Note di commento a Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. XX: «Si mostra che in un libero Stato...
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Note di commento a Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. XX:«Si mostra che in una libera repubblica a ciascuno
è consentito di pensare ciò che vuole e di dire ciò chepensa»
[Appunti per la relazione]
0. Considerazioni introduttive
Il cap. XX è il capitolo conclusivo Trattato teologico-politico; esso
conduce a effetto non solo la sezione propriamente politica (capp.
XVI-XX), ma l’intera argomentazione del Trattato; non si tratta,
tuttavia, di un semplice capitolo riassuntivo, nel quale Spinoza
si limiterebbe a tirare le somme su cose già dette, o a
sintetizzare ragionamenti compiuti e problematiche interamente
sviscerate.
Si tratta, invece, di un capitolo fortemente propositivo e
normativo, nel quale Spinoza prosegue la propria opera di
ridefinizione del lessico teologico-politico (che abbiamo già
constatato ragionando sui termini ‘teologia’, ‘fede’, ‘legge’ e
‘diritto’), affrontando quella che, in sede di prefazione, aveva
indicato come una tesi cardine del Trattato, che «la libertà non può
essere negata senza appunto negare la pace della Repubblica e la
pietà: è esattamente questa la tesi che mi sono proposto di
dimostrare nel presente trattato» (0.1). Vedremo che ‘libertas’ e
‘respublica’ costituiscono i termini-chiave di questo capitolo. La
difesa della libertà, libertà di filosofare, e di esprimere ciò
che si pensa, all’interno della dimensione del vivere civile e
della costituzione dello Stato, è annoverata anche tra i tre punti
attraverso i quali Spinoza aveva riassunto a Oldenburg i contenuti
del redigendo Trattato nell’ottobre 1665. Si tratta di un’ulteriore
1
testimonianza della crucialità del tema in esame nella filosofia
politica spinoziana: la riporto al punto 0.2.
[[Che il rapporto spinoziano tra libertà e ordinamento della
‘respublica’ non sia tuttavia riducibile al problema giuridico del
riconoscimento di singole libertà da parte di uno Stato quale che
sia, si comprenderà, credo, nel corso dell’analisi: per ora, come
prima approssimazione, si può affermare che]] lo scopo del
capitolo è duplice: in primo luogo, mostrare il modo in cui la
facoltà di giudicare e ragionare, e la pluralità di opinioni e
convincimenti che ne deriva, siano compatibili con il diritto
assoluto e intangibile delle summae potestates (secondo quanto
stabilito nel cap. XIX); in secondo luogo, mostrare come e perché
quella facoltà e quella pluralità di opinioni debbano essere messe
a profitto all’interno di uno Stato ben ordinato.
I. Il diritto di ragionare e giudicare liberamente non è alienabile
L’incipit del capitolo, costituito dai paragrafi 1 e 2 dichiara
esplicitamente l’argomento del capitolo, nel modo in cui l’ho
appena sunteggiato, e individua anche il proprio interlocutore
privilegiato per i temi da trattare nel prosieguo: Thomas Hobbes.
[RIASSUMO]
I.1.1 [a] Se comandare agli animi fosse tanto facile quanto comandare
alle lingue, chiunque regnerebbe in sicurezza e nessun potere
diverrebbe violento. Ognuno infatti vivrebbe secondo il volere (ingenio)
dei governanti, e soltanto in base al loro decreto giudicherebbe il
vero e il falso, il buono e il cattivo, l’equo e l’iniquo.
[b] Ma, come abbiamo già rilevato all’inizio del Capitolo XVII, è
impossibile che un animo sia assolutamente soggetto al diritto altrui,
2
poiché nessuno può trasferire ad altri il proprio diritto naturale o
la propria facoltà di ragionare liberamente e di giudicare di
qualsiasi cosa, né può esservi costretto.
[c] Ne consegue, perciò, che un potere esercitato sugli animi sia
considerato violento, e che la somma maestà sembri offendere i sudditi
e usurparne il diritto, quando intende prescrivere a ciascuno che cosa
ammettere come vero e cosa respingere come falso, nonché da quali
convinzioni l’animo di ciascuno debba essere mosso nella devozione
verso Dio. [TTP (2007), cap. XX, § 1, p. 479]
[a] In primo luogo, Spinoza riporta l’affermazione di Curzio Rufo
(Vita di Alessandro Magno) secondo cui è più facile comandare alle
lingue che agli animi, già citata nel cap. XVII: si tratta di un
aforisma che avuto una certa fortuna nella letteratura politica e
che è stato richiamato con una certa frequenza quando si è posto
all’attenzione il problema di conciliare l’assolutezza del potere
pubblico con l’espressione di dissenso da parte del singolo; ho
riportato alcuni esempi ai punti I.1.3-4, tratti da Lipsio e
Grozio. [b] Spinoza prosegue rilevando l’impossibilità di
uniformare le coscienze ad un dettato unitario o a permanenti ed
univoci criteri di giudizio del bene e del male; secondo Spinoza,
ciò accade perché il diritto naturale di ognuno non può essere
integralmente ceduto [su questo aspetto ci hanno illuminato i
colleghi che hanno commentato i capp. XVI e XVII]; e tra le
facoltà non alienabili, a meno di cessare di essere uomo, c’è
quella di ragionare e giudicare liberamente di qualunque cosa. [c]
In questo punto si rileva anche il primo di una serie di
parallelismi tra le affermazioni del Cap. XX e le conclusioni
della parte teologica del Trattato: l’impossibilità di recedere dal
3
diritto di giudicare liberamente era stata già affermata, ma
limitatamente all’interpretazione dei fundamenta fidei, nel cap. VII
(I.1.2)
[RIASSUMO]
I.1.2 Spettando dunque a ognuno il sommo diritto di pensare
liberamente, anche in materia di religione, ed essendo inconcepibile
che qualcuno possa recedere da questo diritto, spetterà dunque a
ciascuno il sommo diritto e la somma autorità di giudicare liberamente
in materia di religione, e, per conseguenza, di spiegarla e
interpretarla per sé.
Un interprete, ROSENTHAL, ha osservato che Spinoza accetta con un
certo rammarico (regretfully) il dato di fatto della pluralità delle
opinioni e dei giudizi; a mio avviso, più che di rammarico, ossia
di un elemento valutativo, si tratta di un’assunzione realistica,
accompagnata dalla consapevolezza che essa complica il lavoro del
filosofo politico; ad ogni modo, la complicazione del quadro
teorico è di gran lunga preferibile rispetto a quelle impostazioni
di filosofia politica che fondano la stabilità dello Stato su una
certa conformità dei giudizi individuali al dettato dall’autorità
pubblica. Che Spinoza pensi in qualche maniera a Hobbes, e
dialoghi idealmente con lui, può essere ipotizzato mettendo a
confronto l’incipit del cap. XX con un estratto del De cive.
[[Spinoza possedeva il De cive nella sua biblioteca privata; gli
interpreti (VISENTIN, NADLER, GIANCOTTI, MATHERON) sono tuttavia
concordi nel ritenere che conoscesse anche il Leviatano, e dunque
nei confronti che istituirò tra i due autori su alcuni temi
4
specifici, mi riservo di fare riferimento anche a quest’ultima
opera]]
La seconda parte del testo citato è quella che a mio avviso
consente un più ravvicinato confronto con il testo hobbesiano, in
particolare con l’opera di Hobbes che Spinoza deteneva nella
propria biblioteca personale, il De cive:
[LEGGO]
I.1.5 […] siccome tutte le controversie nascono dal fatto che le
opinioni degli uomini sono diverse, riguardo al mio e al tuo, al
giusto e all’ingiusto, all’utile e all’inutile, al bene e al male,
all’onesto e al disonesto e simili, tutti concetti a cui ciascuno dà
un differente significato in base al proprio giudizio; fa parte delle
prerogative del sovrano stabilire e promulgare norme, cioè criteri di
misura, generali in modo che ciascuno sappia che cosa si debba
intendere come proprio e altrui, giusto e ingiusto, onesto e
disonesto, buono e cattivo; e, insomma, che cosa sia da fare e da che
cosa si debba rifuggire nella vita della comunità. Queste norme, o
criteri di misura, si sogliono chiamare leggi civili, ossia leggi
dello Stato. [EFC, cap. V, § IX, p. 166]
Sembra una ripresa quasi antifrastica delle varie coppie
opposizionali citate da Hobbes: buono/cattivo, bene/male,
onesto/disonesto, giusto/ingiusto. Mentre il filosofo inglese
rimanda all’universalizzazione della ragione del Sovrano come
fonte e autorità cui conformare i giudizi dei sudditi, vedremo che
Spinoza andrà in cerca, nel corso del cap. XX, di un diverso modo
di articolare, sotto la cifra della ragione, il rapporto fra
libertà e obbedienza ai decreti dello Stato.
5
[[Nell’approfondire questo confronto non intendo contrapporre
semplicisticamente la ‘tolleranza’ di Spinoza all’approccio
‘repressivo’ di Hobbes; si tratterebbe di una prospettiva angusta,
relativamente al pensiero di entrambi gli autori: del resto, anche
per Hobbes, in un certo senso, il pensiero è libero. Intendo
mostrare che i termini del rapporto libertà-obbedienza non sono
due (pensare e agire), ma tre (pensare, esprimere e agire), e che
proprio nei diversi modi di connotare e articolare questi termini
vanno riscontrate le differenze tra Hobbes e Spinoza in tema di
autonomia e conformismo delle opinioni.]]
Spinoza prosegue la sua argomentazione affermando che nemmeno
attraverso il pregiudizio, che pure riconosce essere un potente
strumento di condizionamento dell’uso della ragione (cfr.
Prefazione e cap. XV), è possibile uniformare completamente le
opinioni; ricorre dunque ad un esempio storico, desunto come di
consueto dalla storia ebraica e concernente Mosè, la cui virtù
divina era abile a persuadere i più riottosi, senza tuttavia –
dice Spinoza – riuscire a prevenire i mormorii e i giudizi
sfavorevoli del popolio sul proprio operato. Spinoza ricorre ad
una tradizione testuale esoterica, basata in larga parte sul libro
dell’Esodo e sui Numeri (come messo in luce, tra gli altri, da
DROETTO e TOTARO). Anche in questo caso, l’esempio è condiviso con
Hobbes, ma Spinoza offre una raffigurazione del governo mosaico
assai diversa da quella monolitica consegnata al cap. XL del
Leviatano, nel quale si insiste invece sul conformismo dei saggi
israeliti rispetto all’autorità dell’unico legislatore. Leggo
I.2.1 e I.2.2:
6
[RIASSUMO]
I.2.1 Mosè, che aveva grandemente influenzato (non con l’inganno, ma
per virtù divina) il pensiero del suo popolo, in quanto si credeva che
egli fosse divinio e che dicesse e facesse ogni cosa per ispirazione
divina, non poté tuttavia sfuggire ai mormorii (rumores) e agli
sfavorevoli giudizi (sinistras interpretationes) del popolo, e ancor meno
poterono sfuggirvi gli altri monarchi; e se fosse possbile concepire
che si possano in qualche modo evitare i giudizi negativi, lo si
concepirebbe quanto meno nel regime monarchico (monarchico imperio), e
non certo in quello democratico, in cui il potere è esercitato
collegialmente da tutti, o almeno dalla maggior parte del popolo. [TTP
(2007), cap. XX, § 2, p. 479]
[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]
I.2.2 Al tempo di Mosè non c’erano profeti, o uomini che si
affermassero in possesso dello spirito di Dio, eccetto quelli che Mosè
aveva approvato ed autorizzato. Al suo tempo non c’erano, infatti, che
settanta uomini che, vien detto, profetizzassero in virtù dello
spirito di Dio, e tutti erano stati scelti da Mosè; e relativamente ad
essi Dio dice a Mosè: «Radunami settanta fra gli anziani di Israele,
che tu conosci essere gli anziani del popolo» (Numeri 11,16). A costoro
Dio impartì il suo spirito, ma non uno spirito differente da quello di
Mosè, giacché si dice (versetto 25): «Dio scese in una nube e prese
dello spirito che era sopra Mosè e lo diede ai settanta anziani». Ma,
come ho mostrato sopra (Cap. XXXVI), con spirito si intende mente ; così
il significato del passo non è altro che questo, che Dio li dotò di
una mente conforme e subordinata a quella di Mosè, affinché potessero
profetizzare, cioè parlare al popolo a nome di Dio, in maniera tale da
presentare (in quanto ministri di Mosè, e in quanto depositari della
sua autorità) soltanto dottrine conformi a quelle di Mosè. Essi erano
semplicemente ministri di Mosè, infatti, quando due di loro
7
profetarono nell’accampamento, la cosa venne ritenuta una novità
illegale, esso – come viene detto nei versetti 27 e 28 del medesimo
capitolo – ne furono accusati e Giosuè consigliò a Mosè di
proibirglielo, proprio perché non si sapeva che era in virtù dello
spirito di Mosè che essi profetavano. Onde risulta manifestamente che
nessun suddito deve pretendere di profetizzare o di avere uno spirito
in contrasto con la dottrina fissata da colui che Dio ha insediato al
posto di Mosè.
[L, parte III, cap. XL, pp. 386-387]
La notazione conclusiva rafforza l’acquisizione
dell’approfondimento storico: se è difficile condizionare il
giudizio dei sudditi nel regime monarchico, nel quale uno solo
detiene l’autorità, è pressoché impossibile farlo in un regime
democratico, nel quale tutti o la maggior parte partecipano
dell’autorità, ciascuno portando la propria peculiare veduta sulle
cose.
II. Il diritto di ragionare e giudicare liberamente non può essere soppresso dall’autorità
Il secondo passo argomentativo di Spinoza consiste nel mostrare
che il diritto di ragionare e giudicare liberamente non può essere
soppresso dall’autorità civile; la dimostrazione si articola in
due momenti: in primo luogo, afferma le autorità, sebbene abbiano
diritto ad ogni cosa (come aveva stabilito anche nel cap. XIX),
non esercitano un potere illimitato, perché non è illimitata la
loro potentia agendi; quel potere è dunque intrinsecamente
8
condizionato al criterio utilitario che abbiamo visto emergere nel
cap. XVI e nel XVII (vedi anche punto II.2):
[LEGGO INTEGRALMENTE]
II.1 [...] per quanto […] le somme potestà abbiano diritto su ogni
cosa e siano ritenute le interpreti del diritto e della pietà, esse
tuttavia non potranno mai far sì che gli uomini rinuncino a esprimere
– conformemente alla propria indole – il loro giudizio in ogni campo,
e che non siano a tal punto affetti da questa o quella passione. È
certamente vero che esse possono legittimamente considerare come
nemici tutti coloro che non concordino in ogni cosa assolutamente con
loro; noi però non discutiamo più del loro diritto, ma di ciò che è
utile. Ammetto, infatti, che esse possano a buon diritto regnare nel
modo più violento e mandare a morte i cittadini per i motivi più
futili, ma tutti negheranno che ciò possa accadere conformemente a un
sano e razionale giudizio (salvo sanae rationis judicio fieri posse): anzi, poiché
le somme potestà non possono agire in tal modo senza porre in grave
pericolo l’intero Stato, possiamo negare che esse abbiano un’assoluta
potenza di agire in questo modo o in modo analogo, e conseguentemente
nemmeno un diritto assoluto, in quanto abbiamo dimostrato che il
diritto delle somme potestà è determinato dalla loro potenza. [TTP
(2007), cap. XX, § 3 p. 481]
Pongo a confronto con Hobbes, De cive:
[LEGGO]
II.3 Il maggior potere che dagli uomini si possa trasferire in un uomo
solo si chiama assoluto. Chiunque infatti ha sottoposto la sua volontà
a quella dello Stato, in modo che questa possa agire impunemente,
stabilire leggi, giudicare liti, comminare pene, usare a suo arbitrio
delle forze e degli averi di ognuno, e tutto ciò legittimamente; le ha
9
concesso il massimo potere che si possa attribuire. Il che si può
confermare coll’esempio di tutti gli Stati presenti e passati. [...]
Col diritto assoluto del sovrano va unita l’obbedienza dei cittadini,
estesa quanto è necessario per il governo dello Stato, cioè quanto
basta a permettere al sovrano l’esercizio del suo diritto.
Un’obbedienza simile si può negare legittimamente qualche volta per
determinate cause; ma, poiché non se ne può dare una maggiore, la
chiameremo “semplice”. L’obbligo di prestare tale obbedienza nasce non
immediatamente dal patto in virtù del quale abbiamo deferito allo
Stato ogni nostro diritto; ma mediatamente, ossia dal fatto che, senza
obbedienza, il diritto del Sovrano sarebbe vano e per conseguenza lo
Stato non sarebbe pienamente costituito. [...]
[EFC, cap. VI, § XIII, pp. 170-172]
Il rapporto tra potere e obbedienza, che in Hobbes si presenta
come nesso tra ‘potere assoluto’ e ‘obbedienza semplice’, è
declinato da Spinoza nei termini della condizionalità del patto
alla salvaguardia dell’utile comune, ossia alla conservazione
dello Stato stesso; le autorità civili devono astenersi non
soltanto da quegli atti che mettono a rischio l’esistenza fisica
del suddito, ma da tutte quelle azioni che possono effettivamente
condurre ad una limitazione della loro potentia agendi e ad una
crisi della loro autorità.
È bene osservare che l’«utile» di cui si parla nel testo pocanzi
citato è ambivalente, nel senso che chi governa può volgersi alla
conservazione dello Stato sia perché vuol mantenere saldo il
proprio potere, sia perché conosce la vera utilità e necessità
dello Stato. La prima opzione è esplicitata da Spinoza nel cap.
XVI:
10
[LEGGO LA PARTE SOTTOLINEATA]
II.3 [...] questo diritto di comandare ciò che vogliono compete alle
somme potestà solo fin tanto che esse dispongano effettivamente della
sovrana potestà: ove la perdano, infatti, con essa perdono anche il
diritto di comandare ogni cosa, e tale diritto cade nelle mani di
colui o di coloro che l’abbiano acquisito, e che siano in grado di
conservarlo. Perciò, molto raramente può accadere che le somme potestà
diano ordini completamente assurdi, poiché a esse soprattutto incombe
– al fine di badare a se stesse e di conservare la propria autorità –
di provvedere al bene comune e di ordinare ogni cosa secondo i dettami
della ragione [...]. [TTP 2007, cap. XVI, § 9, p. 383]
Nel cap. XX, invece, Spinoza insiste, più che sui moventi di chi
governa, su ciò che deve essere fatto perché lo Stato sia
preservato. Questa ambivalenza ha autorizzato alcuni tentativi di
lettura del cap. XX in termini di Realpolitik (cfr. PREPOSIET e VAN DER
BEND, secondo i quali Spinoza nel cap. XX insegna semplicemente ai
governanti i modi attraverso i quali conservare il loro potere).
Il che è vero solo nel senso che c’è effettivamente, in Spinoza,
un’istanza di stabilizzazione dell’imperium (dal TTP al TP); è
certamente falso nella misura in cui la costruzione di un potere
stabile non comporta un vantaggio per i soli governanti, come
vedremo bene dalla disamina del ‘vero scopo’ della Repubblica.
Per il momento osservo due cose: 1) che l’indifferenza ai moventi
di chi governa rispetto al problema della stabilità dell’imperium
costituisce un elemento di continuità tra questo capitolo e il
Trattato politico, tra i cui scopi è quello di mostrare che – cito II.5:
[LEGGO LA PARTE SOTTOLINEATA]11
[...] perché esso [l’imperium] si possa conservare, occorre che i suoi
pubblici affari siano organizzati in modo tale che gli amministratori,
non importa se guidati dalla ragione o dagli affetti, non possano
essere indotti a comportamenti infidi e disonesti. Per la sicurezza
dello stato non ha rilevanza con quale animo gli uomini siano indotti
ad amministrare correttamente, purché lo facciano. [TP, cap. I, § 6, p.
33]
2) che là dove si ammette che il patto possa essere sciolto
qualora le autorità civili cessino di agire quali garanti
dell’utilità comune, è possibile rilevare un’implicita
formulazione spinoziana del diritto di resistenza dei sudditi
all’autorità civile: un potere che nega la libertas è un potere
violento (II.6);
[RIASSUMO]
II.6 Pertanto, se nessuno può rinunciare alla propria libertà di
giudicare e di pensare come vuole (nemo libertate sua judicandi, et sentiendi, quae
vult), ma ognuno è – per il massimo diritto di natura – padrone dei
propri pensieri, ne consegue che, in una repubblica, non si può mai
imporre, se non con esito assai infelice, che gli uomini, quantunque
abbiano opinioni diverse (e talora contrastanti tra loro), non dicano
nulla che non sia conforme alle prescrizioni delle somme potestà:
neppure i più prudenti, infatti – per non dir della plebe –, sanno
tacere. È vizio comune degli uomini quello di confidare ad altri i
propri propositi, anche quando la segretezza sarebbe opportuna:
violentissimo sarà dunque quello Stato ( imperium ) in cui sia negata a
ogni individuo la libertà di dire e di insegnare ciò che pensa (libertas
dicendi, et docendi, quae sentit), mentre sarà invece moderato quello in cui
questa stessa libertà sia concessa a ciascuno.
[TTP 2007, cap. XX, § 4, p. 481]12
E un potere violento è, per Spinoza, un potere precario (cfr. le
citazioni di Seneca in TTP V e XVI). Si tratta di un filo che lega
il cap. XVI al cap. XX (cfr. GIANCOTTI 1984): viene ripreso e
arricchito nella successiva opera politica di Spinoza (vedi il
tema della indignatio), ma per il momento viene lasciato cadere. Da
questo punto e per tutto lo svolgimento del capitolo XX, Spinoza
prende in considerazione un ordinamento improntato ai dettami
della retta ragione, un potere moderato che concede la libertà
nelle sue varie esplicazioni ai propri sudditi.
Dall’ultimo testo citato apprendiamo che la facoltà di esprimersi
liberamente, di giudicare e di comunicare agli altri le proprie
convinzioni costituisca un dato ambivalente della natura umana;
per tre ragioni: in primo luogo, anche i più avveduti fra gli
uomini non sono in grado di controllarla; in secondo luogo, ci
sono circostanze in cui, dice Spinoza, sarebbe più opportuno e
prudente tacere; in terzo luogo, anche le opinioni, come le
azioni, possono mettere a rischio la sopravvivenza dello Stato.
Entro quali limiti è consentito allora un esercizio della libertà,
in modo che risulti compatibile con le ragioni dello Stato? Per
rispondere a questa domanda, Spinoza procede innanzitutto col
ridefinire il fine dello Stato, redigendo uno dei paragrafi di
maggiore interesse di questo capitolo.
III. «Scopo della repubblica è dunque la libertà»
[LEGGO INTEGRALMENTE]13
III.1 Dai fondamenti della repubblica, esposti sopra, segue con la
massima evidenza come il suo fine ultimo non consista nell’esercitare
il dominio, né nel controllare gli uomini per mezzo della paura,
sottomettendoli al diritto altrui, ma al contrario, nel liberare
ciascuno dalla paura, affinché viva – per quanto possibile – in
sicurezza, ovvero affinché ciascuno conservi nel modo migliore il
proprio naturale diritto a esistere e a operare, senza danno per sé e
per gli altri. Come ripeto, lo scopo della repubblica non consiste nel
trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in automi, ma
invece nel far sì che le loro menti e i loro corpi adempiano in
sicurezza alle loro funzioni, e che essi stessi facciano uso della
libera ragione, senza rivaleggiare nell’odio, nell’ira e nell’inganno,
e senza fronteggiarsi con animo iniquo. Scopo della repubblica è
dunque, in realtà, la libertà. [TTP 2007, cap. XX, § 6, p. 483]
Alcuni punti devono essere posti in evidenza ed accuratamente
analizzati: 1) nello Stato ordinato e retto secondo ragione non
v’è posto né per la paura né per l’inganno; al contrario, lo Stato
consente il superamento della paura e dell’inganno, ossia
stabilisce le condizioni minime (di sicurezza e comodità) affinché
ciascuno non sia ‘di diritto d’un altro’ e guadagni la sua piena
autonomia; in altre parole, in uno Stato siffatto l’individuo
conserva ed esercita nel ‘migliore dei modi’ il proprio diritto
naturale; 2) l’autonomia che l’individuo guadagna in uno Stato
libero consiste nella possibilità di servirsi della ‘libera
ragione’; 3) la ragione prescrive di vivere concordemente con gli
altri uomini.
Per quanto concerne il primo punto, ho riportato dei testi nei
quali Spinoza aveva già espresso l’idea, condivisa da una ricca14
tradizione di pensiero politico (cfr. i Discorsi di Machiavelli),
secondo cui la condizione minima di una associazione consiste
nella sua capacità di assicurare, mediante la cooperazione, la
sussistenza materiale, la sicurezza del corpo e la comodità per il
soddisfacimento dei bisogni essenziali ad ogni membro.
[RIASSUMO O MI LIMITO ALLE PARTI SOTTOLINEATE]
III.2.1 La società è utilissima, e anzi affatto necessaria, non
soltanto per vivere al sicuro dai nemici, ma anche per risparmiarsi un
gran numero di incombenze, poiché se gli uomini non volessero recarsi
aiuto reciproco, mancherebbe loro sia la capacità che il tempo di fare
quanto è possibile per sostentarsi e sopravvivere. Non tutti infatti
sono ugualmente adatti a tutte le cose, né ciascuno sarebbe in grado
di procacciarsi quel che, come singolo, maggiormente gli occorre.
Intendo dire, cioè, che gli mancherebbero le forze e il tempo se
dovesse, da solo, [...] svolgere le altre numerose attività necessarie
a mantenersi in vita, per tacere delle arti e delle scienze, anch’esse
altamente necessarie alla perfezione della natura umana e alla sua
beatitudine. Vediamo infatti che coloro che vivono barbaramente e
senza alcuna organizzazione politica, conducendo una vita misera e
pressoché bestiale, nonsi procurano tuttavia le poche cose che
possiedono – per quanto misere e rozze – se non grazie alla mutua
collaborazione, quale che essa sia. [TTP 2007, cap. V, § 7, p. 137]
III.2.2 […] se poi consideriamo che gli uomini, senza mutuo sostegno,
vivono assai miseramente e senza il necessario culto della ragione
(absque rationis cultu) [...], comprenderemo assai chiaramente che, per
vivere in sicurezza e veramente bene (secure, et optime vivendum), essi
dovettero necessariamente associarsi in unità, facendo quindi in modo
da rendere collettivo quel diritto che ciascuno per natura aveva su
ogni cosa, affinché esso non fosse più determinato dalla forza e dalla
15
appetizione di ognuno, ma dalla potenza e dalla volontà, insieme, di
tutti (ex omnium simul potentia, et voluntate).
[TTP 2007, cap. XVI, § 5, p. 377]
Questa condizione non è fine a sé e non esaurisce le possibilità
di sviluppo concesse dalla vita in società: al contrario le
condizioni che si realizzano in società consentono all’individuo
di elevarsi al di sopra della dimensione dei bisogni immediati, di
emanciparsi dagli affetti e di coltivare la ragione. Da questi
testi apprendiamo che sicurezza e libertà sono fini, non
contrastanti, ma correlati, di uno Stato ben organizzato (GIANCOTTI,
MIGNINI, ROSENTHAL); la correlazione è data dalla nozione di ‘vita’
prospettata da Spinoza, ad esempio nel quinto capitolo del TP:
[LEGGO]
III.2.3 Ora, a partire dal fine dello stato di civiltà, si arriva
facilmente a conoscere quale sia la situazione ottimale per qualunque
tipo di stato: niente altro che la pace e la sicurezza della vita. E
pertanto lo stato migliore è quello nel quale la vita umana trascorre
nella concordia e i cui diritti si conservano inviolati. [...] Quando
[...] diciamo che il migliore stato è quello in cui gli uomini passano
la vita in concordia, intendo parlare non solo di quella vita umana
che è data dalla circolazione del sangue e dalle altre funzioni comuni
a tutti gli animali, ma a quella che si definisce in base alla
ragione, vera virtù e vita della mente. [TP, cap. V, §§ 2, 5, pp. 81,
83]
Per quanto concerne il secondo punto, il nesso tra sicurezza,
autonomia e esercizio della libera ragione, ho riportato alcune
evidenze testuali allo scopo di mostrare, sulla scorta di indagini16
già condotte da Biasutti e da Mignini, la convergenza di un
significato politico e di uno epistemologico e metodologico nella
nozione spinoziana di libertas philosophandi, per quanto riguarda la
libertà da pregiudizi e la padronanza della propria mente:
[LEGGO]
III.3.1 […] se è pur vero che il più grande segreto del regime
monarchico e il suo più grande interesse consiste nell’ingannare gli
uomini e nell’ammantare speciosamente di religione la paura che li
tiene sottomessi, al fine di indurli a combattere per la propria
schiavitù come se combattessero per la propria salvezza [...] in una
libera repubblica non potrebbe, al contrario, immaginarsi nulla di
simile, e nulla di più incongruo tentarsi, poiché è in totale
contrasto con la libertà comune soffocare nei pregiudizi o in
qualsiasi modo costringere il libero giudizio di ciascuno. [TTP 2007,
Prefazione, p. 9]
III.3.2 Ma poiché siamo liberi e pensiamo di non essere legati in
nessun modo alle loro tesi, avanzeremo altre regole di definizione
seguendo la vera Logica, cioè seguendo la divisione della Natura che noi
poniamo. [BT, p. 187]
III.3.3 Tutto questo [relativo ad un esperimento sul nitro], perciò,
valendomi della libertà filosofica, io dovrei giudicare superfluo; ma
me ne sono astenuto nella lettera che ho inviato, per tema che altri,
i quali non stimano l’illustrissimo autore [Boyle] secondo il suo
merito, si facciano di lui una falsa opinione. [A Oldenburg, 1661, in
Ep., p. 55]
III.3.4 Nella sezione quinta credetti che l’illustre autore criticasse
Cartesio perché anche in altri luoghi lo aveva fatto, senza
pregiudizio della propria e della sua dignità, valendosi della libertà
filosofica a tutti concessa. [A Oldenburg, luglio 1663, in Ep., p. 85]
17
III.3.5 [...] per studiare quanto attiene a questa scienza con la
stessa libertà d’animo (animi libertate) che ci è solita negli studi
matematici, mi sono fatto regola scrupolosa di non irridere, né
compiangere né deprecare le azioni umane, ma di comprenderle: e dunque
ho considerato gli affetti umani [...] non come vizi della natura
umana, ma come proprietà che le appartengono [...].
[TP, Cap. I, § IV, pp. 29-31]
III.3.6 Anche la facoltà di giudicare può essere sotto altrui
giurisdizione in quanto la mente può essere ingannata da un altro: ne
consegue che la mente è del tutto autonoma quando può fare retto uso
della ragione. Inoltre, poiché la potenza umana deve essere valutata
non tanto in base alla robustezza del corpo, quanto in base alla forza
della mente, ne consegue che godono della maggiore autonomia quelli
che eccellono su tutti nella capacità razionale, e da essa si fanno
massimamente guidare; chiamo dunque totalmente libero l’uomo allorché
si fa guidare dalla ragione, poiché così è determinato ad agire da
cause adeguatamente comprensibili grazie alla sua sola natura, anche
se lo determinano necessariamente ad agire. [TP, Cap. II, § XI, p. 45]
Da questa disamina si deduce che il problema della libertà come
fine dello Stato, secondo Spinoza, non è il problema classico
della tolleranza, ovverosia del consentimento da parte dello
Stato, attraverso riconoscimento giuridico, di attività ritenute
riprovevoli o comunque disapprovate; esso riguarda invece le
condizioni, che lo Stato pone, per una effettiva realizzazione del
singolo individuo.
Per quanto riguarda il terzo punto, ho riportato dei testi tratti
dall’Etica, nel quale Spinoza afferma che l’uomo guidato dalla
ragione individua il proprio utile razionale negli altri uomini,
18
in quanto questi siano a loro volta guidati dalla ragione; questo
nesso fra ragione e prescrizione alla concordia con altri uomini,
purché questi a loro volta siano guidati dalla ragione, è
essenziale come base per risolvere il problema del rapporto fra
libertà di giudicare ed obbedienza al decreto dello Stato.
Sicurezza materiale, autonomia ed esistenza razionale, è quello
che un uomo savio, non offuscato da pregiudizi può effettivamente,
ma non necessariamente, realizzare nello Stato.
[[Il messaggio politico di Spinoza è dunque finalizzato a
ricavare, nella dimensione dello Stato moderno, una sfera di
tutela giuridica per l’attività del filosofo? Alcuni interpreti
(DROETTO) hanno ritenuto che è così. Per rispondere a questa domanda
è tuttavia necessario riflettere sul destinatario del TTP; come è
stato osservato, ad esempio da VISENTIN, TOSEL, NADLER, Spinoza non si
rivolge ad una élite ben definita e contrapposta alla massa in una
maniera che tende a conservare, e ad accettare come un dato
metastorico, la distinzione tra filosofi e volgo; pur escludendo
il volgo nella misura in cui è agitato da affetti irrazionali
(ostinazione, impulso al biasimo etc.), il pubblico di Spinoza è
assai frastagliato e diversificato, ed include quanti, pur non
essendo filosofi, sono inclini, mercé particolari condizioni, alla
teoria e ad una vita condotta sotto la guida della ragione.]]
IV. Il primo limite di esercizio della libertà: agire secondo il comune decreto
Da molti testi spinoziani, testi che abbiamo già analizzato (come
i capp. V e XVI del TTP) o che conosciamo pur non avendoli19
commentati (come lo scolio alla proposizione 35 della quarta parte
dell’Etica), sappiamo che per il filosofo olandese raramente gli
uomini vivono in maniera costante e continuativa sotto la guida
della ragione; se così fosse la necessità della vita sociale si
imporrebbe naturalmente, come una sorta di necessità morale su cui
ciascuno concorda; invece, la presenza degli affetti e delle
passioni rende necessario disciplinare il comportamento in società
attraverso la legge, il cui scopo, come già abbiamo visto in una
delle definizioni del cap. IV, è di indurre a compiere determinate
azioni, o ad astenersi da altre, con la promessa di ricompense e
la minaccia di castighi. Già in quel capitolo, Spinoza mostrava
due aspetti compresenti della ‘legge umana’: 1) la sua coazione si
esercita su tutti, sia che vivano sotto la guida della ragione sia
che si facciano guidare dalle passioni; 2) è finalizzata alla
salvaguardia dello Stato. Nel testo che vado a leggere (IV.1.1)
rileviamo un’ulteriore specificazione; il decreto dello Stato
disciplina le azioni, non le opinioni:
[LEGGO]
IV.1.1 (a) Ciascuno […] ha rinunciato soltanto al diritto di agire in
base alla propria decisione, ma non di ragionare e di giudicare; e
perciò, fatto salvo il diritto delle supreme potestà, nessuno può
agire contro il loro decreto, ma (b) può senz’altro ragionare,
giudicare e, di conseguenza, anche parlare in contrasto con il loro
decreto, a condizione che parli o insegni soltanto con schiettezza e
lo sostenga con la sola ragione e non con inganno, con ira e con odio,
né con la brama di introdurre qualcosa nello Stato sulla base
dell’autorità della sua decisione.
20
I testi che ho riportato a seguire insistono sui due aspetti del
‘comune decreto di agire’, della ‘norma comune del vivere’, che ho
già menzionato: il carattere coercitivo (la forza del decreto
discende dalla capacità di regolare la condotta con minacce, con
affetti più forti degli affetti che deve reprimere; vedi testi
IV.1.2-3):
[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]
IV.1.2 Ma siamo ben lontanti dal supporre che tutti possano essere
sempre facilmente guidati dalla sola ragione: ognuno è infatti
trascinato dalla propria voluttà, e assai spesso la mente è a tal
punto occupata dall’avidità, dalla gloria, dall’invidia, dall’ira
ecc., che nessuno spazio è lasciato alla ragione. Perciò, sebbene gli
uomini accompagnino le loro promesse con segni certi di sincerità e si
impegnino a tener fede ai patti, tuttavia nessuno può essere certo
della fedeltà altrui, se alla promessa non si aggiunga qualcos’altro
[...] Ma poiché [...] il diritto naturale è determinato unicamente
dalla potenza di ciascuno, ne consegue che quanto della propria
potenza ciascuno trasferisce [...] in altri, cede necessariamente a
questi altrettanto del proprio diritto; e che ha sommo diritto su
tutti, colui che dispone di quel sommo potere in virtù del quale può
costringere tutti con la forza e tenerli a freno col timore della
massima pena, che tutti universalmente temono. [TTP 2007, cap. XVI, §
7, p. 381]
IV.1.3 […] nessun affetto può essere represso se non da un affetto più
forte e contrario all’affetto che deve essere represso, e che ognuno
si astiene dall’arrecare un danno per il timore di un danno per il
timore di un danno maggiore. Con questa legge, dunque, la Società
potrà essere resa stabile, purché rivendichi a sé il diritto, che
ciascuno ha, di vendicarsi e di giudicare del bene e del male, società
che pertanto ha l’autorità di prescrivere una norma comune del vivere,21
di emanare leggi e di renderle stabili non con la ragione, che non può
reprimere gli affetti ( per lo Scolio della prop. 17 di questa parte ), bensì con le
minacce. [Etica, P33, Sc2, p. 259]
E il suo contenuto di utilità comune (testi IV.1.4-5); in altre
parole la norma deve stabilire comportamenti che sono auspicabili
per il maggior numero ed escludere, o reprimere o vietare,
comportamenti che sono per il maggior numero dannosi:
[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]
IV.1.4 Cosa che avrebbero tuttavia tentato invano [rendere collettivo
il diritto], se non avessero voluto perseguire null’altro che ciò cui
spinge l’appetizione (infatti ciascuno è tratto in una diversa
direzione dalle leggi dell’appetizione), e perciò dovettero
fermissimamente stabilire e pattuire di dirigere ogni cosa seguendo il
solo dettame della ragione (che nessuno osa contrastare apertamente,
per non sembrare privo d’intelligenza) e di tenere a freno
l’appetizione, ove spinga a danneggiare in qualche modo gli altri; di
non fare a nessuno ciò che non si vuole sia fatto a se stessi e di
difendere, infine, il diritto altrui come se fosse il proprio. [TTP
2007, cap. XVI, § 5, p. 377]
IV.1.5 […] sarà massimamente potente e autonoma quella cittadinanza
che è fondata e diretta razionalmente (ratione fundatur, et dirigitur). Il
diritto della cittadinanza è infatti determinato dalla potenza del
popolo, che è guidato da una sola mente. Ma questa unione degli animi
non sarebbe per nessuna ragione concepibile, se la cittadinanza non
fosse orientata a ricercare soprattutto ciò che la sana ragione
insegna essere utile a tutti gli uomini. [TP, cap. III, § VII, p. 61]
22
Da questi testi discendono due conseguenze: in primo luogo, che
l’obbedienza al decreto comune di agire è l’unico limite posto
all’esercizio della facoltà di ragionare, giudicare ed esprimere
il proprio pensiero; in secondo luogo, l’obbedienza a questo
decreto non ripugna alla ragione, perché il suo contenuto è
costituito da quegli jura communia senza i quali non si dà alcuno
Stato.
Il primo aspetto è sviluppato da Spinoza attraverso l’analisi
della prerogativa del magistrato nel processo di revisione
legislativa; leggo:
[LEGGO]
IV.2.1 Ad esempio, se qualcuno mostra che una certa legge è contraria
alla retta ragione e ritiene quindi che la si debba abrogare, costui
avrà ben meritato dinanzi allo Stato – al pari di ogni altro ottimo
cittadino – se contestualmente si acconcerà a sottoporre la sua
opinione al giudizio della sovrana potestà (cui solo compete di
promulgare e di abrogare le leggi), senza contravvenire, nel
frattempo, a quanto prescritto da quella legge. Ma qualora invece egli
vi contravvenga allo scopo di accusare il magistrato di iniquità e per
renderlo odioso agli occhi del volgo, o cerchi sediziosamente di
abrogare quella legge contro la volontà del magistrato, egli è senza
dubbio un agitatore e un ribelle.
Vediamo dunque in che modo ciascuno possa dire e insegnare ciò che
pensa, salvi restando il diritto e l’autorità delle somme potestà,
ovvero salva restando la pace della repubblica, cioè lasciando alle
somme potestà la facoltà di prendere tutte le decisioni e senza fare
nulla contro il loro decreto, sebbene debba spesso agire contro ciò
che egli giudica e pubblicamente sostiene essere il bene: se vuol
23
mostrarsi giusto e pio, egli può (anzi, deve) farlo, facendo salve la
giustizia e la pietà. Come abbiamo già mostrato, infatti, la giustizia
dipende soltanto dal decreto delle somme potestà, e perciò può essere
giousto unicamente chi viva secondo i decreti da esse accolti. [TTP
2007, cap. XX, §§ 7-8, pp. 483-485]
Come si vede da questo passo, Spinoza concilia libertà e
obbedienza, ragione e salvaguardia dello Stato col ricorse alle
coppie pensare/agire e privato/pubblico, secondo un’impostazione
ricorrente nella filosofia politica del Seicento (VISENTIN);
‘pubblico’ e ‘privato’ designano in questo contesto
rispettivamente ciò che è regolato dal pubblico decreto e ciò che
gli si sottrae; il pensiero è libero, l’azione è regolata dal
decreto comune ed è sottomessa alle leggi; così, da un lato
l’autorità civile è tutelata, poiché in suo diritto esclusivo
rimane la facoltà di cambiare le leggi; mentre il suddito è allo
stesso tempo libero e giusto; libero, in quanto può parlare contro
l’opinione dell’autorità; giusto, in quanto ne rispetta le leggi.
La posizione di Spinoza segue da quanto egli ha stabilito in
precedenza nel TTP; cioè che se tutti agissero per proprio decreto
non esisterebbe alcuna autorità, alcun diritto comune (lo dice in
vari luoghi, ad esempio nel passo del cap. XVII che ho riportato
al punto VI.3.2); e inoltre, che (cito IV.2.2):
la giustizia e tutti gli insegnamenti della vera ragione [...]
acquisiscono forza di diritto e di mandato dal solo diritto dello
Stato, cioè [...] unicamente per decreto di coloro che detengono il
diritto di esercitare il comando. [TTP 2007, cap. XIX, § 5, p. 459]
24
Viceversa, l’interferenza con le prerogative dell’autorità civile
o il tentativo di pregiudicarne l’autorevolezza comportano il
reato di lesa maestà, come definito nel cap. XVI:
[LEGGO]
IV.2.3 […] il delitto di lesa maestà ha luogo solo fra i sudditi (o
cittadini), i quali hanno trasferito allo Stato – con patto tacito o
manifesto – ogni loro diritto; si dice aver commesso tale delitto quel
suddito che abbia in qualche modo tentato di conquistare per sé o
trasferire ad altri il diritto di sovrana potestà. Dico “abbia
tentato”, poiché, se lo si dovesse condannare solo dopo aver commesso
il fatto, nella maggior parte dei casi lo Stato tenterebbe di
condannarlo troppo tardi, dopo la conquista o il trasferimento del
diritto ad altri. Inoltre, dicendo “chi abbia in qualche modo tentato
di conquistare per sé il diritto di sovrana potestà”, parlo
astrattamente, cioè trascurando ogni differenza fra il caso in cui da
quel tentativo derivasse molto chiaramente un danno, oppure un
giovamento per lo Stato tutto. Infatti, in qualunque modo costui abbia
intrapreso il suo tentativo, questi ha comunque leso la maestà ed è
condannato di diritto [...].
[TTP 2007, cap. XVI, § 18, p. 389]
Naturalmente, l’assunto implicito nell’argomentazione di Spinoza
sta nell’ipotizzare la capacità dell’autorità civile, della
magistratura, di riconoscere l’utile comune e di rifletterlo nelle
leggi dello Stato, di mettere a profitto le opinioni espresse
nell’ordinamento dello Stato; un potere civile che non obbedisca a
questi requisiti perde l’obbedienza dei sudditi; la conservazione
dello Stato è il contenuto razionale su cui le autorità civili e i
25
sudditi, da qualsiasi movente siano guidati, non possono che
convergere.
Inoltre, si rileva dai testi IV.1.1 e IV.2.1 (ciò è stato messo in
luce da VISENTIN) che il binomio pensare/agire non corrisponde
isomorficamente alla coppia interno/esterno: Spinoza non
contrappone il pensiero privato e intimo all’agire e
all’esprimersi in pubblico. Propongo, a tal proposito, un
confronto con Hobbes:
[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]
IV.2.5 […] la questione non è più se quello che vediamo compiere sia
un miracolo, [ovvero] se il miracolo di cui sentiamo parlare o
leggiamo sia stato opera reale e non un’invenzione di una lingua o di
una penna; bensì, in parole povere, se il racconto sia veridico o se
sia una menzogna. Di tale questione non dobbiamo rendere giudice
ciascuno la nostra ragione o coscienza privata, ma la ragione
pubblica, cioè la ragione del supremo luogotenente di Dio; e, in
verità, lo abbiamo già fatto giudice se gli abbiamo dato un potere
sovrano perché facesse tutto ciò che è necessario per la nostra pace e
la nostra difesa. Un privato ha sempre la libertà (dal momento che il
pensiero è libero) di credere o di non credere in cuor suo alle azioni
presentate come miracoli, considerando il beneficio che può derivare
dalla credenza degli uomini a coloro che ne pretendono e ne sostengono
la autenticità, e, sulla base di ciò, congetturare se siano miracoli o
menzogne. Ma quando si viene alla pubblica dichiarazione di quella
fede, la ragione privata deve sottomettersi a quella pubblica, cioè al
luogotenente di Dio.
[L, parte III, cap. XXXVII, pp. 361-362]
26
Si tratta, come si vede, di un testo sui miracoli; qui la coppia
pensare/agire corrisponde a quella privato/pubblico e quella
interno/esterno, e Hobbes oppone il ‘credere in cuor proprio’ alla
‘pubblica dichiarazione’; per Spinoza l’esprimere, il persuadere e
l’insegnare appartengono al campo del ‘privato’ come l’abbiamo
prima definito: come ciò che non è regolamentato. L’eventuale
dissenso, secondo Spinoza, non è qualcosa che riguarda
l’interiorità del cittadino singolo e isolato.
Così, mentre in questo testo il pensiero intimo e privato è il
limite estremo delle leggi civili (per Hobbes libertà è assenza di
impedimenti), per Spinoza la legge civile è il limite estremo
dell’esercizio della ragione e dell’espressione delle opinioni.
I testi che ho riportato nella successiva sezione della dispensa
sono utili ad approfondire invece l’aspetto della compatibilità
dell’obbedienza al comune decreto con la deliberazione e con la
libera ragione:
[LEGGO]
IV.3.1 […] fin quando si agisce conformemente ai decreti della sovrana
potestà, non si può fare nulla che sia in contrasto con il decreto e
il dettame della propria ragione: fu infatti perché persuaso dalla
ragione stessa che ognuno decise di trasferire completamente alla
sovrana potestà il diritto di vivere secondo il proprio giudizio.
Possiamo verificarlo anche nella pratica stessa: infatti, nei concilii
delle somme potestà, come anche in quelli delle minori, raramente si
fa alcunché col voto unanime di tutti i membri, e tuttavia si fa tutto
per unanime decreto di tutti, ovvero tanto di coloro che hanno votato
contro, quanto di coloro che hanno votato a favore. [TTP 2007, cap. XX, §
8, p. 485]27
Per quanto riguarda il nesso deliberazione-obbedienza ho riportato
tre testi, tratti rispettivamente dall’Etica, dal Trattato politico e
dalle Adnotationes al Trattato teologico-politico, nei quali Spinoza insiste
sull’idea secondo cui l’uomo guidato da ragione, anche quando
dissente, non avrà da forzarsi al rispetto della legge dello
Stato; proprio la ragione gli insegnerà la vera utilità e
necessità dello Stato, come luogo della pace e della concordia,
senza il quale lo stesso esercizio della libera ragione è posto in
forse.
Non soltanto, dunque, per Spinoza, la libertà di giudizio è
perfettamente compatibile con l’obbedienza; in uno Stato le cui
leggi disciplinino le sole azioni, secondo criteri di utilità
comune, e per il resto viga una perfetta libertà di giudizio, non
potrà che aver luogo, tra gli uomini guidati dalla ragione, una
peculiare forma di obbedienza non costrittiva, ma libera (cap.
IV), con «animo integro» (cap. XVII), ai decreti:
[LEGGO]
IV.3.2 L’uomo, che è guidato da ragione, non è indotto dalla paura ad
obbedire [...]; ma in quanto si sforza di conservare il proprio essere
secondo il dettame della ragione, cioè [...] in quanto si sforza di
vivere più liberamente, desidera di osservare la regola della vita e
dell’utilità comune [...], e conseguentemente [...] di vivere secondo
il decreto comune dello Stato. L’uomo, che è guidato da ragione,
desidera, dunque, per vivere più liberamente, di osservare le comuni
leggi dello Stato.
[Etica, parte IV, P73 (Dimostrazione), p. 282]
IV.3.3 […] l’uomo è certamente libero nella misura in cui è guidato
dalla ragione. Ma la ragione persuade indubbiamente alla pace (N.B.:28
Hobbes la pensa diversamente)1, e questa, d’altra parte, non può essere
raggiunta ove non si conservino inviolate le leggi comuni dello Stato.
Perciò, quanto più un uomo è guidato dalla ragione – ovvero, quanto
più è libero –, tanto più costantemente egli osserverà le leggi dello
Stato ed eseguirà i comandi della sovrana potestà di cui è suddito.
[TTP (2007), cap. XVI, § 10, n. XXXIII, p. 385]
IV.3.4 [...] siccome la ragione non insegna nulla contro la natura,
proprio per questo non può la sana ragione prescrivere che ciascuno
rimanga autonomo (sui juris) fino a tanto che gli uomini che gli uomini
sono attraversati dagli affetti [...]; dunque [...] la ragione esclude
che ciò possa accadere. Di più, la ragione insegna assolutamente a
ricercare la pace, che non può mantenersi se non si mantenga inviolato
il diritto comune della cittadinanza; e dunque, quanto più un uomo è
guidato dalla ragione, ovvero [...] quanto più è libero, tanto più
coerentemente rispetterà i diriti della cittadinanza ed eseguirà le
disposizioni del potere sovrano di cui è suddito. [TP, cap. III, § VI,
p. 59]
V. Il secondo limite di esercizio della libertà: le opinioni sediziose
Passo al secondo limite di esercizio della libertà e del giudizio,
costituito dalle opinioni sediziose; leggo:
[LEGGO]
V.1 [...] abbiamo visto sulla base dei fondamenti della repubblica in
che modo ciascuno possa esercitare la libertà di giudizio facendo
salvo il diritto delle somme potestà. Ma sulla stessa base possiamo
determinare altrettanto facilmente quali opinioni, all’interno di uno
Stato, siano sovversive, tali cioè da annullare (nel loro stesso1 Cfr. L, parte I, cap. XIV: «è un precetto, o una regola generale dellaragione, che ciascuno debba cercare la pace per quanto ha speranza di ottenerla, e che, se non è ingrado di ottenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra».
29
manifestarsi) il patto con cui ciascuno ha rinunciato al diritto di
agire secondo il proprio arbitrio.
Ad esempio, se qualcuno ritiene che la potestà non sia di proprio
diritto sovrana, o che nessuno debba mantenere le promesse, o che
ognuno debba vivere secondo il proprio arbitrio (o altre analoghe
opinioni, tutte direttamente in contrasto con il patto suddetto),
costui è un sovversivo; ma non tanto a causa di tale giudizio e di
tale opinione, quanto per la conseguenza ( quam propter factum ) che tali
giudizi implicano, in quanto, per il fatto stesso di avere questa
opinione, egli si svincola dalla fedeltà che aveva tacitamente o
espressamente assicurata alla sovrana potestà.
Parallelamente, le altre opinioni, che non determinano atti quali la
rescissione del patto, la vendetta, l’ira ecc., non sono sovversive,
se non forse in uno Stato in qualche modo corrotto, laddove cioè i
superstiziosi e gli ambiziosi, i quali non possono tollerare gli
uomini liberi, abbiano acquisito un tale prestigio che, presso la
plebe, la loro autorità ha più valore di quella delle somme potestà.
[TTP (2007), cap. XX, § 9, p. 485]
La definizione delle ‘opinioni sovversive’ è affidata alla prima
parte del testo: sono le opinioni che affermano, o comportano
l’affermazione della non validità del patto costituente dello
Stato; la seconda parte, fornisce una esemplificazione ed una
precisazione; l’affermazione secondo cui sia necessario vivere
secondo il proprio arbitrio, e non secondo il comune decreto, è
sovversiva, ma non in se stessa; lo è in quanto non può che dar
luogo a una condotta in contrasto con il comune decreto di agire.
Così, da un lato, Spinoza resta fedele al criterio secondo cui
sono le azioni, non le opinioni ad essere regolate dal diritto;
criterio che costituisce una sorta di filo conduttore del Trattato
30
teologico-politico (e infatti lo ritroviamo infatti formulato
all’inizio, come desideratum, e alla fine, come conclusione; vedi
punti V.2-3):
[CITO SENZA LEGGERE]
V.2 Se, invece, secondo il diritto dello Stato, «fossero perseguibili
soltanto le azioni, mentre le parole restassero immuni da sanzioni»,
simili sedizioni non potrebbero ammantarsi di alcuna apparenza di
diritto e le controversie non si trasformerebbero in sedizioni. [TTP
(2007), Prefazione, § 7, p. 9]
V.3 Concludiamo perciò [...] che nulla è più sicuro per la repubblica
del fatto che [...] il diritto delle somme potestà – sia in materia
sacra che profana – si applichi soltanto alle azioni: per il resto sia
concesso a ognuno di pensare quel che vuole e di dire quel che pensa.
[TTP (2007), cap. XX, § 17, p. 495]
In secondo luogo, stabilisce che il giudizio sulla razionalità
delle opinioni, e quindi sulla loro ammissibilità nello spazio
pubblico dipende dalla condotta cui queste opinioni danno luogo;
un’opinione formulata in modo da essere conciliabile con una
condotta conforme al decreto comune, non può che essere razionale
e dunque non perseguibile.
[[A questo punto si prospetta un interrogativo, se, cioè,
l’impostazione di Spinoza non comporti l’ammissibilità delle sole
opinioni compatibili con l’obbedienza alle leggi date, anche
quando queste siano ingiuste o non razionali; il problema c’è,
perché in alcuni luoghi della propria opera Spinoza afferma che
l’obbedienza alle leggi e la conservazione dello Stato sono in
ogni caso il male minore; limitatamente a questo capitolo, occorre
ricordare, per sciogliere questo interrogativo, che Spinoza sta31
prendendo intenzionalmente in considerazione uno stato in cui
l’utilità di tutti è il criterio delle leggi e dell’iniziativa
delle magistrature nel rivederle o sostituirle con altre (per il
problema del rapporto tra filosofia politica spinoziana e
assunzione dei rapporti di forza ‘dati’, cfr. CAPORALI 2007).]]
Proseguendo su questa traccia, Spinoza fa seguire un’analogia fra
le conclusioni del cap. XX sulla libertà entro lo Stato e quelle
del cap. XIV sulla libertà concessa dalla fede:
[LEGGO]
V.4 (a) […] non neghiamo che alcune opinioni, sebbene sembrino
concernere semplicemente il vero e il falso, sono proposte e divulgate
con animo iniquo. Ma le avevamo già determinate nel Capitolo XV,
conservando nondimeno libera la ragione. E se, infine, rifletteremo
sul fatto che la fedeltà di ognuno verso la repubblica (così come
quella verso Dio) può conoscersi solo dalle opere (ovvero dall’amore
verso il prossimo), non potremo mai dubitare del fatto che una
repubblica ottimamente governata conceda ad ognuno la stessa libertà
di filosofare che la fedeltà, come abbiamo dimostrato, concede a
ciascuno. [TTP (2007), cap. XX, pp. 485-487]
Per quanto riguarda la prima parte del passo, si tratta di un
riferimento esplicito al cap. XV, in particolare alla critica dei
teologi i quali, mentre affermano la subordinazione della ragione
alla teologia, fanno uso della ragione stessa come strumento
persuasivo:
[RIASSUMO]
32
V.5 […] la potenza della ragione, come abbiamo già mostrato, non si
estende fino al punto di poter determinare che gli uomini riescano a
giungere alla beatitudine con la sola obbedienza – senza
l’intelligenza delle cose –, mentre la teologia non prescrive
null’altro che questo, e null’altro che obbedienza comanda, e contro
la ragione né vuole né può nulla. Essa determina i dogmi della fede
[…] solo nella misura in cui ciò sia sufficiente all’obbidienza; in
qual modo essi siano invece precisamente in ragione della verità, la
teologia lascia che a determinarlo sia la ragione, che è davvero la
luce della mente, senza la quale la mente null’altro vede che sogni e
menzogne. [TTP (2007), cap. XV, § 6, p. 363]
La seconda parte del passo è invece stata ritenuta di controversa
interpretazione da parte di alcuni interpreti (come TOTARO). E ha
per conseguenza dato luogo a differenti traduzioni, la migliore
delle quali mi pare sia quella di Dini; le ho riportate ai punti
V.4(b-e); il passo è, a mio avviso, abbastanza perspicuo e si
lascia spiegare, come dicevo, alla luce di una analogia con le
conclusioni del cap. XIV (il parallelismo fra il cap. XX e i
capp. XIV-XV, che concludono la parte teologica del Trattato, è
rilevato con intelligenza in ANDREATTA 1999); leggo:
[LEGGO IL SOTTOLINEATO]
V.4 (c) […] non potremmo in nessun modo dubitare che uno Stato
ottimamente costituito conceda a ciascuno la medesima libertà di
filosofare che abbiamo visto concedere a ciascuno la fede.
[TTP (2010), p. 659]
V.6 […] non possiamo giudicare nessuno come fedele o infedele se non
dalle opere: ovvero se le opere di un uomo sono buone, anche ove
dissenta in fatto di dogmi dagli altri fedeli, costui è tuttavia
33
fedele; se, al contrario, sono cattive, anche ove egli sia a parole in
accordo con altri fedeli, costui è tuttavia infedele. Posta infatti
l’ubbidienza, è necessariamente posta la fede, e la fede senza le
opere è morta [...].
[TTP (2007), cap. XIV, § 7, p. 345]
V.7 La fede, dunque concede a ognuno la somma libertà di filosofare,
in modo che tutti possano pensare ciò che voglio si qualsiasi cosa
senza empietà: essa condanna come eretici e scismatici soltanto coloro
che insegnano opinioni per sostenere la ribellione, gli odi, le
contese e l’ira, e, al contrario, considera credenti soltanto coloro
che, in proporzione alla forza della loro ragione e alle loro
possibilità, sostengono la giustizia e la carità. [TTP (2007), cap.
XIV, § 13, p. 353]
Come l’obbedienza verso Dio si riconosce soltanto dalle buone
opere, opere di giustizia e carità, ma lascia integra la libertà
di filosofare, così la fede verso lo Stato comporta obbedienza ai
suoi decreti e alle sue leggi, ma lascia per il resto completa
facoltà di giudicare e ragionare.
In conclusione possiamo affermare che la libertas judicandi è per
Spinoza 1) qualcosa di profondamente radicato nella natura umana;
2) qualcosa che non ha altro limite che l’obbedienza alle leggi
dello Stato, limite che non è mai una coartazione o una negazione
della ragione; a tal proposito ho riportato al punto V.8 il testo
della lettera all’emissario dell’Elettore Palatino, nella quale
Spinoza declina l’offerta di una cattedra, esplicitando il suo
timore che la religione pubblicamente costituita incoraggiasse
quei pregiudizi che restringono indebitamente la libertas philosophandi,
e di cui la libertas philosophandi costituisce la netta antitesi:
34
V.8 […] io non so entro quali limiti debba intendersi compresa quella
libertà di filosofare, perché io non sembri voler perturbare la
religione pubblicamente costituita: giacché gli scismi non nascono
tanto dall’amore ardente della religione, quanto dalla varietà degli
affetti umani, dallo spirito di contraddizione che tutto suole
guastare e condannare, anche se è ben detto. [A J. L. Fabritius, marzo
1673, in Ep., p. 223]
VI. Il mancato riconoscimento della libertà cagionerà l’instabilità dello Stato
Nell’ultima parte del capitolo, Spinoza fornisce una serie di
argomenti e dimostrazioni a favore della libertas philosophandi,
mostrando che essa non soltanto è compatibile con la sicurezza e
la pace dello Stato, ma deve essere necessariamente concessa per
preservare tale sicurezza e tale pace.
Mi soffermo su tre di questi argomenti: i primi due offrono spunti
per proseguire il confronto con Hobbes; il primo riguarda
l’opportunità di leggi che disciplinino le opinioni, opportunità
che Spinoza, rievocando la sua disamina della storia ebraica,
fermamente respinge:
[RIASSUMO]
VI.1.1 Ma si supponga che questa libertà possa essere repressa [...].
Così per lo più sono fatti gli uomini, che nulla essi tollerano con
maggior fastidio quanto il fatto che si considerino dei crimini le
opinioni che credono vere, e che venga imputato loro come delitto ciò
che li muove alla pietà verso Dio e verso gli uomini; per cui accade
che essi osino denunciare tali leggi contrastando in ogni modo il
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magistrato, e che non considerino indecoroso, ma nobilissimo,
suscitare delle rivolte, ricorrendo a qualunque mezzo.
Poiché consta che la natura umana è costitui in questo modo, ne
consegue che le leggi in materia di opinioni, non riguardano i
disonesti, ma le persone dabbene, e che non siano emanate per
controllare i malvagi, ma piuttosto per irritare gli onesti, e che non
possono essere sostenute senza grave pericolo per lo Stato.
Si aggiunga che tali leggi sono del tutto inutili: infatti, chi
crederà che le opinioni condannate dalle leggi siano giuste, a quelle
leggi non potrà obbedire, mentre chi le respinge come false, recepisce
invece le leggi che le condannano come privilegi, e tanto se ne gloria
che il magistrato, anche volendolo, non potrà abrogarle. [...] E
infine, quanti scismi sono nati nella Chiesa principalmente a causa
del fatto che i magistrati vollero dirimere con le leggi le
controversie dei teologi? Infatti, se gli uomini non coltivassero la
speranza di piegare a loro favore le leggi e il magistrato, di
trionfare sui propri avversari con l’unanime plauso del volgo e di
guadagnare degli incarichi pubblici, non rivaleggerebbero con animo
tanto iniquo, né tanto furore ecciterebbe le loro menti. Non soltanto
la ragione, ma anche, e con quotidiani esempi, l’esperienza insegnano
come simili leggi (ovvero quelle con cui si impone ciò che ognuno deve
credere e con le quali si proibisce di dire e di scrivere alcunché
contro questa o quella opinione) siano spesso state emanate per fare
concessioni, o piuttosto per cedere all’ira di coloro che non possono
tollerare gli spiriti liberi, e come tali prescrizioni trasformino
facilmente – grazie a una sorta di sinistra autorità – la devozione
dell’instabile plebe in rabbia, aizzandola poi contro chiunque
intendano dirigerla.
[TTP (2007), cap. XX, §§ 11-12, pp. 487-489]
36
Il testo di Hobbes che ho riportato si riferisce alla polemica
contro le ingerenze dei teologi in materia scientifica e
filosofica; in prima battuta le osservazioni di Hobbes e Spinoza
sulla necessità di non confondere teologia e filosofia, fede e
ragione, sembrano affini. Hobbes, tuttavia prosegue, nella parte
del testo che ho evidenziato, adombrando una disciplina
legislativa estesa all’insegnamento della ‘vera filosofia’; ed in
qualche maniera il potere sottratto ai teologi e alle autorità
ecclesiastiche viene affidato interamente al potere civile.
[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]
VI.1.2 All’introduzione della falsa filosofia possiamo aggiungere
anche la soppressione di quella vera da parte di uomini che, né per
legittima autorità, né per sufficiente preparazione, sono giudici
competenti della verità. La nostra navigazione rende evidente
l’esistenza di antipodi, e tutti gli uomini versati nelle scienze
umane ora lo riconoscono; e ogni giorno appare sempre più chiaramente
che gli anni e i giorni sono determinati dai movimenti della terra.
Ciononostante, gli uomini che nei loro scritti hanno anche solo
ipotizzato tale teoria, limitandosi ad esporre le ragioni pro e contro
essa, sono stati per questo puniti dall’autorità ecclesiastica. Ma per
quale motivo?
È perché tali opinioni sono contrarie alla vera religione? Ciò non può
essere, se sono vere. Quindi si lasci che la verità sia in primo luogo
esaminata da giudici competenti o che venga confutata da coloro che
pretendono di sapere il contrario.
È perché sono contrarie alla religione stabilita? Siano allora ridotte
al silenzio dalle leggi di quelli cui coloro che le insegnano sono
soggetti, vale a dire dalle leggi civili: infatti la disobbedienza può
legittimamente essere punita in coloro che impartiscono un
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insegnamento contrario alle leggi, anche se si tratta di vera
filosofia.
È perché esse tendono a creare disordine nel governo, appoggiando la
ribellione o la sedizione? Che esse siano ridotte al silenzio e coloro
che le insegnano in virtù del potere di colui cui è stata affidata la
cura della pubblica quiete, potere che è l’autorità civile.
Infatti, qualsiasi potere gli ecclesiastici si assumano (in qualsiasi
luogo in cui sono soggetti allo Stato) come loro proprio diritto,
benché lo chiamino diritto di Dio, non è che usurpazione.
[L, parte IV, cap. XLVI, pp. 555-556]
Ho tentato un confronto con Hobbes anche per quanto riguarda le
osservazioni di Spinoza sulla comminazione della pena capitali per
reati di opinione o per dissenso teologico; il testo è
particolarmente importante perché, come osservato da Mignini,
contiene l’unica occorrenza del termine ‘tolerantia’ negli scritti
spinoziani:
[LEGGO]
VI.2.1 Quanto sarebbe meglio, invece, porre un freno all’ira e al
furore del volgo, piuttosto che promulgare leggi inutili, che non
possono essere violate se non da coloro che amano le virtù e le arti,
piuttosto che ridurre la repubblica in una condizione talmente penosa
da non consentirle di tutelare gli uomini dabbene! Quale peggior
sventura si può immaginare, per una repubblica, del fatto che uomini
onesti vengano mandati in esilio quasi fossero dei malfattori, solo
perché hanno opinioni diverse e non le sanno dissimulare? Cosa può
esservi – ribadisco – di più funesto del fatto che degli uomini
vengano considerati come nemici, non a causa di un delitto o di un
misfatto, ma perché sono di indole liberale, e che siano condotti a
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morte? Cosa di più pernicioso che il patibolo, terrore dei malvagi,
diventi un bellissimo teatro ove offrire il più alto esempio di
sopportazione (tolerantiae) e di virtù, a sommo disonore della maestà?
Coloro che sanno di essere onesti non temono – diversamente dai
malfattori – la morte, né fuggono il supplizio: il loro animo non è
infatti oppresso dal rimorso di un turpe delitto, ed essi considerano
anzi un onore morire per una buona causa, piuttosto che un supplizio,
e degno di gloria cadere per la libertà. Che esempio viene dato,
quindi, con la morte di tali uomini, la cui causa è ignorata dai
deboli e dai vili, odiata dai rivoltosi e amata dagli onesti?
Certamente nessuno può trarre esempio da quella morte, se non per
imitarla o – quanto meno – per ammirarla.
[TTP (2007), cap. XX, § 13, pp. 489-491]
Come si vede, la ‘tolerantia’ nell’accezione spinoziana si
riferisce alla virtù che il condannato ha di sopportare il
patimento di sofferenze materiali in nome di una giusta causa, e
non ha nulla a che fare con l’accezione dominante nel lessico
politico-giuridico moderno; del resto, ho cercato di mostrare che
la problematica politica di Spinoza nel cap. XX (così come quella
teologica nei capp. XIV, XV) trascende di gran lunga la
problematica classica della ‘tolleranza’. Altri interpreti
(GIANCOTTI, DROETTO, TOTARO, NADLER) hanno spiegato questa potente
raffigurazione della morte sul patibolo di un uomo di indole
liberale come una rievocazione della sorte di Adriaan Koerbagh,
amico intimo di Spinoza. Sulla scorta di tale esperienza, Spinoza
afferma 1) che la condanna di simili uomini va a detrimento delle
autorità civili; 2) che la sorte degli uomini condannati per le
loro opinioni non può che destare ammirazione e desiderio di
emulazione negli altri uomini.39
Propongo un testo di Hobbes, nel quale si affronta il tema
dell’obbedienza ad un sovrano civile di fede diversa da quella del
suddito:
VI.2.2 […] quando il sovrano civile è un infedele, ciascuno dei suoi
sudditi che gli si oppone, pecca contro le leggi di Dio (poiché tali
sono le leggi di natura) e respinge il consiglio degli Apostoli i
quali esortano tutti i cristiani ad obbedire ai loro principi, e tutti
i fanciulli e servi ad obbedire ai loro genitori e ai loro padroni, in
ogni cosa. Quanto alla loro fede , essa è un fatto interiore e
invisibile; essi godono della stessa licenza concessa a Naaman, e non
hanno bisogno di esporsi al pericolo per essa. Se nondimeno lo fanno,
devono aspettarsi di essere ricompensati in cielo e non lamentarsi del
loro legittimo sovrano, e tanto meno muovergli guerra. Infatti, chi
non si rallegra per ogni giusta occasione di martirio, non possiede
la fede che professa ma pretende solo di averla, per fornire un
pretesto alla propria ribellione.
Ma quale re infedele – sapendo di avere un suddito che aspetta la
seconda venuta di Cristo, dopo che il mondo presente sarà stato
distrutto dal fuoco, che intende allora obbedire a Cristo […] e che
nel frattempo si ritiene vincolato ad obbedire alle leggi di quel re
infedele […] – sarà irragionevole al punto da mettere a morte o
perseguitare un tale suddito? [L, parte III, cap. XLIII, pp. 486-487]
Hobbes da un lato afferma che, essendo la fede interiore ed
invisibile, il suddito non è obbligato ad esporsi al pericolo per
essa, oppure deve accettare il martirio; dunque o dissimulazione o
morte, quest’ultima accettata dal suddito in vista di una
ricompensa celeste; d’altro canto, dice Hobbes, uccidere un
suddito che professa un’altra fede, e allo stesso tempo si
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sottomette alla legge civile, è irragionevole. Spinoza, come
abbiamo visto dal testo precedente, esclude la dissimulazione e
afferma che, mentre è pericolosa per l’autorità civile la
persecuzione delle opinioni diverse, queste devono essere non solo
ignorata, ma ammesse.
In conclusione, mi soffermo su un passaggio del capitolo XX nel
quale Spinoza osserva che il modo di governare basato sul pieno
riconoscimento della libertà è il migliore ed il più naturale, ed
aggiunge che in esso si stabilisce il decreto comune di agire, pur
conservando alle autorità civili la facoltà di abrogarlo e
sostituirlo con soluzioni legislative più efficaci. Si tratta di
un passaggio fondamentale, in quanto in esso Spinoza realizza il
nesso tra democrazia e libertà che aveva annunciato nel cap. XVI:
[RIASSUMO]
VI.3.1 Non possiamo dubitare che questo sia il miglior modo di
governare, ed è quello che presenta gli inconvenienti di minore
entità, in quanto è il più conforme alla natura degli uomini. Abbiamo
infatti mostrato come, nel governo democratico – il più prossimo allo
stato di natura – tutti pattuiscono di agire, ma non certo di
giudicare e ragionare, per decreto comune. Ovvero, poiché non tutti
gli uomini possono concordare nelle medesime convinzioni, decisero che
avesse forza di decreto quel provvedimento che avesse ottenuto gran
parte dei suffragi, ma conservando comunque l’autorità di abrogarlo in
presenza di soluzioni più efficaci. Perciò, quanto minore è la
libertà di giudicare che si concede agli uomini, tanto maggiore è la
distanza dallo stato più naturale e, conseguentemente, con tanta
maggiore violenza si regna (a statu maxime naturali magis receditur et consequenter
violentius regnatur).
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[TTP (2007), cap. XX, § 14, p. 491]
Con i risultati del cap. XX, in altre parole, Spinoza completa la
sua analisi dell’imperium democraticum, ossia di un tipo di stato
civile vicino alla condizione naturale degli uomini, rispettoso di
alcune caratteristiche permanenti della natura umana (come
l’avversione all’asservimento nei confronti di un proprio eguale e
l’impulso a esprimere i propri giudizi), e capace di dar luogo ad
una rideterminazione positiva del diritto naturale piuttosto che
ad una sua totale cessione; dunque un potere moderato e stabile,
piuttosto che un potere dispotico e pertanto precario; tre sono le
condizioni di un simile assetto politico: 1) la ‘collegialità’ ed
il ‘consenso’, onde nessuno è asservito ad un proprio pari;
VI.3.2 […] non c’è nulla che gli uomini tollerino di meno che di
essere asserviti ai loro eguali e da essi comandati. [...] Da quanto
detto consegue, in primo luogo, che la società tutta, se è possibile,
deve detenere il potere in forma collegiale, cosicché ognuno sia
tenuto a obbedire a se stesso e non a un suo eguale [...]. [...]
Poiché, infine, l’obbedienza consiste unicamente nel fatto che si
adempia agli ordini per la sola autorità di colui che li impartisce,
ne segue che non vi è affatto obbedienza in una società il cui potere
è nelle mani di tutti e le cui leggi vengono stabilite per comune
consenso; e che, in una società siffatta, sia che il numero delle
leggi cresca, sia che diminuisca, nondimeno il popolo rimane – e nella
stessa misura – libero, poiché non opera per autorità di altri ma
secondo il proprio consenso.
[TTP (2007), cap. V, § 9, pp. 137-139]
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2) la salus totius populi come criterio cui improntare le leggi, onde
nell’utilità comune ciascuno possa riconoscere anche la propria, e
non solo quella di chi comanda; 3) il riconoscimento del diritto
ad essere consultati:
IV.3.3 [...] in una società politica (in republica et imperio) nella quale il
bene dell’intero popolo – e non quello di chi comanda – è legge
suprema, colui che obbedisce in tutto alla sovrana potestà non deve
essere definito schiavo e inutile a se stesso, ma suddito; è perciò
massimamente libero quello Stato le cui leggi sono fondate sulla sana
ragione: in esso, infatti, ognuno può essere, se lo vuole libero,
ovvero può vivere con animo puro, sotto la guida della ragione. [...]
E con questo ritengo di aver illustrato abbastanza chiaramente i
fondamenti dello Stato democratico, di cui ho preferito parlare prima
di tutti gli altri perché mi sembrava il più naturale e quello che più
si avvicina alla libertà che la natura concede a ognuno. In esso,
infatti, nessuno trasferisce ad altri il proprio diritto naturale fino
al punto da non dover più essere, in seguito, consultato [...] Ho poi
voluto trattare espressamente di questa sola forma statuale perché si
presta meglio al mio intento, [...] di trattare dell’utilità della
libertà nello Stato. [TTP (2007), cap. XVI, §§ 10-11, pp. 383-385]
In uno Stato in cui viga la libertà chiunque può proporre
innovazioni legislative e divulgare le proprie ragioni, fatta
salva, naturalmente, la decisione del magistrato; le proposte,
d’altro canto, verranno accettate se rispondenti al criterio di
quella utilità comune, nella quale tutti, o la maggior parte,
possano riconoscersi. Si tratta di un tentativo di risolvere
quella che Caporali (CAPORALI 2007, pp. 103-104) recentemente ha
chiamato la ‘tensione costitutiva’ tra multitudo e imperium, tra
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origine democratica del potere ed esigenza della sua
stabilizzazione. Questo equilibrio, che si realizza nello Stato
ottimamente costituito, tra autorità del magistrato e libertà
dell’individuo, intorno all’identificazione (mai definitiva) di un
‘bene di tutto il popolo’, è ciò che determina, secondo alcuni
interpreti (TOTARO, CRISTOFOLINI), il passaggio semantico, nel lessico
politico spinoziano, dall’Imperium, semplice garante di sicurezza,
alla Respublica, in cui si si promuove e si persegue un ‘bene
comune’ [a tal proposito tenere presente che, secondo il Lexicon, il
termine ‘respublica’ ricorre sempre in stretta correlazione con
‘libertas’ nel TTP; nel TP, il suo significato sembra essere invece
quello letterale di ‘cosa pubblica’, di ‘pubblici affari’ (cfr. TP
I, in cui ricorre anche l’espressione ‘publica negotia’)], e,
nella traduzione italiana, la sostituzione di ‘Stato’ con ‘libera
repubblica’ che abbiamo rilevato sin dall’inizio del capitolo XX.
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