Marco Dezzi Bardeschi: teoria e pratica della conservazione dell'architettura.

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Laura Gioeni

Marco Dezzi Bardeschi:teoria e pratica della

conservazione dell'architettura

Laura Gioeni Marco Dezzi Bardeschi: teoria e pratica della conservazione

Indice

Introduzione

1. Archeologia1.1 La biografia ufficiale1.2.Un tentativo di genealogia1.3. L'insegnamento di Giovanni Michelucci1.4. L'insegnamento di Piero Sanpaolesi1.5. L'insegnamento di Francesco Rodolico1.6. L'incontro con l'Alberti1.7. Ananke: il vessillo della battaglia1.8 John Ruskin e l'impossibilità del restauro1.9. Alois Riegl e la moderna della cultura dei monumenti

2. L'impossibile teoria del restauro2.1. Conservazione e Storia2.2. La storia effettiva2.3. Il monumento-documento2.4. Autenticità e materia2.5. Forma e materia2.6. Unicità e irriproducibilità dell’originale2.7. Monumento palinsesto2.8. Ripetizione e differenza2.9. Conservazione e ri-uso2.10. Conservazione e progetto

3. Una lettura genealogica3.1. Friedrich Nietzsche e l'ipotesi genealogica3.2. Carlo Sini: la genealogia, la scrittura, il Tempo e la St oria 3.3. Enzo Paci: il progetto come metamorfosi nella permanenza3.4. Restauro come pratica genealogica ed etica del progetto

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4. La pratica della conservazione4.1. Il rilievo per la conservazione4.2. Il progetto di conservazione4.3. La materia4.4. Il cantie r e 4.5. Bestiari e cosmogonie4.6. Il riuso4.7. Conclusioni

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Introduzione

Il presente contributo costituisce una revisione, aggiornata al novembre 2013, del testo della conferenza Marco Dezzi Bardeschi: teoria e pratica della conservazione dell’architettura, da me tenuta presso la II Università di Napoli-Aversa il 19 giugno 2009, nell'ambito del seminario nazionale Monumenti e ambienti. Restauratori del Secondo Novecento, organizzato con il coordinamento scientifico di Giuseppe Fiengo e Luigi Guerriero e diretto ai dottorandi di ricerca in conservazione dei beni architettonici e ambientali, progettazione architettonica e urbana e restauro dell'architettura.

Il saggio è strutturato in quattro sezioni. Nella prima parte proverò a ricostruire la biografia culturale di Dezzi Bardeschi, l’humus in cui affondano le radici della sua teoria, per arrivare ad esibire, attraverso una sorta di analisi archeologica che ne porti alla luce le successive stratificazioni, la genealogia della sua concezione del restauro come conservazione e progetto. Cercherò dunque di individuare motivi e figure che hanno influenzato la sua formazione, sia in modo diretto che in modo indiretto; i maestri, certo, ma anche le esperienze di vita e le frequentazioni culturali.

Nella seconda parte distillerò in un vero e proprio decalogo la sua teoria, condensando in dieci punti fondamentali i principi di quella che Dezzi Bardeschi definisce “l’impossibile teoria della conservazione”.

Nella terza parte invece azzarderò una ermeneutica della sua proposta teorica e della sua prassi attiva che io interpreto come esercizio di una pratica genealogica di intervento sul costruito.

Nella quarta parte, infine, presenterò con taglio trasversale alcuni lavori e progetti di Dezzi Bardeschi, per delineare le tematiche emergenti e ricorrenti nella sua pratica di architetto e “restauratore”.

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Archeologia

1.1. La biografia ufficiale

Marco Dezzi Bardeschi nasce nel 1934 a Firenze dove riceve una formazione classica al Collegio alla Querce. L’impronta della formazione liceale rimane indelebile nel giovane studente che, nonostante la scelta - quasi obbligata - di proseguire gli studi ad ingegneria, continuerà a coltivare con curiosità e vivo interesse la cultura umanistica e letteraria. Nel 1957 si laurea in Ingegneria Civile a Bologna con Giovanni Michelucci e poi in Architettura a Firenze, nel 1962, con Piero Sanpaolesi. A Firenze con Sanpaolesi collabora, sin dalla sua fondazione, al neonato Istituto di Restauro dei Monumenti. Negli anni 1964-1965 lavora presso la Soprintendenza di Arezzo; è poi nominato assistente di ruolo presso l’Università degli Studi di Firenze dove sarà professore incaricato libero docente di Caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti e di Storia dell’architettura.

Risulta difficile delineare sinteticamente l’inarrestabile, vasta ed articolata attività di Dezzi Bardeschi. Certamente però tra le esperienze che vale la pena citare c’è quella con Eugenio Battisti, col quale nel 1974 fonda, insieme a Marcello Fagiolo, psicon, rivista che poteva vantare nel suo illustre comitato scientifico la presenza di Giulio Carlo Argan, Sergio Bettini, Eugenio Garin e Ludovico Quaroni e un comitato di consulenza internazionale di livello altrettanto elevato.

Vinta la cattedra di Restauro, viene chiamato nel 1976 a Milano, dove trasferisce la sua residenza. Mantiene però il suo legame con Firenze dove continua l’attività del suo studio di architettura.

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Presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano fonda nel 1980, e dirige per diversi anni, il Dipartimento per la Conservazione delle Risorse Architettoniche e Ambientali, passando poi, con scelta polemica, al Dipartimento di Progettazione nella neonata sede della Bovisa.

È accademico delle Arti e del Disegno a Firenze ed ha presieduto la sezione nazionale dell’ICOMOS (International Council of Monuments and Sites).

Nel quadro della sua intensa produzione pubblicistica nel 1993 fonda 'ANANKE, cultura, storia e tecniche della conservazione per il progetto, rivista ora quadrimestrale il cui sottotitolo già rivela il tema caro a Dezzi Bardeschi, il leitmotiv dominante della sua concezione del restauro, ovvero il rapporto tra conservazione e progetto.

A margine di questa essenziale nota biografica ci piace però scandagliare la vita di Dezzi Bardeschi alla ricerca di dettagli che non trovano posto nella sua biografia ufficiale.

1.2. Un tentativo di genealogia

Un primo dettaglio: il padre, Dezio, ha un’attività commerciale di orologeria e bigiotteria in via Nazionale a Firenze, dove anche la madre lavora e dove il giovane Marco si trova a passare il suo tempo dopo la scuola. È tra gli orologi del retrobottega del negozio paterno che immaginiamo aggirarsi un ragazzino pieno di meraviglia per quei piccoli e preziosi ingranaggi, che ripetono, nel microcosmo di bilancieri e ruote dentate, i movimenti del macrocosmo celeste. È certo qui che Dezzi Bardeschi principia a coltivare il fascino per la preziosità delle piccole cose, delle meccaniche esatte di quei taumatopoietici automi del tempo: meccaniche del tempo e del cielo che si imprimeranno nel suo immaginario e diventeranno uno dei segni più riconoscibili della sua firma progettuale.

Secondo dettaglio: il giovane Dezzi Bardeschi vive, dunque, tra il cortile della casa a pian terreno di viale Filippo Strozzi e il negozio di Via Nazionale. Ci sono perciò tre monumenti che caratterizzano l’orizzonte del suo mondo, lo sfondo dei suoi percorsi quotidiani, tre edifici che credo abbiano formato la sua

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idea di architettura e che per certi versi segnano il suo destino: la Fortezza da Basso, le cui murature bugnate si stagliano imponenti proprio di fronte alla sua casa di viale Strozzi; la Stazione di Santa Maria Novella di Giovanni Michelucci, che si incontra nel percorso dal viale Strozzi alla via Nazionale che sfocia proprio nella piazza della stazione; ed infine, poco distante, la chiesa di Santa Maria Novella con la facciata dell’Alberti.

Monumenti che segnano un destino: perché proprio con Michelucci, Dezzi Bardeschi si laurea a Bologna in Ingegneria civile; perché nel corso della sua attività professionale gli capiterà di curare proprio il restauro della Stazione e della Palazzina Reale; perché i suoi studi in architettura lo porteranno a studiare con profonda devozione Leon Battista Alberti, alla cui opera dedica, tra gli altri, un insuperato saggio sulla lettura iconografica della facciata di Santa Maria Novella; perché l’impressione della possente muraglia della fortezza alimenterà la sua passione per i temi dei fortilizi e delle macchine da guerra, che animeranno la mostra e gli studi sulle architetture militari di Francesco di Giorgio.

1.3. L'insegnamento di Giovanni Michelucci

Dall’insegnamento di Giovanni Michelucci Dezzi Bardeschi trarrà innanzi tutto un’attitudine fondamentale, quella del dubbio continuo e della continua ricerca: “io non ho risposte. Non ne ho mai avute” - scrive Michelucci - “il dubbio, il timore di sbagliare mi ha sempre accompagnato. Certo vedendo i naufragi delle certezze degli altri posso dire che quella che ho sempre considerato una mia personale condanna era forse un metodo di lavoro a suo modo rigoroso”1. Dezzi Bardeschi, come il suo maestro, non si ferma mai alle prime ipotesi, facendo del metodo rigoroso del dubbio il vero motore della sua ricerca.

Dal pensiero di Michelucci Dezzi Bardeschi deriva anche l’idea dell’architettura come opera aperta, inserita in un progetto continuo. In un’opera di architettura il suo completamento realizzativo non rappresenta un momento compiuto e un dato

1 Giovanni Michelucci, 1988, cit. in Marco Dezzi Bardeschi, A―LETHEIA 3, Giovanni Michelucci (1891-1990) il progetto continuo, a cura di Gabriella Guarisco, Alinea, Firenze, 1992, p.137.

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definitivo, ma solo il punto di partenza della vita dell’edificio. Un’architettura non è semplicemente il frutto dell’ideazione dell’architetto e del lavoro di cantiere ma, una volta realizzata, acquista una sua vita propria nella quale gli utenti sono di necessità chiamati a partecipare e coinvolti come progettisti. L’architettura è dunque un’opera collettiva della quale gli architetti sono, più che gli autori, solo dei suggeritori. La storia della fabbrica non si compie quindi alla conclusione del cantiere. Il progetto d’architettura, sottoposto prima al collaudo del cantiere, deve superare il collaudo della vita: diventa un elemento del mondo della vita, di quella lebenswelt di cui è parte e da cui viene ridisegnato2.

Su questa riflessione si innesta quindi un secondo tema teorico che riveste una importanza fondamentale nella prospettiva della conservazione, cioè quello della considerazione della natura circolare del tempo. Secondo Michelucci, infatti, il tempo proprio dell’architettura è quello del circolo cioè, se ci pensiamo bene, è dunque quello proprio della lebenswelt, in cui si realizza l’interconnessione di passato-presente-futuro: “quando un'idea diventa «muro» - scrive Michelucci - “fatto dalle mani dell'uomo e diventa «spazio» per gli uomini, si assiste a un cosa stupenda. Ad un certo punto si sente che ciò che nasce ha un significato particolare, che si riallaccia però a qualcosa di cui non possediamo il segreto: è come una voce sottile ed inafferrabile che viene da lontano, che si rigenera oggi per il domani e che parla di un fatto nuovo che deve ancora avvenire...passato, presente futuro...”3.

La funzione dell’architetto è dunque quella di raccogliere e proiettare nel futuro una voce che proviene dal passato e fornire il suggerimento per un seguito, un ulteriore sviluppo. Ed è una voce che deve essere in grado di toccare il cuore degli uomini. L’architettura cioè deve emozionare. Solo quando l’architettura è in grado di suscitare partecipazione ed emozione è raggiunto il suo

2 Così scrive Michelucci a proposito dell’esperienza della Stazione di Firenze: “nella vita di un edificio il progetto rappresenta solo la sua preistoria, il suo prologo in cielo rispetto alle peripezie, gli eventi culturali, alle difficoltà tecniche che la sua esecuzione incontrerà, una prova del fuoco attraverso la quale l’idea iniziale si trasforma e diventa in qualche modo opera collettiva, parte della città. Questo tipo di collaudo nel cantiere rappresenta anche l’altra storia dell’edificio, quella che inizieranno i suoi utenti, i protagonisti veri cioè di uno spazio del quale i progettisti più che gli autori dovrebbero accontentarsi di essere i suggeritori” (in Marco Dezzi Bardeschi, A―LETHEIA 3, op.cit, p.30).

3 Ibidem.

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scopo e la felicità dell’architetto. A coloro che obiettano che “questo non è il mestiere dell'architetto, questa è poesia”, Michelucci risponde: “magari, chi può dire di non aver bisogno di poesia?”4. Così anche per Dezzi Bardeschi l’architettura non deve trascurare la componente poetica e narrativa.

1.4. L'insegnamento di Piero Sanpaolesi

L’altra figura che ha un ruolo determinante nella formazione di Dezzi Bardeschi è Piero Sanpaolesi, dal quale assimila l’attenzione verso la conservazione della materia. Celebrando la figura di Sanpaolesi, Dezzi Bardeschi così annota: “se dovessi esprimere qui, sinteticamente in una sola frase, il senso e l’obiettivo ultimo della sua profonda lezione di grande storico e di tecnico e sperimentatore, la riassumerei nello slogan: rispettare e curare il corpo materiale (il manufatto) riducendone al minimo le sostituzioni”5.

Polemizzando contro la posizione di Cesare Brandi, che privilegia nel restauro la componente ideale dell’opera d’arte - intesa come realtà pura e astante e come immagine, per la quale la materia rappresenta solo il mezzo della sua manifestazione - Sanpaolesi si ostinerà ad affermare la necessità di conservare prioritariamente la materia, per quanto degradata e segnata dalla sua storicità, non l’idea, non l’immagine. Nel suo Discorso sulla metodologia generale del restauro dei monumenti Sanpaolesi scrive: “l’esperienza e il continuo aggiornamento su idee e fatti mi hanno convinto essere indispensabili per conseguire il risultato veramente importante, l’unico a ben considerare, di aver rispetto cioè per l’integrità fisica e storica dell’edificio degradato. (…) Il restauro vuole e deve conservare quanto più è possibile non solo la forma, ma la materia stessa dell’edificio, e con la materia la personalità, cioè la pelle esterna e le strutture insieme, cioè infine l’edificio intero vivo in corpo e spirito”6.

4 Ibidem.5 Marco Dezzi Bardeschi, “Fare una scuola è meno che niente…”, in AAVV, Sanpaolesi. Il

restauro come scienza, Edizioni Polistampa, Firenze, Aprile, 2005, p.17.6 Piero Sanpaolesi, Discorso sulla metodologia generale del restauro dei monumenti,

Editrice Edam, Firenze, 1973, p.12.

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Alla considerazione per la componente storico-materiale dell’opera è connessa l’esigenza di un minuzioso rilievo del manufatto preliminare ad ogni intervento.

L’esatto rilevamento geometrico e materico-patologico, affiancandosi alla conoscenza delle fonti d’archivio, alle ricerche storiche, è fondamentale e propedeutico al progetto di conservazione. Il rilievo, restituendoci una lettura dettagliata del costruito, ci fornisce la conoscenza necessaria e la giustificazione dell’intervento sul monumento: “si deve pure confermare (…) - scrive Sanpaolesi - l’assoluta necessità di rilievi preventivi e di accertamenti tecnologici; e questi, accompagnati a una completa conoscenza delle fonti e delle notizie storiche remote e recenti, guidano il restauratore a una conoscenza del monumento che giustifichi la sua capacità a intervenire”7. Anche per Dezzi Bardeschi la fase di rilievo, un rilievo “ad unguem”, palmo a palmo, un rilievo che va ad esplorare gli aspetti più nascosti dell’edificio, rappresenta il necessario punto di partenza dell’opera di conservazione.

Paradigmatiche in questo senso sono, ad esempio, la restituzione fatta da Sanpaolesi dell’apparato costruttivo della cupola di Santa Maria del Fiore, a cui dedica uno studio approfondito per comprendere come Brunelleschi avesse potuto costruirla senza l’utilizzo delle centine. Solo visitando la cupola al suo interno, osservando da vicino la trama del tessuto di laterizi e rilevando attentamente la posizione e l’orientamento dei mattoni, Sanpaolesi era stato in grado di ricostruire la tecnica costruttiva dell’architetto fiorentino. Come pure esemplare è la campagna di rilievo del Duomo di Pisa, condotta dagli allievi di Sanpaolesi all’Istituto di Restauro dei Monumenti dell’Università di Firenze.

Ponendosi esplicitamente contro quelle teorie del restauro che sottomettono le istanze storiche alle priorità dell’estetica, Sanpaolesi sostiene dunque che non si può in alcun modo ignorare il peso storico-documentario dell’architettura. Il monumento, nella sua accezione più propria, è innanzi tutto documento, documento nel senso di testimone, nel significato di testimonianza di una civiltà, la cui autenticità non deve essere alterata: “l’edificio d’altra parte non perde mai il suo valore di documento di una civiltà. Esso

7 Ibidem, p.29.

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perciò, come tale, deve essere intangibile. La sua funzione di testimone non può essere in alcun modo alterata, anche in particolari apparentemente insignificanti, senza che ne venga compromessa l’integrità totale. Posto questo principio, accanto a quello di opera d’arte non possiamo accettare la posizione di compromesso che ne ignori l’aspetto documentario”8.

L’importanza attribuita alla conservazione della materia, quella originale ed autentica, conduce Sanpaolesi ad approfondire lo studio dell’indurimento chimico della pietra, attraverso la tecnica di imbibizione con fluosilicati di magnesio, che permette il consolidamento del materiale non solo sulla superficie ma in tutto il suo spessore: “si dovrà perciò rivolgersi ad approfondire il metodo di indurimento per imbibizione di sostanze inorganiche, per loro natura affini alla pietra e capaci di depositare <entro> di questa, nella microscopica rete della porosità e nelle sue varie specie, un induritore <permanente>”9.

Ad esempio, sulle facciate del San Michele Maggiore a Pavia, l’intervento di Sanpaolesi mira a conservare in situ, per quanto erosi dal tempo, tutti i dettagli decorativi: essi costituiscono la materia originale ed autentica che porta incisa la mano del loro autore e della Storia trascorsa: “È la materia originale che pesa e deve pesare con la sua presenza”, scrive Sanpaolesi. “Noi dobbiamo chiarirci quale funzione abbiano i materiali nella costituzione dell’oggetto e della sua autenticità e trovare in essi la giustificazione del restauro (...). Non materiali genericamente indicati ma proprio quelli che il costruttore ha maneggiato nel comporre quella sua opera d’arte. (…) ciò implica anzitutto il riconoscimento dell’unicità dell’opera d’arte, quindi dell’irripetibilità dell’opera stessa”10.

E “autenticità”, “unicità” ed “irripetibilità” diverranno le parole d’ordine del discorso di Dezzi Bardeschi sul restauro. Il restauro non si effettua per sostituzione della materia ma per conservazione e consolidamento della materia stessa: quella materia, autentica, originale e irriproducibile, che, proprio perché segnata dal tempo e dalla storia, ne è testimone e documento primo.

8 Ibidem, p.43.9 Ibidem, p.187.10 Ibidem, p.43.

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Tesi complementare alla conservazione è poi la considerazione del restauro come opera creativa: argomento che apre il restauro verso il progetto. Sanpaolesi tiene a sottolineare che il restauratore non è un architetto di seconda classe, ma è un architetto progettista a pieno titolo, giacché qualsiasi intervento, fosse anche una semplice opera di consolidamento statico, deve essere progettualmente controllato nelle forme e nei colori. Non esistono elementi neutri e il principio della riconoscibilità del nuovo rispetto all’antico e originale richiede la scelta di forme e materiali moderni: “l’opera del restauratore” - conclude Sanpaolesi - “di per sé a questo punto appare, come è ovvio debba essere, opera creativa e non più soltanto intesa come opera manuale tecnologica volta unicamente a evitare che un muro cada o un pezzetto di capitello precipiti. Deve avere invece una funzione creativa”11. Quindi anche l’architetto conservatore deve essere innanzitutto un architetto progettista.

1.5. L'insegnamento di Francesco Rodolico

Un altro docente che certamente ha lasciato il segno nell'apprendistato universitario di Dezzi Bardeschi è Francesco Rodolico, professore di mineralogia alla facoltà di Architettura di Firenze. Rodolico trasmette a Dezzi Bardeschi la passione per le pietre da costruzione che, da inerti elementi costruttivi, si trasformano in componenti vive, dotate di voce ed anima. In occasione della presentazione della riedizione del testo di Rodolico Le pietre delle città d’Italia, Dezzi Bardeschi ricorda il ruolo determinante del maestro: “l’amore che Rodolico mostra per il corpo fisico delle pietre «vive, salde, serrate, crude, intere, trattabili, disubbidienti, molli, vetrigne, scagliose», tocca sicuramente l’apice d’affezione nel caso delle tarsie marmoree del tempietto albertiano (le squisite formelle del Santo Sepolcro in San Pancrazio) cui dedica sia il motivo che lo stesso carattere a stampa della copertina (…). Insomma Rodolico ci ha trasmesso questo amore invincibile per il politissimo commesso in marmo e serpentina e per la sua stessa singolare scalfibilità. A noi studenti di architettura ce l’ha fatto tastare palmo a palmo, come si trattasse del

11 Ibidem, p.270.

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più prezioso libro scritto, portandoci a riconoscerne l’individualità e a leggerne – sfruttando l’angolo di rifrazione della luce – le stesse sovrascritture più invisibili, singolari microstorie appena percepibili che contribuiscono a rendere unico e dunque irriproducibile ed insostituibile quel prezioso palinsesto”12.

1.6. L'incontro con l'Alberti

Questa citazione è doppiamente interessante perché Dezzi Bardeschi fa, proprio del tempietto albertiano in San Pancrazio argomento di approfondito studio per la sua tesi di laurea in architettura.

Insomma, accanto ai maestri diretti, Leon Battista Alberti può figurare come il primo dei lontani ed indiretti maestri di Dezzi Bardeschi. Alberti rappresenta sì l’ideale di fusione della cultura tecnica e di quella umanistica, ma anche l’esempio di uno specifico atteggiamento progettuale verso la preesistenza. Infatti, sia in Santa Maria Novella che nel Tempio Malatestiano di Rimini, Alberti attua un approccio che non nega l’esistente ma lo accetta e lo accoglie in una nuova composizione. D’altro canto quella albertiana è anche un’architettura programmaticamente simbolico-ermetica, cioè un’architettura densa di significati celati in simboli geroglifici. Come ha mostrato Dezzi Bardeschi, la stessa facciata di Santa Maria Novella può essere interpretata come la firma geroglifica del suo progettista: “a rinfiancare i due «oggetti privilegiati», speculum ideologico e iconologico della particolare destinazione di base dei due complessi monumentali, in entrambi i casi erano state disegnate due orecchie, anzi due ali emblematiche (se ne veda il disegno autografo schizzato dall’Alberti nella lettera a Matteo de’ Pasti (…)) che avrebbero potuto anche costituire (…) una sorta di firma geroglifica del progettista (penso naturalmente all’impresa dell’occhio con due ali che Battista si era prescelta)”13. Ed in fondo, anche nelle architetture di Dezzi Bardeschi si

12 Marco Dezzi Bardeschi, L’insegnamento di Rodolico, ovvero: perché in architettura la materia non può avere il suo doppio, in Le pietre delle città d’Italia. Atti della giornata di studi in onore di Francesco Rodolico, Le Monnier, Firenze, 1995, p.27.

13 Marco Dezzi Bardeschi, Sole in leone. Leon Battista Alberti: astrologia, cosmologia e tradizione ermetica nella facciata di Santa Maria Novella, in 'psicon', n.1, ottobre-dicembre 1974.

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materializza la medesima concezione dell’architettura come forma simbolica.

1.7. Ananke: il vessillo della battaglia

L'idea dell'architettura come geroglifico ed espressione narrativa, che comunica, a chi è in grado di comprenderlo al di sotto della “favolosa veste”14, un significato più profondo, è peraltro concetto caro anche a Victor Hugo, di cui Dezzi Bardeschi è attento lettore e a cui pure esplicitamente si ispira: “l’architettura cominciò come incomincia ogni scrittura: fu dapprima alfabeto. (...) Si rizzava sul suolo una pietra ed era una lettera, ognuna delle quali era un geroglifico (…). Il simbolo aveva bisogno di svolgersi nell’edificio ed allora l’architettura (…) fissò sotto una forma eterna, visibile e palpabile tutto quell’ondeggiare di simboli”15.

Lo scrittore francese, che nel suo romanzo più divulgato, Notre Dame de Paris, veicola una vera e propria dissertazione di estetica dell’architettura, pone la stampa a caratteri mobili di Gutenberg come linea di demarcazione tra architettura simbolica e architettura come mera geometria. E questa riflessione fa da sfondo alla sua battaglia per la conservazione del patrimonio architettonico francese. Senza mezzi termini Hugo decreta la morte dell’architettura in quanto geroglifico e scrittura di mondo. La nuova architettura, divenuta pura linea geometrica, non può più innestarsi in un fecondo dialogo con l’architettura antica ed i restauratori neoclassicisti rappresentano una vera sciagura per il patrimonio architettonico francese. L’unica possibilità rimane dunque quella della conservazione, per la quale con i suoi scritti Hugo dà battaglia: “è venuto il momento in cui non è più consentito a nessuno rimanere in silenzio. Un grido universale deve finalmente chiamare la nuova Francia in soccorso dell’antica. Ogni genere di profanazione, di degradazione e di rovina minaccia ciò che ci resta dei pregevoli edifici medioevali nei quali è impressa l’antica gloria nazionale (…). Sarebbe finalmente tempo di mettere fine a questi scempi (…). Sebbene impoverita dai devastatori rivoluzionari, 14 L’espressione è di Giovanni Michelucci: “se sotto la veste favolosa si trova un significato,

non è superfluo comporre favole”.15 Victor Hugo, Nostra Signora di Parigi, I ed. 1831, ed.ampliata 1832, ed.it. Bairon, Milano,

1933, p.174.

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dagli speculatori, e soprattutto dai restauratori classicisti, la Francia è ancora ricca di monumenti francesi. Bisogna fermare il martello che mutila il volto del paese. Una legge basterebbe; che la si faccia”16.

Una battaglia, quella di Hugo, cominciata precocemente con l’Ode alla Bande Noire del 1823, in cui, denunciando l’incuria e l’oblio in cui versavano i monumenti francesi, testimoni ed eco della voce degli antichi, il poeta chiede finalmente rispetto per il patrimonio monumentale della nazione: “O francesi! Rispettiamo questi resti / Il cielo benedice i figli pietosi / che conservano, nei giorni funesti/ l’eredità dei loro avi. / Come una gloria nascosta contiamo ogni pietra caduta”17.

L’ode, rispondendo alle voci nichiliste e distruttive, si conclude con un’esortazione a continuare la battaglia per la salvaguardia dei resti di Francia: “quanto a noi, non profaniamo punto questa madre sacra / consolando la sua gloria in lacrime / cantiamo i suoi astri eclissati / perché la nostra giovane musa, sfidando l’anarchia / non vuole agitare la sua bandiera / fattasi bianca dalla polvere dei tempi passati”18.

Una bandiera che, sotto l’insegna di “ΆΝΑΓΚΗ”, è attivamente portata avanti da Dezzi Bardeschi: “una bandiera che già tante generazioni hanno sventolato e si sono idealmente passate di mano, in una risentita staffetta contro ogni ipocrisia e deliberato tradimento perseguito nel nome stesso del "restauro": una bandiera che, oggi più che mai, invitiamo i giovani a raccogliere e a levare ben alta contro ogni conformismo ed ogni compromesso dilaganti”19.

La parola greca, la cui traccia, incisa nell’oscuro recesso di una delle torri della cattedrale parigina, non era sopravvissuta all’intervento dei restauratori e a cui Hugo dedica il suo romanzo, è ripresa da Dezzi Bardeschi come titolo e programma della sua rivista: “è dunque proprio per stimolare una più profonda

16 Victor Hugo, Guerra ai demolitori, 1825,1832, ed.it. Millelire, Viterbo, 1993, p.8.17 Victor Hugo, Ode alla Bande Noire, 1823, trad.it. in ΆΝΑΓΚΗ, trimestrale di cultura,

storia e tecniche della conservazione, n.33, Dossier Victor Hugo, Aprile 2002.18 Ibidem.19 Marco Dezzi Bardeschi, ΆΝΑΓΚΗ, anno centosessantaduesimo, numero uno, in

“ΆΝΑΓΚΗ”, n.1, marzo 1993, ripubblicato in Marco Dezzi Bardeschi, Restauro: due punti e da capo, a cura di Laura Gioeni, FrancoAngeli, Milano, 2004, p.15.

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riflessione sui corretti fini della disciplina, sulle sue radici, tanto più autentiche quanto disattese, e sui suoi concreti criteri e modi di applicazione, che è nata la rivista ΆΝΑΓΚΗ, prendendo a proprio vessillo il lucido memento con cui Victor Hugo apriva, nel marzo 1831, l'avvertimento preposto al suo popolare Notre Dame”20.

1.8. John Ruskin e l'impossibilità del restauro

Dopo Alberti e Hugo, un'altra lettura di riferimento per Dezzi Bardeschi è certamente il volume delle Seven Lamps di John Ruskin, pietra miliare della cultura della conservazione dell’architettura. Ruskin, come è noto, scagliandosi risolutamente contro il restauro, lo definisce “la più totale distruzione che un edificio possa patire: una distruzione per la quale nessun resto può essere raccolto, una distruzione accompagnata dalla falsa descrizione della cosa distrutta”21. Dezzi Bardeschi condivide con Ruskin l’impossibilità del restauro: “è impossibile in architettura restaurare come non è possibile resuscitare i morti (…): quello spirito che è dato solo dalla mano e dall’occhio dell’esecutore non può essere richiamato”22. Per il critico inglese il valore di un edificio non risiede tanto nel momento aurorale della sua origine, l’attimo del concepimento o la chiusura del cantiere, ma piuttosto nel suo valore di memoria, nel suo valore propriamente monumentale di testimonianza della storia che vi è passata sopra. Dunque, i segni che il tempo lascia sull’edificio, anche i segni del degrado, entrano a far parte dei caratteri propri e distintivi di un’architettura. Il pittoresco quindi, la “tinta dorata del tempo”, quella che poi Riegl individuerà nel valore dell’antico, costituisce la maggior gloria e la vera preziosità di un’architettura: “esso è testimonianza dell’età dell’opera: di ciò in cui, come si è detto, consiste la maggior gloria dell’edificio. Pertanto i segni esteriori di questa gloria, che hanno una forza ed un compito più grandi di qualsiasi altro che appartenga alla loro pura bellezza sensibile,

20 Ibidem, p.14.21 John Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, I ed.1849, II ed.1880, trad,it. Jaca Book,

Milano, 1982, p.226.22 Ibidem, p.227

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possono essere fatti rientrare nel rango dei caratteri puri ed essenziali dell’architettura”23.

1.9. Alois Riegl e la moderna della cultura dei monumenti

In ultimo, non si può non citare Alois Riegl, il cui Der Moderne Denkmalkultus segna, sulla soglia del XX secolo, la svolta epocale della modernità. Di Riegl rimangono fondamentali per Dezzi Bardeschi due punti: il primo, la tesi dell’equivalenza tra valore storico e valore estetico, vale a dire l’affermazione che il monumento storico ha valore d’arte: “è importante rendersi conto che qualunque monumento d’arte è senza eccezioni contemporaneamente un monumento storico, perché rappresenta un certo stadio dello sviluppo dell’arte figurativa (...). E viceversa, ciascun monumento storico è indubbiamente anche un monumento d’arte, perché anche un monumento della scrittura così secondario come un pezzo di carta stampata con brevi appunti trascurabili, contiene, oltre ad un valore storico per lo sviluppo della produzione della carta, della scrittura, dei materiali occorrenti per scrivere ecc., tutta una serie di elementi artistici”24; il secondo, l’affiancamento del valore d’uso al valore di antico, quello che Dezzi Bardeschi - e dobbiamo qui rimproverargli una certa imprecisione - identifica con il valore di novità: “una parte essenziale di quel gioco vivente delle forze della natura, la cui percezione è presupposto del valore di antico andrebbe perduta in modo insostituibile con la cessazione dell’utilizzo dei monumenti (…): l’utilizzazione pratica e continua di un monumento possiede anche per il valore di antico un significato importante e senz’altro spesso indispensabile”25.

Riegl insomma, riflettendo genealogicamente sull’insorgere di una nuova cultura dei monumenti, conclude sostenendo la necessità di superare la visione ottocentesca del restauro di rifazione per andare verso la necessaria e virtuosa saldatura della conservazione con il progetto del nuovo: argomento che diventa il nucleo del discorso e della pratica del restauro di Dezzi Bardeschi.

23 Ibidem, p.225.24 Alois Riegl, Der Moderne Denkmalkultus. Sein Wesen und seine Entstehung, Braumüller,

Wien-Leipzig, 1903, trad. it. Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, a cura di Sandro Scarrocchia, Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1990, p.28.

25 Ibidem, pp.59,60.

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Una conservazione, quindi, tutta tesa nella direzione del progetto, secondo quel senso che anche Michelucci gli aveva impresso: “la coscienza del passato non dovrebbe inibire mai la costruzione del nuovo, dovrebbe semmai dargli un grande senso di responsabilità”26.

26 Giovanni Michelucci, 1990, cit. in Giovanni Michelucci il progetto continuo, op.cit., p.54.

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L'impossibile teoria del restauro

“Saper conservare per poter innovare” è il motto che sintetizza la teoria del restauro di Dezzi Bardeschi. Che vuol dire affiancare alla conservazione, intesa come il massimo rispetto per l’esistente, l’innovazione, cioè il riconoscimento dell’autonomia del progetto del nuovo: “occorre prendere nella dovuta considerazione la fondamentale contrapposizione, anzi l'essenziale forbice che si stabilisce tra i due concetti di permanenza e di mutazione, i quali siglano due modi opposti di rapportarsi alla realtà (...), modi che esprimono due vie conflittuali ed antitetiche ma entrambe essenziali al nostro stesso equilibrio”27.

Per illustrare il senso che Dezzi Bardeschi attribuisce alla conservazione possiamo utilizzare il seguente schema: da una parte mettiamo i termini “conservazione / permanenza / continuità / tradizione / identità / passato / provenienza”; dall’altra parte, in corrispondenza dei termini precedenti, poniamo “progetto / mutazione / frattura / innovazione / differenza / futuro / destino”. Abbiamo così costruito sette coppie di termini: conservazione / progetto, permanenza / mutazione, continuità / frattura, tradizione / innovazione, identità / differenza, passato / futuro, provenienza / destino. Una linea sinusoidale e in oscillazione separa e nello stesso tempo congiunge i due campi contrapposti ma complementari.

27 Marco Dezzi Bardeschi, Restauro: punto e da capo, a cura di Vittorio Locatelli, Franco Angeli, Milano, 1991, p.165.

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Ecco, quella linea rappresenta il restauro come soglia tra conservazione e progetto e tra tutte quelle coppie di termini che solo in apparenza sono tra loro in contraddizione. Questo schema troverà completo chiarimento solo alla fine del nostro percorso che sintetizza in dieci capitoli i fondamenti della teoria di Dezzi Bardeschi.

2.1. Conservazione e Storia

Il primo punto da affrontare è quello inerente al rapporto tra conservazione e Storia. Occorre innanzi tutto mettere sotto critica una concezione della Storia come esclusiva pratica di scrittura. Scrive Dezzi Bardeschi, ironizzando sull’atteggiamento dello storiografo: “«la storia è quello che c'è scritto». Per i tanti Cidrolin che sono fra noi, l'unica forma autorizzata di pratica storica è la pratica della scrittura, paradiso solitario dell'erudito che, prendendo la dovuta distanza dal destino fisico del costruito (...) costruisce a tavolino delle iperrealtà mitopoietiche fra le quali poi si aggira con compiaciuta eleganza”28.

A questa visione della Storia che si traduce, nel campo dell’architettura, in una storiografia architettonica fatta per immagini di facciata, per arbitrarie classificazioni di stili, tesa a restituire la forma originaria e la verità dell’origine, Dezzi Bardeschi contrappone una storia archaeologica fatta sull’attenta lettura del costruito nelle sue stratificazioni e discontinuità, nel rilievo accurato dell'edificio nella sua consistenza materica hic et nunc, nello studio della fabbrica come insostituibile e irriproducibile documento-monumento.

2.2. La storia effettiva

Dunque alla storia scritta bisogna sostituire la storia effettiva, alla ricerca della verità dell’origine la storia del trascorso della fabbrica e la storia vivente che la fabbrica scrive, allo sguardo storiografico l’ascolto clinico dell’esistente che diventa il punto di partenza di una corretta pratica di conservazione. Dobbiamo, insomma, “abituarci sempre più a rispettare ogni segno della storia, anche di

28 Ibidem, p.196.

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quella che meno sembra appartenerci e a cui siamo meno disposti a prestare ascolto e considerazione”29.

2.3. Il monumento-documento

Dezzi Bardeschi si pone nella continuità della tradizione che, da Boito in poi, prima di tutto sottolinea il valore documentale del monumento. Cioè quella tradizione, quella stessa di Riegl e di Sanpaolesi, che non accetta dicotomie tra forma e materia e privilegi speciali accordati alle istanze estetiche. Perché è la materia, sulla quale la storia si inscrive, il documento primo da conservare nella sua autenticità: “è la materia che racconta, perché ce l'ha scritto addosso, il processo per il quale è passata ogni fabbrica, anche la fabbrica più umile, e che insomma costituisce in definitiva il segno tangibile, il documento primario, su cui riposa la storicità e dunque la specificità e l'autenticità di quella fabbrica e non altre, in quel luogo e non in altro”30.

2.4. Autenticità e materia

Insomma, la materia non è affatto solo il medium di manifestazione dell’opera d’arte, ma è il veritiero testimone della sua autenticità: “l'autenticità dell'opera è quella stessa dei suoi componenti materici, ed è legata irreversibilmente proprio alla loro sussistenza hic et nunc”31. Occorre dunque conservare il monumento “non semplicemente in effigie ma nelle sue reali strutture fisiche, nei componenti materici che ne costituiscono l'irripetibile contesto specifico, unico, individuo, in cui solo consiste l'autenticità dell'opera”32.

2.5. Forma e materia

Così, portando alle estreme conseguenze la coincidenza tra valore storico e valore artistico affermata da Riegl, Dezzi Bardeschi può concludere che l’immagine non è per niente un invariante 29 Ibidem, p.92.30 Ibidem, p.169.31 Ibidem, p.108.32 Ibidem, p.53.

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immateriale, una realtà pura sottratta al divenire, ma è il risultato dello stesso il processo di degrado dell’edificio: “l'immagine estetica è tutt'altro che una costante immutabile permanente e definitiva. Altro che invariante! Anch'essa fatalmente segue, essendone il risultato, il processo biologico che subisce il contesto fisico di cui essa è veicolo di immagine”33.

2.6. Unicità e irriproducibilità dell’originale

Non si tratta dunque di perseguire il ritorno allo stato originario ma di salvaguardare l'originale in quanto documento autografo, unico e irriproducibile, in una lettura senza pregiudizi che si fa carico della processualità della fabbrica e dunque anche di fratture e discontinuità. L’architettura è una scrittura autografa: “come ogni originale una siffatta scrittura è deperibile (e peribile), ma soprattutto è irriproducibile. È l'aura dell'originale che ci parla e ci coinvolge, non l'ambito freddo della riproduzione differente che il restauro ha tentato di proporci in oltre un secolo di macabri esercizi sulla viva pelle del monumento. Nei casi migliori, alla fine, ci ha consegnato al posto dell'originale, solo inganni e ben datate esercitazioni di revival stilistico da manuale”34.

2.7. Monumento palinsesto

Occorre abbandonare le categorie di unità, originarietà ed omogeneità stilistica, in favore del concetto articolato di palinsesto, una scrittura di mondo sempre aperta a nuove e inedite trascrizioni.

Il grande libro dell’architettura è un palinsesto stratificato e in continua trasformazione dove ogni generazione continua a sovrascrivere, lasciando traccia della propria storia e del proprio passaggio.

2.8. Ripetizione e differenza

Ecco che in questa ottica anche la conservazione, persino la conservazione, è di necessità trasformazione e mutazione. In Dezzi

33 Ibidem, p.104.34 Ibidem, p.92.

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Bardeschi la denuncia contro i ripristini del «dov'era, com'era», contro i miti del ritorno all'origine, si fonda sull’affermazione di una irreversibilità di diritto, ancor più che di fatto, del processo subìto dalla fabbrica. In un mondo eracliteo dove tutto scorre e tutto si trasforma, ogni ripetizione è di principio differente.

2.9. Conservazione e ri-uso

Specificità dell’architettura è poi il fatto di essere un manufatto rispetto al quale non può essere messo in atto un atteggiamento - teoretico/estetico - esclusivamente contemplativo, avendo il suo senso in una destinazione funzionale. Sotto questo punto di vista la conservazione non può che implicare il ri-uso: senza uso non si può pretendere di conservare poiché tutto si ruderizzerebbe in modo definitivo. Per attuare una concreta ed effettiva conservazione dell'esistente occorre dunque riattivarne l’uso, un uso che può essere differente rispetto alla destinazione passata ma pur sempre compatibile, vale dire che deve implicare il minor consumo e il massimo rispetto per la raggiunta consistenza materiale della fabbrica: “per poter ri-usare cioè, bisogna conservare, anzi dimostrare di saper conservare”35.

2.10. Conservazione e progetto

Accanto alla conservazione trova quindi posto il progetto del nuovo, cioè il progetto di quelle componenti necessarie alla fruizione dell’edificio. Di più: è il progetto del nuovo che dà senso alla conservazione. Nella pratica del restauro è in gioco una partita doppia dove il rispetto integrale della fabbrica, considerata nell’autenticità materiale di documento, trova il suo irrinunciabile corrispettivo nel progetto del nuovo, secondo il principio di non sottrarre ma semmai aggiungere materia, rendendo l'aggiunta riconoscibile e denunciata come nuova: “sono convinto” - scrive Dezzi Bardeschi - “che un intervento corretto sul costruito debba procedere secondo un doppio registro: quello della conservazione (senza privilegi, né selezioni di parti) di ciò che già esiste e costituisce il risultato dell'accumulazione materica che la storia ci

35 Ibidem, p.375.

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consegna in eredità; e quello dell'innovazione ossia del nuovo apporto, autonomo che a nostra volta lasciamo impresso sulla fabbrica a testimonianza del nostro uso, del nostro passaggio”36.

36 Ibidem, p.61.

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Una lettura genealogica

3.1. Friedrich Nietzsche e l'ipotesi genealogica

Secondo la nostra personale interpretazione tutto ciò può riassumersi nell’affermazione che il restauro in quanto conservazione - così come teorizzata da Dezzi Bardeschi - rappresenta una pratica genealogica di analisi e di intervento sul costruito.

Occorre qui chiarire in che senso utilizziamo la parola “genealogia”: il nostro riferimento è il pensiero di Friedrich Nietzsche, il quale introduce tale termine per designare un nuovo approccio alla storia contrapposto alla storiografia tradizionale. Se la storiografia tradizionale crede nella esistenza di un passato in sé come totalità dell’avvenuto che l’occhio panoramico dello storico è in grado di ricostruire in modo oggettivo e distaccato, al contrario la genealogia si definisce come uno sguardo prospettico, consapevole della sua finitezza e provvisorietà, da un determinato e finito punto di vista. A quella storia che assume l’origine come verità in sé del passato e che ricerca linearità e continuità nello sviluppo storico, Nietzsche contrappone una visione che è piuttosto attenta ai punti discontinuità, che sostituisce la continuità con la dispersione, la ricerca dell’origine con l’analisi dei valori. La genealogia non pretende di poter ricostruire il passato in sé con piena oggettività, ma è consapevole di esercitare un punto di vista inevitabilmente soggetto a pre-giudizi. Se poi la storia tradizionale si appoggia su una concezione del tempo come successione lineare di istanti presenti, la genealogia fa propria un’idea del tempo

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circolare in cui passato-presente-futuro entrano nel circolo della interpretazione e della reinterpretazione.

3.2. Carlo Sini: la genealogia, la scrittura, il Tempo e la Storia

Il filosofo contemporaneo Carlo Sini sviluppa in termini filosofici il tema della genealogia a partire dalla critica alla storiografia vista come riflesso del gesto metafisico - la ricerca dell’essenza, dell’ousia - a sua volta reso possibile dalla diffusione della pratica alfabetica.

La pratica della storiografia mette in opera quel peculiare sguardo verso il passato in cui il passato, reciso dalle sue radici nel mondo vissuto e dalla sua continuità con il presente, viene proiettato e distanziato in una realtà oggettiva e neutrale, in una supposta verità in sé e per sé. Fondandosi su un concetto del tempo come dato dalla successione di istanti temporali presenti potenzialmente reversibili, la storiografia si pone l’obbiettivo di trascrivere e ricontestualizzare entro la scrittura alfabetica le pratiche umane secondo un atteggiamento di disinteresse metodico la cui radice è proprio lo sguardo panoramico istituito dalla metafisica greca.

Contro questo presupposto metafisico si deve piuttosto affermare con Sini che la nostra visione del passato può avvenire solo a partire dalla domanda del nostro presente: è insomma di necessità un punto di vista prospettico. Credere di poter ricostruire la storia “così come è stata” significa illudersi di poter assumere il punto di vista degli uomini del passato, di potersi immedesimare nelle loro pratiche e nei significati ad esse collegati: ma questa retrocessione del testimone è impossibile perché “significherebbe stare in pratiche (...) che non sono le nostre, e che in quanto non sono le nostre non hanno un passato come il nostro, non vivono il passato come lo viviamo noi”37.

Si deve dunque accettare che “non c’è una cosa che è il passato; non è che ci sono delle cose che hanno la caratteristica di essere presenti, attuali, e delle cose che in loro stesse hanno la caratteristica di essere passate”. Occorre più correttamente dire che

37 Carlo Sini, Immagine e conoscenza. Le basi materiali del conoscere e l’iconismo della scrittura, CUEM, Milano, 1996, p.185.

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“le cose sono passate solo in quanto sono ripetute”. È solo sulla soglia della ripetizione che si costituisce un passato come rimando di una domanda presente, consapevole della sua differenza e distanza dal passato: “proprio perché faccio questo, perché ripeto l’altro, già questo fatto mette l’altro nel passato e mette me nella sua differenza dal passato, stabilisce una differenza nella continuità”38.

Assumere lo sguardo genealogico vuol dire rendersi avveduti del fatto che il passato è prodotto dall'atto della ripetizione, quando emerge una differenza nella continuità: “non ci sono delle cose che in loro stesse permangono (...). Non è che qualcosa di per sé si conservi. Permane in quanto viene ripetuto, e in quanto viene ripetuto viene colto anche nella sua differenza”39.

La genealogia fa inoltre propria un’idea di temporalità fondata sulla circolarità delle tre estasi temporali - passato, presente, futuro - “circolarità che esige un presente per la differenza e la distanza dal passato e che esige ancor più un futuro, perché il presente effettivamente accada nel suo tendere e intendere, facendo del passato ciò che ancora attende al varco nel futuro”40.

In termini ermeneutici “il passato accade nel presente [dell’interpretazione](…), ma esso esige il futuro per il suo senso e compimento (…). Letteralmente: non c’è passato senza futuro; non può accadere il passato (l’accaduto) se non accade anche il futuro. (…) Passato e futuro si confrontano e si tra-ducono; essi operano lo scambio dell’aver già nell’aver da, della provenienza e della destinazione”41.

Ecco che, se pure in modo non del tutto consapevole, nella pratica del restauro intesa come conservazione e progetto, Dezzi Bardeschi applica al campo dell’intervento sul costruito esistente un habitus genealogico così come lo abbiamo fin qui delineato, trasformando il restauro da mero esercizio tecnico a esperienza etica della domanda, in-cidente e pro-cedente, sulla verità della storia. Il restauro, inteso così come pro-gressiva pratica di

38 Ibidem, p.180.39 Ibidem, p.181.40 Carlo Sini, presentazione al nostro Genealogia e progetto. Per una riflessione filosofica sul problema del restauro, FrancoAngeli, Milano, 2006, p.9.41 Carlo Sini, Il silenzio e la parola, Luoghi e confini del sapere per un uomo planetario, Marietti, Genova, 1989, p.78.

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conservazione, non si esaurisce in un nostalgico ed illusorio sguardo al passato, né in una nevrotica coazione a ripetere, ma, come la genealogia, “è consapevole di non restituire il passato com'era, ma quel passato che accade qui, come effetto retroattivo della differenza presente”42.

Per Dezzi Bardeschi prendere atto della permanenza significa comunque e sempre innescare una trasformazione, un progetto. Ma di quale senso del progetto parla Dezzi Bardeschi?

3.3. Enzo Paci: il progetto come metamorfosi nella permanenza

Per rispondere ci rivolgiamo al pensiero filosofico di Enzo Paci che ha dedicato negli anni Sessanta importanti riflessioni al tema del progetto d’architettura. Paci sostiene che ogni progetto di necessità si sostanzia della memoria del passato - “ogni passo in avanti è la riconquista di un passato; ogni slancio verso il futuro è un temps retrouvé”43 - ma, contemporaneamente, la memoria del passato non è un dato fisso ed oggettivo, un’identità costante e permanente. Essa muta nel momento stesso del suo presentificarsi nel progetto, nell’atto stesso del “riprendersi del passato e [del] suo radicale rinnovamento nel presente per il futuro”44.

Il senso autentico del progetto è quindi quello di una metamorfosi nella permanenza, quella Mutuomorphomutation, che Paci riconosce come la chiave di lettura del Finnegans Wake di Joyce: “nel ri-corso può essere spezzata la tradizione può essere dato alla storia un nuovo senso nell’attuarsi di una nuova realtà. (…) la chiave per ripresentificare il passato nel presente secondo un senso nuovo del futuro”45.

Ecco che progetto e conservazione si trovano sulla stessa linea che nello stesso tempo separa e unisce passato e futuro: la soglia di una memoria che ha dunque carattere dinamico e progettuale. Memoria e progetto sono il medesimo, situati su quello stesso

42 Carmine Di Martino, Grammatica e pragmatica del messaggio, CUEM, 1996, p.179.43 Enzo Paci, Fenomenologia e architettura contemporanea, in “La Casa”, 1958, ripubblicato in Relazioni e significati, vol. III, Critica e dialettica, Lampugnani Nigri editore, Milano, 1966, p.197.44 Enzo Paci, A cominciare dal presente, in “Questo e altro”, n.2, 1962, ripubblicato in Relazioni e significati, vol. III, Critica e dialettica, op.cit.p320.45 Ibidem, p.321.

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limite in perpetuo movimento tra passato e futuro: “questi due orizzonti non disegnano due realtà in sé, il passato e il futuro, la provenienza e la destinazione, ma disegnano un limite: quel punto di incontro in quanto limite in cui accade il passato e il futuro, la provenienza e la destinazione, e questo gioco si riproduce in ogni inizio”46. Il progetto è dunque quel limite mobile che distanzia ma nello stesso tempo unifica come due metà symballiche la provenienza e la destinazione, la fatticità dell’esser gettati e le possibilità del divenire.

3.4. Restauro come pratica genealogica ed etica del progetto

La conservazione, così come la pratica Dezzi Bardeschi, in quanto consapevole pratica genealogica di una domanda pro-gettante verso il passato, si colloca proprio su quella soglia oscillante e in perpetuo movimento che è il luogo proprio del progetto come luogo della mutuomorphomutation. In questo senso possiamo dire che la conservazione costituisce un’etica del progetto.

Come già altrove abbiamo sostenuto, in tale prospettiva i monumenti ed le architetture non sono spazi fisici in sé con un passato in sé, ma luoghi di relazione e di memoria, la cui identità non è il semplice risultato dell’accumulo della totalità degli accadimenti della loro storia. La loro identità non è stabile ma muta in funzione della trasformazione del loro passato ad opera di una memoria che è già un “in vista di”, è già un progetto; la loro identità è un processo, una “permanenza flessibile”, è “l’onda circolare e mobile” del tendere e dell’intendere, dell’aver interpretato in funzione di un aver da interpretare; è l’emergenza di una differenza nella continuità, di una mutazione nella permanenza; la loro identità è la traccia di un limite in oscillazione tra le due metà symballiche del passato e del futuro.

Ecco il senso dello schema che abbiamo proposto all’inizio: conservazione e progetto sono il medesimo e insieme stanno sulla linea che - come la linea sul foglio mezzo rosso e mezzo blu dell’esempio di Peirce, non è né rossa né blu, ma è sia rossa che blu - divide ma unifica conservazione e progetto, permanenza e

46 Carlo Sini, Archivio Spinoza. La verità e la vita, Edizioni Ghibli, Milano, 2005, p.53.

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mutazione, continuità e frattura, tradizione e innovazione, identità e differenza, passato e futuro, provenienza e destino.

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4.La pratica della conservazione

Ora non ci rimane che vedere come queste premesse teoriche vengano declinate nella pratica dell'intervento restaurativo. L’illustrazione di esempi di restauri da condotti Dezzi Bardeschi (alcuni dei quali mi vedono in veste di collaboratore), sarà utile a chiarire ed esemplificare il suo approccio metodologico.

4.1. Il rilievo per la conservazione

Il punto di partenza ed il primo passo preliminare ad ogni intervento di restauro è il rilievo. Il rilievo fornisce la necessaria conoscenza dello stato esistente del manufatto sul quale si deve intervenire.

Il rilievo per la conservazione non si limita ad una restituzione geometrica dell’edificio ma indaga lo stato di degrado dell’edificio, le patologie sofferte dai suoi materiali. Accanto al rilievo geometrico è dunque necessario produrre un rilievo materico-patologico nel quale sono evidenziati i differenti materiali di cui è composta la fabbrica, le loro forme patologiche e le cause del degrado. Ciò è evidentemente necessario per impostare un progetto di conservazione che è essenzialmente mirato a conservare la materia eliminando preliminarmente le cause del degrado.

Si tratta di un rilievo minuzioso, palmo a palmo, dell’edificio, che si applica anche alle parti più nascoste della costruzione e a quelle parti che certa pratica comune vede come elementi sacrificabili, come le coperture e i pavimenti. Nel caso del capannone del Bastione Borghetto a Piacenza, ad esempio, il rilievo

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esteso dalle capriate lignee alla orditura primaria e secondaria e al tavolato di copertura, in abbinamento all’esecuzione di una prova di carico, ha permesso, con minimi interventi di fasciatura, la conservazione integrale delle strutture che erano state già condannate alla demolizione e rifacimento. Un altro esempio che mostra il livello di dettaglio raggiunto è il rilievo della pavimentazione della galleria di testa della Stazione di Santa Maria Novella a Firenze: per ciascuna pietra in opera nel pavimento è annotata nel disegno ogni minima lesione, permettendo così l’esatta valutazione degli interventi conservativi da effettuare.

Il rilievo materico è uno strumento necessario di conoscenza anche nel caso di interventi a scala urbana come è il caso dell’intervento pilota di conservazione del centro storico di Certaldo dove il rilievo materico è stato esteso a tutti gli edifici del centro urbano, permettendo una restituzione completa dello stato di fatto delle sezioni dell’edificato esistente. La medesima attenzione riservata al rilievo dei monumenti viene dunque dedicata alla lettura dell’edificato non monumentale, come gli edifici industriali insistenti su quelle che volgarmente vengono definite, con un appellativo che è già una condanna, le aree dimesse: è il caso dei padiglioni delle Officine Galileo a Firenze od anche delle campagne di rilievo condotte, dagli studenti dei corsi di Dezzi Bardeschi presso il Politecnico di Milano, sul patrimonio dell’archeologia industriale del quartiere Bovisa.

Se fino agli anni Novanta il ridisegno della lettura materico-patologica dell’edificio veniva pazientemente eseguita a mano, a matita o a china (come ad esempio per i rilievi del Palazzo della Ragione di Milano, della Rocca di Novellara, della Villa Rusconi a Castano Primo), l’evoluzione e la diffusa disponibilità delle strumentazioni informatiche e digitali ha messo a disposizione nuove modalità di restituzione grafica attraverso la combinazione della fotografia digitale e dei programmi di cad e grafica. Il rilievo fotografico, attraverso rapide procedure di raddrizzamento, può diventare il supporto stesso della lettura materico-patologica, come è il caso degli elaborati di rilievo della Castiglia di Saluzzo o del Tempio Duomo di Pozzuoli.

Il rilievo per la conservazione, nell’attenzione ai punti discontinuità e alla successione delle stratificazioni, si viene in

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sostanza avvicinando alla lettura archeologica, come ad esempio quella effettuata sui pavimenti e sull’elevato di alcuni locali al piano terra del Palazzo Comunale di Modena e preliminare all’intervento di realizzazione di un nuovo ingresso.

4.2. Il progetto di conservazione

Questa attenta lettura dell’esistente, che è già dunque una lettura del degrado orientata verso la conservazione, fornisce la base per la redazione del progetto.

Ecco che le tavole di rilievo offrono il supporto alle indicazioni di intervento, in generale essenzialmente di pulizia, consolidamento e protezione, essendo ridotte al minimo necessario le sostituzioni. Le tavole di progetto appaiono caratterizzate da una fitta tessitura di descrizioni scritte che sintetizzano, in relazione ad ogni diverso materiale e patologia individuati, le operazioni previste nelle indicazioni più diffuse delle schede del capitolato speciale dei lavori.

4.3. La materia

Primo obiettivo del progetto di restauro è per Dezzi Bardeschi la conservazione della materia, di quella materia sulla quale si iscrive la storicità del documento architettonico. È la materia che racconta: è lei il primo testimone della storia della fabbrica.

Così ad esempio sui muri nel Palazzo della Ragione di Milano rimangono visibili, anche dopo l'attuazione dell'opera di conservazione, le spie in gesso poste all’inizio del Novecento per monitorare i dissesti; e quei segni di scalpellatura del paramento in mattoni e della cornice ad archetti rimangono testimoni dell’intoncatura e della modanatura settecentesca poi rimosse negli interventi di restauro alla fine dell’Ottocento.

Sulle pareti interne del salone invece rimane nel suo aspetto lacunoso il palinsesto degli affreschi, le cui stratificazioni testimoniano dei diversi usi che si sono succeduti nel corso del tempo. Con la stessa attenzione archeologica sono state messe in luce e salvaguardate anche alcune scritte anonime, eco e voce lontana della mano autografa che qui le ha lasciate incise.

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4.4. Il cantiere

I cantieri di restauro di Dezzi Bardeschi rappresentano in prima istanza luoghi e momenti di studio dell’edificio, dove si completa il quadro delle informazioni necessarie all’intervento. Ad esempio, sia nel caso del restauro del Palazzo della Ragione di Milano che in quello della Manica Lunga della Biblioteca Classense di Ravenna, sono state effettuate misurazioni dello stato di sforzo della muratura con l’uso di martinetti piatti, strumenti solo minimamente invasivi impiegati in precedenza nel campo delle indagini geologiche.

Bandita ogni opera di demolizione, nei cantieri di restauro di Dezzi Bardeschi non avvengono operazioni generalizzate di sostituzione ma si attuano esclusivamente interventi di consolidamento strutturale e di pulizia, consolidamento e protezione dei materiali. Le immagini relative al Palazzo Gotico di Piacenza testimoniano l’intervento di consolidamento della copertura con smontaggio, pulitura e rimontaggio del manto in coppi e che mantiene in opera le strutture lignee esistenti.

La documentazione fotografica che illustra i lavori svolti sui paramenti in pietra della Stazione di Santa Maria Novella a Firenze mostra nel dettaglio le tecnologie impiegate negli interventi di pulizia, come gli impianti di lavaggio con nebulizzazione di acqua deionizzata e l’applicazione di impacchi di argilla assorbente per eliminare le macchie più resistenti, e documenta le operazioni di riposizionamento e la riadesione delle parti in fase di distacco tramite iniezioni di resine epossidiche con minime reintegrazioni mediante tassellature delle lacune. La sostituzione dei materiali in opera viene effettuata solo nei situazioni estreme come è stato il caso delle lastre della pavimentazione della galleria della stazione, eccessivamente lesionate e parzializzate e perciò irrecuperabili.

Le tecniche di pulizia e consolidamento non sono applicate ai soli paramenti in pietra ma ne è esteso l’impiego anche ai rivestimenti ad intonaco: è il caso dell’intonaco settecentesco del sopralzo del Palazzo della Ragione di Milano che è stato mantenuto nel suo stato lacunoso con interventi di riadesione, sigillatura dei bordi, pulizia, consolidamento e protezione delle superfici.

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La conservazione coinvolge anche le parti di corredo tradizionalmente considerate secondarie, e perciò sacrificabili e sostituibili, come gli infissi: così è stato per i grandi oculi settecenteschi nel sopralzo del Palazzo della Ragione di Milano come per i più recenti serramenti in legno del capannone di Bastione Borghetto a Piacenza che sono stati sottoposti ad interventi di pulizia, scartavetratura, ridipintura, puntuali reintegrazioni, sostituzione delle ferramenta e applicazione, con listelli fermavetro riportati, di nuovi vetri isolanti.

4.5. Bestiari e cosmogonie

Al progetto di conservazione si accompagnano, laddove occorrano, le integrazioni necessarie a permettere la continuità d’uso dell’edificio. Gli interventi di reintegrazione sono il campo di applicazione del progetto del nuovo che per Dezzi Bardeschi non è mai mimetico rispetto all’esistente. Il nuovo deve denunciarsi come tale, entrando in positivo dialogo con l’antico. In una disposizione che lo avvicina all’Alberti, Dezzi Bardeschi fa delle motivazioni simbolico-narrative la riconoscibile cifra personale dei suoi interventi.

Per la sala del Palazzo della Ragione di Milano, ad esempio, il riferimento è l’Uovo di Zoroastro sul cui impalcato astrologico costruisce la scansione degli elementi di arredo.

Cosmogonie e bestiari abitano costantemente i progetti di Dezzi Bardeschi, che si esprime con segni architettonici densi di significati geroglifici ed ermetici. Così avviene per le integrazioni della pavimentazione della sala del Palazzo della Ragione e per il portico dell’adiacente Casa Panigarola a Milano, ma anche per la realizzazione della nuova pavimentazione della Manica Lunga della Classense di Ravenna. La ricerca di un filo narrativo-simbolico che riconnetta la testimonianza del nostro tempo alla voce degli antichi ritorna anche negli studi per il Parco delle Cascine a Firenze o per gli interni ed esterni della Villa degli Imbarcati a Santomato, in provincia di Pistoia. Talora l’intervento progettuale di Dezzi Bardeschi è coordinato con quello di un artista alla cui mano è delegata la realizzazione di un preciso programma iconologico: così è avvenuto per la Villa degli Imbarcati, dove Dezzi Badeschi ha

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coinvolto vari esecutori, tra i quali Diego Esposito, per le pavimentazioni di alcune sale interne, Vittorio Locatelli, per le decorazioni di esotici gabinetti, il belga Gabriel Pirlet per la realizzazione della grotta marina.

Il richiamo ad elementi simbolici, astrali e astrologici è ricorrente nelle opere eseguite con la collaborazione di Vittorio Locatelli. Così nel nuovo ingresso al Palazzo della Comunità di Modena la lettura archeologica dell’esistente si accompagna all’intervento artistico sulla volta, in cui è fissata la posizione dei pianeti nel giorno della Liberazione della città.

4.6. Il riuso

Per Dezzi Bardeschi, lo abbiamo visto, il riuso - compatibile - è necessario e complementare alla conservazione ed implica l’inserimento di nuovi elementi. Talora il progetto del nuovo è richiesto dalle mutate esigenze funzionali, come è stato il caso dell’altare della chiesa di San Francesco ad Arezzo dove i cambiamenti nella liturgia avevano posto l’esigenza di adeguare la disposizione dell’altare. La scelta di Dezzi Bardeschi era stata qui di intervenire in un contesto storico-monumentale (con la sostituzione del pastiche pseudogotico esistente datato 1931) con una articolata piattaforma “che intervenisse puntualmente a ristabilire il perduto baricentro corale”47. Su sollecitazione di Cesare Brandi, l’intervento fu giudicato, con pregiudizio antimoderno, irrispettoso del contesto e successivamente demolito. Credo che l’esperienza negativa di Arezzo sia una delle spine nel fianco della carriera progettuale di Dezzi Bardeschi, insieme al triste epilogo del progetto di recupero, a museo d’arte contemporanea, dei padiglioni delle Officine Galileo a Firenze Rifredi, che gli procurò una denuncia penale - poi rivelatasi infondata - da parte di uno dei colleghi con cui aveva sviluppato il progetto, che, incaricato della direzione lavori, aveva accusato Dezzi Bardeschi di connivenze con l’impresa esecutrice per essere entrato, senza autorizzazione, nel cantiere per verificare

47 Marco Dezzi Bardeschi, Un acceleratore delle relazioni sacre, in Marco Dezzi Bardeschi, Giovanni Battista Bassi, Il futuro della memoria, Massa, 1972.

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l’andamento dei lavori e la loro corrispondenza con il progetto approvato.

Il programma di riuso del Palazzo della Ragione di Milano come sala espositiva e salone di rappresentanza ha comportato l’inserimento dei nuovi elementi impiantistici per il riscaldamento e l’illuminazione. Dezzi Bardeschi qui progetta una scocca addossata alle pareti nei quali fa passare in esterno tutta la dotazione impiantistica, azzerando così le demolizioni per la realizzazione di tracce nella muratura. La teoria dei nuovi elementi di arredo - in cui si alternano sedute e piani d’appoggio - viene, tra l’altro, a coprire una fascia di muro non decorata, risultato dell’abbassamento della quota del solaio della sala avvenuto quando, con il nuovo sopralzo, il salone era stato trasformato in archivio notarile.

Abbiamo già sottolineato come tutti gli interventi di Dezzi Bardeschi siano motivati da un richiamo narrativo, da una simbologia o un rimando alla storia passata dell’edificio. Così anche per i corpi illuminanti del salone sceglie la forma di pennino, a ricordare - rappresentando la penna l’elemento simbolico dell’attività del notaio - l'ultima destinazione ad archivio notarile del grande salone.

L’intervento di conservazione del Palazzo della Ragione è stato poi completato della realizzazione di una scala di sicurezza, per la quale Dezzi Bardeschi ha dovuto attendere più di venti anni. La scala, nelle sue varie versioni, è interpretata come elemento tecnologico autonomo ed il più possibile trasparente, che permette inedite viste del paramento murario, del portico e del contesto urbano: ne viene fuori una sorta di macchina d’assedio, composta da un pennone principale al quale è appesa, tramite bracci ad albero, una trave scatolare a C che regge tutto l’impalcato dei gradini in vetro. Il tema delle scale-macchine d’assedio è uno schema ricorrente utilizzato anche per il palazzo Gotico di Piacenza e per il nuovo ingresso - non realizzato - della Castiglia di Saluzzo, dove invece è stato realizzato l’inserimento di nuovo blocco degli impianti con la centrale termica, interpretata come una sorta di nave.

Alla Classense di Ravenna Dezzi Bardeschi progetta un sistema integrato di pannelli espositivi e illuminazione, una nuova scala in cui sono reiterati simboli astrali e cosmologici e, al piano

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ammezzato, l’ampliamento della biblioteca con l’apertura e il consolidamento con strutture metalliche delle arcate che diventano veri e propri elementi di arredo.

Anche l'intervento di conservazione del Bastione Borghetto a Piacenza è stato accompagnato da un progetto complessivo di riuso, ai fini del quale Dezzi Bardeschi, oltre a prevedere la riattivazione a destinazione pubblica di tutti gli edifici esistenti, ha progettato nuovi elementi di arredo urbano a corredo funzionale dell'esistente, ridisegnando le pavimentazioni e nuovi diaframmi in muratura, un belvedere porticato, un balconcino di affaccio sul vallo esterno. Ha infine mantenuto, riprogettandoli, due capannoncini aggiunti in periodo moderno, non mancando di suscitare aspre polemiche tra i “puristi” del restauro.

Terminiamo la nostra carrellata con un cenno al Tempio-Duomo di Pozzuoli, il cui progetto di restauro dovrà essere completato dalla sistemazione della zona della canonica con il nuovo campanile. Anche in questo caso Dezzi Bardeschi riattiva il richiamo ad elementi simbolici e valenze astrali, cosicché la lamiera di copertura delle campane nel nuovo campanile diventa una sorta di baldacchino, interpretato come spicchio di volta celeste: il “coelum stellatum” della notte del 21 marzo 61 d.C., allo sbarco di Paolo di Tarso.

4.7. Conclusioni

Se, in conclusione, dobbiamo definire il carattere distintivo dell’approccio di Marco Dezzi Bardeschi al tema del restauro, crediamo che stia proprio nell’impossibilità di separare il conservatore dal progettista, la pratica della buona conservazione da quella di un sensibile, personale, polisemico e poetico progetto.

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