre quattro figure fondamentali:

1. appalto ex art. 1655 e ss. c.c., la cui causa è nello scambio di un opera o di un

servizio da eseguirsi con organizzazione dell’appaltatore, con un corrispettivo;

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2. il trasporto ex art. 1678 e ss. c.c., che assolve alla funzione di trasferire

persone o cose da un luogo ad un altro;

3. il deposito generico ex art. 1776 e ss. c.c., che assolve alla funzione di

custodia dei beni;

4. il mandato ex art. 1703 e ss. c.c. e le sue sottospecie (commissione: art. 1731

e ss. c.c.; spedizione: art. 1737 e ss. c.c.; agenzia: art. 1742 e ss. c.c.), che hanno tutti come

elemento tipico la gestione di affari nell’altrui interesse mediante la conclusioni di

contratti.

Vale la pena di sottolineare che un vincolo di sottoposizione del debitore all’ingerenza del

creditore nell’esecuzione della prestazione si può avere nel contratto d’opera come negli altri

contratti di lavoro autonomo: il committente, infatti, può stabilire nel contratto le condizioni per

l’esecuzione dell’opera pattuita, fissando, altresì, unilateralmente il termine entro il quale il

prestatore è tenuto a confrontarsi alle stesse, pena il recesso per giusta causa ed il diritto del

committente al risarcimento del danno.1

Le descritte ipotesi di verifica e controllo, pur avvicinabili concettualmente al fenomeno

della subordinazione, non devono indurci ad affermare che, nell’ambito del lavoro autonomo,

sussista in capo al datore un potere che, per contenuti ed estensione, sia ascrivibile a quello proprio

del datore di lavoro della subordinazione.

Si tratta, in relazione alle reciproche obbligazioni assunte con la sottoscrizione del contratto,

di una meccanismo di autotutela per fronte a esigenze sopravvenute e per prevenire eventuali

inadempimenti.

1 Si veda in generale l’art. 2224 c.c. ed in particolare, in materia di appalto, l’art. 1661 c.c. sul ius variandi del progetto, l’art. 1662 c.c. sul diritto di verifica nel corso di esecuzione dell’opera, l’art. 1665 c.c. sulla verifica dell’opera compiuta. In materia di mandato si veda l’art. 1711 c.c., relativo all’obbligo del mandatario di attenersi alla istruzioni ricevute dal mandante.

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2 Contratto e rapporto di lavoro: la subordinazione

Il vigente Codice Civile non fa menzione del contratto di lavoro, limitandosi a richiamare, in

ossequio all’ideologia corporativa, i collaboratori dell’imprenditore, tra i quali assume un ruolo

rilevante il prestatore di lavoro subordinato, definito dall’art. 2094 c.c. .

Con questa definizione, il codice sembra, a prima vista, superare la naturale

contrapposizione degli interessi delle parti che risiede in ogni contratto di scambio, e sembra invece

accreditare la tesi secondo la quale il lavoratore collabora con l’imprenditore per realizzare

l’interesse dell’impresa che secondo quell’ideologia supera e trascende gli interessi delle parti.

in realtà, secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti e successive alla caduta

dell’ordinamento corporativo, l’art. 2094 c.c. non ha disconosciuto l’origine contrattuale del

rapporto, e in particolare la natura di contratto a prestazioni corrispettive, quando la norma precisa

che è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione.

La disciplina del lavoro subordinato nell’impresa supera la prospettiva secondo cui l’essenza

del contratto è rappresentata dallo scambio tra le prestazioni proprie dei contraenti, sottolineandone

il profilo organizzativo. È importante mettere in evidenza come l’art. 2094 c.c., esaltando il profilo

organizzativo del rapporto di lavoro, abbia collegato inscindibilmente la collaborazione del

prestatore di lavoro con l’organizzazione dell’imprenditore.

L’art. 2094 ha, quindi, introdotto la nozione di subordinazione identificandola nella

collaborazione del prestatore di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.

Non si tratta ovviamente di una endiadi ma di una forma che esprime due concetti diversi

anche se collegati.

Così l’espressione sotto la direzione indica che l’imprenditore ha il potere di determinare al

momento di costituzione del rapporto, e di modificare unilateralmente in corso di rapporto, le

modalità di esecuzione della prestazione di lavoro (subordinazione tecnica) affinché la

collaborazione del prestatore di lavoro (subordinazione tecnica) affinché la collaborazione del

prestatore di lavoro alle dipendenze dello stesso imprenditore, sia idonea a soddisfare le esigenze di

quest’ultimo (subordinazione funzionale).

Si comprende allora più chiaramente perché l’art. 2094 c.c., collegando il contratto di lavoro

all’impresa, riconosca al medesimo non soltanto l’ordinaria funzione di scambio ma anche una

funzione organizzativa. Più precisamente il contratto di lavoro subordinato consente di pianificare e

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coordinare, attraverso l’esercizio del potere direttivo, la prestazione dedotta in contratto con le

prestazioni rese da altri lavoratori in altrettanti contratti di lavoro. Il tutto al fine di realizzare il

risultato produttivo.

Quello descritto in precedenza, rappresenta il c.d. contenuto tipico della subordinazione, la

cui elaborazione non risolve la totalità dei problemi relativi al corretto inquadramento dei singoli

rapporti di lavoro. La possibilità di annoverare un dato rapporto nell’ambito della subordinazione,

passa attraverso l’analisi della sussistenza di una pluralità di indici così come teorizzati dalla

giurisprudenza.

La necessità di una analisi così variegata risulta ancora più evidente se si pensa che il ricorso

ad un unico criterio non ha dato risultati particolarmente soddisfacenti:

1. LE DIRETTIVE

Non si tratta di un elemento esclusivo della subordinazione. Vi sono, infatti, forme di

lavoro autonomo che presentano, nell’ambito dell’esecuzione e dell’organizzazione della

prestazione lavorativa, un margine di autonomia della medesima portata di quello proprio

dei lavori subordinati.

Basti pensare a talune forma di mandato ed alla prestazione di lavoro dei dirigenti,

rispetto ai quali le direttive sono già insite nella competenza determinata dall’oggetto del

contratto così come avviene per il mandatario.

La giurisprudenza ha prodotto sul punto numerose pronunce.

Citiamo alcuni esempi.

• La genericità delle direttive impartite dall’impresa a volte non esclude

la subordinazione del medico esterno che presti servizio di guardia medica presso

una casa di cura (Cass. 26 ottobre 1994, n. 8804 che ha ravvisato la subordinazione

del medico nel dovere di rispettare un orario di lavoro e turni di servizio);

• La subordinazione non è stata esclusa, quando l’artista restando

soggetto alle direttive dell’imprenditore sul piano organizzativo, si sia riservato un

potere di controllo sulla sceneggiatura oppure partecipi agli utili (Cass. 22 luglio

1983, n. 5050);

• La giurisprudenza è molto oscillante sulla qualificazione autonoma o

subordinata dell’attività di insegnamento nella scuola privata. Infatti è stata

considerata autonoma la prestazione del docente che si sia obbligato a tenere un

numero minimo di lezioni (Cass. 21 maggio 2003, n. 8028), mentre è subordinato il

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rapporto che si svolga con modalità tali da comportare l’inoperosità dell’insegnante

per alcune ore presso la scuola e l’osservanza di un orario di lavoro predisposto della

stessa direzione scolastico (Cass. 11 novembre 1983, n. 6701);

• Contrasto vi è anche con riferimento ai c.d. messaggeri metropolitani.

La Cassazione civile, diversamente da quella penale, ha considerato autonomo il

suddetto rapporto quando il messaggero metropolitano decida autonomamente se

lavorare, e comunque sia libero di accettare l’incarico di recapito trasmesso via radio

dalla sede aziendale (Cass. 10 luglio 1991, n. 7068; Cass. 25 gennaio 1993, n. 811);

• La Cassazione si è spinta ad affermare la subordinazione del

propagandista farmaceutico, ritenendo sufficiente l’esistenza di direttive di ordine

generale impartite dal datore di lavoro (Cass. 06 luglio 2001, n. 9167).

Con questo ordine di argomentazioni si dilata a dismisura l’area della subordinazione che

finisce per coprire ogni forma di lavoro autonomo continuativo e si favorisce quel fenomeno di

rigetto dell’uso del contratto di lavoro subordinato.

L’applicazione della direttive come criterio discretivo tra lavoro subordinato e autonomo

lascia al Giudice un notevole margine di discrezionalità nell’individuazione della disciplina

applicabile alla fattispecie concreta.

2. OBBLIGAZIONE DI MEZZI ED OBBLIGAZIONE DI RISULTATO

La distinzione tra chi si obbliga a svolgere un’attività di lavoro (obbligazione di mezzi) e chi

si obbliga ad una attività qualificata dal risultato (obbligazione di risultato), non è idonea a tracciare

il distinguo tra subordinazione e lavoro autonomo. Quest’ultimo può atteggiarsi anche come

obbligazione di attività.

3. INERENZA DEL RAPPORTO DI LAVORO ALL’IMPRESA

Non si tratta di una prerogativa esclusiva del rapporto di lavoro subordinato, potendo

caratterizzare anche il lavoro autonomo ma continuativo.

Troviamo a riguardo numerosi esempi sia in dottrina che in giurisprudenza:

• Contratto di agenzia, nel quale la prestazione dell’agente è continuativa e

soddisfa un interesse durevole del preponente o al contratto di mandato che può essere

costitutivo di un rapporto inerente all’organizzazione dell’imprenditore (Bigiavi, La piccola

impresa, Milano, 1947, secondo cui la fonte della preposizione institoria non è

necessariamente costituita da un contratto);

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• Non si parla di subordinazione quando non sia garantita la disponibilità

continua del giornalista in redazione (Cass. 10 marzo 1994, n. 2352 – Cass. 29 novembre

2002, n. 16997), mentre è stato considerato di lavoro autonomo il rapporto di un redattore,

che sulla base di una serie di incarichi fiduciari. procurava notizie, senza obbligo di

presenza, ma con una certa continuità (Cass. 20 febbraio 1995, n. 1827);

• In una prospettiva generale, quando il lavoratore è a disposizione

dell’impresa’ anche se la prestazione è richiesta al bisogno, il rapporto di lavoro è

subordinato (Cass. 27 marzo 2000, n. 3674).

In conclusione si può, quindi, affermare che il contratto di lavoro autonomo continuativo

consente al datore di lavoro il coordinamento dell’altrui attività ad un proprio scopo.

4. L’IMPUTAZIONE DEL RISCHIO

La diversa imputazione del rischio è considerata criterio distintivo tra lavoro autonomo e

subordinato, nel senso che il rischio è a carico del lavoratore autonomo, mentre nel lavoro

subordinato il rischio è imputato al datore di lavoro.

Si deve comunque precisare che mentre il rischio derivante dall’impossibilità o mancanza di

lavoro è sopportato dal lavoratore sia nel lavoro autonomo che in quello subordinato, il rischio

collegato all’utilità del lavoro è sempre sopportato dal lavoratore autonomo che si obbliga a prestare

“l’opus perfectum” e cioè a eseguire e ultimare l’opera a regola d’arte, mentre nel lavoro

subordinato il prestatore di lavoro si obbliga ad eseguire con diligenza la propria attività. Va anche

precisato che la corresponsione di un fisso giornaliero e di un obbligo di esclusiva non sono

incompatibili con la qualificazione autonoma del rapporto di lavoro (Cass. 11 settembre 2000, n.

11936).

5. LA SUBORDINAZIONE SOCIOECONOMICA

Alcuni autori (Scognamiglio) ritengono di poter identificare la subordinazione del prestatore

di lavoro nella sua condizione di inferiorità economico-sociale rispetto al datore di lavoro.

In realtà la subordinazione socioeconomica non può essere considerata un aspetto

caratterizzante la subordinazione e, quindi, elemento distintivo tra il lavoro subordinato e quello

autonomo. Nel nostro ordinamento, infatti, la dipendenza socioeconomica non prelude

necessariamente alla qualificazione dei relativi rapporti di lavoro come prestazioni rese in regime di

subordinazione.

Al riguardo si possono enucleare alcuni esempi: l’art. 409 n. 3 c.p.c. e l’art. 2222 c.c. .

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Al fine dell’applicazione della citata norma procedurale, ciò che rileva non è la condizione

di inferiorità socioeconomica ma la ricorrenza dei requisiti della continuità, della coordinazione e

del carattere prevalentemente personale della prestazione.

Neanche la seconda norma citata, che ravvisa nel lavoro prestato senza vincolo di

subordinazione, prevalentemente o anche esclusivamente personale, il dato che identifica il lavoro

autonomo, consente di affermare che, ogni qualvolta sia ravvisabile una dipendenza economica del

prestatore d’opera nei confronti del committente, ogni distinzione di fattispecie venga a cadere e il

rapporto debba senz’altro considerarsi di lavoro subordinato.

In tema di svolgimento del contratto si è sostenuto che l’esecuzione della prestazione nel

lavoro autonomo non sarebbe necessariamente personale, mentre lo sarebbe nel lavoro subordinato.

È bene chiarire però che anche nelle ipotesi in cui il prestatore d’opera si avvale dell’opera

di terzi (artt. 2222, 2232, 1717 c.c.) il combinato disposto degli artt. 1180 e 1228 c.c. consente di

distinguere l’adempimento diretto del terzo dall’adempimento a mezzo terzi.

Quest’ultima è sempre una forma di adempimento personale giacché il comportamento del

debitore può estendersi dalla propria azione fisica alla direzione dell’altrui attività. Occorre d’altra

parte, sottolineare che, sia pure in ipotesi limitate, non è incompatibile con la natura subordinata del

rapporto la sostituzione del prestatore di lavoro subordinato con il consenso del lavoratore

(contratto di portierato).

6. PLURALITÀ DI INDICI DELLA SUBORDINAZIONE

I criteri distintivi elencati in precedenza non consentono di individuare con chiarezza la

portata subordinata di un rapporto di lavoro. Si tratta quindi di criteri singolarmente non esaustivi.

Partendo da questa considerazione la Giurisprudenza ha elaborato un sistema di analisi

incentrato sulla valutazione combinata dei predetti indici, ponendo l’attenzione non solo sulla

volontà negoziale trasfusa nel contratto ma anche sull’assetto di interessi concretamente posto in

essere dalle parti (Cass. 2 settembre 2000, n. 11502; Cass. 18 dicembre 1996, n. 11329).

La descritta impostazione trae spunto dal disposto dell’art. 1362 c.c. che, in tema di

interpretazione del contratto, individua quali strumenti, al fine di determinare la comune intenzione

delle parti, il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto.

In caso di contrasto tra la dichiarazione della parti e il loro comportamento successivo,

secondo la Giurisprudenza maggioritaria, dovrebbe prevalere quest’ultimo ai fini della

qualificazione giuridica del rapporto come subordinato o autonomo (Cass. 1 marzo 2000, n. 3001;

Cass. , sez. un. , 13 febbraio 1999, n. 61). Vi sono state però alcune pronunce con cui la Cassazione

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ha rivalutato la volontà della parti (nomen juris del contratto), ai fini della qualificazione giuridica

della fattispecie concreta (Cass. 4 aprile 1987, n. 3282; Cass. 29 maggio 1996 n. 4948).

La verifica circa la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato deve passare, pertanto,

attraverso l’analisi degli indici e secondo le modalità interpretative fissati dalla Giurisprudenza.

Il configurarsi della subordinazione è connesso ad una serie di requisiti che vengono presi in

considerazione secondo un preciso ordine gerarchico: “criteri assolutamente prioritari propri del

vincolo di subordinazione (assoggettamento al potere direttivo, disciplinare e di controllo del

datore di lavoro); i parametri esterni del contenuto dell’obbligazione (collaborazione, inserimento,

continuità) in grado di sostituire l’indice principale o di compensarne l’attenuazione; i criteri

residuali (vincolo di orario, forma della retribuzione, incidenza del rischio, oggetto della

prestazione) capaci di rafforzare i precedenti, ma non di sostituirli” (Cfr Giuffrè Il diritto del

lavoro – vol. I – Amoroso, Di Cerbo, Maresca – commento art. 2094). Ai fini della configurabilità

del lavoro subordinato sono, pertanto, decisivi l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e

disciplinare del datore di lavoro con la conseguente limitazione della sua autonomia e il suo

inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre, elementi quali l’assenza del rischio,

l’osservanza di un orario e la cadenza e la misura fissa della retribuzione assumono natura

meramente sussidiaria e non decisiva (cfr. Cass. Sez. lav. 25 ottobre 2004 n. 20669).

Tra i numerosi indici della subordinazione fondamentale è la sottoposizione al potere

direttivo del datore di lavoro e cioè la facoltà del datore di poter astrattamente intervenire in ogni

momento sulle modalità di svolgimento della prestazione, rilevando la continua dedizione

funzionale dell’energia lavorativa al risultato produttivo perseguito dal datore di lavoro.( Trib.

Roma 22 gennaio 1999)

Anche la dottrina ha assunto una posizione analoga, affermando che “la subordinazione si

caratterizza per la sussistenza di un obbligo continuativo di conformarsi alle direttive impartite

dall’imprenditore, cui spetta il potere di intervenire ogni qualvolta lo ritenga opportuno

nell’esecuzione della prestazione”. (Cester – Suppiej; Pessi)

Al riguardo appare fondamentale l’insegnamento della Suprema Corte la quale ha precisato

che i requisiti essenziali del rapporto di lavoro subordinato consistono nell’assoggettamento del

lavoratore al potere organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro, potere che deve

estrinsecarsi in specifici ordini (e non in semplici direttive, compatibili anche con il lavoro

autonomo), oltre che nell’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione

dell’attività lavorativa (cfr. Cass. Sez. lav. N. 12362/03), precisando che lo svolgimento dei

Le varie tipologie di rapporto di lavoro

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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controlli da parte del datore di lavoro assume rilievo ai fini della qualificazione del rapporto come

subordinato solo quando per oggetto e per modalità i controlli siano finalizzati all’esercizio del

potere direttivo (cfr. Cass. Sez. lav. N. 5534/03).

7. QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO PER SUSSUNZIONE – TIPO

LEGALE E TIPO NORMATIVO

Il metodo più rigoroso di qualificazione del rapporto per l’applicazione della disciplina della

subordinazione è quello della sussunzione della fattispecie concreta nel tipo legale disegnato

dall’art. 2094 c.c. .

In altre parole la fattispecie concreta deve presentare tutti i connotati della fattispecie astratta

e coincidere con essa.

Ma è altrettanto opportuno ricordare come a questo metodo se ne contrapponga un altro,

ossia quello tipologico, che fa leva sulla distinzione tra tipo legale e normativo.

Il tipo normativo non individua un tipo legale determinato, ma soltanto talune e non tutte le

caratteristiche di un tipo legale, sicché l’applicazione del metodo tipologico consente al giudice di

non sussumere la fattispecie concreta in quella astratta, ma di ricondurre la prima al tipo normativo.

Il riferimento al tipo normativo consente, quindi, al giudice di considerare come subordinati

anche rapporti di lavoro che non presentano tutti i tratti del tipo legale e quindi finisce per ampliare

di fatto la sua discrezionalità, sia nella qualificazione della fattispecie concreta, sia nella

conseguente determinazione del campo di applicazione della normativa.

8. COLLABORAZIONE COORDINATA E CONTINUATIVA E

LAVORO A PROGETTO

La collaborazione coordinata e continuativa è un rapporto di lavoro caratterizzato dal fatto

che il collaboratore presta la propria opera a favore di un committente senza essere suo dipendente

(quindi in maniera autonoma), anche se tale attività è coordinata con quella del committente e

continuativa.

Si tratta di una forma di lavoro autonomo, dotata di alcuni requisiti (la continuità, il

coordinamento e la collaborazione rispetto all’attività del committente) analoghi a quelli del lavoro

subordinato.

In mancanza di una specifica definizione di legge, la giurisprudenza ha precisato il contenuto degli

elementi necessari per configurare tale rapporto: la continuità, intesa come costanza dell'impegno e

suo perdurare nel tempo; la coordinazione della prestazione, intesa come collegamento funzionale

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con l'attività del committente e come possibilità per questo ultimo di fornire istruzioni nel rispetto

dell'autonomia professionale del collaboratore e infine la personalità della prestazione, intesa come

prevalenza dell'apporto personale del collaboratore.

Il legislatore del 2003 ha creato il lavoro a progetto e ha stabilito che le collaborazioni coordinate e

continuative debbono essere ricondotte ad un progetto, un programma o ad una fase di esso,

secondo la disciplina del c.d. lavoro a progetto.

Pertanto dopo il decreto legislativo n. 276/2003 le collaborazioni scompaiono in gran parte nel

settore privato e sopravvivono solo nel settore pubblico.

Le vecchie collaborazioni coordinate e continuative rimangono in vita anche per le seguenti figure

professionali:

• agenti e rappresentanti di commercio

• lavoratori che esercitano professioni intellettuali per le quali è necessaria

l'iscrizione a specifici albi professionali (già esistenti al momento dell'entrata in vigore del

decreto)

• componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società

• partecipanti a collegi e commissioni (inclusi gli organismi di natura tecnica)

• pensionati al raggiungimento del 65° anno di età

• atleti che svolgono prestazioni sportive in regime di autonomia, anche in

forma di collaborazione coordinata e continuativa

• collaborazioni coordinate e continuative di tipo occasionale, ovvero di durata

non superiore a 30 giorni con un unico committente, e per un compenso annuo non

superiore a 5.000 euro con lo stesso committente

• rapporti di collaborazione con la pubblica amministrazione

• rapporti e attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque resi e

utilizzati a fini istituzionali in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche

affiliate alle federazioni sportive nazionali e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal

CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano)

Vediamo, ora, in che termini le indicazioni contenute nella legge delega (30 del 2003) hanno

ricevuto attuazione. L’articolo 61 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 introduce una

nuova tipologia contrattuale, il lavoro a progetto, e dispone che “i rapporti di collaborazione

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coordinata e continuativa devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o

programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal

collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del

committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa ”.

In sostanza, soltanto per le collaborazioni che potranno essere ricondotte ad uno o più progetti

specifici, programmi di lavoro o fasi di esso sarà possibile la conversione del rapporto al nuovo tipo

di contratto.

L’articolo 69 sancisce, inoltre, il divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa

atipici, ovvero privi dell’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di

esso, disponendo che tali rapporti saranno considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo

indeterminato sin dalla loro data di costituzione.

La norma, facendo riferimento alla mancata “individuazione di uno specifico progetto o programma

di lavoro o fase di esso”, pare riferirsi ad uno dei requisiti formali del nuovo contratto di

collaborazione a progetto previsti a fini probatori dall’articolo 62 (articolo che di seguito

illustreremo più dettagliatamente). Tra gli elementi indicati da tale norma, è, infatti, riportata anche

“l’indicazione del progetto o programma di lavoro o fasi di esso” (art. 62, comma 1, lett. b).

Essendo tale indicazione un elemento formale, previsto dalla norma a fini probatori, parrebbe,

allora, trattarsi di un caso di mera presunzione, la quale potrà essere vinta in sede giudiziale

mediante la prova da parte del committente dell’esistenza concreta di un progetto, oggetto

sostanziale del nuovo contratto di collaborazione.

Affermando, quindi, che i rapporti di collaborazione instaurati senza l’individuazione, intesa in

senso formale, di un progetto (ovvero senza la mera trascrizione del progetto nel contratto) “sono

considerati rapporti di lavoro subordinato”, il legislatore ha inteso creare una presunzione di legge

a favore del collaboratore, ponendo a carico del committente l’onere di provare l’esistenza di un

progetto, e, di conseguenza, la conformità del contratto stipulato alla legge.

Il secondo comma dell’articolo 69 stabilisce, infatti, che laddove il giudice accerti che il rapporto

instaurato tra le parti ai sensi dell’articolo 61 configura in realtà un rapporto di lavoro subordinato, e

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quindi, laddove il committente non abbia fornito la prova dell’esistenza del progetto, il rapporto

“si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di

fatto realizzatasi dalle parti”. Si ricorda infatti che, al di là delle novità normative introdotte dalla

riforma, il principio fondamentale operante nell’ambito del diritto del lavoro consiste nella

prevalenza degli aspetti sostanziali rispetto agli elementi meramente formali eventualmente con essi

in contrasto.

Proseguendo nella lettura dell’articolo, al terzo comma il legislatore sottolinea che “il controllo

giudiziale è limitato esclusivamente /…/ all’accertamento dell’esistenza di un progetto, programma

di lavoro o fase di esso, e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e

scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”. In sostanza, dunque,

l’indagine che il giudice potrà condurre in sede giurisdizionale dovrà essere finalizzata

esclusivamente alla verifica dell’esistenza di un progetto quale oggetto del contratto, senza poterne

però sindacare la validità o l’opportunità nell’ambito dell’organizzazione aziendale.

L’intera disciplina dettata dai tre commi dell’articolo 69 che abbiamo appena illustrato si riferisce ai

rapporti di collaborazione instaurati sotto la vigenza del decreto legislativo, e dunque a contratti

stipulati dopo la sua entrata in vigore (24 ottobre 2003). Per tutti i rapporti pendenti è infatti

prevista un’apposita disposizione transitoria, l’articolo 86, che riguarda i contratti di collaborazione

posti in essere prima dell’entrata in vigore del presente decreto, articolo di cui ci occuperemo nella

parte finale.

Le due disposizioni sulle quali ci siamo fin qui soffermati, gli articoli 61 e 69, sono da sole

sufficienti a evidenziare l’indiscutibile centralità nell’ambito del nuovo panorama lavorativo del

concetto di progetto, quale fulcro e discrimine tra diverse ipotesi contrattuali. Una corretta

applicazione pratica del dettato normativo implica, dunque, che sia inequivocabilmente chiaro che

cosa debba intendersi per progetto.

Al riguardo, i diversi testi legislativi non facilitano un’interpretazione univoca, dal momento che il

concetto viene espresso, nei diversi passaggi della disciplina, in maniera non del tutto uguale: il

Libro Bianco parlava di progetto o programma di lavoro o fase di esso; la legge 30/2003 parla di

uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso; il decreto attuativo fa riferimento a uno o

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più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso. Sul punto, il sottosegretario al Lavoro si

limita a dire, con una definizione a contrario, cosa il progetto non è, affermando semplicemente che

“non si tratta dell’esecuzione di un’opera” (Il Sole – 24 Ore, 13 settembre 2003, n. 251).

Considerando che tale istituto è immediatamente applicabile dall’entrata in vigore del decreto

legislativo (24 ottobre 2003), e che non saranno necessari ulteriori interventi da parte della

contrattazione collettiva o del ministero (salvo, come precedentemente accennato, eventuali decreti

correttivi), un simile “astrattismo” potrebbe rischiare di vanificare la stessa introduzione dell’intero

istituto.

Dall’impostazione lessicale scelta per il testo definitivo varato dal Governo (“uno o più progetti

specifici o programmi di lavoro o fasi di esso”), parrebbe emergere l’intenzione del legislatore di

fornire contenitori concettuali il più possibile ampi, in grado di accogliere realtà tra loro eterogenee.

A conferma di ciò vale anche l’assenza di una definizione giuridica dei termini “progetto specifico”

e “programma”.

La mancanza di tali definizioni determinerà, quasi certamente, non poche difficoltà nell’ambito

della predisposizione formale dei nuovi contratti, e ciò anche alla luce della indubbia genericità dei

termini utilizzati. Sarebbe lecito, quindi, domandarsi, a titolo esemplificativo, se il progetto sia un

concetto più o meno ampio rispetto al programma, o se il progetto debba necessariamente o meno

comprendere un programma, o, ancora, se progetto e programma possano consistere in ordinarie

attività operative. Questi sono soltanto alcuni dei quesiti che ad oggi rimangono senza una risposta

certa e che solo l’elaborazione giurisprudenziale e della dottrina potranno contribuire a risolvere.

Ma, al di là di ogni definizione e sottigliezza lessicale, dietro i concetti di “progetto” e

“programma” deve sussistere effettivamente un rapporto di lavoro di natura sostanzialmente

autonoma, ovvero senza vincolo di subordinazione (il progetto specifico o il programma deve,

infatti, essere gestito “autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato /…/”, art. 61,

comma 1).

Per quanto riguarda, invece, i requisiti formali previsti per le nuove collaborazioni a progetto, il

testo legislativo non pone particolari questioni interpretative. L’articolo 62 del decreto legislativo,

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infatti, come precedentemente accennato, si limita a riprendere quanto stabilito dall’articolo 4,

comma 1, lett. c, n. 1 della legge delega.

Il contratto di lavoro a progetto dovrà essere stipulato in forma scritta e dovrà contenere, come

precedentemente accennato a fini probatori, una serie di elementi tassativamente indicati dal

legislatore delegato. I cinque requisiti formali previsti per le nuove collaborazioni sono dall’articolo

62 elencati come segue: indicazione della durata, determinata o determinabile, della prestazione di

lavoro; indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuato nel suo

contenuto caratterizzante, che viene dedotto in contratto; il corrispettivo e i criteri per la sua

determinazione, nonché i tempi e le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese; le

forme di coordinamento tra il lavoratore a progetto e il committente sull’esecuzione, anche

temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicare

l’autonomia del lavoratore nell’esecuzione dell’obbligazione lavorativa; e, infine, le eventuali

misure per la tutela della salute e la sicurezza del collaboratore a progetto, ferma restando

l’applicazione delle norme di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modifiche e

integrazioni, qualora la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente,

nonché le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e le disposizioni

sul processo del lavoro (art. 66, comma 4).

Per quel che riguarda i diritti riconosciuti alla nuova figura del collaboratore a progetto, la

disciplina dettata dal decreto non esclude l’applicazione di clausole di contratto individuale o di

accordo collettivo più favorevoli per il lavoratore (art. 61, comma 4).

Oltre a quanto disposto dall’ultimo comma dell’art. 66, il decreto precisa che la gravidanza, la

malattia e l’infortunio del collaboratore non comportano l’automatica estinzione del contratto, il

quale, in questo lasso di tempo, rimane sospeso senza l’erogazione del corrispettivo (art. 66,

comma 1).

Con riguardo a malattia ed infortunio, inoltre, la nuova disciplina riserva un ruolo rilevante alla

volontà delle parti in sede di contrattazione individuale, disponendo che, in tali casi, la sospensione

del rapporto non comporta la proroga della durata del contratto, il quale si estinguerà dunque alla

scadenza prevista, salvo che i contraenti abbiano stabilito un diverso accordo contrattuale (art. 66,

comma 2).

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In caso di gravidanza, invece, la durata del rapporto è prorogata ex lege per un periodo di 180

giorni, salvo, anche qui, una disposizione del contratto più favorevole per la donna (art. 66, comma

3).

Esclusa l’ultima ipotesi illustrata, “il committente può comunque recedere dal contratto se la

sospensione si protrae per un periodo superiore a un sesto della durata stabilita dal contratto,

quando essa sia determinata, ovvero superiore a trenta giorni per i contratti di durata

determinabile” (art. 66, comma 2).

Il legislatore ha, poi, stabilito il criterio per la determinazione del corrispettivo spettante al

collaboratore, il quale dovrà essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito.

Tale determinazione dovrà inoltre tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe

prestazioni lavorative autonome nel luogo di esecuzione del rapporto (art. 63).

Anche questa disposizione, la cui ratio è certamente più riconducibile ai rapporti di lavoro

subordinato, potrà, nell’ambito di lavori a progetto eseguiti in équipe, provocare intuibili

problematiche applicative e probabili rivendicazioni.

Una disposizione ad hoc è dedicata alla disciplina delle invenzioni del collaboratore: l’art. 65

stabilisce, infatti, che il lavoratore a progetto ha diritto di essere riconosciuto autore delle invenzioni

fatte nello svolgimento del rapporto.

L’articolo 67 disciplina, poi, l’estinzione del contratto, stabilendo che la realizzazione del progetto

o del programma di lavoro o della fase di esso indicato nel contratto ne comporta la risoluzione

(comma 1). Il recesso prima della scadenza stabilita o prima della realizzazione del progetto o del

programma di lavoro o di una sua fase, sarà possibile solo in presenza di giusta causa ovvero

“secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto di

lavoro individuale” (comma 2).

Anche in questo caso, dunque, come per eventuali ipotesi di proroga possibili in caso di malattia,

infortunio gravidanza, la volontà delle parti assume un’importanza notevole, poiché a loro è lasciata

la possibilità di tracciare, attorno al nucleo delineato dal legislatore, i contorni del rapporto che, di

fatto, intendono attuare. Al di là delle disposizioni di legge, la reale portata della forza contrattuale

effettivamente esercitabile dal collaboratore nell’ambito della definizione dell’assetto contrattuale

sarà valutabile soltanto sulla base dell’esperienza concreta.

In ogni caso, i diritti previsti per il collaboratore dalle disposizioni finora illustrate possono formare

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oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti in sede di certificazione del rapporto (art. 68).

Il quadro dei rapporti tra committente e collaboratore include, infine, il divieto per quest’ultimo, di

svolgere attività in concorrenza con l’attività del committente. Inoltre, il lavoratore non dovrà

diffondere notizie o apprezzamenti relativi ai programmi e all’organizzazione dell’attività (art. 64,

comma 2). Si tratta, in sostanza, di un generale obbligo di fedeltà e riservatezza posto a carico del

collaboratore a progetto, al quale, salvo un diverso accordo tra le parti, resta consentito di svolgere

la propria attività in favore di più committenti (art. 64, comma 1).

Il secondo comma dell’articolo 61 opera una prima delimitazione del campo di applicazione delle

disposizioni dettate per le collaborazioni a progetto, escludendo dalla disciplina fin qui illustrata le

prestazioni occasionali, ovvero i “rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel

corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente

percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro, nel qual caso trovano

applicazione le disposizioni contenute nel presente capo”.

Le prestazioni occasionali non rientrano, dunque, nell’ambito delle collaborazioni a progetto

laddove si verifichino le condizioni temporali ed economiche espressamente stabilite dal decreto

legislativo. La disposizione appena richiamata definisce, infatti, le prestazioni occasionali come

quelle derivanti da rapporti di lavoro di durata complessiva non superiore a trenta giorni svolti

nello stesso anno solare e con il medesimo committente. Il che induce a ritenere possibile la

ripetizione di tali rapporti nel corso degli anni, fermo restando il limite complessivo annuale.

Il terzo comma dell’articolo 61, proseguendo nel delineare i limiti di applicazione della presente

disciplina, elenca i settori non sottoposti alle disposizioni fin qui illustrate. In particolare, tali

disposizioni non si applicano alle professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria

l’iscrizione in appositi albi professionali, ai componenti degli organi di amministrazione e controllo

delle società e ai partecipanti a collegi e commissioni, nonché a coloro che percepiscono la

pensione di vecchiaia. Infine, sono esclusi dall’applicazione di tale disciplina i rapporti e le attività

di collaborazione continuativa resi a fini istituzionali a favore di associazioni e società sportive

dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli

enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni.

Per quanto riguarda l’esclusione delle professioni intellettuali, oltre al limite della necessaria

iscrizione in appositi albi professionali, è previsto che tali albi siano esistenti alla data di entrata in

vigore del presente decreto legislativo.

L’esplicita esclusione prevista per i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle

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società è collegata alla previsione della legge 80/2003, che ha delegato il Governo alla “revisione

della disciplina dei redditi derivanti dai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa

espressamente definiti, con inclusione degli stessi nell’ambito dei reddito di lavoro autonomo” (art.

3, comma 1, punto 8 legge 80/2003). Amministratori, sindaci e revisori contabili saranno, pertanto,

ricondotti nell’ambito dei percettori di reddito da lavoro autonomo. Considerando, comunque, che

questi rapporti non trovano origine in un contratto, tale esclusione si configura più come una

precisazione che come un’innovazione.

Per quanto riguarda il settore del pubblico impiego, il decreto legislativo stabilisce che le nuove

disposizioni non si applicano al personale della pubblica amministrazione, fatte salve alcune

previsioni espressamente estese al settore pubblico. Per quello che in questa sede ci interessa,

ovvero le disposizioni relative alle collaborazioni a progetto, è prevista l’esclusione della loro

applicazione a tale settore. Ne consegue, dunque, che in questo ambito si potranno continuare a

stipulare contratti di collaborazione anche a tempo indeterminato e, comunque, non riconducibili a

un progetto, programma di lavoro o fasi di esso (ferma restando l’assenza di vincoli di

subordinazione).

Sul punto è già intervenuto il Consiglio di Stato con una sentenza relativa ai requisiti di

indipendenza e infungibilità caratterizzanti l’incarico professionale nel settore pubblico. Secondo i

giudici del Consiglio, gli incarichi di collaborazione con un ente locale sono compatibili con la

sussistenza di elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato (quali l’osservanza di un certo

orario di lavoro o la concessione di ferie e permessi), purché vi siano elementi sostanziali che

marchino l’autonomia nelle modalità di svolgimento dell’attività e la infungibilità della stessa con

una prestazione di lavoro subordinato (Cons. di Stato, sez. V, sent. n. 5144 del 15 sett. 2003).

Al settore pubblico non si applicano, inoltre, i criteri previsti dall’articolo 61, comma secondo, in

ordine alla determinazione del rapporto di lavoro occasionale.

Tutta la disciplina finora delineata prevede, come abbiamo avuto modo di accennare, una normativa

immediatamente applicabile dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 276/2003 (24 ottobre 2003). In

ordine al profilo del nuovo istituto della collaborazione a progetto, infatti, non sono necessari

ulteriori interventi da parte della contrattazione collettiva o del ministero.

Per quanto riguarda il regime transitorio, il testo governativo prevede che i contratti di

collaborazione in essere (e quindi i contratti instaurati prima dell’entrata in vigore del presente

decreto legislativo), i quali non possano essere ricondotti ad un progetto, “mantengono efficacia

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fino alla loro scadenza e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del

presente provvedimento” ( art. 86, comma 1).

Ciò significa che i contratti di collaborazione coordinata e continuativa eventualmente stipulati

prima del 24 ottobre 2003, laddove non siano riconducibili ad un progetto, e fatta, ovviamente,

sempre salva la possibilità da parte del lavoratore di contestare la loro reale natura,

manterranno efficacia (ovvero continuano a consistere nei rapporti di collaborazione coordinata e

continuativa) fino, al massimo, al 24 ottobre 2004.

Proseguendo, però, la lettura dell’articolo 86 relativo al regime transitorio, si legge che “termini

diversi, anche superiori all’anno, di efficacia delle collaborazioni coordinate e continuative

stipulate ai sensi della disciplina vigente potranno essere stabiliti nell’ambito di accordi sindacali

di transizione al nuovo regime”.

In sostanza, dunque, viene data alla contrattazione collettiva la possibilità di mantenere in vita una

tipologia contrattuale diversa da quella voluta dal legislatore con la presente riforma. Si prevede,

infatti, a favore della contrattazione collettiva, il potere di derogare alla legge senza che venga

contestualmente stabilito un limite temporale a tale deroga.

Il legislatore, inoltre, sul punto non si limita a demandare alla contrattazione collettiva nazionale,

ma rimanda addirittura a quella di livello aziendale. La norma fa, infatti, riferimento ad “accordi

sindacali di transizione /…/ stipulati in sede aziendale con le istanze aziendali dei sindacati

comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale”.

Quindi, le collaborazioni coordinate e continuative, stipulate sino al 23 ottobre 2003, non

riconducibili a un progetto potrebbero, in linea teorica, restare in vita per un tempo indeterminato.

La durata di tali contratti dipenderà, infatti, dalla forza contrattuale che avranno le singole aziende

di imporre alle organizzazioni sindacali il mantenimento di un contratto che, dal punto di vista

legislativo, non esiste più.

Quanto appena detto appare ancora più curioso se si considera la disciplina dettata per i rapporti che

sorgeranno dopo l’entrata in vigore del presente provvedimento. E’ infatti lo stesso decreto

legislativo ad imporre, come visto a proposito dell’articolo 69, la conversione dei rapporti di

collaborazione non riconducibili a un progetto in contratti di lavoro subordinato sin dalla data di

costituzione del rapporto.

In conclusione, dunque, il legislatore delegato da un lato vieta di porre in essere nuovi contratti di

collaborazione coordinata e continuativa, disponendo che le collaborazioni non riconducibili a

progetto subiranno la conversione in rapporti di lavoro subordinato (art. 69), dall’altro consente che

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i contratti di collaborazione già esistenti al momento dell’entrata in vigore del presente decreto, i

quali non siano riconducibili a un progetto, potrebbero rimanere in essere sine die in base ad accordi

sindacali “di transizione” (art. 86).

9. LAVORO GRATUITO E PRESTAZIONE DI LAVORO NEI

RAPPORTI ASSOCIATIVI

La struttura del rapporto di lavoro è articolata intorno alle due obbligazioni fondamentali

della retribuzione da un lato, e dell’attività lavorativa dall’altro, reciprocamente connesse da un

vincolo di interdipendenza o corrispettività genetica e funzionale.

Questo nesso di corrispettività (sinallagma) conferisce al contratto di lavoro la fisionomia di

contratto tipicamente oneroso e, in particolare, a prestazioni corrispettive (artt. 1453 ss. c.c.).

Nel contratto di lavoro, secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale, la causa è lo

scambio oneroso di due distinte prestazioni, tuttavia il contratto di lavoro può essere caratterizzato

dall’intento di obbligarsi gratuitamente e finalizzato ad un interesse meritevole di tutela ai sensi

dell’art. 1322 c.c. .

Il contratto di lavoro gratuito è, pertanto, lecito ma innominato: non si tratta, cioè, dello

stesso contratto previsto e disciplinato dagli artt. 2094 e ss. c.c., ma di un contratto avente causa e

quindi natura diversa.

La prestazione resa gratuitamente, può lasciare forti dubbi in ordine alla liceità del rapporto,

potendo assumere le vesti di una frode o, comunque, di un tentativo di aggirare la normativa fiscale

e previdenziale.

La conclusione sopra enucleata, rappresenta una ipotesi e non la conseguenza esclusiva di

una prestazione resa senza percepire alcun compenso. È infatti possibile che le prestazioni

lavorative siano rese in adempimento di doveri morali o sociali (art. 2034 c.c.).

Vi sono, poi, organizzazioni a scopo benefico o solidaristico, oppure ideologico e di

tendenza (giornali, sindacati, partiti) che si avvalgono di prestazioni gratuite.

In tutti questi casi è assente il vincolo della subordinazione tecnico-funzionale.

Al lavoro gratuito può essere avvicinato anche il c.d. volontario regolamentato dalla legge

11 agosto 1991, n. 266 (legge quadro sul volontariato), la quale ne ha riconosciuto il valore sociale,

cercando nel contempo di favorirne la diffusione, attraverso agevolazioni fiscali ed incentivi

economici di varia natura.

Le varie tipologie di rapporto di lavoro

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Dette organizzazioni, al fine di perseguire i propri obbiettivi, devono avvalersi di prestazioni

rese da soci o aderenti in regime di assoluta gratuità, essendo la loro posizione incompatibile con

qualsiasi forma di subordinazione o prestazione autonoma.

La possibilità per le predette associazioni, di assumere personale è limitata alle esigenze

funzionali strettamente necessarie o alla necessità di qualificare i specializzare l’attività da esse

svolte, attraverso il conferimento di incarichi a professionisti (es. psicologo in una comunità per

minori c.d. a rischio).

Oltre al lavoro gratuito in senso stretto, vi sono una serie di ulteriori ipotesi che, pur non

evidenziando una gratuità vera e propria, non sono annoverabili tra i contratti caratterizzati dal

sinallagma oneroso.

• Una ipotesi a se è quella del lavoro familiare, variamente identificato dalle leggi

vigenti che lo escludono dal campo di applicazione della disposizioni limitative ed

assicurative poste a tutela del lavoratore con riferimento al vincolo coniugale o di

parentela (figli, fratelli) o di affinità entro un certo grado nonché alla convivenza: in

simili casi la prestazione di lavoro, non essendo dovuta in forza di un vincolo

obbligatorio, ma resa spontaneamente nell’adempimento di un dovere familiare, è

assimilabile ad una prestazione gratuita. Tuttavia, l’art. 230 bis c.c. considera il

lavoro prestato in modo continuativo nell’ambito della famiglia o dell’impresa

familiare come un rapporto di tipo associativo salvo che sia configurabile un diverso

rapporto. Invero, all’attività di lavoro del familiare non corrisponde soltanto il diritto

al mantenimento, ma altresì quello ad una vera e propria partecipazione agli utili

dell’impresa in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

• La prestazione di lavoro può essere offerta ed impiegata utilizzando modelli

contrattuali diversi dal lavoro subordinato, non solo innominati (come quelli del

lavoro gratuito e del lavoro volontario) ma anche nominati. Sotto quest’ultimo

profilo una particolare considerazione meritano le ipotesi in cui un’obbligazione di

facere finalizzata alla collaborazione nell’impresa venga inserita nello schema tipico

dei contratti associativi (associazione in partecipazione artt. 2549 ss. c.c., società di

persone artt. 2251 ss. c.c., società cooperative artt. 2511 ss. c.c.). Simili rapporti di

lavoro c.d. associativi, non sono riconducibili alla figura tipica del contratto di lavoro

subordinato in quanto è assente l’elemento causale dello scambio tra prestazione di

lavoro e retribuzione; tuttavia, sotto il profilo economico presentano una situazione

Le varie tipologie di rapporto di lavoro

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di sottoprotezione sociale del prestatore di lavoro associato analoga a quella

solitamente riferibile al prestatore subordinato. In effetti questi rapporti, qualificati

sul piano causale dall’esercizio in comune di una attività economica e perciò dalla

comune assunzione del rischio di impresa e dal comune scopo di lucro (divisione

utili ex art. 2247 c.c.), sono caratterizzati, sul piano pratico, dall’obbiettivo di

cointeressare il lavoratore ai risultati dell’impresa associandolo all’esercizio

dell’attività economica e non semplicemente collegando la retribuzione agli utili

dell’impresa ( cfr. art. 2099 comma 3 e 2102 c.c.).

• Il lavoro dei soci delle cooperative di produzione e lavoro. In tale ipotesi, la

prestazione di lavoro viene svolta nell’ambito di società cooperative costituite allo

scopo di svolgere una attività economica organizzata per il mercato mediante

l’utilizzazione del lavoro dei soci, i quali – oltre ad essere i titolari del diritto alle

prestazioni mutualistiche (ricerca e ripartizione delle occasioni di lavoro) nonché,

ove previsto, alla ripartizione degli utili – sono obbligati alla prestazione in

adempimento del patto sociale e dunque per l’attuazione dello scopo mutualistico

proprio dell’impresa cooperativa in generale (cfr. art. 2511 c.c.). La legge 30 aprile

2001, n. 142, allo scopo di assicurare ai soci delle cooperative di lavoro un

trattamento equiparabile a quello dei lavoratori subordinati, ha inteso per quanto

possibile assimilare la posizione del socio lavoratore a quella del prestatore di lavoro

subordinato. Il socio lavoratore, oltre a partecipare al rischio di impresa, mette a

disposizione della cooperativa la propria capacità professionale e riceve in cambio un

trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità ed alla qualità del

lavoro svolto.

In conclusione appare opportuno un veloce cenno alle cooperative sociali (istituite con la

legge 8 novembre 1991, n. 381) la cui finalità è quella di perseguire l’interesse generale della

comunità alla promozione ed integrazione sociale dei cittadini, ed ai rapporti associativi in

agricoltura i quali, alla luce delle innovazioni legislative e del mutato assetto socioeconomico,

presentano un esclusivo interesse storico.