Conservazione del Tartufo

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Conservazione del Tartufo Autori di questo volume: Elena Sorrentino*, Anna Reale**, Mariantonietta Succi*, Patrizio Tremonte*, Luca Tipaldi*, Gianfranco Pannella*, Tiziana Di Renzo**, Valeria Capilongo* * DiAAA – Università degli Studi Molise - CB ** ISA – CNR – Avellino Campobasso, 2014 Opuscolo prodotto nell’ambito della ricerca “Approcci biotecnologici per la valorizzazione del tartufo del Molise” finanziata dall’Assessorato Agricoltura, Foreste e Pesca Produttiva della Regione Molise. Responsabile scientifico: Elena Sorrentino

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Conservazione

del Tartufo

Autori di questo volume: Elena Sorrentino*, Anna Reale**, Mariantonietta Succi*, Patrizio Tremonte*, Luca Tipaldi*, Gianfranco Pannella*, Tiziana Di Renzo**, Valeria Capilongo*

* DiAAA – Università degli Studi Molise - CB ** ISA – CNR – Avellino Campobasso, 2014

Opuscolo prodotto nell’ambito della ricerca “Approcci biotecnologici per la valorizzazione del tartufo del Molise” finanziata dall’Assessorato Agricoltura, Foreste e Pesca Produttiva della Regione Molise. Responsabile scientifico: Elena Sorrentino

 

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PREMESSA

Le attività di ricerca nell’ambito della Convenzione di ricerca, finanziata dalla Regione Molise – Assessorato Agricoltura, Foreste e Pesca Produttiva, dal titolo “Approcci biotecnologici per la valorizzazione del tartufo del Molise”, CUP H35C10002980002, sono state svolte presso i laboratori di Microbiologia del Dipartimento Agricoltura, Ambiente e Alimenti dell’Università degli Studi del Molise.

Il progetto ha inteso individuare idonee tecnologie di conservazione del tartufo fresco tali da prolungarne la shelf life salvaguardandone al contempo le caratteristiche qualitative; condizioni indispensabili per garantire il raggiungimento dell’obiettivo progettuale generale indirizzato alla valorizzazione del tartufo molisano. L’estensione del periodo di conservazione del tartufo, infatti, porterebbe ovvi vantaggi economici sia ai distributori, che potrebbero commercializzare il tartufo fresco per tutto l’anno anche su mercati lontani, sia ai consumatori finali e agli estimatori del tartufo fresco, che avrebbero a disposizione il tartufo fresco in qualsiasi periodo dell’anno.

Dopo una puntuale indagine e valutazione in merito alla bontà delle tecniche di conservazione del tartufo fresco attualmente utilizzate e di quelle sperimentali riportate in letteratura, le attività progettuali sono state indirizzate verso 2 linee principali:

1. Individuazione della tecnica di risanamento più idonea del tartufo

2. Individuazione della tecnologia di conservazione più idonea per il tartufo

In dettaglio si è inteso individuare, validare e collaudare tecniche di risanamento e conservazione finalizzate al prolungamento della shelf-life delle principali specie tartufigene diffuse in Molise che comprendono sia quelle caratterizzate da un peridio verrucoso (Tuber aestivum ) sia quelle più pregiate, caratterizzate da un peridio liscio (Tuber magnatum Pico, Tuber albidum ).

A tal proposito occorre evidenziare che la quasi totalità degli studi disponibili in letteratura sul risanamento e la conservazione dei tartufi freschi è stata eseguita su tartufi neri (aventi un peridio verrucoso), geograficamente più diffusi e più abbondanti nonché reperibili ad un costo più accessibile rispetto a quelli bianchi, caratterizzati da un peridio liscio.

Le attività progettuali rivolgendo l’attenzione a tartufi sia a peridio verrucoso sia a peridio liscio hanno permesso di constatare che i tartufi devono essere trattati con tecniche differenti in base alle caratteristiche del loro peridio, condizione spesso ignorata dai ricercatori che si sono dedicati a questa tematica. Dunque, gran parte degli strumenti tecnologici ad oggi disponibili in letteratura e validati per tartufi a peridio verrucoso poco si prestano al risanamento e alla conservazione dei tartufi bianchi a peridio liscio. Pertanto, la presente azione di ricerca, soprattutto nella fase finale, ha inteso focalizzare l’attenzione proprio su questa tipologia di tartufi raggiungendo dei risultati molto incoraggianti.

 

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Parte 1. INTRODUZIONE

Il tartufo I tartufi sono funghi ipogei, ovvero sotterranei, appartenenti alla famiglia delle Tuberaceae,

genere Tuber, che vivono nel suolo in simbiosi micorrizica con le radici di piante arboree ed arbustive (figura 1).

Figura 1. Ciclo biologico del tartufo dal sito Tuber.it Il nome scientifico Tuber deriva dal latino, tuber terrae, nome con il quale gli antichi romani

chiamavano il tartufo, diventato poi in latino volgare, terri tufer o terri tufrum all’accusativo, quindi terri tuffum fino ad arrivare a tartufum, che poi si è trasformato nell’attuale termine tartufo. Nella lingua inglese il termine con il quale si identificano tali funghi ipogei è truffle, nella lingua spagnola e in portoghese trufa, in quella francese truffe (da frode collegato alla rappresentazione teatrale di Molière “Tartufe” del 1664), e in tedesco Trüffel.

Un’etimologia greca risiede nel termine indicante la scienza che studia i tartufi, nota come “idnologia” dal greco antico ὕδνον (Hydnon) termine con il quale si identificavano i funghi ipogei in simbiosi micorrizica con le radici di piante.

Il tartufo è molto apprezzato dai consumatori per le sue caratteristiche sensoriali uniche. Condizione che rende il suo commercio ampiamente diffuso, con un valore stimato in diversi miliardi di dollari, nonostante il suo prezzo possa raggiungere cifre esorbitanti tanto da essere stato definito “Black Diamond” cioè diamante nero. Commercializzato in tutto il mondo, il tartufo è prodotto principalmente nei Paesi del vecchio continente; il 90% della produzione mondiale di tartufi proviene dall’Italia, dalla Spagna e dalla Francia, ed è particolarmente degno di nota il dato secondo il quale il mercato del tartufo fresco e lavorato nel nostro Paese supera i 300 milioni di euro.

 

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Gli elementi di pregio del tartufo sono differenti spaziando dalla difficoltà di reperimento alle particolari noti sensoriali passando per i lunghi tempi necessari per l’ottenimento di un tartufo edibile, tempi che per il tartufo bianco (Tuber magnatum Pico) possono anche superare i 10 anni. La parte edibile del tartufo è rappresentata dal corpo fruttifero o carpoforo, morfologicamente costituito da una superficie esterna, il peridio, che si presenta liscio nei tartufi bianchi e verrucoso in quelli neri, e da una zona interna, definita gleba che appare carnosa, compatta e marmorizzata con venature chiare e scure che variano dal bianco al grigio, al marrone o al nero in funzione della specie. La colorazione e la striatura della gleba oltre alla specie di appartenenza è legata anche allo stato di maturazione del tartufo; in epoca precoce la gleba è decisamente più chiara, man mano che matura, la gleba acquisisce venature più scure che divengono sempre più spesse e evidenti. Il raggiungimento di uno stato ottimale di maturazione consente lo sviluppo di un odore caratteristico, dovuto principalmente a composti solforati. Questo tipico profumo penetrante e persistente ha lo scopo di attirare gli animali selvatici, che se ne cibano e diffondono nell’ambiente le spore perpetuando la specie. Proprio le caratteristiche sensoriali, arricchite di unicità ad opera dei composti volatili prodotti in fase di maturazione, sono alla base del valore commerciale dei tartufi. Per questo motivo, i composti volatili sono stati ampiamente studiati e descritti per ciascuna specie tartufigena.

Gli elementi che caratterizzano e differenziano le varie specie di tartufo sono essenzialmente caratteri morfologici come: la forma, le dimensioni, il colore del peridio, l’aspetto e il colore della gleba, e il profumo. La determinazione della specie in laboratorio avviene attraverso il riconoscimento delle spore oppure con tecniche di analisi biomolecolare.

Nel mondo le specie di funghi ipogei ascrivibili al genere Tuber sono 63, in Italia ne sono presenti 25, ma solo 9 sono considerate commestibili e 6 sono quelle più comunemente commercializzate.

I tartufi commestibili possono essere distinti in base al peridio in due gruppi differenti (figura 2):

i tartufi neri con peridio verrucoso sono: Tuber melanosporum, Tuber brumale, Tuber aestivum, Tuber mesentericum, Tuber macrosporum, Tuber uncinatum e Tuber muschatum.

i tartufi bianchi caratterizzati dal peridio liscio sono: Tuber magnatum e Tuber albidum.

Figura 2. Differenziazione dei tartufi in base al peridio

GLEBA

Peridio verrucoso

Peridio liscio

 

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Il tartufo in Molise

Il Molise è una delle regioni italiane più ricche di tartufo e in particolare di quello bianco. Il Tuber magnatum Pico, (chiamato anche Tartufo Bianco o Tartufo di Alba) è un tartufo tipicamente italiano con qualche piccola eccezione riguardante alcune aree ristrette della Croazia, della Svizzera (Canton Ticino), della Slovenia, della Serbia, della Romania, dell’Ungheria e della Francia.

Il Tartufo Bianco ha delle caratteristiche sensoriali uniche e apprezzatissime dagli intenditori di tutto il mondo, il connubio tra le sue proprietà organolettiche e la scarsa offerta fanno sì che la richiesta mondiale di questo tartufo mostri un trend in crescita esponenziale. In Italia si trova soprattutto in Piemonte, nelle Marche, in Toscana, in Emilia Romagna, in Abruzzo e in Molise, qualche esemplare è stato trovato anche in Liguria, Umbria, Lazio, Veneto, Campania e Basilicata. Si stima però che il 40% della produzione di tartufo bianco in Italia provenga dal Molise, il ruolo che riveste questa Regione su scala mondiale diviene ancora più importante se si considera come innanzi detto che praticamente l’Italia è l’unico produttore di questo tartufo.

Tuber magnatum Pico o tartufo bianco pregiato La pregevole e consistente produzione tartuficola molisana è rimasta purtroppo poco

conosciuta fino a qualche anno fa, quando il prodotto regionale andava ad incrementare mercati diversi e più famosi come quello di Alba (Piemonte), di Bagnoli Irpino (Campania), di Norcia (Umbria) o di Acqualagna (Marche); e il Molise costituiva una specie di “territorio di conquista” da parte di raccoglitori di tartufi provenienti dalle altre regioni.

 

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Da qualche anno, invece, i molisani stanno acquisendo coscienza dell’eccellenza e dell’abbondanza delle produzioni dei propri boschi e si moltiplicano iniziative finalizzate alla valorizzazione del tartufo molisano.

Le specie tartufigene più diffuse in Molise sono:

v Tuber magnatum Pico o tartufo bianco pregiato; v Tuber aestivum Vitt., o tartufo nero estivo o scorzone; v Tuber melanosporum Vitt. o tartufo nero pregiato (tartufo nero di Norcia)

inoltre si possono trovare i seguenti tartufi:

v Tuber brumale Vitt. o tartufo nero invernale o trifola nera; v Tuber brumale var. moschatum De Ferry o tartufo moscato; v Tuber mesentericum Vitt. o tartufo nero ordinario o tartufo di Bagnoli; v Tuber macrosporum Vitt. o tartufo nero liscio; v Tuber uncinatum Chatin o tartufo uncinato; v Tuber albidum Pico o bianchetto.

 

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Breve storia del tartufo

La comparsa del tartufo sulla terra risale a un’epoca antecedente alla presenza dell’homo sapiens. Probabilmente esso esisteva già 280 mila di anni fa, come viene testimoniato da alcuni fossili ritrovati prima in Piemonte e più recentemente nelle Marche. Le prime testimonianze scritte risalgono, però, ai Babilonesi e agli Egizi. Intorno al 3000 a.C. Sumeri e Babilonesi consumavano tartufi appartenenti ai generi Terfezia e Tirmania. Gli stessi di cui era ghiotto il faraone Cheope (2600 a.C.) che ne pretendeva sempre la presenza nei suoi banchetti. Questi tartufi, tipici di terreni sabbiosi, sono diffusi in Africa settentrionale e in Asia, si possono trovare anche in alcune regioni meridionali italiane (Puglia, Calabria Sicilia e Sardegna). Le terfezie o tartufi del deserto sono molto apprezzate in Siria, Libia, Tunisia, Algeria e Cipro mentre in Italia sono considerate di qualità scadente tanto da non essere incluse tra le specie di tartufo commestibili contemplate dalla Legge 752/85.

Terfezie o tartufi del deserto Nel mondo ellenico il tartufo era talmente apprezzato che gli ateniesi onoravano i figli di Keripe

per il solo fatto che il padre aveva ideato nuove ricette a base di tartufi. Ma a quell’epoca non era chiaro né che tipo di organismo fosse, Teofrasto (327-287 a.C.) nella Historia Plantarum, considerava i tartufi piante imperfette, perché privi di radici, foglie e fiori; né come nascesse. Nel primo secolo d.C., il filosofo greco Plutarco di Cheronea, immaginava che il prezioso fungo si formasse dall’azione combinata di acqua, calore e fulmini. Questa spiegazione venne ripresa da Giovenale che spiegò che i tartufi erano il frutto dei fulmini scagliati da Giove in prossimità di querce, alberi a lui sacri. Galeno, famoso medico ellenico, sostenne l’alto valore nutritivo del tartufo attribuendogli anche proprietà afrodisiache.

Anche i Romani erano consumatori ed estimatori dei tartufi ma probabilmente consumavano soprattutto le Terfezie provenienti dalla Libia, come testimoniano le parole di Plinio il Vecchio che nella Naturalis Historia, diceva: “… massimo miracolo è la nascita e la vita di questo tubero che cresce isolato e circondato di sola terra, la secca, sabbiosa e fruttifera terra della lodatissima

 

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Africa..”. E come si può evincere dal fatto che le ricette di Apicio, famoso cuoco di Traiano, riportate nel De re coquinaria, prevedevano tutte l’uso di salse con sapori forti o piccanti per insaporire dei tartufi poco saporiti e profumati quali sono appunto le Terfezie, inoltre era consuetudine bollire i tartufi prima di consumarli.

L’abitudine di cuocere il tartufo prima di consumarlo perdurò anche nel Medioevo periodo nel quale l’origine del tartufo ancora non era chiara. Risale a questo periodo la credenza secondo la quale il tartufo avesse origini demoniache, questa leggenda ebbe un tale seguito che il tartufo veniva definito come “sterco del diavolo” o “cibo delle streghe”.

Ma è con il Rinascimento italiano che il tartufo conquistò il suo posto d‘onore sulle tavole imbandite dei nobili e degli alti prelati. Il suo aroma era considerato una sorta di “quinta essenza” che provocava sull’essere umano un effetto estatico. Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, umanista del XV secolo, prefetto della Biblioteca Vaticana, scriveva: “È questo un cibo molto nutriente come crede anche Galeno, ed è un eccitante della lussuria. Perciò vien servito spesso nei pruriginosi banchetti di uomini ricchi e raffinatissimi che desiderano essere molto preparati ai piaceri di Venere”. Ma c’era ancora qualcuno che gli attribuiva proprietà negative, Baldassare Pisanelli, nel 1611, nel Trattato della natura de’ cibi et del bere, sosteneva che i tartufi “nuocciono agli umori, alla complessione e ai mali melanconici e chi troppo li usa incorre col tempo nella paralisia e fanno venire difficoltà di orinare”.

L’epoca rinascimentale rilanciò il piacere della tavola e con esso il tartufo, simbolo di ricchezza ed opulenza, che è presente nei più grandi ricettari francesi e italiani dell’epoca. Con l’inserimento del Tartufo tra i beni di lusso, in Francia, e poi nel Piemonte, nacque e si diffuse la figura del cercatore di tartufi e si svilupparono le tecniche, tenute segrete, di ricerca con le scrofe e successivamente con i cani, dotati entrambi di straordinarie capacità olfattive. La ricerca del tartufo costituiva, per la sua originalità, anche un divertimento di palazzo per cui gli ospiti dei Savoia erano spesso invitati ad assistervi.

La cultura gastronomica popolare del Mezzogiorno influenzò l’affermarsi, nel Settecento, non solo della cucina napoletana, ma anche, di una cucina Borbonica che fu esportata in tutta Europa. Con Vincenzo Corrado, celebre cuoco della Napoli del Settecento, siamo a una vera e propria svolta per quanto riguarda l‘utilizzo del tartufo nella cucina borbonica, in perfetta sintonia con quella di altre cucine europee e anticipatrice di quelle regionali. Nel suo trattato Il Cuoco Galante premetteva alle numerose ricette a base di tartufi che: “I Tartufi sono di due specie, bianchi e neri, gli uni e gli altri sono ottimi perché odorosi e sodi. Questi sono di maggior gusto dei Funghi e di maggior condimento nelle Vivande.

Tra i grandi estimatori del tartufo va annoverato il musicista Gioacchino Rossini, che lo definì “il Mozart dei funghi”. Proprio Rossini, in una lettera a un suo conoscente, difese i pregi e le virtù gastronomiche e salutistiche del tartufo: “Nessuna sostanza è paragonabile al tartufo: Aroma perfetto, inimitabile, sapore squisito, digestione facile, nutrizione più completa che con qualunque altro cibo vegetale, la natura insomma nulla rifiutò a questo fungo prezioso”.

Nonostante fosse apprezzato e amato in cucina le conoscenze scientifiche sul tartufo continuarono ad essere molto scarse, e l’origine del tartufo rimase oscura fino al XVIII secolo. Nel 1700 alcuni studiosi, Ray, Tournefort e Goffrey, si dedicarono all’osservazione e allo studio di questi funghi ipogei. Lo studio del tartufo proseguì nel 1800 con Turpin, ma si arricchì di informazioni

 

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soprattutto con Carlo Vittadini, botanico e micologo italiano, che nel 1831 nella Monographia Tuberacearum, descriveva e catalogava, in base a criteri scientifici, la maggioranza delle specie conosciute. La sua opera è considerata di fondamentale importanza nella conoscenza della sistematica del tartufo tanto che il suo nome è stato aggiunto al nome scientifico di molti tartufi, come il Tuber melanosporum Vittadini (tartufo nero pregiato), il Tuber borchii Vittadini (bianchetto). Successivamente, i fratelli botanici francesi Louis René e Charles Tulasne scoprirono la presenza del micelio dal quale si sviluppa il corpo fruttifero del tartufo e ne diedero notizia nel Funghi Hypogaei (1862). Nel 1892, Chatin, descrisse le caratteristiche botaniche del tartufo assegnandolo alla famiglia delle Tuberacee, genere Tuber.

Lo studio delle caratteristiche fisiologiche, tassonomiche ed ecologiche del tartufo è proseguito per tutto il XX secolo ma è ancora lungi dall’essere completato in quanto restano ancora diversi aspetti da chiarire.

Monographia Tuberacearum di Carlo Vittadini

 

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La filiera del tartufo E’ possibile scomporre la filiera del tartufo in quattro fasi: la prima coincide con la raccolta o la

coltivazione, segue una fase di intermediazione verso le imprese che operano la trasformazione per finire con la distribuzione che permette al prodotto di raggiungere i mercati di tutto il mondo. In alcuni casi i raccoglitori e/o i coltivatori di tartufo saltano alcune fasi della filiera cedendo il prodotto direttamente all’impresa di trasformazione o ai consumatori.

Cavatura e raccolta La prima fase della filiera o viene svolta dai raccoglitori o “cavatori” che con l’aiuto di cani addestrati cercano e “cavano” il tartufo da tartufaie naturali, oppure è legata a tartufaie coltivate. I cavatori sono generalmente abitanti del posto e ricavano dalla raccolta dei tartufi una interessante fonte di reddito. Ma ci sono anche cavatori che si spostano nelle diverse zone tartufigene d’Italia alla ricerca di siti particolarmente ricchi. I cavatori tesserati nelle diverse Provincie sono circa 100.000. L’attività di raccolta è regolamentata da opportuna legislazione nazionale e regionale che indica anche le specie commestibili, i periodi di raccolta per ciascuna specie e le modalità di rilascio dell’autorizzazione alla raccolta. Gli impianti di tartuficoltura, in Italia, sono alcune decine di migliaia, e si stima che ogni anno vengano messe a dimora oltre 100.000 nuove piantine di essenze arboree micorizzate.

Intermediazione I tartufi raccolti dai cavatori possono essere ceduti a intermediari che hanno la funzione di ammassare e selezionare il prodotto proveniente dai diversi territori e trasferirlo in quantità adeguate alle imprese di trasformazione.

Trasformazione Subito dopo la raccolta il tartufo viene pulito e calibrato, di solito ad opera dei cavatori. Questa operazione può essere svolta anche dagli intermediari, che acquistano i tartufi in blocco dai raccoglitori e provvedono a selezionare il prodotto. La lavorazione può avvenire o in piccole aziende locali a carattere artigianale, o in aziende più grandi utilizzando procedimenti industriali. I prodotti che si ottengono dalla trasformazione dei tartufi sono numerosissimi e vanno dal tartufo tritato, all’olio tartufato, a formaggi e salumi aromatizzati con il tartufo per arrivare ai liquori, cioccolato, creme ecc.

Distribuzione La distribuzione del tartufo ha una struttura piuttosto variegata. Il prodotto può giungere al cliente finale attraverso diverse modalità: a) canale diretto nel quale è il cavatore stesso a cedere il prodotto fresco ai consumatori finali o ai ristoratori; b) circuito breve nel quale il prodotto passa fresco dal cavatore alle piccole imprese locali di trasformazione; c) circuito lungo, caratterizzato da una serie di intermediari che cedono i tartufi alle industrie di trasformazione. La commercializzazione del tartufo sta assumendo un’importanza sempre maggiore per il continuo aumento della domanda. La collocazione del tartufo non presenta alcuna difficoltà se non quella di far giungere a destinazione il prodotto fresco in perfetto stato e di conservarlo con caratteristiche organolettiche inalterate.

 

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La cerca e la cavatura

Un tempo la ricerca dei tartufi veniva condotta con l’ausilio del maiale. I contadini, finito il lavoro nei campi, con il maiale al guinzaglio andavano nei boschi a cercare tartufi per arrotondare le loro entrate.

Il maiale, ha un olfatto così sviluppato da individuare il tartufo anche sotto tre metri di terra. Si utilizzava soprattutto la femmina, la scrofa, che non solo è ghiotta di tartufi quanto il maschio, ma ne è attratta ancor di più per l’odore che emanano che è molto simile ai feromoni sessuali dei maiali maschi. Il problema era riuscire ad allontanarla prima che si mangiasse il tartufo dopo averlo scovato.

La cerca dei tartufi con i maiali 1 Da tempo però l’impiego del maiale da tartufo non solo è stato abbandonato ma è stato vietato

dalla legge che recita: “La ricerca, da chiunque eseguita, deve essere effettuata con l’ausilio del cane a ciò addestrato e lo scavo, con l’apposito attrezzo (vanghetto o vanghella), deve essere limitato al punto ove il cane lo abbia iniziato”.

Oggi, dunque, i raccoglitori, che possono essere distinti in tre categorie - dilettante, occasionale eprofessionista – effettuano la cerca dei tartufi con l’ausilio di cani appositamente addestrati a individuare i tartufi senza danneggiarli. Il cane ha un fiuto meno fine del maiale ma è sicuramente più sensibile ai richiami del padrone, e non danneggia i luoghi ove crescono i tartufi concentrando lo scavo solo nel punto dove questi si trovano. Tuttavia, occorre evidenziare che il cane nel momento in cui viene a contatto con il tartufo può apportare importanti e differenti contaminazioni microbiche alla parte esterna del prodotto. E’ facilmente intuibile, pertanto, che la qualità microbiologica del tartufo, essendo legata alle diverse popolazioni microbiche che popolano gli specifici habitat in cui si                                                                                                                          1  Immagine scaricata dal blog  http://www.andareatartufi.com  

 

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trovano e alle popolazioni microbiche apportate dagli animali impiegati per la cerca, risulta fortemente variabile. Il tartufo, dunque, è generalmente popolato da una ricca e variegata comunità microbica che comprende sia popolazioni microbiche responsabili del deterioramento del prodotto sia popolazioni microbiche potenzialmente patogene per il consumatore. Condizione che impone l’individuazione di opportune strategie tecnologiche sia di risanamento sia di conservazione del tartufo.

Locandina Fiera del tartufo bianco, Isernia 2011

 

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Normativa sulla raccolta del tartufo in Molise In Italia la normativa di riferimento per tutto ciò che concerne i tartufi è la legge n. 752 del 16

dicembre 1985, “Normativa quadro in materia di raccolta, coltivazione e commercio dei tartufi freschi o conservati destinati al consumo” modificata in alcuni sui punti dalla legge n. 162 del 17 maggio 1991.

La legge disciplina sia le specie tartufigene destinate al consumo fresco, sia le modalità di raccolta, sia le modalità di lavorazione e di commercializzazione del tartufo conservato. La legge nazionale dà solo un’indicazione di massima dei periodi nei quali è autorizzata la raccolta di ciascuna specie tartufigena demandando alle Regioni l’emanazione di specifici calendari di raccolta.

Nell’allegato 1 della legge 752/1985 sono riportate le caratteristiche botaniche e sensoriali delle 9 specie di tartufi commerciabili in Italia. Le terfezie non sono incluse nell’elenco, ma il loro consumo è comunque ammesso in deroga da leggi regionali di alcune regioni meridionali, dove questi funghi ipogei sono tradizionalmente raccolti da secoli.

Nell’allegato 2 della legge 752/1985 è riportata la classificazione dei tartufi conservati

Allegato 2

 

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In Molise la raccolta del tartufo è disciplinata dalla Legge Regionale n. 18 del 10 agosto 2006 che all’articolo 8 – Calendario di raccolta - così recita:

1. Sul territorio della Regione Molise la ricerca e la raccolta dei tartufi è consentita esclusivamente nei seguenti periodi: a) Tartufo nero pregiato (T. Melanosporum Vitt.) dal 15 novembre al 15 marzo; b) Tartufo bianco (T. magnatum Pico) dal 15 ottobre al 31 dicembre; c) Tartufo d'estate o scorzone (T. aestivum Vitt.) dal 1° giugno al 30 agosto; d) Tartufo bianchetto o marzuolo (T. borchi Vitt. o T. albidum Pico) dal 15 gennaio al 31 marzo; e) Tartufo nero d'inverno o trifola nera (T. brumale Vitt.) dal 1° gennaio al 15 marzo; f) Tartufo moscato (T. brumale var. Moscatum De Ferry) dal 1° dicembre al 15 marzo; g) Tartufo uncinato (T. uncinatum chatin) dal 15 ottobre al 31 dicembre; h) Tartufo nero liscio (T. macrosporum Vitt.) dal 15 ottobre al 31 dicembre; i) Tartufo nero ordinario (T. mesentericum Vitt.) dal 15 ottobre al 31 gennaio.

2. La ricerca e la raccolta dei tartufi è vietata nei mesi di aprile-maggio e settembre e comunque, benché nel periodo autorizzato, da un'ora dopo il tramonto ad un'ora prima dell'alba. La ricerca è altresì vietata nella giornata del sabato, tranne che nelle tartufaie controllate e coltivate.

3. Le Amministrazioni Provinciali possono variare il calendario di raccolta per aree comprensoriali, anche in considerazione delle condizioni pedo-climatiche, previo parere espresso, nelle more dell'istituzione del Centro di cui all'art. 4, comma 10, dal Centro sperimentale di tartuficoltura di Sant'Angelo in Vado o dal Centro dello studio della micologia del terreno del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Torino.

4. È vietata comunque ogni forma di commercio delle varie specie di tartufo fresco nei periodi in cui non è consentita la raccolta.

5. Le Amministrazioni Provinciali, in quei territori in cui si rilevi l'alterazione dei fattori che permettono la riproduzione del tartufo, possono, per determinati periodi, consentire o limitarne la ricerca e la raccolta. Le stesse provvedono a dare comunicazione alla Regione e danno pubblicità alle limitazioni anche mediante manifesti nei Comuni e nelle zone interessate".

 

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Conservazione del tartufo fresco La conservazione del tartufo fresco pone indubbi problemi ascrivibili principalmente al breve periodo di raccolta e alla sua limitata serbevolezza dopo la raccolta. Anche se vengono raccolti nelle migliori condizioni, lo stato di grazia dei tartufi non dura a lungo, e in breve tempo vanno incontro a processi biochimici naturali che li rendono meno consistenti e che provocano un decadimento delle caratteristiche aromatiche. L'elevata deperibilità è legata anche all’eterogenea comunità microbica presente sin dalla raccolta sulla superficie del tartufo, che proviene dall’ambiente terricolo nel quale il tartufo compie il suo ciclo vitale.

D’altro canto il valore economico elevatissimo, in particolare del tartufo bianco, permette considerare anche l’impiego di sistemi di conservazione costosi improponibili per altri prodotti alimentari. Allo stato attuale sono state sperimentate differenti strategie di confezionamento e trattamento, ma l’industria non dispone ancora di validi approcci in grado di garantire un’adeguata shelf-life del prodotto fresco. I tartufi freschi di buono aspetto e pezzatura sono conservati solitamente per un periodo massimo di venti giorni a basse temperature, mentre tartufi difettosi, pezzetti e tritume sono sottoposti a processi di trasformazione che conducono alla realizzazione di paste o conserve. Si sente quindi l’esigenza di trovare metodi che permettano di prolungare la conservazione del tartufo fresco mantenendone inalterate le caratteristiche qualitative. La tutela dei caratteri sensoriali del tartufo durante la conservazione è sicuramente un aspetto di primaria importanza, ma non può prescindere dalla sicurezza microbiologica. Gli interventi tecnologici e biotecnologici studiati negli ultimi anni dalla comunità scientifica riguardano essenzialmente tecniche di risanamento, decontaminazione e conservazione del tartufo in condizioni refrigerate e/o di atmosfera modificata. Negli ultimi anni diversi gruppi di ricercatori in Italia e all’estero sono impegnati in attività di ricerca al fine di individuare tecnologie innovative volte a prolungare la shelf-life di prodotti altamente deperibili come il tartufo fresco. Tra le tecnologie fino ad oggi proposte vanno menzionati: l’irraggiamento, il confezionamento in atmosfera modificata, gli ultrasuoni, l’active packaging e la bioconservazione. Diversi studi, tra i quali alcuni svolti presso il DiAAA, hanno dimostrato gli effetti positivi delle radiazioni ionizzanti sul tartufo fresco estivo (T. aestivum) il cui utilizzo influisce sulla riduzione del deterioramento

 

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e sul prolungamento del tempo di conservazione, senza apportare significative modificazioni nutrizionali o organolettiche sul prodotto. La tecnica dell’irraggiamento, inoltre, permette di ottenere, restando entro certi limiti di dose radiante, il risanamento dell’alimento, con riduzione dei rischi di tossinfezioni alimentari. Tuttavia bisogna attentamente valutare la dose utile, strettamente correlata alla tipologia di prodotto e finalizzata alla riduzione delle cariche dei microrganismi bersaglio. Inoltre tale approccio è in contrasto con le attuali preferenze del consumatore, che predilige alimenti sani, salubri, freschi e privi di contaminanti chimici, biologici e fisici. Negli ultimi anni ha trovato grande diffusione il confezionamento in atmosfera modificata o protettiva (MAP) al fine di contenere lo sviluppo dei microrganismi contaminanti e, di conseguenza, di rallentare il processo di deperibilità del tartufo fresco. Alcuni studiosi spagnoli hanno osservato che l’impiego della MAP con film micro perforati, che raggiungono concentrazioni di gas interni all’atmosfera di circa il 10% di O2 e del 10% di CO2, e la refrigerazione a temperature di 4°C possono rappresentare un’interessante prospettiva per la conservazione del tartufo fresco. In queste condizioni sono stati osservati un decremento delle cariche dei gruppi microbici deterioranti, un minor calo peso, una maggiore compattezza della tessitura dei tartufi e un ritardo nell’ammuffimento senza la comparsa di odori e sapori anomali. Particolare interesse ha suscitato anche l’impiego di composti naturali tra cui oli essenziali, estratti vegetali e metaboliti microbici per la conservazione degli alimenti freschi e soprattutto per quelli a elevato valore economico e facilmente deperibili. Altra strategia che è oggetto di numerose sperimentazione consiste nell’impiego di colture microbiche protettive che distribuite sul prodotto o inglobate nel materiale utilizzato per il confezionamento sono in grado di ostacolare lo sviluppo sia dei patogeni sia dei microrganismi che provocano alterazioni. Infine, negli ultimi anni, l’industria alimentare ha scoperto che gli ultrasuoni possono avere una vasta gamma di applicazioni nel settore della trasformazione dei prodotti alimentari. La sonicazione da sola, però, non è molto efficace nell’inattivare i microrganismi presenti negli alimenti, tuttavia i risultati ottenuti abbinando alla sonicazione l’utilizzo di altre metodologie di conservazione sono risultati piuttosto incoraggianti.

 

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Parte 2. IL PROGETTO

Individuazione delle tecniche di risanamento I tartufi sono funghi che non solo si sviluppano sottoterra ma per di più sono raccolti con l’aiuto di cani, quindi, sono sicuramente abbondantemente contaminati da una eterogenea e considerevole comunità microbica composta sia da microrganismi che incidono fortemente sul decadimento dei parametri qualitativi del tartufo durante la conservazione, sia da microrganismi patogeni che possono ingenerare malattie nel consumatore (figura 1).

Figura 1. I principali gruppi microbici presenti sui tartufi appena raccolti

 

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Foto 1. Fotografia al microscopio elettronico a scansione della parte esterna di tartufi appena raccolti, sono visibili numerose cellule microbiche A conferma di quanto affermato in questo studio i tartufi analizzati, sia quelli bianchi sia quelli neri sono risultati fortemente contaminati in superficie, come si vede nel grafico riportato in figura 2 e nelle foto al microscopio elettronico a scansione. Questa contaminazione solleva forti dubbi relativamente alla qualità microbiologica ed igienica dei tartufi. Infatti, livelli di contaminazioni microbica di tale entità poco si conciliano con un prodotto che viene solitamente consumato crudo.

Figura 2. Microrganismi in tartufi prima (TQ) e dopo (SL) il lavaggio e lo spazzolamento

 

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Dai risultati ottenuti in questa ricerca emerge che semplici e attente azioni di pulizia, quali lo spazzolamento e il lavaggio in acqua sterile permettono un importante miglioramento della qualità microbiologica del tartufo consentendo una riduzione di oltre il 90% dei microrganismi contaminanti. Ma come è possibile apprezzare dalla figura 2 questo trattamento non è assolutamente efficace nel risanare i tartufi, infatti, poiché partiamo da contaminazioni molto elevate nonostante una riduzione del 90% permangono cariche microbiche molto importanti che in alcuni casi si attestano su decine di milioni di microrganismi per g di tartufo che, è da ricordare, spessissimo si consuma crudo. Quindi bisogna adottare una vera strategia di decontaminazione per rendere il tartufo sicuro al consumo. In letteratura sono disponibili studi che evidenziano l’efficacia di differenti trattamenti decontaminanti. Risultati positivi sono stati evidenziati dall’applicazione di ultrasuoni e composti antimicrobici. L’impiego di etanolo al 70% ha mostrato un risanamento ottimale del tartufo a peridio verrucoso (Tuber aestivum) consentendo di prolungarne la shelf-life con il mantenimento dei caratteri sensoriali relativi sia all’aroma sia alla struttura del tartufo. Risultati interessanti nel contenimento dei microrganismi sono stati evidenziati anche dall’uso di composti fenolici, in particolare dell’acido gallico. In questa ricerca è emerso che mentre questi strumenti di risanamento hanno confermato la loro efficacia nella decontaminazione di tartufi a peridio verrucoso (T. aestivum), alcuni poco si prestano al trattamento dei tartufi a peridio liscio quali il tartufo bianco pregiato (T. magnatum pico) e il bianchetto (T. albidum pico). Per esempio, il trattamento con etanolo (SE e SEH), pur consentendo un buon risanamento microbico dei tartufi a peridio liscio, come riportato in figura 3, ha determinato un sensibile detrimento dei caratteri sensoriali, soprattutto quelli olfattivi.

 

 Figura 3. Presenza di microrganismi in Tuber magnatum prima (TQ), dopo lavaggio e spazzolamento (SL), e dopo il risanamento con etanolo (SE), etanolo e acqua ossigenata (SEH) e ultrasuoni (US)

0  

1  

2  

3  

4  

5  

6  

7  

8  

9  

10  

log  UFC/g  

TQ  

SL  

SE  

SEH  

US  

 

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Tale effetto sfavorevole è da ascrivere alle caratteristiche strutturali del peridio dei tartufi bianchi che, essendo meno resistente, consente la penetrazione dell’etanolo anche all’interno della gleba. L’eccessiva penetrazione dell’etanolo all’interno della gleba e la sua permanenza durante la conservazione provoca lo sviluppo di odori sgradevoli con conseguente alterazione e peggioramento dei caratteri sensoriali e olfattivi. Le caratteristiche sensoriali dei tartufi sottoposti alle prove sperimentali sono state valutate utilizzando la scheda di valutazione riportata in tabella 1.

Tabella 1. Scheda di valutazione per l’analisi sensoriale dei campioni di tartufo

Punteggio Consistenza Colore Aroma 5 Duro Gleba scura con striature ben definite Pieno aroma tipico

4 Moderatamente duro

Gleba marrone chiaro con striature meno nitide

Aroma moderatamente pieno

3 Moderatamente soffice

Gleba marrone chiaro con striature appena visibili Aroma moderato

2 Soffice Gleba chiara, assenza di striature Aroma leggero 1 Inaccettabile Colore anomalo Odore non tipico

Poco soddisfacente è risultato, per i tartufi bianchi, anche l’impiego di acido gallico che, pur consentendo una efficace riduzione delle cariche microbiche dei microrganismi contaminanti come si vede nella figura 4, ha determinato un rapido ed indesiderato imbrunimento del tartufo come si può apprezzare nella foto 2.

Figura 4. Effetto sulle popolazioni microbiche di Tuber albidum (bianchetto) della decontaminazione con spazzolamento e acido gallico.

Tal quale Spazzolamento DecontaminazioneCMT 7,00 6,00 5,62

Batteri lattici 5,30 4,30 3,30Enterobatteri 5,52 4,78 3,08

Eumiceti 7,49 6,21 5,15Pseudomonas spp. 7,40 6,56 5,00

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

CMT Batteri lattici Enterobatteri Eumiceti Pseudomonas spp.

55,15

3,083,3

5,62

6,566,21

4,784,3

6

7,47,49

5,525,3

7

Livelli di carica iniziale dopo spazzolamento e decontaminazione

Liv

elli

di

cari

ca (

Log U

FC

/g)

Tal quale SpazzolamentoDecontaminazione

 

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Foto 2. Tartufo bianchetto spazzolato e lavato a 14 giorni di frigoconservazione (foto sinistra), tartufo trattato con acido gallico a 14 giorni di frigoconservazione (foto destra).

Per entrambe le tipologie di tartufo (peridio liscio e verrucoso) risultati soddisfacenti sono stati ottenuti con i trattamenti con ultrasuoni (fig. 3) e con il chitosano (fig. 5) che, oltre a determinare un risanamento del tartufo, hanno garantito il mantenimento dei principali caratteri sensoriali.

Figura 5. Presenza di microrganismi in tartufi neri prima (TQ) e dopo il trattamento di pulizia (lavaggio e spazzolamento) (SL) e dopo il trattamento con chitosano (Chit)

 

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Riepilogando tutti gli strumenti di risanamento sperimentati (etanolo, acido gallico, chitosano e ultrasuoni) hanno dato buoni risultati nel trattamento dei tartufi a peridio verrucoso cioè quelli neri, per i quali si sono dimostrati efficaci nel risanamento senza alterare le caratteristiche sensoriali.

Per i tartufi a peridio liscio, cioè quelli bianchi, solo il chitosano e gli ultrasuoni hanno dato risultati soddisfacenti, in quanto l’etanolo e l’acido gallico, pur consentendo di ottenere un risanamento efficace influenzavano negativamente le caratteristiche sensoriali.

 

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Individuazione della tecnologia di conservazione Lo scopo di tale attività di ricerca è stato quello di mettere a punto e validare sistemi di conservazione idonei per prolungare la shelf-life del tartufo fresco. Come detto in precedenza l'alta deperibilità tartufo è conseguenza dello sviluppo dell’eterogeneo microbiota presente sulla sua superfice, la cui composizione è strettamente legata all’ambiente terricolo nel quale il tartufo compie il suo ciclo vitale, alle modalità di raccolta e di trasporto/manipolazione dopo la raccolta. Durante la conservazione alcune popolazioni microbiche (Pseudomonas, Enterobacteriaceae, ecc.) prendono il sopravvento, si sviluppano velocemente (foto 3) con il loro metabolismo modificano significativamente le caratteristiche sensoriali del tartufo fino a renderlo non più edibile.

Foto 3. Fotografie al microscopio elettronico a scansione della parte esterna di tartufi: A) appena raccolti, sono visibili numerose cellule microbiche; B) dopo 15 gg di conservazione in MAP, le cellule microbiche visibili sono aumentate; C) dopo 15 gg di frigoconservazione senza alcun condizionamento, le cellule microbiche visibili coprono completamente la superficie del tartufo. Spesso il gruppo microbico che prende il sopravvento è un eumicete appartenente al genere Penicillium in questo caso l’alterazione del tartufo, l’ammuffimento, sarà evidente anche ad occhio nudo (foto 4).

Foto 4. Tartufo ammuffito dopo 15 giorni di frigoconservazione

Le tecniche di conservazione prese in considerazione In questo progetto sono state: il confezionamento in atmosfera protettiva o MAP (Modified Atmosphere Packaging) e la bioconservazione mediante

A   B   C  

 

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l’impiego del chitosano e di colture protettive. Inoltre le prove sono state effettuate simulando sia una conservazione casalinga quindi ponendo i tartufi a circa 6°C che è la temperatura dei frigoriferi domestici, sia una conservazione industriale in questo caso le temperature di frigoconservazione utilizzate sono state 4 e 2°C. Per verificare l’efficacia delle strategie messe in atto e individuare le migliori condizioni in grado di prolungare la shelf-life dei tartufi, durante il periodo di conservazione, sono state eseguite analisi microbiologiche, chimiche e sensoriali senza trascurare il calo peso che è un elemento fondamentale per gli intermediari, i trasformatori e i distributori. Prova 1 Per quanto concerne la simulazione della conservazione casalinga questa è stata eseguita sottoponendo i tartufi ai seguenti trattamenti di decontaminazione e condizionamento, singoli o combinati: ultrasuoni (US), chitosano (KIT), ultrasuoni e chitosano (USKIT) e ultrasuoni chitosano e atmosfere protettive (USKITMAP). Dopo 28 giorni di frigoconservazione a 6±1°C tutti i campioni trattati (US, KIT, USKIT ed USKITMAP) erano caratterizzati in generale da una qualità microbiologica migliore rispetto ai campioni di controllo (quelli non sottoposti ad alcun trattamento). In particolare dai risultati delle analisi microbiologiche è emerso che i trattamenti combinati consentivano di ottenere la migliore attività antimicrobica nei confronti di alcuni gruppi microbici quali Pseudomonas spp. ed enterobatteri (figura 6).

Figura 6. Livelli di carica (Log ufc/g di tartufo) di differenti gruppi microbici in campioni di T. aestivum a tempo zero, dopo trattamento (DT) e a fine conservazione (28 giorni) a 6±1°C. CT = Controllo, US = Ultrasuoni, KIT = chitosano, MAP = atmosfere protettive Per quanto concerne il calo peso dei tartufi dopo 28 giorni di conservazione i campioni che hanno subito una minor perdita di peso sono risultati US, KIT e USKIT, il campione controllo (CT) presentava, invece, dopo 28 giorni di conservazione il maggior calo peso.

 

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Inoltre tra i tartufi del lotto Controllo (CT), cioè quelli non trattati, diversi mostravano a fine conservazione un evidente sviluppo fungino superficiale come si può vedere nella foto 5.

Foto 5. Tartufi dopo 28 giorni di frigoconservazione

Prova 2 In questa prova i tartufi dopo essere stati trattati sono stati confezionati singolarmente in vasetti sterili e conservati a 4 °C per 28 giorni (foto 6). Di seguito sono riportati in dettaglio i trattamenti ai quali sono stati sottoposti i tartufi prima della conservazione e le relative sigle: TQ: i tartufi non sono stati sottoposti ad alcun trattamento di spazzolatura e/o lavaggio e confezionati; SL: i tartufi sono stati sottoposti a spazzolamento e a lavaggio e confezionati; Chit: tartufi trattati come SL, posti in soluzione di ac. acetico e chitosano all’1% per 5 minuti e confezionati; ChitG: come Chit e confezionati in vasetti di vetro sterili contenenti un gel con Chitosano all’1%; Aac: come SL e posti in una soluzione di ac. acetico 0,1 N per 5 minuti e confezionati in vasetti di vetro sterili contenenti un gel con ac. acetico 0,1 N.

Foto 6. Tartufo conservato in barattolo sterile controllo -TQ (foto sinistra), e tartufo conservato in barattolo sterile con gel e chitosano - ChitG (foto destra).

 

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Figura 7. Andamento di Pseudomonas durante la conservazione di tartufi a 4°C.

L’impiego di chitosano ha mostrato una eccellente attività antimicrobica, anche nei confronti dei gruppi considerati i principali responsabili delle alterazioni dei tartufi durante la conservazione cioè gli Pseudomonas (figura 7) e le muffe (figura 8). L’azione antimicrobica si è mostrata ancora più efficace quando il chitosano è stato impiegato non solo in fase di lavaggio ma anche nel corso della conservazione come componente del gel (ChitG) come si può osservare nelle figure 6 e 7.

Figura 8. Andamento degli eumiceti durante la conservazione di tartufi.

Tuttavia occorre precisare che la presenza di chitosano nel gel durante la conservazione non ha permesso di preservare al meglio i caratteri sensoriali dei tartufi. Risultato che, al contrario, è stato ottenuto nei tartufi sottoposti solo all’operazione di lavaggio per immersione in soluzione di chitosano.

 

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Prova 3 In questa prova sono state sperimentate due tecniche di bioconservazione sul tartufo nero (Tuber aestivum): l’uso di una sostanza naturale l’acido gallico e l’uso di un batterio lattico (Lactobacillus plantarum) come coltura protettiva e di 2 temperature di conservazione 2 e 4°C. In dettaglio: TSL lotto di controllo; RTB i tartufi sono stati immersi in una sospensione di cellule di Lactobacillus plantarum; CF i tartufi sono stati immersi in una soluzione contenente 5g/L di acido gallico. Sulla base dei dati ottenuti dalle precedenti prove i tartufi dopo i trattamenti sono stati confezionati in vasetti di vetro sterili aventi piccole dimensioni per ridurre la perdita di acqua, e posti metà a 2°C e l’altra metà a 4°C per un periodo di 28 giorni.

Figura 9. Andamento dei livelli di carica delle muffe nei campioni di tartufo trattati con coltura protettiva e acido gallico, frigo-conservati a 2 e 4°C per 28 giorni.

Il trattamento con l’acido gallico è quello che ha dato i risultati migliori, infatti, come si può osservare nelle figure 9 e 10 le cariche microbiche dei tartufi trattati con acido gallico sono costantemente inferiori.

Figura 10. Andamento dei livelli di carica di Pseudomonas spp. nei campioni di tartufo trattati con coltura protettiva e acido gallico, frigo-conservati a 2 e 4°C per 28 giorni.

 

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Interessante è anche l’effetto della temperatura, infatti, le cariche microbiche dei tartufi conservati a 2°C sono risultate generalmente inferiori rispetto a quelle osservate nei tartufi conservati a 4°C. Questa differenza è particolarmente evidente nei campioni trattati con ac. gallico, infatti le cariche delle muffe ma soprattutto degli Pseudomonas riscontrate in CF2 (2°C) sono molto più basse rispetto a quelle riscontrate in CF4 (4°C). In questa prova le analisi sensoriali sui tartufi oggetto di studio hanno fatto registrare risultati concordanti con quelli microbiologici, infatti i campioni trattati con ac. gallico (CF2 e CF4) sono quelli che hanno fatto rilevare l’indice di gradimento maggiore (figura 11).

Figura 11 Risultati delle analisi sensoriali sui tartufi dopo 28 giorni di frigo-conservazione. I descrittori sensoriali presi in considerazione sono l’aspetto esterno, l’aroma e la consistenza e ad ognuno di essi è stato attribuito un valore compreso tra 1 (minimo) e 5 (massimo).

0"0,5"1"

1,5"2"

2,5"3"

3,5"4"

4,5"5"

aspe-o"esterno"

consistenza""aroma"

TSL2"

TSL4"

RTB2"

RTB4"

CF2"

CF4"

 

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Considerazioni conclusive

La conservazione del tartufo bianco a peridio liscio è contraddistinta da problematiche estremamente differenti rispetto a quelle caratterizzanti i tartufi neri a peridio verrucoso. In entrambi i casi è, però, emerso che il confezionato migliore è in vasetti di vetro sterili di piccole dimensioni, ciò permette di ridurre la perdita sia di aroma e sia di acqua e quindi contenere il calo peso.

Tartufo nero a peridio verrucoso Dalle prove effettuate è emerso che per questa tipologia di tartufi semplici e attente azioni di pulizia, quali lo spazzolamento e il lavaggio in acqua permettono un’importante decontaminazione microbiologica del tartufo. Tra le altre tecniche di decontaminazione sperimentate alcune hanno dato dei risultati molto buoni. In particolare il trattamento con ultrasuoni e l’impiego di chitosano e acido gallico si sono mostrate particolarmente efficaci nel ridurre la contaminazione iniziale del tartufo. La riduzione della contaminazione microbica assume un ruolo di indubbia importanza per la conservazione e la commercializzazione di un prodotto come il tartufo che generalmente viene consumato crudo. Per la conservazione dei tartufi neri freschi il binomio basse temperature (2°C)/impiego di acido gallico è risultata una strategia molto interessante poiché, oltre a garantire la sicurezza microbiologica del prodotto controllando o arrestando lo sviluppo microbico, non altera in maniera rilevante i caratteri sensoriali del tartufo nero. Inoltre l’utilizzo dell’acido gallico presenta vantaggi sia dal punto di vista applicativo sia riguardo alla sicurezza d’uso in quanto tale acido fenolico, presente normalmente in natura e in alimenti di origine vegetale, non presenta tossicità nei confronti dell’operatore o del consumatore. Il chitosano invece quando utilizzato come conservante essendo disciolto in acido acetico pur garantendo una buona qualità microbiologica dei tartufi non ha permesso di preservare al meglio i caratteri sensoriali, ciò è da ascrivere alla presenza dell’acido acetico che ha determinato uno spiccato decremento del pH con un’influenza negativa sulla qualità finale del prodotto. Per poter utilizzare il chitosano come conservante si rende necessario individuare una modalità di impiego tale da evitare l’azione acidificante sul prodotto.

 

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Tartufo bianco a peridio liscio Gli strumenti tecnologici sviluppati e validati per la conservazione di tartufo nero non possono trovare applicazione nel risanamento e conservazione di tartufi a peridio liscio. Per i tartufi bianchi anche lo spazzolamento preventivo può rivelarsi controproducente in quanto può provocare delle lesioni sul periodo che è molto delicato. I trattamenti di spazzolamento e lavaggio, in virtù della loro immediata efficacia nella riduzione dei microrganismi contaminati, permangono di interesse fondamentale e quindi potrebbero essere suggeriti, attraverso una opportuna etichetta, come accorgimenti preventivi che il consumatore potrebbe adottare prima del consumo del tartufo crudo. Prospettive interessanti per il risanamento sono emerse, così come per i tartufi neri, dall’impiego di ultrasuoni e chitosano. Mentre l’uso di etanolo e dell’acido gallico si sono rivelati un completo insuccesso. Il progetto, i cui risultati sono sinteticamente illustrati in questa pubblicazione, offre nuove conoscenze e sproni per la messa a punto di nuovi e più incisivi approcci tecnologici tali da permettere il risanamento e la conservazione del tartufo a peridio liscio .

 

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