Strumenti del culto nella Tradizione Romana

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Strumenti del culto: focolari, mensa e supellettili Nella religione romana, non era possibile compiere riti sacri senza la presenza di un focolare ... nè è lecito che si svolgano sacrifici pubblici o privati senza il fuoco... [Serv. Aen. III, 134] In particolare i focolari domestici erano consacrati alle divinità protettrici della casa, Lares e Penates [Serv. Aen. III, 178; III, 134; VI, 152]. Le offerte, le libagioni e parti delle vittime che erano destinate agli Dei, venivano bruciate, per fare questo i romani accendevano dei fuochi (definiti in generale foci [Serv. Aen. XII, 118]) su “supporti” chiamati altaria o arae, oppure su semplici focolari accesi sul terreno, foci. ... si offrano le viscere (exta porriciunto), si diano agli Dei, o su altari, o su arae, o su focolari (foci), o dovunque si debbano dare i visceri (exta dari)... [Fab. Pict. De Jure Pont. I, Fr. 4 P apd Macr. Sat. III, 2, 3] Gli altaria 1 erano strutture, generalmente in pietra, sopraelevate e permanenti, su cui ardevano i fuochi dei sacrifici [Fest. 5; Isid. Orig. XV, 4, 14]; le arae erano più piccole e meno imponenti, e vi era uno spazio per accendere un piccolo fuoco da usare durante i riti [Serv. Aen. V, 93]. I focolari erano semplici spazi delimitati sul terreno, in cui si accendevano i fuochi, oppure braceri di metallo portatili che venivano preparati quando necessario; vi erano poi i mundus, ovvero focolari accesi in buche scavate nel terreno. Secondo una suddivisione riportata da Servio, le arae erano dedicate alle divinità celesti, i foci agli Dei Medioximi o marini, i mundi alle Divinità Infere [Serv. Aen. III, 134]. Nella stessa suddivisione Varrone includeva gli altaria, ma non considerava i mundi, per cui gli altaria sarebbero stati dedicati alle Divinità Celesti, le arae a quelle Terrestri, i foci a quelle Infere [Verg. Ecl. V, 66; Var. apud Serv. ad loc.; Lucan. Phars. III, 404]. La stessa suddivisione si trova in Festo che però sembra riferirsi ai mundi anziché ai foci Gli altaria prendono il nome dall’altezza, poichè anticamente i riti per gli Dei Celesti erano compiuti in edifici sollevati da terra, quelli per gli Dei Terresti sulla terra, quelli per gi Dei Inferi in fosse [Fest. 29; cfr. Lact. Ad Stat. Theb. IV, 459] Ed è richiamata anche da Vitruvio ... le areae dovrebbero guardare a est ed essere sempre poste a un livello inferior rispetto ai simulacra degli Dei nel tempio, così che coloro che stanno pregando e sacrificando, possano guardare in alto verso la divinità. Siano di differente altezza, regolata in maniera appropriata a ciascuna divinità... per Giove e tutti gli Dei Celesti siano il più alte possible, per Vesta e Madre Tellus, che siano più basse... [Vitr. Arch. IV, 9] Nella realtà però la distinzione tra altaria e arae non era così chiara: Servio ad esempio riporta che secondo alcuni l’altar era la struttura su cui si versavano le libagioni, mentre per altri era un tipo di ara [Serv. Aen. XII, 174; Serv. Aen. III, 134]; ci dice inoltre che per certi autori le arae venivano usate nei riti per tutte le classi di Dei [Serv. Aen. II, 515; III, 505; V, 54] 2 . È molto probabile che in origine gli altaria fossero le uniche strutture permanenti, in pietra, solennemente consacrate e dedicate, su cui erano compiuti gli atti di culto; le arae invece erano strutture temporanee che 1 Vedi H. C. Bowerman – Roman Sacrifical Altars, Lancaster PA 1913 2 Daremberg et Saglio - Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines: ara

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Strumenti del culto: focolari, mensa e supellettili

Nella religione romana, non era possibile compiere riti sacri senza la presenza di un focolare

... nè è lecito che si svolgano sacrifici pubblici o privati senza il fuoco... [Serv. Aen. III, 134]

In particolare i focolari domestici erano consacrati alle divinità protettrici della casa, Lares e Penates [Serv. Aen. III, 178; III, 134; VI, 152].

Le offerte, le libagioni e parti delle vittime che erano destinate agli Dei, venivano bruciate, per fare questo i romani accendevano dei fuochi (definiti in generale foci [Serv. Aen. XII, 118]) su “supporti” chiamati altaria o arae, oppure su semplici focolari accesi sul terreno, foci.

... si offrano le viscere (exta porriciunto), si diano agli Dei, o su altari, o su arae, o su focolari (foci), o dovunque si debbano dare i visceri (exta dari)... [Fab. Pict. De Jure Pont. I, Fr. 4 P apd Macr. Sat. III, 2, 3]

Gli altaria1 erano strutture, generalmente in pietra, sopraelevate e permanenti, su cui ardevano i fuochi dei sacrifici [Fest. 5; Isid. Orig. XV, 4, 14]; le arae erano più piccole e meno imponenti, e vi era uno spazio per accendere un piccolo fuoco da usare durante i riti [Serv. Aen. V, 93]. I focolari erano semplici spazi delimitati sul terreno, in cui si accendevano i fuochi, oppure braceri di metallo portatili che venivano preparati quando necessario; vi erano poi i mundus, ovvero focolari accesi in buche scavate nel terreno.

Secondo una suddivisione riportata da Servio, le arae erano dedicate alle divinità celesti, i foci agli Dei Medioximi o marini, i mundi alle Divinità Infere [Serv. Aen. III, 134]. Nella stessa suddivisione Varrone includeva gli altaria, ma non considerava i mundi, per cui gli altaria sarebbero stati dedicati alle Divinità Celesti, le arae a quelle Terrestri, i foci a quelle Infere [Verg. Ecl. V, 66; Var. apud Serv. ad loc.; Lucan. Phars. III, 404]. La stessa suddivisione si trova in Festo che però sembra riferirsi ai mundi anziché ai foci

Gli altaria prendono il nome dall’altezza, poichè anticamente i riti per gli Dei Celesti erano compiuti in edifici sollevati da terra, quelli per gli Dei Terresti sulla terra, quelli per gi Dei Inferi in fosse [Fest. 29; cfr. Lact. Ad Stat. Theb. IV, 459]

Ed è richiamata anche da Vitruvio

... le areae dovrebbero guardare a est ed essere sempre poste a un livello inferior rispetto ai simulacra degli Dei nel tempio, così che coloro che stanno pregando e sacrificando, possano guardare in alto verso la divinità. Siano di differente altezza, regolata in maniera appropriata a ciascuna divinità... per Giove e tutti gli Dei Celesti siano il più alte possible, per Vesta e Madre Tellus, che siano più basse... [Vitr. Arch. IV, 9]

Nella realtà però la distinzione tra altaria e arae non era così chiara: Servio ad esempio riporta che secondo alcuni l’altar era la struttura su cui si versavano le libagioni, mentre per altri era un tipo di ara [Serv. Aen. XII, 174; Serv. Aen. III, 134]; ci dice inoltre che per certi autori le arae venivano usate nei riti per tutte le classi di Dei [Serv. Aen. II, 515; III, 505; V, 54]2.

È molto probabile che in origine gli altaria fossero le uniche strutture permanenti, in pietra, solennemente consacrate e dedicate, su cui erano compiuti gli atti di culto; le arae invece erano strutture temporanee che

1 Vedi H. C. Bowerman – Roman Sacrifical Altars, Lancaster PA 1913 2 Daremberg et Saglio - Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines: ara

venivano costruite al momento in cui servivano con i materiali reperibili sul posto, su cui erano posti i focolari per i riti sacri.

Ara e focus Le arae erano distinte in due categorie, quelle fisse, solennemente posizionate in un luogo sacro dedicato ad una divinità, edificate con materiali duraturi e spesso pregiati e quelle costruite per un’occasione precisa, o per divinità di minor importanza, solitamente con materiali di poco valore, anche solo zolle d’erba, definite temporanee (arae temporales), ne troviamo molti esempi nei testi poetici, soprattutto in ambito rurale [Ov. Fast. II, 645; Met. XV, 574; Hor. Car. I, 19, 13; III, 8, 3; Mart. III, 24; Verg. Aen. VII, 109; XII, 119; Sil. It. Pun. XVI, 263; Calp. Sic. II, 62; V, 25; Val. Flac. IV, 339; Stat. Theb. II, 246; Cod. Theod. XVI, 10, 12, 2]

... era infatti usanza dei romani ammucchiare zolle d’erba e lì compiere i sacrifici... [Serv. Aen. XII, 119]

… et ante aedem, in cespite promagister et flamen sacrum fecerunt… [AFA 26]

Tale usanza è ricordata anche nelle arae fisse che spesso sono decorate con cespi d’erba e corone di gramigne, verbene, o piante di bosco [Ov. Trist. III, 13, 14 – 16; V, 5, 11; Prud. X, 187; Auson. Ephem. Parec. 13; Hor. Car. I, 19, 13; IV, 2, 78; 11, 7; Ter. And. IV, 3, 11; Ov. Met. VII, 242; Stat. Theb. II, 248].

Potevano anche essere consacrate più arae alla stessa divinità in un medesimo luogo [Var. apud Macr. Sat. I, 9, 16; Lyd. Mens. IV, 2; Verg. Aen. III, 305; Ecl. V, 66]; in questo caso si sarebbe dovuta rispettare la regola per cui agli Dei Celesti ne spettava un numero dispari, a quelli Inferi un numero pari, ma i testi letterari danno anche esempi contrari [Verg. Ecl. V, 66; Stat. Theb. IV, 456; VIII, 298]. Arae erano consacrate anche ai Manes, solitamente nelle vicinanze dei sepolcri [Verg. Aen. III, 63; VI, 177; Serv. ad loc. ; Verg. Aen. V, 48; Serv. ad loc.; Ov. Met. VIII, 480].

Le arae erano generalmente di forma qudrangolare3, anche se ne sono documentate di forma circolare, e di altezza tale per cui fosse possibile toccarle con la mano e versarvi libagioni o offerte stando in piedi. Si trovavano spesso in un luogo consacrato, fanum o sacellum (vedi oltre), se erano annesse ad un tempio, erano normalmente all’esterno dell’edificio sacro, così che i sacrifici fossero sempre compiuti sotto il cielo (vedi AFA4), tuttavia sappiamo che c’erano sacrifici che si sovlgevano nella parte interna del tempio (penetrale sacrificium [Fest. 250]), per cui dovevano essercene anche all’interno [Suet. Aug. XXXV; Arnob. Adv. Nat. VII, 15; Tac. Ann. XVI, 30].

I foci erano focolari portatili, generalmente rotondi, muniti di manici, in metallo o terracotta, di piccole dimensioni. Venivano ampiamente usati sia in ambito privato che pubblico, ad esempio nei riti di capitis sacratio [Cic. Domo 123 – 24; Plut. Cras. XVI; Plin. XXVIII, 3, 11]. Alcuni, bassi e di piccole dimensioni, erano soltamente posti davanti a statue e immagini sacre e usati per bruciare incenso lasciato cadere dal devoto in piedi (arae turicremae).

Solitamente erano posizionati nei pressi delle arae e vi si facevano sacrifici di incenso, liba, cereali, libagioni, ecc... escluse quelle di exta. Era sul focus che si davano le offerte della praefatio. Questa distinzione è ripostata da Servio

3 E. Lubbert - Commentationes pontificales pgg 93 – 94 4 E. Lubbert - Commentationes pontificales pgg 95 – 96

... qui si riferisce al rito pubblico in cui si consacravano i foci assieme alle arae... ‘crateras’ sicuramente, nei quali libavano [foci], ‘focos’ in verità, in cui si compiva il sacrificio legittimo [arae]... [Serv. Aen. XII, 118]

Contro troviamo un passo di Fabio Pittore dal commento al diritto pontificio che allude alla presentazione di exta anche sui foci [Fab. Pict. De Jure Pont. I, Fr. 4 P apd Macr. Sat. III, 2, 3], oltre ch un esempio tratto dagli atti degli arvali [AFA 17 – 24]

La presenza, all’interno dello spazio sacro del sacrificio di ara quadrangolare e focus circolare, ricorda l’organizzazione dello spazio sacro della città di Roma, in cui le arae erano nei templi dedicati alle diverse divinità, e un altare circolare era nell’atrium vestae, a sua volta quest’organizzazione richiama la disposizione degli altari nel sacrificio vedico5. Le arae sono gli altari dedicati ai singoli Dei, su cui bruciano le parti delle vittime a Loro destinate, i ‘fuochi delle offerte’ con cui l’offerta era trasmessa ai Celesti. Di forma quadrangolare e orientate secondo i punti cardinali, rappresentavano il cielo, vi bruciava quindi il fuoco che sale, che stabilisce la comunicazione tra uomini e Dei e permette lo svolgimento del banchetto sacro. Si trattava quindi degli altari sacrificali veri e proprii. Il focolare rotondo, invece non serviva al sacrificio (come nel fuoco di Vesta non si compivano sacrifici), esso era il ‘fuoco del celebrante’ che lo individuava e centrava all’interno dello spazio sacro, il fuoco terreno, rotondo che rappresentava la terra (così come Vesta e il suo fuoco erano idenificai con Tellus), e la casa; era probabilmente acceso con i tizzoni portati dal focolare domestico (come afferma Ovidio nel caso del sacrificio a Terminus [Ov. Fast. II, 639 segg.]), oppure, come il fuoco di Vesta, per frizione.

È noto un caso di offerta di exta compiuta su un focus, quello della vacca honoraria durante i riti per Dea Dia [AFA 17 – 24], va però notato che tale offerta era compiuta nel circo adiacente il santuario, forse sulla pista, in un sito in cui era impossibile costruire un altare, per cui era necessaria una struttura mobile. Attorno al focus erano ammassate zolle d’erba, quest’azione poteva avere il significato di una trasformazione in ara, poichè sappiamo che, anche quando furono costruite in pietra, tali strutture mantennero l’aspetto (almeno nelle decorazioni) di cumuli di zolle; è anche possibile che in questo modo la forma circolare del focus venisse celata all’interno di un cumulo quadrangolare.

L’incenso e le sostanze odorose erano spesso bruciati su braceri portatili chiamati turibula [Cic. Verr. II, 4, 21, 46; Liv. XXIX, 14, 13; Val. Max. III, 3], che era possibile portare in processione.

Mensa Le mensae erano tavoli di vari materiali, posti di fronte ai simulacri degli Dei, sui cui si trovavano le supellettili

sacre e venivano deposte le offerte che non erano destinate ad essere consumate, ma solo consacrate (penetrale sacrificium [Fest. 250]). La rimozione di tali offerte (migrare mensam, convelli mensam) non poteva avvenire con leggerezza, ma doveva seguire all’assenso della divinità (probabilmente veniva eseguito un qualche rito augurale che non ci è pervenuto) [Fest. 158; Serv. Aen. XI, 19]

Sulle mensae non si potevano versare libagioni [Tatius Fr. 1 B apud Macr. Sat. III, 11, 5; Serv. Aen. VIII, 279], che invece si facevano sugli altari; tuttavia era usanza consacrare le mense dei templi assieme agli altari, così che potessero svolgere la stessa funzione [Gran. Flac. Lic. Fr. 9 H apud Macr. Sat. III, 11, 5; Fest. 157; Verg. Aen.

I, 736; Serv. ad loc.; Verg. Aen. VIII, 279; Serv. ad loc.; Val. Max. VIII, 15, 8; CIL III, 6120; V, 815; 6353; X, 205;

5 G. Dumézil – La Religione Romana Arcaica pgg 278 – 285; R. Woodard – Indo-european Sacred Space 2006 §2 - §3

6683], ovvero deporvi vivande, libagioni, offerte in denaro [Macr. Sat. III, 11, 6]; quelle su cui i sacerdoti compivano dei riti sacrificali erano chiamate anclabris [Fest. 11], diversamente dai tavoli profani detti escariae [Fest. 77]; erano invece chiamate trivialis le mensae poste negli incroci [Fest. 158] su cui deporre offerte, probabilmente ai Lares Compitales. Una mensa consacrata doveva essere presente nel tempio di Dea Dia, poiché sappiamo che gli Arvali vi compivano uno dei sacrifici

… reversi in aedem, in mensa sacrum fecerunt ollis… [AFA 26]

Sulle mensae, su cui erano deposti dei cereali o del farro, si prestava sacro giuramento

… mensa frugibusque jurato significa [giurare] per mensam et fruges… [Fest. 124]

Sono ricordate in particolare le mensae che si trovavano nelle sedi delle curiae (curiales mensae), su cui si sacrificava a Juno Curitis [Fest. 64; Dion. H. II, 23; 50]; a Juno Lucina era consacrata una mensa su cui si sacrificava per una settimana dopo la nascita di un bambino [Tert. De Anima XXXIX]. Esistevano anche mensae chiamate adsidelae a cui sedevano i flamines quando compivano certi sacrifici che non ci sono stati tramandati [Fest. 19].

In ambito domestico la mensa era sacra [Plut. Q. R. 64; Q. C. VII, 4; Priap. XVI, 8; Cic. Leg. II, 66; Sil. It. XVII, 281], sacra mensa [Val. Max. II, 1, 8; Tac. Ann. XV, 52], mensae deorum [Verg. Aen. II, 764; Cic. Har. LVII]: di solito posta davanti al focolare domestico o al larario, così che gli Dei Domestici potessero condividere il pasto con la famiglia riunita [Hor. Epod. II, 65; Prop. III, 7, 65; Ov. Fast. VI, 307]

… postquam avem aspexit in templo Anchisa, / sacra in mensa Penatium ordine ponuntur; / immolabat auream victimam pulchram… [Naev. Pun. III Fr 25 B apud Prob. In Verg. Ecl. VI, 31]

… Notti e cene divine! / Mangiare con gli amici / davanti al proprio Lar… [Hor. Sat. II, 6, 66]

Segno di consacrazione era la presenza della patella, un piccolo piatto su cui si presentavano le offerte agli Dei [Var. apud Non 544; Stat. Silv. I, 4, 30; Liv. XXVI, 36; Cic. Ver. II, 4, 21, 46 – 22, 48 ], soprattutto primizie e farro salato [Val. Max. II, 8, 5] e del salinum [Fest. 157; Fest. 329; 344; Hor. Car. II, 16, 13], con cui si offriva sale o farro salato, supellettili sacre [Arnob. Adv. Nat. II, 67; Acron. In Hor. Carm. Comm. II, 16, 14; Val. Max. IV, 4, 3; Plin. Nat. Hist. XXXIII, 44, 153; Liv. XXVI, 36, 6; Cic. Fin. II, 7] e indispensabili al rito privato, in special modo per le parentatio [Fest. 157]

… propriamente salinum e patella nella quale erano offerte primizie con sale agli Dei… [Porph. In Hor. Carm. Comm. II, 16, 14]

… non si fece scrupolo di asportare quel simbolo [patella] dei Penati e degli Dei Ospitali dalla mensa… [Cic. Ver. II, 4, 22, 48]

… patella… cultrix foci… che è usata nei riti sacri… [Pers. III, 25 e Schol. in Pers. III, 26]

… cultrix foci perché il le primizie dei banchetti, offerte in libagione, venivano poste in essa e offerte al fuoco… [Schol. in Pers. III, 26]

inoltre non erano mai sgombre, ma vi si lasciava sempre una parte del pasto o delle suppellettili.

... Floro: chi osserva le antiche usanze non permetterebbe che la mensa sia levata quasi vuota, ma vi lascerebbe sempre del cibo, dichiarando altresì che suo padre e suo nonno... non avrebbero tollerato che la lampada fosse spenta dopo la cena... Lucio disse che aveva sentito dire a sua nonna che la mensa era sacra e nulla di ciò che è sacro dovrebbe essere lasciato vuoto... [Plut. Q. C. VII, 4; cfr. Q. R. 64]

Una mensa vuota era vista come qualcosa di impius, contrario alle norme religiose, fonte di contaminazione, tanto che era vietato presentare una mensa vuota davanti al flamen dialis [Serv. Aen. I, 706].

Una volta che fosse stata imbandita era usanza diffusa deporvi l’anello di uno dei commensali in segno di buon augurio [Plin. Nat. Hist. XXVIII, 5, 24]. Spesso vi si disponevano le immagini degli Dei (in particolare Genius, Penates, Lares) [Ov. Fast. VI, 307 – 308; Tib. I, 1, 37 – 38; Stat. Silv. IV, 6, 32; Fest. 157; Arnob. Adv. Nat. II, 67; Colum. XI, 1] e vi si libava, in particolare per i Penates, gli Dei dell’ospitalità [Cic. Ver. II, 4, 22, 48] e per Giove [Serv. Aen. I, 736].

… frattanto fecero il loro ingresso tre valletti che indossavano bianche tuniche allacciate in alto (succinte), due dei quali collocarono sulla mensa i Lares Bullati, mentre l’altro, portando attorno (circumferens) una patera di vino, cantilenava “Gli Dei ci siano propizii (Dii propitii)”… [Petr. Sat. LX, 8]

La mensa aveva un ruolo centrale durante le feste dedicate alla famiglia come i Caristia [Ov. Fast. II, 617 segg; Val. Max. II, 1, 8], le parentatio e la chiusura dei riti funebri (feriae denicales) [Fest. 157; Cic. Leg. II, 55; Verg. Aen. V, 96 – 98] e i Saturnalia [Macr. Sat. I, 24, 23; Hor. Car. III, 17, 14; Dion. H. VI, 1; Mart. XIV, 70; Lucian. Sat. XIV], inoltre, nei giorni festivi si aggiungeva al cibo imbandito carne di vittime sacrificali [Juv. XI, 86]

Se, durante un banchetto, a qualcuno cadeva di mano del cibo, era considerato un piaculum: non lo si spazzava via tra le immondizie, ma lo si rimetteva sulla tavola e lo si offriva nel focolare del Lar Familiaris [Plin. Nat. Hist. XXVIII, 5, 27]: alla fine del pasto, dopo che le mense erano state tolte, il cibo caduto era portato al focolare e gettato nelle fiamme, mentre i presenti facevano silenzio finchè un ragazzo non avesse annunciato che gli Dei erano propizi [Serv. Aen. I, 730; Verg. Aen. VIII, 283 - 284]. Se ciò accadeva ad un pontefice durante un banchetto sacro, il piaculum era molto grave [Plin. Nat. Hist. XXVIII, 5, 27].

Supellettili sacre Le fonti riportano anche la descrizione di alcuni vasi e suppellettili usati durante i riti sacri, la maggior parte servivano per le libagioni di vino, prova della sua grande importanza in ambito religioso. In generale tutti gli strumenti usati in un sacrificio dovevano essere purificati, troviamo ad esempio vasa pura [Plaut. Amph. 1126. Capt. 861] e in Ovidio vediamo un mercante prelevare acqua lustrale con un urna purificata attrvaerso suffimenta (suffitta urna) [Ov. Fast. V, 675 - 676]. Era anche usanza cingerli con corone o vittae [Verg. Aen. I, 724; Serv. ad loc.]. Secondo gli autori di età imperiale, in epoca arcaica i Romani usavano solo supellettili di terracotta e, in omaggio a questa tradizione, ancora alla loro epoca le supellettili sacre erano in terracotta [Plin. Nat. Hist. XXXV, 46, 158; Val. Max. IV, 4, 11; Apul. Apol. XVIII; Dion. H. II, 23]

Acerra: contenitore in cui era riposto l’incenso da usare nei sacrifici, solitamente portata dai camilli [Suet. Gal. VIII; Plin. Nat. Hist. XXXV, 30], da cui viene l’espressione ‘de acerra libare’ [Hor. Car. III, 8, 2; Ov. Pont. IV, 8, 39; Fast. IV, 935; Met. VIII, 266; XII, 703; Pers. II, 5; Verg. Aen. V, 745; Serv. Ad loc.; AFA pg 26 H; Suet. Tib. XLIV; Mart. X, 24, 5]. Lo stesso nome era dato ad una piccola ara posta davanti alle tombe, su cui bruciavano sostanze odorose [Fest. 18; Cic. Leg. II, 24, 60]. I contenitori per l’incenso erano chiamati anche arcula [Fest. 18].

Ancabria: vasi sacri usati dai sacerdoti e posti sulle mensae chiamate anclabris [Fest. 11].

Arculum: vaso che era portato sulla testa e sostenuto di un ramo di arbor felix piegato ad arco, chiamato arculum (da cui forse il nome del vaso) durante i riti pubblici [Fest. 16].

Arferia e cuturnium: erano altri vasi con cui si versavano libagioni di vino durante i servizi religiosi [Fest. 11; 51].

Armillum: una sorta di piccola giara per il vino (Varrone la definisce urceolus), usata nei riti, che veniva tenuta sulla spalla, armus, da cui il nome [Fest. 2; Var. apud Non 547, 12]. Doveva trattarsi di un vaso molto comune, tanto da dare origine ad una frase proverbiale “ad armillum redire” o “revertere”, tornare alle anriche abitudini [Lucil. XXVIII Apud Non. 74, 13; Apul. Met. VI, 22; IX, 29]

Athanuvium (o atanuvium): coppa d’argilla di cui si servivano i sacerdoti [Fest. 18], una capula [Var. L. L. V, 121] forse simile alla patera.

Bria (o hebria): vaso per il vino [Arnob. Adv. Nat. VII, 29; Charis. De Nom. 105, 3]

Calpar: vaso di terracotta usato per prelevare il vino dai dolia e versare libagioni di vino nuovo [Fest. 46; 65; Non. 547, 1].

Cantharus: era il nome di un tipo di barca e di un boccale a due manici che salivano verso l’alto [Plaut. Asin. V, 2, 56; Bacch. I, 1, 36; Men. I, 2, 64; I, 3, 5; Most. I, 4, 33; Pseud. IV, 2, 2; IV, 4, 13; V, 1, 34; Pers. V, 2, 22; V, 2, 40; Rud. V, 2, 32; Stich. V, 4, 23; V, 4, 48; Hor. Car. I, 20, 2; Epist. I, 5, 23; Sid. Apol. Epist. IX, 13, 5] usato per le libagioni di vino [Verg. Ecl. VI, 17; Nemes. Ecl. III, 48], proprio di Dioniso – Liber [Verg. Ecl. VI, 13 – 17; Macr. Sat. V, 21, 1; 14; 16; Plin. Nat. Hist. XXXIII, 53, 150; Val. Max. III, 6, 6; Arnob. Adv. Nat. VI,

25].

Capis: ciotola o piccolo orcio di terracotta con un solo manico o un’ansa, usata durante i sacrifici [Var. L. L. V, 121; Prisc. GL II, 251, 13; Var. apud Non. 547, 12; Fest 48; Petr. Sat. LII, 2; Plin. Nat. Hist. XXXVII, 2, 18], assieme al lituo era simbolo degli auguri [Liv. X, 7, 10; Var. L. L. V, 121]: questi due strumenti compaiono spesso associati su monete coniate da personaggi che ricoprivano questo sacerdozio. Detta anche capula, capeduncula [Cic. Nat. Deor. III, 13, 43], o capedo (cupedo), il suo uso anche in ambito profano era sicuramente antico [Plin. Nat. Hist. XXXVII, 3, 20], ma dal I sec. aev. viene ricordata solo come strumento rituale [Cic. Paradox. I, 2, 11; Rep. VI, 2]. Esisteva il mestiere del capulator, colui che versava l’olio nelle giare [Col. R. R. XII, 52, 5].

Carchesium: coppa alta, più stretta al centro, a due manici [Athen. Deipn. 474f], con poggiante su un piede conico [Athen. Deipn. 488f], solitamente di metallo o pietra dura, usata per libagioni [Verg. Aen. V, 77 – 78; Georg. IV, 380 – 381] principalmente di vino [Ov. Met. VII, 246; Val. Flac. II, 656; V, 274; Sil. It. XI, 301; Stat. Achil. I, 680; Theb. IV, 502], ma anche di latte [Ov. Met. VII, 247]. Benchè citata da Virgilio e altri poeti, Macrobio afferma che tale contenitore non viene mai impiegato per usi rituali dai romani [Macr. Sat. V, 21, 1 – 3]; tale affermazione si

riferisce probabilmente al rito pubblico officiato dai pontefici, mentre l’abbondanza dei riferimenti poetici fa pensare che fosse comune nel rito privato. La sua forma era ssimilata a quella della sommità dell’albero delle navi [Lucil III, 37. Apud Non. 546, 23; Catul. apud Non. 546, 23; Lucr. V, 418].

Crater (o cratera): vaso di grandi dimensioni in cui il vino veniva mescolato con l’acqua; nel rito romano, però, il vino era sempre puro, non mescolato [Non. 546, 25; Ov. Met V, 82; XII, 236; XIII, 681; 701; Verg. Aen. V, 536; IX, 266; 346; Cic. Att. II, 8, 2; Verr. II, 4, 131; Fam. VII, 1, 2; Liv. V, 25, 10; V, 28, 2; Val. Flac. I, 337; V, 694; Hor. Sat. II, 4, 80; Juv. Sat. IV, 12, 44; Pers. II, 52; Stat. Theb. V, 255; X, 312 – 13; Apul. Flor. XX; Sil. It. VII, 190; Mart. XII, 32, 12]. Usato per libagioni, soprattutto nei riti funebri [Verg. Aen. I, 723; III, 524; VI, 225; VII, 147; IX, 165; XII, 285; Ecl. V, 68; Georg. II, 527 – 530; Serv. Aen. I, 724; XII, 118; Georg. II, 528; Ov. Met.

VIII, 672; 683; Fast. II, 252; V, 522; Hor. Car. III, 18, 7; Val. Flac. IV, 343; V, 615; Prop. III, 17, 37 – 38; Stat. Theb. VI, 531; Sid. Apol. Epist. II, 9, 8]. Il cratere era solitamente colmato fino all’orlo di vino (cioè “incoronato”) e il liquido era poi prelevato con la trulla vinaria (vedi oltre) [Verg. Aen. I, 723 – 24; Serv. Ad loc.; Verg. Aen. III, 525 – 26; VII, 146; Georg. II, 528; Serv. Ad loc.]. poteva contenere non solo vino, ma anche olio [Verg. Aen. VI, 225]

Culillus: calice in terracotta usati dalle vestali [Acron. In Hor. Car. I, 31, 11].

Cymbium: contenitore a forma di piccola barca, di origine greca [Var. apud Non. 545, 28; Macr. Sat. V, 21, 1; 7 – 11; Fest. 51], di vari materiali [Mart. VIII, 6, 2; Apul. Met. XI, 4; 10], usato nelle libagioni [Verg. Aen. III, 66; Serv. Ad loc.; Verg. Aen. V, 267; Serv. Ad loc.], principalmente per il latte [Stat. Theb. VI, 212; Prud. Apoth. III, 472; Nemes. Ecl. I, 67],

benchè Varrone lo annoveri tra i vasa vinaria [Var. apud Non. 545, 24]

Futtilis: sorta di anfora dalla bocca larga e dal fondo stretto, in cui le vestali conservavano l’acqua [Serv. Aen. XI, 339; Lact. ad Stat. Theb. VIII, 297; Donat. ad Ter. Andr. 609; ad Phorm. 146; Fest. 89]. Data la forma non potevano essere appoggiati a terra, ma dovevano essere tenuti sollevati da sostegni, questo poiché l’acqua versata nei riti per Vesta non poteva essere tenuta a contatto col terreno [Serv. Aen. XI, 339]

Gutus (o guttus, anche gutta): contenitore di piccole dimensioni, dal collo allungato, con cui si versavano i liquidi, in particolare il vino, goccia a goccia [Var. L. L. V, 124; Hor. Car. I, 3, 13]. In epoca arcaica diffuso durante i banchetti (è annoverato tra i vasa vinaria da Varrone [Var. apud Non. 545, 24]), fu poi soppiantato da altre supellettili di origine greca come l’epichysis e il cyathus, ma restò come vaso per gli usi rituali, soprattutto nel rito domestico, associato alla patera [Hor. Sat. I, 6, 116 – 118; Plin. Nat. Hist. XVI, 73, 185]. Era usato anche per versare oli

[Gell. XVII, 8, 5; Juv. Sat. III, 263; XI, 158; Mart. XIV, 52; PLM I, 185, 113].

Irnela (o hirnula): vaso impiegato nelle cerimonie sacre [Fest. 105], diminutivo di hirnea o irnea una giara per contenere liquidi ad esempio il vino [Var. apud Non. 546, 24; Cato Agr. LXXXI; Plaut. Am. 427; 429 – 30].

Lanx piatto, rotondo o quadrangolare [ULP. Dig. XXXIV, 2, 19; Paul. Dig. VI, 1, 6], di grosse diemnsioni (panda) [Verg. Georg. II, 193 – 193; Hor. Sat. II, 4, 40], forse in origine piano, ma poi anche concavo (cava) [Mart. XI, 31, 19], su cui si

presentavano le offerte agli Dei [Verg. Georg. II, 194 – 195; Hor. Sat. II, 2, 4; 4, 41; Ulp. Dig. XXXIV, 2, 19; Ov. Pont. III, 5, 50; IV, 8, 39 – 40; IV, 9, 33; Plin. Nat. Hist. XXXIII, 53, 145; Cic. Att. VI, 1, 13; Gajus Inst. III, 192; Gel. Gell. XI, 18, 9; XVI, 10, 8; Paul. Sent. III, 6, 86], era usato per incenso [Ov. Pont. IV, 8, 40; Prop. II, 13, 23] ed exta dei sacrifici [Verg. Georg. II, 194; 394; Aen. VIII, 284, XIII, 215].

… ad aras, / lancibus et pandis fumantia reddimus exta… [Verg. Georg. II, 193 – 194]

Ausonio annovera il lanx tra tre supellittile sacre usate nel culto, assieme a patera e turibulum [Auson. Techop. VIII, 12, 5]. Nel tempio di Cerere vi erano posti i frutti della terra [Acron. ad Hor. Sat I, 1, init; Diomed. III, pg 483]; in ambito profano carne o pesce [Hor. Sat. II, 4, 40; Juv. V, 80; Plaut. Curc. 323]. Anche i piatti delle bilance erano chiamati lanx da cui bi-lances. Le leggi delle XII Tavole punivano come colti in flagrante i furti scoperti per lances liciumque, ovvero era punito colui nella cui abitazione era scoperta la refurtiva [Tab. I, 10 apud Gell. XVI, 10, 8 ; Varr. L. L. VI, 74 ; Gajus Inst. III, 192; 193; 223 ; IV, 31; 184 ; Isid. Orig., V, 27, 24 ; Fest. 117; 363; Prisc. Inst. gramm. VI, 13, 69 ; Iust. Inst. IV, 4, 7; Tab. VIII, 15 apud Gell. XI, 18, 9 ; XX, 1, 14; Modest. Dig. XLII, 1, 20; Cic. De Orat. I, 38, 39; Iust. Cod. III, 31, 12 pr. ; Plin. Nat. Hist. VII, 60, 212].

Lepesta (o lepista, anche lepasta): coppa in terracotta o metallo per bere usata nei riti sacri in terra sabina [Fest. 115; Var. L. L. V, 123; Var. apud Non. 547, 20; Var. apud Prisc. GL II, 263; Naev. Apud Aphthon. GL VI, 139]. Varrone la annovera tra i vasa vinaria che si trovavano sulla mensa [Var. apud Serv. Ecl. VII, 33].

Olla (o aula): contenitore di grandi dimensioni, giara o pentola [Cato Agr. LII, 1; LXXXI; LXXXV; Plaut. Aul. II, 8, 20; 22; III, 6, 44; 47; IV, 2, 4; 7; Capt. I, 1, 21; IV, 2, 66], poteva essere in metallo o, più spesso, in terracotta [Ov. Met. VII, 318; Plaut. Aul. V, 1, 2; Plin. Nat. Hist. XXXVI, 22, 44; Col. R. R. VIII, 8, 7], usato per cuocere i cibi [Var. apud Non. 543, 5; Fest. 23; Col. R. R. XII, 43, 11; Juv. Sat. XIV, 171; Petr. Sat. XXXVIII, 13], o immagazzinarli [Mart. VII, 20; XII, 32; Plin. Nat. Hist. XV, 6, 22; XXXVII, 10], oppure per riporre oggetti preziosi [Cic. Fam. IX, 1, 8]. Le ollae erano usate per bollire gli exta dei sacrifici (chiamati que questo aulicocta) [Fest. 23], oppure per preparare altre pietanze da usare nei riti sacri, come ad esempio nel sacrificio degli Arvali alla Mater Larum: in questo caso sappiamo che le ollae contenenti la puls destinata alla Dea erano consacrate prima di essere gettate dalla collina sui cui sorgeva il tempio di Dea Dia [AFA CCVIII; 26 – 27].

Patella piccola coppa, bassa e larga, senza manici, usata nei sacrifici per presentare offerte agli Dei. [Fest. 248; 249; Schol. In Pers. III, 26; Hor. Car. I, 3, 13; Cic. De Fin. II, 22; Var. apud Non. 543, 28; Ov. Fast. VI, 310; Juv. Sat. V, 83], una piccola patera. Era annoverata tra le supellettili sacre presenti nelle case romane assieme alla patera e al turibulum [Cic. Ver. II, 4, 47; 48; 54]; in particolare era associata al

salinum (vedi oltre) con cui formava una coppia che era considerata indispensabile per onorare gli Dei nel culto domestico [Liv. XXVI, 36, 6; Pers. III, 25 – 27; Val. Max. IV, 4, 3], tanto che il non possederla era equiparabile ad un atto di empietà [Cic. Fin. II, 22]. Usata in particolare per il culto dei Lari, che erano chiamati nche Patellari Dii [Plaut. Cist. II, 1, 46; Schol. Pers. III, 26; Ov. Fast. II, 634], tra i doveri di un buon cittadino vi era quello di venerare gli Dei presentando le offerte su di essa [Non. 544, 1]. Poteva essere in argento [Cic. Ver. II, 4, 46; Val. Max. IV, 4, 3], o in terracotta [Mart. V, 78; XIV, 114; Juv. Sat. VI, 344].

Patera coppa, bassae larga, senza piede, a volte con un manico, per versare le libagioni [Macr. Sat. V, 21, 1; Plaut. Anph. I, 1, 104; II, 2, 128; Sall. Cat. XXII, 1; Cic. Brut. XI, 43; Ov. Met. IX, 160; Hor. Sat. I, 6, 118; Car. I, 31, 2; IV, 5, 34; Verg. Georg. II, 192:]. Durante le cerimonie per l’installazione dei magistrati, la si usava per condividere la potio e offrire vino alle divinità [Var. L. L. V, 122]. Poteva essere di vari materiali dalla terracotta [Hor. Sat. VI, 116] ai metalli preziosi [Mart. III, 41; VI, 13; VIII, 33; XIV, 95; Plin. Nat. Hist. XXXIII, 50, 156; Juv. Sat. V, 39; Verg. Aen. I, 729]. Gli studiosi ritengono che in epoca arcaica non

facesse parte delle supellettili sacre, non è infatti annoverata tra gli strumenti indispensabili al culto domestico a differenza della patella e del salinum, inoltre era simbolo degli epulones, un collegio istituito in epoca medio-repubblicana, e non era associata ad alcuno dei sacerdozi più antichi. Il suo

impiego entrò nella pratica romana per influsso greco o etrusco e sostituì quello del simpulum. Rapidamente divenne il simbolo stesso dell’azione sacrificale, la troviamo infatti nelle rappresentazioni del culto domestico, in quelle del culto pubblico in mano a magistrati, sacerdoti, imperatori, divinità, sia su bassorilievi, che su monete [Cic. Ver. II, 4, 47 – 48; Hor. Car. I, 19, 15; I, 31, 2; IV, 5, 34; IV, 8, 1; Ov. Met. IX, 160; XIII, 704; Fast. IV, 934; Verg. Aen. I, 729; 739; III, 66; 354; IV, 60; V, 91; 98; 775; VI, 249; VII, 133; VIII, 640; XII, 174; Vitr. II, praef.; Plin. Nat. Hist. VIII, 77; XII, 41; XIV, 3; XXXIII, 58; XXXIV, 30; Liv. VI, 4, 2; X, 23, 13; XXII, 32, 4; 9; 36, 9; XXVI, 47, 7; XXVII, 4, 8; 9; XXX, 15, 11; XLIV, 14, 2; Petr. Sat. LX, 8; CXXXIII, 3; Cic. Div. I, 23, 46; I, 25, 54; Nat. Deor. III, 34, 84; Paradox. I, 2, 11; Brut. XI, 43; Val. Flac. I, 660; 818; II, 348; V, 192; Sall. Cat. XXII, 1; Flor. Epit. II, 12, 4; Stat. Theb. I, 541; VI, 211; X, 313; Mart. VI, 92, 2; VIII, 6, 14; Sid. Apol. Epist. IX, 13, 5; Prud. Cath. III, 17; Apoth. III, 481; Contr. Sym. I, 1, 127; Jerom. Epist. XIV, 5; Auson. Techop. VIII, 12, 5; Sil. It. XVI, 167; Val. Max. I, 1(ext), 3; I, 6(ext), 1; V, 6(ext), 3; Claudian. Paneg. Prob. et Olyb. Cons. 247; Arnob. IV, 16, 6; VI, 1, 2; VII, 29, 4]

Persillum vaso particolare, impermeabilizzato, in cui era contenuto l’unguento con cui si ungevano le armi di Quirino [Fest. 216].

Praefericulum: piatto o bacile di bronzo senza manici, dalla bocca molto larga, usato nei riti pubblici, era conservato nella Regia, nel sacrario di Ops Consiva [Fest. 248; 249]. Forse si trattava di un contenitore definito “niger catinus” [Juv. Sat. VI, 343] che la tradizione faceva risalire a Numa. Il suo utilizzo è incerto, poteva servire a presentare primizie o liba (ferctum), oppure per contenera la mola salsa.

Sacrima vasi per le libagioni di mosto a Liber [Fest. 318 - 319].

Salinum: si trattava probabilmente di una piccola tazza in cui erano contenuti sale o mola salsa da offrire agli Dei [Schol. Pers. III, 25; Hor. Car. II, 16, 14; Porphyr. ad Hor. Car. II, 16, 14; Acron. Ad Hor. Car. II, 16, 14; Stat. Sil. I, 4, 30; Fest. 329; 344; Val. Max. II, 8, 5; IV, 4, 3]. Era uno degli elementi indispensabili al culto domestico assieme alla patella (vedi) [Hor. Car. II, 16, 13; Liv. XXVI, 36, 2] e si trovava sulla mensa come segno di consacrazione (vedi mensa). Poteva essere d’argento o di terracotta [Plin. Nat. Hist. XXXIII, 49, 153; Val. Max. IV, 4, 3].

Scyphus larga coppa per il vino usata nel rito greco [Plaut. Asin. 444; Var. ap. Gell. III, 14, 3; Non. 545, 14; Cic. Verr. II, 4, 14, 32; Tib. I, 10, 8; Verg. Aen. VIII, 278; Hor. Carm. I, 27, 1; Epod. IX, 33; Plin. Nat. Hist. XXXIV, 40, 141; 48, 163; Sid. Apol. Epist. IX, 13, 5]. In particolare per libare vino nei riti per Ercole (cui è proprio) all’Ara Maxima [Macr. Sat. V, 21, 1; 16; Verg. Aen. VIII, 278; Serv. Ad loc.]. Secondo un mito riportato da Servio, Ercole portò in Italia un enorme scyphus di legno che era custodito come oggetto sacro persso il luogo di culto e usato nei sacrifici [Serv. Aen. VIII, 278].

Simpulum [Fest. 337] piccola coppa di terracotta con un manico, per versare libagioni di vino [Plin. Nat. Hist. XXXV, 46, 158; Cic. Leg. III, 16, 36; Schol. In Juv. Sat. VI, 343] simile al cyathus, ma di forma e materiale più rozzi [Cic. Paradox. I, 2, 11; Nat. Deor. III, 17]. Si tratta di uno strumento usato dai romani fin dai tempi più antichi che fu sostituito dal cyathus per gli impieghi profani [Var. L. L. V, 124], ma fu mantenuto per quelli rituali [Plin. Cit.; Juv. VI, 343]. Apuleio lo nomina assieme al catinum [Apul. Apol. XVIII] e afferma che nei riti sacri queste supellettili erano di terracotta ancora ai suoi giorni così come in epoca arcaica. Sappiamo anche che erano delle inservienti, chiamate simpulatrices, a porgere il simpulum al sacerdote [Var. L. L. V, 124; Schol. In Juv. Sat. VI, 343; Fest. 337].

Era probabilmente usato per trasferire il vino da contenitori di grandi dimensioni nelle capis, o nella patera, o, più probabilmente, per versare direttamente le libagioni, poiché solitamente non compare accompaganto dalla patera che potrebbe essere stata introdotta nel rituale romano in un periodo più tardo. Era simbolo dei pontefici e compare spesso su monete

coniate da personaggi che ricoprivano tale sacerdozio. Nei banchetti nuziali il simpulator o simpulonis era un amico dello sposo che lo assisteva nei suoi doveri di ospite [Fulg. De Prisc. Serm. XLVII]

Simpuvium: bacile o coppa usato fin da epoca arcaica per offrire vino agli Dei durante le cerimonie sacre [Var. apud Non. 544, 24; Arnob. Adv. Nat. IV, 31; VII, 29; Cic. Har. Resp. XI, 23; Rep. VI, 2, 11; Plin. XXXV, 46, 158; Juv. Sat. VI, 343]. Secondo Giovenale [Juv. Sat. VI, 343; Prud. Perist. II, 277], l’antico niger catinum, reliquia del re Numa, era un simpuvium. Dalle fonti di cui siamo in possesso sembra che simpuvium e simpulum fossero due contenitori differenti, tuttavia alcuni elementi inducono gli autori moderni a ritenere che fossero la stessa cosa: innanzitutto la somiglianza dei nomi, poi il fatto che Cicerone affermi che il simpuvium era il simbolo dei pontefici [Cic. Rep. VI, 2], quando, dai documenti iconografici, appare che a questi sacerdoti era associato il simpulum; infine l’attestazione di simpuviatrices a fianco delle simpulatrices [Schol. In Juv. Sat. VI, 343; Fest. 337].

Sinum e galeola: erano larghi vasi di terracotta o di metallo per il vino (benchè avessero usi molteplici, as esempio Virgilio cita il sinum come contenitore per il latte [Verg. Ecl. VII, 33]) di forma rotonda (il nome galeola è probabilmente connesso al casco che era parte delle armature antiche) e dimensioni maggiori delle coppe [Non. 547,15; Var apud Non. 547,15 e Prisc. GL. II, 263, 1; Verg. Ecl. VII, 33; Serv. Ad loc.; Schol Ver. ad loc.; Var. L. L. V, 123; Plaut. Curc. 75; 82; Rud. 1319; Verg. Georg. III, 177; Col. R. R. VII, 8, 2]. Varrone li annovera tra i vasa vinaria che erano sempre sulla mensa [Var. apud Serv. Ecl. VII, 33; Var apud Non. 547,15 e Prisc. GL. II, 263, 1; Var apud Non. 545, 24]

Subsilles o ipsulles erano laminette di metallo o piccole figure di uomini e donne usate nei riti sacri che, si credeva, rafforzassero l’efficacia della cerimonia [Fest. 306].

Trulla vinaria: sorta di mestolo usato per prendere il vino dal crater e trasferirlo in altri contenitori [Varr. L. L. V, 118; Cato Agr. XII; Cic. Verr. IV, 27, 62; Hor. Sat. II, 3, 144; Mart. IX, 97, 1; Plin. Nat. Hist. XXXVII, 7, 20; Dig. XXXIV, 2, 36]

Trulleum o trulleus: [Plin. Nat. Hist. XXXIV, 2, 7]: bacile sopra il quale ci si lavava le mani [Var. L. L. V, 25; 34; Cato. Agr. X, 2] e i piedi con l’acqua versata da una brocca chiamata urceolum manale [Var. apud Non. 547, 3]. Era anche chiamato polybrum o polubrum malluvium [Fest.

160; Liv. Andr. Apud Non. 544] e doveva essere tenuto con la mano sinistra, mentre il vaso da cui si versava l’acqua con la destra [Fab. Pict. De Jure Pont XVI Fr 7 P apud Non. 544]. Per il lavaggio dei piedi si usava il polubrum pelluvium [Fest. 246].

Turibulum: bracere portatile su cui si bruciava incenso [Cic. Verr. II, 4, 46; Liv. XXIX, 14, 13; Val. Max. III, 3, ext. 1; Auson. Idyll. XII, 104; Prud. Apoth. 479], solitamente in forma di candelabro con bracci che si allargavano da un asse centrale [Val. Max. III, 3, ext. 1]. Era annoverato tra le supellettili sacre presenti nelle case romane [Cic. Verr. II, 4, 46 – 47; Auson. Techop. VIII, 12, 5]. Durante i riti sacri, mentre l’incenso bruciava, si suonava la tibia turaria [Sol. 5; Plin. Nat. Hist. XVI, 66, 172; Verg. Georg. II, 193]

Urnula: vaso per l’acqua [Var. apud Non. 544, 9], Cicerone lo cita tra le più antiche supellettili sacre [Cic. Paradox. I, 2, 11].

Oltre alle supellettili, si possono ricordare altri strumenti impiegati durante i riti sacrificali

Culter: Lo strumento usato per uccidere le vittime sacrificali di taglia medio-piccola [Ov. Met. VII, 249; Verg. Aen. XII, 173] (ma anche per i bovini [Ov. Met. VII, 599; XV, 134; 465; Lucan. Phars. I, 611; ]) era il culter, spesso di bronzo, più raramente in ferro: ne esistevano di tipi differenti, alcuni usati per uccidere la vittima, altri per macellarla. L’inserviente (succintus minister [Verg. Georg. III, 488; Lucr. I, 90; Ov. Met. II, 717; Fast. I, 421; IV, 413; 437; Lucan. Phars. I, 612; Prop. IV, 3, 62]) addetto a questi compiti era chiamato cultrarius [Suet. Calig. XXXII; CIL I, 1213]. Le fonti menzionano alcuni di questi strumenti ad uso rituale: il clunaculum, un lungo coltello tenuto appeso dietro la schiena e la secespita, un coltello dalla forma allungata, in ferro, col manico in avorio fatto di un pezzo unico e fermato con borchie d’oro o argento e chiodi di bronzo, usato dai sacerdoti più

importanti: flamines, flaminicae, vestali e pontefici per tagliare i liba [Fest. 348 – 349; Serv. Aen. IV, 262] che così prendevano il nome di seciva [Fest. 348 - 349]. Era conservata nel sacrario di Ops Consiva nella Regia assieme al praeficulum di bronzo

Securis: gli animali di grandi dimensioni erano uccisi usando un’ascia a singola lama [Verg. Aen. II, 224; Ov. Trist. IV, 2, 5; Met. XII, 249] che poteva essere una securis, ovvero uno strumento con una larga lama quasi rettangolare montata su un manico, o una dolabra, un’ascia con un lungo manico che portava in cima da un lato una lama e dall’altro una punta [Quint. I, 4, 12; Isid. Orig. XIX, 19, 11]. Tra gli strumenti dei pontefici figura l’ascia chiamata scena o sacena [Fest. 318 – 319; 330; Hor. Car. III, 23, 12], a singola lama: le rappresentazioni sulle monete fanno propendere per una securis, tuttavia Festo parla di dolabra. Oltre alla securis, era usato anche un grosso martello, malleus [Ov. Met. II, 624; Suet. Calig. XXXII]. L’inserviente che maneggiava questi strumenti era chiamato popa [Suet. Calig. XXXII; Prop. IV, 3, 62; Cic. Mil. XXIV, 65; Serv. Aen. XII, 120], oppure dolabarius [CIL V, 908].

Illustrazioni

W. Smith, LLD. W. Wayte - A Dictionary of Greek and Roman Antiquities London G. E. Marindin, 1890

Daremberg et Saglio - Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines

Mensa Altare di Amemptus (oggi al museo del Louvre), sul lato è rappresentata una mensa con un coltello sacrificale, una patera e un vaso per versare il vino, che per alcuni è un praefericulum o forse una capis. Brunn in Ann. d. Instit. 1856, pgg. 114 segg.

Capis AR Denarius (3.78 gm). Rome mint. Struck 13 BC. C. Marius C.f. Tro (mentina tribu), moneyer. AVGVSTVS Bare head right; lituus behind / C MARIVS CF TRO III VIR Augustus standing left, veiled and togate, holding simpulum and lituus. RIC I 398; RSC 455. Brutus, with P. Cornelius Lentulus Spinther. Denarius, mint moving with Brutus and Cassius 43-42, AR 3.89 g. BRVTVS Axe, culullus and knife r. Rev. Jug and lituus; below, LENTVLVS / SPINT. B. Iunia 41. C 6. Sydenham 1310. Sear Imperators 198. Crawford 500/7.

Patera AR Denarius 16, Rome. Moneyer C. Antistius Vetus. 3,74 g. C ANTISTIVS VETVS III VIR Draped bust of Venus to r. wearing stephane and necklace. Rev. COS / IMP CAESAR AVGVS / XI Simpulum and lituus above legend, tripod and patera below. RIC 367. BMC 99. C. 348.

Simpulum Caius Antonius. Denarius January-March 43, military mint (perhaps Apollonia in Illyricum). 3,69 g. C ANTONIVS M F PRO COS Female bust or genius of Macedonia to r. wearing kausia. Rev. PONTIFEX Simpulum, culullus and axe (secures). Cr. 484/1. Syd. 1286. C. 1. Sear 141.

Securis P. Sulpicius Galba. Denarius 69, Rome. 2.63 g.Veiled head of Vesta to r. Rev. Knife, culullus and axe. Cr. 406/1. Syd. 838.