Social Net Walking (Saggi e assaggi educativi sulle nuove tecnologie della comunicazione)

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Matteo Adamoli Francesco Arleo solostorie SOCIAL NET saggi e assaggi educativi sulle nuove tecnologie della comunicazione

Transcript of Social Net Walking (Saggi e assaggi educativi sulle nuove tecnologie della comunicazione)

Matteo Adamoli Francesco Arleo

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saggi e assaggi educativisulle nuove tecnologie della comunicazione

www.solostorie.com

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bottega artigiana della narrazione

saggi e assaggi educativi sulle nuove tecnologie della comunicazione

SOCIAL NET

Matteo Adamoli Francesco Arleo

Social Net Walking

Febbraio 2012

Testi di Matteo Adamoli e Francesco Arleo

Illustrazioni di Luca Garonzi

Progetto grafico di Marco Privato

© 2012

www.solostorie.com

La vita stessa è un viaggio da fare a piedi

Bruce Chatwin

• intenzione . . . 10

• parteprimaL’educatorecomeartigianosociaLeeLetecnoLogiedeLL’educazione . . . 12

• note . . . 48

• parteseconda L’intreccioeLatrama:storiedeLLacomunicazioneintermediaLe . . . 52

• note . . . 86

• sketchbook . . . 92

biografie di riferimento

strumentidiviaggio

focus on

L’intenzione di questo testo è una sola: far intraprendere il cammino delle buone e delle cattive domande circa le tecnologie della comunicazione a persone che per lavoro, passione o missione si occu-pano o si vogliono occupare di educazione in tempi di sfide globali e locali.

I saggi e gli assaggi di questo testo sono il risultato di esplo-razioni e pratiche sull’uso etico, educativo, professionale e sociale dei cosiddetti nuovi media e in particolare del web.

Il libro si compone di due parti:• L’educatore come artigiano sociale e le tecnologie dell’educazione• L’intreccio e la trama: storie della comunicazione intermediale

Ci sono moltissime persone cui rivolgere gratitudine per averci aiutato a dubitare meglio e sempre più frequentemente delle nostre ipotesi e a quanti, mentre cercavamo di dare loro una mano nell’apprendere con e senza le nuove tecnologie, ci hanno insegnato quello che non avremmo potuto imparare altrove. In questo percorso abbiamo fatto nostra la frase di Thoreau (Walking, or the Wild, 1862): “ciò che chiamiamo conoscenza è spesso la nostra ignoranza costruttiva”.

Il nostro cammino d’ignoranza costruttiva continua su www.solostorie.com

L’educatore come artigiano sociale e le tecnologie dell’educazione

di Matteo Adamoli

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Il punto di partenza di questa riflessione inizia dal ruo-lo di social designer dell’educatore sociale, cioè da colui che per professione può definire e costruire nuove architetture della co-municazione basate sui processi relazionali, educativi, etici ed au-tentici al di là di ogni proposta tecno-culturale in atto (cfr. parte seconda del seguente testo).

Le parole che usiamo e i loro significati ci indicano già i binari entro cui ci muoveremo in questa riflessione. Per design infatti prendiamo la definizione che Verganti utilizza nel suo libro “Design-Driven Innovation”, basandosi sull’etimo-logia della parola: “design, dal latino de +signare, signifi-ca fare qualcosa, distinguerla con un segno, darle un signi-ficato, definire il suo rappor-to con altre cose, con i pro-prietari, con i clienti o con gli dei”. Basandosi su questa originale definizione, si può dire che design è dare senso (alle cose)1. A differenza del libro di Verganti proviamo a focalizzarci non sul significato dei prodotti, ma sul significato e il senso del lavo-ro dell’educatore sociale nei processi relazionali ed educativi che mette in atto nei vari ambiti lavorativi in questa era digitale.

1. L’educatore come artigiano del sociale

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Si tratta quindi non solo di apprendere un nuovo linguag-gio per la comprensione dei nuovi contesti sociali e per l’utilizzo delle nuove tecnologie ma soprattutto di formulare delle strategie educative a partire dall’esistente. E qual è l’esistente entro cui si trova a operare un educatore ai nostri giorni? Proviamo a elencare alcune parole che ormai sono diven-tate di uso comune nelle più svariate professioni, dal falegname al manager pubblico: accessibilità, condivisione, comunicazione, partecipazione, collaborazione, apprendimento reciproco, soste-nibilità, riflessività, connessione, orizzontalità, organizzazione, memoria, interattività, collegamenti, mostrarsi, contatti. Questi concetti sottintendono azioni che quotidianamente ven-gono svolte dalla maggior parte degli educatori in maniera impli-cita o stimolati dai mondi con cui vengono in contatto, siano essi minori, giovani, anziani, migranti, disabili. Quelle azioni fanno parte del bagaglio di strumenti e di competenze che l’educatore possiede (o dovrebbe possedere) e vengono interrogate in ma-niera radicale dall’introduzione nella società dei nuovi media.

Basti pensare a un caso recente avvenuto a livello mon-diale che ha mostrato come certe emozioni possano diventare globali con l’amplificazione apportata dai media. Un caso esem-plare è stata la morte di Steve Jobs2, fondatore dell’Azienda Apple e creatore di prodotti oramai famosissimi. Quel lutto è diventato reale anche per persone che Jobs non l’avevano mai co-nosciuto, pur avendo in tasca o in ufficio un prodotto creato da lui. Questo trasporto emotivo causato dalla sua morte è in parte dovuto all’eco che hanno creato il web e i nuovi media alla noti-zia della morte di Steve Jobs, andando a creare un vero e proprio lutto digitale online che ha avuto molte ricadute offline per mi-lioni di persone. Considerando questo avvenimento può essere visto un caso limite, data l’importanza del personaggio pubblico

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in questione, anch’esso ci invita a rivede-re le competenze dell’educatore nel suo ruolo di lettore delle diverse dinamiche e di attivatore dei diversi processi di comu-nità. Secondo Le Boterf 3, una persona agisce con competenza quando soddisfa queste tre condizioni:1. sa combinare risorse personali (cono-

scenze, abilità, qualità, risorse emoti-ve e psicologiche, culture, valori…) e risorse ambientali (reti documentarie, dati, campi scientifici, informazioni e saperi accettati…);

2. è in grado di realizzare in un contesto particolare alcune at-tività mirate;

3. sa produrre risultati validi e soddisfacenti (che determinano un “valore aggiunto” valutabile).

Prima di porre in essere l’azione, un educatore sa che deve riuscire a leggere i processi in atto per poter poi incidere in chiave preventiva e pedagogica. Se le azioni di questi processi sono quelle elencate precedentemente e caratterizzano sia luoghi di lavoro classici che spazi online, l’educatore potrebbe consi-derare i new media (e le loro ricadute sociali) un’opportunità di ripensamento e di rilancio della propria professione. Proviamo quindi a portare alcuni spunti e alcune ipotesi di ricerca-azione4 a partire da queste premesse, sia per quanto riguarda la fase di analisi del contesto socio-culturale-economico in cui siamo immersi, sia per la fase di creazione con le tecnolo-gie, racchiudendo entrambe nel concetto di progettazione o de-sign sociale. L’educatore infatti per saper cogliere e rispondere ai bisogni educativi emergenti in maniera efficace ed efficiente necessita di progettare i suoi interventi in maniera strategica.

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Se dalla parola design prendiamo il suo significato etimo-logico di “dare senso”, del termine “progettazione” (dal latino pro-jacere), ci soffermiamo sul “gettare in avanti” ripensando la progettazione sociale, dove “sociale” (da socius) sta per apparte-nenza. Ma come si progetta con le tecnologie in ambito educa-tivo tenendo insieme il significato dei processi e delle azioni che mettiamo in atto e la capacità di avere una vision in avanti?Dal punto di vista della metodologia di lavoro si può prendere qualsiasi tipo di schema di progettazione e applicarlo agli ambiti educativi e sociali (vedi per esempio il testo “Costruire e valutare i progetti nel sociale”5), ma in un contesto di nuove tecnologie e di web il lavoro di rete che caratterizza l’operare dell’educatore si sposa in maniera ideale con l’idea di rete che Clay Shirky6 de-scrive nel suo libro sul surplus cognitivo.

Se un educatore deve avere tra le proprie competenze quella di interpretare le nuove esigenze educative in un’ottica di animazione socio-educativa e di coordinamento delle attività in rete, il web e i suoi processi gli permettono di far leva sugli ele-menti di partecipazione, collaborazione, condivisione, senso di equità, desiderio di interattività e di confronto presenti nel mon-do digitale. Questi elementi possono diventare sia un modello di confronto per ideare i propri interventi, sia un valido aiuto per capire come aiutarsi a lavorare con i diversi utenti (nel significato etimologico di utentem - lat., colui che fa uso di, che si serve di) e a pensare e usare in modo autentico i nuovi linguaggi del web.

Vi sono molteplici esempi di questa modalità di lavorare, sempre secondo l’ottica di un educatore visto come promotore di azioni dialogiche problematizzanti che accrescano la mobili-tazione di sinergie verso la crescita del benessere nella comuni-tà7 (intesa come soggetto e fonte di soluzioni collettive definite dall’interno). Una prassi esemplare che si sta consolidando ri-

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guarda i problemi legati a piccole comunità che si stanno risol-vendo grazie ad attività di promozione di comunità locali che uti-lizzano le nuove tecnologie per condividere, scambiarsi e trovare nuove soluzioni a problemi comuni. Le idee nascono proprio dall’interconnessione delle persone, del-le situazioni e delle cose che producono risorse per dare risposte a bisogni veri, sentiti. La logica che sta alla base è quella dell’empo-werment sociale (da power: potere, acquisizione di potere) che può trovare un nuovo rilancio proprio grazie a quello che Clay Shirky chiama surplus cognitivo8, ossia un’eccedenza di conoscenze e informazioni che può essere usata dai singoli come capitale so-ciale e culturale da impiegare in attività socialmente utili. Questo avviene a determinate condizioni che sono quelle tipi-che dell’empowerment sociale basato sul modello d’intervento del community development, cioè del considerare la comunità come sog-getto attivo il cui sviluppo dipende da tre processi sociali: il coin-volgimento, la partecipazione e la connessione emotiva. Questi tre processi si attivano partendo dalla percezio-ne di un adeguato livello di potere (power) da parte dei soggetti coinvolti9. La progettazione quindi diventa davvero design sociale se riesce ad essere dialogica e partecipata, ovvero se riesce a pro-muovere e attivare processi identitari di gruppo che si costitui-scono a partire dalla connessione emotiva sui problemi/bisogni e fanno sì che a una domanda/bisogno corrisponda un ambito o una comunità che ne legittimi il senso come possibilità di ricono-scimento e reciprocità attraverso un movimento di trasformazio-ne dall’individuo al collettivo, dalla dipendenza all’interdipenden-za10, per pensare una creazione di mondi possibili. Quanto descritto è l’agire tipico dell’operatore di comunità, ma connota anche le azioni di educatori che vogliano progettare e agire in un ambito di cambiamento, con la potenzialità messa a disposizione dai nuovi mezzi di comunicazione.

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Internet, l’accesso alla rete, i social networks stanno faci-litando le comunità che vogliono co-progettare con il territorio le risposte alle diverse problematiche sociali. La definizione di design partecipativo rende bene l’idea di un metodo di lavoro spinto dal basso (bottom up) che punta sulle capacità locali integrandole con le enormi potenzialità date dalla rete per produrre innovazione sociale. Questa metodologia rientra nel paradigma del cosid-detto social business di cui parla il premio Nobel Mu-hammad Yunus nel suo “Si può fare! – come il bu-siness sociale può creare un capitalismo più umano”11. Per social business egli intende proprio quelle attività produttive che mirano a risolvere i proble-mi sociali non attraverso il principio della massimizzazione del profitto ma tramite un business sostenibile dal punto di vista am-bientale ed economico misurato attraverso il cambiamento ap-portato per risolvere i problemi e la partecipazione della comuni-tà interessata. A livello globale, questo tipo di attività nel mondo stanno tentando di soddisfare bisogni legati alla sopravvivenza come la povertà e la fame, riportando nel design parole come re-sponsabilità ed etica. Al design quindi, oltre all’aggettivo “sociale” va aggiunto “etico”, seguendo l’intuizione di Flusser: “trovare un modo per avvicinarci a una soluzione di problemi etici in fase di progettazione ”12 (cfr. in parte seconda del presente testo). Mettere in conto fin dalla fase d’ideazione le intenzionalità eti-che e la responsabilità di quel che si sta progettando, sia esso un processo di cambiamento o un servizio, deve essere una priorità soprattutto nell’ambito educativo. È assodato come ogni volta che nella fase di design non sono previste una condivisione e una

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partecipazione attiva delle persone e delle comunità interessate, i risultati ottenuti o non sono efficaci oppure non sono sostenibili. I principi della responsabilità sociale e della sostenibilità diven-tano essenziali nei processi di design declinato come percorso di sviluppo basato sulla consapevolezza delle conseguenze di pro-gettazione.

Riportando il focus all’ottica dell’educatore sociale, gli stakeholders coinvolti in questo tipo di progettazione sono sì l’utente e i suoi familiari, ma attorno c’è il contesto di vita, la comunità e i due gruppi di appartenenza dei beneficiari e di chi interviene, nel nostro caso gli educatori. Sono questi ultimi infatti che dovrebbero introdurre nella loro cassetta degli attrezzi i nuo-vi media e la loro manutenzione, nel senso radicale del termine di “tenere in mano” e saper utilizzare. Il web, inteso come un mon-do cognitivo, un tessuto di connessioni tra intelligenze molteplici capaci, grazie al loro movimento, di offrire soluzioni generative di nuove idee ci viene in aiuto, sia nella fase di ricerca che nella fase dell’atto creativo.

Questo atto sociale, che ha nella sua mission la cura, decli-nata come produzione di significato, di risoluzione di problemi e di creazione di nuovi mondi, trova un parallelismo con l’azione tipica dell’artigiano. Il lavoro artigianale, fatto ad arte, che tie-ne conto sia della qualità del proprio risultato che dei processi che l’hanno portato ad ottenerlo, può diventare un modello a cui ispirarsi per l’educatore sociale. Egli infatti con il suo fare inter-viene sulla cura del proprio lavoro e così facendo cura anche se stesso, le sue emozioni e i suoi pensieri. Inoltre l’artigiano, cre-ando, produce relazioni e tempi/spazi condivisi attraverso la sua bottega e le comunità di pratica a cui partecipa. Queste comunità artigiane sono collegate tra loro attraverso una rete connettiva di condivisione di saperi, pratiche, risultati, esperienze che permet-

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tono l’evoluzione del loro lavoro o progetto. Basti pensare agli scienziati che stanno lavorando al Cern di Ginevra come “neo-artigiani” che diffondono le loro attività e i risultati di ricerca quasi in tempo reale. Su questo modello aperto, collaborativo e orizzontale può basarsi anche il lavoro degli educatori e delle loro comunità di sapere/pratica13. Queste comunità, caratterizzate dalla capacità di costituirsi e auto-organizzarsi nello svolgimento di un’attività principale per la soluzione di uno specifico proble-ma, potrebbero costituire delle botteghe di pratiche e saperi di cura focalizzate all’ambito educativo.

Concludendo con le parole di Sennett14, “il buon lavoro, il lavoro fatto ad arte, con sapienza ed intelligenza, il lavoro che impone tempo per fermarsi, per apprendere, non solo per “fare”, è importante. È importante per vivere bene e per questo l’uomo artigiano è, oggi più che mai, un modello cui ispirarsi”. Soprattutto in ambito sociale ed educativo.

• Steve Jobs (1955-2011), informatico, visionario e perfezionatore, ha trasformato il modo di comunicare nel mondo digitale attraverso i suoi prodotti e la sua filosofia “stay hungry, stay foolish”.

• Clay Shirky (1964), ricercatore ed esperto della rete, dei rapporti e delle reciproche influenze tra la società e le tecnologie. Divulgatore attraverso articoli e libri.

• Muhammad Yunus (1940), professore e premio Nobel per la pace del 2006, conosciuto come il “banchiere dei poveri” e promotore del microcredito, riveste un ruolo chiave nel condurre a livello globale una battaglia contro la povertà.

• Vilém Flusser (1920-1991), studioso di linguaggio, design e comunica-zione, con la sua filosofia ha pensato e preconizzato internet e la società digitale.

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2. Educare nella rete oltre la rete

Di fronte all’invasione di alcuni refrain come “sono stato taggato”, “mi piace”, “ma siamo amici?”, dopo un primo spa-esamento, quasi fossimo davanti a una lingua di popolazioni indigene, come educatori ci troviamo di fronte ad un bivio: o cerchiamo di imparare a comunicare con i nostri ragazzi che im-provvisamente sono diventati alieni oppure neghiamo l’evidenza e ci ostiniamo a rimanere arroccati nella nostra lingua madre. Il bisogno di sicurezza è innato e fisiologicamente primario nell’uo-mo ma, nell’ipotesi della seconda opzione, metaforicamente è come essere immersi in questo nuovo mare cercando di asciugar-si e non rendersi conto dell’acqua che ci cinge. Nel mondo educativo, e non solo, attualmente sono pre-senti due tendenze contrapposte, i cui paladini sono stati definiti da Umberto Eco “apocalittici” e “integrati”15. La prima fa riferi-mento all’approccio “tabù”, ossia quello che tende a demonizza-re gli strumenti di comunicazione come i social network e cerca di vietare o limitarne l’uso ai propri figli/ragazzi. La seconda, all’altro estremo, lascia ai ragazzi totale libertà sull’uso indiscrimi-nato e inconsapevole di questi nuovi strumenti. Entrambi questi comportamenti, se da un lato sono risposte naturali a trasforma-zioni tanto veloci, dall’altra non rispondono efficacemente ai bi-sogni educativi che la società e le nuove generazioni ci chiedono.

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Siamo però sicuri di voler delegare all’Azienda Google o all’Azienda Facebook il nostro ruolo di educatori? Spesso il mondo adulto si nasconde dietro all’alibi del divario tecnologico, in un ribaltamento di ruoli in cui i “nativi digitali” (i ragazzi delle nuove generazioni che “nascono” all’interno della rete e quindi in un mondo interconnesso), accompagnano e formano i propri padri e madri all’uso delle nuove tecnologie.

Sempre più spesso chiediamo ai nostri ragazzi di scaricar-ci le foto dell’ultima vacanza e di pubblicarle sul nostro profilo digitale. Questo, dal punto di vista antropologico e sociale, è una rivoluzione radicale di cui stiamo vedendo i primi effetti solo ora. Ma spetta ancora all’adulto (genitore, insegnante, educatore) accompagnare le nuove generazioni a confrontarsi con la vita e con gli strumenti che essa offre. Che fare allora?

• La prima azione è di prendere consapevolezza dei cambia-menti che stanno avvenendo e che ci stanno attraversando e chiederci come possiamo guidare e condurre queste trasfor-mazioni.

• La seconda azione è di metterci la faccia. Con un gioco di parole: l’Azienda Facebook ci ha imposto di presentarci con la nostra icona in alto a sinistra su sfondo bianco? Bene: noi la faccia ce la mettiamo davanti e dentro!

• La terza operazione è di scoprire e riscoprire quali sono gli strumenti che ci mancano o che dobbiamo integrare nella nostra cassetta degli attrezzi di educatori/formatori/genitori.

• La quarta è di sperimentare nuovi modelli educativi che ten-gano conto di questi nuovi strumenti, in un circuito virtuoso di fiducia tra il mondo dei giovani e il mondo degli interme-diari educativi (educatori, formatori, insegnanti).

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3. Aiuto, cosa ci sta succedendo?

È indubbio come oggigiorno viviamo in un mondo la cui complessità e le sue interazioni ci sovrastano e dove il termine post-moderno (riferito al tempo che stiamo vivendo) è rivelatore di come non siamo ancora riusciti a definirlo in maniera chiara. Le diverse analisi si intersecano e cercano di fotografare un esi-stente in continuo movimento, la cosiddetta “società liquida”, per dirla con la definizione ormai abusata di Zygmunt Bauman16.

In un contesto così veloce, così complesso e così diffici-le da decifrare sono avvenuti e sono in corso cambiamenti che potremmo definire vere e proprie rivoluzioni dal punto di vista culturale, antropologico e sociale.Tra questi mutamenti è indispensabile ricordare:

• La permanente inter-connessione digitale• La connessione e inter-connessione con persone fisicamente

distanti tra loro• La reticolarità delle nostre vite• La capacità della tecnica di oltrepassare ogni limite• La miniaturizzazione delle tecnologie (cfr. in parte seconda

del presente testo);• I cambiamenti dei processi emozionali e cognitivi all’interno

del cervello• La simultaneità, l’immersività e la trasparenza dei nuovi media.

Tutto questo è possibile grazie alla “rivoluzione elettrica” di cui parlava già McLuhan a metà del secolo scorso: “Oggi, dopo oltre un secolo di impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio.”17.

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In questo scenario, dove perfino lo spazio e il tempo si stanno sgretolando sotto i nostri piedi, l’essere consapevoli di tutto quello che sta succedendo diventa essenziale per poter poi agire in maniera adeguata ed efficace. Questa presa di coscienza potrebbe sembrare un passaggio scontato, naturale, quasi fisio-logico: crediamo invece che questo primo passo sia un vero e proprio salto antropologico, intendendo con questo termine il coinvolgimento di tutto quello che ha a che fare con l’umano, dalla biologia alla cultura.

Leggere un e-book in formato digitale è antropologica-mente diverso che sfogliare lo stesso libro in versione cartacea. Cambia la fruizione del contenuto: l’utilizzo di una tecnologia rispetto ad un’altra trasforma radicalmente sia il soggetto frui-tore che il contenuto dell’oggetto fruito. Tutto ciò ci pone degli interrogativi che hanno a che fare con la dimensione dell’umano nell’era elettrica e digitale. Se la nostra società sarà fatta da con-nessioni e relazioni con persone fisicamente distanti, cambierà, oltre a quella che chiamiamo identità, anche il modo di relazio-narsi tra esseri umani.

Da cosa sarà composta l’identità con cui nell’immediato futuro ci presenteremo e ci rapporteremo? Avremmo due identi-tà, una virtuale e una reale? E quella virtuale che ricadute ha sulla realtà? Come preservare un’identità privata?

Tutti questi interrogativi ci impongono di fermarci, fare ordine e iniziare a comprendere come la rivoluzione digitale stia trasformando le nostre vite. Da una parte infatti stiamo benefi-ciando di strumenti incredibilmente potenti, facili da usare (user-friendly) e che ci stanno rendendo la vita più semplice e comoda su molti versanti. È indubbio che la ricerca di un luogo sull’ap-plicazione maps dell’Azienda Google o l’accesso a miliardi d’in-

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formazioni in maniera immediata e senza intermediazioni siano comodità a cui difficilmente rinunceremmo. D’altra parte non siamo ancora pienamente consapevoli di come tali strumenti ci coinvolgano in dinamiche e processi finora com-pletamente sconosciuti. Ecco allora che diventa indispensabile un riconoscimento del mondo tecnologico, delle sue opportuni-tà, potenzialità e dei suoi rischi.

• Zygmunt Bauman (1925), sociologo e filosofo che ha tentato di spiegare la ‘postmodernità’ usando le metafore di modernità ‘liquida’ e ‘solida’.

• Marshall McLuhan (1911-1980), visionario e studioso della comuni-cazione e dei massmedia. Celebre è la sua tesi secondo cui “il medium è il messaggio”.

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4. Metterci la faccia

É importante che come mondo adulto sgombriamo fin da subito il campo dall’alibi classico che ci mette al riparo dall’im-pegno necessario in questa sfida che abbiamo di fronte. “Troppo divario tra noi e loro!”, intendendo per “loro” i cosiddetti nativi digitali, cioè la generazione che Paolo Ferri nel suo libro descrive così: “studiano mentre ascoltano musica, e nello stesso tempo si mantengono in contatto con il gruppo di pari attraverso msn messanger, mentre il televi-sore è acceso con il suo sottofondo di immagini e parole” 18. Quel “noi” di conseguenza si riferisce agli “immigrati digitali”, cioè a noi che stiamo sperimentando questa società così permeata dai mezzi tecnologici avendo però conosciuto anche la fase precedente.

Per convenzione e per aggiungere dei riferimenti storici, in Italia parliamo di “nativi digitali” pensando ai ragazzi nati a partire dal 1996-1997 e che hanno in comune l’esser nati, cre-sciuti e lo stare immersi in un ambiente altamente tecnologizzato ormai in tutti gli ambiti di vita. È reale il divario (si parla infatti di “digital divide”) tra i co-siddetti nativi digitali e il mondo adulto, un divario che riguarda le competenze digitali, il modello di apprendimento, l’approccio ai saperi e lo sviluppo cognitivo, ma le difficoltà di crescere che emergono in questo ambiente elettronico ci obbliga a una sfida educativa nei confronti delle nuove generazioni. Inoltre, l’alibi della barriera strumentale (“io non ci capisco nulla d’informati-ca”) non può più reggere, vista la caratteristica di accessibilità e usabilità che questi strumenti possiedono in misura sempre più crescente. Si aggiunga che questo nuovo campo di gioco educati-vo e sociale, oltre a non essere virtuale, è così reale da aver biso-gno di una mappa per orientarsi perché appartiene a un incrocio

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di saperi, conoscenze e competenze che si definisce giorno per giorno come un territorio di frontiera. Nick Bilton, nel suo “Io vivo nel futuro”19, parla di un’onda di innovazioni di scala e velo-cità immense. Lui stesso racconta che nemmeno un esperto del settore come lui, trentenne design integration editor del New York Times, riesce ad essere sempre aggiornato e come invece un ra-gazzo sveglio di quindici anni possa possedere una alfabetizza-zione tecnologica maggiore.

Partendo da questo dato di fatto, dall’analisi delle possi-bile cause e dalla volontà di lavorare anche in questi nuovi spazi digitali, il mondo educativo deve chiedersi cosa stia succedendo e accogliere l’invito di Bilton20 ad assumere un atteggiamento di osservazione e ascolto senza pregiudizi, come punto di parten-za (a tal riguardo, una schematizzazione utile di un approccio di ascolto è quella che Marianella Sclavi propone nel suo “Arte di ascoltare e mondi possibili”)21.

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Il passaggio da essere genitori/educatori/insegnanti of-fline a quello di esserlo online prevede l’assunzione di responsa-bilità in un mondo che potrebbe apparire non reale ma che lo è sempre di più. Internet è infatti parte integrante della nostra vita, volenti o nolenti, e spostare l’interruttore da off a on è diven-tato indispensabile e necessario. Ma come fare? Basta aprirsi un profilo sul sito dell’Azienda Facebook? Dove possiamo andare a ricercare informazioni a riguardo? Tutte queste domande sono legittime e la difficoltà di trovare delle risposte ci dimostra come siamo piuttosto in ritardo rispetto a mettere in campo dei percor-si di educazione ai media e al web nei vari luoghi adibiti. Iniziamo a chiederci quali sono le dinamiche che si attivano e i comporta-menti che vengono comunemente utilizzati negli spazi online a cominciare dall’ “essere presenti” sul web.

Partendo dall’assunto che la narrazione che facciamo di noi stessi traccia i confini in cui ci muoviamo e la nostra identi-tà, ci viene spontaneo osservare come la rete, e in particolare i vari social network, siano strumenti formidabili per la costruzio-ne identitaria online: basta pensare al proprio profilo Facebook, Twitter o Linked-in. Le informazioni personali su di noi, i nostri interessi, le nostre preferenze, i “mi piace”, sono tutti elementi che vanno a definire la nostra identità sul web.

Questa identità (etimologicamente definita come “ugua-glianza completa e assoluta”) o meglio, queste pluralità di identità sono inserite all’interno di un sovraccarico di relazioni e stimoli a cui l’era post moderna sottopone gli individui, grazie soprattutto allo sviluppo delle nuove tecnologie, e corrode l’idea di un sé individuale, ne disperde l’es-senza, lo decentra e lo scompone, producendo la molteplicità di voci dissonanti che mettono in dubbio ognuna delle certezze che possiamo avere su noi stessi 22. Per dirla con Pirandello, rischiamo di essere “uno, nessuno, centomila”23, o forse lo siamo già.

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In particolare, il processo di costruzione identitaria onli-ne, se riferito a ragazzi che devono ancora crescere e definire la propria identità “dentro di sé”, ci pone degli interrogativi edu-cativi molto forti e aggiunge uno spazio da andare a presidiare nell’ottica di accompagnare la crescita dei ragazzi. Pensiamo a un adolescente che costruisce il suo profilo sull’Azienda Facebook e mette informazioni su di sé, reali o meno, in uno spazio vir-tuale aperto a tutti, amici e non, in un periodo di vita in cui sta costruendo la sua identità di ragazzo/ragazza a partire dall’espe-rienze che la vita e i suoi legami gli mettono di fronte. Le sue azioni online hanno delle ricadute sia sulla sua persona che sul suo carattere. A noi il compito di andare ad indagare per meglio accompagnarlo anche all’interno di questo spazio.

Quello di cui parliamo è un cambiamento strutturale e antropologico della natura dell’essere umano. Un tempo lo svi-luppo della propria identità avveniva in un perimetro ben defi-nito, caratterizzato da intermediari come la famiglia, la scuola, le associazioni sportive, le reti amicali e di vicinato. I confini di questo perimetro, anche grazie al web, si sono ampliati a dismi-sura diventando globali.

Inoltre, molto spesso ci dimentichiamo come il web ab-bia la memoria lunga e immagazzini tutte le nostre tracce che abbiamo lasciato nella rete. Si potrebbe dire che il web non di-mentica, (esemplare è la scena del film “The social network” in cui uno dei protagonisti esclama: “su internet non si scrive a matita, Mark, ma con l’inchiostro!”)24 e la nostra “presenza digitale” è memorizzata passo dopo passo in qualche server sperduto chissà dove. La gestione di questa nostra identità ha sicuramente del-le conseguenze reali, oltre a quelle di natura psicologica come accennato prima. Per esempio si può provare a cercare e forse trovare un lavoro attraverso il proprio profilo professionale pub-

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blicato sul social network Linked-in; si può venire licenziati per aver espresso nel proprio profilo Facebook delle opinioni contro la propria azienda; si possono sviluppare, co-costruire e condivi-dere progetti di alto valore sociale e civico. Parallelamente a queste opportunità gli ambienti online tendono a farci perdere il senso dell’identità privata, come se fossimo pri-gionieri stretti in una “camicia di forza elettronica”25.

Ma come mantenere la propria identità privata, in rela-zioni con persone fisicamente lontane da noi dove la corporeità ha perso importanza? Come conservare spazi e tempi riservati mentre siamo perennemente connessi uno con l’altro?

All’interno dell’analisi sull’identità nel web, uno sguardo particolarmente attento va posto sulle modalità in cui si costru-iscono le relazioni interpersonali e a come la vita affettiva delle persone si esprima attraverso la mediazione dal web. È sufficien-te guardare le bacheche dell’Azienda Facebook di molti iscritti al social network per capire come queste vengano utilizzate alla stregua di un diario personale in cui pubblicare sentimenti, emo-zioni e pensieri, in maniera simultanea o quasi. È uno stato di “confessione” permanente in cui s’incrociano indistintamente il sentire privato di un adolescente con emozioni “globali” come la paura durante il terremoto e lo tsunami avvenuto in Giappo-ne l’11 Marzo 2011 dovuta ai rischi causati dall’esplosione della centrale nucleare di Fukushima. Davanti a queste complessità in cui le emozioni sono alimentate a livello globale e circolano nel mondo in maniera simultanea, si legittimano domande come: le relazioni che s’instaurano attraverso i social network sono reali oppure irreali? Qual è il grado di autenticità di tutto il materiale pubblicato quotidianamente su internet? Le risposte vanno cer-cate caso per caso ma l’analisi degli strumenti che utilizziamo sul web ci può aiutare a individuare delle tendenze comuni.

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5. Gli attrezzi del mestiere

Avete mai pensato di avere una cassetta degli attrezzi in cui, ogni volta che la aprite, trovate i vostri strumenti pronti ad essere usati in ogni nuova situazione o attività? A tal riguardo il web, il pc, gli smartphone, le tavolette sono invenzioni piatta-forma, ossia non hanno un unico uso stabilito a priori, meglio ancora, le conseguenze del loro utilizzo non sono prevedibili nel momento della loro progettazione. È vero che potremmo usare questo libro (sempre che lo stiate leggendo nella forma carta-cea classica) come soprammobile o come martello per piantare i chiodi, ma in realtà esso è stato scritto principalmente per essere letto, con una finalità di divulgazione ben precisa. Diverso è per un pc o una tavo-letta, essi vengono costruiti per permetterci di fare quello che de-sideriamo, guardare un film piut-tosto che prenotare un volo per Honolulu o disegnare il nostro prossimo capolavoro.

La caratteristica di questi nuovi strumenti e media è quel-la di essere generativi, cioè di avere un potenziale creativo intrin-seco che dipende dal loro utilizzo. Ritornando alla metafora della cassetta degli attrezzi, è come avere a disposizione degli stru-menti con un numero infinito di utilizzi, (anche se il progettista si muove su un numero finito di azioni che ne condiziona l’uso) e senza il libretto d’istruzioni. Questo vale in maniera particolare per il web e le tecnologie ad esso affini.

Kevin Kelly, nel suo libro “What Technology Wants”26

definisce le tecnologie (“technium”) come un organismo vivente in grado di autoregolarsi e riprodursi senza l’intervento dell’uomo.

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In particolare la rete viene definita come un medium di un cer-vello collettivo completamente autonomo. Senza entrare in una visione così olistica della tecnologia e nell’analisi del rapporto tra la tecnica e l’umano, rimane fuori discussione l’opportunità di utilizzo di questi strumenti, soprattutto in un’ottica educativa e sociale. Partiamo da questo assunto per indagare quali siano gli strumenti e come il loro utilizzo, in un’ottica che chiameremo creativa, possa essere utile a rispondere ai bisogni educativi emer-genti. Per gli educatori sociali, la prima applicazione operativa di questi strumenti è quella del diario online. Basta sbirciare i contenuti pubblicati dai ragazzi sui profili dell’Azienda Facebook per capire come questi spazi siano utilizzati per esprimere sen-sazioni, emozioni, pensieri, pezzi di vita senza filtri né censure, quasi fossero dei veri e propri diari. La caratteristica principale dei diari, però, è sempre stata quella della segretezza, dell’essere nascosti sotto il letto e lontano da occhi indiscreti, in particolare del mondo adulto. Questa prati-ca è stata particolarmente stravolta dai social network generalisti come Facebook e Netlog dove si pubblica e si condivide di tutto, dalla propria parte più intima e quella pubblica.

Una possibile attività da sperimentare è quella di rendere consapevoli i ragazzi di come tutti i loro contenuti siano “in rete” e di come rimangano in memoria anche a distanza di anni, indivi-duando assieme poi delle soluzioni alternative al loro bisogno di socialità online.

Visti dal punto di vista dell’educatore sociale, quegli spazi online sono da considerarsi dei veri propri luoghi della messa in scena, quasi dei moderni teatri in cui si mostrano e rappresenta-no le emozioni, drammi, commedie che ognuno vive o vorrebbe

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vivere. In questo immenso teatro aperto al mondo, dove non si paga e il numero di amici invitati è potenzialmente infinito, l’edu-catore può trovare e valorizzare tutti quegli elementi su cui basare i suoi interventi pedagogici o addirittura sfruttare il dispositivo teatrale per mettere in scena, online e dal vivo, cambiamenti e trasformazioni “educative”.

Un’altra immagine che ben si adatta a questi luoghi fre-quentati dai ragazzi è quella del muretto digitale, rifacendosi a quel muretto reale che utilizzano per ritrovarsi e condividere momenti di crescita all’interno del gruppo dei pari. Se al vecchio muretto adesso se ne aggiunge anche uno digitale, è compito dell’educatore riconoscere, osservare e ripensare con loro anche questo spazio.

Di fronte a pre-adolescenti e adolescenti (periodo in cui l’identità si sta formando) alcuni strumenti che puntano alla sco-perta di sé stessi attraverso le immagini e i video possono creare dei percorsi molto incisivi a livello pedagogico. Diversamente il rischio è che i ragazzi condividano in rete la pro-pria identità personale, intesa come corpo, emozioni e sentimen-ti, senza la piena consapevolezza di quello che stanno facendo e con la perdita della propria identità privata. Per dirla dal punto di vista psicologico, il rischio è che mettano la loro identità sul web prima di metterla dentro di sé.

Come fare per poter lavorare su questi temi? Un’ipotesi è di provare a soddisfare i bisogni tipici dei ragazzi con le potenzia-lità delle nuove tecnologie. Alcune di queste infatti permettono di registrare la loro quotidianità attraverso immagini, video, audio in qualità oramai elevata. Questo lavoro di far memoria delle im-magini, delle voci, dei corpi, delle esperienze permette ai ragazzi, accompagnati dall’educatore, di rivedersi, riconoscersi e prendere

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atto dei cambiamenti che avvengono su loro stessi e nel contesto in cui operano, sia esso un centro aperto, un ricreatorio o uno spazio ragazzi pomeridiano. Realizzare queste officine/laboratori di memoria con i ragazzi, che possono utilizzare gli smartphone provvisti di fotocamera e videocamera per raccogliere, selezionare e organizzare materiale che li riguarda, gli permette, attraverso un processo di lavoro di gruppo, di accettarsi e riconoscersi tra il gruppo dei pari creando così una loro identità da condividere poi con l’esterno. Lo stesso lavoro di memoria e di raccolta di storie e co-noscenze27 può essere immaginato in contesti come le case di riposo per gli anziani, dove i saperi e le eredità di persone alla fine della loro vita possono essere raccolti, sistematizzati e tra-sformati in contenuti fruibili attraverso strumenti di storytelling digitali (digital storytelling)28. Da questi stessi lavori si possono produrre film, documentari, album con il bisogno di pochissime capacità tecniche ma con ampi spazi di riflessività.

Trasversale a tutte le realtà in cui l’educatore si può tro-vare ad operare è l’attività di promozione e conoscenza delle ini-ziative, progetti, eventi che si stanno realizzando. Queste operazioni di passaparola diventano molto facili da ese-guire online attraverso i social network, e molto spesso hanno una capacità molto forte di mobilitare realmente le persone rispetto a un evento o a un’iniziativa. Questa funzione di conoscenza e promozione di attività mette in luce come questi gruppi o “comunità digitali”, magari creatisi attorno a interessi comuni, fanno partecipare le persone anche nella vita reale e non le releghino al mero cyberspazio.

Altra ipotesi di laboratorio è quella di prendere i diversi strumenti e cercare di capire il “come sono fatti”, cioè guardarci

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dentro nel “gioco dello smonta e ri-monta”. Provando a prendere in mano un qualsiasi smartphone all’interno di un gruppo di ragazzi, molto probabilmente nessuno è in grado di smontarlo, vedere di quali pezzi è composto e rimontarlo. Questo significa che il livello tecnico con cui sono costruite le nuove tecnologie è talmente alto e raffinato che non per-mette, se non a tecnici esperti, di gestir-ne le componenti materiali.

Ciò non toglie però la curiosità nell’analizzare quali siano le azioni che questi oggetti elettrificati ci permettono di fare e di poterne scoprire di nuove grazie alla partecipazione dei ragazzi.

Con la nostra cassetta degli attrezzi, tra l’altro possiamo: • Comunicare (es. telefonate, e-mail, sms, chat)• Registrare, archiviare (es. fotocamere, videocamere)• Scrivere (sms, e-mail, testi, blog, microblog)• Conoscere, informarsi, ricercare (es. utilizzo Azienda Google)• Socializzare (es. social network come Azienda Facebook)• Comperare (es. acquisti su e-bay o negozi online)• Pubblicare (es. caricare video su Youtube dell’Azienda Goo-

gle o su qualsiasi social network)• Mappare (es. utilizzo di programmi di mappatura dei contenuti)• Dialogare (es. Msn, Skype )• Cercare lavoro (es. utilizzo Linkedin)• Condividere (es. Blog; Flicker)• Giocare (es. qualsiasi social network o gioco online)• Creare (es. foto; video; immagini) • Dettare (es. Dragon Dictation)

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Questo elenco, non certo esaustivo sia nelle azioni che negli strumenti indicati, ci permette di esplorare insieme ai ragaz-zi le potenzialità di questi mezzi rispetto alle ricerche e ai possibili utilizzi innovativi essi vogliono fare. Tutto ciò è ancora più am-plificato dalla possibilità di creare applicazioni (apps) su qualsiasi tipo di interesse o esigenza. Lo stesso tipo di lavoro è possibile farlo piegando alle proprie esigenze social network già esistenti come per esempio Twitter. Un caso esemplare: due ragazzi giovanissimi a Londra hanno messo in rete i senzatetto della capitale inglese, i servizi sociali e il vo-lontariato attraverso l’uso di Twitter e degli sms che i senzatetto possono mandare attraverso il loro cellulare. Il progetto34 “Homeless SMS” (www.homelesssms.com) utilizza una tecnologia, ormai considerata di base, a servizio di un pro-blema complesso come quello dei senzatetto. Di attività simili ne stanno nascendo moltissime, soprattutto dalle nuove genera-zioni, e il ruolo degli educatori sta proprio nell’accompagnare i ragazzi a pensare in modo diverso strumenti già esistenti e sco-prirne di nuovi.

Abbiamo già cercato di definire i “nativi digitali” e per esclusione anche i cosiddetti “immigrati digitali”, a cui apparten-gono sicuramente pure la maggior parte dei genitori con i figli nati in questi anni. Le loro capacità di apprendimento tecnico dei nuovi media è indubbia mentre la loro abilità di utilizzo cri-tico rispetto ai mille stimoli che ricevono dal web va mediata dal ruolo di accompagnamento proprio degli adulti e dei genitori. Quello che sta accadendo è che il “campo di gioco” è diventato immenso: non è più solo il salotto di casa o il parco del quartiere, ma è diventato il web, i cui punti di accesso sono innumerevoli e facilmente raggiungibili attraverso un pc o un semplice telefoni-no di ultima generazione. Inoltre, ciò che si sta trasformando è il linguaggio che si riferisce al nuovo mondo digitale. Parole come

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amici, taggare, notifica, profilo prevedono un apprendimento e un processo di significazione dedicato. Partendo da questo dato di fatto, il primo passo è quello di spe-rimentare, magari insieme ai propri figli, una cosiddetta alfabe-tizzazione “di ritorno”. Non si tratta certo di tornare a scuola, ma di posizionarsi davanti a uno schermo per rimettersi in gioco. I possibili “giochi” del fare insieme sono innumerevoli, vanno dal creare prodotti digitali come album di foto e video, al cercare informazioni online attraverso strumenti come wikipedia, al con-dividere la fruizione di musica, film, eventi.

Probabilmente, l’interazione in questo contesto, il rap-porto tra genitori e figli rispetto allo strumento, sarà di tipo ver-ticale, ma ribaltato secondo l’ottica classica: è il figlio che insegna al genitore come si usano questi marchingegni. Dal punto di vista pedagogico lo scambio di ruolo è veramente un cambiamento radicale, ma può diventare un’opportunità da sfruttare per mettere in atto quell’orizzontalità e reciprocità tipica della comunicazione dei new media. Un esempio è la fruizione del materiale dell’archivio video online più noto: YouTube. Grazie a questo strumento, dove è possibile con un click cercare e rivedere qualsiasi cosa, da un gol di Maradona fino a Montale che recita le sue poesie, il genitore può raccontare al figlio storie ed eventi passati in maniera coinvolgente e incisiva, come davanti a un immaginario camino digitale. Lo stesso può fare il figlio, in una relazione di scambio di memorie magari di epoche diverse ma rese al presente attraverso la rete.

In questo modello di crescita e di scambio c’è un passag-gio dalla fruizione passiva tipica dei media di massa come la tele-visione, a una fruizione che implica la creazione e la produzione di contenuti (cfr. in parte seconda del presente testo). Davanti alla tv, un ragazzo può solamente scegliere cosa guardare e goderne/

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subirne il contenuto, con l’unico potere di cambiare canale o di spegnere. Con i nuovi media la novità sta nella possibilità di cia-scuno di creare e condividere contenuti propri. Questa potenzia-lità di creazione e partecipazione va riconosciuta e accompagnata nell’orizzonte del “fare insieme” e uscendo dall’illusione di poter controllare tutto come fossimo ancora nell’era del telecomando. La complessità è sicuramente aumentata, a partire dal fatto che la maggior parte dei ragazzi fruisce contemporanea-mente di più esperienze: guardando la tv navigano su internet e pubblicano qualcosa sul loro profilo dell’Azienda Facebook. Davanti a questa moltiplicazione di esperienze che prevedono anche il coinvolgimento di più sensi (vista, udito, tatto), il ruolo del genitore è quello di facilitare al ragazzo la comprensione di quanto accade provando a guardare assieme a lui dal di dentro questo treno in corsa che sta trasformando la percezione dello spazio, del tempo e della natura stessa delle relazioni umane, in particolare tra il mondo degli adulti e il mondo dei giovani. Per quanto riguarda lo spazio, è semplicemente straordinario pensare che un ragazzo può tenere in tasca il mondo con il suo telefonino ma non è altrettanto scontato provare a stargli vicino in questa scoperta.

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Per quanto riguarda il tempo, l’introduzione dell’istanta-neità avvenuta grazie a social network come Twitter e Facebook costringe il mondo adulto a cambiare velocità e allo stesso tem-po stimola ad insegnare ai ragazzi di riprendere quello spazio di riflessione necessario prima dell’atto creativo, sia esso scrivere dell’ultimo film che si è andati a vedere o dell’ultima delusione d’amore vissuta.

Prendersi dunque in carico l’agire quotidiano online dei ragazzi nella fase pre-adolescenziale e adolescenziale per rispon-dere ai loro bisogni sociali ed educativi crediamo sia fondamen-tale anche in un’ottica di prevenzione. Rispetto ai rischi che i nuovi media possono creare, essi sono di varia natura e correlati a diversi comportamenti devianti: la dipendenza da attività come il gioco online, il non riuscire a stare “scollegati”, la costruzione di un mondo a parte fino ai rischi collegati alla presenza in rete dei minori.

Su questi aspetti, pur riconoscendoli e dedicando loro la giusta attenzione, ci limitiamo ad affermare l’importanza di un approccio preventivo a tali rischi e ben sapendo quanto un ap-proccio solamente di “sicurezza”, oltre ad essere molto diffuso, possa portare a cure palliative che dal nostro punto di vista non guariscono. Proibire l’accesso alla rete anche con finalità di pre-venzione non è efficace come invece stare sulla rete insieme ai ragazzi e condividerne lo spazio, gli strumenti e un possibile per-corso costruttivo. È indubbio che questa seconda ipotesi sia più difficile da intraprendere, ma noi preferiamo parlare di “salute digitale” piuttosto che di sicurezza digitale. Questo significa essere consapevoli delle criticità che questi nuo-vi media ci portano, ma allo stesso tempo ritenere sia più utile e interessante lavorare sulle opportunità. Tra le criticità più diffuse ne elenchiamo alcune:

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1. Tracciabilità2. Essere sempre raggiungibili3. Essere schedati e controllati da

aziende esterne4. Perdita della propria privacy5. Rischio anestetico6. Personalizzazione dell’ambiente

digitale (in cui rischiamo di stare chiusi nelle nostre preferenze e nei nostri “mi piace”)

7. Connessione totale

A tutto ciò però, dopo averne preso consapevolezza, si può rispondere con mezzi e strumenti adeguati, in un’ottica pe-dagogica ed educativa:1. Utilizzo di strumenti che garantiscono l’anonimato (es. vedi la

FreedomBox del Software Freedom Law Center di Eben Moglen)2. Scollegarsi per ricaricarsi3. Installare software che ti permettono di sapere chi ti sta con-

trollando (es. spyware)4. Mantenere la propria identità privata pur avendone una pub-

blica online5. Promuovere attività on-off line6. Privilegiare l’atto creativo della comunicazione online (es.

non basta cliccare “mi piace”)7. Attivare azioni di diritto all’oblio

A partire da ciò, sosteniamo l’idea di una cittadinanza digitale in cui la corresponsabilità degli intermediari, siano essi genitori, educatori o insegnanti, porti a una comunità in grado di stare a contatto con i bisogni veri dei ragazzi promuovendo il loro protagonismo allo stesso tempo locale e globale.

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Quando parliamo di “salute digitale”, intendiamo infatti una cor-nice di prassi e pensiero che include azioni, pratiche, esperienze, materiali e approcci sociali e pedagogici che puntano alla promo-zione di processi di consapevolezza personale e sociale dei di-versi attori coinvolti, in particolare dei giovani. Il “box di salute digitale” che proponiamo ogni qualvolta veniamo in contatto con chi ha il ruolo di educare e il cui obbiettivo è quello di at-tivare processi educativi attraverso i new media che accrescano e sviluppino quel “senso critico” indispensabile per una reale par-tecipazione civica, contiene le seguenti componenti:• Aumento della consapevolezza rispetto ai condizionamenti

sociali e culturali (es. influenza dei mass media e personal media nella propria vita)

• Capacità di analisi e valutazione delle esperienze• Apprendimento che coniuga azione e riflessività• Acquisizione di nuovi strumenti che permettono di esprime-

re il proprio punto di vista• Approccio da autori e non da spettatori • Sviluppo della creatività• Aumento della capacità di problem solving • Dimensione cooperativista, partecipativa e orizzontale dell’agire• Co-costruzione di senso e di significati condivisi• Integrazione con le altre competenze e saperi necessari per

una salute digitale globale (es. competenze psicologiche; sa-nitarie..)

• Condivisione delle esperienze, degli approcci e dei saperi• Utilizzo delle diverse forme di narrazioni esistenti.

• Kevin Kelly (1952), studioso, scrittore e fotografo della cultura digitale e asiatica. Co-fondatore della rivista Wired, mensile noto come la “bibbia di internet”.

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6. Sperimentazione di nuove strategie educative e di insegnamento

Dentro a tutti questi cambiamenti, dove stanno le scuole, come si posizionano gli insegnanti e i docenti? Partiamo da que-sto interrogativo e da una semplice analisi delle trasformazioni che stanno avvenendo per proporre alcune sperimentazioni con diversi approcci formativi ed educativi. Questo ci costringere a riflettere sui seguenti piani:1. Quali sono le caratteristiche dell’“alunno digitale”?2. L’insegnante può competere con le nuove tecnologie? È suf-

ficiente parlare di media education?3. Che approccio si può mettere in campo?

Per quanto riguarda il primo punto, all’interno dei nuovi media l’apprendimento caratterizzante è il learning by doing29, cioè l’imparare facendo.

Esso solitamente avviene in processi peer to peer, all’inter-no cioè di gruppi di pari. In questo contesto, le principali dinami-che in cui sono immersi i ragazzi sono:• Apprendimento e comunicazione orizzontale• Cooperazione e problem solving di gruppo• Condivisione e collaborazione continua• Accessibilità a un mare d’informazioni• Costruzione delle conoscenze e competenze in maniera di-

sorganica• Capacità di adattamento alle trasformazioni• Velocità nella fruizione dei contenuti• Predisposizione alla creazione di materiali e contenuti “arti-

gianali”• Propensione ad attività multitasking

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La riflessione deve essere sviluppata non solo a partire dalle competenze digitali30, come se bastasse riconoscere e gui-dare le abilità tecniche di utilizzo delle nuove tecnologie, ma a partire da ciò che spesso viene chiamato intelligenza digitale. Essa è ancora difficile da definire chiaramente: il suo contenuto è materia di neuroscienze cognitive che vanno a studiare proprio i comportamenti dei cosiddetti “nativi digitali”31.

Provando a rispondere alla seconda domanda, l’inse-gnante non si può mettere in competizione con uno smartphone, fosse solo perché non serve un docente che spieghi a un ragazzo come usarlo (molto spesso è il contrario) e anche perché tutto è in continua trasformazione. Un approccio interessante e genera-tivo è quello di provare a sperimentare ambienti d’insegnamento più orizzontali, sistemi di apprendimento collaborativi e socializ-zanti, gruppi di lavoro tra pari.

A questo viene in aiuto sicuramente la media educa-tion, movimento e disciplina di secondo livello (trasversale ri-spetto alle scienze dell’educazione e della comunicazione) che pensa ai media come strumento, oggetto e spazio d’intervento educativo (Rivoltella 200132; Buckingham, 200633). Essa però è indispensabile ma non sufficiente per la sfida che gli studenti ogni giorno ci lanciano dai banchi di scuola. Si tratta infatti di provare a declinare le capacità dei nativi digitali come il problem solving, la socialità, la gratuità, la creatività, la partecipazio-ne in un nuovo approccio d’insegnamento.

Nel mondo dell’educazione molte sperimentazioni di questo tipo si stanno già facendo, e molte sono ancora da in-ventare nell’approccio proprio dell’imparare facendo e dello sbagliando s’impara (principi epistemologici di base).

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Partendo per esempio dallo spazio fisico, semplicemen-te cambiandone il setting le aule tradizionali possono facilitare i nuovi skills cognitivi (es. utilizzare banchi mobili nelle aule per facilitare setting spaziali interattivi e cooperativi). Il “gruppo classe” inoltre può diventare quel gruppo di pari in cui sperimentare una comunicazione orizzontale e cooperativisti-ca partendo dall’assioma dell’apprendimento reciproco.

Molte attività possono essere poi strutturate permetten-do la partecipazione e l’espressione del proprio punto di vista utilizzando anche i nuovi linguaggi dei media, fornendo degli strumenti di analisi che consentano di andare in profondità non solo nei contenuti ma anche nello strumento; condividendo le competenze e conoscenze apprese all’interno del gruppo. Per far ciò, non sono indispensabili scuole digitali o classi elettrificate (anche se un certo aiuto lo darebbero), ma modelli di insegna-mento che incrocino le potenzialità e il fascino dei nuovi media e le capacità pedagogiche dell’insegnante.

Ad esempio per le ricerche scolastiche quasi tutti gli stu-denti utilizzano l’enciclopedia online Wikipedia, con la conse-guenza che il lavoro di ricerca è diventato semplicemente cliccare e leggere, al massimo stampare, con una uniformità di quelli che sono i risultati della ricerca. Un capovolgimento di strategia può essere quello di fare scrivere agli studenti una voce su Wikipedia.Questo da una parte li costringe a un lavoro di ricerca ed elabo-razione molto profondo e dall’altra a sentire la responsabilità di quello che scrivono sapendo che poi verranno pubblicati online assoggettandosi al giudizio e alle critiche del mondo esterno.Sempre per quanto riguarda la ricerca, indagare su cos’è un algo-ritmo e sapere che sta alla base dell’oracolo di Google e della sua Azienda può diventare un gioco molto istruttivo.

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La media education, riprendendone la sua definizione, di-venta quindi quell’attività educativa e didattica finalizzata a for-nire competenze che favoriscono la produzione e la creatività, un approccio attivo e tecniche di apprendimento cooperativo. Con questo approccio ogni docente di qualsiasi disciplina può valorizzare un potenziale già presente all’interno di ogni “gruppo classe”, utilizzando strumenti (che già si conoscono) in maniera nuova e creativa per aiutare i ragazzi a comprendere in maniera critica la realtà che li circonda.

A questo punto diventa interessante parlare anche di web education, aggiungendo il web come potenziale strumento, oggetto e spazio d’intervento educativo. Utilizzare internet e la rete come habitat sociale per fare esperienza e condividere la co-noscenza anche in classe, stimola quella creatività tra i ragazzi che diventa contagiosa e produce apprendimento oltre che risultati reali. Tra i vari apprendimenti sottesi alla web education c’è quello del metodo di lavoro. La didattica è di tipo laboratoriale, e in questi laboratori si attivano dei progetti di educazione ai media e

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al web che prevedono 3 fasi: la fase della ricerca, la fase dell’ana-lisi, la fase della creazione e produzione. Qualsiasi tipo di progetto si voglia fare, esso parte dall’analisi dello strumento, passando attraverso il suo utilizzo e creazione di un prodotto per poi ridiscuterne l’intero processo con i ragazzi. Questo processo è valido a partire dalla scuola dell’infanzia fino alle scuole secondarie. I temi che si vanno a toccare sono infiniti e vengono scelti rispetto ai bisogni formativi di quello specifico gruppo. Gli strumenti che si decide di analizzare e utilizzare pos-sono essere molteplici (immagini; video; giornali; web), e tutto il processo viene rivisto e valutato ex-post.

Questa tipologia di didattica a progetti è possibile sperimentarla con efficacia facendo attenzione alle seguenti condizioni “sine qua non”:• Co-progettazione iniziale del percorso con il gruppo di lavoro• Corresponsabilità di tutte le persone che intervengono nel

progetto• Continuità delle attività progettate• Presenza di competenze adeguate• Verifica e valutazione del percorso

La co-progettazione iniziale nei consigli di classe o a li-vello di collegio docenti è essenziale per condividere quale tipo di esperienze disciplinari si vogliono proporre ai ragazzi e indivi-duare su quali competenze si vuole lavorare. Alcuni asset di base da condividere possono essere:• Importanza di far conoscere agli studenti i new media di cui

quotidianamente usufruiscono• Sperimentazione di un metodo di lavoro tipico della ricerca-

azione (analisi; ricerca; creazione; valutazione)• Valorizzazione della scuola come luogo della comprensione

critica della realtà.

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In sede di co-progettazione vengono individuati anche quelli che sono i bisogni formativi di quella peculiare classe o gruppo di sperimentazione. Un secondo passaggio è definire le competenze sui cui si vuole lavorare, e verificarne la presenza interna o la necessità di chiede-re interventi di esperti, il cosiddetto media-educator o web-educator.La continuità del progetto che s’intraprende e la valutazione fina-le dei risultati raggiunti diventano fondamentali per verificare il processo di apprendimento e “ri-tarare” la sperimentazione par-tendo dagli errori.

Le criticità che si possono incontrare nell’attivare spe-rimentazioni all’interno delle scuole italiane di tali progetti di web-education sono molte, a cominciare dalla mancanza della con-nessione internet e della sostenibilità economica di tali progetti. La responsabilità formativa in quanto docenti ed educatori però ci impone di mediare tra l’innovazione e la cultura con i mezzi esistenti, rendendo creativo, partecipato e aderente alla realtà il nostro lavoro artigianale.

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1 R. Verganti, Design-Driven Innovation, Harvard Business Press, 2009, p. 29.2 W. isaacson, Steve Jobs, Milano, Mondadori, 2011.3 g. Le Boterf, De la compétence: Essai sur un attracteur étrange, Les Ed. de

l’Organisation, 1990.4 r. BarBier, La ricerca-azione, Roma, Armando, 2007.5 M. Prezza - L. Leone, Costruire e valutare i progetti nel sociale, Milano, Edi-

zione Angeli, 1999.6 c. shirky, Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell’era digitale, Torino, Co-

dice Edizioni, 2010.7 P. Branca - f. coLoMBo, La ricerca-azione come metodo di empowerment delle

comunità locali, tratto da Animazione Sociale n. 1 GruppoAbele edizioni, 1/20038 vedi nota 6.9 Branca - coLoMBo, La ricerca-azione come metodo di empowerment delle comu-

nità locali, cit.10 Ibidem, p. 3.11 M. yunus, Si può fare! Come il business sociale può creare un capitalismo più

umano, Serie Bianca Feltrinelli, 2010.12 V. fLusser, Filosofia del design, Milano, Milano, Bruno Mondadori, 2003.13 M. MenichineLLi, Design for Complexity, Open2pdesign.org_1.114 r. sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2009.15 u. eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964.16 z. BauMan, Modernità liquida, Roma-Bari, Ed. Laterza, 2002 .17 M. Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 9.18 P. ferri, Nativi digitali, Milano, Bruno Mondadori, 2011.19 n. BiLton, Io vivo nel futuro, Torino, Codice, 2011.20 Ibidem.21 M. scLaVi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Milano, Le vespe, 2002.22 B. Poggio, Mi racconti una storia? In mondo narrativo nelle scienze sociali,

Roma, Carocci, p. 50.

50

23 L. PirandeLLo, Uno nessuno e centomila, RCS Corriere della sera, 2003.24 Cfr. in film “The social network”, di David Fincher, 2010.25 Cfr. in un’intervista on line a Derrick de Kerckhove, direttore del Pro-

gramma McLuhan in Cultura e tecnologia e docente presso il Dipartimento di lingua francese all’Università di Toronto.

26 k. keLLy, Quello che vuole la tecnologia, Torino, Codice edizioni, 2011.27 r. ciMa, Tempo di vecchiaia, FrancoAngeli, 2009.28 c. Petrucco - M. de rossi, Narrare con il digital storytelling a scuola e nelle

organizzazioni, Carocci, 2009.29 J. deWey, Democrazia e educazione, Sansoni, 2004.30 Competenze digitali, quarta delle 8 competenze chiave formalizzate dal

Parlamento e il Consiglio europeo nelle Raccomandazioni agli stati membri della Ue il 18 dicembre 2006.

31 Per una definizione di “nativi digitali” vedi nota 18.32 P.c. riVoLteLLa, Media education, Roma, Carocci 2001.33 d. BuckinghaM, Media education. Alfabetizzazione, apprendimento e cultura

contemporanea, Trento, Erickson, 2006.

L’intreccio e la trama: storie della comunicazione intermediale

di Francesco Arleo

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Viviamo in un passaggio chiave nella storia delle tecnolo-gie della comunicazione: quello dai mass media ai social media. È il passaggio dal “telecomando” alla connessione in rete fra per-sone. Il “potere del tele-comando” attribuiva al soggetto fruitore una valenza limitata ed ingannevole circa la capacità di interveni-re nelle scelte, perché l’unica decisione-potere-comando, dello spetta-tore, risiedeva nella possibilità di cambiare canale e quindi offerta di palinsesto, oppure compiere l’azione più drastica: spegnere. Il social networking, la connessione fra persone attraverso le reti In-ternet, rappresenta un passaggio dalla tecnologia dell’informazio-ne alla tecnologia dell’interazione e soprattutto un salto culturale, sociale e antropologico ancora tutto da studiare e comprendere. Così come ben descritto da Vilém Flusser2, ogni rivoluzione della società umana è riconducibile ad un qualche cambiamento negli attrezzi e negli strumenti tecnologici ed è quindi sempre rischio-so sottovalutare l’incidenza di questi ultimi nell’analisi di ogni cambiamento culturale e sociale.

1. Dal telecomando al social networking1

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Ma qual è il vero grande cambiamento fra mass media e social media? A mio avviso si tratta del passaggio dall’informa-zione, come trasferimento codificato o codificabile di messaggi, alla comunicazione, come processo del “communico” 3 ovvero del mettere in comune, del rendere partecipe. Il grande inganno semantico è stato quello di parlare dei mass media come mezzi di comunicazione, ma non ci è mai parso che i mass media si siano occupati del comunicare, ma casomai dell’informare.

I social media, basati su una logica partecipativa attiva e costante, trovano il valore lì dove realmente riescono a mettere in “comune” esperienze, valori e idee basate sulla progettazio-ne di itinerari comunicativi più orizzontali. Naturalmente questo non vuol dire che un social network è migliore di un palinsesto televisivo, ma solo che fra i due ci sono evidenti differenze che generano differenti paradigmi culturali d’uso e abuso.

Il linguaggio, anche in questo caso, ci aiuta a compren-dere i cambiamenti in atto: non si parla più di palinsesti né di emittenti, né di spettatori, né di lettori e di ascoltatori. Il ruolo passivo, quello di semplice ricettore e codificatore di messaggi altrui, viene a diversificarsi proprio con lo sviluppo di strumenti del cosiddetto web 2.0, lì dove, come sottolineato in molta lettera-tura, non si parla più di semplice consumer, ma di prosumer. Con questo termine si collegano fra loro due ruoli diversi: quel-lo del producer di contenuti e quello del consumer di contenuti. In fondo, chi carica sul web un video, è difatti anche un producer di contenuti. Si potrà poi discutere sulla qualità dei contenuti e sul peso culturale, educativo o diseducativo degli stessi.Questi passaggi semantici, per quanto apparentemente superflui, sottolineano un processo costante di trasformazione dei ruoli dei singoli e dei gruppi all’interno dei diversi sistemi di comunicazio-ne. Chi guida queste trasformazioni?

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Qual è il peso delle figure professionali dell’educazione e del sociale all’interno di questi processi? L’educatore sociale come può intervenire in questi processi? Tentiamo qualche pro-posta di analisi, più che fornire risposte preconfezionate.

Nel 1981 l’educatore degli adulti Malcom Knowles4, dopo aver comprato un “Elaboratore Personale” o Personal Com-puter e aver provato a seguire le istruzioni per l’uso, decide di scrivere al presidente della casa produttrice: Stephen Jobs della Apple. Nella lettera Knowles, descrivendo la sua esasperata espe-rienza nel cercare di imparare ad usare quella macchina, invita Stephen Jobs ad assumere un consulente di educazione degli adulti, perché potesse istruire i produttori di software e coloro che scrivevano i manuali delle istruzioni all’uso. Knowles sottolineava che bisogna passare dai sistemi user-friendly a programmi learner-friendly. Knowles racconta che la Apple, dopo qualche tempo da quel suo intervento, uscirà, con un PC molto più learner-friendly (il Macintosh) di quello che lui aveva acquistato (Apple II Plus). Si tratta apparentemente di una storia sottile e marginale, ma che in realtà segna un cammino verso tecnologie e applicazioni che permetteranno sempre a più persone di utilizzare sistemi avanza-ti attraverso modalità semplificate. Il cosiddetto web 2.0 rappresenta, in qualche modo, una continu-ità di questo cammino.

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Con web 2.0 si tende a sottolineare il passaggio ad un web diverso da quello conosciuto fino alla fine degli anni ’90. Nella sua prima fase il web era ancora basato su una logica da palinsesto: i contenuti erano costruiti quasi esclusivamente da esperti e coloro che non conoscevano i linguaggi di program-mazione erano esclusivamente dei “naviganti” e ricercatori di informazioni. Niente di molto diverso, se non per alcune prime bozze anche importanti di innovazione (forum, email) dai media tradizionali. Si trattava, nonostante qualche flusso di interattività uomo-macchina (si poteva navigare attraverso hyperlink), di un sistema d’informazione evoluto. Ad un certo punto, progressiva-mente, cominciano ad emergere applicazioni e strumenti in gra-do di permettere una serie di azioni, anche all’utente meno esper-to di linguaggi informatici e di programmazione.

Tuttavia, sul piano della formazione all’uso delle nuove tecnologie, stiamo ancora scontando una cattiva idea: imparare l’informatica. Ma sappiamo bene che le persone impegnate in professioni educative e sociali non vogliono diventare degli in-formatici, vogliono semplicemente utilizzare le tecnologie per fare meglio il proprio mestiere e magari innovare qualche proces-so. Vogliono imparare dagli altri e con gli altri, magari utilizzando le tecnologie come supporto alla risoluzione di alcuni problemi. Perciò su cosa concentrarsi per formare l’educatore sociale in questa direzione? Ecco alcune implicazioni educative e sociali delle nuove tecnologie che ritengo fondamentali per aprire una proposta formativa in questa direzione.

• Malcom Shepherd Knowles (1913-1997), autore americano e famoso studioso dell’andragogia (educazione degli adulti).

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2. Implicazioni educative e sociali delle nuove tecnologie della comunicazione5

L’ipotesi da cui parto è di natura socio-antropologica e può essere sintetizzata così: la reputazione sociale e l’identità indivi-duale dei singoli e dei gruppi on line avrà sempre più importanza e impatto sull’identità individuale e sulla reputazione sociale reale di ogni individuo e di ogni gruppo umano.

Le implicazioni educative, sociali e psicologiche di que-sta ipotesi non possono essere affrontate pienamente in questo articolo, ma vediamo di comprendere potenzialità e criticità di questo momento storico della comunicazione. Partiamo da alcune indicazioni quali/quantitative che facciano comprendere il contesto entro cui ci muoviamo:• La potenza di sviluppo dei calcolatori raddoppia ogni

14 mesi; R. Kurzweil, promotore insieme a Nasa e Goo-gle, della Singularity University6, ha spiegato questo fenomeno come accelerazione esponenziale dello sviluppo tecnologico. Con questo ritmo entro pochissimi anni, sostiene Kurzweil, sarà possibile costruire sistemi robot complessi “auto-ripro-grammabili” senza intervento umano.

• Lo sviluppo continuo ed esponenziale dei media è in-verso all’aumento della soglia di difficoltà d’uso dei tools tecnologici. Questo significa che ogni persona, così come è comprensibile guardando la potenza della maggior parte delle tecnologie mobili presenti nelle nostre tasche o borse (Mobile Phone), può accedere ad applicazioni e software avanzati senza per questo conoscerne i meccanismi o i lin-guaggi tecnologici sottesi.

• L’abbassamento della soglia di difficoltà d’uso di po-tenti media della comunicazione (si pensi all’integrazio-

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ne ormai comune tra videocamera digitale mobile, presente sul cellulare, e gli strumenti per la pubblicazione immediata online di video) permette già, soprattutto ai cosiddetti “nativi digitali”, di sviluppare, ritoccare mate-riale audio, video, testi e immagini in forme che fino a quattro anni fa era-no accessibili solo ad esperti di editing professionale multimediale.

Questo processo, tanto per non travalicare i confini del nostro discorso, ha almeno due effetti immediati: 1. sviluppo dell’informazione decentralizzata (il cosiddetto citi-

zen journalism)2. manipolazione continua delle informazioni (con conseguen-

ze positive e critiche facilmente ipotizzabili)

Le applicazioni user friendly sono ormai una condizione imprescindibile per le case produttrici di hardware e software. La tecnologia, secondo questo approccio, deve essere immedia-ta, trasparente e immersiva. Deve cioè coinvolgere l’utente in un processo emotivo che travalichi la normale cognizione di doman-de classiche di fronte all’uso di un nuovo strumento.

L’approccio user friendly ha anche altri tre obiettivi che cito brevemente: • abbattere le difficoltà intergenerazionali d’uso dei media (su

questo stanno lavorando i produttori di media entertainment);• estendere l’uso delle tecnologie alle fasce di età più estreme

(soprattutto verso i più piccoli);• permettere una personalizzazione espressiva ed affettiva di

ogni strumento tecnologico utilizzato da parte dell’utente.

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A questo punto vorrei elencare brevemente alcuni feno-meni crescenti sull’uso del web oggi, che ritengo debbano far parte delle nostre considerazioni e di ogni attività incentrata sull’educazione formale e informale sui media e quindi nella for-mazione di educatori sociali di questo tempo. Tali fenomeni sono ancora poco affrontati, se non in modo saltuario, mentre è data molto più importanza a fatti eclatanti presentati, soprattutto dalla televisione e dai giornali (ovvero dai cosiddetti old media).Vediamo quali sono i fenomeni del nuovo web a cui prestare attenzione: • decrescita dell’articolazione linguistica, cognitiva ed emotiva

dei processi comunicativi (ogni atto di cyberbullismo è, in molti casi, riconducibile ad una comunicazione emozionale, cognitiva e linguistica che nella realtà è mancante);

• restrizione dei tempi di analisi dei contenuti e delle connessioni fra le risorse informative trovate sul web o su ogni altro media;

• amplificazione della sensazione di potere sociale esteso al di là dello spazio-tempo della propria vita reale (l’atto di bulli-smo su YouTube è solo l’espressione parziale di un fenome-no ben più complesso e profondo, certamente connesso con questa sensazione sottesa);

• aumento dei casi di identità individuali online violate, con effetti non sempre controllabili anche sulla vita reale;

• aumento delle identità collettive online costruite intorno a simboli e/o valori dal forte dubbio etico-socio-culturale.

A questi fenomeni è necessario aggiungerne altri inerenti il mondo della pubblicità e del marketing. Chiediamoci: come lavorano oggi i produttori di pubblicità? Indico solo alcuni dei lavori attualmente in corso per riuscire a vendere meglio ogni genere di prodotto a partire da una diminu-zione costante delle soglie di criticità e di resistenza dell’utenza (anche del famoso prosumer):

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• applicazione di strategie di marketing virale7 e di metodi per la diffusione di “virus emotivi” per incoraggiare l’acquisto di prodotti e servizi;

• uso di biofeedback8 e di eye-traking9 per la ricerca di tecniche di vendita diretta e indiretta di tipo polisensoriale;

• applicazione di modelli sperimentali di neuroimaging10 appli-cati nella diffusione e nella gestione di lovemarks11 e marketing emozionale12 diffuso.

Insomma il meglio delle neuroscienze al servizio del mar-keting di nuova generazione. Un marketing che trova nel web 2.0 un ottimo terreno di coltivazione. A questo punto dobbiamo porci altri interrogativi su cui riflettere: 1. stiamo davvero imparando ad approfondire le dimensioni dei

media, per capire come aiutarci ad usare, in modo autentico, i nuovi linguaggi della comunicazione?

2. Le spese di formazione ai nuovi media sono proporzionali alle spese di acquisto di nuovi strumenti informatici (hardware e software)?

3. Conosciamo veramente le logiche della comunicazione via web se ci fermiamo all’osservazione del “bullismo mediatico”?

4. Stiamo facendo qualcosa per prepararci ad una comprensio-ne profonda dei media, delle loro integrazioni e dei loro im-patti sulle dimensioni sociali della nostra storia?

5. Conosciamo davvero il modo in cui i giovani e in particolare gli studenti usano i nuovi media nel loro quotidiano (fuori e dentro le aule)?

Quello che in realtà si riesce ad osservare è questo: la maggior parte delle persone attualmente occupata in mestieri educativi, formativi e sociali ha una consapevolezza molto ridot-ta delle risorse scientifiche, professionali e culturali offerte dai nuovi media e in particolare dal web, ma anche una bassa capaci-

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tà di riconoscere e determinare i rischi connessi ad alcune innovazioni in cor-so nel mondo delle tecnologie.

Ciò significa che conosciamo molto poco della rivoluzione cultura-le, sociale e antropologica che stiamo abitando. Per iniziare ad analizzare le possibili evoluzioni di questi cambia-menti abbiamo bisogno di costruire itinerari formativi e percorsi educativi, formali ed informali, che abbiamo al centro i media, quali ambienti entro cui accadono processi emotivi, relazionali e cognitivi molto più complessi di quelli che attualmente percepiamo. Tali percorsi sono ancora più urgenti di quanto riusciamo ad im-maginare e le formule della didattica tradizionale, o l’osservazio-ne dall’esterno dei fenomeni, non ci aiuteranno di certo a far fronte ai cambiamenti accelerati in atto. È necessario entrare nei linguaggi, nelle relazioni oggettuali, so-ciali e narrative proposte dalle tecnologie dalle comunicazioni, al fine di orientarci verso nuove forme di apprendimento significa-tivo espresse anche attraverso i nuovi media. Tutto questo lavoro non può venire fuori dalle scienze informatiche, ma dalle scien-ze dell’educazione al cui centro rimangono i processi sociali e non le sole innovazioni tecnologiche. Su questa base ritengo che l’educatore sociale sia riconoscibile anche come un social designer nel senso di colui che può definire e costruire nuove architetture della comunicazione basate su processi relazionali educativi, etici e autentici e al di là ogni mitologia tecno-culturale in atto.

• Raymond Kurzweil (1948), inventore, futurologo e teorico della singo-larità tecnologica.

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3. Cosa significa progettare: il design come responsabilità etica locale e globale13

Dobbiamo “trovare un modo per avvicinarci a una soluzione dei problemi etici in fase di progettazione (design)” (Flusser, 2003). Quanto risulta vera l’affermazione di Vilém Flusser ogni volta che ci accorgiamo che i progetti di oggetti, beni e servizi hanno un impatto disastroso sul nostro eco-socio-sistema?

Ogni rivoluzione della società umana, spiega Flusser, è una rivoluzione di strumenti e quindi una rivoluzione della tec-nica. Nella storia delle innovazioni e delle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche c’è una stata spropositata disattenzione verso le conseguenze immediate e non immediate dei progetti. Una macchina, una casa, una sedia, un cellulare… non sono solo oggetti di design, ma costituiscono intenzioni etiche con conse-guenze su orizzonti più ampi di quelli oggettuali e di usabilità. Le conseguenze di una progettazione guidata da intenzionalità esclusivamente strumentali sono continuamente sotto i nostri occhi. Conseguenze che coinvolgono l’intero ciclo di vita di un prodotto, di un bene (ma anche di un servizio) progettato e che forse vanno molto al di là di una possibile Life Cycle Analysis. Ma stiamo entrando in una fase nuova e più consapevole di que-sto ciclo?

Ci sono lavori di ricerca e sviluppo, come GoodGuide14, che ci permettono di aumentare, anche come cittadini, la sensibi-lità sull’impatto di ogni nostra azione di consumo. Dal problema dello smaltimento di rifiuti, alla gestione di beni architettonici e dei territori il punto è quello di affrontare ogni processo di “design” come flusso di intenzionalità etiche. Il grado di consapevolezza delle intenzionalità influenza in modo diretto le conseguenze di ciascuno dei nostri progetti.

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È ormai dimostrato dai fatti: ogni qualvolta i processi di design non prevedono una condivisione con le persone e le comunità (locali e globali) i risultati di questi progetti producono oggetti, prodotti e servizi con orizzonti limitati oppure con con-seguenze pericolose e illimitate.

Ascoltando Edgar Morin (Edgar, 1999) dovremmo poter dire che ogni designer, in qualsiasi contesto egli agisca, dovrebbe essere in grado di “contestualizzare e globalizzare” ogni progetto e cioè riconoscere una “intersolidarietà complessa dei problemi”.

Tuttavia, nel cammino della nostra “buona educazione”, nemmeno un’ora di lezione è spesa per illustrare e per spiegare il processo di design e la sua implicazione etica nella produzione di un qualsiasi oggetto, bene o servizio. Per quanto mi riguarda ricordo di aver appreso la lezione dell’intenzionalità del progetto e del design etico non sui banchi di scuola, ma dalla costruzione di un bastone da pastore di mio nonno materno.

Avevo circa 7 anni e la lezione, tradotta in soldoni, fu più o meno questa:ogni volta che vuoi utilizzare del legno per fare un oggetto hai l’obbligo di prendere il tuo legno da un’attività che porta beneficio alla pianta da cui attingi la tua risorsa. Per esempio: nella potatura stagionale dell’ulivo puoi beneficiare di molto legno e apportare contemporaneamente benefici alla pianta, nel breve e nel lungo periodo. La potatura, in realtà, è l’atto intenzionale ed etico che appartiene al processo di design dell’oggetto “il bastone”. Potremmo addirittura dire che l’oggetto è sostanzialmente pro-gettabile solo quando rientra in una catena di valore che parte dal design di un progetto etico. Purtroppo la morale di questa mia esperienza è davvero troppo semplice: l’apprendimento delle competenze di etica della progettazione (quindi del design come

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processo consapevole) dovrebbe coincidere con l’infanzia e do-vrebbe accadere attraverso esempi concreti ed esperibili ad ogni passo; ma, così come rappresentato nella figura sottostante, lo sviluppo di queste competenze è, almeno nelle società occiden-tali, troppo spostato verso l’età adulta.

Impariamo a progettare con intenzionalità, se lo imparia-mo, solo quando entriamo nella sfera delle comunità di compe-tenze e quindi del lavoro; e anche quando impariamo a farlo non è affatto detto che la nostra consapevolezza sulle intenzioni sia sviluppata correttamente.

Naturalmente non bisogna dimenticare che queste com-petenze si riferiscono non solo alla progettazione di oggetti e mate-riali, ma anche a quella di prodotti e servizi immateriali/”virtuali”. Quando si pensa, per esempio, alla progettazione di social software (fra i più comuni: Facebook, Twitter, Linkedin, YouTube, Flickr) l’oggetto e le attività d’interazione fra le persone (Interaction and User Experience Design) rientrano in quello che abbiamo chiamato

Le competenze di design nei processi di conoscenza

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design etico come processo di sviluppo basato sulla consapevo-lezza delle conseguenze di progettazione. Nel caso dei social software potremmo, così come suggerisce Jo-shua Porter in “Designing for the social web” (2008), descrivere il metodo di design come basato su 3 assi: Activity, Objects, Features (AOF Method).

Diventare consapevoli di questo metodo e di altri che sottendono la progettazione di ambienti di comunicazione on line, ci permetterebbe di comprendere in profondità gli attrezzi della tanto discussa rivoluzione culturale in corso superando una certa generalizzazione di giudizi, critiche e analisi.

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4. L’intreccio e la trama: storie della comunicazione intermediale15

Sono le 13:05 del 18 ottobre 1934 e in radio, annunciata da uno squillo di tromba, va in onda la trasmissione radiofonica “I quattro moschettieri” di Nizza-Morbelli. Il programma pone le origini alle riviste radiofoniche basate sulla parodia. I due autori, Angelo Nizza e Riccardo Morbelli, prendono le mosse dal famoso romanzo di Alexandre Dumas “I tre moschet-tieri”, per farne una storia ricca di paradossi e ironiche ambiguità.

Mettete insieme un libro illustrato su “I quattro moschet-tieri”, una omonima trasmissione radiofonica della EIAR (oggi RAI) e un concorso a premi basato su figurine e ottenete il pri-mo milione di ascoltatori abbonati alle cosiddette radioaudizioni. Era il 1935 quando Angelo Nizza e Riccardo Morbelli davano vita ad un volume illustrato da Angelo Bioletto legato ai prodotti Perugina-Buitoni e alla fortunata trasmissione radiofonica. “I quattro moschettieri”, nella versione radiofonica, vanno in onda dal ’34 al ’38 in ben quattro edizioni. Il programma era originariamente pensato per i ragazzi, ma il successo di pubblico saltò il target generazionale previsto. Il successo fu tale che la Federazione Gioco Calcio, poiché il pro-gramma venne portato alle tredici della domenica, si vide costret-ta a spostare di mezz’ora l’inizio delle partite per non perdere il suo pubblico. Il primo milione di abbonati venne festeggiato al Teatro Adriano di Roma con la conduzione del famoso Nunzio Filogamo16. La sceneggiatura della radiotrasmissione finì, come accennato, in un volume illustrato dal vignettista umoristico Angelo Bioletto, ma per arrivare a quel volume bisogna ricordare che il successo di questa storia è legato alle figure illustrate dei personaggi.

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Lo stesso vignettista, che si definirà sempre un “disegna-tore cronista”, nel 1938, sempre sull’onda del successo della tra-smissione radiofonica, disegna per un concorso premi di Perugi-na Buitoni le famose figurine di quella storia.

Sul piano della comunicazione e della pubblicità accado-no due cose importantissime: inizia la storia della comunicazione “intermediale” dei prodotti e dei servizi e nasce il gadget pubblici-tario. Ma per comprendere fino in fondo questi passaggi bisogna fare molti passi indietro.

L’arte d’intrecciare finemente materiali naturali a mani nude ha rappresentato e rappresenta, in molti popoli senza scrit-tura, così come suggerito da Lévi-Strauss17, un veicolo fonda-mentale dei miti e una connessione fra natura e cultura. Si tratta della cosiddetta “arte del paniere”.

Nello svolgimento di quell’arte, che fra infanzia e adole-scenza ho potuto personalmente osservare, l’anziano impagliato-re poteva contemporaneamente narrare un fatto, una storia, un evento. La narrazione orale, proprio perché l’anziano era quasi sempre analfabeta, seguiva una traiettoria per così dire manuale. Ad ogni giro di vimini, ad esempio, accadevano passaggi narrativi fondamentali. Quello che gli scrittori chiamano metaforicamente “intreccio narrativo” lì era un fatto tangibile e visibile.

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La fine della trama del paniere corrispondeva esattamen-te alla conclusione della storia narrata. Si trattava di una trama che poteva durare per giorni e sostenere l’attesa di un ascolto finale oltre il previsto. Bisognava avere pazienza. Quella intimità fra manipolazione del materiale naturale e nar-razione era talmente forte che da grande ho potuto insegnare a quell’anziano, esperto di panieri e racconti orali, a digitare un numero di telefono, per chiamare i suoi figli all’altro capo del mondo, solo utilizzando un filo di spago che segnava il tracciato da seguire sulla tastiera numerica per comporre il numero di te-lefono.

Che cosa ho imparato in quel frangente senza carta? Alcune cose fra cui queste: nella narrazione orale il controllo dell’epos è più importante del telos18; la narrazione orale è conna-turata alla natura umana quale fonte primaria per la condivisione e la trasmissione dei valori sociali; narratore e ascoltatore hanno due tempi convergenti e connessi; la narrazione è una modalità di comunicazione per immagini intimamente connessa con uno spazio-tempo antropologico determinato.

Il passaggio dall’oralità alla scrittura è stato ampiamente descritto in moltissimi lavori e sotto profili disciplinari diversi fra loro che qui non è il caso di riprendere. In questo breve tracciato ci basta sapere che rispetto alla tradizione orale con la scrittura s’innescano una serie di conseguenze in ordine alla comunicazio-ne: la narrazione scritta prevede che scrittore e lettore esercitino due tipi di controlli diversi fra loro del tempo; narratore e lettore non hanno quasi mai uno spazio e un tempo comuni; la narrazio-ne scritta necessita di diversi media per essere esercitata (segno, simbolo, inchiostro, carta ecc. ); la narrazione scritta è una moda-lità di comunicazione indiretta; il rapporto fra immagini narrate e simbolo alfabetico richiedono spazi di interpretazione più lunghi

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di quelli previsti nella narrazione orale; la narrazione scritta pre-vede sempre e comunque un’ermeneutica del testo a prescindere dalla semplicità della storia narrata. Potremmo continuare questa lista delle differenze per parecchie pagine, ma gli elementi enun-ciati possono bastare per affrontare il nostro discorso. Per molti secoli, nonostante i continui annunci della “morte del libro” nelle culture alfabetizzate, si è potuto assistere ad una oscillazione continua fra oralità e scrittura, ma con l’av-vento di alcuni media, in prima istanza la radio, la narrazione ora-le ha potuto riconquistare un proprio ruolo fondamentale nella comunicazione. Non è un caso che i grandi totalitarismi europei del Novecento hanno potuto controllare meglio tempo e spazio attraverso l’esercizio della propaganda radiofonica e quindi orale.Da quel momento in poi la scrittura, al di là dei testi pubblicati, ha supportato i media dell’oralità (radio, cinema, teatro e tv) e viceversa è stata influenzata da questi media. Negli anni ’60 del Novecento il ritmo d’influenza fra narrazione orale e scritta fa emergere alcune sperimentazioni cinematogra-fiche ed elettroniche che per loro natura sono descrivibili come intermediali, ovvero come costituiti da un intreccio di linguaggi e simboli assai più complessi e non più ascrivibili entro gli stessi termini di oralità e scrittura.

L’intermedialità diventa, a partire da quegli anni, un modo imprescindibile di sviluppare comunicazione. Volendo individuare uno fra i tanti possibili prodotti di comunicazione intermediale legato a quel periodo sceglierei il lavoro di Jean-Luc Gòdard “Due o tre cose che so di lei”. Si tratta un film del 1965 in cui il regista, che vorrebbe essere innanzitutto uno scrittore, descrive alcune pagine di una città europea contemporanea come Parigi e al suo interno la storia di una persona che si prostituisce per comprare prodotti di marca e beni per così dire alla moda.

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Il film, al di là della trama, è un corpo d’intrecci in cui vengono utilizzati testi scritti, passaggi narrati da una voce fuori campo e scollati dalle immagini, prosa poetica e fotogrammi in fermo immagine. Lungo il film sono mostrati una serie di confe-zioni di prodotti di consumo. Anche qui, al di là del dato di de-nuncia circa l’avvio della cosiddetta società dei consumi, è neces-sario osservare come questa denuncia per essere affrontata deve essere costruita su piani di comunicazione assai diversi fra loro. In fondo questo lavoro di Gòdard è un testo non scritto, espres-so attraverso l’oralità e mediato dall’immagine in movimento e dalla grafica statica.

Anche al di là del mezzo cinematografico utilizzato il la-voro presenta attori che sono personaggi, ma che si racconta-no anche come persone reali. Anche in questo caso si tratta di una intermedialità estrema dei simboli utilizzati e dei significati espressi: Gòdard impregna il suo prodotto di cinema, televisio-ne, documentario, libro, radio, giornale e pubblicità. Alla fine dei conti ne sembra emergere un mosaico definito e coerente, i cui singoli pezzi però potrebbero ricomporsi in molte altre forme e immagini. La comunicazione intermediale prevede la sopravvi-venza non forzata di diversi linguaggi attraverso diversi media e diversi significati. L’ipertesto, così come lo conosciamo attraver-so il web non era ancora nato, ma nello stesso periodo storico era proprio sulla rottura del testo come accadimento sequenziale e lineare del senso che si concentrava il lavoro di studiosi e critici.

L’incremento esponenziale dell’innovazione tecnologica non rispecchia mai la reale maturazione culturale dei suoi usi o abusi, individuali e sociali. L’innovazione segue processi assai autonomi rispetto alle moda-lità con cui la maggior parte delle persone diventano coscienti dell’innovazione e dei suoi cammini.

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La pratica del moderno, sottolineava Giddens19, è quella di attribuire relazioni di fiducia nei sistemi astratti e disaggregati; in questi sistemi Giddens includeva innanzitutto la tecnologia. Il cammino di molte pratiche innovative, fra cui sottolineo quel-lo dell’interaction design, determinano la possibilità, in questo mo-mento, di creare quella che viene definita come Augmented Reality (AR)20. Si tratta, in estrema sintesi, dello sviluppo di ambienti reali incrementati di dati, simboli e segni connettivi e interattivi. Reale e virtuale, in questo caso, non sono più ambienti di os-servazione e interazione separati. L’ipertesto, come formula di scrittura e lettura non lineare, esce dal suo seminato, quello della comunicazione digitale, e invade il reale.

Con la AR si determina una comunicazione intermediale continua fra reale e virtuale. Tuttavia, nonostante il processo di queste innovazioni sia mol-to avanzato, normalmente facciamo ancora molta fatica persino con il normale ipertesto che ha oramai una sua tradizione. L’ipertesto globale, il world wide web, soprattutto nella sua più ac-cellerata evoluzione, il cosiddetto web 2.0, estremizza l’ipotesi di un rimando continuo d’informazio-ne. L’ipertesto informativo di-venta, in molti casi, un surrogato dell’informazione rendendo, più povero e non più ricco perfino il testo. Persino fra i guru del web 2.0, come ad esempio Jaron Lanier21, si sottolinea un impoverimento dei contenuti della comunicazione.

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Potremmo, in questo senso, dire che siamo passati dall’ipertesto all’AR, ma non siamo ancora in grado di formulare della mappe mentali e cognitive che orientino i nostri processi di conoscenza. I più ottimisti dicono che dovremmo abbandonarci all’onda della “serendipità”, ovvero scoprire ciò che non cerca-vamo o non pensavamo di cercare. Il web 2.0 si presenta così come ponte fra ipertesto classico e AR, un ponte in cui possibilità e pericoli convivono e in cui solo la ricerca e l’approfondimento culturale, pratico e teorico, possono sostenere una reale cogni-zione delle innovazione delle evoluzioni in atto.

La comunicazione intermediale è profondamente diver-sa da quella multimediale. Nella comunicazione multimediale, di cui siamo ancora portatori sani, ci siamo concentrati sui media e sulle loro dinamiche interne. Abbiamo pensato che la sovrap-posizione di più mezzi, multimedia appunto, potesse garantire di per sé una continuità dei linguaggi, ma la realtà è ben diversa. Ci siamo fidati della multimedialità come di un processo natura-le, ma in realtà abbiamo dato solo più fiducia ai media e ancora poco abbiamo indagato i linguaggi sottesi a quei media. Siamo così dentro l’innovazione, ma non coscienti delle dinamiche in-termediali nei processi di comunicazione. L’AR è solo l’ennesima prova che i processi trasformativi e innovativi innescati dai media non segue affatto la capacità, da parte dei più, di interpretare cul-turalmente i passaggi e le trasformazioni in atto.

• Claude Lévi-Strauss (1908-2009), filosofo, psicologo e padre della moderna antropologia, autore del celebre Il pensiero selvaggio (1962)

• Anthony Giddens (1938), politologo, fra i più influenti critici della sociologia contemporanea, è autore dell’importante studio Nuove regole del metodo sociologico (1976)

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5. Singolarità collettive: tecnologie della conoscenza e della comunicazione

La prima chiave, per entrare e capire cos’è la “singolarità tecnologica”, è rintracciabile nello slogan del Singularity Institute for Artificial Intelligence che recita: advance innovation, advance humani-ty23. Si tratta di un messaggio che ha dietro una serie di obiettivi tacciabili, in prima istanza, come eclettiche futurologie, apparen-temente lontane ma che vanno, invece, valutate alla luce di quan-to asseriscono i ricercatori che operano intorno a questi obiettivi:

“Human intelligence is the foundation of human technology; all technology is ultimately the product of intelligence. If technology can turn around and enhance intelligence, this closes the loop, creating a positive fee-dback effect. Smarter minds will be more effective at building still smarter minds. This loop appears most clearly in the example of an Artificial Intel-ligence improving its own source code, but it would also arise, albeit initially on a slower timescale, from humans with direct brain-computer interfaces creating the next generation of brain-computer interfaces, or biologically au-gmented humans working on an Artificial Intelligence project”.

Primo obiettivo delle ricerche sulla singolarità, tra l’altro uno dei meno eclatanti, è quello di dimostrare la possibilità di progettare tecnologie in grado di esercitare attività di auto-pro-grammazione e ri-programmazione. La “macchina” interviene sul proprio codice sorgente, in altre parole sulle sue istruzioni funzionali, senza ricorrere all’intervento uma-no. Osservata, anche solo da questo punto di vista e senza adden-trarci nei suoi obiettivi più seducenti e critici, la portata umana, etica e tecnologica delle applicazioni è senza dubbio meritevole di approfondimenti; per farlo dobbiamo compiere un pezzo di strada insieme a Raymond Kurzweil, ricercatore, inventore e co-municatore delle ricerche sulla singolarità.

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A 17 anni Raymond Kurzweil esegue un pezzo melodico per pianoforte su un computer auto-costruito, il tutto davanti a una delle più grandi emittenti televisive americane. L’attenzione e la ricerca nel campo dei sintonizzatori vocali e ricognitori otti-ci lo portano, nel 1968, all’invenzione del Select College Consulting Program, uno dei primi programmi per computer finalizzati ad attività di valutazione didattica organizzata. Da quel momento le invenzioni di Kurzweil, insignito del premio Lemelson del Massachusetts Institute of Technology (MIT) per l’inven-zione e l’innovazione, sono esplose su vari campi applicativi, non ultimo l’invenzione di K-NFB24, uno speciale dispositivo por-tabile per non vedenti che integra lettura ottica ed elaborazione sonora ed è funzionale ad un ascolto sincronico e immediato di testi scritti e visualizzati. Al centro dei sentieri tracciati da Kurzweil, vi è la convinzione, più volte espressa nei suoi testi e nei suoi interventi pubblici, di poter applicare la Legge di Moore, circa l’andamento esponen-ziale della crescita della complessità dei circuiti integrati a se-

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miconduttore25, ad altre tecnologie molto precedenti ai circuiti integrati stessi ed estendendola a quelle del futuro. Da qui, e con effetti non solo tecnologici, la possibilità di progettare macchine e ambienti auto-programmabili, ma anche ipotizzare un supera-mento, tra meno di trent’anni, della Artificial Intelligence sulla Human Intelligence.

Il 23 ottobre 2007, al Word Business Forum di Milano, Raymond Kurzweil interviene come relatore e dal pubblico, dopo il suo intervento, qualcuno gli chiede: ci dica qualcosa del “profile of workforce” ideale per affrontare questo futuro. Chi dobbiamo assumere? La sua risposta è stata semplice, ma intrisa di significati che oltre-passano la stessa futurologia tecnologica: servono sempre più efficaci tools di collaborazione.

In questo spazio non rischieremo un’analisi esteriore del-le idee sulla singolarità, pur evidenziando la loro bassa risonan-za tra le accademie umanistiche del nostro paese26 è opportuno rilevare alcune implicazioni che queste stesse idee hanno nelle scienze dell’educazione e della comunicazione.

Partiamo dalla risposta di Kurzweil. È significativo che il guru della singolarità tecnologica evidenzi la probabilità che, per ri-spondere meglio alle necessità future del mondo del lavoro, siano indispensabili degli adeguati strumenti per la condivisione e la collaborazione. Non è solo un fatto di paradossi linguistici: sin-golarità/collettività, singolarità/collaborativa. La singolarità propone una tecnologia indipendente dalle infor-mazioni umane. La macchina collaborerà con sé stessa. Ma non è forse per questa sua indipendenza e singolarità di auto-programmazione che alle persone e alle organizzazioni del lavoro e della conoscenza verrà chiesto sempre più il massimo dell’inter-dipendenza e della collaborazione?

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Se questo è vero, basterà avere a disposizione tools collabo-rativi avanzati per realizzare una risposta efficace alle esigenze del prossimo futuro? Non serviranno competenze inedite in grado rispondere alla complessità reale dei processi della conoscenza e del lavoro? Anche se rivolte a un ipotetico futuro queste doman-de si ribaltano sulla strada del nostro presente.

Uno dei tratti significativi dell’odierna economia della co-noscenza, infatti, è da un lato la convergenza dei media e l’avan-zamento costante dei paradigmi integrati della comunicazione, dall’altro l’aumento esponenziale del valore della condivisione delle informazioni all’interno dei diversi processi organizzativi. È utile ricordare, onde evitare il comodo ritornello “più condi-visione, più media, più ricchezza”, lo iato ancora troppo ampio tra processi organizzativi aziendali e comunicativi complessi e organizzazioni della conoscenza.

All’interno delle scienze dell’educazione e della forma-zione è ormai pletorico e scontato sentir parlare e leggere di apprendimento collaborativo o condivisione della conoscenza. Eppure, nonostante questa ridondanza scenica dell’argomento, difficilmente, nelle diverse realtà educative, si osservano progetti che valorizzano realmente questo approccio. Sappiamo, attraver-so la mole infinita di pubblicazioni sull’argomento, che le basi teoriche dell’approccio collaborativo risiedono nelle teorie del costruttivismo. Dove per apprendimento s’intende, così come descritto da Piaget, una conoscenza costruita attivamente da chi apprende e non passivamente ricevuta dall’ambiente. Si sottolinea, inoltre, come il costruttivismo, nelle sue diverse forme, abbia sostanzialmente modificato l’idea di trasferimen-to della conoscenza, identificando nella negoziazione sociale continua una delle caratteristiche fondamentali e imprescindibili dell’apprendimento.

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Tale negoziazione mette in rilievo l’ambiente di apprendi-mento27 rispetto all’istruzione, come sequenza preordinabile, spo-stando l’attenzione sulle interazioni e sui dispositivi che possono attivare e favorire il processo di apprendimento. L’ambiente stesso, in questo senso, dovrebbe configurarsi come luogo aperto e mobile, dove le impalcature didattiche e tecnolo-giche possano favorire processi di studio e lavoro più aderenti alle esigenze delle organizzazioni sociali e del lavoro. Tuttavia, nonostante la sovrabbondante concentrazione d’inte-resse sui processi collaborativi e sulla condivisione della cono-scenza, l’uso didattico delle tecnologie è ancora legato all’idea di nastri trasportatori della conoscenza, più che all’idea di mediatori cognitivi o cognitive tools.

David H. Jonassen28, in molti suoi studi, rileva una mag-giore criticità nel processo di pensie-ro e di apprendimento se si fa un uso corretto delle tecnologie. I media possono essere utilizzati come amplificatori cognitivi o come catalizzatori chiusi di processi. L’ingenuo credo che le tecnologie facilitino il processo di conoscenza è un assunto che muove solo la pol-vere sulla superficie di un più vasto campo di indagine tuttora aperto. Si potrebbe affermare che, all’inte-grazione e alla convergenza continua dei mezzi della conoscenza e della comunicazione, non corrisponda-no ancora strategie di progettazione educativa, finalizzate alla costruzione di conoscenze basate sulla ricerca e i cui obiet-

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tivi siano raggiungibili e perseguibili attraverso l’interazione dei singoli in un gruppo o in più gruppi di lavoro. La discontinuità tra processi di apprendimento individuale, collettivo e organizzativo, perpetuata attraverso resistenze più o meno tacite delle istituzioni educati-ve, soprattutto delle accademie, non facilita di certo il rapporto dei giovani con il mondo del lavoro e le esigenze delle moderne organizzazioni. Così la learning organization tende a corrispondere all’organizzazione tout court essendo ogni impresa, difatti, obbli-gata al lavoro sulla mutualità delle conoscenze, alla condivisione delle informazioni, alla collaborazione interna ed esterna, pena l’implosione su se stessa. Questa tendenza sembra ancora più visibile nei palinsesti classici dei media (tv, stampa, radio), co-stretti, finalmente, a confrontarsi con i contenuti provenienti dai suoi ex-spettatori. Non è più una novità, infatti, che questi me-dia siano interessati ad assorbire e a veicolare, attraverso i propri canali, i contenuti prodotti dai suoi telespettatori, dai suoi lettori o dai suoi ascoltatori29. Ma anche questa storia è da iscriversi all’interno di un utilizzo possibile di strumenti collaborativi inte-grati, confermando come connettività e singolarità rappresentino un binomio essenziale su cui le scienze umane devono ancora lavorare.Tuttavia, per capire la portata di questo binomio, bisogna scen-dere nei luoghi informali dell’apprendimento, dove le tecnologie della comunicazione seminano e raccolgono i loro risultati più promettenti, ma anche i loro frutti più pericolosi.

Non è da escludere che tra i migliori luoghi di osservazio-ne e analisi dei meccanismi e degli effetti sociali di alcuni media, soprattutto di quelli cosiddetti portabili30, sulle nuove generazio-ni, vi siano i mezzi di trasporto tradizionalmente intesi. Per un frequentatore assiduo di treni locali, infatti, non è difficile imbattersi in microgruppi di giovani che, pur avviando un dialo-go, interrompano frequentemente la loro conversazione (reale) a fronte di un SMS o un MMS in arrivo, oppure con lo scambio di

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un auricolare dell’iPod. A complicare le cose, anche per l’osserva-tore-viaggiatore più attento, c’è l’integrazione, quasi trasparente, di ultima generazione, l’iPhone. Chiunque voglia analizzare con profondità antropologica il dialogo di questo gruppo di giovani, in viaggio, dovrà tener nota delle forti indicazioni prossemiche dei movimenti in quello spazio sociale e dell’influenza degli strumen-ti di comunicazione a distanza nella conversazione faccia a faccia. Lo spazio antropologico è “un sistema di prossimità (spazio) proprio del mondo umano (antropologico) e dunque dipendente dalle tecniche”31. In quello spazio di conversazione reale, dove per conversazione intendiamo “un fenomeno di comunicazione a più canali che implica segni verbali e non verbali in un rapporto altamente strutturato”32, assistiamo alla complicazione del repertorio comunicativo e a un’esplosione della meta comunicazione attraverso una prossemica degli oggetti.Sarebbe però illusoriamente facile rimuovere queste complicazio-ni comunicative descrivendole entro parcellizzate specializzazio-ni scientifiche. Si entra, al contrario, in un secondo o terzo tempo della comunicazione, simile all’onda esperienziale che Bergson utilizza per creare la premessa alla conoscenza cinematografica dell’uomo moderno. Oggi, quell’onda, implica ancora “virtualità […] cui non sono […] applicabili né la categoria dell’unità né quella della molteplicità”. Quali sono, infatti, gli oggetti della comunicazione per quei gio-vani osservati nella loro conversazione reale, sul nostro ipotetico treno locale? Sono davvero solo strumenti o anche oggetti e sim-boli su cui ruota la comunicazione tout court e i suoi significati?

È ingannevole, per chi cerchi di approssimare un’analisi di questi spazi antropologici, lanciare il dado dell’osservazione sulle metafore di plasticità, frammentarietà e complessità, pur scientificamente valide, così come proposte da molti esperti del sociale. Si ha l’impressione che la pratica dell’osservazione stessa necessiti di linguaggi inediti.

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Quello stesso spazio, da contenitore di prossimità reali, sembra trasformarsi in attualizzazione di possibilità virtuali. Gli stessi emblemi architettonici del dentro e fuori devono fare i conti con il concetto di connessione e disconnessione continua. È incalzante, in tal senso, la necessità di comprendere questi spa-zi sociali virtualizzati; non è compito da abbandonare fuori dalle porte delle scienze umane e ancor più di quelle discipline che indagano fenomeni, archetipi e paradigmi dell’educazione e della comunicazione.

Sulla traccia di ordinarie indagini da treno locale, nessuna di queste scienze potrà non occupare parte del proprio tempo nella comprensione degli spazi immersivi proposti dalla Virtual Reality33; spazi che trovano origine già in questa forma di conver-sazione reale che si scompone e ricompone sotto forma di flussi comunicativi a più dimensioni.

Forse, ma non è ancora avvalorata da nessuno studio, questa presenza e sincrona non-presenza nella conver-sazione reale, è intimamente funzio-nale ad un primo e più naturale adat-tamento ai processi cognitivi schiusi con le tecnologie del virtuale. Claude Cadoz34 ci aiuta nella com-prensione della relazione tra stru-menti della comunicazione del quo-tidiano e tecnologie del virtuale, con uno dei primi libri divulgativi tradotti nel nostro paese, sul tema delle realtà virtuali. Era il 1994 e così si esprime-va l’autore francese, impegnato nella ricerca informatica applicata:

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“Prefigurata dalla telefonia, dalla radiofonia e dalla televisione, la telepre-senza può essere definita come la loro generalizzazione. Essa mette in gioco la trasmissione spaziale di tutti i fenomeni nel nostro campo sensibile; si ap-poggia sulla loro trasformazione, mediante appropriati trasduttori, in quella forma che noi abbiamo qualificato ‘cardine’ (il segnale, digitale o meno) e sul suo trasporto per mezzo di fili o di onde radio”.

Mentre Cadoz ha spiegato perfettamente il nesso stru-mentale tra le tecnologie e il loro fine interattivo e rappresenta-tivo, rimane ancora da comprendere quello che Roger Silversto-ne35 ha definito come l’arroganza del creativo nei diversi media, cioè la volontà utopica e percettibilmente vicina della trasparenza, dell’immediatezza e della genuinità della simulazione, sulla quale si basa il vero grande propulsore dell’industria della comunica-zione: la novità continua e la sua inevitabile obsolescenza. Da questo punto in poi si apre un ulteriore campo d’indagine, tuttora marginale, nei diversi studi delle scienze dell’educazione e della comunicazione, ossia l’analisi di quella che Sherry Turkle36 ha definito con queste parole:“E’ vero che la simulazione permette di pensare in maniera attiva rispetto a fenomeni complessi, quali i sistemi dina-mici in evoluzione. Ma è anche vero che essa abitua le persone a manipolare sistemi di cui possono non comprendere l’essenza e che possono essere “veri” così come non esserlo. La simulazione ci consente di rinunciare, affidandoci ad essa, alla necessità di un controllo sui processi, ma questo ci induce ad accettare l’opacità del modello”.

Si aggiunga, a questa opacità, una volontà di connessione ininterrotta. È sempre più difficile assentarsi dalla comunicazio-ne e si è sempre presenti alla contemporanea intrusione d’infor-mazioni altre rispetto alla conversazione reale. Si realizza, quella che Antony Giddens37 definisce come disaggre-gazione ovvero l’enuclearsi dei rapporti sociali dai contesti locali di intera-zione e il loro ristrutturarsi attraverso archi temporali di tempo indefiniti.

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Ma non vi sono solo problemi aperti e collegati alla si-mulazione virtuale o alla frammentarietà del reale, ci sono anche punti di debolezza etica che toccano l’essenza stessa dei mezzi di comunicazione. È impossibile soffermarsi in questo articolo sulle problematiche ecologiche generate dai diversi media, ma per darne cenno ricor-diamo, ad esempio, la discussione sull’uso di additivi tossici nelle diverse componenti del rivoluzionario iPhone38. Discussioni che, in ultima analisi, mostrano come al sensazio-nalismo creativo dei new media, corrisponda un nascondimento di incidenti e un’opacità controllata delle azioni39. Si inseriscono in queste dimensioni etiche, oltre alle preoccupa-zioni ecologiche, alcune emergenti problematiche del comunica-re nelle giovani generazioni.

La correlazione tra tecnologie della comunicazione avan-zata, connessione permanente e conversazioni disaggregate non è certo causa prima e sola di queste problematiche o memorie di assenze, come recitava il sottotitolo di un libro sul disagio giova-nile scritto da Paolo Crepet40. Nella prefazione, a questo lavoro, lo psichiatra e sociologo torinese descriveva infatti un paradosso essenziale cui non possiamo sottrarre la nostra attenzione: “[…] Mai come oggi godiamo di un’incredibile abbondanza di strumenti per comu-nicare, eppure manchiamo dell’essenziale per dire e sentire”. Così, muniti di qualche strumento narrativo in più per l’analisi della realtà, anche l’esperienza di quei giovani in conversazione, su un treno locale, mostra qualcosa ancora da esplorare circa le in-fluenze dei media nel nostro vissuto quotidiano. Forse cadrebbe in questa esplorazione anche l’approfondimento di alcuni tentativi estremi che molti giovani fanno per bloccare il loro stesso futuro, in un paradosso bulimico tra una comuni-cazione tecnologica incessante e risposte psichiche, estetiche e sociali comunicate attraverso il proprio corpo41.

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Con le tecnologie della comunicazione di nuova gene-razione e con la loro fondamen-tale integrazione trasparente agli spazi del vivere, viene ad orga-nizzarsi una nuova estetica e una nuova etica dei rapporti umani. Chi, come il gruppo dei ragazzi in viaggio, incontrati nel nostro ipotetico treno locale, chatta e si muove in ambienti 3D42, sviluppa e approda ad una relazionalità reale i cui linguaggi, verbali e non verbali, risultano influenzati da dinamiche percettive ancora poco studiate.

Nell’introduzione a Gli strumenti del comunicare, libro più che analizzato in molti campi della conoscenza, Marshall McLuhan scrive: “Dopo tremila anni di espansione in ogni settore e di crescente alienazione specializzata, nelle innumerevoli estensioni del corpo umano, il nostro mondo, con drammatico rovesciamento di prospettive, si è ora improvvisamente contratto. L’elettricità ha ridotto il globo a poco più che un villaggio e riunendo con repentina implosione tutte le funzioni sociali e politiche, ha intensificato in misura straordinaria la consapevolezza della responsabilità umana”.

Questa implosione e questa responsabilità rivelano in modo plateale una vicinanza estrema tra strumenti del vivere, del pensare e del comunicare. La simultaneità, l’immersività, la trasparenza e la miniaturizza-zione delle tecnologie costituiscono alcuni temi, progetti e obiet-tivi che spingono le scienze umane a uscire dai propri seminati

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travalicando l’obiettivo teorico della loro interdisciplinarità mai realmente applicato. Deve succedere quello che con la nanotecnologia43 è successo alla biologia, alla chimica, alla scienza dei materiali, alla fisica, all’ingegneria meccanica e all’elettronica le quali si trovano ad operare su uno stesso banco di prova e per fini, forse, comuni, ma con stili, strumenti e processi diversi. Forse è stimolo per questa urgenza il distaccarsi dai tratti dell’uomo pre-tecnologico44 e reagire investigando i miti d’oggi, dove per mito, come sottolineato da Roland Barthes, s’intende un sistema di comu-nicazione tuttora poco esplorato o esiliato abilmente all’interno di studi e linguaggi troppo isolati.

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1 Il testo è stato scritto fra il 2008 e il 2011.2 V. fLusser, Filosofia del design, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2003.3 Comunicare: dal latino cum (con) e munire (costruire) e communico ovvero

mettere in comune e far partecipe.4 M.s. knoWLes, La formazione degli adulti come autobiografia, Raffaello Cortina

Editore, Milano,1996; si veda anche Malcom Knowles, Finds A Worm in His Apple (1983) - http://bit.ly/findaworm

5 Il testo è stato scritto nel 2010.6 Sulla singolarità tecnologica consiglio la lettura di R. Kurzweil, La singola-

rità è vicina, Apogeo 20087 http://it.wikipedia.org/wiki/Marketing_virale 8 http://it.wikipedia.org/wiki/Biofeedback 9 Per una comprensione del termine: http://www.useit.com/eyetracking/ 10 http://it.wikipedia.org/wiki/Neuroimaging_funzionale 11 Per una comprensione del termine si veda il lavoro di R.K. Lovemarks,

Il futuro oltre i brands, Milano, Mondadori, 2005.12 g. PericoLi, La gestione delle leve irrazionali nell’acquisto, in http://www.

comunitazione.it/13 Il testo è stato scritto nel 2010.14 www.goodguide.com: “GoodGuide provides the world’s largest and most relia-

ble source of information on the health, environmental, and social impacts of consumer products”

15 Testo scritto fra il 2009 e il 2011.16 Per una breve biografia del conduttore si veda www.storiaradiotv.it 17 c. LéVi-strauss, Guardare,ascoltare, leggere, Milano, Il Saggiatore, 2001.18 Nel racconto orale l’epos, come parola, storia e racconto, ha privilegio

sul telos ovvero sul fine e il compimento stesso del racconto.19 a. giddens, Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino, 2007.20 Per una definizione di AR - http://tinyurl.com/2buf25 ; per una vi-

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deo presentazione delle possibili applicazioni e implicazioni dell’AR http://tinyurl.com/ac4ees

21 Per approfondimenti, ilSole24ore on line: http://tinyurl.com/yfc4xrb22 Il saggio è stato scritto nel dicembre del 2006.23 Cfr. in http://www.singinst.org/reading/corereading/24 r. kurzWeiL – National Federation of Blind25 Cfr. in http://it.wikipedia.org/wiki/Circuito_integrato: Un circuito in-

tegrato, spesso denominato “chip”, è un dispositivo elettronico costituito dall’integrazione di un circuito elettronico comprendente da poche unità a molte decine di milioni di componenti elettronici elementari come transistor, diodi, condensatori e resistori, su di un substrato di materiale semiconduttore (in genere silicio, ma a volte anche arseniuro di gallio o altri).

26 r. kurzWeiL, The singularity is near: when humans transcend biology, Viking, 2006. Il testo è in attesa di pubblicazione nella traduzione in italiano presso le edizioni Apogeo.

27 Un ambiente di apprendimento, nell’ottica costruttivista, può essere de-finito “un luogo in cui coloro che apprendono possono lavorare aiutandosi reciprocamente avvalendosi di una varietà di strumenti e risorse informative in attività di apprendimento guidato o di problem solving” (B. G. Wilson, Constructivist Learning Environments. Case Studies in Instructional Design, Englewood Cliffs, N.J., Educational Tech-nology Publications, 1996, p. 5.

28 d.h. Jonassen - J. hoWLand, Meaningful Learning with Technology, Pearson Education, 2007.

29 Cfr. in http://it.wikipedia.org/wiki/Contenuto_generato_dagli_utenti: La dizione “contenuto generato dagli utenti “(User-Generated Content o UGC in inglese) è nata nel 2005 negli ambienti del web publishing e dei new media per indicare il materiale disponibile sul web prodotto da utenti invece che da società specializzate. Essa è un sintomo della democratizzazione della pro-duzione di contenuti multimediali reso possibile dalla diffusione di soluzioni hardware e software semplici ed a basso costo.

30 Il termine “portabilità”, in ambito informatico e tecnologico, ha diversi significati. In questo contesto la intendiamo come miniaturizzazione degli strumenti e libertà di movimento nel loro utilizzo all’interno di ambienti fisici diversi.

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31 u. fadini, Principi di metamorfosi, Milano, Mimesis, 1999, p. 41.32 P. e. ricci Bitti - B. zani, La comunicazione come processo sociale, Bologna,

Il Mulino, 1983, p. 182.33 Ricordiamo che uno dei fenomeni, dei media e della comunicazione mul-

timediale, più dibattuti è stato quello della Linden Lab, società americana che ha lanciato sulla rete Second Life (http://secondlife.com/) e che giornali, studi e ricerche hanno analizzato da diversi punti di vista. Ricordiamo, inoltre, che si sono sviluppati molti progetti educativi sulle dimensioni virtuali proposte da Second Life tra cui Scuola 3d (http://www.scuola3d.eu/index.php). Così vie-ne presentato questo progetto al visitatore della Home Page: “Scuola3d è il progetto dell’Istituto pedagogico di Bolzano dedicato al mondo dell’istruzione e formazione. Qui trovano spazio anche sperimentazioni per l’apprendimento informale e non formale nella rete. Il progetto si sviluppa principalmente nel nostro mondo 3d ma si avvale anche di strumenti Web 2.0 che consentono costruzione collettiva connettiva di conoscenza. Obiet-tivo prioritario di Scuola3d è la costruzione di competenze per una cittadinanza digitale consapevole e responsabile. Le scuole, gli enti di formazione e di ricerca, i docenti, studenti e genitori possono partecipare a totale titolo gratuito al progetto”.

34 c. cadoz, Le realtà virtuali, Milano, Il Saggiatore, 1996, p. 89.35 r. siLVerstone in a. testa, La creatività a più voci, Bari, Laterza, 2005,

pp. 136-148.36 s. turkLe in aa.VV. (a cura di Bernardo Parrella), Genselectrica. Tendenze e

futuro della comunicazione, Milano, Apogeo, 1998.37 a. giddens, Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino, 1994.38 Un laboratorio indipendente ha esaminato 18 componenti interne ed

esterne del prodotto: i risultati confermano “la presenza di composti a base di bro-mo in metà dei campioni esaminati, incluso l’antenna del telefono dove la loro concentrazio-ne arriva fino al 10% in peso”. Non solo perché è stata rilevata anche la presenza di ftalati, additivi tossici usati per ammorbidire il Pvc, “fino ad un valore di oltre 1,5% in peso dei rivestimenti plastici dei fili dell’auricolare”. I risultati sono stati pubblicati nel rapporto di Greenpeace “Chiamata persa: composti pericolosi nell’iPhone” e seguono altri due test che l’associazione stessa ha condotto sui prodotti della Apple a partire dal 2006. Le analisi, effettuate su un MacBook Pro e su un iPod Nano, rivelarono la presenza di ritardanti di

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fiamma bromurati e Pvc in alcune componenti.”39 In questo senso le parole di Alex Zanotelli mettono in luce la grandezza

del problema e il rapporto tra tecnologie del quotidiano e dibattito etico globale: “Pensate all’Africa, alla guerra del Congo, che va avanti da cinque anni. Non diciamo, per favore, che è una guerra di etnie; sui nostri giornali non se ne parla ma è una guerra di enormi interessi: oro, diamanti, il coltan per i nostri telefonini. Questa guerra, in cinque anni, ha fatto due milioni e mezzo di morti”.

40 P. crePet, Solitudini. Memorie di Assenze, Milano, Feltrinelli, 2003.41 La moderna psichiatria ha analizzato, su più piani, l’aumento delle ano-

ressie e delle bulimie come fenomeno di comunicazione estrema da parte di molte giovani e molti giovani. Si aggiunga, inoltre, l’aumento, in tutti i paesi occidentali, dei tentativi di suicidio e di autolesionismo strettamente legati a fenomeni di incomunicabilità relazionale famigliare e sociale nelle giovani generazioni.

42 Si tratta di ambienti di conversazione online che utilizzano strumenti visuali tridimensionali e che sembrano ricreare un contatto immediato e più realistico di comunicazione tra gli utenti. Il loro uso coinvolge milioni di ragazzi (e non solo) in tutto il mondo. Gli studi e le analisi di questi ambien-ti, a mio avviso, si sono concentrati troppo sull’idea del “mascheramento” possibile degli utenti a fronte della loro reale personalità escludendo, in tal modo, una serie di indagini che potrebbero evidentemente tendere alla com-prensioni di quanto questi ambienti influenzano emotività, apprendimento e rapporti sociali degli utenti nella loro vita reale.

43 Cit. in http://it.wikipedia.org/wiki/Nanotecnologia: La nanotecnologia è un ramo della scienza applicata e della tecnologia che si occupa del control-lo della materia su scala dimensionale inferiore al micrometro, normalmente tra 1 e 100 nanometri, e della progettazione e realizzazione di dispositivi in tale scala. Il termine indica genericamente la manipolazione della materia a livello atomico e molecolare, dove il nanometro è la comune unità di lun-ghezza ed è a volte usato per descrivere in generale altre tecnologie micro-scopiche. Tuttavia la nanotecnologia in senso stretto è quella correlata a lun-ghezze dell’ordine di pochi passi reticolari (un passo reticolare è la distanza che separa i nuclei atomici in un solido). La Nanotecnologia costituisce un ambito d’investigazione altamente multidisciplinare, coinvolgendo molteplici

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indirizzi di ricerca che vanno dalla biologia molecolare alla chimica, scienza dei materiali e ovviamente fisica, sia applicata che di base, fino all’ingegneria meccanica ed elettronica.

44 u. gaLiMBerti, Psiche e techne, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 33.

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