Paradossi e antinomie dall'antichità al medioevo

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159 Paradossi e antinomie di Roberto Limonta e Rolando Longobardi Accanto all’analisi sistematica delle teorie del ragionamento la logica antica ha sviluppato una “via antinomica” al pensiero, producendo una mole notevole di argomenti, formule, soluzioni per paradossi ed aporie. A guidarci nella rico- struzione di questa storia, dall’antichità ai suoi sviluppi medievali (nella forma degli insolubilia) e alle formalizzazioni logiche moderne (come nel caso del pa- radosso di Russell), è stato il paradosso del mentitore. Riferito ad un tauma- turgo cretese del VII secolo a.C., Epimenide, lo ritroviamo in tutti i passaggi cruciali della storia della logica antica: in Aristotele, che ne offre una soluzio- ne all’interno delle Confutazioni sofistiche, in Crisippo e nei filosofi della scuo- la megarica, in particolar modo nelle riflessioni di Diodoro Crono sulla natura dei condizionali. Il paradosso, in filosofia, non è stato solo una curiosità o un gioco intellettuale, ma l’occasione per verificare la solidità strutturale e la coe- renza interna delle teorie logiche. La storia di questo percorso mostra come l’interesse nei confronti dei grandi paradossi, elaborati per la prima volta dal- la filosofia greca, sia rimasto costante ed intenso, ed abbia sempre agito da stimolo per il dibattito logico-epistemologico, fino alle soluzioni complesse delle teorizzazioni moderne di Lewis, Tarski, Russell. Diodoro era alla corte di Tolomeo Soter quando Stilpone gli indirizzò alcuni ar- gomenti dialettici; non sapendoli risolvere sull’istante, si ebbe il rimprovero del re [...]. Uscito dal banchetto, dopo avere scritto intorno ad un problema logi- co, morì per disperazione. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 111). Dialettica e paradossi Parlare di logica antica significa senza dubbio muoversi tra l’impianto della sillogistica aristotelica e la logica proposi- zionale della scuola megarico-stoica. I Greci, però hanno sempre coltivato, accanto all’analisi sistematica delle teorie del ragionamento, una sorta di gusto “dionisiaco” per il paradosso e per le contraddizioni che di volta in volta ca- pitava loro di incontrare sulla strada dell’indagine della 158 ROMA ö Temi trasversali concreta pratica del suo discorso filosofico e scientifico, gli stoici sono ben noti per il loro frequente ricorso ad argomen- ti in rigorosa forma sillogistica nell’ambito della loro fisica, etica e teologia, come illustrato dal sillogismo che presentia- mo qui a fianco (Cicerone, Sulla divinazione, I 82-83): (1) Se (p) gli dèi esistono e (q) non rivelano il futuro agli uomini, o (r) gli dèi non amano gli uomini, o (s) gli dèi ignorano il futuro, o (t) gli dèi pensano che non sia nell’interesse degli uomini conoscere il futuro, o (v) gli dèi pensano che non sia dignitoso da parte loro fornire agli uomini segni riguardanti il futuro, o (w) gli dèi non sono in grado di fornire agli uomini segni riguardanti il futuro. (p&¬q)?(r v s v t v v v w) (2) Ma né (r) gli dèi non amano gli uomini, né (s) gli dèi ignorano il futuro, né (t) gli dèi pensano che non sia nell’interesse degli uomini conoscere il futuro, né (v) gli dèi pensano che non sia digni toso da parte loro fornire agli uomini segni ri guardanti il futuro, né (w) gli dèi non sono in grado di fornire agli uomini segni riguardanti il futuro. ¬(r v s v t v v v w) (3) Dunque non si dà il caso che (p) gli dèi esistono e (q) non rivelano il futuro agli uomini. ¬(p&¬q) – da (1) e (2) per il secondo anapodittico (4) Ma (p) gli dèi esistono. P (5) Dunque (q) gli dèi rivelano il futuro agli uomini (e la divinazione è una scienza). q – da (3) e (4) per il terzo anapodittico. S econdo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, VII 179), il giova- ne Crisippo pregava il suo maestro Cleante di insegnargli so- lo le dottrine della Stoà, sostenendo che si sarebbe occupato di trovare le dimostrazioni egli stesso: come lo stoico Posido- nio avrebbe rimarcato oltre un secolo più tardi, la logica stoi- ca non è solo uno strumento di difesa da attacchi esterni, ma costituisce l’ossatura stessa del discorso filosofico, necessaria a dare forma, consistenza e coesione, dall’interno, al comples- so organismo delle teorie della scuola. A14_008_317_temi trasversali_A_012-580_prima_bozza 13/12/11 12.12 Pagina 158

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Paradossi e antinomiedi Roberto Limonta e Rolando Longobardi

Accanto all’analisi sistematica delle teorie del ragionamento la logica antica hasviluppato una “via antinomica” al pensiero, producendo una mole notevoledi argomenti, formule, soluzioni per paradossi ed aporie. A guidarci nella rico-struzione di questa storia, dall’antichità ai suoi sviluppi medievali (nella formadegli insolubilia) e alle formalizzazioni logiche moderne (come nel caso del pa-radosso di Russell), è stato il paradosso del mentitore. Riferito ad un tauma-turgo cretese del VII secolo a.C., Epimenide, lo ritroviamo in tutti i passaggicruciali della storia della logica antica: in Aristotele, che ne offre una soluzio-ne all’interno delle Confutazioni sofistiche, in Crisippo e nei filosofi della scuo-la megarica, in particolar modo nelle riflessioni di Diodoro Crono sulla naturadei condizionali. Il paradosso, in filosofia, non è stato solo una curiosità o ungioco intellettuale, ma l’occasione per verificare la solidità strutturale e la coe-renza interna delle teorie logiche. La storia di questo percorso mostra comel’interesse nei confronti dei grandi paradossi, elaborati per la prima volta dal-la filosofia greca, sia rimasto costante ed intenso, ed abbia sempre agito dastimolo per il dibattito logico-epistemologico, fino alle soluzioni complessedelle teorizzazioni moderne di Lewis, Tarski, Russell.Diodoro era alla corte di Tolomeo Soter quando Stilpone gli indirizzò alcuni ar-gomenti dialettici; non sapendoli risolvere sull’istante, si ebbe il rimprovero delre [...]. Uscito dal banchetto, dopo avere scritto intorno ad un problema logi-co, morì per disperazione. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 111).

Dialettica e paradossiParlare di logica antica significa senza dubbio muoversi tral’impianto della sillogistica aristotelica e la logica proposi-zionale della scuola megarico-stoica. I Greci, però hannosempre coltivato, accanto all’analisi sistematica delle teoriedel ragionamento, una sorta di gusto “dionisiaco” per ilparadosso e per le contraddizioni che di volta in volta ca-pitava loro di incontrare sulla strada dell’indagine della

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concreta pratica del suo discorso filosofico e scientifico, glistoici sono ben noti per il loro frequente ricorso ad argomen-ti in rigorosa forma sillogistica nell’ambito della loro fisica,etica e teologia, come illustrato dal sillogismo che presentia-mo qui a fianco (Cicerone, Sulla divinazione, I 82-83):

(1) Se (p) gli dèi esistono e (q) non rivelano il futuro agli uomini, o (r) gli dèi non amano gli uomini, o (s) gli dèi ignorano il futuro, o (t) gli dèi pensano che non sia nell’interesse degli uomini conoscere il futuro, o (v) gli dèi pensano che non sia dignitoso da parte loro fornire agli uomini segni riguardanti il futuro, o (w) gli dèi non sono in grado di fornire agli uomini segni riguardanti il futuro. (p&¬q)?(r v s v t v v v w)

(2) Ma né (r) gli dèi non amano gli uomini, né (s) gli dèi ignorano il futuro, né (t) gli dèi pensano che non sia nell’interesse degli uomini conoscere il futuro, né (v) gli dèi pensano che non sia dignitoso da parte loro fornire agli uomini segni riguardanti il futuro, né (w) gli dèi non sono in grado di fornire agli uomini segni riguardanti il futuro. ¬(r v s v t v v v w)

(3) Dunque non si dà il caso che (p) gli dèi esistono e (q) non rivelano il futuro agli uomini. ¬(p&¬q) – da (1) e (2) per il secondo anapodittico

(4) Ma (p) gli dèi esistono. P(5) Dunque (q) gli dèi rivelano il futuro agli uomini

(e la divinazione è una scienza). q – da (3) e (4) per il terzo anapodittico.

Secondo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, VII 179), il giova-ne Crisippo pregava il suo maestro Cleante di insegnargli so-lo le dottrine della Stoà, sostenendo che si sarebbe occupatodi trovare le dimostrazioni egli stesso: come lo stoico Posido-nio avrebbe rimarcato oltre un secolo più tardi, la logica stoi-ca non è solo uno strumento di difesa da attacchi esterni, macostituisce l’ossatura stessa del discorso filosofico, necessariaa dare forma, consistenza e coesione, dall’interno, al comples-so organismo delle teorie della scuola.

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l’infinito; dunque non c’è lo spazio.” (Simplicio, In Aristote-lis physicorum libros, 562, A 24 DK tr. it. di V. Celluprica inLa logica antica, Torino, Loescher, 1978, p. 45). Di Protago-ra, che pure si muoveva nel quadro di una sofistica ancorasensibile all’uso morale e politico delle argomentazioni dia-lettiche, si racconta come fosse rimasto vittima delle sotti-gliezze logiche che insegnava. Come racconta Aulo Gellio(Notti Attiche, V, 10), appresa l’arte oratoria da Protagora, ildiscepolo Evatlo ottenne di pagarlo dopo che avesse vinto lasua prima causa; ma Evatlo non esercitò mai la professioneforense e, quando Protagora lo citò in tribunale per il man-cato pagamento, si rese conto che il discepolo lo aveva chiu-so astutamente in un’impasse logica: se Evatlo avesse vinto,Protagora avrebbe dovuto pagare lui la pena e, se avesseperso, Protagora non avrebbe ugualmente ottenuto nulla,dal momento che il patto era che il pagamento seguisse laprima vittoria di Evatlo in una causa. Quanto a Platone,l’Eutidemo è un vero e proprio repertorio di paralogismi eparadossi, tutto giocato com’è sulla contesa eristica traDionisodoro ed Eutidemo, costruita su argomenti di que-sto genere:“… Suo padre era Cheredemo e il mio, invece, Sofronisco”“Ma padre era tanto Sofronisco quanto Cheredemo” […]“Era, dunque, padre, pur essendo diverso dal padre? O tusei lo stesso di questa pietra” […] “Sì diverso”.“Ed essendo diverso dalla pietra non sei pietra, ed essendodiverso dall’oro, non sei oro”.“È cos씓Anche Cheredemo, dunque, essendo diverso dal padre,non è padre” […]“E se Cheredemo è padre, intervenne Eutidemo, Sofroni-sco, a sua volta, essendo diverso dal padre, non è padre,sicché tu, Socrate, sei senza padre”. (Eutidemo, 298,a a cu-

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coerenza linguistica e semantica di enunciati e teorie chepretendono di parlare della realtà. I Greci erano insommaben coscienti del valore di un approccio antinomico ai pro-blemi logici. Ed era un gusto antico e radicato, se dobbia-mo credere all’aneddoto su Omero messo in ridicolo da unindovinello puerile: “Dei bambini, che uccidevano pidoc-chi, lo ingannarono infatti dicendo: ciò che abbiamo vistoe preso non l’abbiamo più, mentre ciò che non abbiamo népreso né visto lo portiamo con noi”. (Eraclito, Sulla natu-ra, 22 DK B 56).L’antinomia (antí, contro e nómos, norma) è un enunciatotale per cui sia la sua affermazione che la sua negazione im-plicano una contraddizione; non nega quindi alcun princi-pio logico ma consiste nel fatto che il vero implica il falsoed il falso il vero. L’antinomia quindi genera conseguenzeparadossali, dove per paradosso (dal gr. pará, contro e dó-xa, opinione) si intende ogni affermazione che vada controciò che solitamente è ritenuto ovvio e, più precisamente,l’affermazione assurda che consegue da premesse plausibi-li attraverso procedimenti deduttivi all’apparenza corretti.In questo modo le antinomie colpiscono la coerenza inter-na delle teorie, evidenziandone le crepe, le incongruenzesemantiche e i lati oscuri o irrisolti, ma possono anche cer-tificarne la solidità se quei modelli di rappresentazione del-la realtà (sistemi) si mostrano capaci di resistere a quel ve-ro e proprio “esperimento falsificante” che è il paradosso.Si tratta di una funzione che ritroviamo a partire già da Ze-none di Elea, che Aristotele indicava come il fondatoredella dialettica. Celebre per paradossi come quello diAchille e la tartaruga, Zenone rispondeva agli attacchi con-tro l’ontologia parmenidea con argomenti come questo:“Se vi è lo spazio, sarà in qualche dove; infatti tutto ciò cheè, è in qualche dove; ma ciò che è in qualche dove è nellospazio, quindi anche lo spazio sarà nello spazio e questo al-

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Vi sono infatti, soprattutto fra quelli che provengono dalla circonci-sione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori dellagente. A questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono inscompiglio intere famiglie, insegnando per amore di un guadagno di-sonesto cose che non si devono insegnare. Uno dei loro, proprio unloro profeta, già aveva detto: “I Cretesi son sempre bugiardi, malebestie, ventri pigri”. Questa testimonianza è vera. Perciò correggilicon fermezza, perché rimangano nella sana dottrina e non diano piùretta a favole giudaiche e a precetti di uomini che rifiutano la verità.

Paolo di Tarso, Ad Titum, 1, 10-13

Di questo taumaturgo cretese, vissuto tra il VII e il VI se-colo a.C., sappiamo molto poco, ma quanto basta per in-tuire che la sua attenzione non era certamente rivolta al ri-svolto logico del suo giudizio (come l’ipotesi sulla prove-nienza della citazione paolina dal proemio di una Teogonia,sostenuta da Diels, parrebbe confermare). Diogene Laer-zio attribuisce ad Eubulide, esponente di spicco dellascuola megarica, la formulazione compiuta e la risoluzionedel paradosso, e, per quanto non ci sia rimasta l’esatta ver-sione eubulidea dell’antinomia, l’attribuzione sembra lapiù plausibile, confermata anche dal fatto che Platonesembra ignorare il paradosso, a differenza di Aristotele,contemporaneo di Eubulide (cfr. Confutazioni sofistiche,180b2 sgg). La questione affascinò Teofrasto, che gli dedi-cò tre libri, e soprattutto lo stoico Crisippo, che sul temadel discorso ingannevole avrebbe composto sei opere (cfr.Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 196), di cui quasinulla ci è rimasto.Per quanto riguarda Aristotele, pur senza esprimerlo nellasua forma paradigmatica, nelle Confutazioni sofistiche(180a32-180b7) offre un tentativo di soluzione. Il quadro èquello delle indicazioni sul modo di risolvere i paralogismi:

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Carro trainato datigri con Bacco, IVsec., mosaicoromano, Tunisi,Museo del Bardo

ra di G. Cambiano, in Platone, Dialoghi filosofici, Torino,Utet, 1970, p. 636). Anche Aristotele, nel Protrettico, avrebbe fatto uso di ar-gomentazioni paradossali per sostenere la necessità dellafilosofia: se si deve filosofare, allora si fa filosofia; se non sideve filosofare, si fa filosofia lo stesso nel momento in cuisi argomenta contro la necessità del pensiero filosofico(l’argomento riproduce, in modo più piano e divulgativo,la tecnica usata da Aristotele per sostenere il principio dinon contraddizione).

Il MentitoreSi può parlare propriamente di antinomia semantica solocon quella che resterà la più celebre, studiata e declinatain infinite varianti: il logos pseudomenos, noto come para-dosso del mentitore o di Epimenide. Il locus classico perl’attribuzione dell’antinomia ad Epimenide si trova in sanPaolo, che ne offre già una formulazione matura: “un lorostesso profeta disse che i cretesi mentono sempre, che so-no bestie malvage, ventri pingui” (Ad Titum, I, 12).

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Suppongo che tu affermi o neghi di avere o non avere tutto ciò che nonhai perduto; qualunque cosa si risponda, è una rovina. Infatti, se si ne-ga di avere ciò che non si è perso, si conclude che non si hanno gli oc-chi, che non si sono persi; se, invece, si risponde di avere ciò che nonsi è perso, si conclude che si hanno le corna, che non si sono perse.Aulo Gellio, Notti attiche, XVI, 2

Nel commento alle Confutazioni sofistiche di Alessandro diAfrodisia, e in quello di un Anonimo compare una prima for-mulazione rigorosa del paradosso: ego pseudomai.

Conosci l’uomo che si avvicina ed è incappucciato? No. Se gli toglia-mo il cappuccio, lo riconosci? Sì. Dunque conosci e non conosci lastessa persona.

Alessandro di Afrodisia, Commento agli Elenchi sofistici, 62

Nel testo dell’Anonimo è messo in evidenza il carattere auto-riflettente dell’enunciato (“Io mentitore dico una cosa vera,cioè che mento”); autoriflessività che fu chiara già agli antichi,quindi, anche se la mancanza dei testi stoici sull’argomento,che sappiamo dovevano essere numerosi, impedisce una va-lutazione più rigorosa. D’altra parte, l’intrecciarsi di diversi li-velli di complessità logica è evidente nella ripartizione in quat-tro gruppi tentata da A. Rüstow per ridurre ad alcune tipolo-gie fondamentali le numerose varianti storiche del paradosso:

I° gruppo: “Se dici che menti, e in ciò dici il vero, menti o dici la verità?”

II° gruppo: “Se dici che menti, e dici il vero, [allora]menti;ma dici che menti, e dici la verità; dunque menti”

III° gruppo: “Dico che mento, e [ciò dicendo] mento; dunque dico la verità”

IV° gruppo: “Se è vero, è falso; se è falso, è vero”

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non sono possibili enunciati contrari su uno stesso oggettoin senso assoluto. Piuttosto, tali enunciati vanno presi inmodo tale da intenderne uno in senso assoluto e l’altro insenso relativo, perché per Aristotele non è possibile l’affer-mazione e la negazione in senso assoluto del medesimo og-getto; quindi l’antinomia non può restare tale ma attraversoquesta distinzione viene riformulata e ricondotta all’impian-to logico aristotelico. Il caso quindi viene adattato alla coe-renza della teoria anche se non risolve esattamente il para-dosso di Epimenide, nel quale si afferma proprio la falsità everità in senso assoluto dello stesso enunciato. Crisippo invece sosterrebbe come sia impossibile che unostesso enunciato dica al contempo il vero e il falso: il para-dosso del mentitore andrebbe inteso come un’espressionepriva di significato, da non catalogare fra gli enunciati di cuisi possa indicare la verità o la falsità. Pur nell’oscurità diun’argomentazione che possiamo solo intuire tra le molte la-cune, appare chiaro come Crisippo respinga la soluzionearistotelica (cfr. Questioni logiche, Pherc307, in J. M. Bo-chenski, La logica formale dai presocratici a Leibniz, Torino,Einaudi, 1972, p. 179).Le molteplici varianti, in forma di sofisma o di curiosità,hanno fatto la fortuna del logos pseudomenos in epoca elle-nistica e romana, dove, a fronte di posizioni che mostrano disaperne cogliere le implicazioni logiche (è il caso di Cicero-ne), troviamo autori, come Aulo Gellio, nei quali la com-plessità del problema scade a livello di aneddotica (cfr. Not-ti attiche, XVIII, 2); fino alla storia di quel Fileta di Coo che,tentando inutilmente di risolvere l’antinomia, deperì fino amorirne (Ateneo di Naucrati, Deipnosophistarum libri XV,rec. G. Kaibel, Stuttgardiae 1961, lib. II, p. 375, 13-20).

Se tu dici di mentire e dici che questo è vero, menti o dici il vero?Cicerone, Academica priora, II, 20

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gio, di fronte a tali espressioni, perde il proprio senso con-sueto, fatto di stabilità e di un tacito accordo tra i parlanti,e rivela una collisione interna che apre lo spazio al non-senso e all’incrinatura del paradosso (W. e M. Kneale, Sto-ria della logica, tr. it., Einaudi, Torino, p. 138). Se intendia-mo il linguaggio in termini di forma avente la capacità diesprimere un contenuto, nel caso dell’antinomia del men-titore la forma dovrebbe avere come contenuto sè stessa:ma, nel momento in cui accade, la forma si presenta comecontenuto e il contenuto rivendica a sé le caratteristichedella forma. In sostanza, l’oggetto contenuto può essereesplicato solo dal linguaggio che lo contiene, il quale a suavolta è esplicabile solo dal linguaggio che lo contiene a suavolta, e così si procede a ritroso in un rinvio all’infinito. La scuola di Megara si distingue, insieme agli stoici, per leriflessioni sui condizionali, gettando le basi della logicamodale, di quella logica cioè che studia il comportamentodi enunciati in cui siano coinvolti operatori come possibi-le, impossibile, necessario, contingente, ovvero modi di es-sere degli enunciati ai quali si riferiscono. “Ecco anche icorvi sui tetti: ‘Che cosa implica?’ gracchiano” ironizzaCallimaco in un epigramma (fr. 393, tr. nostra, cit. in SestoEmpirico, Adversus Mathematicos, I, 309); ed in effetti ladisputa sui condizionali è stata celebre nell’antichità, e ve-de in prima linea in particolare Filone di Megara e Diodo-ro Crono, che si dividono sul modo di interpretare l’impli-cazione tra asserto antecedente e asserto conseguente di uncondizionale. L’interesse per la discussione si lega al nostrotema, in quanto porterà Diodoro Crono a formulare unapropria interpretazione dell’implicazione che genererà al-cuni paradossi molto simili, tra l’altro, a quelli dell’impli-cazione stretta teorizzata nel 1918 da C.I. Lewis (cfr. S.Bobzien, Ancient Logic, 2006, Stanford Encyclopedia ofPhilosophy).

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Dove il primo tipo pone semplicemente la domanda se ilmentitore dica il vero o il falso, il secondo conclude che è ve-ro, il terzo che è falso e il quarto entrambe le conclusioni con-temporaneamente (cfr. J. M. Bochenski, op. cit, p. 178).

I paradossi dei megarici Delle due grandi scuole di pensiero logico dell’antichità,quella peripatetica e quella megarico-stoica, è soprattuttola seconda a fare della teorizzazione logica un terreno fer-tile per le dispute euristiche. I megarici, in particolare, ap-portano tre contributi fondamentali allo sviluppo della lo-gica: oltre alla formulazione di una serie di paradossi cheresteranno celebri, riesaminano le nozioni modali e inizia-no un importante dibattito sulla natura degli asserti condi-zionali. Il più fertile nell’elaborazione di antinomie seman-tiche sembra sia stato Eubulide, cui Diogene Laerzio attri-buisce, se non l’invenzione, quantomeno la formulazionelogica del paradosso del mentitore e di altri sei, che sonostati riassunti sotto quattro tipologie fondamentali:

(1) Il mentitore. “Un uomo dice di mentire. Com’è ciò che egli dice? È vero, o invece è falso?”

(2) L’uomo incappucciato, l’uomo ignoto o l’Elettra.“Tu dici di conoscere tuo fratello. Ma quell’uomo, che è entrato or ora a capo coperto, è tuo fratello, e tu non lo hai riconosciuto.”

(3) L’Uomo calvo, o il m ucchio. “Diresti che sia calvo un uomo che abbia un solo capello? Si. Diresti calvo uno che abbia solo due capelli? Si.Diresti..., ecc. Ove tracceresti il confine?”

(4) L’Uomo cornuto. “Ciò che non hai perduto lo hai ancora. Ma tu non hai perduto le corna. Dunque, tu hai ancora le corna.”

Si nota come nel primo e più famoso paradosso del menti-tore sia presente il tentativo assurdo di far dire ad un asser-to qualcosa intorno alla propria verità o falsità. Il linguag-

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condizionale non può cambiare il proprio valore di verità: seè vera o falsa in un determinato tempo, lo è in tutti i tempi (S.Bobzien, Dialectical School, 2004, Stanford Encyclopedia ofPhilosophy). L’implicazione non è quindi solo materiale comenel caso di Filone, dove per la verità del nesso tra anteceden-te e conseguente basta che de facto non si dia il caso che unantecedente sia vero e il conseguente falso. Seguiamo l’espo-sizione che ne dà Sesto Empirico (Contro i logici, II 112-117,tr. it. di V. Celluprica, op. cit., p. 175):“Diodoro dice che è vera la proposizione ipotetica che né po-teva né può cominciare con il vero e finire con il falso, cosache contrasta con la tesi di Filone. Infatti questa ipotetica “seè giorno, io sto conversando”, quando attualmente è giorno eio sto conversando, secondo Filone è vera, perché cominciacon il vero “è giorno” e finisce con il vero “io sto conversan-do”, mentre secondo Diodoro è falsa, poiché talvolta è possi-bile che cominci con il vero “è giorno” e finisca con il falso“sto conversando”, nel caso cioè che io smetta diparlare.”Questo criterio di verità delle proposizioni condizio-nali comporta però che asserti paradossali come “se non vi so-no elementi atomici delle cose, allora vi sono elementi atomi-ci delle cose” siano giudicati veri da Diodoro (secondo la te-stimonianza di Sesto Empirico in Pyrrhoneiae hypotyposes, II,110-12). È l’accusa che avrebbe potuto rivolgergli Filone: “in-vece di dire che un condizionale è valido se esso non può co-minciare con una verità e finire con una falsità, tu potresti al-trettanto bene dire che esso è valido se esso non comincia conuna verità e non finisce con una falsità”, (cfr. Kneale andKneale, cit., p. 160). E dal momento che la proposizione inquestione comincia proprio con l’antecedente falso “Se nonvi sono elementi atomici delle cose” e termina sempre con ilconseguente vero “esistono gli elementi atomici delle cose”, laproposizione sarà da considerare vera secondo i parametridiodorei; l’esempio sembra suggerire che ci fosse negli antichi

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Diodoro CronoDiodoro riprende l’implicazione elaborata da Filone cercan-do di stabilire una connessione più stretta tra i due membridella proposizione condizionale; introduce quindi una nozio-ne modale sostenendo che una proposizione è vera se né erané è possibile che il suo antecedente sia vero e il suo conse-guente falso. Diodoro aggiunge quindi il fattore temporale:l’implicazione filoniana è vera in alcuni contesti, in altri no;quindi per essere valida, secondo i parametri diodorei, l’im-plicazione deve essere valida in ogni tempo. Per Diodoro, una

Pavimentazionebicolore conmotivigeometrici, I sec.,Mosaico , Roma,Museo NazionaleRomano

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Se il passato è necessario, allora ciò che non si è realizzatonel passato era anche impossibile si realizzasse, quindi il pas-sato non è che il possibile divenuto integralmente reale; e dalmomento che dal possibile non può derivare l’impossibile,allora ciò che non è stato era anche impossibile che fosse.Quindi tutto il possibile si realizza e non rimangono maipossibilità non realizzate o non scelte: tutto ciò che accade èdunque necessario, così che le prime due proposizioni, se-condo Diodoro indiscutibilmente vere, rendono falsa la ter-za, aprendo la strada ad una completa negazione della con-tingenza. Il ragionamento di Diodoro Crono conduce ad undeterminismo che gli antichi rilevarono subito come estre-mo e paradossale, a partire da Aristotele, il quale (De inter-pretatione, 9) denuncia la fallacia del ragionamento rilevan-do, tra l’altro, l’insostenibilità delle conseguenze etiche chene sarebbero derivate, cioè l’annullamento di quella liberascelta che fonda la dignità dell’uomo nella sua natura di ani-male razionale. Conclusioni simili a quelle riprese in seguitoda Cicerone nelle sue considerazioni sull’”argomento pi-gro” (ignava ratio), quella argomentazione cioè che, se se-guita, ci porterebbe a non fare assolutamente nulla nella vi-ta: se il fato ha stabilito che una persona guarirà dalla malat-tia, che si mandi a chiamare un medico o meno, quella per-sona guarirà comunque; e se è destino che non guarisca, al-lo stesso modo necessariamente non guarirà (cfr. Cicerone,De fato, XII, 28-29). Infine, sono attribuibili a Diodoro Crono una serie di para-dossi sul movimento che riprendono l’argomentazione dia-lettica di Zenone di Elea.

Ci sono alcuni (ad esempio i Megarici) i quali sostengono che c’è po-tenza solo quando c’è atto e che, quando non c’è atto, non c’è nep-pure potenza: così, ad esempio, chi non sta costruendo non avrebbe,

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una certa consapevolezza di questi esiti paradossali, tanto cheCrisippo svilupperà un sistema logico proprio per evitare siai paradossi di implicazione materiale che quelli di implicazio-ne stretta. A Diodoro Crono si deve anche una delle teorie piùcontroverse della logica antica, il celebre argomento domi-nante o dominatore, kurieuon logos. Non pervenutoci nellaforma originale (possiamo ricostruirne la struttura da una ci-tazione di Epitteto, Dissertazioni, II, 19, 1-5) l’argomento sisarebbe articolato su tre proposizioni incompatibili tra loro:

1. Ogni proposizione vera concernente il passato è necessaria. 2. L’impossibile non deriva dal possibile.3. È possibile ciò che non è attualmente vero e non lo sarà.

Pavone e motivifloreali, mosaicoromano di etàimperiale, Tunisi,Museo del Bardo

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Il terzo pare essere una variante del paradosso zenonianodella freccia: ciò che si muove è in un luogo, ma ciò che è inun luogo non si muove, perciò ciò che si muove non si muo-ve. Il quarto, infine, è il più elaborato ed è una variante diquello del sorite formalizzato dal predecessore Eubulide: uncorpo in movimento è composto da un insieme di parti mi-nime, e il corpo si muove se e solo se una maggioranza deisuoi costituenti minimi si muove. Perciò, se venisse aggiun-ta un’altra parte minima immobile, ma non sufficiente da al-terare il suo movimento, dal momento che è in minoranza ri-spetto alle altre tre parti (due che si muovono e una ferma),non fermerà il movimento della parte predominante. E par-ti minime immobili potrebbero essere aggiunte al corpo,una alla volta, finché questo non consista di 10 mila parti mi-nime, due sole delle quali si muovono; e tuttavia, parados-salmente, il corpo continuerà a muoversi. Per quanto il ri-chiamo ai paradossi eleatici sia evidente, queste argomenta-zioni diodoree sembrano rivolte, più che a confutare radi-calmente l’esperienza fenomenica come quelli, a farcela rie-saminare più attentamente. (cfr. D. Sedley, Diodorus Cronus,in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2009).

Insolubilia, sophismata, antinomie In tre momenti, nella storia della filosofia, il paradosso èstato al centro dell’attenzione: nella Grecia classica, nelMedioevo e in epoca moderna, a cavallo tra Ottocento eNovecento. I nomi diversi con cui è stato definito ci aiuta-no a capire quale significato rivestisse per coloro che cosìdecidevano di designarlo: presso i Greci, i paradossi eranoparalogismi, “pseudoragionamenti” o argomentazioni fal-se ingannevolmente simili al ragionamento logico; per imedioevali insolubilia, cioè “problemi insolubili”, sophi-smata (ragionamento che porta a conclusioni paradossali)o fallaciae; per i moderni infine sono antinomie, pensieri

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a parer loro, neppure la potenza di costruire, ma sarebbe in posses-so di tale potenza solo colui che sta costruendo, nel momento in cuiegli sta costruendo: e ciò varrebbe anche per le altre cose. Ma non èdifficile vedere in quali assurde conseguenze costoro vanno a cade-re. A parer loro è evidente che non ci sarà neppure un costruttore,qualora questi non stia costruendo (in realtà, però, l’essenza di co-struttore non è altro se non l’essere-capace-di-costruire) e così ancheper le altre arti. Poiché pertanto è impossibile possedere queste vanearti senza averle imparate in un dato momento e senza averle acqui-site, e poiché è impossibile non possederle più senza averle perdutein un dato momento, allora, se si ammette che uno, quando inter-rompa l’esercizio della sua arte, non avrà più in suo potere quest’ar-te, noi, vedendo che egli si è poi messo, ad esempio, nuovamente acostruire, ci chiediamo: come mai egli ha un’altra volta acquisito ilpossesso dell’arte? Inoltre, se ciò che è privo di potenza è impossibi-le, allora ciò che non è generato non potrà essere generato, e si cadràin errore se si dirà che esiste o esisterà da che non ha la potenza diesistere […] e di conseguenza quei ragionamenti eliminano movi-mento e divenire.

Aristotele, Metafisica, 1046b-1047a

Il primo parla dell’impossibilità per un corpo senza parti dimuoversi, perché occuperà sempre esattamente lo spaziominimo che occupa: il corpo potrà essere in spazi diversisuccessivamente, ma non potrà mai essere in movimento, intransizione, perché significherebbe, secondo Diodoro, esse-re in parte nel luogo d’origine e in parte nel luogo di desti-nazione. Il secondo, nella versione di Sesto Empirico (Con-tro i matematici, X, 87, tr. nostra): “Se qualcosa si muove, simuove o nel luogo in cui è, o nel luogo in cui non è. Ma nonsi sta muovendo né nel luogo in cui è (perché è già lì) né inquello in cui non è (perché non è lì). Perciò nulla si muove”.

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che procedono “contro le regole” della logica, o appuntoparadossi, ciò che va “contro l’opinione comune”. Gli in-solubilia nelle tradizioni medievali diventano esercitazionifondamentali, veri e propri esperimenti del pensiero, permettere alla prova coerenza e validità semantiche di un ra-gionamento. L’importanza che viene data allo studio di que-sti argomenti è tale che Paolo Veneto (1372-1429), nella suaLogica Magna, elencherà minuziosamente ben 15 differentitentativi di soluzione del paradosso del mentitore. L’interesse per i paradossi non si esaurisce con le sottili di-stinzioni medievali, ma conosce un nuovo periodo di fer-vore nella ricerche logiche e matematiche della prima me-tà del Novecento, come testimonia il caso del celebre para-dosso di Russell: “Un villaggio ha tra i suoi abitanti uno edun solo barbiere, uomo ben sbarbato. Sull’insegna del suonegozio è scritto ‘il barbiere rade tutti – e unicamente – co-loro che non si radono da soli’”. La domanda che ne sca-turisce è: chi rade il barbiere? Se infatti il barbiere si radeda solo, viola la premessa secondo cui il barbiere, rasando-si, non raderebbe unicamente coloro che non si radono dasoli. Se invece il barbiere è rasato da qualcun altro, si violala premessa secondo cui il barbiere rade tutti coloro, e so-lo coloro, che non si radono da soli: in altre parole, se ilbarbiere si rade da solo non dovrebbe radersi, se non si ra-de da solo dovrebbe radersi. Eppure, il barbiere è bensbarbato. Una trattazione di tipo insiemistico semplifical’approccio al paradosso e ne rivela l’affinità con il logospseudomenos, che i logici moderni considerano della stes-sa “famiglia” benché generalmente distinto da quello rus-selliano. Di fronte ai due diversi insiemi, quello degli uo-mini che si radono da soli e quello degli uomini che si fan-no radere dal barbiere, il problema è collocare il barbierein uno dei due, poiché la sua inclusione in entrambi cree-rebbe una contraddizione con la definizione stessa. La

Mosaico delMausoleo diGalla Placidia,prima metà del Vsec., Ravenna

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conclusione a cui arriverà Russell (1872-1970) sarà di in-trodurre una nuova teoria nella quale gli insiemi siano di-stinti in diversi livelli, per cui al livello 0 avremo gli ele-menti, al livello 1 gli insiemi di elementi, al livello 2 gli in-siemi di insiemi di elementi e così via: “Quando un uomodice ‘sto mentendo’, dobbiamo interpretare le sue parolenel senso: ‘C’è una proposizione di ordine n, che io affer-mo, che è falsa’. Questa è una proposizione di ordine n +1; perciò quest’uomo non sta affermando una proposizio-ne di ordine n...” (Russell, Logic and Knowledge, 24, p. 79).Ovvero, l’ennesima palingenesi nella lunga storia del para-dosso di Epimenide.

Le ricerche su ciò che oggi chiamiamo “grammatica” appaiono per la primavolta in Grecia nell’ambito della speculazione filosofica sul linguaggio. L’acce-zione del termine “grammatica” come lo intendiamo oggi non si registrò, pe-rò, prima del Medioevo. In origine non esiste né un un modello sistematico diforme grammaticali, né una terminologia grammaticale stabilita. Inizialmentegrammatikos indicava “colui che conosce i grammata”, cioè chi sa leggere, dalmomento che gramma indica la lettera o, più genericamente, “ciò che è scrit-to”. In età prealessandrina il concetto si amplia e grammatike (sottinteso te-chne) indica la teoria dei suoni e delle forme linguistiche, in collegamento conl’esegesi e la critica dei testi (cfr. A. Della Casa, La grammatica, in Introduzio-ne allo studio della cultura classica, Milano, 1973). È nel IV secolo a.C. che sipossono registrare gli autentici inizi di una vera e propria indagine grammati-cale, quando cominciarono ad essere classificati gli elementi del linguaggiocon una terminologia che è rimasta sostanzialmente invariata, passando attra-verso la mediazione dei grammatici latini, fino ad oggi. Ma già prima di quelperiodo si possono registrare delle osservazioni di ordine filosofico cui può es-sere attribuita una reale pertinenza nello studio e nella descrizione delle for-me linguistiche.

I sofistiSe diverse importanti osservazioni sul linguaggio possonoessere attribuite in generale ai filosofi presocratici, comeEraclito, Parmenide, Democrito, delle osservazioni che og-gi definiremmo specificamente grammaticali si trovano inparticolare nella riflessione dei sofisti come Protagora,Gorgia, Prodico di Ceo). La ragione del loro interesse perla grammatica è da individuarsi nel fatto che con la sofisti-ca si afferma l’ideale del ben parlare (eu legein) e della cor-

La grammaticadi Giovanni Manetti

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