Pluridialettalità e parodia: sulla "Pozione" di Andrea Calmo e sulla fortuna comica del bergamasco,...

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3 LINGUA E STILE, XLIV, giugno 2009 LUCA D’ONGHIA Pluridialettalità e parodia. Sulla «Pozione» di Andrea Calmo e sulla fortuna comica del bergamasco 1. Le commedie calmiane che almeno per dimensioni si possono senz’al- tro definire minori – Saltuzza, Pozione e Fiorina – furono stampate una di séguito all’altra nel 1551, 1552 e 1553 1 ; si tratta di testi privi di riferi- Si farà uso delle seguenti abbreviazioni: Boerio = G. Boerio, Dizionario del dialetto vene- ziano, Venezia, Cecchini, 1856; Ciociola = C. Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario. Disegno bibliografico, in «Rivista di Letteratura Italiana», IV, 1986, pp. 141-174; Ciociola Lauda = C. Ciociola, Un’antica lauda bergamasca (per la storia del serventese), in «Studi di filologia italiana», XXXVII, 1979, pp. 33-87; Contini = G. Contini, Commento agli antichi testi bresciani (1935), in Id., Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica (1932-1989), a c. di G. Breschi, Firenze, Sismel – Edizioni del Galluzzo, 2007, II, pp. 1199-1212; Cortelazzo = M. Cortelazzo, Dizionario veneziano della lingua e della cultura popolare del XVI secolo, Limena (PD), La Linea Editrice, 2007; Corti = M. Corti, «Strambotti a la bergamasca» inediti del secolo XV. Per una storia della codificazione rusti- cale nel Nord (1974), in Ead., Storia della lingua e storia dei testi. Con una Bibliografia a cura di Rosanna Saccani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1989, pp. 273-291; GDLI = Grande di- zionario della lingua italiana, diretto da S. Battaglia e G. Bàrberi Squarotti, Torino, UTET, 1961-2002 (si cita per numero di volume e di pagina); Paccagnella = I. Paccagnella, «Insir fuora de la so buona lengua». Il bergamasco di Ruzzante, in Ruzzante, Padova, Editoriale Programma, 1988 (= «Filologia veneta», I), pp. 107-212; Tomasoni Antica lingua = P. To- masoni, L’antica lingua non letteraria a Bergamo. Un formulario notarile inedito del secolo XV, in Lingue e culture locali. Le ricerce di Antonio Tiraboschi. Atti del Convegno di Ber- gamo, 21-22 settembre 1984, a c. di G. Vitali e G.O. Bravi, Bergamo, Lubrina, 1985, pp. 229-261; Tomasoni Liberzolo = P. Tomasoni, «Lo liberzolo d’i masari da Osio», in In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, a c. di F. Alessio e A. Stella, Milano, il Saggiatore, 1979, pp. 75-95; Tomasoni Massera = P. Tomasoni, Nota sulla lingua della «Massera da be», in Folengo e dintorni, a c. di P. Gibellini, Brescia, Grafo, 1981, pp. 95- 118; Tomasoni Volgare = P. Tomasoni, Il volgare a Brescia in un’antica relazione sulle acque, in «Rivista Italiana di Dialettologia», XXVII, 2003, pp. 7-32. 1 Per la prima vedi A. Calmo, Il Saltuzza, a c. di L. D’Onghia, Padova, Esedra, 2006. Le altre due commedie saranno citate sulla base delle rispettive principes, ma adottando nella trascrizione i criteri enunciati in Il Saltuzza cit., pp. 242-243: La Potione comedia fa-

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3LINGUA E STILE, XLIV, giugno 2009

LUCA D’ONGHIA

Pluridialettalità e parodia. Sulla «Pozione»di Andrea Calmo e sulla fortuna comicadel bergamasco

1. Le commedie calmiane che almeno per dimensioni si possono senz’al-tro definire minori – Saltuzza, Pozione e Fiorina – furono stampate una di séguito all’altra nel 1551, 1552 e 1553 1; si tratta di testi privi di riferi-

Si farà uso delle seguenti abbreviazioni: Boerio = G. Boerio, Dizionario del dialetto vene-ziano, Venezia, Cecchini, 1856; Ciociola = C. Ciociola, Attestazioni antiche del bergamasco letterario. Disegno bibliografico, in «Rivista di Letteratura Italiana», IV, 1986, pp. 141-174; Ciociola Lauda = C. Ciociola, Un’antica lauda bergamasca (per la storia del serventese), in «Studi di filologia italiana», XXXVII, 1979, pp. 33-87; Contini = G. Contini, Commento agli antichi testi bresciani (1935), in Id., Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica (1932-1989), a c. di G. Breschi, Firenze, Sismel – Edizioni del Galluzzo, 2007, II, pp. 1199-1212; Cortelazzo = M. Cortelazzo, Dizionario veneziano della lingua e della cultura popolare del XVI secolo, Limena (PD), La Linea Editrice, 2007; Corti = M. Corti, «Strambotti a la bergamasca» inediti del secolo XV. Per una storia della codificazione rusti-cale nel Nord (1974), in Ead., Storia della lingua e storia dei testi. Con una Bibliografia a cura di Rosanna Saccani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1989, pp. 273-291; GDLI = Grande di-zionario della lingua italiana, diretto da S. Battaglia e G. Bàrberi Squarotti, Torino, UTET, 1961-2002 (si cita per numero di volume e di pagina); Paccagnella = I. Paccagnella, «Insir fuora de la so buona lengua». Il bergamasco di Ruzzante, in Ruzzante, Padova, Editoriale Programma, 1988 (= «Filologia veneta», I), pp. 107-212; Tomasoni Antica lingua = P. To-masoni, L’antica lingua non letteraria a Bergamo. Un formulario notarile inedito del secolo XV, in Lingue e culture locali. Le ricerce di Antonio Tiraboschi. Atti del Convegno di Ber-gamo, 21-22 settembre 1984, a c. di G. Vitali e G.O. Bravi, Bergamo, Lubrina, 1985, pp. 229-261; Tomasoni Liberzolo = P. Tomasoni, «Lo liberzolo d’i masari da Osio», in In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, a c. di F. Alessio e A. Stella, Milano, il Saggiatore, 1979, pp. 75-95; Tomasoni Massera = P. Tomasoni, Nota sulla lingua della «Massera da be», in Folengo e dintorni, a c. di P. Gibellini, Brescia, Grafo, 1981, pp. 95-118; Tomasoni Volgare = P. Tomasoni, Il volgare a Brescia in un’antica relazione sulle acque, in «Rivista Italiana di Dialettologia», XXVII, 2003, pp. 7-32.

1 Per la prima vedi A. Calmo, Il Saltuzza, a c. di L. D’Onghia, Padova, Esedra, 2006. Le altre due commedie saranno citate sulla base delle rispettive principes, ma adottando nella trascrizione i criteri enunciati in Il Saltuzza cit., pp. 242-243: La Potione comedia fa-

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menti interni che consentano una collocazione cronologica sensibilmente diversa rispetto alle date delle principes: solo nel Saltuzza la menzione di uno scudo d’oro appena uscito dalla zecca (I 71 e III 21), se presa alla lettera, permetterebbe di fissare al 1546 il terminus post quem 2. Seb-bene siano apparse nello stesso torno d’anni, e talora anche più tardi, le commedie maggiori (Spagnolas, Rodiana e Travaglia) appartengono senza dubbio a un periodo nettamente precedente: la Spagnolas, pubblicata nel 1549 e poi con un prologo dell’autore nel 1551, risale addirittura alla se-conda metà degli anni Trenta; la Rodiana, stampata nel 1553 come com-media di Ruzante, fu composta prima del 1541 (e proprio in quest’anno, se il 1540 delle testimonianze è da leggere more veneto, andò in scena); il Travaglia, infine, stampato nel 1556, risale a prima del 1546.

L’opposizione tra i due gruppi è riducibile a due caratteristiche fon-damentali: la complessità dell’intreccio e il numero degli attori previsti, alti per le commedie maggiori e progressivamente decrescenti in quelle minori; la tastiera espressiva impiegata, di estensione virtuosistica nelle commedie maggiori (veneziano, pavano, bergamasco, toscano si accom-pagnano a «greghesco», «turchesco», spagnolo, dalmatino, «todesco») e ridotta al toscano e ai soli dialetti in quelle minori. Per quanto ne sap-piamo «sembra lecito [...] ritenere questa opposizione tipologica di fasi o momenti tramutabile in una opposizione anche cronologica» 3, istituendo così, seppure con qualche schematicità, due blocchi nei quali verrebbe a essere scandita la produzione teatrale di Calmo. Se al blocco delle com-medie maggiori ha arriso una certa fortuna non solo critica ma anche edi-toriale (Spagnolas, Rodiana e Travaglia possono contare ormai da vari anni su ottime edizioni), altrettanto non può certo essere detto per le altre tre commedie: di esse solo il Saltuzza ha un’edizione critica, e gli studi speci-ficamente dedicati a questi testi si contano sulle dita di una mano 4.

cetissima et dilettevole in diverse lingue ridotta, Venezia, Alessi, 1552; La Fiorina comedia facetissima, giocosa, et piena di piacevole allegrezza, Venezia, Bertacagno, 1553.

2 A. Calmo, Il Saltuzza cit., pp. 35-36. 3 P. Vescovo, Da Ruzante a Calmo. Tra «signore comedie» e «onorandissime stampe»,

Padova, Antenore, 1996, p. 151. 4 Le edizioni critiche dei testi maggiori sono A. Calmo, La Spagnolas, a c. di L. Lazze-

rini, Milano, Bompiani, 1979; A. Calmo, La Rodiana, a c. di P. Vescovo, Padova, Antenore, 1985; A. Calmo, Il Travaglia, a c. di P. Vescovo, Padova, Antenore, 1994. Sulle commedie minori, insieme al quadro cronologico qui presupposto tracciato da P. Vescovo, Percorsi

Sulla «Pozione» di Andrea Calmo

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2. Alla Pozione ha nuociuto, com’era inevitabile, il confronto con il testo assunto a modello per la parodia, la Mandragola. Emblematiche le consi-derazioni di Vittorio Rossi, che si chiudevano con un giudizio lapidario 5:

La Pozione non è che un rimaneggiamento della Mandragola del Machiavelli. La commedia del segretario fiorentino, così fortemente pensata, così finamente lavo-rata, è dal comico veneziano trasformata in una smilza farsa in quattro atti, nella quale Callimaco è sostituito dallo studente Randolfo, M. Nicia dal vecchio mer-cante veneziano Despontao, Siro dal villano Rospo, Ligurio dal parassita berga-masco Garganio. Mancano tutti gli altri personaggi, e sono quindi soppresse le scene bellissime, che ci mettono innanzi tutte le arti poste in opera da Nicia per indurre la moglie a fare il voler suo e nelle quali campeggia la figura meravigliosa di fra Timoteo. A quelle arti non si accenna neppure, appena si allude ad opposi-zione della moglie. La creazione del Machiavelli perde quindi il suo significato e può solo suscitare una risata tra un pubblico, che si fa beffe della dabbenaggine del vecchio Despontao. La Pozione è forse il più infelice tra i lavori drammatici del Calmo.

Più tardi, pur concordando nella sostanza con Rossi, Giorgio Padoan ha dato della commedia un giudizio complessivamente più equilibrato: «Se la Mandragola è la commedia dell’utile, che guida le azioni di tutti i per-

della commedia plurilinguistica calmiana, in Id., Da Ruzante a Calmo cit., pp. 135-177, si vedano F. Fido, Il teatro di Andrea Calmo fra cultura, “natura” e mestiere (1980), in Id., Il paradiso dei buoni compagni. Capitoli di storia letteraria veneta, Padova, Antenore, 1988, pp. 41-63 (pp. 53-56 sulla Pozione) e G. Padoan, Fiorina nel mondo degli uomini: dal Ru-zante al Calmo (1984), in Id., Rinascimento in controluce. Poeti, pittori, cortigiane e teatranti sul palcoscenico rinascimentale, Ravenna, Longo, 1994, pp. 249-287. Non ho ancora potuto prendere visione della ristampa della Pozione curata da Cécile Berger in «Scena aperta», 2, 2001, pp. 117-140: non dovrebbe però trattarsi di un’edizione critica affidabile, almeno a giudicare dalla scheda consultabile in linea alla banca dati Italinemo (www.italinemo.it), dalla quale si apprende che il lavoro è basato sull’edizione trevigiana Zanetti del 1600, tarda e censurata (per l’edizione Zanetti del Saltuzza v. A. Calmo, Il Saltuzza cit., pp. 230-240). Entrambe le commedie sono state riproposte a teatro con la regia di Giovanni Poli: la Pozione è andata in scena con una selezione degli Epitafi (sezione delle Rime calmiane) nel 1964 al Teatro di Ca’ Foscari e quindi al Théâtre de l’Atelier di Parigi (N. Vianello, Per un’edizione delle opere di Andrea Calmo. Saggio di bibliografia, in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, Roma, Bulzoni, 1976, III, pp. 223-237: 229); la Fiorina è stata messa in scena in un allestimento dal titolo Le due Fiorine, che accostava il testo di Calmo all’originale ruzantiano (Ruzante sulle scene del Novecento, a c. di S. Brunetti e M. Maino. Progetto e coordinamento di C. Grazioli, Padova, Esedra, 2006, pp. 181-183).

5 Introduzione ad A. Calmo, Lettere, a c. di V. Rossi, Torino, Loescher, 1888, pp. LX-LXI.

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sonaggi, nella Potione rimane solo il tema della scaltrezza e della beffa: sicché del Machiavelli vi è ben poco, o, meglio, niente. Ma del resto chie-dere a Calmo, tanto diverso per cultura e temperamento, un rifacimento della Mandragola che ne salvasse ciò che noi moderni apprezziamo, è un discorso astratto e sostanzialmente anti-storico» 6. Di lì a qualche anno, lo stesso Padoan è tornato sull’argomento insistendo sul valore teatrale del testo: «Nella Potione rispetto alla Mandragola vi è meno riflessione e più azione. Se vogliamo, dal punto di vista del “mestiere” il Calmo si rivela autore teatrale più smaliziato e più provveduto del Machiavelli: e si capi-sce, considerata la sua diretta e consumata esperienza di attore» 7; analo-gamente, e da par suo, Franco Fido ha saputo «riconoscere nella Potione un tentativo riuscito di teatralizzare il modello secondo i gusti che si an-davano affermando a metà secolo» 8.

Proprio dal dato di questa maggior teatralità è opportuno partire per osservare più da vicino la Pozione: il fatto tante volte ribadito, e certo non stupefacente, che la commedia di Calmo non possa gareggiare per bellezza con quella di Machiavelli ha lasciato nell’ombra le esigenze sceni-che che poterono condizionarne la fisionomia. È probabile intanto che il dramma sia stato messo in scena in àmbito nobiliare, senza poter contare sulla collaudata esperienza di autori semiprofessionisti in grado di memo-rizzare e rappresentare un testo più lungo. Alla collaborazione di giovani aristocratici in veste di attori dilettanti sembrano alludere in effetti alcuni passaggi del prologo «alla greca», che ricorda uno dei personaggi della Pozione, il giovane Randolfo, come «mio mingo, canro dulce Randolfo» (c. 3r), e che prega il pubblico di scusare i recitanti per la loro inespe-

6 G. Padoan, La «Mandragola» del Machiavelli nella Venezia cinquecentesca (1970), in Id., Momenti del Rinascimento veneto, Padova, Antenore, 1978, pp. 34-67: 65 (sulla Po-zione vedi le pp. 64-66).

7 G. Padoan, La commedia rinascimentale veneta, Vicenza, Neri Pozza, 1982, p. 178. Giudizi riduttivi, seppure episodici, si rintracciano in G. Aquilecchia, «La favola “Mandra-gola” si chiama» (1971), in Id., Schede di italianistica, Torino, Einaudi, 1976, pp. 97-126: 104 (dove è ricordata «l’infelice ‘riduzione’ plurilingue della Mandragola ad opera di An-drea Calmo») e in P. Stoppelli, La «Mandragola» a teatro, in N. Machiavelli, Mandragola, a c. di P. Stoppelli, Milano, Mondadori, 2006, pp. 139-169: 154: «Più tardi possiamo regi-strare solo motivi generici di derivazione, come nella Sporta del Gelli (1543) o in altre com-medie fiorentine, oppure imitazioni farsesche di poche pretese come La potione di Andrea Calmo (1552)». Dall’edizione Stoppelli citerò sempre il testo della Mandragola.

8 F. Fido, Il teatro di Andrea Calmo fra cultura, “natura” e mestiere cit., p. 55.

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rienza: «si xe bella me piansi, e si no saranstu tando galandi prenciussa, no voio culpari maistro chie l’astu fambricada, mo chesti zuvegni gaiardi del bizaria, chie volensto alla so’ mondo» (cc. 3r-3v). La precisazione ap-parenta il prologo della Pozione a quello del Saltuzza, dove si spiega che «degli recitanti non parlo, peché appo voi saranno escusati, per non es-ser avezzi in simel trame: ben vi dico che tutti loro benignamente hanno prenduto tal carico per vostro spasso al meglio che sanno» 9.

Anche l’estrema brevità della commedia riflette plausibilmente una de-stinazione del tutto diversa rispetto a quella ipotizzabile per le commedie maggiori. Rispetto a queste ultime la Pozione è incomparabilmente più breve, e anzi le sue dimensioni sono vicine piuttosto a quelle di un in-termezzo, risultando agevolmente comparabili, tanto per fare due esempi diversi che si collocano intorno agli estremi del secolo, a quelle dell’Erbo-lato di Ariosto o a quelle del Tesoro di Giulio Cesare Croce 10. La parti-zione del testo nella princeps fa pensare a uno spettacolo originariamente diviso in quattro quadri – brevissimo l’ultimo, che occupa solo le cc. 11r-12r – promossi forse per ragioni di opportunità tipografica alla denomina-zione di atti ma privi di un’articolazione interna in scene: a tale proposito risulta di grande interesse l’ipotesi avanzata da Piermario Vescovo che la quadripartizione di testi calmiani come la Pozione o la Fiorina derivi dal

9 A. Calmo, Il Saltuzza cit., p. 46 § 8. Non è dunque implausibile che lo stesso Sal-tuzza sia stato recitato davanti a un pubblico di patrizi: cfr. già P. Vescovo, Da Ruzante a Calmo cit., pp. 120-121.

10 I quattro atti della commedia constano di 228 battute: per avere un’idea della sua brevità è sufficiente pensare che il solo primo atto del Travaglia contiene 300 battute, e il primo atto della Capraria di Giancarli ne contiene ben 385. Per l’Erbolato, senz’altro poste-riore al 1524, cfr. l’edizione in L. Ariosto, Tutte le opere, a c. di C. Segre, Milano, Monda-dori, III, 1984, pp. 87-108 (testo a c. di G. Ronchi; nota al testo e note esplicative alle pp. 616-628); tra gli studi più recenti, utili anche per l’opportuna insistenza sulla destinazione teatrale dell’opera, cfr. A. Casadei, Note ariostesche, in «Italianistica», XXXIII, 2004/3, pp. 83-93: 88-89 ed E. Refini, «Erbolato» e «Negromante». Le deux faces du charlatan chez l’Arioste, in c.d.s. in «Les Lettres Romanes», in particolare § 4. Il tesoro di Croce, di in-certa datazione ma probabilmente di fine secolo, è conservato da un manoscritto autografo (3878, caps. LIV, tomo XXV, no 1 della Biblioteca Universitaria di Bologna), in cui al titolo segue la specificazione Piacevoli e brevi intermedi da comedia da fare ad un convitto o festa o veglia per trattenimento di cavalieri e di dame: se ne ha un’edizione critica commentata in G.C. Croce, Il tesoro. Sandrone astuto, due commedie inedite a c. di F. Foresti e M.R. Da-miani, Bologna, Clueb, 1982, pp. 1-54.

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loro uso come «farcitura» di testi in cinque atti 11. Queste probabili con-dizioni esterne – mancanza di attori esperti e impiego del testo a mo’ di intermezzo – potrebbero essere state dunque la prima e più importante causa della sistematica riduzione ai minimi termini cui viene sottoposto il modello.

Di questa generale tendenza alla semplificazione rende conto il ti-tolo stesso, che opacizza o più probabilmente ignora la densità allusiva di quello machiavelliano, designando nella maniera più denotativa possi-bile – per altro con lo stesso termine già impiegato nel testo originale – il veicolo dell’inganno oggetto della farsa 12. L’intreccio segue solo il filo della beffa con pochissimi scarti e, funzionalmente a questo intento, della Mandragola restano solo i personaggi che hanno un ruolo attivo nell’ese-cuzione dell’inganno, con la conseguente sparizione di Sostrata, Lucre-zia e fra Timoteo 13. Pare eloquente in tal senso la secchezza paratattica con cui il prologo enuncia le vicende che verranno recitate: «una vechio no pustu fare fioli, l’aldro zuvegni xe namurao cul so’ muieri, è mentuo del menzo una berdalasco gulainzzo, chie per danari, la stamena, la du-canti, fa rufianenzo del ponvero vecchio chilonso, e tundi candi voli truf-

11 Cfr. P. Vescovo, Entracte. Drammaturgia del tempo, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 150-151.

12 Per il titolo della commedia di Machiavelli cfr. G. Aquilecchia, «La favola Mandra-gola si chiama» cit. ed E. Raimondi, Il veleno della «Mandragola», in Politica e commedia (1972), Bologna, il Mulino, 1998, pp. 115-124. Il sostantivo pozione, in riferimento alla mandragola o ad altri composti medicinali (come l’abortivo che Ligurio intende far assu-mere a una giovane pronipote di Nicia con la mediazione di fra Timoteo), occorre nel te-sto di Machiavelli dieci volte (pp. 41, 51 due volte, 53, 67, 69, 79, 85, 93, 97). Per quanto riguarda il titolo della commedia calmiana va rettificata l’osservazione di V. Rossi, Introdu-zione ad A. Calmo, Lettere cit., p. LX nota 3: «Si noti come anche dal frontispizio appaia che questa commedia non è che una riduzione». Come mostra l’uso degli aggettivi ridotto e ridotta nei frontespizi cinquecenteschi, la formulazione «in diverse lingue ridotta» significa semplicemente ‘tradotta in diverse lingue’ e allude quindi al fatto che la Pozione si ispirava a un testo scritto in un’altra (e in una sola) lingua. Accettando questa spiegazione, l’unica che mi pare possibile alla luce delle consuetudini editoriali cinquecentesche, occorrerebbe assumere a rigore che Pozione fosse il titolo con cui la Mandragola era nota a Calmo, ma di questo fatto non si hanno prove: per i titoli della commedia di Machiavelli nelle stampe antiche cfr. P. Stoppelli, Introduzione, in Id., La «Mandragola»: storia e filologia. Con l’edi-zione critica del testo secondo il Laurenziano Redi 129, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 145-170.

13 Ai quattro personaggi del veneziano Despontao (Nicia), del bergamasco Garganio (Ligurio), del pavano Rospo (Siro) e del toscano Randolfo (Callimaco) si aggiunge, con un’unica battuta («Chi bate là?», c. 9v), la massara di Despontao.

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fari madonna Culindonia, perchie anchi ella ghel pe(n)tero in corpo un merdesina, chie faranstu masculi, e nu se corze del gambarula chie fando missieri Despundao so’ cusorte» (c. 3r). Anche il tempo convenzional-mente occupato dalla vicenda viene scorciato, perché la beffa è cosa fatta già poche ore dopo il tramonto e non deve passare una notte intera come nella Mandragola perché Randolfo si unisca a Calidonia: si direbbe che in questo modo Calmo abbia sottoposto la Mandragola a una sorta di iper-regolarizzazione, ritagliandone la trama esattamente nello spazio di una giornata, dal giorno alla notte, e non nel corso di ventiquattro ore come pure concedevano i modelli latini cui s’era ispirato Machiavelli 14.

Le parti scenicamente più consistenti sono quelle del parassita ber-gamasco Garganio e del vecchio sciocco Despontao, quest’ultima certa-mente affidata a Calmo, che doveva essere l’attore più esperto sulla cui abilità occorreva puntare per garantire al pubblico un personaggio risibile e largamente riconoscibile. A quest’altezza cronologica la fruttuosa col-laborazione con Giancarli e Molin – ciascuno con una specialità lingui-stica e attoriale – è ormai definitivamente conclusa: Giancarli è morto e Burchiella si è ritirato dalle scene, anche se non è implausibile una sua collaborazione marginale nei panni del prologante greco 15. Soffermandosi ancora sui personaggi, è chiaro che la soppressione di Lucrezia – il suo equivalente, Calidonia, non compare mai in scena – rendesse automati-camente inutile un corrispondente di fra Timoteo. L’esclusione di questo personaggio, deplorata in modo unanime dai pochi lettori della Pozione, è stata per lo più addebitata a motivi di prudenza e al timore della cen-

14 La prima indicazione temporale esplicita della Pozione cade nell’atto terzo, quando Garganio precisa che «l’è squas do hore de not» (c. 10r: sono dunque passate due ore dal tramonto). All’inizio dell’atto successivo, quando ormai Randolfo si è già unito a Calido-nia, «el va per quater hori vel circa» (c. 11r) e Despontao vuole farlo uscire di casa «azzò ch’el no staga fina zorno» (cc. 11r-11v). Poco dopo, alla fine della commedia, Garganio si congeda da Randolfo dicendogli: «es parlerem da matina, che ades a’ voi andà’ a dormì’, ch’ho gran son» (c. 12r). Per il tempo nella Mandragola vedi le osservazioni di P. Stoppelli, La «Mandragola» e la commedia antica, in Id., La «Mandragola»: storia e filologia cit., pp. 43-67, soprattutto alle pp. 43-50 e P. Vescovo, Entracte cit., pp. 124-128.

15 Per i diversi ruoli probabilmente coperti da Giancarli (servo toscano), Calmo (vec-chio veneziano) e Molin (ruoli in greghesco) vedi P. Vescovo, Da Ruzante a Calmo cit., pp. 172 ss.; a p. 160 l’osservazione che gli ultimi testi calmiani sono «in dialetto e in toscano (salvo due piccole coloriture laterali di greghesco, forse irrinunciabile al Molin?)». Per il Burchiella cfr. M.L. Uberti, Un ‘conzontao in openion’ di Andrea Calmo: Antonio Molin il Burchiella, in «Quaderni veneti», 16, 1992, pp. 59-98.

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sura, ma un’idea simile convince solo in parte 16: un anno prima Calmo non si era peritato infatti di mettere in ridicolo, con il personaggio di Le-cardo nel Saltuzza, certe abitudini della vita ecclesiastica 17, senza contare che almeno fino alla fine degli anni Settanta la censura religiosa si esercita piuttosto blandamente su testi come il nostro (e dunque nel caso della Pozione andrebbe supposta un’autocensura preventiva).

A illustrazione di quanto detto fin qui può essere efficace l’esame delle rispettive scene d’apertura delle due commedie. Nella Mandragola la prima scena ricostruisce l’antefatto della vicenda in quarantadue battute di dialogo tra Siro e Callimaco: ma di un dialogo solo formalmente si tratta, perché di fatto, come è stato notato più volte, il lettore si trova di fronte a un lungo monologo di Callimaco, che soltanto alla battuta [17] nomina Lucrezia rivelando il proprio amore nei suoi confronti 18. Nella Pozione le cose vanno altrimenti: il dialogo tra Rospo e Randolfo è ridotto a di-ciotto brevissime battute che occupano meno di una carta e il problema da risolvere è messo in chiaro fin dalla battuta [3]: «RANDOLFO: Rospo, non ti partire, ch’io ti voglio un poco. ROSPO: A’ son chive paro(n), bell’e derto. RANDOLFO: Tu sai l’amore ch’io porto a madonna Calidonia» (c. 4r). Si noti come le prime due battute ricalchino abbastanza fedelmente l’incipit machiavelliano: «CALLIMACO: Siro, non ti partire. Io ti voglio un poco. SIRO: Eccomi» (p. 16); mentre già la terza imprime una netta acce-lerazione all’azione e comporta la sfrondatura di buona parte dell’assolo di Callimaco.

Insieme allo sfoltimento che si è documentato a vari livelli fin qui, la riscrittura pluridialettale porta con sé un’altra capitale differenza rispetto al modello: la caratterizzazione linguistica dei personaggi, ottenuta con

16 Cfr. G. Folena, Lingua e strutture del teatro italiano del Rinascimento (1970), in Id., Scrittori e scritture. Le occasioni della critica, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 219-233: 222: «basti pensare alla censura che colpisce fra Timoteo nella misera Pozione del Calmo, che è del ’52»; dello stesso avviso anche G. Padoan, La «Mandragola» del Machiavelli nella Vene-zia cinquecentesca cit., p. 66: «sorprende, dopo quanto si è detto, l’assenza del personaggio del frate. Oltre alla differente personalità del Calmo occorre fors’anche pensare all’atmo-sfera che in pochi anni era divenuta, anche a Venezia, più pesante, scoraggiando la satira anti-clericale».

17 A. Calmo, Il Saltuzza cit., pp. 20-23. 18 N. Machiavelli, Mandragola cit., pp. 16-24: si veda a p. 15 l’osservazione di Stop-

pelli che le battute di Siro «hanno la sola funzione di dare apparenza di dialogo a quello che è in realtà un monologo del personaggio principale».

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una raffinata gamma di sfumature diastratiche e stilistiche nella Mandra-gola, viene perseguita invece nella Pozione sul piano diatopico, con il to-scano e i diversi dialetti che si alternano tra loro 19. Si direbbe dunque che l’aggressione parodica dell’ipotesto cominci dal disinnesco della mira-bile tastiera stilistica messa in opera da Machiavelli, che cede il passo alla pluralità giocosa dei diversi dialetti. Solo l’inerzia e la spendibilità scenica del codice petrarchesco – del resto ben noto al Calmo rimatore – manten-gono l’innamorato e studente Randolfo nei binari del toscano letterario 20.

In realtà nell’operazione calmiana sembra ravvisabile un livello più profondo e sottile, consistente nell’intuizione che la Mandragola è un te-sto «profondamente dialettale» 21: proprio per questa sua peculiarità si

19 È stato infatti osservato a più riprese come il toscano dei personaggi della Mandra-gola sia nettamente articolato in diverse varietà: cfr. ad esempio J.A. Barber, La strategia linguistica di Ligurio nella «Mandragola» di Machiavelli, in «Italianistica», XIII, 1984, pp. 387-395, e soprattutto F. Franceschini, Lingua e stile nelle opere in prosa di Niccolò Machia-velli, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Roma, Salerno Ed., 1998, pp. 367-392: 379-387.

20 Su un piano più generale, quindi, la riscrittura di Calmo sembra collocarsi esem-plarmente «in quell’itinerario linguistico per cui nel testo teatrale cinquecentesco si passa gradatamente dal pluristilismo della lingua [...] al plurilinguismo dei dialetti» (P. Spezzani, L’«Arte rappresentativa» di Andrea Perrucci e la lingua della commedia dell’arte (1970), in Id., Dalla commedia dell’arte a Goldoni, Padova, Esedra, 1997, pp. 121-216: 161). Mette conto di rilevare che forse proprio questa caratteristica, insieme alla brevità del testo, può aver contribuito alla fortuna tipografica della Pozione, unica commedia calmiana a varcare il limite dell’edizione censurata Zanetti del 1600-1601 con una ristampa successiva, risa-lente al 1625: si tratta di LA | POTIONE | COMEDIA | DI M. ANDREA | CALMO, | DI NUOVO CORRETTA, | & ristampata. | IN TREVIGI, | Appresso Angelo Righettini. MDCXXV. | Con licenza de’ Superiori (In-8o, A8; ho controllato l’esemplare custodito alla Biblioteca Estense Universitaria di Modena con segnatura 70 E 2 1). Degli ottantaquat-tro titoli che il catalogo SBN attribuisce ad Angelo Righettini vari sono quelli dialettali: il Naspo bizaro di Caràvia (1620), un opuscolo probabilmente pantalonesco come la Segonda canzon di Tonolo Descazuo dalle Contrae (1622), la Cantarela de Bertevelo d’i Berteviegi da Tencarola… (1621) e numerose opere di Paolo Briti il «Cieco da Venezia» (cfr. M. Visen-tin, Un cantore veneziano del XVII secolo: Paolo Briti il “Cieco da Venezia”, in «Quaderni veneti», 36, 2002, pp. 45-76); secondo una segnalazione di Tiraboschi, al Righettini va at-tribuita anche una stampa datata 1613, ma ora perduta, della coneglianese Egloga di Morel (A. Contò, Egloga in lingua villanesca di Busat e Croch. Testo inedito trevisano del secolo XVI, in «Studi trevisani», I, 1984, pp. 55-79: 78 nota 24).

21 G. Folena, Le lingue della commedia e la commedia delle lingue (1983), in Id., Il lin-guaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 119-146: 146: «la commedia doveva fare i conti con la realtà linguistica di ogni giorno, e col patrimonio popolare dei dialetti (in questo senso anche la Mandragola è profonda-mente dialettale)». La Mandragola rappresenta in effetti un tipo di mescidanza linguistica

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prestava naturalmente a essere riproposta in veste plurilingue e riplasmata in base alla tradizione della scena veneta (da cui derivano i personaggi principali: il servo pavano, il vecchio veneziano, il bergamasco furbo). Analogamente, circa trentacinque anni prima la commedia di Machiavelli poteva contare su una naturale predisposizione al pluristilismo perché si presentava in fondo come «contenitore, solo in parte regolarizzato, di un repertorio di temi, cultura, lingue e forme espressive della tradizione mu-nicipale» (da cui, non occorre dirlo, dipendono in diverso grado perso-naggi come messer Nicia, fra Timoteo e Sostrata) 22. Volgendo la Mandra-gola in dialetti diversi che domina perfettamente, Calmo sfugge dunque al pericolo di comporre un rifacimento monocromo e sembra far tesoro del celebre avvertimento – proprio di Machiavelli – sui «sali che ricerca una commedia» 23. L’atteggiamento nei confronti della Mandragola è dunque almeno duplice: se è innegabile la grossolanità farsesca che la critica ha unanimemente rilevato, d’altro canto è notevole che Calmo decida di gio-care la carta della pluridialettalità su un testo toscano ma di per sé note-volmente dialettale e in certa misura predisposto alla riduzione «in diverse lingue» (anche con la parodia della Fiorina ruzantiana, del resto, il punto di partenza prescelto sarà un testo più vicino nel tempo e nello spazio, ma ugualmente monolingue nella sua pavanità integrale).

Machiavelli, programmaticamente ricalcato nella Pozione, era ben presente già nel Saltuzza, stampato nel 1551 24: Fido ha potuto scrivere in proposito che «della Mandragola i quattro brevissimi atti della Potione rispettano [...] scrupolosamente la trama, eppure la commedia risulta se possibile ancor meno machiavellica del Saltuzza» 25. Nella fase finale, e

che può «giocare con sicurezza sull’opposizione toscano letterario-lingua parlata. Quest’op-zione è [...] presente soprattutto nei toscani» (C. Segre, La tradizione macaronica da Fo-lengo a Gadda (e oltre) (1979), in Id., Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, pp. 169-183: 171); vedi anche F. Franceschini, Lingua e stile nelle opere in prosa di Niccolò Machiavelli cit., p. 387: «È questa combinazione di pluristilismo e mono-linguismo che distingue la Mandragola, come poi la Clizia, dalle precedenti opere dell’Ario-sto e del Bibbiena».

22 S. Ferrone, Il teatro, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato. IV. Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Ed., 1996, pp. 909-1009: 933.

23 N. Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua, a c. di P. Trovato, Padova, Ante-nore, 1982, pp. 62-63.

24 Cfr. A. Calmo, Il Saltuzza cit., pp. 27-29. 25 F. Fido, Il teatro di Andrea Calmo fra cultura, “natura” e mestiere cit., p. 53.

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per molti aspetti calante, della sua carriera teatrale, Calmo si rivolge dun-que decisamente ai grandi modelli, dando prova di «eccezionale fiuto [...] nella scelta dei maestri con cui fare i conti: quanti altri, allora, avrebbero saputo individuare negli autori della Mandragola e della Moscheta i due massimi geni teatrali del Cinquecento?» 26. È significativo, e certo non ca-suale, che questa fase di autoregolamentazione e autolimitazione sia se-gnata dal ritorno a testi classici e misurati per eccellenza 27: l’assunzione di modelli simili finisce per avere anche un valore difensivo, se si pensa agli attacchi rivolti nel corso degli anni Quaranta ai modi della commedia plurilingue di cui proprio Calmo era stato il massimo rappresentante 28. Limitarsi alla riscrittura e alla parodia di testi preesistenti significa rinun-ciare all’originalità dell’invenzione, ma anche dichiarare programmatica-mente il proprio disimpegno, confinando la scrittura teatrale in una di-mensione di gioco, marginale a priori e dunque inattaccabile. La patente di nobiltà degli ipotesti risparmia a Calmo ogni preoccupazione sullo statuto regolare del proprio prodotto, garantendogli allo stesso tempo, proprio in virtù dei meccanismi della riscrittura, uno spazio di manovra che egli sfrutta con abilità corrosiva, riuscendo a «démarquer i maggiori classici del nuovo genere col più consumato mestiere» 29. E infatti – con-tinuando a citare Fido – «sarebbe un errore concludere che Calmo imita la Mandragola senza capirla» 30; anzi, «la commedia è l’intelligente, estre-mamente efficace banalizzazione di un testo ricco e difficile, un po’ come il treatment di un abile sceneggiatore che riduca un grande romanzo a un prodotto di immediato consumo, fra vaudeville e soap opera» 31.

3. La trasposizione di Calmo funziona in maniera esemplare anzitutto per il personaggio del vecchio veneziano. La lingua intensamente vernacolare,

26 Ibidem, p. 51. 27 La regolarità della Mandragola è stata messa in rilievo da P. Stoppelli, La «Mandra-

gola» e la commedia antica cit. La misura e il complessivo equilibrio della Fiorina di Ruzante sono addirittura un luogo comune della critica: per l’intera questione e una rilettura del te-sto cfr. G. Padoan, Fiorina nel mondo degli uomini, in Convegno internazionale di studi sul Ruzante, a c. di G. Calendoli e G. Vellucci, Venezia, Corbo e Fiore, 1987, pp. 55-68.

28 Cfr. A. Calmo, Il Saltuzza cit., pp. 10-12. 29 F. Fido, Il teatro di Andrea Calmo fra cultura, “natura” e mestiere cit., p. 56. 30 Ibidem, p. 53; a p. 54 vari esempi del riadattamento, ben consapevole, cui Calmo

sottopone il messaggio di Machiavelli. 31 Ibidem, p. 56.

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sentenziosa e aggressiva di Nicia, sintomo della sua rissosa petulanza e della sua angustia mentale, trova una perfetta corrispondenza nella parte di Despontao, il cui nome (letteralmente ‘senza punta’) non allude alla discu-tibile vittoria ottenuta da Nicia, ma piuttosto – e molto meno sottilmente – all’impotenza sessuale che lo affligge e che sembra di poter attribuire anche al vecchio della Mandragola 32. Le battute di Despontao sono solo cinquan-totto ma bastano e avanzano per confermare l’immagine di Calmo «gran linguaiolo e tesaurizzatore di vocaboli e tropi veneziani» che Gianfranco Folena desumeva dalle Lettere 33. Abbondano proverbi e affermazioni sen-tenziose: «cuor contento e schiavina in spalla» (5v) 34, «l’è ben la veritae ch’el non è danari che paga un bon fante» (7r), «el se vuol far le cose col dever o lagarle stare (dise Ovidio)» (9v; l’addebito a Ovidio, va da sé, è del tutto immaginario); locuzioni metaforiche dal lessico marcatamente popola-reggiante, che spesso sono hapax nel veneziano cinquecentesco: «me das-tu la mare de Urlando?» ‘mi prendi in giro’ (6v) 35, «ho pì da caro cha si un

32 Sulla funzione caratterizzante della lingua di Nicia cfr. per tutti E. Raimondi, Il se-gretario a teatro (1972), in Id., Politica e commedia cit., pp. 45-97: 75-76: «Alla ostentazione di uno stato sociale, in cui è assorbito un codice corporativo, un repertorio di tempi e di abitudini, è abbastanza logico che corrisponda un linguaggio altrettanto caratteristico, che nasce a sua volta da un episodio di cultura tipicamente fiorentino sia come ricerca dello stesso personaggio, con le sue letture e i suoi preziosismi di gergo, sia anche come opera-zione critica alle sue spalle, di nuovo in rapporto diretto con un pubblico che è chiamato a integrare il gesto sospeso della facezia» (nello stesso senso v. anche M. Plaisance, Sur «La Mandragola» de Niccolò Machiavelli, in «Il castello di Elsinore», IX, 1996, pp. 27-35: 33). Sui nomi dei personaggi cfr. P. Stoppelli, I nomi nella «Mandragola» (tra commedia e storia) (2003), in Id., La «Mandragola»: storia e filologia. Con l’edizione critica del testo secondo il Laurenziano Redi 129 cit., pp. 107-122. Quanto a Despontao, andrà segnalato che un no-mignolo simile occorre con allusione diretta all’avidità e alla pochezza nel titolo di un’ope-retta di Giulio Cesare Croce, La vera regola per mantenersi magro con pochissima spesa, scritta da M. Spilorcione de’ Stitichi correttore della nobilissima Compagnia della Lesina a M. Agocchion Spontato suo compare [...], Bologna, Eredi del Cochi, 1622.

33 G. Folena, Le lingue della commedia e la commedia delle lingue cit., p. 143. 34 Il proverbio è registrato più tardi da Boerio, p. 625, che lo spiega così: «La conten-

tezza del cuore trionfa della miseria». 35 Dalla famiglia di dare la berta ‘ingannare’: vedi il commento ad A. Calmo, Il Sal-

tuzza cit., p. 90 nota 52 (battuta II 64), cui va aggiunto M. Cortelazzo, Unitarietà culturale nel linguaggio della commedia del Cinquecento, in La drammatica popolare nella valle pa-dana, Modena, Cooperativa Tipografi (E.N.A.L. – Università del tempo libero), 1976, pp. 97-104: 102, con l’acclusione del nostro esempio.

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me portasse do concoli carghi de pan d’oro» ‘mi è graditissimo’ (6v) 36, «la no giera de berta» ‘non era in vena’ (7r) 37, «farve notar intel libero de le cento novele per un Bufalmaco» ‘fare la figura dell’imbroglione’ (8v) 38, «e’ averò pur in cao de trenta anni un vuovo da tre rossi da la mia consorte» ‘avrò pure dopo trent’anni qualcosa di buono da mia moglie’ (9r) 39, «sa-remo a le brùdeghe del sacco» ‘saremo ai ferri corti’ (9r) 40, «ti è pur cima de rosto» ‘sei un furfante matricolato’ (10v) 41; espressioni metaforiche sin-golari come «alfabeto mio iuridico» (6r) 42 o oscure come «medeghi dal co-

36 Per il significato letterale cfr. Boerio, p. 187: «Concolo del pan dicesi a quella ta-vola su cui si fa o si porta il pane a cuocere»; ovvia qui l’intenzione iperbolica dell’im-magine.

37 Probabilmente con il significato di ‘non le andava a genio’ o ‘non aveva voglia di scherzare’ (così ipotizza plausibilmente Cortelazzo, p. 175 punto 3). Mi pare meno probabile il significato ‘non era disposta’ (con riferimento al campione d’urina che De-spontao deve ottenere da Calidonia: in tal caso risulterebbe marginalmente pertinente anche il significato di berta ‘organo sessuale femminile’ per il quale cfr. F. Brambilla Ageno, Studi lessicali, a c. di P. Bongrani, F. Magnani, D. Trolli, Bologna, Clueb, 2000, pp. 183-184).

38 Buffalmacco, proverbiale orditore d’inganni, è comprimario nelle novelle VIII 3, VIII 6, VIII 9 e IX 3 del Decameron, qui indicato con la perifrasi di libero de le cento novelle, corrente in antico e affiancata almeno a partire dal XVI secolo dal semplice Cento-novelle: su questo cfr. i materiali raccolti in D. Puccini, Sul titolo del «Trecentonovelle», in «Lingua Nostra», LXIII, 2002, pp. 94-95; L. Matt, Ancora sul titolo del «Trecentonovelle», in «Lingua Nostra», LXV, 2004, pp. 114-116; D. Puccini, Di nuovo sul titolo del «Trecento-novelle», in «Lingua Nostra», LXVI, 2005, pp. 43-45; si noti in ultimo che libero ‘libro’ è forma antiquata (vedi A. Calmo, Il Saltuzza cit., p. 56 e nota 30).

39 Vuovo da tre rossi vale certo ‘colpo di fortuna’, ‘evento straordinario’, con allusione al figlio maschio tanto sospirato che Despontao sta finalmente per avere dalla moglie (rosso ‘tuorlo’ in Cortelazzo, p. 1134 s.v. rosso2 con questo solo esempio).

40 Letteralmente ‘saremo alle parti sporche del sacco’: cfr. Cortelazzo, p. 228 e G. Vi-dossi, Parole di Andrea Calmo, in «Lingua Nostra», XIII, 1952, p. 107; per altre occorrenze e una discussione etimologica mi permetto di rinviare a L. D’Onghia, Il veneziano cinque-centesco alla luce di un nuovo dizionario. Primi appunti, in c.d.s. in Lessico colto e lessico popolare. Atti del Convegno di Udine, 10 dicembre 2008, a c. di C. Marcato (aggiungi an-che il rinvio reperibile presso G. Contini, Un glossario dell’antico lombardo (1938), in Id., Frammenti di filologia romanza cit., II, pp. 1191-1197: 1193).

41 Cfr. Cortelazzo, p. 346 con la parafrasi generica ‘uomo eccellente’; la natura ger-gale dell’epiteto è stata dimostrata da M. Chiesa, Cingar… sciebat zaratanare (1975), in Id., Teofilo Folengo tra la cella e la piazza, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1988, pp. 113-124: 118-120.

42 Né GDLI né il Lessico Etimologico Italiano, diretto da M. Pfister e W. Schweickard, Reichert, Wiesbaden, 1979 ss. riportano la locuzione. L’alfabeto iuridico potrebbe indi-

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ral» (6r) 43, entrambe senza riscontri; esclamazioni bizzarre e quasi di sicuro intenzionalmente ridicole come «al sangue del perisemolo» (5v) e «pota de le latughe» (10v) 44.

Altro elemento di spicco del repertorio espressivo di Despontao – in omaggio alla tradizione dei vecchi calmiani e già del vecchio Andronico nel Bilora – è il colorito latineggiante della sua lingua, parzialmente giu-stificato nella riscrittura parodica della Pozione dall’educazione scolastica dello stupido Nicia, che ha «cacato le curatella per imparare dua hac» (II 46) 45 e che resta facilmente abbagliato dall’impeccabile latino dottorale di Callimaco. Varie battute del vecchio contengono così elementi latini o latineggianti: «la sta(m)pa scompissa e sì no ha la retentiva» (c. 5v; dove credo vada sottinteso, prima dell’aggettivo retentiva, un sostantivo come virtù) 46, «la matricola no puol sustentar la vertue de inzenerar» (6r) 47, «no podando inzenerar, videlicet no siando la mia consorte co’ ti sa atta a recever la copulativa, quid ad me, che la me staga appresso? Nianche mi dormir con essa! Caro frar, che dis-tu mo cerca de questo dolce amicus noster?» (6r), «non mihi placet» (8v). A differenza di Callimaco, Randolfo

care gli ‘elementi basilari’ del diritto (GDLI I, 301) e l’apostrofe di Despontao suonerebbe quindi di lode a Garganio.

43 Non è chiaro il significato di coral: sia quello di ‘corallo’ che quello di ‘libro litur-gico’ registrati da Cortelazzo, p. 392 non sembrano infatti pertinenti. Con più di una cau-tela si potrebbe sospettare un pasticcio tipografico (un’aplografia) per «dal’Alcoran», con allusione sgangherata al Libro islamico, che verrebbe equiparato a un testo sapienziale che contiene qualunque cosa (e dunque l’espressione varrebbe ‘tutti i medici del mondo’): ma nessun esempio in questa direzione è offerto da Cortelazzo, p. 45 s.v. alcoràn e da GDLI I 296 s.v. alcorano, ed è infruttuoso anche il controllo dei due volumi di G.B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia, Brescia, Paideia, 1972.

44 Entrambe le espressioni sembrano costruite con eufemismi attinti dall’àmbito vege-tale, ma in assenza di altri esempi non si può dire più di questo: nel primo caso Cortelazzo, p. 986 si limita prudentemente a osservare che la parola occorre «anche in una impreca-zione»; e così fa anche con latuga (p. 698). Non so se possa avere qualche rilievo il fatto che per entrambe le parole si dia il doppiosenso di ‘organo sessuale femminile’ (per lattuga cfr. GDLI VIII 8333 con un solo esempio da Sercambi; per prezzemolo cfr. V. Boggione e G. Casalegno, Dizionario del lessico erotico, Torino, UTET, 2000, p. 440).

45 N. Machiavelli, Mandragola cit., p. 44. 46 Si vedano in tal senso i vari esempi nei quali l’aggettivo è preceduto dal sostantivo

virtù o facoltà in GDLI XVI, 9362 e in particolare l’accezione che più s’attaglia al nostro contesto, quella di facoltà ‘che trattiene e custodisce il feto’ (allo stesso punto con un solo esempio da Pietro Ispano, Volgarizzamento d’un libro di medicina intitolato tesoro dei po-veri).

47 Dove matricola vale ovviamente ‘utero’ (cfr. GDLI IX, 936 s.v. matrice).

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parla latino solo una volta: «la composizione [...] opera ad ristaurandum matricula mulieri» (8v).

Proverbi e locuzioni peregrine, insieme a una spruzzata di latinorum, concorrono dunque a restituire in veneziano l’esibizionismo linguistico di Nicia nel suo aspetto più evidente; del personaggio di Machiavelli si perde però quasi del tutto la forte propensione alla scatologia, spec-chio della sua «cieca malizia» e del «fondo aggressivo e cattivo della sua anima» 48. Unico elemento resistente anche nella Pozione è il disprezzo nei confronti della giovane moglie, umiliata con similitudini bestiali (a c. 5v è assimilata a una vacca sterile che rovina i suoi proprietari) e trattata sbrigativamente alla stregua di un oggetto (c. 10r: «No sas-tu zò che xe le donne? Dai un schiaffo e una bona parola, le te lica infina i pantofoli») 49. Di Nicia, «ridiculus senex [...], suspiciendae prolis tam stolide quam sini-stre cupidus» secondo le parole di Giovio 50, sopravvivono dunque la stol-tezza e la dabbenaggine («stolide») ma non la crudeltà («sinistre»); in De-spontao è invece preminente una dimensione malinconica del tutto estra-nea al personaggio di Machiavelli e vicina piuttosto a quella di Nicomaco nella Clizia e di certi vecchi padri dell’ultima produzione ruzantiana 51.

48 G. Sasso, Considerazioni sulla «Mandragola» (1980), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, III, pp. 47-122: 104 e 106: «In realtà, non occorre scomodare la psicanalisi per capire che il ricorso ai modi scatologici rivela il fondo aggressivo e cattivo della sua anima; e lo skw'r è infatti la merce con la quale egli ricambia il mondo, che odia; il mondo nei confronti del quale si sente in credito, e che, pagato così, è ben pagato».

49 La seconda parte della battuta («Dai uno schiaffo e una bona parola, le te lica in-fina i pantofoli») sembra però denunciare con la forma verbale dai ‘dalle’ e il femminile plurale in -i pantofoli la propria estraneità linguistica al veneziano di Despontao. È possi-bile che le parole addebitate al vecchio facessero parte di una battuta di Garganio (forse proprio la successiva) e siano state attribuite a Despontao per via di un errore occorso du-rante la composizione tipografica.

50 Fragmentum trium dialogorum Pauli Jovii Episcopi Nucerini, in A. Tiraboschi, Sto-ria della letteratura italiana, tomo VII, parte VII (dall’anno MD all’anno MDC), Venezia, a spese di Giuseppe Antonelli – Tipografia Molinari, 1824, tomo XXIII, pp. 2251-2319: 2282-2283 (Tiraboschi dichiara di aver ricevuto il frammento, mutilo all’inizio e alla fine, da Giambattista Giovio); il passo è ricordato da G. Sasso, Postille alla «Mandragola». I. «Verrucola-carrucola» (1980), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi cit., III, pp. 123-128: 123.

51 Sul legame tra la Clizia e l’ultimo Ruzante – compresa l’affinità nella caratteriz-zazione del personaggio del vecchio – cfr. P. Vescovo, Machiavelli, Ruzante: due ritorni a

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4. Trasferendo a Garganio la parte di Ligurio, Calmo aderisce a una tra-dizione destinata a essere soppiantata, che vede nel bergamasco un perso-naggio proverbialmente furbo e ingegnoso, e al limite persino altamente istruito (si pensi al maestro Francesco nella Pastoral di Ruzante). Anche nelle commedie precedenti, salvo che nel Saltuzza, i personaggi che par-lavano bergamasco avevano poco a che vedere con lo Zanni sciocco e af-famato o con il facchino sprovveduto, e non ne condividevano la condi-zione di subalternità sociale: nella Rodiana si trattava di un negromante, nel Travaglia addirittura di un precettore dal cuore tenero che faceva sfoggio di un latino non troppo sgrammaticato. Dal punto di vista tipo-logico i personaggi bergamaschi di Calmo sfuggono dunque quasi intera-mente all’irrigidimento che prelude in qualche misura alla fissazione della maschera zannesca. Ma anche dal punto di vista linguistico il bergamasco delle commedie calmiane è nettamente distinto da quello che si potrebbe chiamare con più di un’approssimazione «bergamasco dell’Arte» 52: non

Plauto (2005), in Id., Il villano in scena. Altri saggi su Ruzante, Padova, Esedra, 2006, pp. 93-103.

52 Non sono molti i lavori dedicati al bergamasco teatrale cinquecentesco: cfr. anzi-tutto per Ruzante l’eccellente Paccagnella, che contiene alle pp. 124-131 un accurato spo-glio linguistico e alle pp. 140-212 le concordanze del bergamasco ruzantiano; per Giancarli sono da vedere le ottime osservazioni raccolte in G.A. Giancarli, Commedie. La Capraria – La Zingana, a c. di L. Lazzerini, Padova, Antenore, 1991, pp. 471-472; per Calmo, limi-tatamente al Saltuzza, gli appunti in Il Saltuzza cit., pp. 207-211. Fanno il punto su un testo comico meno noto risalente alla fine degli anni Trenta, la Comedia nova d’Amore di Fausto Redrizati, i due lavori di A. Comboni, Una commedia trilingue della prima metà del Cin-quecento, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Milano, Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori, 1996, pp. 135-149 (alle pp. 145-149 è pubblicata senza commento l’apologia di Amore pronunciata dal Rustico bergamasco) e Id., La parte del bergamasco nella «Comedia nova d’Amore» di Fausto Redrizzati, in «Letteratura e dialetti», I, 2008, pp. 97-106 (alle pp. 104-106 edizione con commento linguistico dei due sonetti che chiudono l’apologia testé ricordata). Le osservazioni che si proporranno di séguito sono frutto di alcuni spogli personali condotti su edizioni antiche o su affidabili edizioni moderne. Quanto all’analisi linguistica di questo genere di testi P. Spezzani, L’«Arte rappre-sentativa» di Andrea Perrucci e la lingua della commedia dell’arte cit., pp. 144-145 insisteva sulla difficoltà di «ricostruire [...] il differente grado di stilizzazione dialettale interna dei singoli dialetti delle maschere e cioè il differente aspetto che assume il dialetto delle singole maschere di volta in volta in testi teatrali (scritti) di aree geografiche e convenzioni teatrali diverse»; ancor prima M. Brahmer, La comédie polyglotte (XVIe-XVIIIe siècles), in Actes du Xe congrès international de linguistique et philologie romanes, a c. di G. Straka, Paris, Klincksieck, 1965, I, pp. 373-383 osservava che «le dosage et l’authenticité des formes dia-lectales sont donc, selon le cas, très différents et il faudrait une étude détaillée, basée sur

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c’è dubbio infatti che in quel processo evolutivo, già indicato da Maria Corti, per il quale «quanto il dialetto acquista in estensione, perde in con-centrazione» i nostri testi rappresentino una situazione intermedia 53.

Un’auspicabile raccolta della produzione facchinesca tra Quattro e Cinquecento dovrà rendere conto dei diversi gradi di fedeltà, stilizzazione e deformazione linguistica ravvisabili nel bergamasco di questi prodotti: da quello corposo e anche documentariamente notevole delle prime te-stimonianze quattrocentesche (i sonetti di Giorgio Sommariva, gli stram-botti del Capponiano 193, il Mariazo estense studiato per primo da Giu-lio Bertoni) 54, a quello ben riconoscibile nei suoi tratti essenziali che ca-

la dialectologie historique, pour en saisir toutes les nuances, n’oubliant pas les incertitudes de la graphie et les fréquents fautes d’impression» (p. 379). In effetti il lavoro è in attesa di essere fatto, e lo stato dell’arte è in sostanza ancora quello enunciato da Ciociola, p. 164: «Pur trattandosi dell’aspetto più accessibilmente divulgato, anche in zona extraspecialistica, della fortuna del bergamasco, quello della sua funzionalizzazione parodico-espressiva resta, a nostro avviso, il carattere meno organicamente descritto: desiderandosi perfino il pur im-prescindibile censimento delle ricche e disperse fonti».

53 Corti, p. 275. 54 Dopo l’edizione data da G. Fabris, Sonetti villaneschi di Giorgio Sommariva poeta

veronese del secolo XV, Udine, Tipografia Domenico Del Bianco, 1907, pp. 30-32, i sonetti bergamaschi del Sommariva – datati al 1462 dall’unico importante testimone, il codice Ot-telio 10 della Biblioteca civica «Vincenzo Joppi» di Udine – si leggono ora in M. Milani, Antiche rime venete, Padova, Esedra, 1997, pp. 96-101, purtroppo però privi di commento e accompagnati soltanto da una traduzione a piè di pagina. Si deve tener conto poi che Andrea Comboni ha indicato fin dal 1989 un altro testimone dei sonetti veronesi del Som-mariva nel codice Vaticano Rossiano 1117: vedi A. Comboni, Dittico «villanesco», in Studi in onore di Ugo Vaglia, Brescia, Ateneo di Brescia – Accademia di Scienze, Lettere ed Arti (Stamperia F.lli Geroldi), 1989, pp. 19-27 e Id., Una nuova antologia poetica del Feliciano, in L’“antiquario” Felice Feliciano veronese. Tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro, a c. di A. Contò e L. Quaquarelli, Padova, Antenore, 1995, pp. 161-176. Oltre ai tre sonetti bergamaschi del Sommariva (alle cc. 276r-v e 305v), il codice Ottelio contiene a c. 302r an-che il pluritestimoniato sonetto «Maduna i sum i(n)amorà de vu sì fis» (do l’incipit secondo la lezione dell’Ottelio), che è stato copiato pure nel Rossiano 1117: su di esso v. le altre indicazioni reperibili in Ciociola, p. 167 e note 82 e 83. La mattinata del Capponiano, pro-babilmente risalente agli anni Novanta del Quattrocento, è stata studiata ed edita in Corti: lì stesso (p. 275 nota 10) è segnalata una corona di cinque sonetti bergamaschi tramandata da un incunabolo della Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II di Roma e essa pure ancora in attesa di essere pubblicata con le cure adeguate (ma vedi intanto Ciociola, p. 16 e nota 78 per la menzione di altri testimoni e pp. 168-169 per qualche assaggio sulla corona). Del Mariazo estense si veda la segnalazione in G. Bertoni, «Mariazo a la fachine-sca», in «Giornale storico della letteratura italiana», LXI, 1913, pp. 41-46, quindi l’edizione diplomatica in Id., «Mariazo a la fachinesca», in Poeti e Poesie del Medio Evo e del Rina-scimento, Modena, Orlandini, 1922, pp. 233-243: 241-243 (per altri rinvii bibliografici v.

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ratterizza la commedia dialettale mediocinquecentesca e un’abbondante produzione popolareggiante che s’infittisce dal terzo decennio del secolo (contrasti, viaggi, lamenti) 55, fino a quello rarefatto e orecchiato imposto

Ciociola, p. 164 nota 73). Il codice che testimonia il mariazo ha cambiato segnatura dopo i lavori di Bertoni: si tratta dell’attuale Italiano 952 della Biblioteca Estense Universitaria di Modena (ex a. S. 9. 18.), nel quale il testo bergamasco si legge alle cc. 48r-48v. La maggior parte del manoscritto è di argomento astrologico e matematico; solo le ultime carte, rima-ste bianche, sono state impiegate per la trascrizione di testi poetici: salvo errore, l’unica data che si legge nel codice si trova a c. 43r, dove iniziano degli Amaistramenti di regole p(er) dilecto datati 1491 die 9o Augusti.

55 Per l’edizione di testi alla bergamasca collocabili approssimativamente nella prima metà del Cinquecento sono da vedere anzitutto alcuni lavori di Ivano Paccagnella, che ha pubblicato vari pezzi tramandati dal codice Marciano Italiano XI 66 (= 6730): in Id., Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 179-231 sono pubblicati La devota oratió del beat Cresimà e Le sentencie perse (si tenga ben presente poi la nota 119 delle pp. 219-220, che contiene un ampio regesto di testi ber-gamaschi custoditi alla British Library e alla Biblioteca Nazionale Marciana); più recente-mente vedi Id., Egloga interlocutori un bergamasco e un zentil homo venician dananti de monsignor Papa menestra, in Antichi testi veneti, a c. di A. Daniele, Padova, Esedra, 2002 (= «Filologia veneta» VI), pp. 197-205 e L. D’Onghia «Frotola de tre vilani» bergamasca (1527), in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», VIII, 2005 [ma 2007], pp. 187-206. Di notevole interesse sono pure il Contrasto de uno Fiorentino & uno Bergamascho risalente ai primi decenni del Cinquecento (Londra, British Library, C 57 l 7 3), ancora privo di un’edizione ma esaminato da Ciociola, pp. 169-170; e la maitinada bergamasca che chiude le stampe della Massera da bé (G. dagli Orzi, La massera da bé, a c. di G. Tonna, Brescia, Grafo, 1978, pp. 251-268; sulla lingua del poemetto, esclusa però la mattinata, v. Toma-soni Massera). Val la pena di precisare qui almeno di passata un fatto piuttosto rilevante che sembra essere sfuggito a quanti si sono occupati della Massera da bé: l’edizione bre-sciana ritenuta la più antica (B), datata dal colofone 1554 e custodita alla Biblioteca Queri-niana di Brescia con la segnatura Cinquecentine II 12, è in realtà solo la riproduzione più tarda – collocabile alla fine del XVI se non già all’inizio del XVII secolo – di una stampa originaria risalente al 1554 (forse la princeps). Lo testimoniano la dicitura del frontespizio Con licenza de’ Superiori (diffusa in genere non prima degli ultimi due decenni del Cin-quecento), la modesta qualità tipografica del prodotto (in special modo la fattura di alcuni caratteri), e soprattutto gli interventi censori che si riconoscono qua e là: agli ultimi tre versi del secondo strambotto l’edizione B legge per esempio «[...] quei tetò, / C’hai m’hà passat ol cur cò li rais, / ch’al par che siaghi apres al tò bel vis» (c. EIr), mentre l’edizione veneziana senza indicazioni di editore del 1565 (V) conserva una lezione indubbiamente precedente leggendo «[...] quei tetò, / Chai ma pasat ol cul co li rais, / chal par cha seghi in gloria in paradis» (c. C5v dell’esemplare della Biblioteca Queriniana di Brescia segnato Cinquecentine EE 27; in entrambi i casi ho trascritto fedelmente). A ciò si aggiunga che gli editori responsabili di B sono gli eredi di Giacomo Turlino: Giacomo e Policleto Turlino erano subentrati al padre Damiano dopo il 1570; alla morte di Giacomo, di cui si ignora la data, l’azienda di famiglia fu retta fino alla fine del secolo dal fratello Policleto, ed è probabile che gli eredi di Giacomo operassero dunque contemporaneamente allo zio Poli-

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a partire dalla seconda metà del Cinquecento dalla commedia professioni-stica, coagulatosi nella maschera dello Zanni e testimoniato a distanza di secoli ancora dagli Arlecchini goldoniani 56.

Com’è ovvio quella accennata non è semplicemente la linea che si muove da una maggiore a una minore genuinità linguistica del bergama-sco letterario: talune oscillazioni si osservano anche nei testi documentari a nostra disposizione ed è chiaro poi che un’importanza cruciale va at-tribuita sia all’effettiva abilità mimetica dei singoli autori – straordinaria doveva essere quella di Ruzante – sia al passaggio in tipografia, che non si può credere privo di conseguenze. Cosa sarà successo, per esempio, al testo bergamasco di un comico dell’arte mantovano messo in forma da un compositore probabilmente laziale? 57

cleto nell’ultimo quarto del secolo o addirittura più tardi all’inizio del Seicento (v. U. Ba-roncelli, Editori e stampatori a Brescia nel Cinquecento, in Studi di biblioteconomia e storia del libro in onore di Francesco Barberi, Roma, Associazione Italiana Biblioteche, 1976, pp. 97-107: 106-107). V si candida dunque a essere ritenuta l’edizione più affidabile, tanto più che anch’essa dipende dichiaratamente da quella perduta del 1554 (si veda il colofone di c. E6v). Limitatamente alla maitinada, la miglior qualità di V è chiara anche dal punto di vista linguistico: nel solo primo strambotto si oppongono olta vos (V) ad alta vos (B) al v. 2; vet (V) a vent (B) al v. 3; nog (V) a not (B) al v. 3; quat (V) a quant (B) al v. 4. Si vede bene che le forme meglio caratterizzate sono sempre quelle testimoniate da V.

56 Restano valide le osservazioni di P. Spezzani, L’«Arte rappresentativa» di Andrea Perrucci e la lingua della commedia dell’arte cit., pp. 145-146, che individua nel bergama-sco dello Zanni e nel dialetto padano del Dottore esempi di lingue sceniche connotate en-tro certi limiti sul piano fonetico e morfologico ma poverissime sotto il profilo del lessico, in opposizione, ad esempio, al «dialetto napoletano di Pulcinella e Coviello, infinitamente più ricco, rispetto al bergamasco, di note idiomatiche soprattutto di tipo plebeo» (p. 146). Anche più avanti (p. 148), è ribadito che «il dialetto dello Zanni ha quindi caratteristiche analoghe a quello del Dottore (tratti fonetici e morfologici ben evidenziabili e pochissimi clichés lessicali, come il comunissimo negotta)». La maggior fedeltà linguistica che si ri-scontra nelle parti napoletane può avere la sua origine nella prassi teatrale coeva, che ri-servava quelle parti solo a parlanti nativi: «Parti napoletane [...] son proprie solo di chi è nato in quel paese», osservava nei Frutti delle moderne comedie et avisi a chi le recita (1628) il celebre attore ferrarese Pier Maria Cecchini (1563-1645), che portò alla ribalta la maschera zannesca di Frittellino (la citazione in M. Brahmer, La comédie polyglotte cit., p. 377; su Cecchini cfr. la biografia di Ferdinando Taviani in Dizionario biografico degli Ita-liani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, XXIII, pp. 274-280 e P.M. Cecchini, Le Commedie. Un commediante e il suo mestiere, a c. di C. Molinari, Ferrara, Bovolenta, 1983, soprattutto l’ampia Prefazione alle pp. 5-44).

57 Non si tratta di un exemplum fictum, ma di quel che potrebbe essere effettivamente accaduto per il Pantalone impazzito del mantovano Francesco Righelli, commedia stampata a Viterbo nel 1613 cui si accenna più sotto.

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A quanto detto fin qui va aggiunto un ultimo fenomeno, più sfug-gente e difficile da studiare, ossia la progressiva fissazione di una lingua arlecchinesca in cui si assiste alla contaminazione della base bergamasca ora con il veneziano, ora con una più generica patina settentrionale. Al capolinea di un processo simile potrebbe figurare con tutti gli onori il grammelot di Dario Fo, oggetto di alcune penetranti osservazioni di Gian-franco Folena, che vi ha scorto

una fricassea di dialetti non solo continuamente commutati nella successione sin-tagmatica, ma espressionisticamente deformati e compenetrati al livello morfema-tico, nella stessa parola. Mescidando elementi volgari vivi del suo lombardo occi-dentale e di altri dialetti dell’area settentrionale padana lombardo-veneta, talora friulana, area che è stata sempre la sede privilegiata di esperimenti pluridialettali e maccheronici, con elementi arcaici derivati da questo dominio, addirittura con grafie libresche, Fo ha voluto ricreare, come lingua giullaresca itineraria e pro-letaria, e insieme come «lingua di classe», una sorta di versipelle iperdialetto o pandialetto romanzo norditaliano, diatopico e diacronico, retrodatandolo a un Medioevo immaginario che è metafora della violenza feudale e della prevarica-zione sociale e ideologica 58.

58 G. Folena, Dalle lingue della commedia alla commedia della lingue cit., p. 120. No-tevole, perché verificabile sull’asse della diacronia, anche il progressivo annacquamento in direzione veneziana della lingua di Arlecchino nelle commedie di Goldoni: cfr. P. Spez-zani, L’«Arte rappresentativa» di Andrea Perrucci e la lingua della commedia dell’arte cit., pp. 176-179, soprattutto la nota 58. Accostabile in certa misura al grammelot è da ultimo anche la lingua dell’Arlecchino Claudia Contin, che teorizza apertamente la commistione dialettale: «l’incontro tra il regista bergamasco [Ferruccio Merisi] e l’attore friulano-veneto ha permesso di ridefinire anche le cadenze, i modi di dire e la musicalità della parlata dia-lettale di Arlecchino, che (anch’essa come il suo costume) si è venuta a comporre come un “mosaico” di tre dialetti (o lingue) differenti, innestati sulla base originale, che era stata im-prontata su di un antico Italiano Volgare cinquecentesco. La parlata esclusivamente veneta non si adatta alla maschera di Arlecchino, la cantilena melodica del veneziano va cadenzata con il ritmo tronco del bergamasco, con i suoi modi di dire, i suoi intercalari. D’altra parte il veneziano stempera la chiusura sillabica, altrimenti incomprensibile a molti, del dialetto bergamasco stretto. Alcuni tocchi qua e là di un friulano maccheronico dedicato a Menoc-chio, contribuiscono nascostamente ad “imbastardire” il linguaggio di questo personaggio un po’ vagabondo e senza fissa dimora. Non ci si deve spaventare dunque per gli sposta-menti di accenti, gli scambi di doppie e consonanti all’interno delle parole, l’uso di termini coloriti e reinventati: queste licenze grottesche (se non poetiche) sono di pertinenza della Commedia dell’Arte sin dai tempi in cui doveva farsi comprendere ed esportarsi come tea-tro itinerante e costituiscono un succoso cocktail di efficace comunicazione contenutistica che precede l’invenzione tutta ritmico-musicale del grammelot» (C. Contin, Il MonDologo

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Ma veniamo al bergamasco parlato da Garganio nella Pozione, piutto-sto ben caratterizzato, seppure in presenza di numerose oscillazioni e di forme talora francamente estranee al bergamasco. Nella sommaria descri-zione che segue, sul modello del lavoro di Paccagnella dedicato al berga-masco ruzantiano, si presterà attenzione ai fatti maggiormente caratteriz-zanti 59.

Vocalismo

(I) Evoluzione é > i 60: intis (4v), guagnili ‘vangelo’ (4v), volivi (5v), podiva (10v), con probabile riflesso su infiniti come havì’ (4v, 5r, 6r, 7r, 7v), savìs (6v), volì’ (8v), dove però può trattarsi altrettanto plausibilmente di metaplasmo.

(II) Notevole la forma dell’articolo indeterminativo femminile ina (5r due volte, 8r, 10r) 61.

(III) La caduta delle vocali atone finali (generalizzata in bergamasco salvo che per i morfemi femminili -a e -i < AE e per -i risultato della riduzione di -LÏ) ha qui parecchie eccezioni 62: Rospo (4v, 11r), verbo (5r), fatto (5r), presen-tado (6v), corpo (6v), tanto (7r), eccellento (7v; dove la vocale finale è frutto di conguaglio con gli aggettivi maschili di prima classe), fallo (9r), vigilanto ‘vigilando’ (11r), amigo (9v due volte), orbo (10v), forte (10v), sangue dolzo (11v: contro dolz 7r); nella serie di maschili plurali comandi (6r), ducati (6v), satisfadi (7r), tradimenti (9v), vivi (9v), vegnudi (9v), mascaradi (9v), confor-

di Arlecchino. Spettacolo comico grottesco per anime perse, Pasian di Prato – UD, Campa-notto, 2001, pp. 62-63).

59 Rinvio tra parentesi tonda al numero di carta dell’editio princeps: l’esemplare impie-gato per lo spoglio è quello custodito alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia con segnatura Dramm. 245.3.

60 Cfr. Contini, p. 1206 punto 4; Ciociola Lauda, p. 65 punto 7; Tomasoni Antica lin-gua, p. 239 punto 12; Paccagnella, p. 126; S. Buzzetti Gallarati, Una «Passione» inedita di tradizione bergamasca, in «Studi di filologia italiana», XLIII, 1985, pp. 7-44: 23 punto I.

61 Cfr. A. Calmo, Il Saltuzza cit., p. 208 punto 1 e nota 4, dove sono allegati vari al-tri esempi di ina in testi calmiani. Forme simili, rintracciabili anche più a occidente come nel mantovano antico, sembrano dovute all’oscillazione altrove osservabile tra an/in e un/in protonici e all’influenza analogica di in- prefissale (così G. Ghinassi, Nuovi studi sul volgare mantovano di Vivaldo Belcalzer, in «Studi di filologia italiana», XXIII, 1965, pp. 19-172: 130); un altro esempio di ina si trova probabilmente anche più tardi in un testo milanese stampato nel 1624, il Cheribizo. Somario de tutte le professioni & arte milanese, che si legge ora in D. Isella, Lombardia stravagante. Testi e studi dal Quattrocento al Seicento tra lettere e arti, Torino, Einaudi, 2005, pp. 127-154 (ina pare da restaurare al v. 42, e si veda in que-sto senso la recensione di L. D’Onghia in «La lingua italiana», II, 2006, pp. 174-180: 177 nota 1).

62 Cfr. Contini, p. 1206 punti 8 e 9; Paccagnella, p. 127.

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tini (10r, dove ci si aspetterebbe a rigore anche la caduta di n), indormenzadi (11r), folesteri (11v).

(IV) Femminili plurali in -i, ben rappresentati e con poche eccezioni 63: volti (5r), cosi (6v), carezzi (7r), cerimonij (7v), operi (7v), fadig[h]i (8r), personi (8v), le-tri (10r), montagni (11r), ori (11r; contro ore 6v, 10r).

(V) Riduzione a -i del gruppo -io < -IUM 64: guagnili ‘vangelo’ (4v), Gargani (7r), mei ‘meglio’ (7r), famei ‘famiglio’ (7r), travai (7v), consei (8v), propi (9r).

(VI) Frequente inserzione di e anaptittica 65: voster (4v due volte, 6r, 6v, 7r, 7v, 8r), noster (5r, 7v), veter (6r), pader (6v), olter (7r, 9v due volte), talmeter (7r), firem (8v), quattro volte (11r).

(VII) é protonica > i 66: misser (4v, 7r tre volte, 7v, 9v, 10v, 11r, ma messer 5r).

Consonantismo

(VIII) Assordimento della consonante sonora riuscita finale, che coinvolge quasi solo il clitico di quinta persona e la desinenza del condizionale 67: bif ‘bere’ (5r: dove passa al grado sordo la spirante secondaria); faf ‘farvi’ (4v, 6r, 9r), nof ‘non vi’ (5r, 6r, 8v), chef ‘che vi’ (5r, 6v), tref ‘tiratevi’ (5r), tornaf ‘resituirvi’ (6r), scortegaf (9v), sif ‘siete voi’ (12r); pagheref (5r), faref (5r), saref (7r), besognaref (9v), voref (11r), vigneref (11v); ma a’ ve (6v), e’ ve (7v).

(IX) Riduzione di -LÏ a -i 68: pericui (5r, e v. il sing. pericol 11r), fioi maschoi (5r, 6v, 7v, e v. i sing. fiol 5r, mascol 6r, mascolet 5r), anemai (7r), manzoi (7r); si-milmente da -LLÏ in cavei (6v), budei (10v).

(X) Conservazione di PL iniziale 69: plù (5r due volte, 8r, 9v, 10v), ma pì (9r: forma spiccatamente pavana), pias (10v).

63 Cfr. Contini, p. 1206 punto 8; Ciociola Lauda, p. 65 punto 1; Tomasoni Liberzolo, p. 89 punto 39; Tomasoni Massera, p. 103 punto 8; Tomasoni Antica lingua, p. 238 punto 1; Paccagnella, p. 125; Tomasoni Volgare, p. 10 punto 1.

64 Cfr. S. Buzzetti Gallarati, Una «Passione» inedita di tradizione bergamasca cit., p. 27 punto 17 e rimandi raccolti in nota; Tomasoni Antica lingua, p. 240 e in Tomasoni Liber-zolo 93 una forma come presi ‘prezzo’.

65 Cfr. Contini, p. 1206 punto 9; Ciociola Lauda, p. 65 punto 2; Tomasoni Liberzolo, p. 86 punto 18; Tomasoni Antica lingua, p. 238 punto 2; Paccagnella, p. 125; Tomasoni Volgare, p. 10 punto 2.

66 Cfr. Tomasoni Antica lingua, p. 241. 67 Cfr. Contini, p. 1208 punto 25. 68 Cfr. Contini, p. 1206 punto 9; Ciociola Lauda, p. 71; Tomasoni Liberzolo, p. 87

punto 27. 69 Cfr. Contini, p. 1207 punto 15; Ciociola Lauda, p. 65 punto 3; Paccagnella, p. 125;

Tomasoni Volgare, p. 11 punto 3.

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(XI) Compattamente rappresentata, seppure con qualche eccezione, la caduta di -n riuscita finale a séguito di apocope vocalica 70: bé (4v due volte, 5r due volte, 6r, 7r, 7v, 8v, 11v, 12v), vé ‘viene’ e ‘vieni’ (9v, 10v, 11r), patró (4v, 5r, 6r, 7r, 9r), babuì (12r), bó (7r, ma bon 8r), cantó (7v), compagnó (9v), baró (9v), perfetió (10r), rasó (10r), potió (11r), murló (11v), mà ‘mani’ (5r, 10r), fradellì (7r, 10v), grà (8v) 71, vilà (9v), lontà (10v), domà (12r); qualch’ú (5r), ú (5r tre volte, 5v, 6r, 8v, 9r, 11v due volte), ognú (7r) contro un (5r, 6r, 10r, 10v), d’un (6v); só (6v, ma son 4v, 6r).

(XII) Senza eccezioni l’apocope sillabica che colpisce gli infiniti verbali piani: faf ‘farvi’ (4v, 6r, 9r), havì’ (4v, 5r, 6r, 7r, 7v), mangià’ (5r), andà’ (5r, 7v, 10v, 10v, 12r), arecordà’ (5r), conseià’ (5r), fa’ (5v, 7r due volte, 8r due volte), fai ‘fargli’ (7r), guardà’ (5v, 10r), dà’ (5v), tornaf ‘resituirvi’ (6r), trovà’ (6v), con-danà’ (6v), governà’ (6v, 8v, 9v), savìs ‘sapersi’ (6v), periculà’ (6v), portai ‘por-targli’ (7r), guadagnà’ (7r), chiamà’ (7r), sugolà (7r), parlai ‘parlarle’ (7r), caval ‘cavarlo’ (7v), pagà’ (7v), chigà’ (8v), volì’ (8v), scortegaf ‘scorticarvi’ (9v), dai ‘darle’ (10r), vegnì’ (10v), dubità’ (10v), consolà’ (10v), guardà’ (11r), derocà’ (11r), pial ‘prenderlo’ (11v), confortà’ (12r), dormì’ (12r). Normali, per infiniti sdruccioli, le forme ridotte bif ‘bere’ (5r) ed es ‘essere’ (11r) 72.

(XIII) La caduta di n postonica prima di t è pressoché assente nel bergamasco della Pozione 73: si hanno infatti valent (4v, 9v), content (4v), parlament (5r, 6v), espediment (6r), quant (7v, 8r), tant (8v), apont (12r) e i già segnalati tanto (7r), eccellento (7v), vigilanto (11r), tradimenti (9v), doppiamente notevoli per-ché conservano anche la vocale finale. Di contro gli isolati veter ‘ventre’ (6r), talmeter ‘talmente’ (7r; dal tipo avverbiale in -mentre saldo nell’Italia setten-trionale, con successiva inserzione di e anaptittica per cui v. punto VI), mar-

70 Cfr. Contini, p. 1207 punto 17; Corti, p. 285; Ciociola Lauda, p. 65 punto 4; To-masoni Liberzolo, p. 88 punto 30; Tomasoni Antica lingua, p. 238 punto 3; Paccagnella, p. 125; Tomasoni Volgare, p. 11 punto 4.

71 Non credo che le due occorrenze di gra’ recate dal manoscritto Laurenziano Ashburnham 1178 nel testo pubblicato da L. Borghi Cedrini, Un altro inedito di tradizione bergamasca, in «Studi di filologia italiana», XLV, 1987, pp. 63-92, possano essere addebitate alla «caduta di n postonica + dentale» (p. 86 punto 6): sarebbe ingiustificabile infatti la ca-duta della dentale oltre a quella della nasale, e ci si aspetterebbe dunque grad, del resto effettivamente documentato (P. Tomasoni, Ritornando a un’antica «passione» bergamasca, in «Studi di filologia italiana», XLII, 1984, pp. 59-107: 80 punto 10). Sembrerebbe più op-portuno supporre quale forma di partenza gran, con la consueta caduta di -n.

72 Cfr. in L. Borghi Cedrini, Un altro inedito di tradizione bergamasca cit., p. 86 punto 1 la segnalazione dell’analogo prent ‘prendere’.

73 Contini, p. 1208 punto 17; Ciociola Lauda, p. 65 punto 9; Tomasoni Massera, p. 107 punto 18; Paccagnella, pp. 126-127. Tomasoni Lingua antica, p. 239 punto 8 rileva nel suo testo una «grande maggioranza [di esempi] del tipo conservativo», nei quali la nasale è intatta.

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cadegh ‘mercante’ (7v) 74; a parte va ach ‘anche’ (7r due volte), che si riscontra pure nel bergamasco di Ruzante e nel quale la caduta di n si verifica prima di velare sorda (contrariamente a quanto accade in manch 6v, cancar 9r) 75.

(XIV) Disomogeneo il quadro degli esiti di CT, che nel bergamasco ha esito pa-latalizzato /c#/, di norma indicato con g o gh 76: emblematica la situazione de-sumibile dalle battute di c. 5r, dove occorrono a poca distanza l’uno dall’al-tro fat (con lo stesso esito dei participi in -ATUM), digh (con grafia che attesta palatalizzazione) e fatto (senza palatalizzazione e con conservazione almeno grafica sia della vocale atona finale sia della geminata). Senza palatalizzazione sono fatt (6v), nott < NOCTEM (6r), not (10r), dit (7v), intellet (8r), respet (8r); la palatalizzazione di CT è testimoniata invece dai soli digh ‘detto’ (5r, 6v), fagh ‘fatto’ (9v) e, con un esito che non è però esclusivo del bergamasco ma pertiene a vaste zone della Lombardia, all’interno di parola in aspecchia (12r: il suono palatale è indicato con la grafia chi) 77.

74 Corrisponde al toscano mercadante, con passaggio di a protonico a e (S. Buzzetti Gallarati, Una «Passione» inedita di tradizione bergamasca cit., p. 26 punto 8; Tomasoni Massera, p. 103 punto 10), caduta di n postonico prima di dentale e palatalizzazione di -TÏ. La forma è già antica: v. la menzione di un Jacob marcadet in uno dei temi di traduzione pubblicati in G. Contini, Reliquie volgari dalla scuola bergamasca dell’Umanesimo (1934), in Id., Frammenti di filologia romanza cit., II, pp. 1213-1228: 1219 no 5; una forma singolare ma a quanto pare palatalizzata mercadech si trova poi nella parte bergamasca di A. Calmo, La Fiorina comedia facetissima, giocosa, et piena di piacevole allegrezza cit., p. 12; la forma marcadant nel bergamasco del Travaglia (v. più sotto il punto XIII dello spoglio relativo). Non credo si possa supporre, data la più tarda documentazione, una sovrapposizione gio-cosa con la forma eufemistica marcadèt ‘maledetto’ (cfr. A. Tiraboschi, Vocabolario dei dia-letti bergamaschi antichi e moderni (1873), ora in rist. anast. Bologna, Forni, 2002, p. 770 s.v. maladeto!; v. anche C. Salvioni, Fonetica e fonologia del dialetto milanese, a c. di D. Isella (1975), in Id., Scritti linguistici. I. Saggi sulle varietà della Svizzera italiana e dell’Alta Italia, a c. di M. Loporcaro, L. Pescia, R. Broggini, P. Vecchio, Locarno, Edizioni dello Stato del Cantone Ticino, 2008, pp. 326-371: 350 marcaditt ‘maledetti’); si noti del resto maledeg ‘maledetto’ per due volte negli strambotti editi in Corti, p. 288 (I.3 e II.5).

75 Cfr. Paccagnella, p. 127, dove sono registrati quattro esempi di cacar contro altret-tanti che conservano la nasale, e già in Corti, 285 un esempio di ac ‘anche’. Mancano nella Pozione esempi di caduta di n prima di affricata: v. per questo tratto di nuovo Corti, p. 285; i cronologicamente notevoli vergoza e denaz nei testi pubblicati rispettivamente da M. Corti, Una «Passione» lombarda inedita, in Studi in onore di Alfredo Schiaffini, Roma, Edi-zioni dell’Ateneo, 1965 (= «Rivista di cultura classica e medioevale», VII), I, pp. 347-363: 354, e da P. Tomasoni, Tornando a un’antica «passione» bergamasca cit., p. 80 punto 10; Paccagnella, p. 127 e A. Comboni, La parte del bergamasco nella «Comedia nova d’Amore» di Fausto Redrizzati cit., p. 105 punto 7.

76 Cfr. Corti, p. 285; Ciociola Lauda, p. 65 punto 10; Tomasoni Antica lingua, p. 239 punto 9; Paccagnella, p. 127.

77 Sull’uso di ch(i) con valore palatale sordo in testi d’area veneta cfr. G. Ghinassi, Incontri tra toscano e volgari settentrionali in epoca rinascimentale, in «Archivio glottologico

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(XV) Esito palatalizzato di -TÏ (mai di -DÏ come pure accade in vari testi più antichi) 78: marcheg ‘marchetti’ (10v) 79, ma ducati (6v), tradimenti (9v); in mar-cadegh ‘mercante’ (7v: v. nota 74) andrà riconosciuta una forma ipercaratteriz-zata o conguagliata sul plurale.

(XVI) Esito palatale di -NNÏ dei plurali 80: pagn (5r); qui per comodità può tro-vare collocazione anche omegn (11r), ma in questo caso si ha precisamente palatalizzazione di N scempia innanzi a -Ï dopo e atona 81.

(XVII) Il participio passato singolare non presenta, almeno apparentemente, la regolare alternanza -t (maschile) / -da (femminile) 82; spesseggiano invece forme, di dubbia valutazione fonetica, in -d: vegnud (5r), stad (6v, 11r, 12r), nominad (7v), offerid (7v), Despontad (5r, 7r due volte, 9v, 10v), metud (10v), masenad (11r), lagad (11v) e analogamente nei sostantivi partid (6v) e marid (10r; ma appetit 11r) e nei plurali maschili vegnudi (9v), mascaradi (9v), in-dormenzadi (11r) e satisfadi (7r, ma il caso è ambiguo perché si tratta, almeno logicamente, di un singolare: «ognù es porà chiamà’ satisfadi»); di contro i re-golari trovat (6r, 9r), dat (10v), spagnolada (5v), desconzada (8r), ubidida (8r), tirada (10r), sasonada (10r), buda (11v); isolata la forma presentado (6v), per la quale non è da escludere un influsso del veneziano.

Morfologia

(XVIII) Degna di menzione la ricorrenza quasi esclusiva della forma bergamasca ol sia per l’articolo (4v due volte, 5r quattro volte, 6r, 6v due volte, 7r due volte, 7v, 8v due volte, 9r due volte, 11r due volte; anche dol 5v, 10r e indol

italiano», LXI, 1976, pp. 86-100, soprattutto pp. 90-92, dov’è ricordato anche l’ochiover ‘ottobre’ citato da Dante nel De vulgari eloquentia per individuare linguisticamente «Me-diolanenses atque Pergameos eorumque finitimos» (D. Alighieri, De vulgari eloquentia, a c. di P.V. Mengaldo, in Id., Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, II, pp. 3-237: 94 e nota). Si confrontino con la nostra forma aspegeno e aspegano (dove g indica l’affricata pa-latale sorda) segnalati e discussi da L. Bertolini, Una redazione lombarda del «Purgatorio di S. Patrizio», in «Studi e problemi di critica testuale», XXXI, 1985, pp. 8-49: 15.

78 Cfr. Corti, p. 286, che lo giudica tratto «genericamente lombardo»; Ciociola Lauda, p. 65 punto 5; Tomasoni Antica lingua, p. 238 punto 5 e la nota 71, dove si ricorda che la peculiarità presenta una documentazione discontinua in molti testi bresciani e bergamaschi.

79 Segnalo che per il plurale marcheti (p. 78 § 29), Tomasoni Liberzolo, p. 92 suppone una forma di partenza femminile *MARCHETA, con il rinvio a Tiraboschi (dove però trovo solo marchèt: A. Tiraboschi, Vocabolario dei dialetti bergamaschi antichi e moderni cit., p. 770).

80 Cfr. Tomasoni Antica lingua, p. 238 punto 4; Tomasoni Volgare, p. 11 punto 5. 81 Cfr. Contini, p. 1208 punto 17. 82 Cfr. Paccagnella, p. 127.

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6r), che per il pronome (7r due volte, 9v); per contro due soli esempi di el pronome (7v, 8r) 83.

(XIX) Varie occorrenze di forme in -i della prima persona del presente indicativo per verbi di prima e seconda coniugazione: imprometi (4v), dighi (6r, 6v), re-spondi (6r), credi (11v), vaghi (12r) 84.

Invariabili

(XX) Notevoli chilò (4v, 6r); chiloga (10v); illò (12r); zà (4v, 5r, 8r); negota (6r, 7r, 10v).

Un sondaggio simile può essere ripetuto con esiti di qualche interesse sul bergamasco delle due commedie calmiane più ampie, Rodiana e Travaglia, limitando però i tratti considerati a una serie particolarmente rappresenta-tiva, costituita dai fenomeni III (trattamento delle vocali atone finali), IV (femminili in -i), X (conservazione di PL iniziale), XI (caduta di -n posto-nica), XII (apocope sillabica negli infiniti verbali piani), XIII (caduta di n in posizione postonica prima di t), XIV (esiti di CT), XV (esiti di -TÏ), XVII (participi passati), XVIII (forma dell’articolo determinativo) 85. Ecco i risultati dello spoglio:

(III) Caduta delle vocali atone finali. Rodiana: numerose le eccezioni con anno 91, monte 91, segni 91, fuogo 91, 119 (dove si noti anche il dittongo), tanto 95, palo grosso 109, grasso 109 (agg.), fatto 109, grandissimi e magni esperi-

83 Cfr. Contini, p. 1212; Corti, p. 287; Ciociola Lauda, p. 65 punto 12; Tomasoni Li-berzolo, p. 89 punto 41. In generale vedi N. Bertoletti, Articolo e pronome «o»/«ol» nei volgari dell’Italia settentrionale, in «L’Italia dialettale», LXV, 2004 [ma 2006], pp. 9-42 (p. 15 per la situazione del bergamasco).

84 Esempi simili sono rilevati in A. Calmo, Saltuzza cit., p. 211 e nota 21, dove è però da prendere con cautela il rinvio a E. Lorck, Altbergamaskische Sprachdenkmäler (IX.-XIV. Jahrhundert), Halle a.S., Niemeyer, 1893, p. 59: possibile piuttosto che il tipo voi ‘voglio’ lì esaminato (anche nella Pozione alle cc. 5r due volte, 5v, 12r e in L. D’Onghia, «Frotola de tre vilani» bergamasca (1527) cit., p. 205) sia stato il modello per queste voci. Più difficile che -i documenti, a quest’altezza cronologica e in testi riflessi, la riduzione del pronome enclitico di prima persona ad affisso, che pure contraddistingue attualmente vari dialetti dell’Italia settentrionale: cfr. su questo G. Salvi, La formazione della struttura di frase ro-manza. Ordine delle parole e clitici dal latino alle lingue romanze antiche, Tübingen, Nieme-yer, 2004, pp. 190-200.

85 Per la campionatura che segue mi servo dei testi critici stabiliti da Piermario Ve-scovo per entrambe le commedie (vedi le indicazioni alla nota 4). A ogni forma, riportata qui esattamente come si legge nelle edizioni citate, segue il numero di pagina.

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menti 109, soldadi ziganteschi 109, mistro 109, vostro comando 109, parto 111, corpo 111, 119, spettabilissimo 113, muodo 113 (si noti il dittongo), signàculi 115, aiuto 115, diavolini inspiritadi 115, inferno 115, pesto 115, santoni 117, lamento 117, omo tondo da poco 121, zorno 121, e la serie di plurali maschili zopi, verzi, gobi, storti, imberladi, groti 117, negromanti 119, segni e caràtei 119, spirti corozzadi 121 (e spirti 121); nelle voci verbali sbatte 107, vardando 111, perdoneme 107, 111, smorzeve 111, lagarve 121, farve 121; negli invaria-bili innanzi 109, bene 119. Travaglia: varie eccezioni con silogismi 66, attomi 66, savî greghi e romani 66, «semite» viziosi 70, sentèr speculativi, obscuradi 70, virtuosi negozî 70, frutti 70, questi [...] onori 72, preterito 72, pace 74, «tempus» moderno 116, i me antighi 176, bergamasco 176 (e la forma latineg-giante bergomense 260), spiriti 176, i canoni 178, sangue 178, vualtri zoveni 226, mori 258, maccometani 258, quatro 260, caro signor 282; in forme verbali come volendo 72, resta 74.

(IV) Femminili in -i. Il tratto è ben rappresentato in entrambi i testi con po-chissime eccezioni. Rodiana: paroi 91 (ma concordato con quest: «Che paroi è quest?»), 115 (concordato con queste), neghi ‘natiche’ 91, linii […] tribu-ladi 91, stufi 91, i personi 93, cosi 93, fadighi 93, operi 93, formighi […] dreti 109, quanti femeni 109, gnudi per gnudi ‘tutte nude’ 109, i terìboi cosi 111, i ossi 111, brazzi 111, animi danadi 115, spadi 115, bolati ‘bolle’ 117, luganighi 117, muneghi 119, i animi 119, erberi [...] brusadi 119, i budei 119; per con-tro cortelaze 115, manere 115. Travaglia: i curi amorosi 66, i causi 66, i cosi causadi 66, i creaturi [...] devini [...] umani 66, feguri 66, i personi inpastadi 66, dei personi 66, i scrituri 66, i brigadi 68, 72, grandi (grandi reprensió) 68, i so imbassadi 68, stradi lusenti 70, boni opperi 70, paroli inzucheradi 74, budei 74, gnàcari 114, i facendi 114, ai donni 114, forchi 116, i predi 116, i regoli 116, lagrimi 116 (in una citazione poetica non identificata dal commento: «de lagrimi, suspiri e di timori»), salvadesini 116, tutti i letri scienziali 176, i com-plensió ‘le complessioni’ 176, i creaturi 176, onzi ‘once’ 178, dai parti 178, i veni 178, i letri 226, i trami 226, tutti i personi creadi 260, paroli 260, paroli pongentissimi; ma idee 66, façende 260 (per contro v. sopra facendi 114).

(X) Conservazione di PL in posizione iniziale. Rodiana: plù 91, 119, 121 (ma pì 121), desplasì 121. Travaglia: plutost 66, plù 66, 116 tre volte, 260, pleni 70, plasí 70, 278; ma più 226.

(XI) Caduta di -n finale. Il tratto è meglio rappresentato nel Travaglia (dove si contano, salvo errore, solo cinque eccezioni). Rodiana: mà 91, 115, barò 93, no 93, 115 due volte, be 95, 109, 113, 115, 119 due volte, vì 107, domà 111, satisfaziù 113, zenocchiò 115, Liò 115, gra 115, Simò 115, boldò 117, polmò 117, descreziò 119, sconzuraziò 119, operaziò 119, fi 121, co 121 (ma con 91, 95, 107, 109, 113, 115, 117), benediziò 121, so 121, negù 121; ma bon 91, 95, 113, ben 91 due volte, 95, 107 tre volte, 115 (e bene 119), gran 91, 113, man 93, un 109, 121, son 109, vien 115. Travaglia: grà 66, 72, 262, gnà 66, Plattó 66, bé 66, 68 due volte, 74, 116, 226, bolzzó 66, conclusió 66 due volte, com-

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posizió 66, bó 66, 70, meschí 66, aczió 66, esplorazió 66, Raspó cognome ‘Ra-sponi’ 68, 260, reccomandazió 68, te’ ‘tiene’ 68, reprensió 68, ve ‘viene’ 68 e ve’ 72, no 68 e nu 114, nigú 68, teré mondà 70, u’ 70, tantolí 70, 116, 178, perdizió 70, dotorazió 70, discrizió 74, mà 74, 282, polmó 74, tentazió 116, pa-tró 116, 226, 260, 262, so 176 tre volte, 260, visió 176, complensió 176, desmo-strazió 176, oppinió 178, rasó 226, almé 228, cognizió 258, religió 258, sarasí 258, fantolí 260, passió 282; ma fin 66, ognun 278 e ogniun 282, orben 282 (qui anche maccometani 258, dove la caduta della nasale è inibita dalla con-servazione della vocale finale).

(XII) Apocope sillabica negli infiniti verbali piani; fenomeno rappresentato senza eccezioni nel Travaglia. Rodiana: dì 91 due volte, vedì 91 due volte, burlà 91 e così via per un totale di 57 esempi; quattro eccezioni: sconzurarve 115, veder 119, taser 121, far 121. Travaglia: di’ 66 e così via per un totale di 62 esempi senza eccezioni.

(XIII) Caduta di n postonica + dentale sorda. Fenomeno non rappresentato nei due testi (si forniscono dunque solo gli esempi in negativo); si hanno invece pochi casi di caduta di n prima della velare sorda. Rodiana: nient 91, 115, mont 93, zont 107, content 109, dent 109, avant 109, denter 109, 119, obedient 113, quant 115 due volte, 119 e con conservazione della vocale finale monte 91, tanto 95, lamento 117, negromanti 119; aca 93 ma cancher 91 due volte, 93, 115, 119 due volte, anch 91 (e anche 115), manch 109. Travaglia: sentiment 66, otrament 66, 260, talment 66, 226, altrament 68, reziment 68, patiment 72, desviament 74, denter 74, marcadant 116, cont 116, 176, quant 260, segurament 260; prima di velare in ach 114 due volte, 176, gniach 116, 226 due volte, aca 116; ma anch 66, 72, 178, 226, 258, cancher 114.

(XIV) Esito palatalizzato di CT; documentazione pressappoco assente nel Trava-glia. Rodiana: fag 91 e fac 119 due volte, satisfag 93; per contro despet 91, pat ‘patto’ 93, respet 95, 115 (plur.), fat 119, 121, fatto 109, respet 117 (plur.), dit ‘detto’ 119; probabile frutto d’ipercaratterizzazione, o di allineamento alla forma plurale, tug 91 e tuc 119 ‘tutto’ (contro i regolari tutt 115, tut 121). Travaglia: solo all’interno di parola aspechia 70 (forma già riscontrata anche nella Pozione, c. 12r) 86; per contro intellet 70, frutti 70, fat 72, suspet 260.

(XV) Esito palatalizzato di -TÏ: Rodiana: tug 109 e tuc 117 ‘tutti’ (e probabil-mente per estensione anche i plurali femminili tuc 109, tucheg 111, tug 119,

86 Non è inverosimile che altri due esempi di una forma analoga vadano scorti nella battuta II 117 di p. 116: «Va’ in mallammalora che Dé te dia, pozzàchera! che ’m chiami Archibius! E’ par che ’l sii la profondessa tentazió: “spiritus diabolicus, specchia, spec-chia”!». L’ultima parte è tradotta così (p. 117): «spirito diabolico, specchia specchia!»; ma potrebbe anche trattarsi di un’intimazione di Archibio al pestifero Garbin: «aspetta, aspetta (perché se ti raggiungo te la farò pagare)», tanto che nella battuta subito appresso (II 118) il ragazzino replica: «Sì, venite inanti, venite!».

Sulla «Pozione» di Andrea Calmo

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stag ‘state’ 119); manca in esperimenti 109, respet ‘rispetti’ 115, suspet ‘so-spetti’ 117. Travaglia: tug ‘tutti’ 66, 74, 258; manca nel plurale sentiment 66.

(XVII) Participi passati. Rodiana: sasonàt 91, corrozàt 91, instizàt 107, causat 107, vegnut 107, trovat 107, anegat 109, guarit 111, spolverizat 113, comenzàt 115, inamorat 115, desconzat 119, guadagnàt 119, segnat 121 e i femminili sing. go-vernada 113, inamorada 113 e plur. brusadi 119; ma mangià 109, e maschili plurali armadi 109, inspiritadi 115, corozzadi 121. Travaglia: dat 66, levat 66, desideràt 66, inamoràt 66, comperat 68, vegnut 72, mancat 74, brustolàt 74, tro-vat 114, intrat 116, escusàt 226, sentit 260, passat 260, vendut 260, trovat 260, ligàt 262, stat 282 e i femminili brancada 66, viscada 66, indorada 66, 70, 178, creada 70, supelida 74, clarificada 116, 260, indormenzada 176; ma infinido 66, desaviad 68, infiamad 74, informado 176, nassudi 176 (è singolare), straformad 258, uscid 260 e i plurali maschili cascadi 66, imbratadi 66, tornadi 70, recer-cadi 72, qualificadi 74, orladi e boladi 116, perdudi 258.

(XVIII) Articolo/pronome ol. Assai più numerose le occorrenze di el e simili nella Rodiana. Rodiana: ol 93, 107 due volte, 109 (pron.), 109, 111, 115 sei volte, 115 (pron.), 117 due volte, 119 due volte, 121 due volte e d’ol 121 (qui stamperei senz’altro dol); ma el 91 due volte, 93 (pron.), 95, 113 (pron.), 115 quattro volte, 117 cinque volte, 117 (pron.), 119 tre volte (pron.), 121, ind’el 91, del 117 due volte, 119 tre volte, 121; isolato al 121 87. Travaglia: ol 66 cin-que volte, 68 due volte, 70 sei volte, 72, 74 tre volte, 114, 116 tre volte, 176, 178 due volte, 226 tre volte, 258, 260 sette volte, 276 dol 66, 68, 74 due volte, 114, 178, 258, ind’ol 66, 70 due volte, 72, 180 (e stampato in dol 114 due volte, 116); ma el 70, 70 (pron.), 116, 260, 262 (pron.), 278, del 66 due volte, 176 due volte.

Pur nella relativa schematicità, gli assaggi eseguiti mostrano in maniera evi-dente che l’etichetta di «bergamasco calmiano» risulterebbe alquanto alea-toria. È probabile che la maggiore diffusione di forme con vocale finale intatta nelle due commedie maggiori sia dovuta a ragioni stilistiche: nella lingua del negromante Simon (Rodiana) e del pedante Archibio (Travaglia) si addensano infatti termini astronomici, magici ed eruditi che hanno in-dubbiamente poco a che fare con il lessico elementare dello Zanni affa-mato e per i quali dunque la conservazione della vocale finale potrebbe essere funzionale a una precisa connotazione sociale (si rammentino tra le altre forme grandissimi e magni esperimenti, ziganteschi, signàculi, santoni, negromanti, segni, spirti, silogismi, attomi, savî greghi e romani, viziosi, spe-

87 Se non è un banale errore tipografico, come pure può far supporre la sua assoluta unicità, si tratterebbe di un tipo diffuso in tutta la Lombardia antica: cfr. quanto osservato in Ciociola Lauda, pp. 71-72.

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culativi, preterito, antighi, maccometani). È innegabile tuttavia che al di là di qualunque giustificazione stilistica certi fenomeni siano rappresentati con notevole sproporzione nei tre testi: a fronte della distribuzione uni-forme di tratti come IV (plurali femminili in -i) e XIII (caduta di n po-stonica + dentale, assente quasi ovunque), spicca la diversa frequenza di tratti come XIV (quasi assente nel Travaglia), XV (con molte estensioni ipercorrette in Pozione e Rodiana ma limitatissimo nel Travaglia), XVII (le grafie in -d diffusissime nella Pozione sono episodiche in Rodiana e Trava-glia), XVIII (larghissima maggioranza di ol in Pozione e Travaglia, salda presenza, ma con molte eccezioni, nella Rodiana). Più che di bergama-sco di Calmo sarebbe dunque più prudente discorrere, in questo come in molti altri casi, di bergamasco dei copioni o di bergamasco dei tipografi: una lingua sottoposta volta a volta a una certa azione livellatrice o distor-siva (in senso espressionistico), imputabile tanto alla fase di copia e circo-lazione manoscritta quanto al momento della composizione tipografica.

5. Se si osserva la lingua bergamasca – ma in questo caso sarebbe più calzante parlare senz’altro di lingua ‘alla bergamasca’ – attestata da un opuscolo presumibilmente coevo alla stampa principe della Pozione, si ha una prova dello scadimento e della banalizzazione linguistica cui si accen-nava sopra. Si tratta di un Dialogo de un Magnifico con Zanni, custodito in copia unica alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e additato già da Vito Pandolfi tra gli incunaboli della Commedia dell’Arte 88. La lingua zannesca di questa stampina:

88 Collocazione D. 4.6.23 no 10. Rari incunaboli palatini. Striscia 959. Citerò per la campionatura dalla fedele trascrizione del testo che si legge in La Commedia dell’Arte, scelta e introduzione di C. Molinari, apparati di R. Guardenti, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1999, pp. 43-48 (che riproduce a sua volta il testo dato in La Commedia dell’Arte. Storia e testo (1955), a c. di V. Pandolfi, rist. anast. Firenze, Le Lettere, 1988, con prefazione e bibliografia aggiornata di S. Ferrone, I, pp. 174-178). Nel volume curato da Pandolfi il testo è privo di note; pochissime quelle che lo accompagnano nella ripropo-sizione per cura di Molinari e Guardenti. Segnalo in proposito soltanto che: a p. 45 «Moia e non ghe so andare mi. Do tienti alora. M’aricomandi patron» non è un’unica battuta di Giani (la prima frase va attribuita a Giani, la seconda al Magnifico, l’ultima di nuovo a Giani); a p. 47 «mena le lanche su per le banche» non è «un gioioso nonsense» (così la nota 2) ma l’incipit di una canzonetta in voga (altri esempi, cui va aggiunto quest’ultimo, in L. D’Onghia, Un venetismo aretiniano: «menare le lanche su per le banche», in «Lingua e Stile», XL, 2005, pp. 21-36).

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(a) Mostra una larghissima tendenza alla conservazione delle vocali atone finali: mes-sere (43), capello (43), niente (44, 47), fresco (44), morto (44 tre volte), fratelli (44), muro (44), pagiaro (44), perinculo (45), scudo (45 tre volte), pagamento (45), omo (45), elo (45 tre volte: da intendere è-lo), Treviso (45), ducato (45), peso (46), culo (46), ragno (46), resto (46), tutto (46), riccho (46), marcello (46), arzento (46), soldi (46), travarchone (47), certo (47), siego (47), piacevole (47), tanto (47 due volte) bo-toni (47; ma boton plur. 47), fatti (47, dove a rigore ci si aspetterebbe anche palata-lizzazione da CT), detto (47, per cui vale la considerazione precedente), sonetto (48). (b) Non presenta caduta di -n finale: patron (43, 44 quattro volte, 45 cinque volte, 46 tre volte, 47 tre volte, 48 cinque volte), padron (47) son (43, 47), ben (44, 45, 47), baboin (46), pan (47), man (47), boton (47). (c) Non presenta caduta di -n prima di t in posizione postonica: tant (47 tre volte), e con conservazione della vocale finale pagamento (45), arzento (46), tanto (47 due volte). (d) Non presenta apocope silla-bica in vari infiniti verbali: voler (45) andare (45), far (45), di contro al solo giostrà (46). (e) Esibisce, quale unico tratto relativamente ben conservato, un buon numero di plurali femminili in -i: coionadi (45), bastonadi (45), calci (46), boni novi (47 due volte), boni nuovi (47), sardelli (48); di contro lanze (44), tele (46). (f) Mostra qua e là forme verbali influenzate con buona probabilità dal veneziano: è il caso del par-ticipio passato inamorà (44 quattro volte; di contro stat 47, dat 47 due volte, smen-tegat 48, scordat 48, favellad 47), del congiuntivo presente di 1a pers. venga (43; di contro vegni 43), del condizionale presente darave (44; di contro diref 48).

La caratterizzazione linguistica del bergamasco appare qui assai semplifi-cata, e anche per la sua relativa precocità il testo della stampa conservata a Firenze risulta particolarmente istruttivo se confrontato con la Pozione. Quella appena esemplificata è del resto una tendenza attiva con vario grado d’intensità in una miriade di testi che fanno capo all’esperienza del teatro professionistico cinque-seicentesco, e che non è certo possibile esa-minare qui neppure per campioni.

Possono comunque fornire qualche utile indicazione tre sondaggi mi-nimi su testi rappresentativi della Commedia dell’Arte. Nel Pantalone impazzito (1613) del mantovano Francesco Righelli, per esempio, basta guardare alle battute di Zanni nel primo atto per constatare la larga dif-fusione di alcune delle forme appena censite nel Dialogo de un Magnifico con Zanni 89: infiniti integri o con apocope della sola vocale (saver 212, stare 212, scivolar 213); femminili plurali in -e (bone opere 212, ore 213,

89 F. Righelli, Il Pantalone impazzito, in L. Mariti, Commedia ridicolosa. Comici di pro-fessione, dilettanti, editoria teatrale nel Seicento. Storia e Testi, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 207-271 (per Righelli cfr. anche l’introduzione alle pp. CLXXIV-CLXXV).

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matte scarselade 220, gambe 220); forme in cui non si verifica la caduta di n prima di t (scontent 212, fundament 212, content 214); maschili con vocale finale integra (piombo 212, tutto 213, zoveni 214); enclitici intatti (attaccarve 212, taccarve 213, starve 213, passarghe 214, parlarghe 214, re-sponderghe 220); forme che non mostrano la palatalizzazione di CT (re-trat 213, fatt 223). Le cose andavano un po’ meglio negli Amorosi inganni del messinese Vincenzo Belando, a stampa nel 1609 90: qui, limitandosi nuovamente alle battute di Zanne del solo primo atto, si riscontra se non altro una serie di tratti pressoché costanti che contribuiscono a caratte-rizzare sufficientemente la lingua bergamasca di Zanne in opposizione a quella veneziana del Magnifico. In particolare: 1) è quasi sempre attestata l’apocope sillabica negli infiniti: di’ 232, scomponicchià 232, sonettacchià 232, scantacchià 232, tornà 232, andà 232, 234 due volte, cercà 232, lassà 232, montà 233, dà 233, legà 233, deslegà 233, taià 233, significhignà 234, grattà 237, calcà 237, manghià 238; di contro solo far 238; 2) si dà una certa stabilità nelle forme del participio passato: fatt 232 cinque volte (ma si noti che manca sempre la palatalizzazione), inamorat 232, aroversat 233, inzucarat 233, intervegnut 233, bandit 233, 234, arivat 233, 234, sforzat 234; per contro solo aghiazzà 232 (femm.) e reficiadi 238 (masch. plur.); 3) sono abbastanza rare le forme che conservano la vocale atona finale; 4) è ben rappresentata la caduta di -n finale: poltrù 232, Petrarchì 232, be’ 233, manarì 233, facchì 233 due volte, 239, cupì ‘nuca’ 234 91, timù 234, compositiù 234, prusuntiù 235, affettaziù 236, pelizzù 237, openiù 238, pol-trù 239 92; ma son (III plur.) 233 due volte e can 237. Mancano tuttavia

90 Mi servirò per la campionatura dell’ottima edizione di V. Belando, Gli amorosi in-ganni, in Commedie dell’arte, a c. di S. Ferrone, Milano, Mursia, 1985, I, pp. 197-294 (si vedano le pp. 64-69 per i principi giustamente conservativi seguiti soprattutto nell’edizione delle parti dialettali).

91 Intendo così cupi dell’edizione, che non ha riscontri (il contesto è il seguente: «col stanghet ch’a’ portavi a’ ghel dè drè del cupi»): la forma di partenza è infatti femminile (coppa), il diminutivo maschile (coppino).

92 Si noterà in questa serie la chiusura in -ù che caratterizza le forme come poltrù e simili, di contro a -ó pressoché costante in Ruzante, Calmo, Giancarli e più in generale in tutti i testi alla bergamasca del primo e del pieno Cinquecento. Ma non si può esser certi che si tratti di vera opposizione fonetica, perché Tomasoni Massera, pp. 100-101 ha osservato sulla base dello scrutinio di un testo in rima che -ó potrebbe indicare già nei testi cinquecenteschi l’esito u osservabile anche attualmente. Basta dire qui che la grafia -ù sem-bra soppiantare completamente la grafia -ó nei testi dei comici dell’Arte: oltre agli esempi da Cecchini riportati nella nota seguente vedi anche, limitandosi al primo atto e attingendo

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esempi pertinenti di palatalizzazione (sono dovuti a estensioni analogiche quelli in tuch ‘tutto’ 232, tanch ‘tanto’ 233, legnagh ‘legnate’ 235); n po-stonico non cade mai prima di t (concorrent 233-234, solament 234, tal-ment 234, realment 238); è totalmente assente ol 93.

Una spinta assai più netta verso la stilizzazione e in definitiva verso la semplificazione linguistica si riscontrerà di qui a qualche decennio nella parte sostenuta da Zanni in un modesto frammento comico risalente al 1644, ben noto però in grazia del suo autore, Gian Lorenzo Bernini 94.

per la numerazione delle pagine alla silloge di L. Mariti, Commedia ridicolosa cit., abitaziù 15, gargatù 16, padrù 16 due volte, 17, 18, mangiacantù 17, pizzù 19, maccarù 19, portù 21, 23, cappù 22 (G. Briccio, La Tartarea, Viterbo, Girolamo Discepolo, 1614); padrù 78, inven-ziù 78, colaziù 78, 79, castrù 83, maccarù 83 (G. Briccio, L’ostaria di Velletri, Ronciglione, s.d.); conclusiù 115, Pantalù 115, descriziù 115 due volte, padrù 115, rasù 122, salutaziù 122, bastiù 123 (V. Verrucci, Li diversi linguaggi, Venezia, Spineda, 1627); padrù 280, 281 tre volte, 282 due volte, 288 (plurale), 289 due volte, costiù 280, descriziù 282, invenziù 282, presù 282, 286 due volte, maccarù 286, occasiù 288, cantù 290, piccù 290 (G.B. Salvati, Il tesoro, Roma, Tizzoni, 1676).

93 Sembra probabile – ma è ipotesi da verificare con una più ampia serie di spogli – che il caso di Belando rappresenti con buona approssimazione il bergamasco medio usato dai comici dell’Arte più avvertiti. Una caratterizzazione largamente sovrapponibile è ad esempio quella della lingua di Bagattino nell’Amico tradito di Pier Maria Cecchini, comme-dia stampata nel 1633 sotto la sorveglianza dell’autore (v. P.M. Cecchini, Le Commedie. Un commediante e il suo mestiere cit., pp. 149-211, e pp. 49-50 della Nota ai testi). Spiccano qui la costanza degli infiniti apocopati, dei participi in -t, della caduta di -n finale (anche qui con forme in -ù come macarù 158, invenziù 159, chiacchiarù 160 e così via), la rarità di forme che conservano la vocale atona finale e per contro la totale assenza della palata-lizzazione di CT e della caduta di n postonica prima di t (tratti, si ricorderà, già instabili o evanescenti nei testi di Ruzante e Calmo). Si conserva sporadicamente anche qualche altra caratteristica: è il caso della forma ul per l’articolo determinativo (157, 164 due volte), del resto non esclusiva e alternante con el e al; dell’occasionale plù 157 con conservazione di PL-; di voster 157, noster 157 e polaster 163 con e anaptittica.

94 G.L. Bernini, La Verità discoperta dal Tempo. «Comedia ridiculosa», restauro dram-maturgico in due tempi di A. Perrini, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. Seguo per lo spoglio l’Appendice (pp. 119-171), che dichiara di trascrivere fedelmente il canovaccio se-condo il codice 2084 Mss. Italiens della Bibliothèque Nationale de France. Inservibile il testo restaurato da Perrini (pp. 1-117), che interviene pesantemente sulla lingua di Zanni, addirittura presentato nel prospetto iniziale come personaggio parlante un «arcaico dialetto veneto» (p. 3). Basta rilevare qui che una battuta di Zanni che suona nel manoscritto ori-ginale «Perche in quest mod pretend de servir bene ol signor Gratiano levandol da studiar cose d’importanza per perder’ ol temp drè a sti mozziorecchi» (p. 127), viene resa nel re-stauro così: «Siora sì! È proprio questo el dovere e ’l proposito de servir propriamente el mè paron: non levarlo de zervelo da cosse d’importanza e non perder tempo con certe zaz...» (p. 25). Non mi attarderei a esemplificare se il fatto non fosse davvero emblema-

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(a) Unico tratto ben rappresentato, perché evidentemente percepito alla stregua di blasone linguistico riconoscibile, è la forma dell’articolo ol (127 cinque volte, 128 due volte, 131 quattro volte, 132, 144 sei volte, 145 due volte, 155 quattro volte, 156, 164, 165, 168 quattro volte, 169). (b) Numerose le forme con vocale finale intatta: zervello 127, bene 127, Gratiano 127, fatti de i altri 127, proposito 131, zovane 131, 145, disegno 145, ordine 145, Prenzipe 145, amico 165, anno 165, certissimo 169, questo giovane 171. (c) Mancano esempi di caduta di n postonica: menchion 128, Gratian 129, 143, gran 129, vin 131, buon 143, profession 143, oc-casion 145, conversation 145, ben 145 due volte, padron 145. (d) Mancano esempi di palatalizzazione di CT: nott 144, rispett 147, dett 155, fatt 155 due volte, 165, 167, 168 due volte. (e) Numerosi, e in nettissima maggioranza, gli infiniti verbali integri o con l’apocope della sola vocale finale: contro fà 131, andà 131, alnichilà 132, renovà 152 si registrano, limitandosi alla prime venticinque pagine del testo, servir, studiar, vegnir 128, manzar 131, dormir 131, voler 131, dar 131, poter 132, far 132, 143, 144, 145, imparar 143, andar 144, veder 144, 145, saper 144 due volte, pescar 144, trovar 144, fidar 144, contentars 144, farlo amalar 144, mandar 144, 145, star 145, 146, 147, veder 145, poter 145, sentirlo 145, haverne 145, morir 145, remediarghe 145, chiamar 145, fare 145, arrivare 145, remediar 145, dir 146, portar 147. A parte vanno considerati tre casi di fer ‘fare’ (131, 165 due volte), molto probabilmente dovuti a un’interferenza con la lingua di colorito bolognese del dottor Graziano, nella quale le forme infinitivali mostrano compatte la palata-lizzazione della tonica. (f) Sono pressoché esclusivi i femminili plurali in -e: cose 127, le partite 131, belle nuvole 144, nove ‘notizie’ 144, dame 145, le donne 147, ste scene 156, comedie 165, zerte prospettive (165, nel sintagma certe prospettive curios), prove 169, ste bestie 171; fa eccezione solo cos ‘cose’ 145, 155, 165. (g) Varia l’apparenza dei participi passati: bussat 126, format 132, inamorat 144, pre-gat 168, amat 168, inamorada 127 (ma adobbata 131); per contro debilità 129, dà 129 (e da 168), portà 155, stà 155, mandà 166 tutti paragonabili alle forme vene-ziane; occasionale amato 168, forma integra toscana. (h) Al condizionale presente

tico della singolare sfortuna toccata a questo reperto berniniano, che ha avuto negli ultimi decenni ben tre stampe, tutte piuttosto difettose fin dal titolo, alla cui assenza nel mano-scritto gli editori sembrano rassegnarsi a malincuore. Nella prima edizione, lo scopritore Cesare D’Onofrio diede al canovaccio il titolo del fascicolo che lo conteneva, Fontana di Trevi (G.L. Bernini, Fontana di Trevi, a c. di C. D’Onofrio, Roma, Staderini Editore, 1963); circa trent’anni più tardi, in una modesta riedizione curata da Massimo Ciavolella, il testo si trasforma in L’impresario (G.L. Bernini, L’impresario, a c. di M. Ciavolella, Roma, Sa-lerno Ed., 1992: pur trattandosi nelle intenzioni del curatore di «edizione critica», p. 7, la Nota al testo non contiene neppure la segnatura del manoscritto parigino unico testimone del canovaccio); da ultimo l’ampia edizione curata da Alberto Perrini propone di attribuire al testo il titolo di un gruppo scultoreo dello stesso Bernini, ma gli argomenti addotti (pp. XXIX-XXXI) mi sembrano tutt’altro che convincenti.

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si hanno solo forme come bisognaria 144, faria 150, vedria 156, pagarian 165, fa-ria 166, vorria 166, saria 169 (contro l’isolato sareb 168).

Le osservazioni fatte finora confermano che la lunga fortuna teatrale del bergamasco s’accompagna per lo più alla sua forzosa semplificazione lin-guistica, funzionale del resto alla piena fruibilità scenica. Insieme ai lavori precedenti dedicati a Ruzante e Giancarli, gli spogli condotti qui su tre delle commedie calmiane assicurano che la grande stagione del teatro plu-rilingue veneto ha portato alla ribalta una lingua bergamasca ben ricono-scibile, non ancora semplificata fino all’eccesso e per più di un tratto con-frontabile con gli antichi testi genuinamente bergamaschi, sia documentari sia letterari, di cui disponiamo. In questa spinta verso un sostanziale rea-lismo linguistico un ruolo decisivo fu giocato senza dubbio dall’effettiva presenza nel Veneto di una nutrita comunità di uomini di fatica, emigrati dalle valli della Lombardia orientale soprattutto verso Venezia a partire dal secondo decennio del secolo.

Il facchino che fa la sua comparsa nella Calandra calcando preco-cemente le scene italiane si esprime ancora in uno stinto idioma set-tentrionaleggiante che non esibisce tratti di esclusiva spettanza orobica (c’è tutt’al più qualche traccia lombarda) 95, ma le cose sono già molto cambiate – e certo non per caso – nella splendida Veniexiana, che ri-sale con ogni verosimiglianza alla metà degli anni Trenta e che arruola tra i suoi personaggi il baiulus Bernardo di origine bergamasca: della sua lingua l’anonimo autore infatti «offre una caratterizzazione coerente e precisa» ben altrimenti fedele di quella bibbienesca 96. Una ventina

95 Si tratta della scena seconda dell’atto terzo: cfr. La Calandra commedia elegantissima per messer Bernardo Dovizi da Bibbiena, a c. di G. Padoan, Padova, Antenore, 1985, pp. 116-120. Non si può che sottoscrivere in proposito quanto già osservato da Paccagnella, p. 111: «La tinta dialettale di questo intervento [...] è opacamente veneteggiante, a dedurre da fatti fono-morfologici come crezo, gh’era, mi, overto, sede, soie; o, meglio, genericamente settentrionale, senza nessuna connotazione (che non sia nell’etichetta del personaggio) an-che solo marginalmente bergamasca; unica possibile spia di una più precisa localizzazione dialettale potrebbe essere deccio, che evoca un fenomeno largamente lombardo, però, quale la palatalizzazione di -CT- o anche, per il vocalismo protonico, Misser, e lo stesso Made-sìne».

96 L. Tomasin, Lettura linguistica della «Veniexiana», in «Per leggere», VII, 2007, pp. 151-169: 165; per il personaggio di Bernardo, oltre a quanto osservato alle pp. 165-166, si veda anche p. 159.

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d’anni più tardi, divulgato ormai dalle stampe il teatro di Giancarli, di Ruzante e di Calmo, si direbbe che la comparsa anche episodica del facchino esiga una certa accuratezza linguistica. Lo dimostra in maniera efficace una figurina facchinesca finora pressoché ignorata, quella che s’incontra in una commedia romagnola, la Nina del ravennate Giovan Battista Pescatore 97:

MALFATTO: Dove vai Cermison da Voltolina? Voltati a destra, cancar che ti nasca, fermati a quel canton, testa di birro.FACCHINO: O potta chi ’m fè, guarda s’i asign ha bo tep, chilò non sta messer Pamber?MAL.: No, testa di castrone.FAC.: Oh potta dul cà, non sta chilò messer Pannier?MAL.: Quell’altro uscio, poltron. Entra.FAC: La porta è serracchia.MAL.: Entra dico, che l’è aperta.FAC.: Tu di’ ’l viro Malfacchio a le vagnelle.

97 Nina comedia di Giovambattista Pescatore nobile da Ravenna, Venezia, Comin da Trino, 1558, c. 47r (cito dall’esemplare custodito a Pisa, Biblioteca Universitaria, Misc. 662.4; a giudicare dai dati Edit 16, la stampa del 1558 sembra un’emissione della princeps, apparsa l’anno precedente sempre presso Comin da Trino); sul testo cfr. M. Calore, «La Nina» di Giovan Battista Pescatore, in «Studi romagnoli», XXXI, 1980, pp. 85-104 e in generale il panorama di G. Bellosi, La letteratura dialettale, in Id., Tera bianca, sment negra. Dialetti, folklore e letteratura dialettale di Romagna nella Biblioteca di Carlo Piancastelli, Ravenna, Longo, 2000, pp. 105-138: 131-132. Riguardo al brano citato si noti che: al v. 1 Cermison significa ‘zuccone’ (v. C. Battisti e G. Alessio, Dizionario etimologico italiano, Firenze, Barbèra, 1951, II, p. 868, s.v. cèrmene); e Voltolina vale ‘Valtellina’ (si ricordino i «fachin de l’Oltolina» menzionati al v. 326 del Cheribizo: cfr. D. Isella, Lombardia strava-gante cit., p. 154); al v. 3 birro sarà con ogni probabilità un romagnolismo (per bèr ‘mon-tone’ v. da ultimo G. Casadio, Vocabolario etimologico romagnolo, Imola, La Mandragora, 2008, p. 46, dove è registrata proprio la forma birri da un trattato di agricoltura del 1612); il v. 5 è ipometro; al v. 6 la storpiatura Pamber in luogo di Palmiero (il nome del perso-naggio che il facchino sta cercando) è in bisticcio con pamber ‘colazione’, ‘spuntino’, sulla cui diffusione eminentemente romagnola è da vedere L. Lazzerini, Nota su «pamber». Una ricostruzione semantica, in «Studi di filologia italiana», XXXIV, 1976, pp. 401-409; un se-condo focolaio di diffusione, senese, è stato indicato poi da F. Brambilla Ageno, Senese «panébero», «paniberare» (1979), in Ead., Studi lessicali cit., pp. 241-243.

Sulla «Pozione» di Andrea Calmo

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La modesta estensione dell’intervento del facchino – il quale sparirà defi-nitivamente dopo aver pronunciato appena sei versi – non impedisce che la sua lingua sia caratterizzata con un buon grado di fedeltà: si notino in ordine, e per l’ultima volta, la palatalizzazione di n seguita da -Ï in asign (v. 4), la caduta di -n in bo ‘buono’ (v. 5) e cà ‘cane’ (v. 7), la forma spic-catamente bergamasca tep ‘tempo’ (v 5) 98, l’avverbio chilò (vv. 5 e 7: già notato nello spoglio relativo alla Pozione, punto XX), il vocalismo di dul (v. 7, si ricordi ul notato nell’Amico tradito di Cecchini alla nota 93), la palatalizzazione di CT, a dire il vero genericamente lombarda, di Malfac-chio (v. 10; mentre sarà frutto d’ipercaratterizzazione serracchia del v. 9), la chiusura vocalica é > i in viro (v. 10), e infine la colorita esclamazione potta chi ’m fè (v. 4), che si trovava identica anche nella parte facchinesca del Saltuzza di Calmo 99.

98 A proposito delle due occorrenze di tep che si trovano nel testo della Massera da bé, Tomasoni Massera, p. 107 parla di forma «tipicamente bergamasca, presente dai testi più antichi fino all’ottocentesco Ruggeri». Un esempio di tep in contesto bergamasco si ha al primo verso dell’ottavo strambotto stampato in appendice alla stessa Massera: «Togna, l’è fosc, l’è ol tep d’andà a dormì» (G. dagli Orzi, La massera da bé cit., p. 267).

99 A. Calmo, Il Saltuzza cit., p. 88 (II 38: «Pota chi ’m fì, a’ só Balord!») e nota rela-tiva per vari altri esempi dell’esclamazione in contesto bergamasco.