Note di commento a Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. XX: «Si mostra che in un libero Stato...

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Note di commento a Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. XX: «Si mostra che in una libera repubblica a ciascuno è consentito di pensare ciò che vuole e di dire ciò che pensa» [Appunti per la relazione] 0. Considerazioni introduttive Il cap. XX è il capitolo conclusivo Trattato teologico-politico; esso conduce a effetto non solo la sezione propriamente politica (capp. XVI-XX), ma l’intera argomentazione del Trattato; non si tratta, tuttavia, di un semplice capitolo riassuntivo, nel quale Spinoza si limiterebbe a tirare le somme su cose già dette, o a sintetizzare ragionamenti compiuti e problematiche interamente sviscerate. Si tratta, invece, di un capitolo fortemente propositivo e normativo, nel quale Spinoza prosegue la propria opera di ridefinizione del lessico teologico-politico (che abbiamo già constatato ragionando sui termini ‘teologia’, ‘fede’, ‘legge’ e ‘diritto’), affrontando quella che, in sede di prefazione, aveva indicato come una tesi cardine del Trattato, che «la libertà non può essere negata senza appunto negare la pace della Repubblica e la pietà: è esattamente questa la tesi che mi sono proposto di dimostrare nel presente trattato » (0.1). Vedremo che ‘libertas’ e ‘respublica’ costituiscono i termini-chiave di questo capitolo. La difesa della libertà, libertà di filosofare, e di esprimere ciò che si pensa, all’interno della dimensione del vivere civile e della costituzione dello Stato, è annoverata anche tra i tre punti attraverso i quali Spinoza aveva riassunto a Oldenburg i contenuti del redigendo Trattato nell’ottobre 1665. Si tratta di un’ulteriore 1

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Note di commento a Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. XX:«Si mostra che in una libera repubblica a ciascuno

è consentito di pensare ciò che vuole e di dire ciò chepensa»

[Appunti per la relazione]

0. Considerazioni introduttive

Il cap. XX è il capitolo conclusivo Trattato teologico-politico; esso

conduce a effetto non solo la sezione propriamente politica (capp.

XVI-XX), ma l’intera argomentazione del Trattato; non si tratta,

tuttavia, di un semplice capitolo riassuntivo, nel quale Spinoza

si limiterebbe a tirare le somme su cose già dette, o a

sintetizzare ragionamenti compiuti e problematiche interamente

sviscerate.

Si tratta, invece, di un capitolo fortemente propositivo e

normativo, nel quale Spinoza prosegue la propria opera di

ridefinizione del lessico teologico-politico (che abbiamo già

constatato ragionando sui termini ‘teologia’, ‘fede’, ‘legge’ e

‘diritto’), affrontando quella che, in sede di prefazione, aveva

indicato come una tesi cardine del Trattato, che «la libertà non può

essere negata senza appunto negare la pace della Repubblica e la

pietà: è esattamente questa la tesi che mi sono proposto di

dimostrare nel presente trattato» (0.1). Vedremo che ‘libertas’ e

‘respublica’ costituiscono i termini-chiave di questo capitolo. La

difesa della libertà, libertà di filosofare, e di esprimere ciò

che si pensa, all’interno della dimensione del vivere civile e

della costituzione dello Stato, è annoverata anche tra i tre punti

attraverso i quali Spinoza aveva riassunto a Oldenburg i contenuti

del redigendo Trattato nell’ottobre 1665. Si tratta di un’ulteriore

1

testimonianza della crucialità del tema in esame nella filosofia

politica spinoziana: la riporto al punto 0.2.

[[Che il rapporto spinoziano tra libertà e ordinamento della

‘respublica’ non sia tuttavia riducibile al problema giuridico del

riconoscimento di singole libertà da parte di uno Stato quale che

sia, si comprenderà, credo, nel corso dell’analisi: per ora, come

prima approssimazione, si può affermare che]] lo scopo del

capitolo è duplice: in primo luogo, mostrare il modo in cui la

facoltà di giudicare e ragionare, e la pluralità di opinioni e

convincimenti che ne deriva, siano compatibili con il diritto

assoluto e intangibile delle summae potestates (secondo quanto

stabilito nel cap. XIX); in secondo luogo, mostrare come e perché

quella facoltà e quella pluralità di opinioni debbano essere messe

a profitto all’interno di uno Stato ben ordinato.

I. Il diritto di ragionare e giudicare liberamente non è alienabile

L’incipit del capitolo, costituito dai paragrafi 1 e 2 dichiara

esplicitamente l’argomento del capitolo, nel modo in cui l’ho

appena sunteggiato, e individua anche il proprio interlocutore

privilegiato per i temi da trattare nel prosieguo: Thomas Hobbes.

[RIASSUMO]

I.1.1 [a] Se comandare agli animi fosse tanto facile quanto comandare

alle lingue, chiunque regnerebbe in sicurezza e nessun potere

diverrebbe violento. Ognuno infatti vivrebbe secondo il volere (ingenio)

dei governanti, e soltanto in base al loro decreto giudicherebbe il

vero e il falso, il buono e il cattivo, l’equo e l’iniquo.

[b] Ma, come abbiamo già rilevato all’inizio del Capitolo XVII, è

impossibile che un animo sia assolutamente soggetto al diritto altrui,

2

poiché nessuno può trasferire ad altri il proprio diritto naturale o

la propria facoltà di ragionare liberamente e di giudicare di

qualsiasi cosa, né può esservi costretto.

[c] Ne consegue, perciò, che un potere esercitato sugli animi sia

considerato violento, e che la somma maestà sembri offendere i sudditi

e usurparne il diritto, quando intende prescrivere a ciascuno che cosa

ammettere come vero e cosa respingere come falso, nonché da quali

convinzioni l’animo di ciascuno debba essere mosso nella devozione

verso Dio. [TTP (2007), cap. XX, § 1, p. 479]

[a] In primo luogo, Spinoza riporta l’affermazione di Curzio Rufo

(Vita di Alessandro Magno) secondo cui è più facile comandare alle

lingue che agli animi, già citata nel cap. XVII: si tratta di un

aforisma che avuto una certa fortuna nella letteratura politica e

che è stato richiamato con una certa frequenza quando si è posto

all’attenzione il problema di conciliare l’assolutezza del potere

pubblico con l’espressione di dissenso da parte del singolo; ho

riportato alcuni esempi ai punti I.1.3-4, tratti da Lipsio e

Grozio. [b] Spinoza prosegue rilevando l’impossibilità di

uniformare le coscienze ad un dettato unitario o a permanenti ed

univoci criteri di giudizio del bene e del male; secondo Spinoza,

ciò accade perché il diritto naturale di ognuno non può essere

integralmente ceduto [su questo aspetto ci hanno illuminato i

colleghi che hanno commentato i capp. XVI e XVII]; e tra le

facoltà non alienabili, a meno di cessare di essere uomo, c’è

quella di ragionare e giudicare liberamente di qualunque cosa. [c]

In questo punto si rileva anche il primo di una serie di

parallelismi tra le affermazioni del Cap. XX e le conclusioni

della parte teologica del Trattato: l’impossibilità di recedere dal

3

diritto di giudicare liberamente era stata già affermata, ma

limitatamente all’interpretazione dei fundamenta fidei, nel cap. VII

(I.1.2)

[RIASSUMO]

I.1.2 Spettando dunque a ognuno il sommo diritto di pensare

liberamente, anche in materia di religione, ed essendo inconcepibile

che qualcuno possa recedere da questo diritto, spetterà dunque a

ciascuno il sommo diritto e la somma autorità di giudicare liberamente

in materia di religione, e, per conseguenza, di spiegarla e

interpretarla per sé.

Un interprete, ROSENTHAL, ha osservato che Spinoza accetta con un

certo rammarico (regretfully) il dato di fatto della pluralità delle

opinioni e dei giudizi; a mio avviso, più che di rammarico, ossia

di un elemento valutativo, si tratta di un’assunzione realistica,

accompagnata dalla consapevolezza che essa complica il lavoro del

filosofo politico; ad ogni modo, la complicazione del quadro

teorico è di gran lunga preferibile rispetto a quelle impostazioni

di filosofia politica che fondano la stabilità dello Stato su una

certa conformità dei giudizi individuali al dettato dall’autorità

pubblica. Che Spinoza pensi in qualche maniera a Hobbes, e

dialoghi idealmente con lui, può essere ipotizzato mettendo a

confronto l’incipit del cap. XX con un estratto del De cive.

[[Spinoza possedeva il De cive nella sua biblioteca privata; gli

interpreti (VISENTIN, NADLER, GIANCOTTI, MATHERON) sono tuttavia

concordi nel ritenere che conoscesse anche il Leviatano, e dunque

nei confronti che istituirò tra i due autori su alcuni temi

4

specifici, mi riservo di fare riferimento anche a quest’ultima

opera]]

La seconda parte del testo citato è quella che a mio avviso

consente un più ravvicinato confronto con il testo hobbesiano, in

particolare con l’opera di Hobbes che Spinoza deteneva nella

propria biblioteca personale, il De cive:

[LEGGO]

I.1.5 […] siccome tutte le controversie nascono dal fatto che le

opinioni degli uomini sono diverse, riguardo al mio e al tuo, al

giusto e all’ingiusto, all’utile e all’inutile, al bene e al male,

all’onesto e al disonesto e simili, tutti concetti a cui ciascuno dà

un differente significato in base al proprio giudizio; fa parte delle

prerogative del sovrano stabilire e promulgare norme, cioè criteri di

misura, generali in modo che ciascuno sappia che cosa si debba

intendere come proprio e altrui, giusto e ingiusto, onesto e

disonesto, buono e cattivo; e, insomma, che cosa sia da fare e da che

cosa si debba rifuggire nella vita della comunità. Queste norme, o

criteri di misura, si sogliono chiamare leggi civili, ossia leggi

dello Stato. [EFC, cap. V, § IX, p. 166]

Sembra una ripresa quasi antifrastica delle varie coppie

opposizionali citate da Hobbes: buono/cattivo, bene/male,

onesto/disonesto, giusto/ingiusto. Mentre il filosofo inglese

rimanda all’universalizzazione della ragione del Sovrano come

fonte e autorità cui conformare i giudizi dei sudditi, vedremo che

Spinoza andrà in cerca, nel corso del cap. XX, di un diverso modo

di articolare, sotto la cifra della ragione, il rapporto fra

libertà e obbedienza ai decreti dello Stato.

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[[Nell’approfondire questo confronto non intendo contrapporre

semplicisticamente la ‘tolleranza’ di Spinoza all’approccio

‘repressivo’ di Hobbes; si tratterebbe di una prospettiva angusta,

relativamente al pensiero di entrambi gli autori: del resto, anche

per Hobbes, in un certo senso, il pensiero è libero. Intendo

mostrare che i termini del rapporto libertà-obbedienza non sono

due (pensare e agire), ma tre (pensare, esprimere e agire), e che

proprio nei diversi modi di connotare e articolare questi termini

vanno riscontrate le differenze tra Hobbes e Spinoza in tema di

autonomia e conformismo delle opinioni.]]

Spinoza prosegue la sua argomentazione affermando che nemmeno

attraverso il pregiudizio, che pure riconosce essere un potente

strumento di condizionamento dell’uso della ragione (cfr.

Prefazione e cap. XV), è possibile uniformare completamente le

opinioni; ricorre dunque ad un esempio storico, desunto come di

consueto dalla storia ebraica e concernente Mosè, la cui virtù

divina era abile a persuadere i più riottosi, senza tuttavia –

dice Spinoza – riuscire a prevenire i mormorii e i giudizi

sfavorevoli del popolio sul proprio operato. Spinoza ricorre ad

una tradizione testuale esoterica, basata in larga parte sul libro

dell’Esodo e sui Numeri (come messo in luce, tra gli altri, da

DROETTO e TOTARO). Anche in questo caso, l’esempio è condiviso con

Hobbes, ma Spinoza offre una raffigurazione del governo mosaico

assai diversa da quella monolitica consegnata al cap. XL del

Leviatano, nel quale si insiste invece sul conformismo dei saggi

israeliti rispetto all’autorità dell’unico legislatore. Leggo

I.2.1 e I.2.2:

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[RIASSUMO]

I.2.1 Mosè, che aveva grandemente influenzato (non con l’inganno, ma

per virtù divina) il pensiero del suo popolo, in quanto si credeva che

egli fosse divinio e che dicesse e facesse ogni cosa per ispirazione

divina, non poté tuttavia sfuggire ai mormorii (rumores) e agli

sfavorevoli giudizi (sinistras interpretationes) del popolo, e ancor meno

poterono sfuggirvi gli altri monarchi; e se fosse possbile concepire

che si possano in qualche modo evitare i giudizi negativi, lo si

concepirebbe quanto meno nel regime monarchico (monarchico imperio), e

non certo in quello democratico, in cui il potere è esercitato

collegialmente da tutti, o almeno dalla maggior parte del popolo. [TTP

(2007), cap. XX, § 2, p. 479]

[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]

I.2.2 Al tempo di Mosè non c’erano profeti, o uomini che si

affermassero in possesso dello spirito di Dio, eccetto quelli che Mosè

aveva approvato ed autorizzato. Al suo tempo non c’erano, infatti, che

settanta uomini che, vien detto, profetizzassero in virtù dello

spirito di Dio, e tutti erano stati scelti da Mosè; e relativamente ad

essi Dio dice a Mosè: «Radunami settanta fra gli anziani di Israele,

che tu conosci essere gli anziani del popolo» (Numeri 11,16). A costoro

Dio impartì il suo spirito, ma non uno spirito differente da quello di

Mosè, giacché si dice (versetto 25): «Dio scese in una nube e prese

dello spirito che era sopra Mosè e lo diede ai settanta anziani». Ma,

come ho mostrato sopra (Cap. XXXVI), con spirito si intende mente ; così

il significato del passo non è altro che questo, che Dio li dotò di

una mente conforme e subordinata a quella di Mosè, affinché potessero

profetizzare, cioè parlare al popolo a nome di Dio, in maniera tale da

presentare (in quanto ministri di Mosè, e in quanto depositari della

sua autorità) soltanto dottrine conformi a quelle di Mosè. Essi erano

semplicemente ministri di Mosè, infatti, quando due di loro

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profetarono nell’accampamento, la cosa venne ritenuta una novità

illegale, esso – come viene detto nei versetti 27 e 28 del medesimo

capitolo – ne furono accusati e Giosuè consigliò a Mosè di

proibirglielo, proprio perché non si sapeva che era in virtù dello

spirito di Mosè che essi profetavano. Onde risulta manifestamente che

nessun suddito deve pretendere di profetizzare o di avere uno spirito

in contrasto con la dottrina fissata da colui che Dio ha insediato al

posto di Mosè.

[L, parte III, cap. XL, pp. 386-387]

La notazione conclusiva rafforza l’acquisizione

dell’approfondimento storico: se è difficile condizionare il

giudizio dei sudditi nel regime monarchico, nel quale uno solo

detiene l’autorità, è pressoché impossibile farlo in un regime

democratico, nel quale tutti o la maggior parte partecipano

dell’autorità, ciascuno portando la propria peculiare veduta sulle

cose.

II. Il diritto di ragionare e giudicare liberamente non può essere soppresso dall’autorità

Il secondo passo argomentativo di Spinoza consiste nel mostrare

che il diritto di ragionare e giudicare liberamente non può essere

soppresso dall’autorità civile; la dimostrazione si articola in

due momenti: in primo luogo, afferma le autorità, sebbene abbiano

diritto ad ogni cosa (come aveva stabilito anche nel cap. XIX),

non esercitano un potere illimitato, perché non è illimitata la

loro potentia agendi; quel potere è dunque intrinsecamente

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condizionato al criterio utilitario che abbiamo visto emergere nel

cap. XVI e nel XVII (vedi anche punto II.2):

[LEGGO INTEGRALMENTE]

II.1 [...] per quanto […] le somme potestà abbiano diritto su ogni

cosa e siano ritenute le interpreti del diritto e della pietà, esse

tuttavia non potranno mai far sì che gli uomini rinuncino a esprimere

– conformemente alla propria indole – il loro giudizio in ogni campo,

e che non siano a tal punto affetti da questa o quella passione. È

certamente vero che esse possono legittimamente considerare come

nemici tutti coloro che non concordino in ogni cosa assolutamente con

loro; noi però non discutiamo più del loro diritto, ma di ciò che è

utile. Ammetto, infatti, che esse possano a buon diritto regnare nel

modo più violento e mandare a morte i cittadini per i motivi più

futili, ma tutti negheranno che ciò possa accadere conformemente a un

sano e razionale giudizio (salvo sanae rationis judicio fieri posse): anzi, poiché

le somme potestà non possono agire in tal modo senza porre in grave

pericolo l’intero Stato, possiamo negare che esse abbiano un’assoluta

potenza di agire in questo modo o in modo analogo, e conseguentemente

nemmeno un diritto assoluto, in quanto abbiamo dimostrato che il

diritto delle somme potestà è determinato dalla loro potenza. [TTP

(2007), cap. XX, § 3 p. 481]

Pongo a confronto con Hobbes, De cive:

[LEGGO]

II.3 Il maggior potere che dagli uomini si possa trasferire in un uomo

solo si chiama assoluto. Chiunque infatti ha sottoposto la sua volontà

a quella dello Stato, in modo che questa possa agire impunemente,

stabilire leggi, giudicare liti, comminare pene, usare a suo arbitrio

delle forze e degli averi di ognuno, e tutto ciò legittimamente; le ha

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concesso il massimo potere che si possa attribuire. Il che si può

confermare coll’esempio di tutti gli Stati presenti e passati. [...]

Col diritto assoluto del sovrano va unita l’obbedienza dei cittadini,

estesa quanto è necessario per il governo dello Stato, cioè quanto

basta a permettere al sovrano l’esercizio del suo diritto.

Un’obbedienza simile si può negare legittimamente qualche volta per

determinate cause; ma, poiché non se ne può dare una maggiore, la

chiameremo “semplice”. L’obbligo di prestare tale obbedienza nasce non

immediatamente dal patto in virtù del quale abbiamo deferito allo

Stato ogni nostro diritto; ma mediatamente, ossia dal fatto che, senza

obbedienza, il diritto del Sovrano sarebbe vano e per conseguenza lo

Stato non sarebbe pienamente costituito. [...]

[EFC, cap. VI, § XIII, pp. 170-172]

Il rapporto tra potere e obbedienza, che in Hobbes si presenta

come nesso tra ‘potere assoluto’ e ‘obbedienza semplice’, è

declinato da Spinoza nei termini della condizionalità del patto

alla salvaguardia dell’utile comune, ossia alla conservazione

dello Stato stesso; le autorità civili devono astenersi non

soltanto da quegli atti che mettono a rischio l’esistenza fisica

del suddito, ma da tutte quelle azioni che possono effettivamente

condurre ad una limitazione della loro potentia agendi e ad una

crisi della loro autorità.

È bene osservare che l’«utile» di cui si parla nel testo pocanzi

citato è ambivalente, nel senso che chi governa può volgersi alla

conservazione dello Stato sia perché vuol mantenere saldo il

proprio potere, sia perché conosce la vera utilità e necessità

dello Stato. La prima opzione è esplicitata da Spinoza nel cap.

XVI:

10

[LEGGO LA PARTE SOTTOLINEATA]

II.3 [...] questo diritto di comandare ciò che vogliono compete alle

somme potestà solo fin tanto che esse dispongano effettivamente della

sovrana potestà: ove la perdano, infatti, con essa perdono anche il

diritto di comandare ogni cosa, e tale diritto cade nelle mani di

colui o di coloro che l’abbiano acquisito, e che siano in grado di

conservarlo. Perciò, molto raramente può accadere che le somme potestà

diano ordini completamente assurdi, poiché a esse soprattutto incombe

– al fine di badare a se stesse e di conservare la propria autorità –

di provvedere al bene comune e di ordinare ogni cosa secondo i dettami

della ragione [...]. [TTP 2007, cap. XVI, § 9, p. 383]

Nel cap. XX, invece, Spinoza insiste, più che sui moventi di chi

governa, su ciò che deve essere fatto perché lo Stato sia

preservato. Questa ambivalenza ha autorizzato alcuni tentativi di

lettura del cap. XX in termini di Realpolitik (cfr. PREPOSIET e VAN DER

BEND, secondo i quali Spinoza nel cap. XX insegna semplicemente ai

governanti i modi attraverso i quali conservare il loro potere).

Il che è vero solo nel senso che c’è effettivamente, in Spinoza,

un’istanza di stabilizzazione dell’imperium (dal TTP al TP); è

certamente falso nella misura in cui la costruzione di un potere

stabile non comporta un vantaggio per i soli governanti, come

vedremo bene dalla disamina del ‘vero scopo’ della Repubblica.

Per il momento osservo due cose: 1) che l’indifferenza ai moventi

di chi governa rispetto al problema della stabilità dell’imperium

costituisce un elemento di continuità tra questo capitolo e il

Trattato politico, tra i cui scopi è quello di mostrare che – cito II.5:

[LEGGO LA PARTE SOTTOLINEATA]11

[...] perché esso [l’imperium] si possa conservare, occorre che i suoi

pubblici affari siano organizzati in modo tale che gli amministratori,

non importa se guidati dalla ragione o dagli affetti, non possano

essere indotti a comportamenti infidi e disonesti. Per la sicurezza

dello stato non ha rilevanza con quale animo gli uomini siano indotti

ad amministrare correttamente, purché lo facciano. [TP, cap. I, § 6, p.

33]

2) che là dove si ammette che il patto possa essere sciolto

qualora le autorità civili cessino di agire quali garanti

dell’utilità comune, è possibile rilevare un’implicita

formulazione spinoziana del diritto di resistenza dei sudditi

all’autorità civile: un potere che nega la libertas è un potere

violento (II.6);

[RIASSUMO]

II.6 Pertanto, se nessuno può rinunciare alla propria libertà di

giudicare e di pensare come vuole (nemo libertate sua judicandi, et sentiendi, quae

vult), ma ognuno è – per il massimo diritto di natura – padrone dei

propri pensieri, ne consegue che, in una repubblica, non si può mai

imporre, se non con esito assai infelice, che gli uomini, quantunque

abbiano opinioni diverse (e talora contrastanti tra loro), non dicano

nulla che non sia conforme alle prescrizioni delle somme potestà:

neppure i più prudenti, infatti – per non dir della plebe –, sanno

tacere. È vizio comune degli uomini quello di confidare ad altri i

propri propositi, anche quando la segretezza sarebbe opportuna:

violentissimo sarà dunque quello Stato ( imperium ) in cui sia negata a

ogni individuo la libertà di dire e di insegnare ciò che pensa (libertas

dicendi, et docendi, quae sentit), mentre sarà invece moderato quello in cui

questa stessa libertà sia concessa a ciascuno.

[TTP 2007, cap. XX, § 4, p. 481]12

E un potere violento è, per Spinoza, un potere precario (cfr. le

citazioni di Seneca in TTP V e XVI). Si tratta di un filo che lega

il cap. XVI al cap. XX (cfr. GIANCOTTI 1984): viene ripreso e

arricchito nella successiva opera politica di Spinoza (vedi il

tema della indignatio), ma per il momento viene lasciato cadere. Da

questo punto e per tutto lo svolgimento del capitolo XX, Spinoza

prende in considerazione un ordinamento improntato ai dettami

della retta ragione, un potere moderato che concede la libertà

nelle sue varie esplicazioni ai propri sudditi.

Dall’ultimo testo citato apprendiamo che la facoltà di esprimersi

liberamente, di giudicare e di comunicare agli altri le proprie

convinzioni costituisca un dato ambivalente della natura umana;

per tre ragioni: in primo luogo, anche i più avveduti fra gli

uomini non sono in grado di controllarla; in secondo luogo, ci

sono circostanze in cui, dice Spinoza, sarebbe più opportuno e

prudente tacere; in terzo luogo, anche le opinioni, come le

azioni, possono mettere a rischio la sopravvivenza dello Stato.

Entro quali limiti è consentito allora un esercizio della libertà,

in modo che risulti compatibile con le ragioni dello Stato? Per

rispondere a questa domanda, Spinoza procede innanzitutto col

ridefinire il fine dello Stato, redigendo uno dei paragrafi di

maggiore interesse di questo capitolo.

III. «Scopo della repubblica è dunque la libertà»

[LEGGO INTEGRALMENTE]13

III.1 Dai fondamenti della repubblica, esposti sopra, segue con la

massima evidenza come il suo fine ultimo non consista nell’esercitare

il dominio, né nel controllare gli uomini per mezzo della paura,

sottomettendoli al diritto altrui, ma al contrario, nel liberare

ciascuno dalla paura, affinché viva – per quanto possibile – in

sicurezza, ovvero affinché ciascuno conservi nel modo migliore il

proprio naturale diritto a esistere e a operare, senza danno per sé e

per gli altri. Come ripeto, lo scopo della repubblica non consiste nel

trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in automi, ma

invece nel far sì che le loro menti e i loro corpi adempiano in

sicurezza alle loro funzioni, e che essi stessi facciano uso della

libera ragione, senza rivaleggiare nell’odio, nell’ira e nell’inganno,

e senza fronteggiarsi con animo iniquo. Scopo della repubblica è

dunque, in realtà, la libertà. [TTP 2007, cap. XX, § 6, p. 483]

Alcuni punti devono essere posti in evidenza ed accuratamente

analizzati: 1) nello Stato ordinato e retto secondo ragione non

v’è posto né per la paura né per l’inganno; al contrario, lo Stato

consente il superamento della paura e dell’inganno, ossia

stabilisce le condizioni minime (di sicurezza e comodità) affinché

ciascuno non sia ‘di diritto d’un altro’ e guadagni la sua piena

autonomia; in altre parole, in uno Stato siffatto l’individuo

conserva ed esercita nel ‘migliore dei modi’ il proprio diritto

naturale; 2) l’autonomia che l’individuo guadagna in uno Stato

libero consiste nella possibilità di servirsi della ‘libera

ragione’; 3) la ragione prescrive di vivere concordemente con gli

altri uomini.

Per quanto concerne il primo punto, ho riportato dei testi nei

quali Spinoza aveva già espresso l’idea, condivisa da una ricca14

tradizione di pensiero politico (cfr. i Discorsi di Machiavelli),

secondo cui la condizione minima di una associazione consiste

nella sua capacità di assicurare, mediante la cooperazione, la

sussistenza materiale, la sicurezza del corpo e la comodità per il

soddisfacimento dei bisogni essenziali ad ogni membro.

[RIASSUMO O MI LIMITO ALLE PARTI SOTTOLINEATE]

III.2.1 La società è utilissima, e anzi affatto necessaria, non

soltanto per vivere al sicuro dai nemici, ma anche per risparmiarsi un

gran numero di incombenze, poiché se gli uomini non volessero recarsi

aiuto reciproco, mancherebbe loro sia la capacità che il tempo di fare

quanto è possibile per sostentarsi e sopravvivere. Non tutti infatti

sono ugualmente adatti a tutte le cose, né ciascuno sarebbe in grado

di procacciarsi quel che, come singolo, maggiormente gli occorre.

Intendo dire, cioè, che gli mancherebbero le forze e il tempo se

dovesse, da solo, [...] svolgere le altre numerose attività necessarie

a mantenersi in vita, per tacere delle arti e delle scienze, anch’esse

altamente necessarie alla perfezione della natura umana e alla sua

beatitudine. Vediamo infatti che coloro che vivono barbaramente e

senza alcuna organizzazione politica, conducendo una vita misera e

pressoché bestiale, nonsi procurano tuttavia le poche cose che

possiedono – per quanto misere e rozze – se non grazie alla mutua

collaborazione, quale che essa sia. [TTP 2007, cap. V, § 7, p. 137]

III.2.2 […] se poi consideriamo che gli uomini, senza mutuo sostegno,

vivono assai miseramente e senza il necessario culto della ragione

(absque rationis cultu) [...], comprenderemo assai chiaramente che, per

vivere in sicurezza e veramente bene (secure, et optime vivendum), essi

dovettero necessariamente associarsi in unità, facendo quindi in modo

da rendere collettivo quel diritto che ciascuno per natura aveva su

ogni cosa, affinché esso non fosse più determinato dalla forza e dalla

15

appetizione di ognuno, ma dalla potenza e dalla volontà, insieme, di

tutti (ex omnium simul potentia, et voluntate).

[TTP 2007, cap. XVI, § 5, p. 377]

Questa condizione non è fine a sé e non esaurisce le possibilità

di sviluppo concesse dalla vita in società: al contrario le

condizioni che si realizzano in società consentono all’individuo

di elevarsi al di sopra della dimensione dei bisogni immediati, di

emanciparsi dagli affetti e di coltivare la ragione. Da questi

testi apprendiamo che sicurezza e libertà sono fini, non

contrastanti, ma correlati, di uno Stato ben organizzato (GIANCOTTI,

MIGNINI, ROSENTHAL); la correlazione è data dalla nozione di ‘vita’

prospettata da Spinoza, ad esempio nel quinto capitolo del TP:

[LEGGO]

III.2.3 Ora, a partire dal fine dello stato di civiltà, si arriva

facilmente a conoscere quale sia la situazione ottimale per qualunque

tipo di stato: niente altro che la pace e la sicurezza della vita. E

pertanto lo stato migliore è quello nel quale la vita umana trascorre

nella concordia e i cui diritti si conservano inviolati. [...] Quando

[...] diciamo che il migliore stato è quello in cui gli uomini passano

la vita in concordia, intendo parlare non solo di quella vita umana

che è data dalla circolazione del sangue e dalle altre funzioni comuni

a tutti gli animali, ma a quella che si definisce in base alla

ragione, vera virtù e vita della mente. [TP, cap. V, §§ 2, 5, pp. 81,

83]

Per quanto concerne il secondo punto, il nesso tra sicurezza,

autonomia e esercizio della libera ragione, ho riportato alcune

evidenze testuali allo scopo di mostrare, sulla scorta di indagini16

già condotte da Biasutti e da Mignini, la convergenza di un

significato politico e di uno epistemologico e metodologico nella

nozione spinoziana di libertas philosophandi, per quanto riguarda la

libertà da pregiudizi e la padronanza della propria mente:

[LEGGO]

III.3.1 […] se è pur vero che il più grande segreto del regime

monarchico e il suo più grande interesse consiste nell’ingannare gli

uomini e nell’ammantare speciosamente di religione la paura che li

tiene sottomessi, al fine di indurli a combattere per la propria

schiavitù come se combattessero per la propria salvezza [...] in una

libera repubblica non potrebbe, al contrario, immaginarsi nulla di

simile, e nulla di più incongruo tentarsi, poiché è in totale

contrasto con la libertà comune soffocare nei pregiudizi o in

qualsiasi modo costringere il libero giudizio di ciascuno. [TTP 2007,

Prefazione, p. 9]

III.3.2 Ma poiché siamo liberi e pensiamo di non essere legati in

nessun modo alle loro tesi, avanzeremo altre regole di definizione

seguendo la vera Logica, cioè seguendo la divisione della Natura che noi

poniamo. [BT, p. 187]

III.3.3 Tutto questo [relativo ad un esperimento sul nitro], perciò,

valendomi della libertà filosofica, io dovrei giudicare superfluo; ma

me ne sono astenuto nella lettera che ho inviato, per tema che altri,

i quali non stimano l’illustrissimo autore [Boyle] secondo il suo

merito, si facciano di lui una falsa opinione. [A Oldenburg, 1661, in

Ep., p. 55]

III.3.4 Nella sezione quinta credetti che l’illustre autore criticasse

Cartesio perché anche in altri luoghi lo aveva fatto, senza

pregiudizio della propria e della sua dignità, valendosi della libertà

filosofica a tutti concessa. [A Oldenburg, luglio 1663, in Ep., p. 85]

17

III.3.5 [...] per studiare quanto attiene a questa scienza con la

stessa libertà d’animo (animi libertate) che ci è solita negli studi

matematici, mi sono fatto regola scrupolosa di non irridere, né

compiangere né deprecare le azioni umane, ma di comprenderle: e dunque

ho considerato gli affetti umani [...] non come vizi della natura

umana, ma come proprietà che le appartengono [...].

[TP, Cap. I, § IV, pp. 29-31]

III.3.6 Anche la facoltà di giudicare può essere sotto altrui

giurisdizione in quanto la mente può essere ingannata da un altro: ne

consegue che la mente è del tutto autonoma quando può fare retto uso

della ragione. Inoltre, poiché la potenza umana deve essere valutata

non tanto in base alla robustezza del corpo, quanto in base alla forza

della mente, ne consegue che godono della maggiore autonomia quelli

che eccellono su tutti nella capacità razionale, e da essa si fanno

massimamente guidare; chiamo dunque totalmente libero l’uomo allorché

si fa guidare dalla ragione, poiché così è determinato ad agire da

cause adeguatamente comprensibili grazie alla sua sola natura, anche

se lo determinano necessariamente ad agire. [TP, Cap. II, § XI, p. 45]

Da questa disamina si deduce che il problema della libertà come

fine dello Stato, secondo Spinoza, non è il problema classico

della tolleranza, ovverosia del consentimento da parte dello

Stato, attraverso riconoscimento giuridico, di attività ritenute

riprovevoli o comunque disapprovate; esso riguarda invece le

condizioni, che lo Stato pone, per una effettiva realizzazione del

singolo individuo.

Per quanto riguarda il terzo punto, ho riportato dei testi tratti

dall’Etica, nel quale Spinoza afferma che l’uomo guidato dalla

ragione individua il proprio utile razionale negli altri uomini,

18

in quanto questi siano a loro volta guidati dalla ragione; questo

nesso fra ragione e prescrizione alla concordia con altri uomini,

purché questi a loro volta siano guidati dalla ragione, è

essenziale come base per risolvere il problema del rapporto fra

libertà di giudicare ed obbedienza al decreto dello Stato.

Sicurezza materiale, autonomia ed esistenza razionale, è quello

che un uomo savio, non offuscato da pregiudizi può effettivamente,

ma non necessariamente, realizzare nello Stato.

[[Il messaggio politico di Spinoza è dunque finalizzato a

ricavare, nella dimensione dello Stato moderno, una sfera di

tutela giuridica per l’attività del filosofo? Alcuni interpreti

(DROETTO) hanno ritenuto che è così. Per rispondere a questa domanda

è tuttavia necessario riflettere sul destinatario del TTP; come è

stato osservato, ad esempio da VISENTIN, TOSEL, NADLER, Spinoza non si

rivolge ad una élite ben definita e contrapposta alla massa in una

maniera che tende a conservare, e ad accettare come un dato

metastorico, la distinzione tra filosofi e volgo; pur escludendo

il volgo nella misura in cui è agitato da affetti irrazionali

(ostinazione, impulso al biasimo etc.), il pubblico di Spinoza è

assai frastagliato e diversificato, ed include quanti, pur non

essendo filosofi, sono inclini, mercé particolari condizioni, alla

teoria e ad una vita condotta sotto la guida della ragione.]]

IV. Il primo limite di esercizio della libertà: agire secondo il comune decreto

Da molti testi spinoziani, testi che abbiamo già analizzato (come

i capp. V e XVI del TTP) o che conosciamo pur non avendoli19

commentati (come lo scolio alla proposizione 35 della quarta parte

dell’Etica), sappiamo che per il filosofo olandese raramente gli

uomini vivono in maniera costante e continuativa sotto la guida

della ragione; se così fosse la necessità della vita sociale si

imporrebbe naturalmente, come una sorta di necessità morale su cui

ciascuno concorda; invece, la presenza degli affetti e delle

passioni rende necessario disciplinare il comportamento in società

attraverso la legge, il cui scopo, come già abbiamo visto in una

delle definizioni del cap. IV, è di indurre a compiere determinate

azioni, o ad astenersi da altre, con la promessa di ricompense e

la minaccia di castighi. Già in quel capitolo, Spinoza mostrava

due aspetti compresenti della ‘legge umana’: 1) la sua coazione si

esercita su tutti, sia che vivano sotto la guida della ragione sia

che si facciano guidare dalle passioni; 2) è finalizzata alla

salvaguardia dello Stato. Nel testo che vado a leggere (IV.1.1)

rileviamo un’ulteriore specificazione; il decreto dello Stato

disciplina le azioni, non le opinioni:

[LEGGO]

IV.1.1 (a) Ciascuno […] ha rinunciato soltanto al diritto di agire in

base alla propria decisione, ma non di ragionare e di giudicare; e

perciò, fatto salvo il diritto delle supreme potestà, nessuno può

agire contro il loro decreto, ma (b) può senz’altro ragionare,

giudicare e, di conseguenza, anche parlare in contrasto con il loro

decreto, a condizione che parli o insegni soltanto con schiettezza e

lo sostenga con la sola ragione e non con inganno, con ira e con odio,

né con la brama di introdurre qualcosa nello Stato sulla base

dell’autorità della sua decisione.

20

I testi che ho riportato a seguire insistono sui due aspetti del

‘comune decreto di agire’, della ‘norma comune del vivere’, che ho

già menzionato: il carattere coercitivo (la forza del decreto

discende dalla capacità di regolare la condotta con minacce, con

affetti più forti degli affetti che deve reprimere; vedi testi

IV.1.2-3):

[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]

IV.1.2 Ma siamo ben lontanti dal supporre che tutti possano essere

sempre facilmente guidati dalla sola ragione: ognuno è infatti

trascinato dalla propria voluttà, e assai spesso la mente è a tal

punto occupata dall’avidità, dalla gloria, dall’invidia, dall’ira

ecc., che nessuno spazio è lasciato alla ragione. Perciò, sebbene gli

uomini accompagnino le loro promesse con segni certi di sincerità e si

impegnino a tener fede ai patti, tuttavia nessuno può essere certo

della fedeltà altrui, se alla promessa non si aggiunga qualcos’altro

[...] Ma poiché [...] il diritto naturale è determinato unicamente

dalla potenza di ciascuno, ne consegue che quanto della propria

potenza ciascuno trasferisce [...] in altri, cede necessariamente a

questi altrettanto del proprio diritto; e che ha sommo diritto su

tutti, colui che dispone di quel sommo potere in virtù del quale può

costringere tutti con la forza e tenerli a freno col timore della

massima pena, che tutti universalmente temono. [TTP 2007, cap. XVI, §

7, p. 381]

IV.1.3 […] nessun affetto può essere represso se non da un affetto più

forte e contrario all’affetto che deve essere represso, e che ognuno

si astiene dall’arrecare un danno per il timore di un danno per il

timore di un danno maggiore. Con questa legge, dunque, la Società

potrà essere resa stabile, purché rivendichi a sé il diritto, che

ciascuno ha, di vendicarsi e di giudicare del bene e del male, società

che pertanto ha l’autorità di prescrivere una norma comune del vivere,21

di emanare leggi e di renderle stabili non con la ragione, che non può

reprimere gli affetti ( per lo Scolio della prop. 17 di questa parte ), bensì con le

minacce. [Etica, P33, Sc2, p. 259]

E il suo contenuto di utilità comune (testi IV.1.4-5); in altre

parole la norma deve stabilire comportamenti che sono auspicabili

per il maggior numero ed escludere, o reprimere o vietare,

comportamenti che sono per il maggior numero dannosi:

[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]

IV.1.4 Cosa che avrebbero tuttavia tentato invano [rendere collettivo

il diritto], se non avessero voluto perseguire null’altro che ciò cui

spinge l’appetizione (infatti ciascuno è tratto in una diversa

direzione dalle leggi dell’appetizione), e perciò dovettero

fermissimamente stabilire e pattuire di dirigere ogni cosa seguendo il

solo dettame della ragione (che nessuno osa contrastare apertamente,

per non sembrare privo d’intelligenza) e di tenere a freno

l’appetizione, ove spinga a danneggiare in qualche modo gli altri; di

non fare a nessuno ciò che non si vuole sia fatto a se stessi e di

difendere, infine, il diritto altrui come se fosse il proprio. [TTP

2007, cap. XVI, § 5, p. 377]

IV.1.5 […] sarà massimamente potente e autonoma quella cittadinanza

che è fondata e diretta razionalmente (ratione fundatur, et dirigitur). Il

diritto della cittadinanza è infatti determinato dalla potenza del

popolo, che è guidato da una sola mente. Ma questa unione degli animi

non sarebbe per nessuna ragione concepibile, se la cittadinanza non

fosse orientata a ricercare soprattutto ciò che la sana ragione

insegna essere utile a tutti gli uomini. [TP, cap. III, § VII, p. 61]

22

Da questi testi discendono due conseguenze: in primo luogo, che

l’obbedienza al decreto comune di agire è l’unico limite posto

all’esercizio della facoltà di ragionare, giudicare ed esprimere

il proprio pensiero; in secondo luogo, l’obbedienza a questo

decreto non ripugna alla ragione, perché il suo contenuto è

costituito da quegli jura communia senza i quali non si dà alcuno

Stato.

Il primo aspetto è sviluppato da Spinoza attraverso l’analisi

della prerogativa del magistrato nel processo di revisione

legislativa; leggo:

[LEGGO]

IV.2.1 Ad esempio, se qualcuno mostra che una certa legge è contraria

alla retta ragione e ritiene quindi che la si debba abrogare, costui

avrà ben meritato dinanzi allo Stato – al pari di ogni altro ottimo

cittadino – se contestualmente si acconcerà a sottoporre la sua

opinione al giudizio della sovrana potestà (cui solo compete di

promulgare e di abrogare le leggi), senza contravvenire, nel

frattempo, a quanto prescritto da quella legge. Ma qualora invece egli

vi contravvenga allo scopo di accusare il magistrato di iniquità e per

renderlo odioso agli occhi del volgo, o cerchi sediziosamente di

abrogare quella legge contro la volontà del magistrato, egli è senza

dubbio un agitatore e un ribelle.

Vediamo dunque in che modo ciascuno possa dire e insegnare ciò che

pensa, salvi restando il diritto e l’autorità delle somme potestà,

ovvero salva restando la pace della repubblica, cioè lasciando alle

somme potestà la facoltà di prendere tutte le decisioni e senza fare

nulla contro il loro decreto, sebbene debba spesso agire contro ciò

che egli giudica e pubblicamente sostiene essere il bene: se vuol

23

mostrarsi giusto e pio, egli può (anzi, deve) farlo, facendo salve la

giustizia e la pietà. Come abbiamo già mostrato, infatti, la giustizia

dipende soltanto dal decreto delle somme potestà, e perciò può essere

giousto unicamente chi viva secondo i decreti da esse accolti. [TTP

2007, cap. XX, §§ 7-8, pp. 483-485]

Come si vede da questo passo, Spinoza concilia libertà e

obbedienza, ragione e salvaguardia dello Stato col ricorse alle

coppie pensare/agire e privato/pubblico, secondo un’impostazione

ricorrente nella filosofia politica del Seicento (VISENTIN);

‘pubblico’ e ‘privato’ designano in questo contesto

rispettivamente ciò che è regolato dal pubblico decreto e ciò che

gli si sottrae; il pensiero è libero, l’azione è regolata dal

decreto comune ed è sottomessa alle leggi; così, da un lato

l’autorità civile è tutelata, poiché in suo diritto esclusivo

rimane la facoltà di cambiare le leggi; mentre il suddito è allo

stesso tempo libero e giusto; libero, in quanto può parlare contro

l’opinione dell’autorità; giusto, in quanto ne rispetta le leggi.

La posizione di Spinoza segue da quanto egli ha stabilito in

precedenza nel TTP; cioè che se tutti agissero per proprio decreto

non esisterebbe alcuna autorità, alcun diritto comune (lo dice in

vari luoghi, ad esempio nel passo del cap. XVII che ho riportato

al punto VI.3.2); e inoltre, che (cito IV.2.2):

la giustizia e tutti gli insegnamenti della vera ragione [...]

acquisiscono forza di diritto e di mandato dal solo diritto dello

Stato, cioè [...] unicamente per decreto di coloro che detengono il

diritto di esercitare il comando. [TTP 2007, cap. XIX, § 5, p. 459]

24

Viceversa, l’interferenza con le prerogative dell’autorità civile

o il tentativo di pregiudicarne l’autorevolezza comportano il

reato di lesa maestà, come definito nel cap. XVI:

[LEGGO]

IV.2.3 […] il delitto di lesa maestà ha luogo solo fra i sudditi (o

cittadini), i quali hanno trasferito allo Stato – con patto tacito o

manifesto – ogni loro diritto; si dice aver commesso tale delitto quel

suddito che abbia in qualche modo tentato di conquistare per sé o

trasferire ad altri il diritto di sovrana potestà. Dico “abbia

tentato”, poiché, se lo si dovesse condannare solo dopo aver commesso

il fatto, nella maggior parte dei casi lo Stato tenterebbe di

condannarlo troppo tardi, dopo la conquista o il trasferimento del

diritto ad altri. Inoltre, dicendo “chi abbia in qualche modo tentato

di conquistare per sé il diritto di sovrana potestà”, parlo

astrattamente, cioè trascurando ogni differenza fra il caso in cui da

quel tentativo derivasse molto chiaramente un danno, oppure un

giovamento per lo Stato tutto. Infatti, in qualunque modo costui abbia

intrapreso il suo tentativo, questi ha comunque leso la maestà ed è

condannato di diritto [...].

[TTP 2007, cap. XVI, § 18, p. 389]

Naturalmente, l’assunto implicito nell’argomentazione di Spinoza

sta nell’ipotizzare la capacità dell’autorità civile, della

magistratura, di riconoscere l’utile comune e di rifletterlo nelle

leggi dello Stato, di mettere a profitto le opinioni espresse

nell’ordinamento dello Stato; un potere civile che non obbedisca a

questi requisiti perde l’obbedienza dei sudditi; la conservazione

dello Stato è il contenuto razionale su cui le autorità civili e i

25

sudditi, da qualsiasi movente siano guidati, non possono che

convergere.

Inoltre, si rileva dai testi IV.1.1 e IV.2.1 (ciò è stato messo in

luce da VISENTIN) che il binomio pensare/agire non corrisponde

isomorficamente alla coppia interno/esterno: Spinoza non

contrappone il pensiero privato e intimo all’agire e

all’esprimersi in pubblico. Propongo, a tal proposito, un

confronto con Hobbes:

[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]

IV.2.5 […] la questione non è più se quello che vediamo compiere sia

un miracolo, [ovvero] se il miracolo di cui sentiamo parlare o

leggiamo sia stato opera reale e non un’invenzione di una lingua o di

una penna; bensì, in parole povere, se il racconto sia veridico o se

sia una menzogna. Di tale questione non dobbiamo rendere giudice

ciascuno la nostra ragione o coscienza privata, ma la ragione

pubblica, cioè la ragione del supremo luogotenente di Dio; e, in

verità, lo abbiamo già fatto giudice se gli abbiamo dato un potere

sovrano perché facesse tutto ciò che è necessario per la nostra pace e

la nostra difesa. Un privato ha sempre la libertà (dal momento che il

pensiero è libero) di credere o di non credere in cuor suo alle azioni

presentate come miracoli, considerando il beneficio che può derivare

dalla credenza degli uomini a coloro che ne pretendono e ne sostengono

la autenticità, e, sulla base di ciò, congetturare se siano miracoli o

menzogne. Ma quando si viene alla pubblica dichiarazione di quella

fede, la ragione privata deve sottomettersi a quella pubblica, cioè al

luogotenente di Dio.

[L, parte III, cap. XXXVII, pp. 361-362]

26

Si tratta, come si vede, di un testo sui miracoli; qui la coppia

pensare/agire corrisponde a quella privato/pubblico e quella

interno/esterno, e Hobbes oppone il ‘credere in cuor proprio’ alla

‘pubblica dichiarazione’; per Spinoza l’esprimere, il persuadere e

l’insegnare appartengono al campo del ‘privato’ come l’abbiamo

prima definito: come ciò che non è regolamentato. L’eventuale

dissenso, secondo Spinoza, non è qualcosa che riguarda

l’interiorità del cittadino singolo e isolato.

Così, mentre in questo testo il pensiero intimo e privato è il

limite estremo delle leggi civili (per Hobbes libertà è assenza di

impedimenti), per Spinoza la legge civile è il limite estremo

dell’esercizio della ragione e dell’espressione delle opinioni.

I testi che ho riportato nella successiva sezione della dispensa

sono utili ad approfondire invece l’aspetto della compatibilità

dell’obbedienza al comune decreto con la deliberazione e con la

libera ragione:

[LEGGO]

IV.3.1 […] fin quando si agisce conformemente ai decreti della sovrana

potestà, non si può fare nulla che sia in contrasto con il decreto e

il dettame della propria ragione: fu infatti perché persuaso dalla

ragione stessa che ognuno decise di trasferire completamente alla

sovrana potestà il diritto di vivere secondo il proprio giudizio.

Possiamo verificarlo anche nella pratica stessa: infatti, nei concilii

delle somme potestà, come anche in quelli delle minori, raramente si

fa alcunché col voto unanime di tutti i membri, e tuttavia si fa tutto

per unanime decreto di tutti, ovvero tanto di coloro che hanno votato

contro, quanto di coloro che hanno votato a favore. [TTP 2007, cap. XX, §

8, p. 485]27

Per quanto riguarda il nesso deliberazione-obbedienza ho riportato

tre testi, tratti rispettivamente dall’Etica, dal Trattato politico e

dalle Adnotationes al Trattato teologico-politico, nei quali Spinoza insiste

sull’idea secondo cui l’uomo guidato da ragione, anche quando

dissente, non avrà da forzarsi al rispetto della legge dello

Stato; proprio la ragione gli insegnerà la vera utilità e

necessità dello Stato, come luogo della pace e della concordia,

senza il quale lo stesso esercizio della libera ragione è posto in

forse.

Non soltanto, dunque, per Spinoza, la libertà di giudizio è

perfettamente compatibile con l’obbedienza; in uno Stato le cui

leggi disciplinino le sole azioni, secondo criteri di utilità

comune, e per il resto viga una perfetta libertà di giudizio, non

potrà che aver luogo, tra gli uomini guidati dalla ragione, una

peculiare forma di obbedienza non costrittiva, ma libera (cap.

IV), con «animo integro» (cap. XVII), ai decreti:

[LEGGO]

IV.3.2 L’uomo, che è guidato da ragione, non è indotto dalla paura ad

obbedire [...]; ma in quanto si sforza di conservare il proprio essere

secondo il dettame della ragione, cioè [...] in quanto si sforza di

vivere più liberamente, desidera di osservare la regola della vita e

dell’utilità comune [...], e conseguentemente [...] di vivere secondo

il decreto comune dello Stato. L’uomo, che è guidato da ragione,

desidera, dunque, per vivere più liberamente, di osservare le comuni

leggi dello Stato.

[Etica, parte IV, P73 (Dimostrazione), p. 282]

IV.3.3 […] l’uomo è certamente libero nella misura in cui è guidato

dalla ragione. Ma la ragione persuade indubbiamente alla pace (N.B.:28

Hobbes la pensa diversamente)1, e questa, d’altra parte, non può essere

raggiunta ove non si conservino inviolate le leggi comuni dello Stato.

Perciò, quanto più un uomo è guidato dalla ragione – ovvero, quanto

più è libero –, tanto più costantemente egli osserverà le leggi dello

Stato ed eseguirà i comandi della sovrana potestà di cui è suddito.

[TTP (2007), cap. XVI, § 10, n. XXXIII, p. 385]

IV.3.4 [...] siccome la ragione non insegna nulla contro la natura,

proprio per questo non può la sana ragione prescrivere che ciascuno

rimanga autonomo (sui juris) fino a tanto che gli uomini che gli uomini

sono attraversati dagli affetti [...]; dunque [...] la ragione esclude

che ciò possa accadere. Di più, la ragione insegna assolutamente a

ricercare la pace, che non può mantenersi se non si mantenga inviolato

il diritto comune della cittadinanza; e dunque, quanto più un uomo è

guidato dalla ragione, ovvero [...] quanto più è libero, tanto più

coerentemente rispetterà i diriti della cittadinanza ed eseguirà le

disposizioni del potere sovrano di cui è suddito. [TP, cap. III, § VI,

p. 59]

V. Il secondo limite di esercizio della libertà: le opinioni sediziose

Passo al secondo limite di esercizio della libertà e del giudizio,

costituito dalle opinioni sediziose; leggo:

[LEGGO]

V.1 [...] abbiamo visto sulla base dei fondamenti della repubblica in

che modo ciascuno possa esercitare la libertà di giudizio facendo

salvo il diritto delle somme potestà. Ma sulla stessa base possiamo

determinare altrettanto facilmente quali opinioni, all’interno di uno

Stato, siano sovversive, tali cioè da annullare (nel loro stesso1 Cfr. L, parte I, cap. XIV: «è un precetto, o una regola generale dellaragione, che ciascuno debba cercare la pace per quanto ha speranza di ottenerla, e che, se non è ingrado di ottenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra».

29

manifestarsi) il patto con cui ciascuno ha rinunciato al diritto di

agire secondo il proprio arbitrio.

Ad esempio, se qualcuno ritiene che la potestà non sia di proprio

diritto sovrana, o che nessuno debba mantenere le promesse, o che

ognuno debba vivere secondo il proprio arbitrio (o altre analoghe

opinioni, tutte direttamente in contrasto con il patto suddetto),

costui è un sovversivo; ma non tanto a causa di tale giudizio e di

tale opinione, quanto per la conseguenza ( quam propter factum ) che tali

giudizi implicano, in quanto, per il fatto stesso di avere questa

opinione, egli si svincola dalla fedeltà che aveva tacitamente o

espressamente assicurata alla sovrana potestà.

Parallelamente, le altre opinioni, che non determinano atti quali la

rescissione del patto, la vendetta, l’ira ecc., non sono sovversive,

se non forse in uno Stato in qualche modo corrotto, laddove cioè i

superstiziosi e gli ambiziosi, i quali non possono tollerare gli

uomini liberi, abbiano acquisito un tale prestigio che, presso la

plebe, la loro autorità ha più valore di quella delle somme potestà.

[TTP (2007), cap. XX, § 9, p. 485]

La definizione delle ‘opinioni sovversive’ è affidata alla prima

parte del testo: sono le opinioni che affermano, o comportano

l’affermazione della non validità del patto costituente dello

Stato; la seconda parte, fornisce una esemplificazione ed una

precisazione; l’affermazione secondo cui sia necessario vivere

secondo il proprio arbitrio, e non secondo il comune decreto, è

sovversiva, ma non in se stessa; lo è in quanto non può che dar

luogo a una condotta in contrasto con il comune decreto di agire.

Così, da un lato, Spinoza resta fedele al criterio secondo cui

sono le azioni, non le opinioni ad essere regolate dal diritto;

criterio che costituisce una sorta di filo conduttore del Trattato

30

teologico-politico (e infatti lo ritroviamo infatti formulato

all’inizio, come desideratum, e alla fine, come conclusione; vedi

punti V.2-3):

[CITO SENZA LEGGERE]

V.2 Se, invece, secondo il diritto dello Stato, «fossero perseguibili

soltanto le azioni, mentre le parole restassero immuni da sanzioni»,

simili sedizioni non potrebbero ammantarsi di alcuna apparenza di

diritto e le controversie non si trasformerebbero in sedizioni. [TTP

(2007), Prefazione, § 7, p. 9]

V.3 Concludiamo perciò [...] che nulla è più sicuro per la repubblica

del fatto che [...] il diritto delle somme potestà – sia in materia

sacra che profana – si applichi soltanto alle azioni: per il resto sia

concesso a ognuno di pensare quel che vuole e di dire quel che pensa.

[TTP (2007), cap. XX, § 17, p. 495]

In secondo luogo, stabilisce che il giudizio sulla razionalità

delle opinioni, e quindi sulla loro ammissibilità nello spazio

pubblico dipende dalla condotta cui queste opinioni danno luogo;

un’opinione formulata in modo da essere conciliabile con una

condotta conforme al decreto comune, non può che essere razionale

e dunque non perseguibile.

[[A questo punto si prospetta un interrogativo, se, cioè,

l’impostazione di Spinoza non comporti l’ammissibilità delle sole

opinioni compatibili con l’obbedienza alle leggi date, anche

quando queste siano ingiuste o non razionali; il problema c’è,

perché in alcuni luoghi della propria opera Spinoza afferma che

l’obbedienza alle leggi e la conservazione dello Stato sono in

ogni caso il male minore; limitatamente a questo capitolo, occorre

ricordare, per sciogliere questo interrogativo, che Spinoza sta31

prendendo intenzionalmente in considerazione uno stato in cui

l’utilità di tutti è il criterio delle leggi e dell’iniziativa

delle magistrature nel rivederle o sostituirle con altre (per il

problema del rapporto tra filosofia politica spinoziana e

assunzione dei rapporti di forza ‘dati’, cfr. CAPORALI 2007).]]

Proseguendo su questa traccia, Spinoza fa seguire un’analogia fra

le conclusioni del cap. XX sulla libertà entro lo Stato e quelle

del cap. XIV sulla libertà concessa dalla fede:

[LEGGO]

V.4 (a) […] non neghiamo che alcune opinioni, sebbene sembrino

concernere semplicemente il vero e il falso, sono proposte e divulgate

con animo iniquo. Ma le avevamo già determinate nel Capitolo XV,

conservando nondimeno libera la ragione. E se, infine, rifletteremo

sul fatto che la fedeltà di ognuno verso la repubblica (così come

quella verso Dio) può conoscersi solo dalle opere (ovvero dall’amore

verso il prossimo), non potremo mai dubitare del fatto che una

repubblica ottimamente governata conceda ad ognuno la stessa libertà

di filosofare che la fedeltà, come abbiamo dimostrato, concede a

ciascuno. [TTP (2007), cap. XX, pp. 485-487]

Per quanto riguarda la prima parte del passo, si tratta di un

riferimento esplicito al cap. XV, in particolare alla critica dei

teologi i quali, mentre affermano la subordinazione della ragione

alla teologia, fanno uso della ragione stessa come strumento

persuasivo:

[RIASSUMO]

32

V.5 […] la potenza della ragione, come abbiamo già mostrato, non si

estende fino al punto di poter determinare che gli uomini riescano a

giungere alla beatitudine con la sola obbedienza – senza

l’intelligenza delle cose –, mentre la teologia non prescrive

null’altro che questo, e null’altro che obbedienza comanda, e contro

la ragione né vuole né può nulla. Essa determina i dogmi della fede

[…] solo nella misura in cui ciò sia sufficiente all’obbidienza; in

qual modo essi siano invece precisamente in ragione della verità, la

teologia lascia che a determinarlo sia la ragione, che è davvero la

luce della mente, senza la quale la mente null’altro vede che sogni e

menzogne. [TTP (2007), cap. XV, § 6, p. 363]

La seconda parte del passo è invece stata ritenuta di controversa

interpretazione da parte di alcuni interpreti (come TOTARO). E ha

per conseguenza dato luogo a differenti traduzioni, la migliore

delle quali mi pare sia quella di Dini; le ho riportate ai punti

V.4(b-e); il passo è, a mio avviso, abbastanza perspicuo e si

lascia spiegare, come dicevo, alla luce di una analogia con le

conclusioni del cap. XIV (il parallelismo fra il cap. XX e i

capp. XIV-XV, che concludono la parte teologica del Trattato, è

rilevato con intelligenza in ANDREATTA 1999); leggo:

[LEGGO IL SOTTOLINEATO]

V.4 (c) […] non potremmo in nessun modo dubitare che uno Stato

ottimamente costituito conceda a ciascuno la medesima libertà di

filosofare che abbiamo visto concedere a ciascuno la fede.

[TTP (2010), p. 659]

V.6 […] non possiamo giudicare nessuno come fedele o infedele se non

dalle opere: ovvero se le opere di un uomo sono buone, anche ove

dissenta in fatto di dogmi dagli altri fedeli, costui è tuttavia

33

fedele; se, al contrario, sono cattive, anche ove egli sia a parole in

accordo con altri fedeli, costui è tuttavia infedele. Posta infatti

l’ubbidienza, è necessariamente posta la fede, e la fede senza le

opere è morta [...].

[TTP (2007), cap. XIV, § 7, p. 345]

V.7 La fede, dunque concede a ognuno la somma libertà di filosofare,

in modo che tutti possano pensare ciò che voglio si qualsiasi cosa

senza empietà: essa condanna come eretici e scismatici soltanto coloro

che insegnano opinioni per sostenere la ribellione, gli odi, le

contese e l’ira, e, al contrario, considera credenti soltanto coloro

che, in proporzione alla forza della loro ragione e alle loro

possibilità, sostengono la giustizia e la carità. [TTP (2007), cap.

XIV, § 13, p. 353]

Come l’obbedienza verso Dio si riconosce soltanto dalle buone

opere, opere di giustizia e carità, ma lascia integra la libertà

di filosofare, così la fede verso lo Stato comporta obbedienza ai

suoi decreti e alle sue leggi, ma lascia per il resto completa

facoltà di giudicare e ragionare.

In conclusione possiamo affermare che la libertas judicandi è per

Spinoza 1) qualcosa di profondamente radicato nella natura umana;

2) qualcosa che non ha altro limite che l’obbedienza alle leggi

dello Stato, limite che non è mai una coartazione o una negazione

della ragione; a tal proposito ho riportato al punto V.8 il testo

della lettera all’emissario dell’Elettore Palatino, nella quale

Spinoza declina l’offerta di una cattedra, esplicitando il suo

timore che la religione pubblicamente costituita incoraggiasse

quei pregiudizi che restringono indebitamente la libertas philosophandi,

e di cui la libertas philosophandi costituisce la netta antitesi:

34

V.8 […] io non so entro quali limiti debba intendersi compresa quella

libertà di filosofare, perché io non sembri voler perturbare la

religione pubblicamente costituita: giacché gli scismi non nascono

tanto dall’amore ardente della religione, quanto dalla varietà degli

affetti umani, dallo spirito di contraddizione che tutto suole

guastare e condannare, anche se è ben detto. [A J. L. Fabritius, marzo

1673, in Ep., p. 223]

VI. Il mancato riconoscimento della libertà cagionerà l’instabilità dello Stato

Nell’ultima parte del capitolo, Spinoza fornisce una serie di

argomenti e dimostrazioni a favore della libertas philosophandi,

mostrando che essa non soltanto è compatibile con la sicurezza e

la pace dello Stato, ma deve essere necessariamente concessa per

preservare tale sicurezza e tale pace.

Mi soffermo su tre di questi argomenti: i primi due offrono spunti

per proseguire il confronto con Hobbes; il primo riguarda

l’opportunità di leggi che disciplinino le opinioni, opportunità

che Spinoza, rievocando la sua disamina della storia ebraica,

fermamente respinge:

[RIASSUMO]

VI.1.1 Ma si supponga che questa libertà possa essere repressa [...].

Così per lo più sono fatti gli uomini, che nulla essi tollerano con

maggior fastidio quanto il fatto che si considerino dei crimini le

opinioni che credono vere, e che venga imputato loro come delitto ciò

che li muove alla pietà verso Dio e verso gli uomini; per cui accade

che essi osino denunciare tali leggi contrastando in ogni modo il

35

magistrato, e che non considerino indecoroso, ma nobilissimo,

suscitare delle rivolte, ricorrendo a qualunque mezzo.

Poiché consta che la natura umana è costitui in questo modo, ne

consegue che le leggi in materia di opinioni, non riguardano i

disonesti, ma le persone dabbene, e che non siano emanate per

controllare i malvagi, ma piuttosto per irritare gli onesti, e che non

possono essere sostenute senza grave pericolo per lo Stato.

Si aggiunga che tali leggi sono del tutto inutili: infatti, chi

crederà che le opinioni condannate dalle leggi siano giuste, a quelle

leggi non potrà obbedire, mentre chi le respinge come false, recepisce

invece le leggi che le condannano come privilegi, e tanto se ne gloria

che il magistrato, anche volendolo, non potrà abrogarle. [...] E

infine, quanti scismi sono nati nella Chiesa principalmente a causa

del fatto che i magistrati vollero dirimere con le leggi le

controversie dei teologi? Infatti, se gli uomini non coltivassero la

speranza di piegare a loro favore le leggi e il magistrato, di

trionfare sui propri avversari con l’unanime plauso del volgo e di

guadagnare degli incarichi pubblici, non rivaleggerebbero con animo

tanto iniquo, né tanto furore ecciterebbe le loro menti. Non soltanto

la ragione, ma anche, e con quotidiani esempi, l’esperienza insegnano

come simili leggi (ovvero quelle con cui si impone ciò che ognuno deve

credere e con le quali si proibisce di dire e di scrivere alcunché

contro questa o quella opinione) siano spesso state emanate per fare

concessioni, o piuttosto per cedere all’ira di coloro che non possono

tollerare gli spiriti liberi, e come tali prescrizioni trasformino

facilmente – grazie a una sorta di sinistra autorità – la devozione

dell’instabile plebe in rabbia, aizzandola poi contro chiunque

intendano dirigerla.

[TTP (2007), cap. XX, §§ 11-12, pp. 487-489]

36

Il testo di Hobbes che ho riportato si riferisce alla polemica

contro le ingerenze dei teologi in materia scientifica e

filosofica; in prima battuta le osservazioni di Hobbes e Spinoza

sulla necessità di non confondere teologia e filosofia, fede e

ragione, sembrano affini. Hobbes, tuttavia prosegue, nella parte

del testo che ho evidenziato, adombrando una disciplina

legislativa estesa all’insegnamento della ‘vera filosofia’; ed in

qualche maniera il potere sottratto ai teologi e alle autorità

ecclesiastiche viene affidato interamente al potere civile.

[LEGGO LE PARTI SOTTOLINEATE]

VI.1.2 All’introduzione della falsa filosofia possiamo aggiungere

anche la soppressione di quella vera da parte di uomini che, né per

legittima autorità, né per sufficiente preparazione, sono giudici

competenti della verità. La nostra navigazione rende evidente

l’esistenza di antipodi, e tutti gli uomini versati nelle scienze

umane ora lo riconoscono; e ogni giorno appare sempre più chiaramente

che gli anni e i giorni sono determinati dai movimenti della terra.

Ciononostante, gli uomini che nei loro scritti hanno anche solo

ipotizzato tale teoria, limitandosi ad esporre le ragioni pro e contro

essa, sono stati per questo puniti dall’autorità ecclesiastica. Ma per

quale motivo?

È perché tali opinioni sono contrarie alla vera religione? Ciò non può

essere, se sono vere. Quindi si lasci che la verità sia in primo luogo

esaminata da giudici competenti o che venga confutata da coloro che

pretendono di sapere il contrario.

È perché sono contrarie alla religione stabilita? Siano allora ridotte

al silenzio dalle leggi di quelli cui coloro che le insegnano sono

soggetti, vale a dire dalle leggi civili: infatti la disobbedienza può

legittimamente essere punita in coloro che impartiscono un

37

insegnamento contrario alle leggi, anche se si tratta di vera

filosofia.

È perché esse tendono a creare disordine nel governo, appoggiando la

ribellione o la sedizione? Che esse siano ridotte al silenzio e coloro

che le insegnano in virtù del potere di colui cui è stata affidata la

cura della pubblica quiete, potere che è l’autorità civile.

Infatti, qualsiasi potere gli ecclesiastici si assumano (in qualsiasi

luogo in cui sono soggetti allo Stato) come loro proprio diritto,

benché lo chiamino diritto di Dio, non è che usurpazione.

[L, parte IV, cap. XLVI, pp. 555-556]

Ho tentato un confronto con Hobbes anche per quanto riguarda le

osservazioni di Spinoza sulla comminazione della pena capitali per

reati di opinione o per dissenso teologico; il testo è

particolarmente importante perché, come osservato da Mignini,

contiene l’unica occorrenza del termine ‘tolerantia’ negli scritti

spinoziani:

[LEGGO]

VI.2.1 Quanto sarebbe meglio, invece, porre un freno all’ira e al

furore del volgo, piuttosto che promulgare leggi inutili, che non

possono essere violate se non da coloro che amano le virtù e le arti,

piuttosto che ridurre la repubblica in una condizione talmente penosa

da non consentirle di tutelare gli uomini dabbene! Quale peggior

sventura si può immaginare, per una repubblica, del fatto che uomini

onesti vengano mandati in esilio quasi fossero dei malfattori, solo

perché hanno opinioni diverse e non le sanno dissimulare? Cosa può

esservi – ribadisco – di più funesto del fatto che degli uomini

vengano considerati come nemici, non a causa di un delitto o di un

misfatto, ma perché sono di indole liberale, e che siano condotti a

38

morte? Cosa di più pernicioso che il patibolo, terrore dei malvagi,

diventi un bellissimo teatro ove offrire il più alto esempio di

sopportazione (tolerantiae) e di virtù, a sommo disonore della maestà?

Coloro che sanno di essere onesti non temono – diversamente dai

malfattori – la morte, né fuggono il supplizio: il loro animo non è

infatti oppresso dal rimorso di un turpe delitto, ed essi considerano

anzi un onore morire per una buona causa, piuttosto che un supplizio,

e degno di gloria cadere per la libertà. Che esempio viene dato,

quindi, con la morte di tali uomini, la cui causa è ignorata dai

deboli e dai vili, odiata dai rivoltosi e amata dagli onesti?

Certamente nessuno può trarre esempio da quella morte, se non per

imitarla o – quanto meno – per ammirarla.

[TTP (2007), cap. XX, § 13, pp. 489-491]

Come si vede, la ‘tolerantia’ nell’accezione spinoziana si

riferisce alla virtù che il condannato ha di sopportare il

patimento di sofferenze materiali in nome di una giusta causa, e

non ha nulla a che fare con l’accezione dominante nel lessico

politico-giuridico moderno; del resto, ho cercato di mostrare che

la problematica politica di Spinoza nel cap. XX (così come quella

teologica nei capp. XIV, XV) trascende di gran lunga la

problematica classica della ‘tolleranza’. Altri interpreti

(GIANCOTTI, DROETTO, TOTARO, NADLER) hanno spiegato questa potente

raffigurazione della morte sul patibolo di un uomo di indole

liberale come una rievocazione della sorte di Adriaan Koerbagh,

amico intimo di Spinoza. Sulla scorta di tale esperienza, Spinoza

afferma 1) che la condanna di simili uomini va a detrimento delle

autorità civili; 2) che la sorte degli uomini condannati per le

loro opinioni non può che destare ammirazione e desiderio di

emulazione negli altri uomini.39

Propongo un testo di Hobbes, nel quale si affronta il tema

dell’obbedienza ad un sovrano civile di fede diversa da quella del

suddito:

VI.2.2 […] quando il sovrano civile è un infedele, ciascuno dei suoi

sudditi che gli si oppone, pecca contro le leggi di Dio (poiché tali

sono le leggi di natura) e respinge il consiglio degli Apostoli i

quali esortano tutti i cristiani ad obbedire ai loro principi, e tutti

i fanciulli e servi ad obbedire ai loro genitori e ai loro padroni, in

ogni cosa. Quanto alla loro fede , essa è un fatto interiore e

invisibile; essi godono della stessa licenza concessa a Naaman, e non

hanno bisogno di esporsi al pericolo per essa. Se nondimeno lo fanno,

devono aspettarsi di essere ricompensati in cielo e non lamentarsi del

loro legittimo sovrano, e tanto meno muovergli guerra. Infatti, chi

non si rallegra per ogni giusta occasione di martirio, non possiede

la fede che professa ma pretende solo di averla, per fornire un

pretesto alla propria ribellione.

Ma quale re infedele – sapendo di avere un suddito che aspetta la

seconda venuta di Cristo, dopo che il mondo presente sarà stato

distrutto dal fuoco, che intende allora obbedire a Cristo […] e che

nel frattempo si ritiene vincolato ad obbedire alle leggi di quel re

infedele […] – sarà irragionevole al punto da mettere a morte o

perseguitare un tale suddito? [L, parte III, cap. XLIII, pp. 486-487]

Hobbes da un lato afferma che, essendo la fede interiore ed

invisibile, il suddito non è obbligato ad esporsi al pericolo per

essa, oppure deve accettare il martirio; dunque o dissimulazione o

morte, quest’ultima accettata dal suddito in vista di una

ricompensa celeste; d’altro canto, dice Hobbes, uccidere un

suddito che professa un’altra fede, e allo stesso tempo si

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sottomette alla legge civile, è irragionevole. Spinoza, come

abbiamo visto dal testo precedente, esclude la dissimulazione e

afferma che, mentre è pericolosa per l’autorità civile la

persecuzione delle opinioni diverse, queste devono essere non solo

ignorata, ma ammesse.

In conclusione, mi soffermo su un passaggio del capitolo XX nel

quale Spinoza osserva che il modo di governare basato sul pieno

riconoscimento della libertà è il migliore ed il più naturale, ed

aggiunge che in esso si stabilisce il decreto comune di agire, pur

conservando alle autorità civili la facoltà di abrogarlo e

sostituirlo con soluzioni legislative più efficaci. Si tratta di

un passaggio fondamentale, in quanto in esso Spinoza realizza il

nesso tra democrazia e libertà che aveva annunciato nel cap. XVI:

[RIASSUMO]

VI.3.1 Non possiamo dubitare che questo sia il miglior modo di

governare, ed è quello che presenta gli inconvenienti di minore

entità, in quanto è il più conforme alla natura degli uomini. Abbiamo

infatti mostrato come, nel governo democratico – il più prossimo allo

stato di natura – tutti pattuiscono di agire, ma non certo di

giudicare e ragionare, per decreto comune. Ovvero, poiché non tutti

gli uomini possono concordare nelle medesime convinzioni, decisero che

avesse forza di decreto quel provvedimento che avesse ottenuto gran

parte dei suffragi, ma conservando comunque l’autorità di abrogarlo in

presenza di soluzioni più efficaci. Perciò, quanto minore è la

libertà di giudicare che si concede agli uomini, tanto maggiore è la

distanza dallo stato più naturale e, conseguentemente, con tanta

maggiore violenza si regna (a statu maxime naturali magis receditur et consequenter

violentius regnatur).

41

[TTP (2007), cap. XX, § 14, p. 491]

Con i risultati del cap. XX, in altre parole, Spinoza completa la

sua analisi dell’imperium democraticum, ossia di un tipo di stato

civile vicino alla condizione naturale degli uomini, rispettoso di

alcune caratteristiche permanenti della natura umana (come

l’avversione all’asservimento nei confronti di un proprio eguale e

l’impulso a esprimere i propri giudizi), e capace di dar luogo ad

una rideterminazione positiva del diritto naturale piuttosto che

ad una sua totale cessione; dunque un potere moderato e stabile,

piuttosto che un potere dispotico e pertanto precario; tre sono le

condizioni di un simile assetto politico: 1) la ‘collegialità’ ed

il ‘consenso’, onde nessuno è asservito ad un proprio pari;

VI.3.2 […] non c’è nulla che gli uomini tollerino di meno che di

essere asserviti ai loro eguali e da essi comandati. [...] Da quanto

detto consegue, in primo luogo, che la società tutta, se è possibile,

deve detenere il potere in forma collegiale, cosicché ognuno sia

tenuto a obbedire a se stesso e non a un suo eguale [...]. [...]

Poiché, infine, l’obbedienza consiste unicamente nel fatto che si

adempia agli ordini per la sola autorità di colui che li impartisce,

ne segue che non vi è affatto obbedienza in una società il cui potere

è nelle mani di tutti e le cui leggi vengono stabilite per comune

consenso; e che, in una società siffatta, sia che il numero delle

leggi cresca, sia che diminuisca, nondimeno il popolo rimane – e nella

stessa misura – libero, poiché non opera per autorità di altri ma

secondo il proprio consenso.

[TTP (2007), cap. V, § 9, pp. 137-139]

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2) la salus totius populi come criterio cui improntare le leggi, onde

nell’utilità comune ciascuno possa riconoscere anche la propria, e

non solo quella di chi comanda; 3) il riconoscimento del diritto

ad essere consultati:

IV.3.3 [...] in una società politica (in republica et imperio) nella quale il

bene dell’intero popolo – e non quello di chi comanda – è legge

suprema, colui che obbedisce in tutto alla sovrana potestà non deve

essere definito schiavo e inutile a se stesso, ma suddito; è perciò

massimamente libero quello Stato le cui leggi sono fondate sulla sana

ragione: in esso, infatti, ognuno può essere, se lo vuole libero,

ovvero può vivere con animo puro, sotto la guida della ragione. [...]

E con questo ritengo di aver illustrato abbastanza chiaramente i

fondamenti dello Stato democratico, di cui ho preferito parlare prima

di tutti gli altri perché mi sembrava il più naturale e quello che più

si avvicina alla libertà che la natura concede a ognuno. In esso,

infatti, nessuno trasferisce ad altri il proprio diritto naturale fino

al punto da non dover più essere, in seguito, consultato [...] Ho poi

voluto trattare espressamente di questa sola forma statuale perché si

presta meglio al mio intento, [...] di trattare dell’utilità della

libertà nello Stato. [TTP (2007), cap. XVI, §§ 10-11, pp. 383-385]

In uno Stato in cui viga la libertà chiunque può proporre

innovazioni legislative e divulgare le proprie ragioni, fatta

salva, naturalmente, la decisione del magistrato; le proposte,

d’altro canto, verranno accettate se rispondenti al criterio di

quella utilità comune, nella quale tutti, o la maggior parte,

possano riconoscersi. Si tratta di un tentativo di risolvere

quella che Caporali (CAPORALI 2007, pp. 103-104) recentemente ha

chiamato la ‘tensione costitutiva’ tra multitudo e imperium, tra

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origine democratica del potere ed esigenza della sua

stabilizzazione. Questo equilibrio, che si realizza nello Stato

ottimamente costituito, tra autorità del magistrato e libertà

dell’individuo, intorno all’identificazione (mai definitiva) di un

‘bene di tutto il popolo’, è ciò che determina, secondo alcuni

interpreti (TOTARO, CRISTOFOLINI), il passaggio semantico, nel lessico

politico spinoziano, dall’Imperium, semplice garante di sicurezza,

alla Respublica, in cui si si promuove e si persegue un ‘bene

comune’ [a tal proposito tenere presente che, secondo il Lexicon, il

termine ‘respublica’ ricorre sempre in stretta correlazione con

‘libertas’ nel TTP; nel TP, il suo significato sembra essere invece

quello letterale di ‘cosa pubblica’, di ‘pubblici affari’ (cfr. TP

I, in cui ricorre anche l’espressione ‘publica negotia’)], e,

nella traduzione italiana, la sostituzione di ‘Stato’ con ‘libera

repubblica’ che abbiamo rilevato sin dall’inizio del capitolo XX.

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