Tesina sulla doppia personalità

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La doppia personalità La doppia personalità Non sempre gli occhi ci permettono di vedere la realtà così com’è Non sempre gli occhi ci permettono di vedere la realtà così com’è

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La doppia personalità

La doppia personalità

Non sempre gli occhi ci permettono di

vedere la realtà così com’è

Non sempre gli occhi ci permettono di

vedere la realtà così com’è

Percorso multidisciplinare per la prova orale dell’esame di stato

Oggigiorno la società e il mondo del lavoro richiedono alle persone sempre più attenzione,

accuratezza, disponibilità e un buon sorriso nel porsi con gli altri. Si prenda ad esempio il lavoro di

un semplice cameriere: per le quattro o cinque ore alla sera che dedica al suo lavoro, per il quale

percepisce una retribuzione, deve essere veloce, attento a non sbagliare, disponibile ad ogni

richiesta dei clienti del ristorante dove lavora e avere stampato sulle labbra un sorriso a trentadue

denti. Magari proprio quel giorno quel cameriere è stato lasciato dalla fidanzata, gli hanno rubato

la macchina e ha perso l'esame all'università per colpa di un ritardo del treno. Il sorriso di quel

cameriere è reale e sincero? No. Ma "il protocollo" impone così. E allora si crea in uno stesso

uomo una doppia personalità, come se due persone vivessero nello stesso corpo. L'una è l'uomo

vero, quello che è cresciuto fino adesso, tranquillo e sereno. L'altra è l'uomo che compare quando

la situazione si fa difficile, quando il vero uomo non ce la può fare contando solo sulle proprie

forze, e si affida su qualcuno – il suo alter ego – che possa aiutarlo a districarsi

dall’ingarbugliamento della sua vita. Questo è uno sdoppiamento elementare, basilare. Tuttavia

esistono casi più complessi, in cui lo sdoppiamento della personalità raggiunge esiti più profondi e

talvolta estremi. Può capitare infatti che un evento traumatico possa creare in un uomo una

situazione di instabilità e insicurezza, una sorta di cambiamento dell’habitat dell’animo umano che

porta l’uomo a non sentirsi più a suo agio con se stesso e con il mondo e le persone che lo

circondano. Così per affrontare il quotidiano crea e sostituisce completamente a se stesso un

uomo nuovo, che del vecchio ha solo il nome e l’aspetto esteriore. Gli altri non si accorgono del

cambiamento, perché gli occhi consentono di vedere solo l’esterno, e continuano a vivere e a

rapportarsi con esso come se nulla sia cambiato. Solo l’uomo in questione sa del cambiamento,

forse per i primi tempi, poi ne è completamente assorbito che nemmeno si rende conto se è l’uno

o l’altro. Un po’ come Dottor Jekyll e Mr Hyde: il caro dottore e la bestia della notte, il tranquillo e

il ribelle, il più e il meno. Henry Jekyll è uno scienziato che durante i suoi studi sulla psiche umana

riesce, miscelando particolari ingredienti chimici, a mettere a punto una pozione che può separare

le due nature dell'animo umano, quella buona e quella malvagia. La sua personalità diventa così

scissa in due metà speculari che, alternativamente, bevendo la pozione o l'antidoto, prendono

possesso del suo corpo, trasfigurandone anche l'aspetto. Ma le due identità sono contrapposte sia

nel modo di apparire che in quello di essere: Dottor Jekyll infatti è alto, rispettabile ed educato,

con le mani "pulite", Hyde al contrario è malvagio, basso, con le braccia corte e le mani pelose e

tozze, con tutte le sembianza di un uomo primitivo. La scoperta della doppia personalità di Jekyll

viene fatta da Utterson, un avvocato che, passeggiando per la strada viene a conoscenza della

storia della "porta". Una notte infatti è stata vista una figura strana, che si scoprirà poi essere

quella di Hyde, che travolge una bambina e scappa; costretto poi in seguito a pagare i danni alla

famiglia della bambina firmerà un assegno a nome del Dottor Jekyll. Cominciano da qui una serie

di eventi strani. Hyde lentamente però prende sempre più il controllo su Jekyll; le dosi di antidoto

per tornare il dottore devono essere sempre di più e non è raro che si trasformi anche senza la

pozione. Sino a giungere all’epilogo, in cui Jekyll scrive una lettera che sarà poi anche la lettera

della sua confessione a Utterson, spiegandogli perché e come ha funzionato il suo esperimento.

Il romanzo di Stevenson è l’esempio fantastico ma più appropriato per definire la doppia

personalità, che pare un fenomeno tanto lontano ma non ci si immagina neanche quanto ci sia

vicino. Forse perché dal doppio siamo circondati e anche un po’ attratti: tutto il mondo è fatto di

opposti, che si attraggono e si respingono, ma che appartengono allo stesso essere. Il magnetismo,

il parlare “del più e del meno”, il bianco e il nero, il caldo e il freddo, il nord e il sud, il giorno e la

notte… Non uno, ma centinaia di esempi. Ci paiono normali, sono cosa ordinaria se esterni a noi e

a noi lontani. Ma nel momento in cui si tratta di noi stessi, il doppio pare strano, mostruoso, e ce

ne distanziamo volentieri. Non sappiamo che il doppio è parte di noi stessi, è la nostra doppia

personalità.

INDICE

Italiano: il tema della sfaccettatura della personalità in Pirandello

analisi di “Uno, nessuno e centomila”, “Così è (se vi pare)”

Letteratura Latina: il doppio per creare la vis comica

Menaechmi di Plauto

Filosofia: spirito apollineo e spirito dionisiaco, due impulsi contrapposti nell’animo umano

(Nietzsche)

Deutschsprache: Geist und Leben

Tonio Kröger, Thomas Mann

Storia: la politica del doppio volto di Giolitti

Italiano: “Così è (se vi pare)”, “Il fu Mattia Pascal” e “Uno, nessuno, centomila” di Pirandello

Il tema del doppio, della scissione e della moltiplicazione dell’io, che ha un antecedente nella

letteratura fantastica dell’Ottocento, da Hoffmann a Poe e Stevenson, trova larga diffusione nella

narrativa europea del Novecento, con l’approfondirsi della crisi di identità dell’artista e la scoperta

psicanalitica della contraddittoria complessità della psiche.

La frammentazione della coscienza in una molteplicità dell’io caratterizza l’opera di Proust e di

Joyce; lo sdoppiamento tra la coscienza e il lato oscuro dell’inconscio ispira i romanzi di Conrad; in

Italia la consapevolezza dell’unità fittizia della psiche si conferma con forza nei romanzi di Svevo e

nelle opere narrative e teatrali di Pirandello.

Questo motivo ispira infatti la poetica pirandelliana dell’umorismo, ovvero del sentimento del

contrario, che presiede alla decostruzione dell’eroe tradizionale fino al dissolvimento stesso del

personaggio. Ne è un esempio il protagonista del Fu Mattia Pascal, diviso tra più anime, tra anima

e corpo, tra il corpo e l’ombra: la non identificazione di Pascal con la propria immagine esprime il

rifiuto della maschera sociale che lo imprigiona e la ricerca di un se stesso più autentico, di un

“oltre” che sta sotto la vita normale e sconfina nella follia. Il dramma dei personaggi di Pirandello,

dal protagonista del Fu Mattia Pascal alla scelta del rifugio di Vitangelo Moscarda (in Uno, nessuno

e centomila), incapace di trovarsi in sintonia con se stesso e con gli altri, denuncia l’ispirazione

impossibile nella società moderna all’unità e all’armonia dell’io.

Tema centrale di Uno, nessuno e centomila è la disgregazione della personalità di Vitangelo

Moscarda, il protagonista, che a causa del suo naso – pendente leggermente a destra – da’ il via ad

un processo mentale di disgregazione dell’io che si sviluppa con una serie di reazioni a catena. Se

la moglie -ragiona Vitangelo- sotto l’aspetto fisico lo vede diversamente da come egli crede di

essere, lo stesso e a maggior ragione avverrà per quanto riguarda l’aspetto morale. Chi è Vitangelo

Moscarda che la moglie crede di amare? che gli amici invitano al bar? Ci sono tanti Moscarda

quanti sono quelli che lo vedono, quante sono le possibilità di conoscere, le circostanze, i casi, le

relazioni, le realtà mentali di ognuno. Dal momento in cui ogni estraneo lo vede in maniera diversa

da quello che egli realmente è, Vitangelo inizia una disperata ricerca di questo se stesso, per

coglierlo nella sua spontaneità, nella sua espressione prima e genuina. Impossibile, è come voler

scavalcare la propria ombra.

L'uomo infatti, frustrato dai problemi derivanti anche dalla società, si crea una maschera diversa in

base alle varie occasioni o alle varie persone che incontra; quindi è centomila persone. In realtà,

dentro se stesso sa che lui è in un determinato modo che gli altri potrebbero anche non accettare,

dunque è uno solo. Ma in fondo è nessuno semplicemente perché nella vita di tutti giorni assume

maschere e comportamenti diversi che non lo soddisfano, lo gettano nello sconforto e lo fanno

perdere nei meandri dei suoi pensieri e delle sue sofferenze.

Questa coscienza di finitezza del singolo, del suo essere in sé, prima di tutto deve essere

consapevole in ogni uomo. Invece tra gli uomini avviene esattamente il contrario: ognuno vede

nell’altro ciò che più gli aggrada, ciò che gli è più simile, ciò che se lo fa più piacere. E’ questo il

dramma dell’essere, in cui l’identità dell’io finisce con l’affogare. Allora Moscarda si impone di

cancellare completamente il vecchio se stesso, quello condizionato dalla nascita, dall’ambiente,

dall’educazione, vale a dire cancellare l’immagine che gli altri hanno di lui: l’immagine di usuraio

ereditata dal padre, associata alla banca da cui trae i mezzi per la sua vita agiata di borghese

benestante. Per questo si da’ a compiere atti di liberalità, che paiono in contrasto con i criteri di

una sana amministrazione e gli procurano un attestato di pazzia da parte della moglie, dei soci

d’affari e delle stesse persone da lui beneficiate. Interdetto dai familiari, abbandonato dalla

moglie, finisce in un ricovero per vecchi da lui stesso fondato con le sue cospicue elargizioni.

In Così è (se vi pare) la personalità doppia non è più creata dalla persona stessa, incapace di

relazionarsi con il mondo esterno, bensì dalle persone con cui essa entra in contatto. Infatti la

donna in questione è per il marito -il signor Ponza-, Giulia, la seconda moglie; per la suocera è la

figlia mai morta. Da qui nasce il dubbio: ma chi è veramente la signora Ponza? L’unica cosa è

chiederlo alla stessa, che conferma di essere sia la seconda moglie del marito, sia la figlia della

signora Frola, sino alla clamorosa “verità” svelata, ossia che per se stessa non è nessuno. Essa

infatti dice che è “colei che mi si crede”. Da qui notiamo uno stadio di doppia personalità avanzata:

non è più una personalità creata come reazione, bensì l’individuo è giunto addirittura ad uno stato

in cui esso si nullifica completamente. Non esiste più un individuo, una persona, se non

fisicamente: non ha un nome, non ha un profilo, possiede solo un corpo. Sono gli altri che la

definiscono, che la inquadrano, che le danno un nome e un’identità. Ed è proprio ciò che accade

alla signora Ponza: priva di ogni segno distintivo, si consegna “nuda” nelle mani dei suoi

interlocutori, dicendo loro di definirla, chiedendo loro di darle un’identità, che oltremodo non sarà

mai un’identità totale e uguale per tutti, bensì concepita diversamente da ogni persona che la

potrà incontrare. Un po’ come accade in Uno, nessuno, centomila.

Luigi Pirandello

(1867-1936)

Drammaturgo, scrittore e poeta italiano, fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1934.

Nato ad Agrigento ed educato al culto dei valori risorgimentali dalla famiglia, fu rilevante per lui il

rapporto conflittuale col padre, ripreso in alcuni dei suoi brani. Frequentò Roma e Bonn, dove si

laureò discutendo una tesi sul dialetto di Agrigento. Il 1903, a causa del dissesto economico della

famiglia, al quale si aggiunge la paralisi della moglie, egli è costretto a dare lezioni private. In

seguito si avvicinerà al teatro, sino ad arrivare al successo internazionale del 1921-22; iscrittosi al

partito fascista, grazie all’appoggio di Mussolini creò la compagnia del Teatro d’Arte di Roma. Tra

le opere maggiori si ricordano i romanzi L’esclusa, Il turno, Il fu Mattia Pascal, Uno,nessuno e

centomila; le opere teatrali Sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV, Così è (se vi pare).

Lett. Latina: "Menaechmi" di Plauto - il doppio per creare la vis comica

“Mosco, mercante siculo, era padre di due gemelli,

Sosicle e Menecmo,

e quand'uno di questi, vale a dire Menecmo, fu rapito,

il genitore ne morì dalla pena.

Allora venne dato a Sosicle il nome di Menecmo.

E quando questi fu cresciuto,

corse per ogni terra ricercando il suo carissimo fratello.

Infine giunse nel paese ove l'altro era vissuto.

Moglie e amante e tutti i cittadini

scambian questo per quello.

Finalmente il nodo viene sciolto

e i due Menecmi si salutan

col nome di fratelli.”

(Plauto, Menaechmi, Prologo)

Il tipo di commedia basato sul gioco del doppio trova nei Menaechmi del commediografo latino Plauto, almeno dal punto di vista dell’intreccio, la sua realizzazione più semplice e lineare, ma non per questo meno efficace. Più complesse sono l’Anfitrione, in cui le coppie di gemelli sono due, e le Bacchidi, in cui la presenza delle due gemelle porta ad un raddoppiamento della coppia amante-amata. La storia dei Menaechmi, infatti, nelle sue linee fondamentali è elementare e si basa su una situazione che diventerà classica proprio per la sua semplicità: due gemelli, che si trovano senza saperlo nella stessa città, vengono confusi e trattati come se fossero un’unica persona, provocando una serie di equivoci a catena che si sciolgono solo nel momento in cui i due fratelli si incontrano sulla scena. Il gioco, cui assistiamo, dello scambio tra pedine identiche (cioè i gemelli) presuppone una sola regola fondamentale, ossia l’alternanza: il contesto di eventi e situazioni predisposto per l’uno deve essere agito necessariamente dall’altro, senza che i due si trovino mai sulla scena contemporaneamente (ciò coincide, di fatto, con lo scioglimento del dramma). Dopo il primo scambio, in cui Menecmo di Siracusa viene ‘incastrato’ nel contesto di Menecmo di Epidamno, nessuno dei gemelli si trova mai ad agire nel momento giusto. A partire da questo efficacissimo presupposto, gli eventi si sviluppano con un ritmo quasi “automatico”, intrecciandosi e accavallandosi in modo tale da creare situazioni sempre più assurde e paradossali. È evidente, tuttavia, che se sulla scena questo gioco sembra regolato dal Caso, la sua meccanicità e precisione di casuale hanno ben poco. Tutta l’ azione è strutturata meticolosamente e si intensifica per gradi. Alle parti introduttive, in cui i due protagonisti vengono presentati ed inseriti nell’azione (vv. 77-272), seguono gli equivoci e gli scambi (vv. 273-1059), che si superano e si complicano sempre di più. Nei primi 272 versi Plauto presenta i personaggi ed il loro contesto, ponendo le basi per lo sviluppo successivo dell’azione; dal v. 273 in poi da’ il via ad una girandola di equivoci che si fa sempre più vorticosa. All’inizio lo scambio di persona provoca divertimento e meraviglia, poi al divertimento si sostituiscono il risentimento, il fastidio e l’ira. Lo sviluppo delle conseguenze degli scambi segue un crescendo continuo per ciò che concerne la loro gravità. Viene introdotto il tema

dell’insania, la pazzia, chiamata in causa per dare una spiegazione all’assurda condotta e alle insensatezze pronunciate da chi si ha di fronte. All’inizio le accuse di pazzia sono sbrigative e superficiali, esse non condizionano lo sviluppo dell’ azione, ma offrono lo spunto per creare momenti di ilarità. Nella maggior parte dei casi, ci sono accuse esplicite attraverso la ripetizione, sotto varie forme, della parola sanus, ma alla pazzia si allude pure implicitamente, facendo riferimento alle sue cause (quod te urget scelus? v. 322), o ai suoi possibili rimedi. Essa è accostata ora all’ubriachezza (certo haec mulier aut insana aut ebria est v. 373), per l’effetto che le accomuna -dire cose insensate-, ora al sonno -per la capacità di far vedere o vivere circostanze che sono al di fuori della realtà (certe haec mulier cantherino ritu astans somniat v.395 e Menaechme vigila - Vigilo hercle equidem quod sciam v. 503). In ogni caso all’inizio queste accuse hanno più che altro il sapore della farsa, nessuno crede realmente alla pazzia, ma tutti attribuiscono le farneticazioni di Menecmo di Siracusa alla risaputa voglia di scherzare del fratello gemello. Strettamente intrecciati, dunque, si sviluppano come una spirale le conseguenze degli scambi e il motivo della pazzia, culminando insieme nella scena della finta follia di Menecmo II, che rappresenta, del resto, un nodo fondamentale della vicenda. Essa si pone, infatti, da un lato come punto di arrivo di questa spirale di equivoci e pazzia, dall’altro come punto di partenza per un’ulteriore serie di equivoci, che come un’appendice promana naturalmente da essa, raggiungendo il proprio apice nella scena in cui Menecmo I viene assalito dagli aguzzini. All’origine di questo grande equivoco e della presunta insania dei personaggi coinvolti in esso, non c’ è altro che un error, un inganno degli occhi, che agiscono come vittime e, a un tempo, complici del Caso, perché, ingannati essi per primi, avvalorano errate convinzioni sulla realtà. Più di una volta i personaggi sulla scena chiamano in causa gli occhi a rafforzare le loro certezze. Ad esempio, la moglie di Menecmo I, da poco terminato il litigio con il vero marito, che negava il furto del mantello, si trova ora ante oculos, il gemello con il mantello rubato. A nulla valgono, ovviamente, le obiezioni di Menecmo II, perché ciò che ella ha davanti gli occhi è prova più che sufficiente della colpevolezza di quello che crede suo marito. Dall’espressione della donna si evince chiaramente che gli occhi sono ritenuti mezzo sicuro di conoscenza della realtà, solo gli spettatori sono consapevoli dell’errore e possono guardare con divertimento alle conseguenze che esso scatena. A nessuno viene in mente di mettere in dubbio ciò che vede o crede di vedere, perché vedere con i propri occhi dà la certezza più grande dell’ esistenza di una cosa. È proprio questa convinzione, che porta all’errore, come dimostra anche l’espressione di Messenione che, vedendo Menecmo I assalito da quattro aguzzini, crede di vedere il suo padrone Menecmo II: Opsecro, quid ego oculis aspicio meis? (v. 1001). A rafforzare la sicurezza di ciò che vede, Messenione non solo dice di vedere con i suoi occhi, ma sostituisce al più consueto video, aspicio, verbo la cui radice «esprime fondamentalmente l’ idea di un’ osservazione attenta». Ma è alla fine che gli occhi si rivelano chiaramente strumenti indispensabili dell’ equivoco. Nell’ultima scena, all’apice degli equivoci, pochi istanti prima dello scioglimento del dramma, Menecmo di Epidamno esce dalla casa dell’ amante Erozio affermando: “Si voltis per oculos iurare, nihilo hercle ea causa magis / facietis ut ego hodie apstulerim pallam et spinter, pessumae” (vv. 1060-1061). Con tali parole egli chiarisce inconsapevolmente ciò che si è verificato per tutta la commedia, ossia che gli occhi hanno fatto sì che accadessero cose mai accadute. Solo alla fine la svolta. Con l’incontro dei due gemelli, nello stesso momento sulla scena, gli occhi, finora fonte di certezze errate, diventano fonte di confusione e insicurezza. Dice infatti Messenione: Quid ego video? (v. 1062). Tuttavia pure in questo mutamento di ruolo, la vista agisce come complice del Caso, favorendo lo scioglimento dell’ intreccio. Infatti, proprio da questa crisi delle apparenze deriva lo stimolo a scoprire la verità, nel momento in cui la vista si rivela evidentemente inadeguata alla comprensione totale della realtà, si giunge alla soluzione degli equivoci.

I Menaechmi quindi nascondono una complessità particolare che non riguarda, come in altre commedie, la trama e l’ intreccio, ma si rivela soprattutto nei meccanismi che generano gli equivoci e nei ritmi che regolano le relazioni tra i personaggi.

In ultima analisi, volendo azzardare una schematizzazione, si può affermare che la comicità plautina può essere di 3 generi:

1. di situazione: basata, cioè, sugli equivoci e sugli scambi di persona, con successiva "agnizione", che porta al lieto fine;

2. di carattere: basata sull’accentuazione caricaturale e macchiettistica dei difetti dei protagonisti;

3. bassa: basata su battute volgari e sull’esasperazione di sentimenti naturali.

E' ovvio che le commedie che rispettano tutt'e tre le condizioni sovresposte risultano essere quelle meglio riuscite e più gradite al pubblico: e, quindi, in prima linea, l’Amphitruo e lo Pseudolus. Ma non a caso anche i Menaechmi godono di grande fama per gli equivoci ed il loro senso comico.

Tito Maccio Plauto

Commediografo latino dell’età arcaica, nacque a Sarsina tra il 255-250 a.C. Il nomen -Maccius- deriva non da una famiglia nobile, bensì dal maccus, lo sciocco, una maschera della fabula atellana, probabilmente derivante dal suo essere stato attore; il cognomen, invece, potrebbe indicare i piedi piatti o i cani plautini dalle orecchie grandi a penzoloni. Scrisse esclusivamente palliate, e all’interno del corpus di Plauto –comprendente inizialmente 130 commedie- si individuano 21 commedie plautine, 19 incerte e 90 spurie. Ispiratosi alla νέα κομοδία di Menandro, la commedia borghese che verte essenzialmente su due grandi temi, denaro e amore, Plauto inserisce anche il tema del doppio per creare la vis comica. Il comico nasce dalla situazione che si viene a creare, dal linguaggio usato, tanto che egli inventò anche neologismi

per enfatizzare la comicità. Tra le sue opere maggiori si ricordano il Miles gloriosus, Amphitruo (Anfitrione), Asinaria, Bacchides, Mostellaria, Cistellaria e Menaechmi.

Filosofia: apollineo e dionisiaco in Nietzsche

Friedrich Nietzsche, filosofo tedesco della seconda metà del 1800, dedicò la sua giovinezza allo studio della filologia classica, a tal punto che solo a 24 anni ottenne l’insegnamento della suddetta disciplina all’Università di Basilea. Ivi pubblicò La nascita della tragedia (1872). In quest’opera egli riprende il tema dell’estetica precedentemente trattato da Schopenhauer, ma con una differenza: Schopenhauer vedeva nell’arte un distacco momentaneo della volontà; per Nietzsche, invece, l’espressione artistica consente all’individuo di entrare in contatto con gli aspetti più oscuri e tragici dell’esistenza. Questa forma di espressione artistica prende corpo nell’antica tragedia greca di Eschilo e Sofocle e in epoca moderna nei drammi musicali di Wagner, questi ultimi capaci di esprimere ciò che non è esprimibile concettualmente.

La tragedia greca si compone di due spiriti contrapposti, l’apollineo e il dionisiaco, che in varie epoche sono prevalsi l’uno sull’altro o sono riusciti a convivere pacificamente. Ancora al tempo di Nietzsche dominava, nell'ambiente dei filologi classici, l'immagine di un mondo greco unitario e intrinsecamente armonico. Si riteneva cioè che la storia dei Greci rappresentasse l'evoluzione di un atteggiamento spirituale costante, caratterizzato dalla serenità, dall'armonia, dal senso dell'equilibrio, del limite e della bellezza, e che tale atteggiamento trovasse espressione in tutti gli aspetti della vita per tutto l'arco della vicenda storica di quel popolo. Il mondo greco, insomma, appariva, per usare il linguaggio di Nietzsche, la manifestazione di uno spirito apollineo. Ma, osserva Nietzsche, questo è solo un aspetto della cultura e della vita dei Greci antichi; infatti accanto a quello apollineo è presente anche uno spirito dionisiaco, un atteggiamento cioè di «rottura» di tutti i canoni morali e di tutti gli «schemi» di comportamento sociale, un atteggiamento di esaltazione entusiasta e sfrenata della vita in tutte le sue forme; esaltazione celebrata col trionfo degli istinti, specialmente di quello sessuale, e vissuta in una dimensione psicologica di ebbrezza. Accanto alla scultura e all'architettura, espressioni artistiche prevalenti dello spirito apollineo, trovarono il loro posto anche la musica e la poesia lirica, frutti propri dello spirito dionisiaco. Dice infatti Nietzsche: “Avremo fatto un grande acquisto alla scienza estetica, quando saremo giunti non solo al concetto

logico, ma anche all'immediata certezza dell'intuizione che lo sviluppo dell'arte è legato alla dicotomia dell'apollineo e del dionisiaco, nel modo medesimo come la generazione viene dalla

dualità dei sessi in continua contesa fra loro e in riconciliazione meramente periodica. Questi vocaboli li prendiamo a prestito dai greci... Sulle loro due divinità artistiche, Apollo e

Dioniso, è fondata la nostra teoria che nel mondo greco esiste un enorme contrasto, enorme per l'origine e per il fine, tra l'arte figurativa, quella di Apollo, e l'arte non figurativa della musica, che è propriamente quella di Dioniso. I due istinti, tanto diversi tra loro, vanno l'uno accanto all'altro, per

lo più in aperta discordia, ma pure eccitandosi reciprocamente a nuovi parti sempre più gagliardi, al fine di trasmettere e perpetuare lo spirito di quel contrasto, che la comune parola «arte» risolve

solo in apparenza; fino a quando, in virtù di un miracolo metafisico della «volontà» ellenica, compaiono in ultimo accoppiati l'uno con l'altro, e in questo accoppiamento finale generano

l'opera d'arte, altrettanto dionisiaca che apollinea, che è la tragedia attica.”

(La nascita della tragedia)

Se si tiene conto di questo duplice aspetto dello «spirito greco», allora la storia dei Greci appare distinguibile in tre fasi:

• la prima, quella «pre-socratica», in cui spirito apollineo e spirito dionisiaco convivono separati e opposti tra loro;

• la seconda, quella dei grandi tragici, in cui essi si armonizzano dando vita alle grandi opere dell'arte antica;

• la terza, che ha inizio con Euripide e con Socrate, in cui lo spirito apollineo assoggetta progressivamente quello dionisiaco, fino a separarsene completamente con l'epoca alessandrina.

Secondo Nietzsche, quindi, i Greci prima di Socrate erano in grado di sopportare la tragicità della vita, perché avevano accettato gli impulsi che dalla vita stessa provengono. La seconda fase della storia greca corrisponde all’epoca di Eschilo e Sofocle, durante la quale i grandi tragici compongono in sintesi i due impulsi contrapposti e danno vita a grandi tragedie. Successivamente Euripide (terza fase), allontanandosi da quello che è il fondo oscuro, la tragicità dell’esistenza, inizia a privilegiare il momento dell’apollineo, che si manifesta nel ragionamento. Pertanto, al pessimismo tragico succede l’ottimismo della morale e la visione intellettualistica del mondo. Elemento fondamentale di questo passaggio è stato Socrate, definito oltretutto lo scopritore del concetto, attraverso il quale si sacrifica la pienezza della vita alla scienza. Con l'affermarsi della filosofia infatti decresce e si depaupera, nella cultura e nella vita greche, lo spirito dionisiaco; Socrate propone infatti l'assoggettamento dell'istinto e della passione alla guida della ragione. Dal momento in cui Euripide sottostarà agli insegnamenti di Socrate, si ha la fine della tragedia. Con ciò ha inizio quella scissione interna all'uomo tra ragione e istinto e quella tra uomo e natura; scissioni che domineranno nell'epoca alessandrina e che costituiranno il triste retaggio della civiltà occidentale. L'ideale dell'uomo così non è la vita ma la scienza; l'uomo perde i contatti con la forza vitale della natura, che poi è la sua essenza propria, e si chiude orgoglioso in se stesso, fiducioso della sua capacità conoscitiva; ossia si chiude nella sua presunzione di rivelare con la scienza gli enigmi del reale. Pretendendo Socrate di chiudere l’esistenza in concetti, volendo racchiudere lo spirito dionisiaco libero e istintivo in concetti razionali e intellettualistici, viene posta fine alla tragedia greca. “…Così l'individuo si sgomenta, diviene timido e incerto, non crede più nelle proprie forze: ripiega in

se stesso, nell'intimità del proprio animo, e cioè nel vuoto caotico del dato appreso che non può agire esteriorizzandosi, della dottrina che non diventa vita... La soppressione degli istinti per mezzo

della storia ha reso gli uomini pure astrazioni ed ombre: nessuno osa più esporre la propria personalità, ma ciascuno prende la maschera di un uomo colto, di dotto, di poeta, di uomo politico.

Se esaminiamo poi quelle maschere... ci troviamo improvvisamente fra le mani soltanto stracci e cenci variopinti.”

(Considerazioni sulla storia)

Questa dunque è la condizione dell'uomo moderno. Ma lo spirito dionisiaco ribolle, esso tende a

riemergere, come indica la musica di Wagner, in cui viene celebrata la condizione tragica

dell'uomo. Schopenhauer e Wagner hanno smascherato millenni di imposture sulla realtà, sulla

vita dell'individuo, sulla società e sulla storia, costruite dallo spirito «scientifico» della civiltà

occidentale, che ha inibito per secoli la varietà, la diversità, la ricchezza, la forza dello spirito

dionisiaco.

Deutschsprache: Geist und Leben - Thomas Mann

Sowie Nietzsches Meinung nach waren die alten Griechen von zwei Trieben beherrschten, der

apollinische und der dionysische Trieb, besteht die menschliche Persönlichkeit -Manns Meinung

nach- aus Kunst und Leben. Nur die Kunst erlaubt den Mensch, zum Geist zu aufsteigen, und die

Künstler sind die Leute, die völlig der Sinn des Lebens verstanden hatten. Dagegen, wer das Leben

materialistisch erlebt, um Gewinn und Erfolg zu haben, sind die Bürger, die nur an Geld und Guten

denken.

Im Werk von Thomas Mann ist der Konflikt zwischen Geist und Leben, Künstler und Bürger ein

wiederkehrende Motiv. Diese zwei Arten Leute kämpfen gegeneinander, um das Leben zu

überleben. Der Künstler, Hauptfigur in vielen Werken Manns, wie z.B. der Novellen Tonio Kröger

und Der Tod in Venedig, verkörpert die physische und psychische Dekadenz: er ist mager, mit

schwarzen Haaren, oft krank, von den anderen verschieden, meistens mit einem deutsch-

lateinischen Namen (z.B. Tonio Kröger, Gustav von Aschenbach). Die körperliche Krankheit ist die

äußere Form einer seelischen Krankheit, einer innerlichen Dekadenz. Diese Krankheit verkörpert

den Widerspruch zwischen Leben und Kunst: der Künstler, der Ästhet, will nicht sein Leben in

einem korrupten bürgerlichen Gesellschaft, die die Problemen der Leute nicht hört und nicht lost

auf, erleben. So sind die Künstler gegen die Bürger. Die echten Bürger sind Symbol des Reichtums:

sie sind meistens groß, sie haben blaue Augen und blonde Haare, sie sind gesund, denn sie haben

keine psychischen Probleme, mit typisch deutschen Namen, wie der Freund-Antagonist von Tonio

Kröger, Hans Hansen.

Die Protagonisten der Werk Manns verkörpern den Typus des Künstlers der Jahrhundertwende,

die durch Endzeitstimmung gekennzeichnet war.

Bei Mann spielen auch die Begriffe des Nordens und des Südens eine herrschende Rolle: der

Norden ist das Land des Bürgertums, während der Suden das Land der Kunst ist.

Thomas Mann selbst, der im norddeutschen Lübeck geboren wurde, fühlte in sich selbst beide

Elemente: er war der Sohn eines reichen, deutschen Kaufmanns, aber seine Mutter war

Südamerikanerin. Ähnlich Tonio Kröger, vielleicht seine autobiographische Werk: Tonio ist der

Sohn eines Lübecker Kaufmanns und Konsul und eine südländischen Frau. Mit 14 Jahren freundet

er sich mit dem Schulkameraden Hans Hansen an, obwohl die beiden verschiedene Wesensarten

aufweisen.

Nämlich, Tonio ist der Künstler, er ist

• mager, braunhaarige, mit einen grauen Gurt-Paletot, mit einem Pelzmütze,

• mit südlich scharfgeschnittenen Gesicht und dunkle und zart umschattete Augen mit zu

schweren Lidern,

• er geht nachlässig und ungleichmäßig,

• langsam beim Unterricht,

• im Freizeit er ist faul,

• er liest Roman, wie Don Carlos von Schiller.

Dagegen, Hans Hansen symbolisiert der Bürger:

• groß, blondhaarige und mit blauen Augen, er trägt eine kurze Seemannsüberjacke und

einen dänische Matrosenmütze mit kurzen Bändern,

• hübsch und wohlgestaltet, breit in den Schultern und schmal in den Hüften,

• er geht elastisch und taktfest,

• in die Schule aufgepasst,

• im Freizeit er reit, turnt, schwimmt…

• er liest Pferdebüchern.

Thomas Mann

(1875-1955)

Er wurde in Lübeck als Sohn eines Kaufmanns und einer Südamerikanerin geboren.

Nach dem Tod seines Vaters zog er nach München, wo er studierte und 30 Jahre lang als freier

Schriftsteller lebte. Er fahrt auch mit seinem Bruder nach Italien. Als 1933 die Nazi die Macht

übernahmen, ging er im Exil zuerst im Frankreich und dann in den Vereinigten Staaten. Im Exil

schriebt er gegen der Nationalsozialismus von Hitler. Nach dem Ende des 2. Weltkrieges konnte er

wieder nach Europa reisen und 1949 nach Deutschlad zurückkommt.

Storia: La politica del doppio volto di Giolitti

Giolitti fu un uomo politico italiano che non appartenne propriamente alla schiera dei "padri della

patria" o alla cosiddetta “generazione dei reduci”: egli infatti nacque a Mondovì (Cuneo) nel 1842

e non partecipò al Risorgimento; non fu tra quelli che formarono l’Italia unita, bensì studiò e si

laureò in Giurisprudenza nel 1860. Questo, più che essere una mancanza, gli permise di vedere,

analizzare ed affrontare i problemi del Regno con lucidità e pragmatismo e non con i paraocchi del

mito risorgimentale: fu un uomo nuovo per uno stato vecchio che voleva rinnovarsi.

Infatti nonostante ciò egli fu il leader del corso liberale che dominò il governo tra la fine dell'800 e

gli inizi del 1900. Portatore di idee liberali moderate, entrò al governo già nel 1882 in qualità di

collaboratore del Ministero di Grazia e Giustizia. Dopo essere passato, con la Destra storica di

Quintino Sella, al Ministero del Tesoro (dove, fra l'altro, contribuì a quell'opera tributaria volta

tutta al pareggio del bilancio), divenne Ministro del Tesoro del governo di Francesco Crispi e

quindi, Ministro dell'Interno nel governo di Zanardelli, prima di giungere alla nomina di primo

ministro nel 1892, primo governo di una serie di cinque. Tuttavia lo scandalo della Banca Romana

vide le sue dimissioni nel 1893. Il nuovo re d’Italia, Vittorio Emanuele III, costretto a rovesciare la

politica che aveva condotto alla sconfitta dei conservatori e all’uccisione di Umberto I, nel 1901

chiamò al governo il giurista Zanardelli, costretto però a ritirarsi due anni dopo perché vecchio e

ammalato. A lui successe Giovanni Giolitti. Egli comprese che l’unico modo per fermare i socialisti

e per placare il malcontento popolare era di permettere ai lavoratori di conquistarsi migliori

condizioni di lavoro e di vita.

Per quanto riguarda il Nord, quindi, non represse gli scioperi e favorì l’organizzazione di

associazioni di lavoratori; Giolitti promosse numerose riforme in campo sociale: venne

riconosciuta sostanzialmente la validità degli scioperi per motivi economici, venne regolamentato

il lavoro femminile e minorile, fu resa obbligatoria l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e

ricostruì la Cassa nazionale per l’invalidità dei lavoratori, istituì l’ispettorato del lavoro e nel 1912

introdusse il suffragio universale maschile. Progresso era ovunque: la rete ferroviaria, che nel 1970

misurava soltanto 6000 km, ne contava 18000 nel 1914; i trafori alpini, lo sviluppo

dell’idroelettricità, le grandi opere di bonifica e d’irrigazione consentirono un notevole incremento

della produzione in tutti i settori. La produzione del grano e dei vini raddoppiò. Ebbe inizio

l’esportazione del cotone; a Torino con la FIAT sorse l’industria automobilistica (1899), seguita poi

nel 1910 dall’Alfa Romeo e i grandi colossi industriali dell’Ansaldo e dell’Ilva.

Sud

In quegli anni era esploso con violenza il problema del Mezzogiorno, depresso ed impoverito,

abbandonato ai latifondisti in preda al fenomeno del clientelismo, il cui squilibrio nei confronti del

nord si aggravava di continuo. Qui Giolitti, al contrario del Nord, controllò le elezioni politiche

facendo ricorso ai prefetti, impedì agli avversari di tenere i comizi elettorali, falsificò i risultati

elettorali e talvolta usò la malavita per intimidire gli avversari. Per questo modo di operare gli fu

rivolto l’appellativo di ministro della malavita. Mancante di una classe imprenditoriale, rimase

agricolo e l’unica valvola di sfogo fu l’emigrazione verso l’America: spostò le tensioni sociali

oltreoceano e garantì un maggiore afflusso di denaro in Italia, grazie agli stipendi che gli emigranti

mandavano alle famiglie italiane.

Ecco perché il modo di fare politica di Giolitti fu chiamato del doppio volto: da una parte aperto e

democratico, nell’affrontare i problemi del Nord Italia, dall’altra senza scrupoli e corrotto nello

sfruttare quelli del Sud.

Nord (bombetta e abito elegante) Sud (fiocco rosso, abiti dimessi)

pubblico borghese pubblico proletario

Tuttavia può essere considerato un doppio volto, un doppio gioco anche il suo altalenare in

politica. Infatti con l’intento di far convogliare nelle istituzioni le esigenze della nuova società, offrì

un incarico a Filippo Turati, facente parte del PSI più minimalista, che difendeva gli operai più

qualificati e non auspicava a rivoluzioni, a differenza dei massimalisti di Labriola. Quando però

Turati non gli garantì più totalmente l’appoggio, Giolitti si rivolse agli imprenditori rafforzando il

pugno riguardo gli scioperi, e si rivolse anche ai cattolici per vincere le elezioni del 1904. È la

cosiddetta pratica del compromesso: egli cercò di “stringere amicizia” con coloro con cui si

identificavano le masse popolari, ossia movimento socialista e cattolico, attraverso la pratica del

clientelismo e -soprattutto al sud- la pressione sull’elettorato.

Adottò nuovamente questa pratica quando tornò al governo nel 1911. È dell’anno seguente il

suffragio universale maschile, per mezzo del quale la Sinistra avrebbe ottenuto più voti da parte

dei socialisti. È per questo che egli ha bisogno dei voti dei cattolici. È quindi necessaria un’unione

tra i liberali di Giolitti e i cattolici, siglata nel 1913 quando venne stipulato il Patto Gentiloni (dal

nome del presidente dell’Unione Elettorale Cattolica), in base al quale i cattolici si impegnavano a

sostenere i candidati liberali che promettevano di non votare leggi anticlericali (es. divorzio). Il

patto funzionò: Giolitti vinse le elezioni e rimase al governo sino al 1914, anno delle sue dimissioni,

quando venne sostituito dal conservatore Salandra.

Un po' tutti abbiamo personalità multiple, un personaggio per ogni occasione, ma non in maniera

così netta da sfociare nella patologia. Eccetto quelli che soffrono di psicosi.

Personalmente credo che in ogni persona ci siano lati nascosti, possibilità latenti che possono

venire allo scoperto se qualche evento li fa emergere. Ma se non accade nulla che possa far

comparire una o più personalità nascoste, queste possono rimanere tali nel profondo per l’eternità.

Non potremo mai sapere se le persone con cui veniamo in contatto siano realmente sincere e ci

mostrino la loro vita, la loro propria personalità, o se invece si siano poste una “maschera” per

nascondere ciò che realmente sono e adagiarsi sulla facilità della seconda personalità. Può

capitare che possiamo rimanere affascinati da queste maschere, e che una volta conosciute bene

siamo talmente abituati a vederle così che se per caso, in una confessione rubata o in un momento

d’ira, riappare il dottor Jekyll, potremmo essere spaventati da questo e reagire male. Solo così,

però, capiremo veramente con chi abbiamo a che fare. Forse, dopo ciò, i rapporti con questa

persona si affievoliranno, perché non è facile mostrarsi nudi e crudi come siamo: come non è facile

per il corpo, ancora meno lo è per la personalità. Forse dopo l’incontro con il vero Jekyll, le paure si

ritorceranno su voi stessi e vi chiederete: “Ma io, chi sono?”. I dubbi insorgeranno, una vera e

propria tempesta nel vostro cervello vorrà scoprire la verità, ed in men che non si dica vi ritroverete

ad indagare su voi stessi. Psicologia, yoga o psicanalisi non serviranno, i quesiti vi attanaglieranno

giorno e notte, sino a giungere ad un’amara verità: ognuno di noi ha una doppia personalità. Ogni

persona non potrà mai essere se stesso in ogni occasione, non potrà esserlo un adulto come non

potrà esserlo un neonato. L’educazione è il primo strumento che plasma la personalità:

l’educazione ci insegna a comportarci in un determinato modo per una determinata situazione.

Ecco, possiamo considerarci variopinti: un colore a seconda della situazione, dell’occasione, del

sentimento. Magari un colore ci piacerà più degli altri, tenderemo ad utilizzarlo maggiormente, ma

non potremmo mai essere monocromi.

Non potremmo mai essere noi stessi, mai una sola ed unica persona.

Mai.

Un po’ come alzarsi alla mattina ed andare nel supermercato personale, quello che ognuno ha in

casa propria, e scegliere la “faccia del giorno”, magari prenderne una di riserva da tenere in borsa

nel caso in cui quella scelta non ci piacesse più… Ogni giorno un look diverso, dal cappello a cilindro

agli occhiali da sole, dalla cresta alla maschera di bellezza. C’è un’infinità di scelta, perché

un’infinità sono le sfaccettature della personalità.

Bibliografia e sitografia

Italiano:

- R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese, R. Donnarumma, La scrittura e

l’interpretazione 3, G. B. Palumbo Editore, 2003

- Pirandello Luigi, “Uno, nessuno e centomila”, “Così è (se vi pare)” (e-book)

Lett. Latina:

- Di Benedetto Daniela, “La costruzione della trama nei Menaechmi di Plauto: la pazzia, gli

occhi, il mantello”, saggio

- Plauto, “Menaechmi”, Mondadori - Oscar classici latini e greci, 2001

Filosofia:

- A. Pastore, U. Perone, Filosofia 3, SEI, 2005

- www.filosofico.net

Deutschsprache:

- Mari Maria Paola, “Focus: Literatur 3”, Cideb, 2001

- Thomas Mann, “Tonio Kröger”

Storia:

- De Bernardi, Guarracino, Balzani, Tempi dell’Europa tempi del mondo, Edizioni Scolastiche

Bruno Mondadori, 2004