Madeleines postmoderne. Memorie d'infanzia, consumi e mass media.
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1. Potremmo iniziare questo nostro percorso con un brano da
Angeli di desolazione, un romanzo di Jack Kerouac del 1965. Il
protagonista, nella solitudine assoluta del Desolation Peak, in un
capanno in cima alle montagne delle High Cascades, rievoca i
giorni della sua adolescenza a Lowell nel Massachusetts:
Aw, and I remember sweet days of home that I didn’t appreciate when
I had them – afternoon then, when I was 15 or 16, it means Ritz Brothers
crackers and peanut butter and milk, at the old round kitchen table, and
my chess problems or self-invented baseball games, as the orange sun of
Lowell’s october’d slant thru the porch and kitchen curtains and make a
lazy dusty shaft and in it my cat’d be licking his forepaw laplap with
tiger tongue and cue tooth, all undergone and dust betided, Lord […] Late
afternoon long ago home, and even recently in North Carolina when, to
recall childhood, I did eat Ritz and peanut butter and milk at four, and
played the baseball game at my desk, and it was schoolboys in scuffed
shoes coming home just like me hungry.1
1 J.KEROUAC, Desolation Angels, Riverhead Books, New York, 1995, pp. 7-8; «Ah, se melo ricordo certe giornate a casa mia che non apprezzavo quando le avevo –a quindici, sedici anni, erano pomeriggi che volevano dire cracker RitzBrothers e burro di arachidi e latte, sul vecchio tavolo rotondo dellacucina, e i problemi di scacchi o le partite di baseball che mi inventavoda solo, mentre il sole arancione di Lowell ottobrava obliquo attraversola veranda e le tendine della cucina con un pigro polveroso raggio nelquale il mio gatto si leccava la zampa davanti laplap con lingua di tigree dente affilato, tutto inabissato e sommerso dalla polvere, Signore […]Casa mia in un tardo pomeriggio tanto tempo fa, e persino di recente nelNorth Carolina quando, per rievocare la fanciullezza, ho davvero mangiatoRitz e burro d’arachidi e latte alle quattro, e ho giocato la partita dibaseball a tavolino, mentre scolaretti con le scarpe sfondate tornavano acasa affamati proprio come me» (J. KEROUAC Angeli di desolazione, in Romanzi,Introduzione e cura di Mario Corona, Mondadori, Milano 2001, p. 1026).
2
Kerouac era soprannominato dagli amici «memory babe» per la
sua capacità di rievocare eventi e conversazioni di molti anni
prima. E in effetti è difficile trovare un’opera in cui
l’equivalenza fra scrivere e ricordare sia così perfetta. Per
Kerouac scrivere è «sketching»: schizzare, disegnare con le parole
una scena del passato che riemerge spontaneamente alla coscienza.
Kerouac avrebbe voluto unificare i suoi romanzi in
un’autobiografia di proporzioni epiche: «one vast book like
Proust’s Remembrance of Things Past except that my remembrance are
written on the run instead of afterwards in a sick bed»2. Il
riferimento al nume tutelare dell’autobiografia romanzesca, al
mostro sacro che più di ogni altro nel Novecento ha legato
letteratura e memoria, è irriverente come ci si aspetterebbe da un
all-American boy della letteratura. Come il suo maestro Walt Whitman
preferiva paragonarsi ai teppisti di New York piuttosto che ai
poeti del vecchio mondo, allo stesso modo Kerouac prende le
distanze dal carattere mortuario e retrospettivo della cattedrale
proustiana. Del resto, il sobborgo industriale di Lowell non è
Combray, così come l’esistenza proletaria del teenager Jack
Kerouac è lontanissima dall’infanzia iperprotetta e alto borghese
di Marcel. E se il baseball, il più americano degli sport, prende
il posto delle letture e delle rêverie di Marcel, un moderno
prodotto confezionato, i cracker Ritz, compare in luogo della
mitica madeleine3.
2 J. Kerouac, Visions of Cody, Penguin, Harmondsworth 1993, p. s. n.; «un unicovasto libro come la Ricerca del tempo perduto di Proust eccetto che le mie memoriesono scritte in movimento anziché a posteriori su un letto di malato».3 In questo caso la proverbiale memoria kerouachiana mostra una falla: l’autoreinfatti fonde un marchio commerciale, i cracker Ritz della Nabisco, che traevano
3
Il marchio registrato e la confezione – brand e packaging – sono
due delle grandi invenzioni della cultura dei consumi e del
marketing statunitensi, che in Europa si affermano pienamente solo
nel secondo dopoguerra4. Nella sfera artistica com’è noto irrompono
pressappoco in quegli stessi anni, con la Campbell’s Tomato Soup di
Andy Warhol. Quello di Kerouac non è però un gesto warholiano: una
provocazione ironicamente apocalittica che gioca la merce contro
l’arte con la A maiuscola. Sarebbe inutile pretendere dal testo
chissà quali coerenze ideologiche, magari evocando la viscerale
opposizione dei Beat verso l’America opulenta, suburbana e
conformista. A dispetto di tali furori, i cracker Ritz sono per
Kerouac un ricordo affettuoso, un pezzo di fanciullezza investito
da un pathos del transeunte, da una malinconia rassegnata al tempo
stesso cattolica e buddista. Il loro carattere di merce passa in
secondo piano, o comunque non fa problema. Del resto dei prodotti
confezionati compaiono perfino nell’eremo del Desolation Peak,
dove l’autore trascorse tre mesi di isolamento assoluto svolgendo
il compito di avvistatore di incendi. Questa nuova capanna di
Walden è piena di un whitmaniano elenco di barattoli di cibi
precotti, marchi e confezioni fra le più chiassose e grossolane,
un pezzo di supermercato fuori posto, il che non impedisce
tuttavia a Kerouac di meditare sul vuoto buddista, ammirando le
cime delle montagne. Così i Ritz funzionano come una madeleine,
sono una madeleine aggiornata e americana.
il loro nome dal lussuoso hotel Ritz-Carlton, con i Ritz Brothers, un celebreterzetto di comici, molto attivi ancora nella TV degli anni cinquanta (una sortadi versione edulcorata dei più irriverenti Marx Brothers). 4 Cfr. V. DE GRAZIA, L' impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista delmondo, Einaudi, Torino 2006, cap. IV.
4
2. Quello che in Kerouac è poco più di un hapax diventerà
nella letteratura postmoderna, soprattutto italiana, un tema
discretamente ricorrente. Volendo abbozzare una genealogia di
queste madeleine di nuovo tipo, appare difficile risalire a date
anteriori al testo di Kerouac. Un autore come Walter Benjamin
potrebbe essere considerato un antesignano della sensibilità
contemporanea per diverse ragioni: dalla sua attenzione alla
«fantasmagoria della merce», alla sua indagine quasi
collezionistica per le forme quotidiane di un capitalismo d’antan,
senza contare poi la sua memorialistica infantile, singolarmente
ambientata lontano dai consueti scenari naturali e roussoviani,
sullo sfondo artificioso di una metropoli, Berlino, «intorno al
Millenovecento». In realtà, l’unico marchio commerciale ricordato
con affetto, ma in modo del tutto incidentale, nelle pagine di
Infanzia berlinese (1934-1938) sono le costruzioni Anker, una sorta di
antenato Biedermeier dei Lego5. Troppo scarsa era la penetrazione
commerciale nei territori ovattati dell’infanzia borghese durante
la belle époque per suscitare ulteriori indugi; a mala pena i fumetti
americani di Nick Carter faranno capolino in un altro ricordo,
nell’ambiente sordido e vagamente tentatore di un passage
commerciale, sulle vetrine del quale occhieggiano anche
pubblicazioni erotiche6. Per un lungo periodo, in Europa,
5 «Fra tutti [i personaggi marmorei della Colonna della Vittoria] prediligevo ilvescovo che reggeva il duomo nella mano destra guantata. Con la scatola dellecostruzioni Anker riuscivo già a riprodurne uno più grande», W. BENJAMIN, Infanziaberlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino 2007, p. 12; «Quante volte [nelTiergarten] cercai invano la boscaglia in cui si trovava un chiosco dalletorrette rosse, bianche e blu in stile scatola di costruzioni Anker», ivi, p.19.6 «La fiaba narra talvolta di passages e gallerie ingombre su entrambi i lati dibotteghe piene di seduzioni e pericoli. Da bambino conoscevo bene un talepercorso; si chiamava la Krumme Strasse. [...] Dove la Krumme Strasse sfociavanel western, c’era un negozio di cancelleria. Gli sguardi non iniziati nella
5
probabilmente fino al secondo dopoguerra, la cultura dei consumi
era troppo inconsistente in termini puramente quantitativi perché
i propri materiali (prodotti, marchi, jingles pubblicitari, ecc.)
potessero subire il processo magistralmente descritto da quello
che è forse il testo iniziatore della tradizione qui in esame:
des petits morceaux de quotidien, des choses que, telle ou telle
année, tous les gens d'un même âge ont vues, ont vécues, ont partagées,
et qui, ensuite ont disparu, ont été oubliées ; elles ne valaient pas la
peine d'être mémorisées, elles ne méritaient pas de faire partie de
l'Histoire, ni de figurer dans les Mémoires des hommes d'Etat, des
alpinistes et des monstres sacrés.
Il arrive pourtant qu'elles reviennent, quelques années plus tard,
intactes et minuscules, par hasard ou parce qu'on les a cherchées, un
soir, entre amis ; c'était une chose qu'on avait apprise à l'école, un
champion, un chanteur ou une starlette qui perçait, un air qui était sur
toutes les lèvres, […] un best-seller, un scandale, un slogan, une
habitude, une expression, un vêtement ou une manière de le porter, un
geste, ou quelque chose d'encore plus mince, d'inessentiel, de tout à
fait banal, miraculeusement arraché à son insignifiance, retrouvé pour un
instant, suscitant pendant quelques secondes une impalpable petite
nostalgie.7
vetrina venivano catturati dai giornaletti di Nick Carter. Io però sapevo dove,sullo sfondo, dovevo cercare le opere più sconce», ivi, p. 55.7 G. PEREC, Je me souviens (1978), Hachette, Paris 2006 (dalla quarta di copertinadell’autore); «piccoli pezzi di quotidiano, cose che, in un certo anno, tutte lepersone di una stessa età hanno visto, vissuto e condiviso, e che in seguitosono scomparse, sono state dimenticate; non valeva la pena di memorizzarle, nonmeritavano di far parte della Storia, né di figurare nelle memorie degli uominidi Stato, degli alpinisti o dei mostri sacri. / Accade però che esse ritornino,qualche anno più tardi, intatte o minuscole, per caso o perché le si è cercate,una sera, fra amici; era una cosa imparata a scuola, un campione, un cantante ouna starlette che spuntava, un’aria che era su tutte le labbra, [...] un bestseller o uno scandalo, uno slogan, un’abitudine, un’espressione, un vestito o unmodo di portarlo, un gesto, o qualcosa di ancora più minuscolo, inessenziale,
6
In questa dichiarazione, come nella sua attuazione – il
lunghissimo elenco di quattrocentottanta «je me souviens» – c’è
una poetica della memoria inessenziale vicina agli esempi
postmoderni che vedremo. C’è già in nuce anche il paradosso del
rapporto postmoderno con il passato che non è propriamente
antistorico e appiattito su un eterno presente dove tutto
coesiste, come vorrebbe una certa vulgata, quanto invece
caratterizzato da un’inflazione di storicità, da uno «storicismo
onnivoro e quasi libidico» che riduce il passato a «museo di
fotogra e e raccolta di ritagli di immagini e simulacri»fi 8. Da un
certo momento in poi, forse proprio dagli anni indicati da Perec,
quelli in cui ha passato la sua infanzia e la sua giovinezza, fra
il 1946 e il 1961, la stessa disponibilità del nuovo immenso
repertorio della cultura dei consumi e della cultura di massa
rendeva possibile una nuova evocazione del passato. Una sorta di
archeologia del passato prossimo, un rimemorare ludico fra
infinite minuzie, un gioco spesso più collettivo, generazionale
che individuale, un’esperienza inedita della duplice natura del
tempo che distrugge e conserva: da un lato la caducità di mode,
prodotti, celebrità di una sola stagione, dall’altro la
persistenza di infiniti scarti il cui ripescaggio sarebbe via via
divenuto più semplice e più rapido. Una sorta di indiscriminata,
collezionistica museificazione della vita quotidiana il cui ultimo
approdo è rappresentato dall’immenso archivio del web9.
del tutto banale, strappato miracolosamente alla sua insignificanza, ritrovatoper un istante, e capace di suscitare per qualche secondo un’impalpabile,piccola nostalgia». 8 R. CESERANI, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 142.
7
3. Se fra le memorie di Kerouac compare una volta la merce, è
quasi impossibile trovare un solo ricordo d’infanzia fra quelli
narrati da Aldo Nove, in cui non siano presenti prodotti, marchi,
programmi televisivi. Nei romanzi pseudo autobiografici Puerto Plata
Market (1997) e Amore mio infinito (2000), come nella raccolta di prose
memoriali La più grande balena morta della Lombardia (2004) siamo dunque
immessi in un nuovo mondo di madeleine postmoderne, dove schegge
di cultura di consumi e frammenti di immaginario televisivo
svolgono ormai la funzione di catalizzatori della memoria
personale, investiti da un lirismo nostalgico sempre in bilico fra
ingenuità e provocazione. Nove infatti, a differenza di Kerouac,
sa bene di venire dopo generazioni di critici e romanzieri per i
quali lo sguardo apocalittico sulla merce è di prammatica.
L’infanzia sembra tuttavia un’occasione regressiva per sottrarsi
all’obbligo intellettuale della critica e del sospetto.
La mia vita è così: a mezzogiorno abbiamo mangiato la minestrina
con il formaggino Susanna.
Da bambino il formaggino Susanna mi faceva impazzire perché dentro la
scatola c’erano i punti per vincere il coccodrillo Susanna gonfiabile.
Pensavo più minestrine mangio più si avvicina il giorno che avrò tutti i
punti per vincere il coccodrillo.
Io quel giorno lo aspettavo.
9 Qualche spunto su questa nuova modalità della «memoria culturale» in A.ASSMANN, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna 2002, cap.XVI e EAD., Texts, Traces, Trash: The Changing Media of Cultural Memory, in «Representations»,n. 56, Autumn 1996, pp. 123-134. L’autrice rileva l’enorme allargamentodell’area del memorabile in epoca contemporanea, con la sostituzione simbolicadella discarica all’archivio e la paradossale convergenza di memoria e oblio.Questa nuova sensibilità è esplorata, sul versante cinematografico ma condocumentate incursioni nell’immaginario letterario, dallo studio di EmilianoMorreale apparso dopo la stesura di questo scritto: L’invenzione della nostalgia. Il vintagenel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma, 2009
8
Doveva essere un giorno speciale, il giorno del coccodrillo Susanna.
Avrei messo il coccodrillo davanti alla stanza, avrei proibito ai grandi
di entrare.
Poi invece i punti li perdevo. Il giorno del coccodrillo Susanna non è
arrivato mai.10
Nelle rappresentazioni letterarie della cultura dei consumi
accade qualcosa di simile a quanto avvenuto a fine Ottocento con
uno dei più forti simboli dei traumi della modernità: il treno.
Allorché il treno, a qualche decennio dalla sua introduzione,
comincia a comparire nei ricordi d’infanzia, in pagine memoriali
cariche di nostalgia, scompaiono molti suoi tratti demoniaci e
angosciosi. Il filtro della memoria è uno dei più forti agenti di
familiarizzazione del nuovo che minaccia11. In modo analogo il
supermercato appena introdotto in Italia in pieni anni sessanta è
per gli scrittori un luogo da incubo, simbolo dell’istupidimento
consumista e dell’americanizzazione12. Tali inquietudini sembrano
del tutto accantonate allorché Nove rievoca i primi supermercati
della provincia varesina ammirati nella sua infanzia: «una specie
di luna-park di acciaio pieno di merluzzo surgelato. Io e i miei
genitori ci andavamo il sabato in auto come a una festa un’enorme
quantità di cose impilate con il prezzo sugli scaffali con la
stessa luce milanese della fiera»13.
10 A. NOVE, Amore mio infinito, Einaudi, Torino 2000, p. 37.11 R. CESERANI, Treni di carta. L'immaginario in ferrovia: l'irruzione del treno nella letteratura moderna,Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 167-174.12 Cfr. F. GHELLI, Supermercati di parole. Note su un tema/luogo letterario fra moderno epostmoderno, in «Studi culturali», n. 3, dicembre 2007, pp. 377-400, con esempida Calvino, Bianciardi, Le Clezio, Levin.13 A. NOVE, Amore mio infinito, cit., p. 154.
9
Secondo lo storico Gary Cross nel corso del Novecento è
avvenuta una fusione fra la cultura dei consumi e l’ideale, di
lontana origine romantica, dell’infanzia incantata. Portatore di
uno sguardo vergine sulla realtà, di una spontaneità vagheggiata
in quanto antitesi della condotta razionale e regolata richiesta
agli adulti nelle società moderne, il bambino diviene anche il
«consumatore edenico», colui che si accosta ai beni di consumo con
l’ottimismo del neofita, senza il disincanto e la diffidenza degli
adulti. Festività come il natale e halloween si sono trasformate
in ossequio a questo ideale, Disney e l’industria del divertimento
ci hanno fondato sopra imperi commerciali14. La pubblicità di
interi settori merceologici – non più solo i giocattoli ma anche
l’abbigliamento, gli alimentari, i prodotti per la casa – ha ben
presto imparato a parlare direttamente ai bambini, i futuri
consumatori. È stata forse la prima forma di comunicazione a
trattare i bambini come soggetti autonomi, portatori di propri
desideri, ad assumere la loro ottica e il loro linguaggio,
completando così quel che il sociologo Daniel Thomas Cook, ha
definito la «mercificazione dell’infanzia»15.
Il formaggino Susanna della Invernizzi con il suo gadget
gonfiabile è del resto uno dei primi esempi di questa nuova
strategia commerciale in Italia. Al tempo stesso Aldo Nove, come
altri scrittori italiani dell’ultima ora, è parte di una
generazione per cui la cultura dei consumi non è una novità che
taglia in due la storia d’Italia e la propria biografia con tutta
l’irruenza del primo boom economico: è invece una seconda natura,
14 G. CROSS, The Cute and the Cool. Wondrous Innocence and Modern American Children’s Culture,Oxford University Press, Oxford-New York 2004, p. 31.15 D. T. COOK, The Commodification of Childhood. The Children’s clothing industry and the rise of thechild consumer, Duke University Press, Durham-London, 2004.
10
succhiata col latte materno fin dai primi anni di vita. Pippi
Calzelunghe, la Simca 1000, Woobinda, il Calippo, il Ciocorì, i
Ricchi e Poveri, i Rockets: la memoria letteraria di Nove è un
magazzino di seconda mano, un museo vintage. Assomiglia ad Anima mia,
il programma televisivo di culto, ideato da un altro scrittore,
Tommaso Labranca, che nel 1997 ha dato il via a un filone
nostalgico quasi inesauribile come testimonia il successo del
ricchissimo sito internet Paginesettanta16. A Labranca dobbiamo anche
alcune interessanti riflessioni sulla memoria nell’epoca
dell’ipertrofia della cultura di massa. L’ultimo romanzo dello
scrittore, 78.08, si apre su una classica scena di memoria
involontaria: il protagonista, l’intellettuale precario Antonio
Maniero sta trascinando a fatica un secchio di vernice vicino a un
sottopasso nel centro di Milano, una circostanza che gli riporta
alla mente come un folgorazione la scena di apertura di Saturday
Night Fever, in cui il suo quasi omonimo Tony Manero cammina
disinvolto sotto la Bowery con un secchio di vernice in mano
accompagnato dalle note di Staying alive dei Bee Gees. Sarà il primo di
una serie di innumerevoli rimbalzi fra i tardi anni settanta della
«febbre del sabato sera», vissuti dall’adolescente Maniero, e il
presente in cui si insinua continuamente la tentazione del revival
e del déjà-vu. Per Maniero infatti, diventare adulti significa
sperimentare un «sovraccarico d’informazioni», per cui «qualunque
elemento, anche il più insignificante, esplode come un fuoco
d’artificio progressivo, richiamando catene di cose simili e già
viste»17. L’esperienza proustiana dell’estasi metacronica diviene
così non più la fortunata eccezione dovuta a un’occasionale rima
16< http://www.pagine70.com/>, 8 agosto 2009.17 T. LABRANCA, 78.08, Excelsior 1881, Milano 2008, p. 11.
11
fra due momenti lontani nel tempo, quanto invece la regola
quotidiana:
Il passato non esiste. Esistono le cose. Le incontri per la strada,
le ascolti alla radio, le leggi nei libri. Tutte ti si fermano dentro e
vivono contemporaneamente a te. Le porti sempre nella testa e torni a
rivederle quando ti imbatti in qualcosa che le ricorda o che vorrebbe
essere completamente diverso, senza riuscirci. [...] Il passato non
esiste. Ma tutto è coincidente. Tutto è qui. Tutto è ora. [...] Ecco, io
sono un po’ come la sala 60-70-80-90, una discoteca dove tutta la musica
è coincidente.18
Altrove l’autore paragona la memoria postmoderna a uno degli
oggetti simbolo di questo inizio millennio, l’iPod: nella sua
memoria, zeppa di musica pop e di frammenti di immaginario
consumistico, ogni momento passato è facilmente accessibile come
le centinaia di canzoni retrò memorizzate in playlists personali od
occasionalmente ripescate dalla funzione random19.
La nostalgia degli anni settanta in Italia è particolarmente
virulenta. A scrittori come Nove, Labranca, Genna, si sono
affiancati decine di pubblicitari e di autori cinematografici e
televisivi, di designer e progettisti d’interni, di giornalisti e
bloggers, di musicisti, deejay e critici radiofonici. Sul piano del
gusto è una piccola rivincita per le persone nate grosso modo fra
il 1963 e il 1973, che hanno attraversato da bambini o da
18 Ivi, pp. 164-165.19 T. LABRANCA, Il piccolo isolazionista. Prolegomeni ad una metafisica della periferia, Castelvecchi,Roma 2006, p. 16. Sul contributo dell’MP3 alle dinamiche della nostalgia, cfr.V. BAGNOLI, Madeleines transgender, in «Contemporanea. Rivista di studi sullaletteratura e la comunicazione», I (1), 2003, pp. 174-176.
12
adolescenti questo decennio singolare. È difficile trovare infatti
un paese in cui la generazione dei trenta-quarantenni sia così
marginale, sul piano politico, economico o semplicemente
professionale come in Italia. Così se la nostalgia déco è un fenomeno
tipico del postmoderno, di un’epoca che ha a disposizione
sterminati magazzini di detriti culturali, stili e mode da
ripescare e rimescolare, in Italia essa ha assunto una più
esplicita coloritura generazionale. È l’indugio regressivo di
adulti che faticando a trovare spazi sociali non hanno mai smesso
di sentirsi un po’ bambini.
A ben riflettere tale operazione sulla memoria generazionale è
storicamente ambigua. Da un lato, ha il pregio di controbilanciare
la vulgata di un decennio plumbeo, dominato dall’estremismo
politico e dal terrorismo, inaugurato dalla prima grande crisi
economica del dopoguerra e dall’austerità. In realtà, come ci
avverte lo storico Emanuela Scarpellini, il decennio vede una
crescita costante dei consumi in Italia e per la prima volta il
pacchetto standard (frigorifero, lavatrice, televisione,
automobile) è posseduto dalla stragrande maggioranza delle
famiglie. Insomma, è solo dagli anni settanta che quel nuovo mondo
inizialmente ammirato nello spettacolo di Carosello diviene parte
della quotidianità degli italiani, in particolare dei ceti più
svantaggiati, proletari o piccolo borghesi20. E in effetti, le
infanzie o le adolescenze raccontate da Aldo Nove, da Giuseppe
Genna, da Tommaso Labranca, fra tinelli, salottini o cortili di
periferia, hanno tratti marcatamente piccolo borghesi, se non
proletari. Dall’altro lato, però, la nostalgia è tale proprio
20 E. SCARPELLINI, L’Italia dei consumi. Dalla belle époque al nuovo millennio, Laterza, Roma-Bari2008, pp. 241-243.
13
perché misconosce il carattere di modernità dei consumi su cui
indugia e preferisce invece mettere a confronto gli scenari di
ieri e di oggi, con poco credibili note di rimpianto. La
pubblicità degli anni settanta per Nove è un fenomeno da
baraccone, un ingenuo stupidario trash, come il risvolto di
copertina di Diabolik con i suoi prodotti improbabili: occhiali a
raggi x per vedere le donne nude, la crema del dottor Alto per
diventare più alti di venti centimetri, gli occhiali con i baffi
finti, carte da gioco pornografiche, antifurto agli ultrasuoni per
fare impazzire i ladri, tappetini di finto pelo umano da applicare
al petto per piacere di più alle donne, fino alle immancabili
scimmie di mare21. Siamo insomma in un territorio anacronistico,
lontano anni luce dalle sofisticazioni del marketing odierno,
vagheggiato proprio per il suo carattere carnevalesco, per una
cialtroneria che suscita tenerezza. Le merci si trasformano in
oggetti di affezione poiché, agli occhi dei nostalgici, non erano
ancora abbastanza merci; erano emulazioni fallite, primi vagiti di
un’industria culturale ancora artigianale.
Doppiamente ingenue appaiono simili nostalgie se si pensa che
la memoria postmoderna è ormai abbondantemente sfruttata anche dal
marketing e dalla pubblicità. Bastino pochi esempi; nel 1975
McDonald’s celebrò il suo trentacinquesimo anniversario con uno
spot molto apprezzato negli USA, intitolato Memories, che metteva
in scena un perfetto ricordo infantile: la gita al locale
McDonald’s di un gruppo di bambine assieme alla loro tata, con
tanto di camminata finale sotto la pioggia in impermeabile giallo
e filastrocca cantata in coro. Nel 1980 un altro spot della casa,
Little Sister, avrebbe sintetizzato in trenta secondi una vicenda di21 A. NOVE, La più grande balena morta della Lombardia, Einaudi, Torino 2004, pp. 147-149.
14
affetti familiari: si comincia con la patatina che il fratello
maggiore offre a malincuore alla sorellina, poi in un vertiginoso
gioco di ellissi vediamo crescere la bambina, canzonare il
fratello impegnato nei primi flirt e infine tornare a casa dal
college ormai donna. Il ricevimento in suo onore è allietato dal
gesto d’intesa del fratello che porge ancora la patatina del
McDonald’s chiudendo il cerchio delle memorie. L’idea, cara alle
odierne correnti del marketing esperienziale e affettivo, è che il
marchio accompagna i consumatori nella loro parabola esistenziale,
e in tal modo si carichi di significati personali, ricordi,
fantasie. Sarebbero gli stessi consumatori, con la loro forza
narrativa, la loro immaginazione e la loro memoria, a compiere in
proprio quel processo su cui i pubblicitari investono così tante
risorse: trasformare un anonimo logo in una figura quasi personale
e un prodotto standardizzato in qualcosa di unico. Insomma, la
nuova frontiera della pubblicità è di sfruttare il lavoro dei
consumatori, magari contando sull’interattività del web 2.022. Per
il momento, in attesa che la televisione lasci definitivamente
spazio alla rete, sono gli spot a mettere in scena reminiscenze
nostalgiche: si pensi al veloce montaggio di falsi filmini di
famiglia in superotto dove compaiono i più celebri modelli
prodotti dalla Renault nello spot del nuovo Suv della casa, oppure
alle immagini di un’estate negli anni settanta nel comunicato
dell’Estathè. Oppure si può pensare alla campagna del Centro
marche, dal titolo Le tue marche la tua storia, nella quale i momenti
topici di un’esistenza (dalla nascita, al primo bacio, al
22 Su questi temi rimando all’utile sintesi di R. SASSATELLI, Consumi, cultura e società,Il Mulino, Bologna 2004, nonché all’analisi di un case study, quello della Vespa,da parte di chi scrive: F. GHELLI, La Vespa dei vespisti: note su un oggetto di culto, in«Quaderni della Fondazione Piaggio», n. 1-2, 2007, pp. 149-191.
15
matrimonio) sono scanditi dal rapporto con un prodotto di marca,
sia esso uno shampoo, un gelato o un cioccolatino; un procedimento
per certi versi simile a quello adottato da Aldo Nove in Amore mio
infinito. Un marchio come Nutella ha adottato questa strategia fin
dagli anni settanta del dopo Carosello – «ti ricordi mamma... » – e
ha continuato a riproporla nel tempo, si pensi al recente spot
accompagnato dalla canzone Que sera sera.
4. Ma torniamo negli Stati Uniti per volgere lo sguardo a un
artista abituato ormai a spingere all’estremo la contaminazione
fra arte e cultura dei consumi. Jeff Koons per molti versi può
essere considerato un continuatore della pop art, con una
significativa differenza, tuttavia, rispetto ad Andy Warhol.
Piuttosto che la serialità e la massificazione, egli evidenzia il
nesso fra il moderno consumismo e la dimensione ludica infantile.
Fiorellini e coniglietti gonfiabili esibiti come sculture; oppure
tramutati in totem modernisti in acciaio cromato o in gigantesche
installazioni floreali; cartoons e personaggi pop – la pantera rosa
e la reginetta di bellezza americana – trasformati in una statua
variopinta, più degna di un negozio di soprammobili kitsch che di
un museo: se c’è un filo conduttore nella produzione di Koons è
l’adesione incondizionata al beato infantilismo della cultura dei
consumi, un universo dove il fun, l’entertainment più che il
desiderio regnano sovrani. Vorrei soffermarmi tuttavia su un’opera
singolare all’interno della stessa produzione di Koons. Com’è
noto, l’artista lavora per serie in modo simile a un pubblicitario
o a un autore televisivo; più che delle singole opere crea un
format, all’interno del quale sia possibile sviluppare di volta in
16
volta un insieme di sculture, installazioni, fotografie e dipinti
la cui realizzazione viene delegata poi a maestranze
specializzate. La serie che ha imposto Koons all’attenzione
internazionale all’inizio degli anni ottanta è The New: una
celebrazione degli oggetti di consumo secondo uno dei principi
onnipresenti nella retorica pubblicitaria: la novità, lo splendore
degli oggetti appena usciti di fabbrica. Koons allinea in modo
geometrico, seriale, aspirapolvere, lucidatrici e altri
elettrodomestici. Le teche di plexiglass illuminate al neon in cui
sono collocati i prodotti da un lato guardano in modo irridente
all’arte minimalista dei vari Donald Judd e Dan Flavin e
dall’altro rimandano anche troppo palesemente all’astuzia del
vetrinista. Nella serie tuttavia, fra i vari New Hoover Deluxe,
oppure fra i manifesti pubblicitari esposti come ready made, figura
The New Jeff Koons [Fig. 1]. È un’autentica fotografia del piccolo Jeff
all’età di dieci anni. Il bambino ha talento per il disegno e ha
appena ricevuto dal padre, che incoraggerà sempre la sua carriera
artistica, una nuova scatola di pastelli a cera. Con una preziosa
viratura al seppia che denota il passaggio del tempo e grazie allo
splendore innaturale della retroilluminazione e della cornice
cromata, la foto ricordo è trasformata in una sorta di pubblicità
di quel tipo nostalgico assai praticato, come abbiamo visto, in
questi ultimi anni. L’immagine del resto si conforma ai canoni di
ogni visual pubblicitario: c’è un testimonial con lo sguardo in
macchina e una complice interpellazione rivolta allo spettatore,
c’è la situazione d’uso del prodotto e c’è anche il cosiddetto
packshot, l’immagine della confezione con il marchio. Il «nuovo»
Jeff Koons è così l’artista regredito al ruolo di consumatore
«edenico» per dirla con Gary Cross, con quel beato sguardo17
infantile sulle merci che, recuperato da adulto e combinato con la
giusta dose di cinismo, gli consentirà una lucrativa carriera
artistica. Al tempo stesso siamo quasi di fronte a un ricordo
d’infanzia da autobiografia tradizionale e pre-roussoviana: una
traccia, quasi un presagio della futura vocazione artistica.
5. La lezione di Jeff Koons è intuibile dietro un’operazione
al tempo stesso storiografica e artistica come la mostra
organizzata nel 2004 da Gianni Canova alla Triennale di Milano dal
titolo Dreams: I sogni degli italiani in 50 anni di pubblicità televisiva. Dopo Carosello
tutti a nanna si diceva. La pubblicità televisiva italiana fin
dalle origini ha parlato ai bambini e ha parlato agli adulti come
se fossero bambini. E in un certo senso lo erano visto che la
maggior parte di loro si accostava per la prima volta alla civiltà
dei consumi, con l’entusiasmo e la meraviglia del neofita. La
premessa della mostra è che dopo Carosello, una volta a nanna, gli
italiani hanno continuato a sognare, attingendo a un repertorio di
archetipi televisivi. Al di là della sua ricchezza documentaria,
la mostra colpisce soprattutto per la sua ambientazione: un buio
quasi amniotico, rischiarato qua e là dalle luci in bianco e nero
di giganteschi schermi televisivi. Tale simbologia onirica e
memoriale è sviluppata in una sequenza di installazioni –
denominate «sale» e «piazze» –, delle vere e proprie stanze della
memoria, molte delle quali invitano palesemente alla regressione
giocosa e infantile. Esemplare la «stanza dei rimedi, dei rifugi e
dei ripari» [Fig. 2], nella quale i visitatori sono invitati a
buttarsi da un gigantesco scivolone gonfiabile sul quale vengono
proiettate le immagini dei vari Caballero e Carmencita, Tacabanda,
18
Calimero. Lo scivolo ha la forma di un vecchio tubo catodico e al
termine del volo gli spettatori sono accolti da grandi cuscini che
rievocano un gigantesco e accogliente salotto domestico. Il
progettista dell’installazione, il designer Denis Santachiara così
descrive il suo intento: «Ho pensato [...] di costruire uno spazio
che consenta a tutti di scivolare nel ricordo e di giocare con la
propria memoria tecnica dello spettacolo televisivo»23.
Di quei salotti e di quella stagione televisiva di recente uno
scrittore ci ha dato una pensosa rievocazione:
Molti anni fa nell’inverno del 1969, avevo cinque anni e mia
sorella tre. Il sabato sera mia madre ci faceva il bagno, ci asciugava i
capelli per un tempo infinito, ci riempiva di borotalco, ci infilava il
pigiama. Mio padre veniva a prenderci in bagno e in braccio ci portava in
soggiorno, su un divano enorme. Poi andavano di là, mentre noi vedevamo
Carosello, e preparavano dei grossi panini con la frittata che erano
morbidissimi, grazie all’olio e al calore. Ci sedevamo tutti e quattro
sul divano e mangiavamo, aspettando. L’annunciatrice diceva che stava per
cominciare. Infatti apparivano le gemelle Kessler, seguite in ogni
movimento da un microfono gigantesco che cadeva dall’alto (si chiamava la
«giraffa»): ballavano con una sincronia perfetta, con l’intento, credo,
di apparire una lo specchio dell’altra, e ci dicevano che se cantavamo
insieme a loro, quella sera, eravamo belli come loro, e se non cantavamo
eravamo brutti. Noi cantavamo. Ed eravamo più che sicuri di far parte di
una comunità di gente come noi che aveva la casa occupata dall’odore di
borotalco e di frittata. E che cantava come noi.24
23 G. CANOVA (a cura di), Dreams. I sogni degli italiani in 50 anni di pubblicità televisiva,Mondadori, Milano 2004, p. 276.24 F. PICCOLO, L’Italia spensierata, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 3-4.
19
È il prologo del libro inchiesta di Francesco Piccolo
sull’«Italia spensierata», i divertimenti di massa nel nostro
paese (dai film di Natale ai programmi contenitore della domenica
pomeriggio, dagli esodi vacanzieri del Ferragosto ai parchi a tema
come Mirabilandia). È un ricordo dolce-amaro che sollecita la
consapevolezza dello scrittore, il quale a distanza di anni
riconosce la componente politica dell’ingiunzione al divertimento
nella canzoncina delle Kessler: un invito a restare a casa, a
salvaguardare i valori tradizionali, famigliari, mentre erano in
corso immani turbolenze socio-politiche. L’adulto, tuttavia, non
ha ragione contro il bambino; il ricordo continua a essere il
luogo di un conflitto fra lo sguardo di ieri e quello di oggi, la
coincidenza imbarazzante fra «l’omologazione più sfrenata e la
felicità più nitida». Allo stesso modo, l’autore continua a essere
combattuto di fronte agli eccessi dell’industria del divertimento
da un’opposta volontà: «ragionare su quello che vedo» o «perdermi
nella partecipazione»25. È un atteggiamento del resto piuttosto
tipico. A mio parere l’intera letteratura postmoderna in Italia,
dagli anni ottanta a oggi, potrebbe essere letta come una
formazione di compromesso che fa spazio simultaneamente alla
fascinazione e alla critica nei confronti dell’universo mediatico
e consumista. A scadenze più o meno regolari, la bilancia fra le
due componenti può spostarsi da un lato e dall’altro, senza che
tuttavia venga meno l’ambivalenza.
6. Al postmodernismo italiano spesso si rimprovera anche il
carattere libresco, artefatto, mediato. Una letteratura
25 Ivi, p. 5.
20
dell’inesperienza, nella quale la memoria culturale avrebbe ormai
soppiantato quella vissuta in prima persona. L’ultimo romanzo di
Umberto Eco sembra quasi scritto per prendere in parola simili
accuse. Il protagonista – un libraio antiquario – in seguito a un
incidente stradale è vittima di una singolare amnesia selettiva.
Ricorda alla perfezione brani letterari e nozioni enciclopediche,
ma non gli episodi fondamentali del proprio passato. Finché un
giorno dà uno sguardo alla copertina di un albo di Topolino,
intitolato Il tesoro di Clarabella, e ricorda alla perfezione l’intera
storia. «Rosebud», esclama con un omaggio citazionista a Citizen Kane.
A differenza delle trame di Flaubert o Dumas, che appartengono
all’enciclopedia condivisa, canonica – e che in quanto tali egli
ricorda perfettamente –, la vecchia avventura di Topolino dovrebbe
far parte di un repertorio più personale, di una memoria di
letture infantili o adolescenziali. Alla ricerca del proprio
passato, allora, il protagonista torna sui luoghi della sua
infanzia, tra Langhe e Monferrato. Non saranno i sapori, gli
odori, i paesaggi a risvegliargli i ricordi; la strada delle
madeleine proustiane è preclusa a un uomo che vive più che altro
di parole. Sarà invece la sua biblioteca adolescenziale, una
sterminata collezione di romanzi d’avventura, fumetti e canzonette
degli anni quaranta, custodita nel solaio della sua vecchia casa,
a far riemergere gradualmente i traumi e le emozioni
dell’infanzia.
Ne scaturisce un romanzo illustrato, saturo di bizzarri
detriti culturali: desueti marchi pubblicitari come il Cacao due
vecchi Talmone, il Thermogène, l’effervescente Brioschi, le
figurine dei Quattro moschettieri della Perugina, di
un’«enciclopedia di paraletteratura», da Salgari ai fumetti di21
Flash Gordon, agli eroi coloniali e fascisti Cino e Franco,
protagonisti di un’avventura esotica nel regno della Regina Loana.
Una volta tanto la letteratura postmoderna non ha un sottotesto
scelto, nobile e riconoscibile, bensì un prodotto culturale
dimenticato, indegno perfino di un recupero antiquario, «una
storia stolidissima»26, come la definisce il protagonista, che
tuttavia si era impressa nella sua memoria con la forza di un
titolo eufonico: La misteriosa fiamma della regina Loana.
La scheggia di cultura di massa svolge insomma una funzione
antitetica rispetto ai cimeli degli anni settanta evocati dagli
scrittori più giovani. In quanto prodotti seriali e di massa, in
quel caso divenivano l’emblema di un vissuto comune, di una
memoria generazionale. Nel romanzo di Eco, invece, il fumetto
degli anni quaranta è quasi un pezzo unico, il feticcio di un
collezionista originale e in quanto tale diviene un contrassegno
dell’individualità, dell’idiosincrasia di una personalità e di una
biografia. Si tratta in fondo dell’evoluzione di un artificio
retorico già presente nei ricordi d’infanzia di Rousseau e ben
evidenziato da Francesco Orlando. Si vagheggia la propria infanzia
nella sua assoluta unicità e contingenza, a costo perfino di
contravvenire quelle esigenze di intelligibilità e condivisione
implicite in ogni atto comunicativo (si pensi a Rousseau che si
dilunga sul piacere suscitato da una canzone infantile di cui non
riesce neanche a ripetere più le parole)27.
26 U. ECO, La misteriosa fiamma della regina Loana, Bompiani, Milano 2004, p. 251.27 Cfr. F. ORLANDO, Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai Romantici, con una postfazionedi Sergio Zatti, Pacini, Pisa 2007, pp. 36-40.
22
7. È un principio da tener presente per comprendere il fascino
sfuggente dell’opera di uno dei cineasti più amati ma anche
detestati negli ultimi anni: l’americano Wes Anderson. Il
repertorio di temi del regista è subito riconoscibile: bambini
prodigio che giocano agli adulti o adulti che non riescono a
smettere di giocare, a pensare come Steve Zissou che undici anni e
mezzo è il momento migliore della vita. Memorie, malinconie,
lessici famigliari, zuffe di fratelli cresciuti ma mai maturati.
L’arte, il cinema, il teatro come continuazioni degli hobby, dei
giochi presi molto sul serio da bambini e adolescenti, delle
recite scolastiche, dei rituali di club e confraternite
studentesche. Quel che distingue il cinema di Anderson è tuttavia
la perfetta corrispondenza fra temi e scelte formali, fra una
poetica della fanciullezza e uno stile regressivo, vintage,
sottilmente anacronistico. Il gusto bambinesco per la
miniaturizzazione e il collezionismo dei personaggi andersoniani è
replicato così dalle sue inquadrature barocche, variopinte,
perfettamente bilanciate, sovraccariche di dettagli. La mania per
la catalogazione di bambini pedanti più o meno cresciuti è
ribadita dall’uso di sottotitoli definitori, dalla rigorosa
scansione in capitoli del racconto cinematografico, dalla
caratterizzazione fumettistica dei personaggi mediante un costume
sempre uguale, subito riconoscibile [Figg. 3 e 4]. Alla seriosità
pretenziosa dei piccoli eroi, al loro formalismo finto adulto fa
riscontro una recitazione manierata e forbita, comicamente
impassibile.
Questa corrispondenza fra temi e forme, fra storia e discorso,
fra racconto e regia, riguarda anche l’effetto madeleine. I
protagonisti dei film di Anderson possono ricordare, rimettere in23
scena, rimpiangere la propria infanzia o la propria fanciullezza.
Ad esempio l’oceanografo e cineasta Steve Zissou, in uno dei
momenti più struggenti di The Life Aquatic with Steve Zissou (2004), ripesca
dal suo archivio la lettera che l’undicenne americano Ned
Plimpton, ora pilota di aviazione e forse suo figlio naturale, gli
ha spedito più di vent’anni prima. Il bambino, come molti
coetanei, era un membro attivo della Zissou Society, una sorta di
fan club, impegnato sull’esempio del suo eroe in ricerche
naturalistiche. Ma uno stesso gioco di malinconico o spiritoso
ripescaggio è in atto fra il regista e gli spettatori più o meno
consapevoli. Zissou è infatti una versione fittizia e trasparente
di Jacques Cousteau, l’oceanografo, cineasta e divulgatore
scientifico che ha affascinato generazioni di bambini e
adolescenti, Anderson fra questi. Cousteau è fra le altre cose
un’icona della cultura di massa degli anni settanta, con il suo
berretto di lana da marinaio, le tute subacquee imbottite e le
Adidas a tre strisce puntualmente citate nel film.
In una delle sequenze più astruse di Life Aquatic, il modellino
della nave di Zissou – il Belafonte28 – si trasforma in un
gigantesco spaccato che prende vita fino a diventare, con un coup de
théâtre dal sapore felliniano, un set cinematografico [Fig. 5]. I
personaggi passano dall’uno all’altro degli ambienti perfettamente
attrezzati: la sala montaggio cinematografico, la cambusa, la
biblioteca scientifica, la sauna norvegese, la sala macchine, ecc.
Molti recensori hanno storto la bocca di fronte a una messa in
scena apparentemente gratuita e artificiosa. Tale artificio
28 Il nome è un’allusione metonimica a Cousteau: la nave di Cousteau si chiamavaCalypso, ma il Calypso è anche lo stile musicale caraibico reso celebre dalcantante Harry Belafonte.
24
tuttavia aveva forse un’unica ragion d’essere, ossia citare lo
spaccato variopinto della nave Calypso che compariva in apertura
alle molte pubblicazioni di Cousteau: un piccolo mondo in sé
conchiuso, autosufficiente, organizzato, di fronte al quale
innumerevoli bambini e adolescenti hanno sognato chissà quali
avventure marine. Si tratta di un materiale culturale peregrino,
non canonico, di una citazione quindi assai meno garantita
rispetto alla media dell’allusività postmoderna. Chi scrive aveva
ammirato quello spaccato svariati anni prima in calce a
un’enciclopedia oceanografica a puntate patrocinata da Cousteau
stesso: immediata quindi è stata la sintonizzazione sulle
nostalgie di Wes Anderson. Molti altri spettatori, al contrario,
saranno rimasti indifferenti. Ma qualcosa di simile si può dire a
proposito degli innumerevoli detriti culturali che vanno a
comporre l’universo collezionistico del regista. Se le madeleine
postmoderne di Nove e Labranca dicono noi, invocano un gruppo,
quelle di Eco dicono io e ne fanno tranquillamente a meno, quelle
di Anderson sono in bilico fra due estremi, fra io e tu, fra il
compiacimento del collezionista e la strizzatina d’occhio di chi
cerca occasionali compagni di gioco.
8. Con il cinema di Anderson, il romanzo di Jeffrey Eugenides
Le vergini suicide (1993) ha in comune lo stesso intreccio fra comicità
e pathos e un analogo approccio alla nostalgia. Un sentimento
struggente, ma sempre mitigato da una punta di ironia, da un
sorriso amaro che lascia trasparire una consapevolezza di fondo
della stessa futilità degli oggetti di affezione su cui si
esercita il rimpianto. I narratori del romanzo, uomini di mezza
25
età, appartenenti alla borghesia suburbana del Midwest, hanno
vissuto un trauma collettivo durante la loro adolescenza nei primi
anni settanta. Le cinque sorelle Lisbon, le bionde ragazze della
porta accanto, su cui avevano fantasticato per anni, che avevano
spiato con la concupiscenza voyeuristica tipica dell’età, con cui
erano usciti impacciati in festicciole scolastiche e goffi
ricevimenti domestici, sono state protagoniste di un inspiegabile
quanto agghiacciante suicidio collettivo. L’evento era salito per
poco alla ribalta della cronaca nazionale, trasformato in emblema
del disagio giovanile, o addirittura imputato alle suggestioni
sataniche della musica rock, prima di scivolare nel dimenticatoio
e di scomparire perfino dalla memoria di un quartiere in continua
trasformazione. Unici depositari del ricordo delle «vergini
suicide», devoti «custodians of the girls’ life»29 restano i
narratori i quali hanno accumulato una lunga lista di «prove» nel
disperato tentativo di spiegare il suicidio e soprattutto di
rievocare la presenza sempre più fantasmatica di chi non c’è più.
È un elenco maniacalmente ordinato come i referti di
un’istruttoria, una collezione e un museo personale. Dentro c’è un
po’ di tutto: vecchie foto di famiglia, un santino plastificato
appartenuto a Cecilia, la prima delle sorelle suicide, in preda a
un delirio mistico, il sapone al gelsomino usato dalle ragazze per
fare il bucato, una lista della spesa, gli opuscoli turistici su
cui le ragazze, segregate da una madre fanatica religiosa,
fantasticavano improbabili vacanze e svariati altri oggetti
personali. La devozione rasenta in molti casi il feticismo; i
narratori rimpiangono ad esempio di non possedere uno dei primi
29 J. EUGENIDES, The Virgin suicides, Picador, New York, 2000, p. 219; «custodi dellavita delle ragazze» (Le vergini suicide, Mondadori, Milano 2008, p. 193).
26
Tampax usati da Lux, la più affascinante e disinvolta delle
sorelle, descritto a suo tempo da un fortunato testimone come «a
beautiful thing, […] like a modern painting or something»30. I
cimeli sono in effetti il surrogato di un possesso che non c’è mai
stato, l’unica comunione possibile con coloro che per prime hanno
incarnato agli occhi dei narratori il mistero del femminile,
un’alterità resa definitiva dal suicidio. Fra i reperti ricordati
con più struggimento ci sono le canzoni pop che i narratori e le
ragazze si scambiarono pochi giorni prima del tragico epilogo. Le
ragazze rinchiuse in una casa ormai fatiscente da una madre
isterica e da un padre piombato nella depressione dopo la perdita
del lavoro, furono raggiunte telefonicamente dai narratori, resi
spavaldi dallo spirito di gruppo. Per tutta la giornata,
avvicinando la cornetta al giradischi, dettero vita a un dialogo
senza parole, utilizzando alcuni successi del momento, da James
Taylor a Cat Stevens, da Carole King a Elton John. Finché le
ragazze risposero alle molte canzoni d’amore proposte dai
narratori con un segnale apparentemente incoraggiante:
their turntable began grinding again, and we heard the song which
even now, in the Muzak of malls, makes us stop and stare back into a lost
time:
Hey, have you ever tried
Really reaching out for the other side
I may be climbing on rainbows,
But, baby, here goes:
30 Ivi, p. 8; «un bellissimo oggetto [...] faceva pensare a un quadro moderno»(Ivi, p. 13).
27
Dreams, they're for those who sleep
Life, it's for us to keep
And if you're wondering what this song is leading to
I want to make it with you.31
Make it with you (1971), grande successo dei Bread, un gruppo soft
rock che andava per la maggiore all’inizio del decennio, è una
canzone madeleine. Ancora una volta non si esce dall’ambito dei
consumi: quel che ora è cullante muzak da shopping mall, allora era
la hit per le esplosioni ormonali dei teenager; ma sotto le ceneri
del quieto consumismo della mezza età bruciano ancora le promesse
infiammate dell’adolescenza. Il tutto sarebbe vagamente derisorio
se alla luce degli eventi la profferta sessuale implicita nel
testo della canzone non si tingesse di una luce più macabra. Alla
canzone infatti era seguito l’invito perentorio «domani. A
mezzanotte»; loro malgrado e troppo tardi i ragazzi avrebbero
scoperto di essere chiamati solo a fare da spettatori al gesto
estremo delle «vergini suicide». È quanto di più vicino si
potrebbe immaginare nella letteratura contemporanea al rimpianto
di Frédéric e Deslauriers nell’Educazione sentimentale: il «ce que nous
avons eu de meilleur» con cui ricordano la prima visita al
bordello. E decisamente flaubertiano, nel combinare malinconia e
sarcasmo, è lo sguardo che i narratori gettano sulla bêtise
suburbana americana.
31 Ivi, p.192; «il loro giradischi cominciò a stridere, e udimmo la canzone cheancora oggi, quando viene trasmessa dalla filodiffusione dei centri commerciali,ci fa fermare e volgere lo sguardo verso un tempo perduto. / Ehi, hai maiprovato a tendere la mano verso l’al di là / Forse potrei scalare arcobaleni /Ma tu stammi a sentire / I sogni sono per chi dorme / La vita è tutta nostra / Ese ti chiedi il perché di questa canzone / Voglio farlo con te» (Ivi, p. 170).
28
9. Sembrerebbe difficile che la sensibilità memoriale fin qui
delineata, in quanto sottoprodotto del pieno sviluppo della
cultura dei consumi, possa attecchire fuori dall’occidente
capitalistico. E invece esiste una cospicua eccezione: il fenomeno
dell’Ostalgie, diffusosi nella ex Germania dell’Est a partire dalla
seconda metà degli anni novanta. Inizialmente la nostalgia della
DDR era un sentimento politico, attecchito nelle regioni e fra i
ceti sociali maggiormente danneggiati dalla Wende e presto delusi
dall’avvento del capitalismo: si rimpiangevano le protezioni dello
stato sociale socialista e si idealizzava lo spirito comunitario
di un tempo di contro alla competitività dell’economia di mercato.
Un ingrediente di questo impasto politico-sentimentale destinato
ad avere un grande successo era il recupero collezionistico di
aspetti della vita quotidiana nella ex DDR: gli interni domestici,
il design, prodotti alimentari, confezioni e marchi, musica di
consumo, abbigliamento, vacanze, campi estivi e organizzazione del
tempo libero. Il successo di alcune icone della Ostalgie come la
Trabant, la piccola utilitaria della DDR, o la Vita Cola, la
risposta socialista alla Coca Cola, per molti versi è paragonabile
alle madeleine italiane di Nove e Labranca: è il semiserio
rimpianto di un consumismo meno sofisticato, pionieristico e
trash. E in effetti, questa Ostalgie ha ben presto accomunato chi
era nato e cresciuto all’est e poteva indulgere in ricordi più o
meno dolci, e chi invece, nato e cresciuto nel ricco ovest, ha
imparato a trastullarsi con l’innocuo spettacolo di un «mondo di
consumi alieno»32. Nell’innesco del revival del pop DDR il cinema e32 P. COOKE, Representing East Germany since unification: from Colonization to Nostalgia, BergPublishers, New York 2005, p.145.
29
la TV l’hanno fatta da padrone, dai successi cinematografici di
Sonnenallee di Leander Haussmann (1999) e Goodbye Lenin di Wolfgang
Becker (2003) fino alla valanga di «DDR show» che sono fioriti sui
vari canali nazionali tedeschi a partire dal 2003 e alle decine di
Ostalgie Museum nel frattempo insediatisi in molte città della ex
Repubblica Democratica. Da residuo che ostacolava l’unificazione,
l’Ostalgie si è tramutata in un nuovo collante sociale. Quella che
inizialmente veniva condannata come una contromemoria edulcorata
che taceva le storture della Stasi e del totalitarismo, si è
tramutata in un patrimonio di riferimenti condivisibili, specchio
di una Germania divenuta una «comunità di consumatori» pienamente
unificata, capace di inglobare quindi anche i curiosi residui di
un passato ormai sconfitto. I cimeli della vita quotidiana di là
dal muro hanno quindi compiuto un rapido percorso: da oggetti di
consumo carichi di significato politico, ancora portatori
dell’alterità del socialismo reale, a depoliticizzati emblemi di
un passato che si offre al consumo dell’onnipresente nostalgia
postmoderna. Una trasmutazione rappresentata in modo emblematico
dalla trama di Goodbye Lenin. La DDR del film più che un’obbligante
Patria, una Fatherland, è una più morbida e meno impegnativa
Motherland, un «paese che non è mai esistito», ma nel quale la madre
del protagonista Alex ha creduto fino in fondo. Come Alex afferma
nella pensosa chiusa del film, mentre scorrono le note struggenti
di Summer 78 di Yann Tiersen e si rivedono i filmini in superotto
dei campeggi estivi di cui la madre era animatrice: «un paese che
per me resterà per sempre legato alla memoria di mia madre». In
questo conformante passaggio di genere da paterno al materno c’è
uno spostamento dell’ottica memoriale dalla politica alla vita
quotidiana, che distoglie dalle ferite della storia. La stessa30
pomposa propaganda della DDR viene imitata dalla menzogna a fin di
bene che Alex mette in scena per salvaguardare la salute della
madre Christiane, risvegliatasi dal coma dopo la caduta del muro.
Come i futuri scavenger dell’Ostalgie, Alex andrà a ripescare le
confezioni e i vestiti della vecchia Germania Est per convincere
la madre che nulla è cambiato e il socialismo non è in pericolo,
anzi masse di profughi scontenti del capitalismo stanno approdando
dall’ovest in una Wende al contrario. Nel mentre i suoi
connazionali corrono a spendere i primi deutsche marks e Berlino est
viene coperta da una valanga di cartelloni pubblicitari, Alex già
trasforma il passato quotidiano della DDR in un museo, un parco a
tema sul socialismo nel migliore dei mondi possibili. Il funerale
della madre viene celebrato mentre esplodono i fuochi d’artificio
per la festa della Wende. Le ceneri di Christiane vengono versate
nella testata di un razzo modellino con lo stemma della DDR: la
mamma può così ricongiungersi ai cosmonauti sovietici e tedeschi
che erano stati gli eroi dell’infanzia di Alex. L’elegia della ex
DDR si ricongiunge alla nostalgia di un moderno invecchiato, di un
futuro ormai alle spalle: quell’era spaziale che prometteva
mirabilie appena pochi decenni fa e ormai è ridotta a ingombrante
modernariato33.
33 Sull’influsso dell’era spaziale sulla cultura popolare e sulla successivanostalgia di un intero immaginario futuristico, cfr. S. TOPHAN, Where’s My Space Age?The Rise and Fall of Futuristic Design, Prestel Publishing, Munich 2003. Uno straordinarioesempio di nostalgia dell’era spaziale è la casa interamente arredata da unacollezionista canadese nello stile della base Alpha del telefilm di culto Spazio1999 (che conteneva molti dei classici del design degli anni settanta di arrediin plastica di autori come Joe Colombo, Eero Saarinen e produttori comeKartell): <http://www.space1999.net/~sorellarium13/intro.htm>, 8 agosto 2009.
31
10. Le memorie confortanti e domestiche delle nostre madeleine
sembrano insomma un antidoto alla serietà della storia. Tuttavia,
anche nella produzione dell’ultima generazione, di coloro che sono
cresciuti nel bozzolo rassicurante dei consumi e della cultura di
massa, l’infanzia può essere il luogo del trauma, di esperienze
estreme e violente. Esemplare il romanzo d’esordio di uno
scrittore nato nel 1970, Giorgio Vasta, intitolato Il tempo materiale
(2008). Siamo nel 1978, l’ambientazione è una Palermo petrosa,
abitata da animali randagi e macilenti e «ragazzi dialettali». Il
protagonista, però, al riparo dal disagio, vive immerso nella
quiete domestica di una famiglia piccolo borghese, scandita dalla
routine in bianco e nero di mamma Rai:
Appena sento la musica d’arpa arrivare dal soggiorno torno dentro a
guardare l’Intervallo. Che dovrebbe essere una pausa, la toppa tra i
programmi. Ma per me è l’ipnosi.
Il ponte a schiena d’asino di Apecchio, la valle di Visso sparsa di
case chiare. San Ginesio, Gratteri, Pozzo di Fassa. Le facciate di Sutri,
la fontana bianca di Matelica. Una decina di secondi a cartolina, poi la
dissolvenza e una nuova cartolina. L’eterna Italia rurale e pastorale
tirata su con le pietre grigie, tagliate a mano, fatta di muri a secco
ricamati dall’edera e dal muschio, abitata solo dagli osci e dagli
etruschi, semplice, contadina, i morti che riposano nei cimiteri di
paese, la ghiaia sul fondo tra le tombe, gli scricchiolii e l’odore dei
gladioli, tra la ghiaia le bacche dei cipressi, il cielo limpido, le
rose. Fantasmi del paesaggio, circonvenzioni della percezione nazionale.
Il pittoresco, il locale, il premoderno, il genuino. La bella Italia
semianalfabeta che per decenza ignora la grammatica.
32
Fino a un anno fa c’era Carosello, la radiografia della gioia. È
rimasto l’Intervallo, la giostra lenta dell’oblio, un presepe fabbricato
dalla televisione.34
Il protagonista Nimbo annusa diffidente icone televisive
attempate e recenti: Maya, la mutante di Spazio 1999 «un odore
grigioverde veloce che le formicola addosso»35; il comico Renato
Rascel, «un odore dolce e ottuso, di sebo e di acidi grassi, di
colesterolo»36; l’attrice Tina Pica «un odore di incenso vecchio
che arriva prima alle narici poi alla gola. La sacrestia. Il
turibolo»37; le meteore Laura Luca e Dora Moroni «un odore lungo e
sensuale che mi aveva fatto socchiudere gli occhi»38; il
presentatore Corrado «un odore integro, Italiano e domenicale,
pomeridiano»39. Il senso più diretto e animalesco, quello legato
per eccellenza alla memoria involontaria, alle vivide e naturali
impressioni dell’infanzia, si applica paradossalmente alla più
mediata realtà televisiva. Attraverso i media Nimbo assorbe anche
immagini che rompono la quiete del tinello televisivo: sono le
vignette crude del «porno a fumetti» anni settanta, sono i volti
sensuali di militanti e brigatiste, è la cronaca onnipresente del
sequestro Moro. La storia è parte del flusso totale dei media e
come tale viene esperita dai bambini. Nimbo e i suoi due amici
ricercano proprio questo immaginario per contaminare e sovvertire
la quiete televisiva; giocano ai terroristi, un gioco che
34 G. VASTA, Il tempo materiale, Minimum Fax, Roma 2008, p. 10.35 Ivi, p. 27.36 Ivi, p. 83.37 Ivi, p. 154.38 Ivi, p. 156.39 Ivi, p. 253.
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diventerà terribilmente serio. Rapiranno infatti un loro compagno
di scuola, l’imbelle Morana, e lo maltratteranno fino a ucciderlo.
Per la loro cellula terroristica adottano un codice gestuale,
l’«alfamuto» che riutilizza decontestualizzandoli i gesti
immortalati dalla TV: le mani a gabbiano di Celentano in Yuppi du,
il Tuca tuca di Raffaella Carrà, il salto della staccionata dell’olio
Cuore, l’annaspare del ragionier Fracchia. Per Bocca, l’ideologo
del gruppo si tratta di una scelta obbligata:
Quello che abbiamo [...] è questo. Le smorfie di Rita Pavone.
L’edulcorazione, la pietà posticcia. Il carnevale perenne. Macario che fa
il nonnino che parla col bambino. [...] E abbiamo Giumbolo [...] Abbiamo
Grisù. Abbiamo Obabaluba. Zigo Zago. Il mago. L’osso di pollo e
l’intruglio.
Abbiamo questo, conclude febbrile. Siamo questo.40
Sembra una dichiarazione generazionale degli scrittori
italiani dell’ultima ora: all’immaginario di consumo non si
sfugge. E per quanto si sforzino, i terroristi in erba del romanzo
non riusciranno a sfuggire alla peste postmoderna per eccellenza:
l’ironia, loro che vorrebbero giocarci contro tutta la serietà
dell’ideologia. Nei loro comunicati la frase tratta da una sigla
televisiva di un programma di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini
– «beato chi ci crede, noi no non ci crediamo» – farà l’effetto di
un’autosmentita, «una deriva farsesca, una messa in parodia, una
strizzata d’occhio per dire nessuno si preoccupi, stiamo solo
40 Ivi, p. 131.
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scherzando»41. Una inconsapevole confessione d’impotenza e
velleitarismo.
E velleitari, al di là di alcuni indubbi pregi della
scrittura, appaiono altri tentativi di affrontare la storia
recente attraverso il filtro della memoria personale, magari
scegliendo episodi che hanno uno statuto ibrido, a metà fra grande
e piccola storia, fra trame politiche e intrattenimento
televisivo. Si pensi alla vicenda di Alfredino Rampi che ha
colpito scrittori e artisti dell’ultima ora: il bambino caduto in
un pozzo artesiano il 10 giugno del 1981 a Vermicino nei pressi di
Roma, la cui straziante agonia, in mezzo a una pletora di
fallimentari tentativi di soccorso, fu oggetto di una grottesca
diretta televisiva non stop a reti unificate42. Facile spiegare
tanta attenzione: per chi era bambino allora – chi scrive fra
questi – si è trattato del primo traumatico contatto televisivo
con la morte e con il male, la prima storia in TV senza happy
ending.
L’intero romanzo di Giuseppe Genna, Dies Irae (2006) ruota
attorno alla morte di Alfredino. Il protagonista – alter ego
dell’autore secondo i dettami dell’autofiction – ne è letteralmente
ossessionato. Nel suo caso non c’è nessuna differenza fra il
ricordo traumatico di Alfredino e immagini altrettanto traumatiche
che appartengono alla storia della propria famiglia, come il
suicidio della nonna psicotica o il disseppellimento del cadavere
di uno zio, ritrovato perfettamente intatto. In tutti e tre i casi41 Ivi, p. 206.42 Ad Alfredino ha dedicato alcune pagine ispirate Aldo Nove (Superwoobinda,Einaudi, Torino 1998, pp. 23-24). Da ricordare anche una bella canzone deiBaustelle, un gruppo che è uno dei migliori esempi, nell’ambito della musicarock, della poetica della memoria postmoderna che stiamo seguendo (Alfredonell’album Amen del 2008).
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si tratta di esperienze non dirette ma mediate – dalla
televisione, oppure dai racconti ossessivi dei propri genitori –
che danno luogo a fobie, incubi, manie, grandi costruzioni
paranoiche. Nelle pagine del romanzo il bambino nel pozzo diviene
una metafora pervasiva, sempre più ramificata e polisemica che
unisce vicende individuali e storia politica, nonché il centro di
una grande cospirazione tipicamente postmoderna. A partire da
alcuni sospetti circolati negli anni ottanta e da un paio di
indagini giudiziarie archiviate, Genna ipotizza che la morte di
Alfredino sia stata un riuscito tentativo di depistaggio
dell’attenzione collettiva attuato dai servizi segreti. Pochi
giorni prima dell’accaduto infatti erano state scoperte le liste
della loggia P2 – uno scandalo subito sepolto dalla commozione per
la vicenda del bambino. In quella sera di giugno «cinquanta
milioni di italiani [...] per la prima volta nella storia
divengono cinquanta milioni di spettatori italiani»43. È l’atto di
inizio di quella che negli anni novanta diventerà la telecrazia
berlusconiana. Coincidenza significativa: il giorno dopo la morte
del bambino, sulle pagine del Corriere della sera, un’intera pagina a
pagamento, composta come una pagina di cronaca, annuncia la
nascita di una nuova città, Milano 3, una città «“amica” dei
bambini, affrancata dai pericoli del traffico e quindi senza pozzi
artesiani»44.
Nel romanzo è raccontata a più riprese una scena mai passata
in TV: l’estrazione del cadavere del bambino, congelato con
l’azoto liquido, una sfera traslucida all’interno della quale
Alfredo sembra quasi il feto cosmico del finale di 2001 Odissea nello
43 G. GENNA, Dies irae, Rizzoli, Milano 2006, p. 14.44 Ivi, p. 17.
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spazio. Nel romanzo le immagini fantascientifiche si alternano al
topos classico del fanciullo divino, il cui sacrificio propizia
l’avvento di una nuova era. Il tentativo di Genna, lodevole anche
se ben lontano dall’essere riuscito, è di leggere la storia
italiana recente, i suoi molti misteri, con le tecniche – di volta
in volta paranoiche, simboliche o archeologiche – del grande
romanzo postmoderno americano, di Pynchon e DeLillo. La
letteratura, l’invenzione si azzardano in territori dove la
ricostruzione fattuale incontra tuttora fortissimi ostacoli, o
comunque appare inadeguata a render conto della complessità degli
eventi. Nel suo Blog, zeppo di madeleine postmoderne, ma spesso
passate al contropelo di un’interpretazione sospettosa e
paranoica, l’autore rivendica lo sguardo originale di chi allora
era bambino:
Lo sguardo di un bambino sugli anni settanta non è considerato
attualmente una componente in grado di permettere lo sblocco che la
società italiana subisce dal reducismo, dal trionfalismo, dal
trasformismo di chi, quegli anni, li visse osservandoli con sguardo
adulto. E invece dovrebbe: la mia generazione è l’unica che può suturare,
attraverso operazioni di immaginario, quella falda storica45.
Non so se lo sguardo d’en bas dell’infanzia abbia questo
potere. Di sicuro i suoi eccessi umorali spingono l’immaginario
verso esiti opposti. La memoria dei primi incanti consumistici fa
vacillare il super-ego ideologico. Se il pathos del transeunte era
45G. Genna, Il post più triste del Web – Strange Days: in 1969 I came into thisplanet,<http://www.giugenna.com/2008/06/11/il-post-piu-triste-del-web-strange-days-in-1969-i-came-into-this-planet>, 8 agosto 2009.
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alla base dell’indugio memoriale fin dall’alba della modernità,
adesso pare ulteriormente acuito dai ritmi incalzanti della vita
liquida. Il carattere effimero, usa e getta della cultura dei
consumi sembra imprimere un giro di vite al sentimento di
nostalgia. Il suo lirismo può diventare una ricetta in più per
riciclare gli infiniti scarti dell’industria culturale d’antan.
Fra le madeleine postmoderne, tuttavia, si possono insinuare
alcune schegge mediatiche di tutt’altra natura, tracce della
violenza della storia deformate, ingigantite dai terrori e dalle
angosce dell’infanzia. C’è chi fa finta di credere ancora a Babbo
Natale, e chi invece continua ad aver paura del Babau.
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[FIG.2] DENIS SANTACHIARA, La stanza dei rimedi, dei rifugi e deiripari, installazione presentata alla mostra Dreams. I sogni degli italiani in50 anni di pubblicità televisiva, Triennale, Milano, 2004
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