Luigi Russo e Georges Sorel: sulla genesi del «moderno Principe» nei «Quaderni del carcere» di...

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STUDI STORICI 3 LUGLIO-SETTEMBRE 2013 ANNO 54 Carocci editore RIVISTA TRIMESTRALE DELL’ISTITUTO GRAMSCI

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STUDI

STORICI

3LUGLIO-SETTEMBRE 2013 ANNO 54

Carocci editore

RIVISTA TRIMESTRALEDELL’ISTITUTO GRAMSCI

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501 Giuseppe Petralia, Medioevo e riviste storiche italiane: uno sguardo di medio periodo (1960-2012)

545 Fabio Frosini, Luigi Russo e Georges Sorel: sulla genesi del «moderno Principe» nei «Quaderni del carcere» di Antonio Gramsci

591 David Bidussa, A proposito della «invenzione della tradizione»

Opinioni e dibattiti

611 Francesco Magris, Rivoluzionario o riformista? Victor Schoelcher e l’abolizione della schiavitù

623 Siria Guerrieri, L’Europa meridionale nella costruzione del sistema bipolare. L’Italia e la Grecia nella strategia statunitense, 1945-1946

Ricerche

651 Roberto Scoth, Le riforme carlo-albertine del 1840 e la formazione matematica degli agrimensori e degli architetti all’Università di Cagliari

681 Giovanna Canciullo, Il Mezzogiorno e la Grande depressione. Capitale straniero, imprenditori e trafficanti tra crisi e trasformazioni

699 Salvatore Mura, Aldo Moro, Antonio Segni e il centro-sinistra

743 English Summaries

749 Libri ricevuti

SOMMARIO

LUIGI RUSSO E GEORGES SOREL: SULLA GENESI DEL «MODERNO PRINCIPE» NEI «QUADERNI DEL CARCERE» DI ANTONIO GRAMSCI*

Fabio Frosini

È degno di nota il fatto che la nozione di «moderno Principe» viene abitual-mente assunta come evidente, in qualche modo legata a tutto il tracciato di lettura che Gramsci compie sul pensiero di Machiavelli1. Ciò è da ricondurre senza dubbio al fatto che il Quaderno 13, intitolato Noterelle sulla politica del Machiavelli, viene inaugurato proprio da un testo dominato dalla figura del moderno Principe, che in questo modo dà il tono all’intera trattazione. Questo testo è databile al maggio 1932, ed è la seconda stesura del § 21 del Quader-no 8, scritto tra gennaio e febbraio dello stesso anno2 e intitolato Il moderno Principe. Prima di questo momento, tale immagine è assente dalla trattazione su Machiavelli.Ciò che qui mi propongo, è pertanto di ribaltare la prospettiva, mostrando come quella immagine intervenga a un certo punto, ristrutturando profonda-mente l’economia dell’interpretazione di Machiavelli e quella stessa dei Qua-

* Desidero ringraziare Oreste Trabucco, il quale non solamente mi ha dato l’occasione di riflettere sul rapporto tra Gramsci e Luigi Russo, ma ha anche seguito, con amicizia pari solo alla dottrina, le vicende tortuose della stesura di questo testo.1 L’esempio maggiore di questa tendenza è rappresentato dal titolo scelto da Leonardo Paggi a condensare il significato dell’esperienza intellettuale di Gramsci dal 1914 al 1926: Antonio Gramsci e il moderno principe. I. Nella crisi del socialismo italiano, Roma, Editori riuniti, 1970. Per le vicende editoriali legate a questa monografia, quello che era in origine pensato come il secondo tomo (dedicato agli anni 1923-1926) di un libro unitario, è apparso solo nel 1984 con un diverso titolo complessivo: Le strategie del potere in Gramsci. Tra fascismo e socialismo in un solo paese. 1923-1926, Roma, Editori riuniti, 1984. Qui, alle pp. 387-426, è ristampata una pregevole ricostruzione del rapporto di Gramsci con Machiavelli: Il problema Machiavelli, originariamente apparsa nel 1969. In essa Paggi pone con forza l’accento sulla continuità ermeneutica, riguardo a Machiavelli, fin dagli anni torinesi.2 I termini di datazione dei testi dei Quaderni sono, qui e altrove, quelli stabiliti da Gianni Francioni e riportati da G. Cospito, Appendice, in Id., Verso l’edizione critica e integrale dei «Quaderni del carcere», in «Studi storici», LII, 2011, n. 4, pp. 881-904, pp. 896-904 (in cui è specificato anche il contributo di Cospito). L’edizione utilizzata (a cui si rinvia con QC) è: A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975.

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derni del carcere. A tale scopo, mi concentrerò sulla specifica situazione nella quale il moderno Principe fa la sua comparsa, al principio del 1932. Come si vedrà, tale comparsa segna una netta discontinuità rispetto alla ricerca pre-cedente e avvia una fase nuova, che sorge non solo sulla spinta dell’intima dinamica dei concetti, ma, in modo indissolubilmente intrecciato, per il de-terminarsi di una precisa congiuntura politico-culturale, che si tratterà qui di ricostruire.L’approccio qui proposto non esclude, beninteso, la possibilità di rintracciare nella scrittura carceraria di Gramsci i percorsi che conducono per vie interne a formulare la questione del moderno Principe. Ne è anzi un complemento: utile a illustrare come la novità, che Gramsci al principio del 1932 introduce nel proprio lavoro su Machiavelli, sia il luogo in cui precipita un’intera serie di questioni – il nesso tra egemonia e Stato, religione e politica, democrazia e dittatura, democrazia e demagogia, razionalità e passionalità – che si affollano tra il 1929 e il 1932, ma che appunto alle soglie di quest’ultimo anno danno luogo repentinamente a una struttura di pensiero nuova, che informa di sé il Quaderno 13 e tutto il primo gruppo degli «speciali»3.Nell’esposizione procederò nel modo seguente: dopo avere (par. 1) illustrato la distinzione tra l’idea di riscrivere Il Principe come manuale di dottrina po-litica, presente fin dal 1930, e la figura del moderno Principe, al contempo «“immagine” fantastica e artistica» e «libro “vivente”, in cui l’ideologia diventa “mito”»4, che appare solo nel 1932, procederò (par. 2) a ricostruire quello che a mio avviso è il punto di riferimento e lo stimolo che Gramsci tiene presente nel riformulare cosí profondamente l’impianto della propria ricerca: i Prole-gomeni a Machiavelli di Luigi Russo. Mostrerò quindi (par. 3) che la figura intellettuale di Russo era per Gramsci un punto di riferimento culturalmente e politicamente rilevante, perché, tornando a De Sanctis dopo l’esperienza del crocianesimo, egli aveva attinto nuovamente una dimensione autenticamente «nazionale popolare» nello studio della cultura e nell’attività di propaganda culturale mediante le riviste da lui dirette. Ciò aveva agli occhi di Gramsci, nel quadro dell’Italia fascista, un non trascurabile significato politico.Dopo aver stabilito che il moderno Principe è una risposta alla proposta po-litico-culturale rappresentata dal libro di Russo, illustrerò (par. 4) il modo in cui, dopo la lettura del libro, nella primavera del 1932, Gramsci riorganizzi tutta la ricerca su Machiavelli, portando a fusione la nozione di giacobinismo e quella di religione nell’interpretazione del Principe. Esaminerò quindi (par. 5) la ripresa del «mito» soreliano. L’obbiettivo sarà qui mostrare il nesso che tale

3 Sul primo gruppo dei quaderni speciali cfr. G. Francioni, L’officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei «Quaderni del carcere», Napoli, Bibliopolis, 1984, pp. 85-93, e piú in dettaglio ivi, pp. 93-115.4 Quaderno 8, § 21: QC, 951.

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nozione intrattiene nei Quaderni con quelle di egemonia e di ideologia, ciò che ne fa qualcosa di irriducibile alla fonte soreliana (o crociana), e lega tale nozione sistematicamente con la riflessione sulla «filosofia della praxis» con-tenuta nel Quaderno 11 e con quella su Benedetto Croce del Quaderno 10. Nella Conclusione mi interrogherò infine sul carattere concreto e determinato del «mito» suggerito da Gramsci, cioè sul contenuto effettivo che il «Principe-mito» comunista dovrebbe avere nella lotta politica nell’Italia fascista.A queste considerazioni introduttive ne va aggiunta un’altra, di carattere piú generale, che si lega all’accenno qui fatto ai Quaderni 10 e 11. L’avvio del 1932 segna un periodo di profonda riorganizzazione dell’intera «officina» dei Quaderni. Ci tornerò – limitatamente al Machiavelli – nel par. 4. Ma qui non si può tacere che la lettura di Russo è contestuale a quella dei Capitoli introdut-tivi di una storia dell’Europa del secolo decimonono, un opuscolo in cui Croce stampò i primi tre capitoli della Storia d’Europa5. Questa coincidenza non è casuale: come si mostrerà, il libro di Russo trasferisce su Machiavelli la storia etico-politica, nello stesso momento in cui Croce sviluppa questo approccio storiografico in una nuova ideologia, la «religione della libertà», cosí riveden-do in modo sostanziale il proprio approccio al conflitto tra il liberalismo e le varie «fedi religiose opposte». Di fatto, se non si comprende il Quaderno 10 senza la lettura di questo Croce, non si comprende il 13 senza i Prolegomeni a Machiavelli. E, si potrebbe aggiungere, non si giustifica il Quaderno 11 senza la conoscenza degli sviluppi piú recenti della discussione filosofica in Unione Sovietica. In questa sorta di sistema di tensioni tra fascismo, comunismo e liberalismo, si delinea nei primi mesi del 1932 il disegno dei primi quaderni monografici, che è, come si mostrerà, un disegno che nasce dalla politica e alla luce di essa va decifrato.

5 B. Croce, Capitoli introduttivi di una storia dell’Europa del secolo decimonono. Memoria letta all’Accademia di scienze morali e politiche della Società Reale di Napoli dal socio Bene-detto Croce, Napoli, [s.n.], 1931. Il libro fa parte del Fondo Gramsci, n. 152. Esso è vistato dal direttore del penitenziario, Vincenzo Azzariti (tale visto indica il fatto che il volume fu consegnato al detenuto), in servizio dal novembre 1930 al 18 marzo 1933 (cfr. QC, 2366 e 3045-3046). Il libretto giunse a Turi probabilmente tra la fine del 1931 e l’inizio del 1932 (cfr. la lettera di Gramsci a Tatiana Schucht del 18 aprile 1932, in A. Gramsci, T. Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di A. Natoli e C. Daniele, Torino, Einaudi, 1997, p. 974: «già apparsi [...] qualche mese fa»). Invece la Storia d’Europa nel secolo decimonono, pubblicata nel 1932, non fu consegnata a Gramsci, finché fu a Turi (cioè fino al novembre 1933), come risulta evidente dal fatto che l’esemplare presente nel Fondo Gramsci (19322), n. 173, manca del visto del direttore, oltre che da varie affermazioni epistolari: cfr. Gramsci, Schucht, Lettere 1926-1935, cit., pp. 993 (a Tatiana, 2 maggio 1932), 999-1000 (a Tatiana, 9 maggio 1932), 1461 (T. Schucht a P. Sraffa, 11 febbraio 1933). Cfr. inoltre la bozza – datata agosto 1932 – di un’istanza a Mussolini per ottenere la consegna del volume, in Quaderno 9, c. 99r.

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1. Dal «nuovo Principe» al «moderno Principe». Il «moderno Principe» fa la sua comparsa – come si è detto – nel § 21 del Quaderno 8. In questo testo – un passaggio ampio e complesso – Gramsci introduce per la prima volta due elementi che andranno di lí a poco a determinare l’architettura del Qua-derno 13: la lettura del Principe come «un libro «vivente», in cui l’ideologia diventa «mito» cioè «immagine» fantastica e artistica tra l’utopia e il trattato scolastico»6; e l’introduzione, nella progettata riproposizione attuale del tema, della «quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè [del]la quistione religiosa o di una concezione del mondo»7. Entrambi questi tratti interpretativi – mito e religione – si connettono all’interpretazione «giacobina» di Machia-velli, che si lega qui per la prima volta nei Quaderni, in relazione a Machiavelli, alla questione «religiosa».Fino a quella altezza, Gramsci aveva spinto in avanti la ricerca sul Segretario fiorentino secondo due direttrici principali: l’opera di Machiavelli, collocata nel suo tempo e quindi posta in relazione con il sorgere delle grandi monarchie nazionali; e l’idea di scrivere «un libro che traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe», come egli scrive già nel Quaderno 4, in un testo intitolato Marx e Machiavelli che è possibile datare tra maggio e agosto del 19308. In effetti, in entrambi i casi – riflessione storica e riformulazione teorica – ciò che aveva prevalso era un approccio in chiave di politica realistica, mediata dalla lezione crociana e piegata in chiave democra-tica grazie al ribaltamento della tradizionale lettura «obliqua». Tale approccio – come ha mostrato in pagine convincenti Leonardo Paggi – va decifrato in relazione al doppio fronte conflittuale che il Partito comunista apre in Italia a partire dal 1924, contro il fascismo e contro l’antifascismo democratico e liberale, e la sua origine può essere pertanto fatta risalire a quegli anni9.Fin dall’inizio della scrittura dei Quaderni del carcere, Machiavelli è presente come politico «legato al suo tempo»10, mentre solo di poco posteriore è l’e-nunciazione del parallelo tra Machiavellismo e marxismo (titolo del § 4 del

6 Quaderno 8, § 21: QC, 951.7 QC, 953.8 Quaderno 4, § 10: QC, 432.9 Cfr. Paggi, Il problema Machiavelli, cit., pp. 407-414. Meno convincente trovo l’ipotesi, formulata da Paggi (ivi, pp. 409-410), secondo cui andrebbe parimenti fatta risalire allo stesso triennio l’origine della lettura del Principe come «manifesto politico» (la «ripresa e la dilatazione della ipotesi avanzata da Chabod sulla genesi del libro») da Gramsci enunciata solo all’altezza del § 1 del Quaderno 13 (QC, 1556) e ripresa («“manifesto” di partito») nel § 20 dello stesso quaderno (QC, 1599, si tratta in entrambi i casi di varianti instaurative), e la connessa interpretazione del nuovo principe come «partito che vuole “fondare lo Stato”». Come mostrerò, questa novità appartiene alla particolare congiuntura teorico-politica del primo semestre del 1932, e va riferita a Russo, non a Chabod (di cui si può dubitare che Gramsci conoscesse la lettura: cfr. infra, nota 32).10 Quaderno 1, § 10: QC, 9.

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Quaderno 4), cioè dell’idea che il patrimonio di conoscenze sistematizzato sia da Machiavelli, sia da Marx, ha avuto in sorte – grazie a ricorrenti forme di «revisionismo»11 – di servire tanto alla classe progressiva, quanto a quella con-servatrice12. Questa doppia qualificazione non introduce un elemento nuovo nel pensiero di Gramsci, né nel suo modo di rapportarsi all’opera del Segretario: spiega anzi pienamente il nesso tra un approccio storicizzante e la riformula-zione in termini attuali. Ma essa – questo è il punto – presuppone l’interpreta-zione crociana dell’autonomia della politica: la presuppone, certo, per porla in questione, come abbastanza presto accade13; ma per tutto un periodo appunto continua a presupporla. Autonomia della politica significa un’idea di politica come logica della potenza: dunque un approccio realistico, scientifico. Da ciò sorge da una parte, per Gramsci, la questione della «verità» (del «dire la verità») come tratto essenziale alla politica rivoluzionaria, ma nasce dall’altro anche l’idea che nelle «scoperte» di Machiavelli e di Marx vi sia un nucleo utilizzabile politicamente da tutte le classi in lotta: per cui l’attualizzazione, cioè l’idea di un nuovo Principe, discende da ciò, come corollario naturale sia della «validità obbiettiva delle posizioni del Machiavelli»14, sia della necessità politica attuale, per il proletariato, di riappropriarsene l’eredità, per contrapporsi all’operazione revisionistica che Croce continua a condurre anche in pieno fascismo.Fin quando il presupposto dell’autonomia della politica non viene del tutto consumato, nel modo in cui Gramsci pensa e ripensa Machiavelli rimane pre-sente, anche se sempre piú attenuato, l’assioma della separazione di politica e morale, e la conseguente idea della realtà politica come complesso dei rapporti di forze, e della sua analisi scientifica come ricostruzione di questi rapporti con-dotta con animo realistico. Di conseguenza, il «duplice lavoro» annunciato nel 193015 non comprende ciò che nel 1932 si prevede che esso debba contenere: la «quistione religiosa o di una concezione del mondo», in cui al contrario politica ed etica si presentano come fuse nel «mito». E non comprende, come

11 Cfr. sopratutto Quaderno 4, § 8, intitolato Machiavelli e Marx, in cui il § 4 viene tra-scritto, e Quaderno 4, § 3: «Un altro aspetto della quistione è l’insegnamento pratico che il marxismo ha dato agli stessi partiti che lo combattono per principio, cosí come i gesuiti combattevano Machiavelli pur applicandone i principii» (QC, 422).12 Cfr. Quaderno 1, § 44: QC, 43, dove Machiavelli è definito «il piú classico maestro di politica per le classi dirigenti italiane». Analogamente, nella Introduzione al primo corso della scuola interna di partito (1925) si legge: «Il marxismo, cioè alcune affermazioni staccate dagli scritti di Marx, hanno servito alla borghesia italiana per dimostrare che per la necessità del suo sviluppo era necessario fare a meno della democrazia» (A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista. 1924-1926, a cura di E. Fubini, Torino, Einaudi, 1971, p. 54).13 Cfr. Quaderno 4, § 56: QC, 503-504 e Quaderno 5, § 127: QC, 657-658.14 Quaderno 4, § 4: QC, 425.15 Quaderno 4, § 10: QC, 432.

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si vedrà piú avanti, il giacobinismo come parte integrante di un ripensamento del Principe in relazione alla «riforma intellettuale e morale».Di conseguenza, quando Gramsci scrive, nel Quaderno 4,

l’importanza storica e intellettuale delle scoperte del Machiavelli si può misurare dal fatto che esse sono ancora discusse e contraddette ancora al giorno d’oggi: ciò significa che la rivoluzione intellettuale e morale contenuta in nuce nelle dottrine del Machia-velli non si è ancora realizzata «manifestamente» come forma «pubblica» della cultura nazionale16

allude al fatto che le masse popolari non hanno ancora appreso a collegare coerentemente mezzi adeguati a fini adeguati, in modo realistico, anche se ciò urta contro la morale ufficiale. Beninteso, nel 1932 questo elemento non viene meno. Ciò che cambia, è la nozione di politica in cui esso viene inseri-to: una politica che non respinge l’etica fuori di sé, ma la ripensa al proprio interno, la rende immanente alla prassi rivoluzionaria del partito-principe. Da questa riqualificazione della nozione di politica risulta anche la fisiono-mia del Quaderno 13. In esso l’immagine del moderno Principe campeggia (§ 1, che riprende in seconda stesura il già ricordato § 21 del Quaderno 8) e definisce sia la ricostruzione storica, sia la nozione di una scienza della po-litica. Quest’ultima inizia, non casualmente, proprio nel febbraio 193217 e si prolunga anche oltre la conclusione del Quaderno 13, nei Quaderni 14, 15 e 17, fino al 1934-193518.Fino al gennaio-febbraio 1932 l’idea di riscrivere Il Principe non è solamente debitrice della nozione crociana di politica come distinto; essa è anche del tutto sporadica, e non paragonabile alla frequenza con la quale Gramsci porta avanti l’altro filone della ricerca: su Machiavelli e il suo tempo, all’interno della piú ampia ricerca sulla storia degli intellettuali italiani, con particolare riguardo per il blocco economico-corporativo della borghesia rinascimentale, e per la formazione dello Stato moderno.Dal gennaio 1932 invece il rapporto si inverte, e il moderno Principe prende il sopravvento. Di fatto, fino a quel momento i rinvii a un’attualizzazione del Principe sono solo due, risalenti al maggio-agosto e, rispettivamente, novem-bre-dicembre 1930. In essi «il protagonista di questo “nuovo principe”»19 è il partito che, avendo conquistato lo Stato governo, deve conquistare anche lo Stato società civile. È il partito che, avendo abolito legalmente gli altri partiti,

16 Quaderno 4, § 8: QC, 430.17 Quaderno 8, § 37, intitolato Il moderno Principe, poi trascritto nel Quaderno 13 (§ 2).18 Questi testi sarebbero stati probabilmente trascritti, in seguito, nel Quaderno 18 (inti-tolato, a c. 1r, Niccolò Machiavelli – II), se Gramsci non avesse perduto qualsiasi capacità di lavorare. Qui infatti vengono trasferiti tre soli testi tratti dal Quaderno 2. 19 Quaderno 4, § 10: QC, 432.

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ha assorbito «la funzione tradizionale dell’istituto della corona»20 e che pertanto «esercita la funzione egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi, nella “società civile”, che però è talmente intrecciata di fatto con la società politica che tutti i cittadini sentono che esso invece regna e governa»21.È insomma il partito comunista bolscevico, che Gramsci assume sia in una prospettiva interna all’Urss, sia in una prospettiva comparativa, in relazione all’Italia fascista22, in modo da far risaltare le differenze reali entro il comune quadro dato dalla politica post-liberale, in cui i confini tra pubblico e privato sfumano e il partito assume di fatto funzioni statali. Ciò che qui Gramsci si prefigge di studiare è insomma la dinamica dell’egemonia come funzione di governo, e il modo in cui essa, esercitandosi, sposta i reali rapporti delle forze. Ma appunto questa è «una descrizione della fisionomia del “nuovo principe” nel pieno esercizio delle sue facoltà di governo»23, non è il moderno Principe delineato nel Quaderno 8.Qui si ha qualcosa di piú complesso: in questione è la formazione della volontà collettiva come movimento di totale trasformazione della civiltà, come forza che passa dalla sfera privata a quella pubblica, e ciò facendo spezza la stessa dicotomia, integralmente politicizzando la cultura e fondando cosí «una for-ma compiuta e totale di civiltà moderna»24. Qui non è piú solo in questione il rapporto tra egemonia e diritto: è la stessa idea complessiva di «cultura» che viene investita da un ripensamento che ricorda alcuni punti alti dell’esperienza ordinovista. Tra l’altro, la stessa alternativa terminologica (nuovo Principe/moderno Principe) è significativa: nella seconda dizione, oltre all’ambivalenza assente nella prima (Principe come libro e principe come protagonista reale della politica), si è infatti introdotto un riferimento forte alla modernità come al contempo orizzonte e terreno dello scontro, e come materia del contendere, che colloca questo stesso scontro in una dimensione assai piú profonda rispetto alla politica considerata come cozzo di potenze in lizza per la massima «utilità». Anche a questo riguardo, il rinvio, nel § 21 del Quaderno 8, al «senso completo della nozione» di giacobinismo «già fissata in altre note» è significativa, tanto piú se si tiene conto del fatto che Gramsci ha appena definito «i giacobini [...] una “incarnazione” “categorica” del Principe di Machiavelli»25. Come si vedrà piú avanti, l’intreccio di machiavellismo e giacobinismo, qui da Gramsci rea-

20 Ibidem.21 Quaderno 5, § 127: QC, 662.22 Come ricorda Ezio Riboldi (Vicende socialiste. Trent’anni di storia italiana nei ricordi di un deputato massimalista, Milano, Edizioni Azione comune, 1964), detenuto a Turi dal dicembre 1930 al giugno 1931, Gramsci gli disse che stava scrivendo «un saggio dal titolo: Le funzioni della Corona in Italia e quelle del partito comunista in Russia» (ivi, p. 182).23 Paggi, Il problema Machiavelli, cit., p. 417.24 Quaderno 8, § 21: QC, 953.25 QC, 954.

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lizzato, è incomprensibile senza il precedente di un ripensamento del nesso tra religione, politica e democrazia26.Allo stesso tempo, il ricorso alla nozione di «mito» come principio attivo della condensazione dei molteplici e disgregati punti di resistenza in una volontà collettiva unitaria rinvia chiaramente a un aspetto che fino a quel momento era rimasto in secondo piano, come un presupposto implicito: le forme concrete di lotta contro ed entro il contesto del fascismo italiano. Non piú dunque una comparazione esterna, tra Stati, ma una compenetrazione interna tra principi impegnati in una lotta su tutti i piani. L’introduzione del «mito» spiega anche perché adesso Il Principe venga presentato da Gramsci come una sintesi in atto di ragione e passione, come «un libro “vivente”, in cui l’ideologia diventa “mito” cioè “immagine” fantastica e artistica tra l’utopia e il trattato scolasti-co, in cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un “condottiero” che presenta plasticamente e “antropomorficamente” il simbolo della “volontà collettiva”»27. Invece in precedenza Gramsci si era limitato a rivendicare la ne-cessità di una trattazione non sociologica («scrivere un libro “drammatico” in un certo senso, un dramma storico in atto, in cui le massime politiche fossero presentate come necessità individualizzata e non come principi di scienza»)28, e solo in relazione al nuovo Principe, senza pronunciarsi sullo statuto testuale dell’opuscolo machiavelliano.

2. I «Prolegomeni a Machiavelli». Illustrata la novità obbiettiva presente nella nozione di «moderno Principe», si tratta ora di mostrare in quale specifica congiuntura essa prenda forma, vale a dire, in risposta a quali sollecitazioni e con quali obbiettivi. La mia tesi è che la decisione di ripensare Il Principe come un libro vivente, e di caratterizzare il moderno Principe come banditore di una riforma religiosa, segnando cosí una sorta di nuovo inizio della ricerca su Machiavelli, sia una reazione al libro di Luigi Russo Prolegomeni a Machiavelli, pubblicato nel 1931 e da Gramsci richiesto alla cognata Tatiana Schucht nella lettera del 23 novembre dello stesso anno29. E dicendo «reazione» non mi rife-risco solamente al fatto scientifico-letterario, per cui una novità di approccio a Machiavelli trova, migrando da Russo a Gramsci, da quel momento in avanti piena cittadinanza nella pagina gramsciana. La mia tesi è che l’intervento di

26 Parallelamente a ciò, sarebbe necessario seguire le trasformazioni della stessa nozione di giacobinismo, che passa dall’identificare una politica realistica e concreta (cfr. Quaderno 1, § 43: QC, 40 e § 44: QC, 43-44, febbraio-marzo 1930) alla designazione di un rapporto strutturale tra politica e religione come elemento costitutivo dello Stato moderno in quanto Stato «etico» (Quaderno 6, § 87: QC, 763, marzo-agosto 1931). Ciò non si riflette però sulla lettura del Principe fino al principio del 1932.27 Quaderno 8, § 21: QC, 951.28 Quaderno 4, § 10: QC, 432.29 Cfr. Gramsci, Schucht, Lettere 1926-1935, cit., p. 867.

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Russo sia apparso a Gramsci un fatto politico importante, ed è in questa pro-spettiva che quella novità di approccio diventa pienamente significativa.Il libro – nell’edizione Le Monnier di Firenze – è custodito nel Fondo Gramsci presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma. Esso presenta i contrassegni carcerari e la firma del direttore Vincenzo Azzariti30.La prima testimonianza certa dell’uso di questo libretto da parte di Gramsci risale a un testo del febbraio 1932, intitolato Machiavelli. Il moderno Principe31, ma già in un passaggio di poco precedente, risalente allo stesso mese (Quader-no 8, § 43, Machiavelli), vi è una breve citazione dal VII libro dell’Arte della guerra, che con ogni probabilità è tratta dal libro di Russo32.Almeno dal febbraio 1932 i Prolegomeni sono dunque nelle mani del dete-nuto. Di essi, oltre che nei già ricordati testi di quel mese, e in uno scritto in marzo (Quaderno 8, § 84, Machiavelli. Essere e dover essere)33, si trova traccia

30 Il libro è nel Fondo Gramsci al n. 628.31 «Il Russo nei Prolegomeni fa del Principe il trattato della dittatura (momento dell’autorità e dell’individuo) e dei Discorsi quello dell’egemonia o del consenso accanto a quello dell’au-torità e della forza» (Quaderno 8, § 48: QC, 970). Cfr. L. Russo, Prolegomeni a Machiavelli, Firenze, F. Le Monnier, 1931, pp. 44-48.32 Cfr. ivi, p. 44. Oltre a questo libro, Gramsci riceve in carcere anche l’edizione major del Principe, curata da Russo e contenente anch’essa, come saggio introduttivo, i Prolegomeni. Di questa edizione scrive a Tatiana, il 9 maggio 1932, che gli è giunta «successivamente» al «settembre-ottobre 1931» (Gramsci, Schucht, Lettere 1926-1935, cit., p. 999). A essa si fa esplicito riferimento in un testo del maggio 1932 (Quaderno 8, § 237: QC, 1089-1090). Questo libro non è conservato nel Fondo Gramsci, e non si può stabilire quando esattamente Gramsci lo abbia ricevuto (certo non molto prima del 9 maggio 1932). Va inoltre segnalato che nella lista della lettera del 23 novembre 1931, cit., oltre al saggio di Russo, Gramsci richiede «Federico Chabod, Dal [sic!] «Principe» di Niccolò Machiavelli, Albrighi-Segati, Milano», 1926, e «Giuseppe Toffanin, Che cosa è stato l’Umanesimo? [sic!]), Ed. Sansoni, Firenze», 1929 (Lettere 1926-1935, cit., p. 867). Anche il volume di Toffanin è presente nel Fondo Gramsci (n. 708, anch’esso vistato da V. Azzariti), mentre quello di Chabod (a correzione di quanto si legge in Lettere 1926-1935, cit., p. 867n.; e cfr. anche ivi, p. 690n.) non è nel Fondo Gramsci, né risulta da Gramsci mai ricevuto. Il saggio di Chabod e quello di Russo vengono ricordati anche in una lista non numerata di sedici volumi, appuntata nel contropiatto posteriore del Quaderno 2 (rispettivamente ai nn. 9 e 16). La lista è di impossi-bile datazione (il tempo di compilazione del Quaderno 2 va dal 1929 al 1933), anche perché nessun altro dei volumi in essa registrati risulta presente nel Fondo Gramsci, tranne il libro di S. de Madariaga su Ingleses, Franceses, Españoles. Ensayo de psicología colectiva comparada, alla cui traduzione francese Gramsci accenna nella lettera a Tatiana del 19 ottobre 1931 (cfr. Gramsci, Schucht, Lettere 1926-1935, cit., p. 840), ma che poi si procura nella IV ed. spagnola, del 1934, ovviamente priva di contrassegni carcerari e in buona parte intonsa).33 «Il Russo ha accumulato molte parole a questo proposito – nei Prolegomeni» (QC, 990). Il riferimento esplicito è al cap. I del libretto di Russo, intitolato Savonarola e Machiavelli (Prolegomeni a Machiavelli, cit., pp. 9-15). Anche il successivo § 86, Machiavelli, con il riferimento alla crociana coppia Chiesa/Stato, si basa su Russo, il quale conclude il capitolo I proprio citando il detto di Ranke nella rilettura fattane da Croce (ivi, pp. 14-15).

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nella seconda stesura del § 21 del Quaderno 8, che è precisamente il testo di apertura del Quaderno 13. Qui Gramsci ricorda: «Nei Prolegomeni di L. Russo il Machiavelli è detto l’artista della politica e una volta si trova anche l’espressione “mito”, ma non precisamente nel senso su indicato»34. Tornerò piú avanti su questo riferimento, che come si vedrà non è l’unico presente nel testo di Gramsci. Per il momento è necessario soffermarci sul libro di Russo, restituendone i passaggi essenziali35.Il critico siciliano esordisce con un capitolo intitolato Savonarola e Machia-velli, nel quale i due vengono contrapposti come reciproche unilateralità: essi rappresentano i due «momenti eterni dello spirito umano», che in questa per-sonificazione si rendono unilaterali, mentre la storia è sempre storia dei loro «rapporti» e della loro «lotta»: «chiesa» e «stato», perché «senza la congiunzione di religione e politica, non si compie opera storica nel mondo»36. La coppia «Chiesa e Stato in senso ideale e loro perpetua lotta nella storia» è, come si chiarisce in nota37, un rinvio al detto di Ranke, o meglio al ripensamento che di esso aveva condotto Croce in un saggio del 1928 (Un detto di Leopoldo Ranke

34 QC, 1555.35 Sui Prolegomeni a Machiavelli cfr.: V.E. Alfieri, [recensione], in «La Critica», XXX, 1932, pp. 43-46; G. Marzot, L’opera critica di L. Russo, in «La Nuova Italia», III, 1932, n. 5, pp. 176-182, p. 180; F. Chabod, Studi di storia del Rinascimento (1950), in Id., Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi, 1967, pp. 145-219, p. 171; D. Cantimori, Il «Machiavelli», in «Belfagor», XVI, 1961, pp. 749-757; E. Garin, Luigi Russo nella cultura italiana dalla prima alla seconda guerra mondiale, ivi, pp. 676-697, pp. 691-692; V. Masiello, Momenti sintomatici della moderna critica machiavelliana (1964), in Id., Classi e Stato in Machiavel-li, Bari, Adriatica editrice, 1971, pp. 11-47, pp. 27-33; M. Ciliberto, Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato, 1982, pp. 176-188; G. Calabrò, Machiavelli negli anni Trenta: echi di un dibattito, in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo. Atti del convegno di Milano, 16 e 17 maggio 2003, a cura di L.M. Bassani e C. Vivanti, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 1-27, pp. 7-10; U. Carpi, Per il «Machiavelli» di Luigi Russo, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie V, 2012, n. 4/1, pp. 133-156. Sulla lettura gramsciana dei Prolegomeni cfr. A. Gramsci, Quaderno 13. Noterelle sulla politica di Machiavelli, a cura di C. Donzelli,Torino, Einaudi, 1981, note ad loc.; N. Badaloni, Il Machiavelli di Russo e Gramsci, in Lo storicismo di Luigi Russo: lezione e sviluppi, Firenze, Vallecchi, 1983, pp. 69-76; G.M. Barbuto, Machiavelli e i totalitarismi, Napoli, Guida, 2005, pp. 74-90. Su Russo al tempo della pubblicazione dei Prolegomeni, cfr., oltre al contributo di Garin citato in questa nota: R. Pertici, Benedetto Croce collaboratore segreto della «Nuova Italia» di Luigi Russo (con «L’estetica marxistica» e altre schermaglie), in «Belfagor», XXXVI, 1981, pp. 187-206; A. Resta, «La Nuova Italia» nella Firenze di Alessandro Pavolini (dalle carte di Luigi Russo del 1931), ivi, XXXVIII, 1983, pp. 309-322; G. Turi, Luigi Russo: il dialogo con gli amici, ivi, XLVIII, 1993, pp. 15-27.36 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 14. L’ultima frase compare alla lettera anche in L. Russo, Elogio della polemica. Testimonianze di vita e di cultura. 1918-1932, Bari, Laterza, 1933, p. XXIII. Il volume è una collezione di saggi pubblicati tra il 1918 e il 1932. Cfr. Ciliberto, Filosofia e politica nel Novecento italiano, cit., p. 179.37 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 14n.

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sullo Stato e la Chiesa)38, che al momento della raccolta in volume, proprio nel 193139, riceve il titolo Stato e Chiesa in senso ideale e loro perpetua lotta nella storia.Russo spostava dunque su Machiavelli una tesi di Croce, sulla quale Gramsci era andato, tra l’autunno 1930 e la fine del 1931, nei Quaderni 5 e 6, ap-profonditamente riflettendo, allo scopo di intendere la forza di resistenza del modello liberale nel contesto della nuova politica italiana ed europea di massa e totalitaria (ciò che egli sintetizza nella nozione di «guerra di posizione»)40. In questo modo, il libro di Russo non poteva non apparire a Gramsci come un intervento nell’attualità politica: un tentativo di ripensare la sistemazione crociana del contributo di Machiavelli alla filosofia politica, risalente agli Ele-menti di politica del 192541, alla luce dell’etico-politico, cioè della nuova forma assunta dallo storicismo di Croce nella duplice lotta – dichiarata apertamente almeno dalla conferenza oxoniense del settembre 1930 su Antistoricismo – al fascismo e al comunismo, ma preparata già negli anni precedenti42.Questo sforzo è nei Prolegomeni chiaramente riconoscibile43. In essi, della no-zione di politica come distinto viene attribuita a Machiavelli una versione esa-sperata, che spinge la politica a occupare la vita intera («crederà che la politica sia tutto»)44 e in questo modo rende necessaria la resurrezione dell’etica in for-ma opposta, come accade con Savonarola e con il «momento “savonaroliano”»45 del capitolo XXVI del Principe. Il ribaltamento dell’«artista-eroe della politica

38 In «La Critica», XXVI, 1928, pp. 182-186.39 In B. Croce, Etica e politica (1931), Roma-Bari, Laterza, 1967, pp. 284-289.40 Su questa congiuntura mi permetto di rinviare ai miei: Fascismo, parlamentarismo e lotta per il comunismo in Gramsci, in «Critica marxista», n.s., 2011, n. 5, pp. 29-35; I «Quaderni» tra Mussolini e Croce, ivi, n.s., 2012, n. 4, pp. 60-68.41 «[...] è risaputo che il Machiavelli scopre la necessità e l’autonomia della politica, della politica che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale» (B. Croce, Elementi di politica [1925], in Id., Etica e politica, cit., p. 205. Si veda anche Id., Filosofia della pratica. Economica ed etica [1908], Bari, Laterza, 19638, p. 279).42 La conferenza oxoniense fu subito pubblicata, nel numero del 20 novembre 1930: B. Croce, Antistoricismo, in «La Critica», XXVIII, 1930, pp. 401-409. Su questa vicenda mi permetto di rinviare al mio Croce, fascismo, comunismo, in «Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici», XLVIII, 2012, n. 3, pp. 141-162, pp. 145-157.43 Masiello, Momenti sintomatici della moderna critica machiavelliana, cit., ignora del tutto questo nesso con l’etico-politico. Per lui quella di Russo è l’«interpretazione “dottrinaria” della meditazione machiavelliana, che era tipica della critica idealistica» (ivi, p. 29), che viene esasperata a contatto con «le suggestioni gentiliane delle tesi dell’Ercole» (ivi, p. 30). Non a caso egli giudica la lettura russiana priva di «tentazioni “militanti”» (ivi, p. 33). Ben diversa è la valutazione di Garin, Luigi Russo nella cultura italiana dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., p. 691: «un oltrepassamento non trascurabile delle posizioni crociane, e un’intuizione acutissima del dramma del Rinascimento e di tutta la storia italiana».44 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 31.45 Ivi, p. 32.

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pura»46 dei primi venticinque capitoli del trattato nell’«apostolo e profeta di una laica e civile religione»47 dell’ultimo capitolo, del «pathos della tecnica» nel «pathos profetico»48, nasce dallo scacco in cui incorre la pretesa «che la politica sia tutto»49 e che lo Stato, di conseguenza, sia solo politica in questo senso intesa:

[...] il Machiavelli, che appare cosí spregiudicato e smaliziato interprete delle cose moderne, rimane egli stesso vittima della sua logica estrema. Poiché, se l’entusiasmo religioso del frate resta, ai suoi occhi, una profezia disarmata, disarmata, diciamo noi, di quelle forze politiche che solo possono farla valere nella storia, una profezia disar-mata, e non agli occhi dei soli piagnoni, resta anche la scienza pura del Machiavelli. Senza pathos profetico, senza rinnovamento morale, senza coscienza civile, anche il principato machiavellico è destinato a restare un’utopia. [...] è pur necessaria la fede, quel timore di Dio senza il quale non c’è neanche pietas fra gli uomini, e senza il quale viene anche meno la riverenza per i capi50.

L’allusione al mussoliniano Preludio al Machiavelli è troppo scoperta, perché sia necessario ritornarci51. Il testo di Russo interviene su un terreno assai piú largo, che investe l’idea di civiltà e di cultura, e al loro interno quella, per con-seguenza, di politica. Di Machiavelli non si rivendica un’immagine opposta a quella – popolarizzata da Mussolini, ma diffusissima – dell’«antitesi [...] fatale» tra principe e popolo, dell’identificazione dello Stato con il principe, della riduzione della «libera volontà del popolo» a «finzione» e «illusione», e della po-litica all’«arte di governare i popoli, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi di ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro»52.

46 Ivi, p. 20.47 Ivi, p. 32.48 Ivi, pp. 28 e 32.49 Ivi, p. 31. E cfr. ivi, p. 35: «panpoliticismo».50 Ivi, p. 11.51 «Del resto, come non vedere nello stesso titolo dei Prolegomeni a Machiavelli una risposta al Preludio al Machiavelli di Mussolini?» (Cantimori, Il «Machiavelli», cit., p. 753).52 B. Mussolini, Preludio al «Machiavelli», in «Gerarchia», III, 1924, n. 4, pp. 205-209, ora in Id., Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1956-1961, vol. XX, pp. 251-254. Si tratta di una lettura non spiritualistica, né totalizzante, tutta appoggiata sulla riduzione della politica a esercizio della forza. Cfr. X. Tabet, Machiavel et le fascisme italien, in Langue et écritures de la République et de la guerre. Etudes sur Machiavel, sous la direction d’A. Fontana, J.-L. Fournel, X. Tabet, J.-C. Zancarini, Genova, Name, 2004, pp. 467-485, pp. 482-484. Sulla lettura mussoliniana, inquadrata nel piú ampio disegno di appropria-zione ideologica di Machiavelli da parte del regime, cfr. L. Mitarotondo, Il «Principe» fra il «Preludio» di Mussolini e le letture del «ventennio», in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo, cit., pp. 59-78.

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La posizione sulla quale i Prolegomeni si attestano è assai piú ambiziosa, e consiste nel ripensamento, fin dalle premesse, della «tragedia» nascente dal-l’«angustia [...] del pensiero del Machiavelli»53: della tragedia politica che ha vissuto tutto il mondo moderno, in quanto esso ha preteso di culminare nel liberalismo54. Da questa tragedia, Croce aveva indicato una via d’uscita distin-guendo la politica dall’etica, e recludendo Machiavelli nello spazio della prima. Ma ora Russo «legge il conflitto all’interno di Machiavelli stesso»55, e in tal modo per un verso lo drammatizza ed esaspera, dandogli un rilievo psicologico, per un altro lo spinge verso una nuova composizione:

[...] scoppia tale contrasto, proprio alla fine del celebre trattatello [...] in cui si ha il riconoscimento involontario che la virtú politica, da sola, non basta a riformare e a unificare le nazioni: il pathos profetico, la religione, la cultura come senso di una tra-dizione, la chiesa invisibile che alberga nella coscienza dei singoli, gli affetti della vita morale dei popoli, sono essi il fondamento stesso56

affinché lo Stato da «Stato-Opera d’arte si tramuti in Stato-Civiltà»57. Questa «curiosa ma inevitabile contraddizione», per cui Machiavelli, «dopo aver disser-tato freddamente delle arti del lione e della golpe, alla fine del trattatello, ruba i colori, le immagini, e lo stile al suo satireggiato avversario, all’idolo polemico della sua fantasia, e parla da profeta»58, non è però una mera dichiarazione di reciproca (e «tragica») esteriorità, secondo un modulo crociano che rimane invece sempre ben fermo (quasi un presupposto indiscusso) nella concomi-tante lettura di Chabod59. Trasformando il contrasto in un dramma vissuto, e rincalzando la «storia ideale eterna» dei distinti con l’unità dell’«uomo e [del]la

53 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 31.54 Cfr. Ciliberto, Filosofia e politica nel Novecento italiano, cit., p. 178: il Machiavelli di Russo «nasceva e traeva forza anche dal bisogno di risalire, nel momento della crisi radicale dello Stato liberale e del trionfo fascista, alle origini della scienza politica moderna, di spro-fondare in esse, per ritrovare quasi in una sorta di intuizione originaria, le ragioni di quella crisi e di quella degenerazione».55 Badaloni, Il Machiavelli di Russo e Gramsci, cit., p. 71.56 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 32.57 Ibidem.58 Ivi, pp. 13-14.59 Cfr. F. Chabod, Del «Principe» di Niccolò Machiavelli (1925), ora in Id., Scritti su Ma-chiavelli, Torino, Einaudi, 1964, pp. 29-135, p. 100; Id., Niccolò Machiavelli (1934), ivi, pp. 195-240, p. 212; Id., Metodo e stile di Machiavelli (1955), ivi, pp. 369-388, pp. 380-384. Sulla lettura di Chabod cfr. E. Cutinelli-Rèndina, Rileggendo gli Scritti su Machiavelli di Federico Chabod, in Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod. Atti del Convegno, Aosta, 5-6 maggio 2000, a cura di M. Herling e P.G. Zunino, Firenze, Olschki, 2002, pp. 1-31. Sull’autonomia della politica ivi, pp. 2-3, 19-20.

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sua attività»60, Russo rilegge a modo suo l’annoso contrasto tra Machiavelli e Savonarola e, con esso, la stessa struttura del Principe.Con un abile gioco prospettico, ciò che all’inizio del libretto era presentato come un salto repentino, il sintomo di un’aporia, al termine di esso, riletto dal punto di vista della politica reale, appare alla luce di una piú profonda unità61. Mediazione tra i due momenti sono proprio le nozioni di «pathos della tecnica»62, di «poesia della scienza»63, di Machiavelli insomma come «artista-eroe della politica pura»64: esse consentono infatti di fissare nell’«animus artisti-co» il luogo in cui «le molte aporie e antinomie»65 del pensiero machiavelliano trovano composizione66. Artista, poeta, cioè creatore: nella teoria politica vi è anche azione, ed è qui che trovano unità le componenti della personalità di Machiavelli. Per questa ragione, nel proemio al primo libro dei Discorsi Russo ritrova la formulazione della «necessità di una storia militante»67, e delle Istorie fiorentine afferma che «vanno lette, come tutte le altre sue opere, non come historia rerum gestarum, ma anch’esse come una res gesta68, o meglio un rem gerere sistematico, come un’intenzionale collaborazione di uno spirito militante alla nuova civiltà politica del Rinascimento»69. Ciò vale a fortiori per Il Principe, due volte definito libro di «politica militante»70.Qui è il punto di mediazione: questo «sentire le istorie, piú che come rac-conto di cose compiute, esse stesse come una res gesta»71, spiega sí «il favore accordato [da Machiavelli] sempre alle decisioni e ai pensieri estremi»72, ma anche facilita l’inserimento dello schema astratto e «machiavellico» del Principe (politica «pura») entro la concretezza storica dell’Italia, pensata non in termini

60 Cantimori, Il «Machiavelli», cit., p. 756.61 Cantimori (ivi, p. 749) nota anche che «in quel libro [...] sembrava quasi congiungersi l’estro polemico etico-politico, vivacissimo sempre in lui e specie in quegli anni, e un piú accentuato gusto critico-letterario di tipo storicistico».62 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 28.63 Ivi, p. 57.64 Ivi, p. 20.65 Ivi, p. 61.66 In questo concetto ampliato di «arte», che copre tanto la tecnica, quanto la scienza, quanto infine la creatività drammatica, Russo concilia a modo suo le dicotomie nascenti dall’idealismo, sfuggendo sia alla tesi della distinzione tra etica e politica, sia alla retorica della «religione della libertà». Cfr. Badaloni, Il Machiavelli di Russo e Gramsci, cit., pp. 71-72.67 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 49.68 Nella successiva edizione del testo, raccolto nel volume Machiavelli, Roma, Tumminelli, 1945, p. 71, l’espressione è corretta in «res gerenda».69 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 51.70 Ivi, pp. 22 e 45.71 Nell’edizione del 1945 (Machiavelli, cit., p. 38) è presente la stessa correzione gesta/gerenda.72 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 28.

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statici, ma come gioco politico aperto, viluppo di forze, dove l’assenza di una (il popolo)73 non impedisce di pensarne la presenza possibile: sul terreno della storia e della politica e non su quello della teoria e della filosofia.È questo il punto di vista dell’ultimo capitolo dei Prolegomeni, intitolato L’arte nel «Principe», e la «Mandragola»74. Come si è detto, qui le aporie del pensiero machiavelliano vengono dinamizzate politicamente in una nozione amplificata di «arte». Il Principe

nasce dalla passionale esigenza che in Italia un principe sorga per ridurre a monarchia questa provincia, per fare equilibrio alle grandi monarchie di Francia e di Spagna, e all’impero della Magna. Senonché la prima ispirazione passionale avrebbe potuto dar luogo a un discorso oratorio, e il Machiavelli è antioratorio per eccellenza: da ciò la necessità di superare la passione contingente, attingendo la sfera di una superiore obbiettività scientifica. Quella che è l’aspirazione politico-passionale dello scrittore si lascia perciò precedere da tutta una fredda e obbiettiva dimostrazione scientifica. Non brusco, improvviso e artificioso adunque questo passaggio dalla trattazione scientifica a un argomento di passione politica, come vogliono credere alcuni interpreti; perché in verità cotesto sentimento ultimo è stato presente in tutta l’opera [...]. Però la pero-razione finale è [...] lentamente preparata75.

Il «pathos della tecnica» viene collocato nel suo contesto concreto, che non è «la tecnica per la tecnica»76, ma non è neanche soltanto la situazione politica italiana come sfondo generico; ma è anche e sopratutto l’attitudine dello scrit-tore del Principe: diretta, schietta, avvalorata da un impasto linguistico «crudo», legato «al profondo e istintivo sentimento del politico uomo di popolo», da una prosa piena di «energia popolare» e da un «piglio popolaresco e parlato», da un «tono di disputa polemica» che non è «elucubrazione di uno studioso soli-tario, ma di un uomo che sente di fronte a sé allocutori ed obbiettanti, e tutti vuole persuadere e ribattere»77. Il pathos della tecnica, cosí incarnato, si rivela allora come il punto di passaggio dalla fredda analisi all’accorata invocazione, sotto l’urgente predominio della seconda. Il contrasto tra politica e religione sfuma cosí, lasciando spazio alla loro unità sub specie «artistica». L’artista non è qui il superbo creatore, estraneo al volgo, banalizzazione burckhardtiana. Egli è semmai l’artigiano che vive nel e per il popolo, e ne esprime le esigenze:

73 Cfr. ivi, p. 38.74 Cfr. ivi, pp. 56-73.75 Ivi, pp. 60-61. Sulle grandi monarchie europee come decisive per intendere la genesi del Principe cfr. anche ivi, pp. 36-37. Nell’Avvertenza datata novembre 1943 al proprio Scrittori-poeti e scrittori-letterati, Bari, Laterza, 1945, pp. 1-6, Russo torna su questo punto: «Una celebre pagina del Principe di Machiavelli è oratoria, ed efficacissima come oratoria politica perché misurata e contenuta per i precedenti venticinque capitoli, tutti di vigilata ed eroica freddezza scientifica, e poi alla fine sfocianti per una loro impetuosa urgenza» (ivi, p. 3).76 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 22.77 Ivi, pp. 66-67.

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è insieme pratico-passionale e (in quanto depositario di una tecnica) freddo ragionatore78.Pur nei limiti precisi di un «punto di vista [...] nettamente “culturale”»79 – anzi proprio grazie a tali limiti – Russo propone un Machiavelli che, in quanto scienziato, non è solo scienziato, ma è anche artista, di un’arte non estetizzante, che assorbe la scienza e ne scioglie le contraddizioni nella ricercata unità con un popolo che non esiste, è vero, ma che potrebbe esistere proprio grazie all’in-tervento «militante» dell’opuscolo. Russo presenta insomma un Machiavelli à la Croce, ma nettamente al di là degli Elementi di politica: un Machiavelli che ha assorbito la lezione dell’etico-politico, in quanto ricerca di una forma di unità non immediata tra teoria e pratica, ma che questa corrobora con una disposizione pratica della teoria (tutto l’opuscolo nasce da questa disposizio-ne), che fa pensare a Gentile80; ma che sopratutto è una desanctisiana forma di unità «sentimentale» con il popolo nazione, fermo restando sempre il costante primato del «pensiero», ossia dell’«opera dei “savi”, dei poeti, degli artisti, degli “intellettuali”»81.Quest’ultimo aspetto emerge particolarmente nel capitolo dedicato a L’«Arte della guerra» come corollario del «Principe», in particolare dove Russo osserva:

La modernità del Machiavelli [...] sta [...] nell’avere abbinato il problema politico e il problema militare, nell’aver intravisto la necessità che una nuova concezione dello Stato importa una nuova concezione delle armi, nell’avere segnato nelle sue fanterie ideali la futura concorrenza di quel sentimento popolare, che allora era soltanto una ipostasi sentimentale, ma che domani riesce ad essere una realtà82.

Se anche in questo caso la contraddizione mina il disegno logico, dato che quelle milizie non esistono, perché «manca [...] il popolo, come unità, come universalità etico-politica»83, sussiste però una soluzione sul piano sentimenta-le: «Lo Stato machiavellico non è lo Stato nazionale [...] ma la scienza è in lui precorsa dal sentimento [...]. E per affetto, egli giungerà a superare il concetto naturalistico dell’uomo [...] e, nell’auspicio di un’Italia guerriera, giungerà ad

78 Nell’edizione del 1945 Russo aggiunge un riferimento esplicito: «Stato-opera d’arte (come è stato detto, con fraintendimento di una formula del Burckhardt)» (Machiavelli, cit., p. 44). Sul modo in cui già nel 1931 Russo intende correttamente il significato di «Kunstwerk» nel libro di Burckhardt si sofferma Carpi, Per il «Machiavelli» di Luigi Russo, cit., pp. 146-148.79 Ciliberto, Filosofia e politica nel Novecento italiano, cit., p. 185.80 «Il Machiavelli di Luigi Russo [...] si collocava in una delicata posizione ideologica fra Gentile e Croce» (Carpi, Per il «Machiavelli» di Luigi Russo, cit., p. 140). 81 Garin, Luigi Russo nella cultura italiana dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., p. 679. In questo tratto Garin riassume il mai scemato «idealismo» di Russo.82 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 42.83 Ivi, pp. 42-43.

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affermare l’educabilità militare di ciascun uomo [...]»84. La scoperta scientifica è pertanto attribuita a una disposizione affettiva, a un legame sentimentale con un popolo nazione disperso, ma che è possibile adunare, e che proprio in questa sua anticipazione fantastico-affettiva rende possibile l’anticipazione di una verità che sarà patrimonio del mondo moderno: la concezione dell’uomo come educabile, cioè come capace di essere «riformato»85.

3. La «preoccupazione nazionale-popolare» di Luigi Russo e il fascismo. Quando Gramsci legge in carcere i Prolegomeni, Russo è una figura da lui ben cono-sciuta e stimata86. «Leonardo», la rivista da Russo diretta dal dicembre 1925 al 1929, viene nel 1931 giudicata da Gramsci «il repertorio di cultura gene-rale meglio fatto di questi ultimi anni. Ha pubblicato, per esempio, tutta una serie di rassegne sulle attività scientifiche nei primi 25 anni del secolo, scritte da specialisti, che sono molto utili e anzi indispensabili»87. Anche «La

84 Ivi, pp. 43-44.85 Il Machiavelli di Russo è, come quello di Gramsci, rivolto a futuro, nel senso che la sua «teoria» – grazie al sentimento artistico – diventa (e sia pure in modo non del tutto risolto) un elemento combattivo entro la situazione. Profondamente diverso, se non addirittura «al polo diametralmente opposto» (come giudica Masiello, Momenti sintomatici della mo-derna critica machiavelliana, cit., p. 33) è il Machiavelli di Federico Chabod: tutto rivolto al passato tre-quattrocentesco (cfr. Chabod, Del «Principe» di Niccolò Machiavelli, cit., pp. 82-90), in lui l’«immaginazione politica», in quanto «“organo” [...] della storicizzazione», domina l’analisi e risolve i limiti del presente in un sogno, «nobile quanto si voglia, ma pur sempre sogno» (Cutinelli-Rèndina, Rileggendo gli Scritti su Machiavelli di Federico Chabod, cit., pp. 10 e 15; e sull’estraneità della prospettiva del Principe allo Stato moderno cfr. ivi, pp. 22-23). Lo stesso dicasi per il nesso tra il capitolo conclusivo e il resto del Principe, che Chabod determina, in modo profondamente diverso da Russo, come un ribaltamento dell’analisi nella «passionalità del sentimento e dell’immaginazione», ribaltamento che svela la prima come «niente di piú che uno scheletro intellettualistico» (Chabod, Del «Principe» di Niccolò Machiavelli, cit., pp. 85-86). Su ciò cfr. Cutinelli-Rèndina, Rileggendo gli Scritti su Machiavelli di Federico Chabod, cit., pp. 12-15. Cantimori (Il «Machiavelli», cit., p. 753) riconduce al diverso atteggiamento etico-politico le differenze tra la lettura di Chabod e quella di Russo, nonostante i punti di contatto superficiali.86 Sulla necessità di meglio indagare il rapporto Russo-Gramsci e Gramsci-Russo richia-mava l’attenzione nel 1961 Eugenio Garin (Luigi Russo nella cultura italiana dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., p. 681n.).87 Lettera a Tatiana Schucht del 23 marzo 1931 (Gramsci, Schucht, Lettere 1926-1935, cit., p. 681). Prima dell’arresto, Gramsci possedeva la collezione completa della rivista (nell’ed. cit. della lettera del 23 marzo 1931 si legge, ibidem: «Io avevo a Roma tutti i numeri della rivista fino all’ottobre 1928», ma il manoscritto, gentilmente controllato da Eleonora Lattanzi della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, che ringrazio, recita «1926»; la trascrizione errata, presente nell’edizione Caprioglio-Fubini delle Lettere, è migrata in tutte quelle successive, compresa la Natoli-Daniele). Gramsci riuscí poi, grazie a Tatiana, a ricostituire in carcere la collezione del «Leonardo». Cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di A.A. Santucci, Palermo, Sellerio, 1996, p. 188; e Gramsci, Schucht, Lettere 1926-1935, cit., p. 687 (a

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Nuova Italia», brevemente diretta dal critico di Delia nel 1930-1931, viene da Gramsci seguita con assiduità. Qui, nel numero di ottobre 1930, egli trova una nota, anonima88, ma da lui (giustamente) attribuita a Benedetto Croce89, su Il Congresso di Oxford, che discute nei Quaderni, assegnandole il valore di uno spartiacque politico nella posizione del filosofo90.Subito sotto quella noterella, Gramsci ne legge un’altra, siglata Luigi Russo e intitolata Parere su De Sanctis91, da lui ricordata simpateticamente in un ap-punto del dicembre 1930:

I nipotini di padre Bresciani. Cardarelli e la «Ronda». Nota di Luigi Russo su Cardarelli nella «Nuova Italia» dell’ottobre 1930. Il Russo appunto trova nel Cardarelli il tipo (moderno-fossile) di ciò che fu l’abate Vito Fornari a Napoli in confronto del De Sanctis. Dizionario della Crusca. Controriforma, Accademia, reazione, ecc.92

Gramsci si riferisce al seguente passo in cui, commentando l’articolo intitolato Parere su De Sanctis, pubblicato da Cardarelli sul «Resto del carlino» del 14 settembre 1930, Russo osserva:

E qui se ne fa cenno, solo per interesse archeologico, e per ritrovarvi materia di «ricorsi storici», perché le frottole cardarelliane hanno i loro precedenti nella Napoli borbonica, contemporanea al giovine De Sanctis, e precisamente nel circoletto dell’abate Fornari, che amava come lui, Cardarelli, lo scrivere polito, pulito anche se vuoto. Forse che egli, vissuto in quei tempi, non sarebbe stato un borbonico di stile? È la sorte di tutti i let-terati puri, quella di aderire ai governi reazionarii, fatti apposta per favorire la pigrizia mentale e musaica: reazione accademica in letteratura è anche reazione in politica,

Tatiana, 7 aprile 1931) e 704 (alla stessa, 4 maggio 1931). Sul «Leonardo» Gramsci torna anche varie volte nei Quaderni, nella rubrica Riviste tipo: cfr. QC, 26, 310 (dove è accostata a «L’Ordine Nuovo»), 338. Per l’indirizzo impresso da Russo al «Leonardo» (non generica-mente informativo, ma rivolto «a un lettore che sappiamo nostro o che facciamo nostro»), cfr. l’editoriale che ne inaugurò la direzione, nel dicembre, 1925, ora in Russo, Elogio della polemica, cit., pp. 123-137 (il passo cit. è a p. 125). Un’ampia analisi del rapporto di Russo con Gentile al tempo della direzione del «Leonardo», e della fisionomia politico-culturale della rivista, è in G. Turi, Luigi Russo, la fortuna di Gentile e il fascismo, in «Belfagor», XLVII, 1992, pp. 1-29, pp. 11 sgg.88 Cosí ritiene Gramsci, dato che non è seguita da firma. La sigla «Luigi Russo» è «apposta alla seconda e successiva Parere su De Sanctis» (Pertici, Benedetto Croce collaboratore segreto della «Nuova Italia» di Luigi Russo, cit., p. 191n.) e può essere considerata valida anche per la nota precedente. Il testo si trova in «La Nuova Italia», I, 1930, n. 10, pp. 431-432.89 «[...] forse dello stesso Croce o per lo meno di un suo discepolo» (lettera del 1° dicembre 1930, in Gramsci-Schucht, Lettere 1926-1935, cit., p. 615).90 Cfr. Quaderno 7, § 1: QC, 851-852. Cfr. Pertici, op. cit., p. 195 (avvio della «lotta su due fronti» da parte di Croce, e sorgere dell’«esigenza di pensare “al poi”»).91 «La Nuova Italia», I, 1930, n. 10, pp. 432-433.92 Quaderno 5, § 154: QC, 679.

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Accademia della Crusca e Concilio di Trento vanno sempre insieme. Abbia pazienza il Cardarelli per questa nostra massima alla maniera desanctisiana93.

In Russo, Gramsci trovava un modello di polemica letteraria che mirava a rial-lacciare l’ambito specificamente artistico o poetico a quello affettivo e politico, alla posizione pratica del letterato e ai contenuti storici concreti da lui scelti. Ciò era stato ampiamente teorizzato da Russo nello scritto su Il tramonto del letterato, pubblicato nel 1920 e ripreso nel 1933 in Elogio della polemica94. I «rondisti» si situavano al polo opposto di questa ripresa del modello desan-ctisiano, vale a dire di una critica che, in un testo del maggio 1930, Gramsci aveva definito «militante, non [...] frigidamente estetica», perché «propria di un periodo di lotta culturale»95. De Sanctis adottava insomma quel punto di vista battagliero, che gli permetteva di cogliere, dentro ciò che per Croce era «struttura», quella «coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti rappresentati [che] sono legate a questa lotta culturale»96.Dell’aspra critica di Russo a Cardarelli, Gramsci condivide l’enfasi posta sull’u-nità di forma e contenuto, nonché l’idea di un nesso organico tra il modello letterario scelto e la relazione elettiva del letterato con la vita politica, anzi con la «vita» in generale. In questo senso, il rifiuto della proposta de «La Ronda» non è solo un fatto estetico-letterario, perché, mediante il modello di cultura in ciò implicito, finisce per coinvolgere l’idea di cultura nel suo insieme97. E

93 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 432, su cui cfr. S.C. Landucci, Attorno alle interpretazioni desanctisiane di Luigi Russo, in «Belfagor», XVI, 1961, pp. 794-805, p. 802. Cardarelli era anche l’autore di una precedente stroncatura globale di De Sanctis e in par-ticolare della Storia della letteratura italiana: Del De Sanctis e della nostra lingua, pubblicata ne «La Ronda» nel febbraio 1922 e ora ristampata in La Ronda 1919-1923. Antologia a cura di G. Cassieri, Torino, Eri, 1969, pp. 531-535. Cfr. M. Paladini Musitelli, Introduzione a Il punto su De Sanctis, a cura di Ead., Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 1-77, pp. 22-23.94 Russo, Elogio della polemica, cit., pp. 79-95. Il testo era apparso originariamente nella miscellanea Benedetto Croce, Napoli, Libreria della Diana, 1920. Di tale scritto, costante-mente ripubblicato da Russo, è stato detto che «è come un filo che lega, sottilmente, un lavoro di piú di quarant’anni e ne indica il ritmo segreto» (Garin, Luigi Russo nella cultura italiana dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., p. 688).95 Quaderno 4, § 5: QC, 426. Per una documentazione di questa tesi (ma con diversa valu-tazione), cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, diretta da R. Romano e C. Vivanti, vol. IV, t. 2, Torino, Einaudi, 1975, pp. 860-863. In generale cfr. M. Paladini Musitelli, De Sanctis, Francesco, in Dizionario gramsciano 1926-1937, a cura di G. Liguori e P. Voza, Roma, Carocci, 2009, pp. 205-208.96 Quaderno 4, § 5: QC, 426. Si noti che il § 78 del Quaderno 4, che apre (c. 1r) la sezione su Il canto decimo dell’Inferno, scritto nello stesso maggio1930, prende avvio precisamente dalla discussione tra Croce e Russo su struttura e poesia nella Commedia. Cfr. QC, 516-517 (e, per i testi a cui Gramsci si riferisce, cfr. Apparato critico in QC, 2661).97 In un testo della seconda metà del 1934 (una variante instaurativa), «La Ronda» viene definita «una manifestazione di gesuitismo artistico» (Quaderno 23, § 33: QC, 2228; il testo

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viceversa, il richiamo a De Sanctis evoca ben piú che un semplice modello di critica letteraria. Come rileva Gramsci in una nota del febbraio 1931, «il saggio del De Sanctis Scienza e Vita [...] è un modo di porre la quistione dell’unità di teoria e pratica»98. E prosegue osservando che, per trattare del «modello di critica del De Sanctis», occorre riprendere, oltre al saggio qui ricordato, «le discussioni cui ha dato luogo: p. es. l’articolo di L. Russo nel “Leonardo” del 1928 (o 29)»99.Si tratta dell’articolo La scienza e la vita, pubblicato nel primo numero del 1928100, che esordiva ricordando che il discorso desanctisiano era stato «recen-temente ripreso e schiarito in qualche punto, in modo controverso, dal Croce e dal Gentile»101. Rispetto all’opposizione tra la difesa crociana della scienza come, in quanto vera scienza, implicante sempre già in sé la vita, e l’esaltazione gentiliana del De Sanctis «grande educatore» come via d’uscita dalla dicotomia di teoria e pratica, la riproposizione di Russo si distingue per ciò, che sfugge a quella stessa alternativa, spostando tutta la questione sul terreno storico-poli-tico. Egli infatti non si limita a ricordare la necessità di limitare la scienza per rafforzare la vita102, né rievoca solamente il concetto di «cultura-azione» come luogo in cui si rimargina la divisione di cultura e fede, «contemplare» e «fare», «rivoluzionarismo cronico» e «reazione», «intellettualismo» e «politicismo», ecc.103, ma concretamente proietta questa indicazione nel contesto della società, che è società nazionale: «cultura vuol dire non patrimonio dei singoli, ma vita e anima segreta di tutta la nazione»104. La cultura andava dunque irradiata, come Russo osservava citando De Sanctis: «Un paese non è colto, perché ci siano uomini colti. Ci vuole la irradiazione della cultura in tutti gli strati, o almeno negli strati piú elevati»105. E proseguiva:

E la cultura non è degli individui, ma è della nazione. Allo stesso modo la scienza dei solitari è scienza viva, se immette le sue radici nella storia, nelle tradizioni di un popolo; ed essa riesce animata a nuova vita da questa sua corrispondenza con la realtà nazionale.

è dedicato a Riccardo Bacchelli, redattore de «La Ronda» insieme a Cardarelli).98 Quaderno 7 § 31: QC, 880. Il testo è intitolato Sulla critica letteraria.99 Ibidem.100 «Leonardo», IV, 1928, n. 1, pp. 1-7.101 Ivi, p. 1. Russo allude probabilmente a B. Croce, Rileggendo il discorso del De Sanctis sulla «Scienza e la vita», in «La Critica», XXII, 1924, pp. 254-256, e a G. Gentile, Il libera-lismo di Benedetto Croce (1925), in Id., Che cosa è il fascismo, Firenze, Vallecchi, 1924, pp. 153-161, pp. 157-159.102 Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., pp. 2-3.103 Ivi, pp. 3-5.104 Ivi, p. 5.105 F. De Sanctis, La coltura politica, in Id., Scritti politici, raccolti da G. Ferrarelli, Napoli, 1865, p. 72; cit. in Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 5.

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Questo carattere di universalità è quello che distingue la vera dalla falsa cultura, la cultura organica e positiva da quella frammentaria, scettica e ironica106.

Erano temi, questi, sui quali Russo era andato battendo polemicamente per anni sul «Leonardo» e poi sulla «Nuova Italia»107, e che aveva svolto in chiave costruttiva ‒ come ricerca di un romanticismo nazionale in quanto «instau-razione di una nuova concezione, positiva, etica e democratica, della vita e dell’arte» ‒ nel volumetto su I narratori108, e ora nei Prolegomeni.Quando ai primi del 1932 legge questo libro, Gramsci ha dunque ben presente l’attività di Russo come polemista liberale, ma sopratutto come un crociano che, guardando a De Sanctis, aveva finito per ritrovare l’importanza di una questione, da Benedetto Croce toccata e immediatamente rifiutata109: l’unità di teoria e pratica come un fatto storico e dunque politico, non speculativo (emancipandosi cosí anche da Gentile); come un fatto che rimaneva incom-prensibile, se sequestrato dalla rilevanza nazionale dell’attività degli scrittori110.Di fatto, la capacità, da Russo dimostrata, non solamente di riallacciarsi me-todologicamente a De Sanctis, ma di proseguirne il lavoro critico nel nuovo contesto, viene da Gramsci seguita criticamente e valorizzata come un sintomo preciso del fatto, che il crocianesimo è giunto a un «punto di arrivo», come si legge in un testo del giugno 1932 (dopo la lettura dei Prolegomeni), in cui è anche contenuta una forte valorizzazione dell’opera del critico siciliano: «La preoccupazione nazionale-popolare nell’impostazione del problema critico-estetico appare in Luigi Russo (del quale è da vedere il volumetto su i Narra-tori) come risultato di un ritorno all’esperienza del De Sanctis dopo il punto di arrivo del crocianesimo»111. E in un altro testo, appena posteriore (giugno-

106 Ivi, p. 7.107 «Ma è un pensiero che torna costante, negli stessi termini» (Garin, Luigi Russo nella cultura italiana dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., p. 684n.).108 Russo, I narratori, cit., p. 9.109 Su questa dinamica, in relazione a Gramsci, cfr. V. Gerratana, De Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci?, in «Società», VIII, 1952, pp. 497-512. In generale, per il contesto italiano del momento, cfr. Paladini Musitelli, Introduzione a Il punto su De Sanctis, cit., pp. 23-25. Su Russo interprete di De Sanctis cfr. Landucci, Attorno alle interpretazioni desanctisiane di Luigi Russo, cit.110 Va notato che nella propria ricerca sugli intellettuali italiani, Gramsci adotta lo stesso criterio, di derivazione desanctisiano-russiana. Cfr. Quaderno 3, § 119: QC, 386: «La forza espansiva, l’influsso storico di una nazione non può essere misurato dall’intervento indivi-duale di singoli, ma dal fatto che questi singoli esprimono consapevolmente e organicamente un blocco sociale nazionale».111 Quaderno 9, § 42: QC, 1121-1122. Qui (QC, 1122) Gramsci riprende le tesi di Mar-zot, L’opera critica di L. Russo, cit., p. 179: «Il Russo invece, ben radicato nell’insegnamento crociano, lo ripercorse nelle sue origini; e si ritrovò in De Sanctis, il quale, per senso di concretezza, aveva rifuso gli scrittori nella storia e dimostrati piú nei loro elementi morali e civili che in quelli meramente artistici». E cfr. ivi, p. 177 («un’arte antiletteraria e fortemente

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agosto dello stesso anno), Gramsci giudica «l’atteggiamento del Croce» rispetto alla posizione di De Sanctis su «scienza e vita», per come essa viene tratteggiata nel libro di Russo112, «un arretramento, senza che l’atteggiamento del Gentile, che tuttavia piú del Croce si è impegnato nell’azione pratica, possa giudicarsi una continuazione dell’attività desanctisiana per altre ragioni»113.Sono conclusioni tratte alcuni mesi dopo la lettura dei Prolegomeni, che sono però già implicite fin dall’anno precedente, quando va maturando un’insod-disfazione profonda per le posizioni di Croce, da Gramsci poi riassunte, dopo la lettura di Antistoricismo, nell’immagine del «nuovo Erasmo»114. Invece, «per Luigi Russo, il Rinascimento come età del letterato puro, dello scienziato puro, del politico puro, stava per finire, perché si veniva affermando l’unità storicisti-ca fra cultura e vita morale»115. Russo appariva pertanto agli occhi di Gramsci come un momento ulteriore rispetto al crocianesimo, e al contempo come a quella cultura del tutto interno. La sua sensibilità per il nazionale popolare lo rendeva capace di intendere la necessità del «“contatto” sentimentale e ideolo-gico» con le «grandi moltitudini nazionali» come funzione, precisamente, della loro «direzione consapevole»116.

realistica e popolare») e p. 181 (Russo è andato «democratizzando l’estetica dei crociani con una partecipazione non solo metaforica ma effettuale della vita»). Del volume russiano I narratori (Roma, Fondazione Leonardo per la cultura italiana, 1923) Marzot riferisce ivi, pp. 177-178. Va notato che nell’Avvertenza 1943 al proprio Scrittori-poeti e scrittori-letterati, cit., in cui raccoglie il saggio del 1920 su Di Giacomo e del 1925 su Abba, Russo si esprime negli stessi termini: nel saggio su Di Giacomo «esasperai fino allo spasimo una maniera di critica, che allora si chiamava critica estetica. Da quell’anno 1921, condotta all’estremo limite la possibilità di tale maniera, me ne ritrassi come stanco e disgustato, e mi volsi quindi a un’attività piú integralmente storica: lessi o rilessi molti narratori moderni, e schizzai alla brava quei 106 rapidi profili raccolti nel volumetto I narratori» (ivi, p. 5). Sull’approccio «etico-politico-letterario [...] integralmente storico» di Russo cfr. Garin, Luigi Russo nella cultura italiana dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., pp. 688-691.112 Il riferimento è a L. Russo, Francesco de Sanctis e la cultura napoletana (1860-1885), Venezia, «La Nuova Italia» editrice, 1928. Il libro non è presente nel Fondo Gramsci, né risulta che Gramsci lo abbia ricevuto. Egli ne trova riassunte le tesi in Marzot, L’opera critica di L. Russo, cit., p. 181.113 Quaderno 10 II, § 38: QC, 1288. Quest’ultima osservazione, relativa al «ritorno a De Sanctis» propugnato da Gentile, chiarisce la posizione di Gramsci rispetto alla disputa aperta all’interno del campo idealistico, nel senso che Gentile non è, comunque, un’alternativa a Croce (cfr. F. Frosini, Il neoidealismo italiano e l’elaborazione della filosofia della praxis, in Gramsci nel suo tempo, a cura di F. Giasi, Roma, Carocci, 2008, vol. II, pp. 727-746). Si veda la reazione al gentiliano Torniamo al De Sanctis! (in «Quadrivio», I, 1933, n. 1) in Quaderno 17, § 38: QC, 1940-1941.114 Cfr. Quaderno 7, § 1: QC, 852.115 Cantimori, Il «Machiavelli», cit., p. 751.116 Quaderno 9, § 42: QC, 1122. Questa frase è riferita da Gramsci alla polemica contro l’atteggiamento brescianesco degli scrittori italiani, e segue immediatamente l’osservazione

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Insomma, in relazione a Machiavelli, la posizione assunta da Russo era per Gramsci ciò che di meglio l’antifascismo liberale potesse produrre. Nel cri-tico siciliano da una parte c’era una genuina sensibilità per l’ottica nazionale popolare, dalla quale solamente Il Principe acquisiva il suo vero significato, dall’altra questa era riassorbita entro la mediazione dell’etico-politico. Ma questa ermeneutica non si limitava a ripercorre un episodio ormai trascorso. Essa possedeva al contrario un forte grado di attualità politica117. Quel popolo nazione mai realizzatosi in Italia, e che il fascismo per la prima volta aveva di fatto costituito, ma in una forma rovesciata, passiva, era anche al centro della preoccupazione di Russo118.La costituzione del popolo nazione nello Stato fascista è un tema che Gramsci segue nei Quaderni del carcere prevalentemente secondo la direttrice del cor-porativismo, come cellula produttiva di una nuova forma di Stato, giungendo nell’aprile 1932 a formulare l’ipotesi che il fascismo possa essere una «rivolu-zione passiva»119. Ma non mancano annotazioni sul nesso tra nazionalismo e popolo nazione. In particolare, in un testo dell’agosto 1930, Gramsci osserva:

Mi pareva che attualmente ci fosse qualche condizione per superare questo stato di cose [la reciproca estraneità di intellettuali e popolo, scil.], ma essa non è stata sfruttata a dovere e la retorica ha ripreso il sopravvento (l’atteggiamento incerto nell’interpretare Caporetto offre un esempio di questo attuale stato di cose, cosí la polemica sul Risor-gimento e ultimamente sul Concordato). Non bisogna negare che molti passi in avanti sono stati compiuti in tutti i sensi, però: sarebbe un cadere in una retorica opposta. Anzi, specialmente prima della guerra, molti movimenti intellettuali erano rivolti a

sull’itinerario di Russo come un «ritorno all’esperienza del De Sanctis dopo il punto di arrivo del crocianesimo».117 Carpi (Per il «Machiavelli» di Luigi Russo, cit.) ha ricostruito con sapienza il modo in cui Russo ha retrospettivamente periodizzato i propri anni Trenta come «autoesilio dal terreno politico imposto dal fascismo», mentre essi furono «in realtà di massimo impegno nella ricerca d’un’autonoma fisionomia critico- e storico-letteraria all’interno del crocianesimo» (ivi, p. 152); e come al Machiavelli, che era un intervento politico netto (cfr. ivi, p. 148), sia stata dal Russo (e non solo da lui) messa la sordina dopo il 1945 («anche Russo [...] si chiama ai margini, tende ad appartare e a deresponsabilizzare i propri anni Trenta in una temporanea soluzione di continuità tutta nel segno strenuo della letteratura»: ivi, p. 153).118 E s’intende: della sua preoccupazione durante il proprio filofascismo come piú tardi nel suo personale antifascismo. In questo senso è notevole il giudizio di Russo, contenuto in una lettera ad Adolfo Omodeo del 22 marzo 1926: «Il fascismo resta sempre la prima affermazione dell’Italia, come nazione-massa, subito dopo la guerra» (citato in Turi, Luigi Russo: il dialogo con gli amici, cit., p. 20).119 Cfr. il mio I «Quaderni» tra Mussolini e Croce, cit., pp. 63-67. Inoltre: T. Maccabelli, La “grande trasformazione”: i rapporti tra Stato ed economia nei Quaderni del carcere, in Gramsci nel suo tempo, cit., vol. II, pp. 609-630; A. Gagliardi, Il problema del corporativismo nel dibattito europeo e nei Quaderni, ivi, pp. 631-656.

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svecchiare e sretorizzare la cultura e ad avvicinarla al popolo, cioè a nazionalizzarla. (Nazione-popolo e nazione-retorica si potrebbero dire le due tendenze)120.

Questo atteggiamento interlocutorio (la nazione-popolo è una componente che, nella stessa cultura fascista, lotta contro quella nazione-retorica) si sovrap-pone perfettamente a quello da Gramsci dimostrato verso il corporativismo: «L’attuale corporativismo – scrive nel Quaderno 1 –, con la sua conseguenza della diffusione su scala nazionale» degli «organizzatori sindacali», «in modo piú sistematico e conseguente che non avesse potuto fare il vecchio sindacali-smo, è in un certo senso uno strumento di unità morale e politica»121.In quanto capace di tornare realmente a De Sanctis, attingendo l’unità di scienza e vita, Russo si colloca, agli occhi di Gramsci, sullo stesso terreno am-bivalente e contraddittorio calcato dalla politica fascista del popolo nazione e del corporativismo. Beninteso, egli accede a questo spazio dal versante liberale, che tuttavia, già solo per questa nuova collocazione (banalmente si potrebbe dire che Russo non è Croce), non è piú il liberalismo della mera distinzione, ma un’ideologia capace di sfidare realmente il fascismo, perché comprende la nuova importanza delle passioni popolari, della religione come cultura delle masse, del panpoliticismo, dell’unità sentimentale della classe dirigente con il popolo nazione. Comprende tutto ciò e lo assorbe in un disegno politico che intende essere alternativo al fascismo, in quanto si propone di condizionarlo, conferendogli una piú solida e duratura base sociale.Quella di Russo non è tanto una nuova interpretazione di Machiavelli122, quan-to una proposta di politica attuale. Avvicinando storia e politica, politica e religione, sotto il primato dell’urgenza del tempo presente, Russo prosegue nel solco tracciato dal crociano Antistoricismo, a suo tempo definito da Gramsci «un manifesto politico»123. Allora però quest’ultimo si era affrettato a precisare: «di una unione internazionale dei grandi intellettuali di ogni nazione, special-mente dell’Europa; e non si può negare che questo possa diventare un partito importante che può avere una funzione non piccola»124.Ciò che il libro di Russo ora, all’inizio degli anni Trenta, mostra, è la volontà dell’antifascismo liberale di rinnovarsi profondamente, intervenendo nell’am-bito nazionale, non piú cosmopolitico. In Italia Machiavelli (con il connes-so «machiavellismo») era il catalizzatore naturale delle energie scatenate dal conflitto125. Qui il Machiavelli di Russo intende esercitare la sua funzione: Il

120 Quaderno 3, § 82: QC, 362.121 Quaderno 1, § 43: QC, 35-36.122 Cfr. le osservazioni di Ciliberto, Filosofia e politica nel Novecento italiano, cit., p. 184.123 Quaderno 6, § 10: QC, 690 (novembre-dicembre 1930).124 Ibidem.125 Cfr. Ciliberto, Filosofia e politica nel Novecento italiano, cit., pp. 135-188; R. Medici, La metafora Machiavelli: Mosca, Pareto, Michels, Gramsci, Modena, Mucchi, 1990, pp. 7-159;

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Principe, riletto alla luce dell’etico-politico, è il modo concreto di ripensare il «popolo» e il suo rapporto con la politica «rivoluzionaria», nei termini di un rinnovato liberalismo: strappare il popolo alla demagogia fascista, senza però ricacciarlo nel novero delle quantités négligeables, ma facendosi protagonista di un disegno a sua volta «demagogico» (nel senso etimologico del termine). Era una sfida al fascismo, formulata tentando di occupare il luogo che, nello spazio della politica, questo aveva voluto riservare per sé soltanto.

4. Religione, democrazia e verità. Dovrebbe ormai apparire chiaramente la gra-vità della decisione presa da Gramsci nel redigere, nel gennaio-febbraio del 1932, il § 21 del Quaderno 8. Si può sostenere che la necessità di rispondere a Russo sia alla base della svolta che egli imprime a tutta la propria lettura del Principe. Ciò è evidente nel fatto che, a partire da ora, il binomio politica-religione, strategia-mito, analisi-profezia diventa la cifra essenziale del pensiero di Machiavelli, prima ancora che della sua riproposizione attuale. Ma non è ancora tutto. La trama «nazionale popolare» sottesa al libro di Russo rendeva per Gramsci impraticabile l’ipotesi di opporgli un mero rifiuto. Egli deve aver scorto tra il Machiavelli di Russo e le nuove posizioni storiografiche di Croce una complementarietà sorprendente. Come la «storia etico-politica» e della «religione della libertà», che secondo il prigioniero penetrava profondamente nel campo avversario, scompaginandone lo schieramento, cosí il Machiavelli di Russo, in quanto si appropriava il tema del «nazionale popolare» tradu-cendolo in una nozione ampliata di «arte» come collegamento tra politica e religione, tra teoria e pratica, tra analisi ed exhortatio, era capace di ridefinire da una rinnovata prospettiva liberale la questione della democrazia e della for-mazione della volontà collettiva, cioè esattamente di quelle forme nuove della politica nate in tutta l’Europa nel dopoguerra dalla crisi del sistema liberale e del parlamentarismo.Russo individua nella complessa architettura del Principe un esempio di fu-sione in atto di religione e politica, di «Chiesa» e «Stato». Ma questa fusione si dà nell’«arte»: l’unità «sentimentale» di scrittore e popolo è un’unità letteraria, fantastica, e in questo senso non è politica. Essa non mette in discussione realmente le dicotomie in cui si travaglia il Machiavelli pensatore: in primo luogo quella tra Stato e Chiesa, tra «analisi» e «profezia». In questo modo Russo introduce e riafferma le mediazioni liberali dentro il discorso del popolo na-zione. Al contrario, utilizzando il concetto di «mito», Gramsci afferma proprio l’unità del piano «fantastico» con quello politico. Fa anzi di piú, perché nel

Barbuto, Machiavelli e i totalitarismi, cit., capp. 1-4 della parte I; Id., Il principe e le masse. Letture machiavelliane: da Vilfredo Pareto a Gaetano Mosca, in Machiavelli nel XIX e nel XX secolo, a cura di P. Carta e X. Tabet, Padova, Cedam, 2007, pp. 185-213; R. Ghiringhelli, Mosca, Pareto e Machiavelli, in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo, cit., pp. 29-39, e i saggi di Tabet e Mitarotondo citati supra, nota 52.

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«mito» soreliano, come vedremo, la dimensione «religiosa» e quella «politica» sono ridotte a un medesimo linguaggio, quello della trasformazione integrale della realtà.«Che l’impostazione di Russo sia piaciuta sostanzialmente a Gramsci»126 si può dunque affermare solo a patto di arricchire e precisare tale giudizio in termini politici. Non è in questione l’apprezzamento come contributo scien-tifico nuovo, che del resto al profilo dei Prolegomeni mal si attaglierebbe. Si tratta piuttosto dell’assunzione di una sua obbiettiva importanza: dal § 21 del Quaderno 8 in avanti, la «questione Machiavelli» si collega sistematicamente a un’idea di politica come attività che connette pratica e teoria, cultura e tec-nica, etica ed economia. E questo, non lo si dimentichi, coincide per Gramsci con l’oltrepassamento non piú solo di fatto, ma programmatico dell’orizzonte crociano127. Allo stesso modo, la polemica con Russo a proposito del paragone tra Machiavelli e Savonarola in un testo del marzo 1932 (Quaderno 8, § 84) mira precisamente ad affermare, nell’identità del «dover essere» con la «storia in atto o politica»128, l’avvenuta fusione tra il filone della politica realistica giacobina e quello della riforma «religiosa» della mentalità.Dopo questa novità, tutta l’officina dei Quaderni entra in una fase di rivolgi-menti, che si concentrano nella primavera del 1932: abbiamo gli appunti sul nesso tra filosofia, religione, senso comune e folclore129 con la contestuale defi-nizione di «filosofia dell’epoca»130, il nesso con la democrazia e la questione dei «semplici»131, la decisione di aprire i laboratori «speciali» su Benedetto Croce e

126 Badaloni, Il Machiavelli di Russo e Gramsci, cit., p. 72.127 Il «congedo» da Croce avviene infatti proprio negli stessi mesi, tra febbraio e maggio 1932. Ho ricostruito le tappe di questa svolta in Croce, fascismo, comunismo, cit., pp. 157-158.128 QC, 990.129 Sull’analisi della religione nei Quaderni rimane imprescindibile C. Luporini, Gramsci e la religione, in «Critica marxista», XVII, 1979, n. 1, pp. 71-85. Cfr. anche J. Fulton, Re-ligion and Politics in Gramsci: An Introduction, in «Sociological Analysis», XLVIII, 1987, n. 3, pp. 197-216. Sui concetti toccati qui di seguito cfr.: L.M. Lombardi Satriani, Gramsci e il folclore: dal pittoresco alla contestazione, in Gramsci e la cultura contemporanea, a cura di P. Rossi, vol. II, Roma, Editori riuniti, 1970, pp. 329-338; P. Cristofolini, Gramsci e il diritto naturale, in «Critica marxista», XIV, 1976, n. 3-4, pp. 105-116; A. Sobrero, Folklore e senso comune in Gramsci, in «Etnologia, antropologia culturale», III, 1976, n. 4, pp. 70-85; F. Frosini, «Tradurre» l’utopia in politica. Filosofia e religione nei «Quaderni del carcere», in «Problemi. Periodico quadrimestrale di cultura», 1999, n. 113, pp. 26-45; Id., Gramsci e la filosofia. Saggio sui Quaderni del carcere, Roma, Carocci, 2003, pp. 168-182; G. Liguori, Common sense in Gramsci, in Perspectives on Gramsci. Politics, culture and social theory, ed. by J. Francese, London-New York, Routledge, 2009, pp. 122-133.130 Cfr. Quaderno 8, §§ 204, 211, 213 (ma già Quaderno 5, § 54: QC, 587).131 Cfr. Quaderno 8, § 213: QC, 1070-1071; e Quaderno 8, § 156: QC, 1035 (aprile 1932): «semplici e colti». Cfr. M. Green, Semplici, in Dizionario gramsciano 1926-1937, cit., pp. 757-759.

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sulla filosofia della praxis. È su questo sfondo che va letta l’importante variante instaurativa presente nel § 1 del Quaderno 13. Dopo l’osservazione – ripresa dalla prima stesura – che «il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del “mito” sorelliano», Gramsci aggiunge:

Nell’intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo «genericamente» inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro «logico» non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella co-scienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa «affetto», febbre, fanatismo d’azione. Ecco perché l’epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di «appiccicato» dall’e-sterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell’opera, anzi come quell’elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l’opera e ne fa come un «manifesto politico»132.

Qui Gramsci riprende un tema ampiamente trattato, come si è mostrato, da Russo: la questione della coerenza tra l’epilogo del Principe e il resto del libro. Si noti però che la ripresa non è in opposizione a Russo133, ma secondo una consonanza che rende il dissidio piú profondo e sfuggente. Per capire a quale livello esso si disponga, iniziamo con un’annotazione sul termine «medesimez-za», che compare nei Quaderni una sola altra volta, nel § 50 del Quaderno 7, scritto pochi mesi prima, nell’agosto 1931. In questo paragrafo, intitolato Letteratura popolare, Gramsci delinea un’opposizione netta tra Tolstoj e Man-zoni. In Manzoni è presente un

atteggiamento [...] nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i po-polani, per il Manzoni, non hanno «vita interiore», non hanno personalità morale profonda; essi sono «animali» e il Manzoni è «benevolo» verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. [...] L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana134.

132 Quaderno 13, § 1: QC, 1555-1556.133 Come invece sostiene C. Donzelli, in Gramsci, Quaderno 13. Noterelle sulla politica di Machiavelli, cit., p. 13 n. 6. Questa lettura del Machiavelli russiano – errata, come ho mostrato – è del resto enunciata già da Masiello, Momenti sintomatici della moder-na critica machiavelliana, cit., p. 28: «un Machiavelli esclusivo teorizzatore del momento politico-economico».134 Quaderno 7, § 50: QC, 896. L’opposizione tra Tolstoj e Manzoni è presente anche in Quaderno 3, § 148: QC, 402-403 (settembre-ottobre 1930), intitolato Carattere popolare-nazionale negativo della letteratura italiana. Gramsci nota che «Tolstoi [...] intende l’evangelo “democraticamente”, cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il Manzoni invece

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Nel giro di pochi mesi, Gramsci utilizza due volte, e due soltanto in tutti i Qua-derni e le lettere che scrive dal carcere, questa parola rara135, per indicare rispet-tivamente, in negativo, ciò che manca nell’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo e, in positivo, ciò che c’è nel modo di porsi di Machiavelli verso quello stesso popolo. La «medesimezza» è pertanto l’esatto contrario del senti-mento aristocratico di superiorità presente in Manzoni, sentimento che a sua volta poggia sulla concezione cattolica del popolo come massa di «semplici»136.«Medesimezza» designa ciò di cui la religione cattolica post-tridentina137 piú manca, e che è invece presente nello «spirito evangelico del cristianesimo primitivo»138 di Tolstoj. In quanto designa una situazione di identificazione completa, profonda, non estemporanea, tra intellettuali e masse, la «medesi-mezza» è un punto di debolezza attuale del cattolicesimo e al contempo rinvia alla possibilità di ricreare quella situazione «democratica» sul terreno politico e non piú confessionale, sfruttando la potenza mobilitante e suggestiva del linguaggio religioso.Naturalmente l’effetto in questione non si può limitare alla suggestione. Per Gramsci è altrettanto essenziale il contenuto concreto, in termini di rapporti di potere, che l’identificazione religiosa tra masse e capi rende possibile. In

ha subito la Controriforma, il suo cristianesimo è gesuitismo» (QC, 403). Cfr. anche Qua-derno 3, § 151.135 Il termine è registrato come raro già nel Dizionario della lingua italiana nuovamente compilato dai signori Nicolò Tommaseo e cav. professore Bernardo Bellini..., 4 voll., Torino, Utet, 1865-1879, vol. III, p. 164; e nel Vocabolario degli accademici della Crusca, In Venezia, Appresso Giovanni Alberti, 1612, p. 517.136 Il termine «medesimezza» compare in tutti gli scritti anteriori all’arresto due volte (devo questa informazione a Maria Luisa Righi, della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, che ringrazio). Una sola di esse è però di qualche interesse: «Esiste un’armonia prestabilita che unifica le volontà e gli atti, esiste un accordo spontaneo e miracoloso che germina dalla medesimezza delle concezioni di fine e di tattica, dall’adesione alla realtà essenziale della vita proletaria» (La settimana politica [I], in «L’Ordine Nuovo», I, n. 5, 7 giugno 1919, ora in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo. 1919-1920, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci, Torino, Einaudi, 1987, pp. 61-62, p. 61). In questo caso, il termine compare nel contesto del lessico della vita, assai presente in questo Gramsci (per cui cfr. M. Ciliberto, Gramsci e il linguaggio della vita, in «Critica marxista», XXVII, 1989, n. 3, pp. 679-699; G. Piazza, Metafore biologiche ed evoluzionistiche nel pensiero di Gramsci, in Antonio Gramsci e il «pro-gresso intellettuale di massa», a cura di G. Baratta e A. Catone, Milano, Unicopli, 1995, pp. 133-140), senza però il riferimento, presente nei Quaderni, alla dimensione religiosa come elemento mobilitante di massa.137 B. Desidera, La lotta delle egemonie. Movimento cattolico e Partito popolare nei «Quaderni» di Gramsci, Padova, Il poligrafo, 2005, pp. 94-99 ricostruisce le fonti (per un lato Sorel e Renan, per un altro ad Alfredo Oriani, Piero Gobetti e Guido Dorso) dell’idea – attestata nei Quaderni – che la Controriforma segni il distacco della Chiesa cattolica dalla «democrazia». Cfr. Quaderno 1, § 128: QC, 117 e Quaderno 9, § 99: QC, 1162.138 Quaderno 7, § 50: QC, 896.

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questo senso, l’idea del «sentirsi medesimezza» è una riformulazione di quan-to Gramsci era andato ricostruendo nei due anni precedenti a proposito di una lettura democratica del Principe, quando (come si è mostrato nel par. 1)aveva sottolineato che, di fatto, le conoscenze contenute nel trattato sono utili sopratutto a quella parte che non ne era a conoscenza, e che grazie al fatto che questa arte è stata sistematizzata e resa pubblica, può iniziare a fare la pro-pria educazione all’arte di governo, per diventare classe dirigente. Il Principe ha, per questa ragione, una funzione rivoluzionaria, in quanto per la prima volta spezza il monopolio della politica da parte delle classi dirigenti e rende possibile un legame tra popolo e potere139. In secondo luogo, Machiavelli era stato presentato come un politico impegnato nelle lotte del suo tempo, lotte che conducevano verso la monarchia assoluta come l’unica dimensione nella quale poteva trovare posto uno sviluppo progressivo della borghesia e quindi il superamento del feudalesimo140.Queste due dimensioni non erano per Gramsci separate o separabili, anzi: è proprio perché Machiavelli intuisce la necessità di convincere il popolo del carattere progressivo della monarchia assoluta, che egli popolarizza la politica, perché l’adesione deve essere convinta e consapevole, il popolo deve accordare il proprio appoggio nella consapevolezza che quella è la decisione da prendere. In sintesi, si può dire che tutto ciò che su Machiavelli Gramsci scrive fino alla fine del 1931 si riassume nell’idea che il popolo ha specialmente bisogno di un’arte politica realistica, che sappia collegare i «mezzi» adatti ai «fini» che si vogliono raggiungere: se si vuole lo sviluppo della borghesia, occorre appog-giare la monarchia assoluta.Si tratta di diffondere la pratica di (come Gramsci si esprimerà in seguito) «un “realismo” popolare, di massa»141. Ma questo, e il connesso compito politico della realizzazione della monarchia assoluta, non lasciano il popolo come esso era prima. In un testo del Quaderno 4, la nascita «un “capo” che sappia quello che si fa» viene correlata a «un popolo che sa che ciò che il capo fa è anche suo interesse, nonostante che queste azioni possono essere in contrasto con l’ide-ologia diffusa (la morale e la religione)»142. Il lessico è quello dell’intellettuale organico. Ma per converso anche il popolo deve essere in grado di «sapere», cioè di valutare, di giudicare che cosa sta facendo il capo. In altre parole, l’im-magine di Machiavelli come teorico della monarchia assoluta presenta delle tensioni interne, che gradualmente spostano la questione in un’altra direzione:

139 Cfr. Quaderno 4, § 4 e § 8 (maggio 1930). Sul modo in cui Gramsci «riatteggia [...] la tradizionale interpretazione “obliqua” d’ascendenza settecentesca, tuttavia depurandola [...] del sottile machiavellismo che la informava», cfr. Masiello, Momenti sintomatici della moderna critica machiavelliana, cit., p. 39.140 Cfr. Quaderno 1, § 10 (giugno-luglio 1929).141 Quaderno 14, § 33: QC, 1691.142 Quaderno 4, § 8: QC, 431.

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quella dell’articolazione politica di due elementi, che tradizionalmente sono separati: politica e verità143. Nel momento in cui si pone fine alla politica come patrimonio di pochi, at-tività segreta e riservata, mondo in cui le cose «si fanno», ma non «si dicono», e si inizia a «dire ciò che si fa» e anzi a «fare» solamente ciò che anche «si dice» o meglio «si può dire»144, il «popolo» inizia a entrare realmente nella politica.All’inizio del 1932, nel § 21 del Quaderno 8, grazie al ricorso al «mito», il nesso verità-politica e quello politica-religione vengono stretti da Gramsci in discorso unitario, e riferiti all’opera del Segretario fiorentino. Il risultato immediato di ciò è l’inclusione in questo discorso anche della questione della democrazia. In estrema sintesi, si può dire che la questione del pensiero di Machiavelli come strutturalmente «democratico» viene nel 1932 riformulata in modo nuovo, come necessariamente legata a una dimensione «religiosa».Per affermare ciò, l’uso del termine «medesimezza» in relazione positiva a Ma-chiavelli e negativa a Manzoni è un indizio importante, in quanto costituisce un rinvio alle peculiari caratteristiche «profetiche» del cap. XXVI del Principe, alla chiamata alle armi di massa che ciò implica, e dunque all’idea democratica del «popolo in armi». Ma anche altri indizi spingono in questa direzione. Di fatto, almeno dall’inizio del 1931, cioè subito dopo l’esperienza delle «conver-sazioni» politiche nel collettivo dei detenuti comunisti, Gramsci avvia una serie di riflessioni sulla mancata realizzazione della democrazia in Italia, sulla que-stione della «costituente» come esigenza latente ma sempre viva, sempre attuale nel popolo italiano145, sul nesso tra eguaglianza come elemento dell’ideologia religiosa popolare e i movimenti per l’eguaglianza politica146, infine «sul dire la verità in politica» («nella politica di massa dire la verità è una necessità politica, precisamente»)147, che mostrano il delinearsi della duplice esigenza di ripensare la religione in rapporto alla democrazia e la politica in rapporto alla verità148.

143 Su questo importantissimo tema gramsciano cfr. F. Fernández Buey, Una reflexión sobre el dicho gramsciano «decir la verdad es revolucionario», in Horizontes gramscianos. Estudios en torno al pensamiento de Antonio Gramsci, coord. por M. Modonesi, México D.F., Facultad de Ciencias Políticas y Sociales-Unam, 2013, pp. 43-57.144 Su questo punto incentra la sua bella ricostruzione Paggi, Il problema Machiavelli, cit. Cfr. ora anche D. Kanoussi, Notas sobre el Maquiavelismo contemporáneo, Puebla, LunArena editorial, 2012, pp. 163-176.145 Cfr. Quaderno 6, § 81: QC, 751-752 (marzo 1931); Quaderno 7, § 102: QC, 928-929 (dicembre 1931); Quaderno 8, § 83: QC, 989-990 (marzo 1932); Quaderno 8, § 101: QC, 1000-1001 (marzo 1932); Quaderno 9, § 103: QC, 1166-1167 (maggio-giugno 1932).146 Cfr. Quaderno 7, § 35: QC, 883-886, e Quaderno 7, § 38: QC, 887-888 (entrambi febbraio-novembre 1931).147 Quaderno 6, § 19: QC, 699-700 (dicembre 1930).148 Su questa congiuntura mi permetto di rinviare al mio Note sul programma di lavoro sugli «intellettuali italiani» alla luce della nuova edizione critica, in «Studi storici», LII, 2011, n. 4, pp. 905-924.

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Non è qui possibile ricostruire in dettaglio tutti gli aspetti di questa ricerca, consegnata ai Quaderni 6, 7 e 8. Mi limiterò perciò a segnalare i temi principali e la loro dinamica. Nel marzo 1931 Gramsci equipara quella che chiama «una democrazia reale» con «una reale volontà collettiva nazionale»149. Democrazia, se si assume questa parola nel suo significato «reale», non è pertanto una forma di governo, ma il fatto consistente nella formazione di un movimento politico di carattere al contempo popolare e nazionale.Nella storia italiana ha prevalso l’assenza di un tale «fatto»: il cosiddetto «in-dividualismo» del popolo italiano è la conseguenza della mancata formazio-ne dei grandi partiti e sindacati moderni, cioè di qualsiasi forma di volontà collettiva e, dunque, di democrazia. In un testo dell’ottobre-novembre del 1931, interrogandosi sul modo in cui sia possibile superare questa situazione, Gramsci rifiuta il metodo centralistico, autoritario e amministrativo, perché, nota, esso verrebbe realizzato con funzionari, che finirebbero per riprodurre la stessa mentalità individualistica che si tratta di combattere. È questa mentalità che va anzitutto criticata. Perciò il metodo da adottare è quello «della libertà»:

Metodo della libertà, ma non inteso in senso «liberale»: la nuova costruzione non può che sorgere dal basso, in quanto tutto uno strato nazionale, il piú basso econo-micamente e culturalmente, partecipi ad un fatto storico radicale che investa tutta la vita del popolo e ponga ognuno, brutalmente, dinanzi alle proprie responsabilità inderogabili150.

Ciò, che rende possibile la democrazia nella sua realtà, è dunque un «acca-dimento» di grande portata nazionale, che metta in movimento simultane-amente un’intera massa popolare-nazionale, costringendola a passare dalla passività all’attività. In questa luce va compreso l’accostamento di egemonia e democrazia nel Quaderno 8, dove Gramsci annota: «Tra i tanti significati di democrazia, quello piú realistico e concreto mi pare si possa trarre in connes-sione col concetto di egemonia»151. Infatti il sistema egemonico, per esistere, presuppone l’attivazione politica delle masse: la mobilitazione popolare (anche quando essa accade in forme subalterne e autoritarie) è la dimensione essenziale del suo funzionamento152.

149 Quaderno 6, § 79: QC, 750-751.150 Quaderno 6, § 162: QC, 816.151 Quaderno 8, § 191: QC, 1056, corsivo mio (dicembre 1931).152 In questo senso vanno letti i riferimenti al significato filosofico dell’elaborazione dell’e-gemonia realizzata da Lenin, in Quaderno 4, § 38: QC, 464-465, e in Quaderno 7, § 35: QC, 886. Mi sono soffermato estesamente su questo punto in Gramsci e la filosofia. Saggio sui Quaderni del carcere, cit., pp. 95-98; e in La religione dell’uomo moderno. Politica e verità nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, Roma, Carocci, 2010, pp. 90-92, a cui rinvio.

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Si è detto che la simultaneità dell’entrata nella vita politica delle masse po-polari153 è legata a grandi accadimenti che segnano un mutamento radicale della vita nazionale. In un testo del maggio-giugno 1932, intitolato Momenti di vita intensamente collettiva e unitaria nella vita del popolo italiano, Gramsci tenta di compilare una sorta di catalogo di questi accadimenti nella vita na-zionale italiana154. Sopratutto le elezioni del 1919, in quanto avvennero dopo la guerra, in una situazione in cui l’intera massa nazionale era in movimento, sono agli occhi di Gramsci decisive: con esse la democrazia reale formulò per la prima volta una sfida concreta al sistema di potere italiano. Il popolo, osserva Gramsci, diede a queste elezioni «carattere implicito di costituente»155, ma tutti i partiti popolari giunsero a questo appuntamento impreparati. Il risultato fu una reazione, quella fascista, di nuovo tipo, perché puntò precisamente non a gettare di nuovo le masse nell’indistinto della passività («ai margini della storia»), ma a coinvolgerle nel proprio progetto. Esso fu quindi a suo modo un’esperienza «democratica», nell’accezione che abbiamo qui visto definirsi e che era ampiamente diffusa quando Gramsci scriveva i Quaderni156.

5. Il «mito» tra «fanatismo» e «autoriflessione». Per il modo in cui la democra-zia viene definita nei Quaderni, il suo concetto non è di principio distinto da quello di «demagogia»: il potere del «popolo in azione» non si differenzia nettamente dall’esercizio di una «guida» politica su questo popolo, del quale si suscitano «l’entusiasmo e la passione»157. L’opposizione è invece tra le forme di democrazia e di demagogia, forme che si caratterizzano per il tipo di rapporto che i capi instaurano con le masse, secondo una movenza già pienamente de-lineata nell’articolo Capo, del 1924. Qui Gramsci affermava: «Nella quistione della dittatura proletaria il problema essenziale [...] consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, nei rap-porti che esistono tra questo partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico?»158. Allo

153 «Simultaneamente» torna in Quaderno 8, § 21: QC, 952-953: «Ogni formazione di volontà collettiva nazionale popolare è impossibile senza che le masse dei contadini coltivatori entrino simultaneamente nella vita politica».154 Quaderno 9, § 103: QC, 1166-1167.155 QC, 1167.156 Sul concetto fascista di democrazia (etico-totalitaria, di ascendenza mazziniana), cfr. G. Belardelli, Il fantasma di Rousseau: fascismo, nazionalsocialismo e «vera democrazia», in «Storia contemporanea», XXV, 1994, n. 3, pp. 361-389, pp. 365-380.157 Quaderno 1, § 119: QC, 112: «Quegli uomini [del Risorgimento, scil.] effettivamente non seppero guidare il popolo, non seppero destarne l’entusiasmo e la passione, se si intende demagogia nel suo significato primordiale».158 Capo, in «L’Ordine Nuovo», III serie, I, n. 1, marzo 1924, pp. 1-2, ora in Gramsci, La costruzione del Partito comunista. 1924-1926, cit., pp. 12-16, p. 13.

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stesso modo, nei Quaderni, egli definisce la demagogia per il tipo di rapporto che la funzione di «guida» realizza: le masse possono essere viste «come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via», o al contrario esse sono il «necessario protagonista storico» del raggiungimento di «fini politici organici» mediante un’«opera “costituente” costruttiva»: questa seconda forma può essere chiamata «una “demagogia” superiore»159.Da una parte si hanno i regimi plebiscitari e il bonapartismo, dall’altra la realizzazione dell’egemonia: ma in entrambi i casi è necessaria l’adesione di dirigenti e diretti, l’unità sentimentale e passionale, insomma quella che nel § 1 del Quaderno 13 Gramsci chiama «medesimezza», e che solo a partire dal gennaio-febbraio del 1932 pensa sotto il concetto di «mito». L’approccio alla democrazia in termini di egemonia apre pertanto non solamente il paragone tra politica e religione, ma anche la questione del rapporto tra fanatismo-passionalità e ragione. La religione, come si è visto, spinge all’azione «classi po-polari fanatiche e fanatizzate», ma d’altra parte anche il meccanismo ideologico e retorico-argomentativo del Principe consiste nel convertire il «ragionamento» in «“affetto”, febbre, fanatismo d’azione». Esiste non solo un nesso necessario tra l’azione e la fede, le passioni elementari; ma anche tra l’azione di massa e la fede in un senso ampio, come sinonimo di convinzione indiscutibile che, in quanto tale, spinge ad agire.Questo modulo di reciproca implicazione escludente tra conoscenza e azione, di ascendenza goethiana e romantica, Gramsci lo riprende attraverso la trat-tazione a cui Croce lo aveva sottoposto nei Frammenti di etica, in cui la fede era stata speculativizzata a risultato del filosofare e privata del suo carattere di opposizione rispetto al pensare160. La fede e la religione non sono, per Croce, dei fatti irrazionali. Anzi, nel corso degli anni Venti esse si vanno sempre piú nettamente identificando con la dimensione etico-politica, in cui agire politico e agire morale trovano una composizione. Gramsci considera l’etico-politico crociano di grande importanza, proprio perché esso testimonia dello sforzo

159 Quaderno 6, § 97: QC, 772 (marzo-agosto 1931). G. Cospito (Il ritmo del pensiero. Per una lettura diacronica dei «Quaderni del carcere» di Gramsci, Napoli, Bibliopolis, 2011, pp. 228-244) documenta come Gramsci opponga dapprima «centralismo organico»/«burocratico» a «centralismo democratico», e come nel luglio-agosto del 1932 (il punto di svolta è Quaderno 9, § 68: QC, 1138-1140) questo sistema oppositivo si riorganizzi, dando luogo all’opposi-zione di «centralismo democratico»/«organico» a «centralismo burocratico». I testi qui citati aiutano a intendere come sia presente in Gramsci, da sempre, un’accezione profondamente positiva del termine «organico» come criterio reale di democrazia.160 La fede è il pensiero che, dopo esser stato pensato, si fa «stabile o statico», cioè da «critica» diventa «convinzione» e come tale «condiziona la nuova azione» (Croce, Etica e politica, cit., pp. 21, 38, 85). La religione va intesa non «nel significato materiale degli adepti delle varie religioni o ristretto degli avversarî filosofici delle religioni, ma, come intendeva il Goethe, in quello di ogni sistema mentale, di ogni concezione della realtà che, tramutata in fede, sia divenuta fondamento di azione e insieme lume di vita morale» (ivi, p. 234).

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compiuto dalla filosofia speculativa per arrivare a pensare in modo attivo, efficace, la nuova situazione creatasi con la crisi del mondo liberale. Ma la sua strada è diversa: l’assunzione della nozione di «fede» e di «religione» nel senso crociano è per lui strumentale a farne una critica immanente, mediante la sua traduzione in termini politici e la messa in evidenza della sua funzionalità ideologica.Questo spostamento emerge chiaramente nel § 21 del Quaderno 8: qui infatti per Gramsci non è in questione l’esistenza del legame tra azione e fanatismo, quanto la sua forma. Come nel caso della democrazia-demagogia, è il tipo di rapporto politico che si stabilisce tra masse e capi, ciò che caratterizza effetti-vamente il tipo di volontà collettiva che ne scaturisce, il suo carattere rivolu-zionario o reazionario.Va però sottolineato ancora una volta che la fusione del tema del fanatismo dell’azione con l’interpretazione di Machiavelli giunge solo con la lettura del libro di Russo. Non che in precedenza manchi un interesse teorico e politico: al contrario, fin dal Primo Quaderno Gramsci medita sul nodo fanatismo-azione in vari testi che testimoniano dell’indecidibilità della questione, se essa viene formulata su di un piano meramente logico o teorico161. Come detto, Gramsci sposta il ragionamento sul terreno storico concreto, dei rapporti reali: nel 1932 scriverà che la questione dell’«unità della teoria e della pratica» va «impostata storicamente, e cioè come un aspetto della quistione politica degli intellettuali»162, ma già dal 1930 va sondando la possibilità di mediare fana-tismo e ragione, rileggendo questo nesso alla luce del concetto di «ideologia» come forma storicamente operante della sovrastruttura, e come tale dotata di un’intrinseca razionalità storica163. Il fanatismo e la ragione si uniscono storica-mente, politicamente in quelle ideologie che rappresentano un nesso organico e vitale tra massa e intellettuali164, e che in quanto tali sono «principio politico e d’azione» e quindi di conoscenza vera165.La riduzione crociana della politica a «passione» serve come punto d’avvio da sottoporre a critica: perché tutta la questione viene storicizzata, riletta in termini politici166. È questo il contesto in cui Gramsci torna nei Quaderni ad accostarsi a Sorel, rispetto al quale il periodo precedente, dopo il biennio rosso,

161 Cfr. Quaderno 1, §§ 28 e 29: QC, 22-24.162 Quaderno 11, § 12: QC, 1386.163 Cfr. Quaderno 4, § 45: QC, 471, e Quaderno 4, § 15: QC, 437.164 Cfr. Quaderno 4, § 33: QC, 451-452.165 «[...] il materialismo storico [...] è la coscienza piena delle contraddizioni in cui lo stesso filosofo, individualmente inteso o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della contraddizione, e eleva questo elemento a principio politico e d’azione» (Quaderno 4, § 45: QC, 471).166 Cfr. Quaderno 7, § 39: QC, 888-889, e Quaderno 8, § 56: QC, 974-975.

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segna un’eclissi abbastanza netta167. Questo riavvicinamento accade esattamen-te dal punto in cui Gramsci aveva preso congedo dal teorico del sindacalismo rivoluzionario, quando al principio del 1921, nell’articolo Bergsoniano!, la pro-porzione, per cui il socialismo italiano stava al positivismo come il sindacali-smo francese al bergsonismo, si era conclusa nella consegna: «bisogna risalire a Carlo Marx e a Federico Engels»168.I Quaderni del carcere sono effettivamente il documento di un’assai originale risalita a Marx, avviata proprio negli anni della vittoria del fascismo169. Qui, in uno dei primi testi della Prima serie di Appunti di filosofia, l’importante Due aspetti del marxismo, scritto nel maggio 1930, Gramsci compie l’indicazione di metodo enunciata nel 1921, ribaltando completamente la prospettiva: non si tratta di integrare, o meno, Marx con il positivismo o con Bergson, ma di riconoscere i modi specifici nei quali l’originario approccio di Marx si è poi decomposto in orientamenti opposti. «Lo studio del Sorel può dare molti indi-zi a questo proposito. Bisognerebbe però studiare specialmente la filosofia del Bergson e il pragmatismo per vedere in quanto certe loro posizioni sarebbero inconcepibili senza l’anello storico del marxismo; cosí per il Croce e Gentile ecc.»170. E poco piú avanti, riaffermando – contro Croce – il legame del concet-to di sovrastruttura/ideologia171 con la realtà e con la verità, Gramsci conclude: «Questo argomento del valore concreto delle superstrutture in Marx dovrebbe essere bene studiato. Ricordare il concetto di Sorel del “blocco storico”»172.

167 Ciò riguarda in generale i riferimenti alla cultura francese, che fino al 1920 sono assai fitti. Cfr. M. Gervasoni, Gramsci e la Francia. Dal mito della modernità alla «scienza della politica», Milano, Unicopli, 1998, pp. 85-86. Sul rapporto di Gramsci con Sorel cfr. N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Torino, Einaudi, 1975, pp. 98-107 (e in generale i primi 9 capitoli); S. Salomon, Gramsci face à Sorel. Histoire de déplacements et de transferts, in Modernité de Gramsci. Actes du colloque franco-italien de Besançon, 23-25 novembre 1989, sous la dir. d’A. Tosel, Paris, Les Belles lettres, 1992, pp. 31-84. Sulla questione del mito cfr. anche: E. Augelli, C.N. Murphy, Consciousness, Myth and Collective Action: Gramsci, Sorel and the Ethical State, in Innovation and Transformation in International Studies, ed. by S. Gill and J.H. Mittelman, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 25-38; M. Gervasoni, Mito politico e morale dei produttori: il confronto con Georges Sorel, in Gramsci nel suo tempo, cit., vol. II, pp. 707-725, pp. 718-725. 168 Bergsoniano!, in «L’Ordine Nuovo», I, n. 2, 2 gennaio 1921, ora in A. Gramsci, Socia-lismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, a cura di E. Fubini, Torino, Einaudi, 1966, pp. 12-13, p. 13.169 Cfr. F. Izzo, I Marx di Gramsci, in Gramsci nel suo tempo, cit., vol. II, pp. 553-580, pp. 561 sgg. 170 Quaderno 4, § 3: QC, 422.171 Sull’identificazione di «superstrutture» (declinato al plurale) e «forme ideologiche» nei Quaderni del carcere cfr. P.D. Thomas, The Gramscian Moment. Philosophy, Hegemony, and Marxism, Leiden, Brill, 2009, pp. 98-99. 172 Quaderno 4, § 15: QC, 437.

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Come ha ben visto Valentino Gerratana annotando questo testo, la nozione di «blocco storico» rinvia a quella di «mito»173. Tuttavia, anche prescindendo dal non chiaro riferimento letterale174, è il modo stesso in cui Gramsci legge Sorel, che giustifica il nesso tra il concetto di mito e il «valore gnoseologico» delle superstrutture in Marx175; e che spiega anche perché Gramsci, poco piú avanti, nel § 38 del Quaderno 4, colleghi a questo ragionamento anche il «concetto di egemonia» elaborato da Lenin176. Infatti, mentre gli effetti critico-distruttivi del concetto di ideologia-sovrastruttura in Marx sono stati appannaggio – fino alla fase etico-politica – di Croce, Sorel, insieme alle correnti pragmatista e bergsoniana di cui peraltro è un punto di incrocio, è il rappresentante dei suoi effetti costruttivi. E precisamente di questi stessi effetti è testimonianza, dall’interno del marxismo, l’elaborazione «del concetto e del fatto di egemonia, dovuto a Ilici»177. «Il curioso antigiacobinismo del Sorel, settario, meschino, antistorico» (ma spiegabile storicamente con l’esperienza della guerra franco-prussiana e della Comune)178, lo conduce all’ideologia dello spontaneismo; ma il suo approccio alla questione della lotta politica come affermazione di «una regola di vita originale e un sistema di rapporti assolutamente nuovi» testimoniava per Gramsci di un momento di elaborazione ulteriore, anche se parziale, del pensiero di Marx179. È per questa ragione che nei Quaderni il

173 QC, 2632.174 Scrive Gerratana (ibidem): «Non sembra che Gramsci abbia avuto occasione di rileg-gere in carcere le Riflessioni sulla violenza di Sorel; un riassunto del passo citato è però nel capitolo su Sorel del libro di Malagodi a cui si fa riferimento in questo stesso paragrafo [G.F. Malagodi, Le ideologie politiche, Bari, Laterza, 1928]: “Non bisogna confondere questi stati relativamente fugaci della nostra coscienza volontaria con le affermazioni stabili della scienza. Non bisogna cercar di analizzare questi ‘sistemi di immagini’ come si analizza una teoria scientifica, scomponendola nei suoi elementi. Bisogna ‘prenderli in blocco’ come forze storiche”» (la citazione di Malagodi è ivi, p. 95).175 Cosí anche Gervasoni, Gramsci e la Francia. Dal mito della modernità alla «scienza della politica», cit., pp. 169-170. 176 QC, 464-465.177 Quaderno 7, § 33: QC, 882 (febbraio 1931).178 Quaderno 4, § 31: QC, 448 (settembre 1930). Cfr. anche Quaderno 5, § 80 (ottobre-novembre 1930) e Quaderno 4, § 70 (novembre 1930).179 Cfr. Il partito comunista, in «L’Ordine Nuovo», II, n. 15, 4 settembre 1920 e n. 17, 9 ottobre 1920, ora in Gramsci, L’Ordine Nuovo. 1919-1920, cit., pp. 651-661, p. 651. L’articolo esordisce cosí: «Dopo il Sorel è diventato un luogo comune riferirsi alle primitive comunità cristiane per giudicare il movimento proletario moderno. [...] Per il Sorel, come per la dottrina marxista, il cristianesimo rappresenta una rivoluzione nella pienezza del suo sviluppo» (ibidem). L’allusione è al paragone tra movimento operaio e prime associazioni cristiane istituito da Engels nell’Introduzione preposta nel 1895 alla riedizione di Klas-senkämpfe in Frankreich 1848 bis 1850 (in K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. XXII, Berlin, Dietz Verlag, 19723, pp. 509-527, pp. 526-527). Sulla fortuna del paragone engelsiano cfr. Paggi, Antonio Gramsci e il moderno principe. I. Nella crisi del socialismo italiano, cit., p. 4.

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pensiero di Sorel viene riallacciato al concetto di egemonia, e il «mito» alla nozione di «ideologia»180.Nei Quaderni Gramsci matura dunque l’idea che le opposte riduzioni crociana e soreliana del concetto di ideologia trovano la loro composizione e la loro critica nella teoria e nella pratica dell’egemonia. I riferimenti di appoggio che Gramsci cerca in Marx mostrano certamente, nella loro estravaganza181, il fatto che l’egemonia è una forte innovazione, anche se si tratta di un’innovazione che nel marxismo è stata a lungo cercata182. Comincia cosí ad acquistare significato la ripresa del «mito» soreliano, nel gennaio 1932, in relazione a Machiavelli. In questo concetto Gramsci individua una concretizzazione pratica dell’ege-monia, nel senso che il mito, un determinato mito, è l’egemonia concretizzata in determinati rapporti politico-ideologici nel quadro di una certa tradizione storica, e fatta diventare azione politica attuale.Questa lettura corrisponde, ma solo in parte, al modo in cui il mito viene presentato da Sorel. Nelle Réflexions sur la violence egli aveva insistito sul fatto che i miti non sono «descrizioni di cose» ma «espressioni di volontà»183, di una volontà di cambiamento totalitaria proiettata nel futuro e propria a vasti movimenti sociali. Il significante del mito pertanto non può né ancorarsi a un significato fisso, né essere patrimonio di un interpretante individuale. Questa duplice caratteristica fa sí che «un mito non troverebbe possibilità di essere rifiutato, poiché esso è, nell’insieme, identico alle convinzioni di un gruppo, ed è l’espressione di queste convinzioni in un linguaggio di movimento, e quindi,

180 Come è noto, nel suo Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (la prima edizione è del 1923, la seconda del 1926), Carl Schmitt riconduce il bolscevismo all’anarcosindacalismo soreliano (cfr. La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamen-tarismo, a cura di G. Stella, Torino, Giappichelli, 2004, cap. IV, sopratutto pp. 91-92 e 103-105). Quanto Gramsci scrive sul nesso tra mito ed egemonia può essere considerato, sotto tutti punti di vista, una risposta a questa tesi: sia perché legge il mito soreliano alla luce dell’ideologia in Marx, e non viceversa, sia perché ribalta il nesso tra Marx e Sorel, rispetto al modo in cui lo legge, e pour cause, Schmitt. Per la tesi schmittiana cfr. L.A. Rossi, «El mito más fuerte reposa sobre lo nacional»: Carl Schmitt, Georges Sorel y el «Concepto de lo político», in «Revista internacional de Filosofía Política», XIV, 1999, pp. 147-166, pp. 158-160.181 In Quaderno 7, § 21: QC, 869, intitolato Validità delle ideologie, riprendendo non ca-sualmente la nozione di «blocco storico», Gramsci rinvia a un passo del Capitale (K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, libro I, trad. it. di D. Cantimori, Roma, Editori riuniti, 19748, p. 92) e a uno di Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (in K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Torino, Einaudi, 1950, p. 404). È significativo che in essi non è in questione la dottrina «ufficiale» dell’ideologia, ma, nel primo caso, la nozione del tutto estemporanea di «pregiudizio popolare», nel secondo quella giovanile di realizzazione della filosofia come «forza materiale».182 Su questo punto mi sento di condividere pienamente la tesi di E. Laclau, Ch. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, London-New York, Verso, 20012.183 G. Sorel, Scritti politici, a cura di R. Vivarelli, Torino, Utet, 1996, p. 114.

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per conseguenza, non è scomponibile in parti»184. Il mito s’identifica pertanto con la vita in atto del movimento, inteso non come massa calcolabile, ma come «forza storica»185. In esso, dunque, la distinzione tra politica e religione diventa inessenziale, dato che entrambe si muovono sullo stesso piano complessivo della «civiltà» e del suo rovesciamento rivoluzionario.Dal punto di vista di Gramsci, ciò vuole dire che una politica di alternativa globale alla civiltà borghese è la forma politica concreta, di massa, di supera-mento dell’economicismo. Se l’egemonia è il concetto teorico in cui si deposita il significato politico della filosofia della praxis, il mito, come forma di politica egemonica portata avanti dal moderno Principe in circostanze determinate, ne è il concetto pratico: il mito è cioè la rappresentazione di una battaglia futura, in cui il popolo italiano può trovare la via all’azione, eliminando in un sol colpo e in massa (si ricordi il «simultaneamente») la propria atavica mentalità apolitica e passiva.Ma, come si è detto, la corrispondenza tra Gramsci e Sorel è solo parziale. Ciò è comprensibile, se si tiene conto del fatto che il concetto di mito è ripensa-to all’interno di quello di egemonia. Questo assorbimento è testimoniato in modo eloquente da una variante apportata da Gramsci nella riscrittura di un testo del Quaderno 7 risalente al febbraio-novembre 1931:

In ogni modo rimane la «teoria dei miti» che non è altro che la «teoria delle pas-sioni» con un linguaggio meno preciso e formalmente coerente.

[...] la teoria dei miti è per il Sorel il prin-cipio scientifico della scienza politica, è la «passione» del Croce studiata in modo piú concreto, è ciò che il Croce chiama «re-ligione» cioè una concezione del mondo con un’etica conforme, è un tentativo di ridurre a linguaggio scientifico la concezio-ne delle ideologie della filosofia della pra-xis vista attraverso appunto il revisionismo crociano.

La seconda stesura appartiene al Quaderno 10, e risale all’agosto-dicembre 1932186. Si conferma l’idea, già enunciata nel Quaderno 4, che il filtro del revisionismo è indispensabile per comprendere la particolare curvatura del concetto di mito in Sorel, ma cambia completamente il confronto tra la teoria soreliana dei miti e quella crociana delle ideologie. La ragione di ciò è in parte da rintracciare in un cambiamento intervenuto nel pensiero di Croce: l’in-tervento dell’etico-politico, con il concetto di «religione» che prende il posto

184 Ibidem.185 Sul mito in Sorel cfr. G. De Paola, Georges Sorel, dalla metafisica al mito, in Storia del mar-xismo, diretta da E.J. Hobsbawm, vol. II, Torino, Einaudi, 1979, pp. 660-692, pp. 681-689. 186 Prima stesura: Quaderno 7, § 39: QC, 888; seconda stesura: Quaderno 10 II, § 41.V: QC, 1308.

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della teoria delle ideologie, sostituendo a un approccio critico-distruttivo, uno costruttivo e a suo modo «mitologico»187. Rimane però il fatto che la teoria dei miti non si riduce al concetto crociano di religione. In quanto «è un tentativo di ridurre a linguaggio scientifico» la teoria della politica-passione (che è ap-punto «la concezione delle ideologie della filosofia della praxis vista attraverso [...] il revisionismo crociano»), nella geografia mentale di Gramsci il mito ha una sua specifica funzione, consistente nel recuperare la ricchezza del concetto di ideologia senza cadere nell’etico-politico.Ritengo che nel riservare questo specifico «luogo» al mito abbia contribuito in modo determinante il confronto con il libro di Russo, il quale aveva caratte-rizzato come aporetico Il Principe in quanto opera di pensiero politico, mentre per lui era sul piano di una nozione amplificata di «arte», che l’antinomia tra Stato e Chiesa, tra analisi e profezia trovava composizione. La soluzione era insomma di ordine sentimentale: in quanto artista, Machiavelli conseguiva ciò che la sua politica non avrebbe mai potuto raggiungere. In questo modo, la nozione di «popolo» rimaneva ancorata a un intendimento letterale del con-cetto di «sentimento» e di «unione sentimentale». Per Russo non vi è spazio per una traduzione del popolo nazione in termini di analisi politica, perché ciò avrebbe significato cadere in quella stessa «angustia» che era propria al Machiavelli politico188. Al contrario, egli – in ciò unendosi a Croce e a Genti-le – fu sempre convinto «che la sua cultura e la sua fede fossero la cultura, la fede: che i contadini e gli operai, nella cui umanità riconosceva la propria, non

187 Il punto di passaggio, nell’analisi che Gramsci ne fa, può essere ritrovato in Quaderno 7, § 84, scritto nel dicembre 1931, dove a proposito della «mistica» si nota che questa, nell’accezione francese di «fanatismo permanente incoercibile alle dimostrazioni corrosive […] non è altro che la “passione” di cui parla Croce o il “mito” di Sorel giudicato da cervelli cartesianamente logistici». La politica-passione viene cosí sottratta al fanatismo. Infatti subito sotto Gramsci nota che «positivamente si parla di mistica […] per non usare i termini di religiosità o addirittura di “religione”» E aggiunge in fondo al testo, in un momento suc-cessivo (vi è un’evidente variazione di ductus e di inchiostrazione): «Al significato di mistica francese si avvicina quello di “religione” come è impiegata dal Croce nella Storia d’Europa» (QC, 915). Su questi temi cfr. Frosini, La religione dell’uomo moderno. Politica e verità nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, cit., pp. 92-99.188 «[...] quell’arte dello Stato non è tutta l’arte di questo mondo, ma egli [...] crederà che la politica sia tutto [...]. Cotesta angustia sarà la piú vera tragedia del pensiero del Machia-velli [...]» (Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 31). E cfr. anche ivi, p. 34: sulla «virtú machiavellica [...] caduca, angusta e mediocremente egoistica [...]». In un testo del marzo 1932, in cui riprende il nesso Savonarola-Machiavelli, Gramsci osserva: «Il Russo ha ac-cumulato molte parole a questo proposito – nei Prolegomeni – ma il limite e l’angustia del Machiavelli consiste poi solo nell’essere il Machiavelli un singolo individuo, uno scrittore e non il capo di uno Stato o di un esercito, che è pure un singolo individuo, ma avente a sua disposizione le forze di uno Stato o di un esercito e non solo eserciti di parole» (Quaderno 8, § 84: QC, 990-991, corsivo mio).

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potessero non condividere la sua concezione della patria e dei doveri verso la patria»189. Russo rimane pertanto fermo a un’interpretazione letterale del mito mobilitante: come creazione artistico-sentimentale che non può dare luogo a un lavoro propriamente politico, di trasformazione critica collettiva.Per come Gramsci reinterpreta il mito, esso è invece la ritraduzione in termini storico-politici di quella nozione amplificata di arte che campeggia nel libro di Russo. In termini storici concreti, ciò corrisponde a un disegno politico ben di-verso: il popolo non va mobilitato come massa di manovra a disposizione degli intellettuali, ma la stessa mobilitazione va utilizzata come punto di avvio di una crescita critica collettiva, e a questa crescita si può arrivare solamente mettendo in discussione l’unitarietà fittizia del popolo, riscoprendo la sua condizione di subalternità come chiave di lettura dell’intera realtà sociale. Solo a questa con-dizione il moderno Principe può distinguersi sia dall’approccio etico-politico, sia da quello fascista, perché solo la sua azione ha carattere «costruttivo»: non solamente di istituzioni politiche, ma di un’intera nuova civiltà, in tutti i suoi aspetti, ivi compresa la funzione della critica.È per questa ragione che nel § 21 del Quaderno 8 la forma fanatica dell’azione collettiva viene distinta da quella che viene suscitata dal mito. L’azione fana-tica si polarizza infatti su di un capo individuale in quanto figura carismatica. Questo rapporto con un capo individuale si può creare però solo in particolari circostanze di pericolo immediato, quando la capacità critica e l’ironia ven-gono annullate. Per questa stessa ragione, l’azione del capo carismatico «non può essere di vasto respiro e di carattere organico190: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali»191.La distinzione è decisiva: data la struttura sociale «massiccia» moderna192, piú un capo si identifica con un individuo fisico, meno la volontà collettiva da egli suscitata corrisponderà alla fondazione di un nuovo ordine. Il riferimento al fascismo è evidente, come è chiaramente leggibile l’avvertimento relativo a un’eventuale deriva carismatica del potere sovietico. Fin qui siamo però ancora fermi a Capo, del 1924. Nuova è invece la conseguenza che ne deriva all’idea di un’azione politica popolare nazionale realmente democratica, guidata dai comunisti: questa azione politica riuscirà a suscitare una volontà collettiva che sollevi i subalterni della loro condizione, solo se si incarnerà nell’azione di un partito capace di mediare realmente (cioè nella sua struttura di funzionamen-

189 Garin, Luigi Russo nella cultura italiana dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., p. 680. In questo passo Garin si riferisce alla posizione assunta dal Russo interventista. Tale giudizio può però essere esteso ai Prolegomeni.190 Si noti l’aggettivo «organico», usato a proposito della «demagogia superiore» nel già ricordato Quaderno 6, § 97: QC, 772.191 Quaderno 8, § 21: QC, 952.192 Cfr. Quaderno 13, § 7: QC, 1567: «struttura massiccia delle democrazie moderne».

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to) adesione religiosa e distacco critico. A questo proposito, la descrizione piú efficace si trova nel Quaderno 11:

Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita piú in-tima (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale (cioè prodotto dall’esistenza ambiente di condizioni e di pressioni simili) diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giu-dizio di importanza di tali sentimenti non avviene piú da parte dei capi per intuizione sorretta dalla identificazione di leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, troppo spesso fallace, – che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza – ma avviene da parte dell’organismo collettivo per «compartecipazione attiva e consapevole», per «con-passionalità», per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire di «filologia vivente». Cosí si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente e tutto il complesso, bene articolato, si può muovere come un «uomo-collettivo»193.

Questo passo è stato scritto nel luglio-agosto del 1932. Si noti che questa parte, aggiunta quasi per intero in seconda stesura, registra le novità che ho illustrato: la riflessione sulla nozione realistica di democrazia, la sua identificazione con la creazione di una volontà collettiva, la necessità di distinguere diverse e anzi opposte modalità di formazione – pur sempre dentro il campo «democratico» – di questa volontà, e infine l’opposto orientamento (rivoluzionario o di re-staurazione) che la volontà collettiva di conseguenza acquisisce. Il riferimento – presente nel § 1 del Quaderno 13 – all’«autoriflessione» e alla «medesimezza», va decifrato in questa luce, come corrispondente a quello tra «filologia vivente» e «con-passionalità» del Quaderno 11.Si può dunque concludere che Gramsci, riprendendo il mito soreliano, fonde due dei grandi filoni di ricerca presenti negli appunti del 1930-1932: quello sulla mancata formazione in Italia di una volontà collettiva nazionale popolare, con il connesso tema del «costituentismo», e quello sul rapporto tra religione e democrazia, cioè sull’unità tra «alto» e «basso» nell’azione politica di massa. Nel mito, politica e religione vengono pensate insieme. Solamente se il rapporto tra capo e masse è di tipo «religioso», avrà luogo l’annullamento della distanza tra i due elementi, e la massa passerà all’azione, trascinata dalla rappresentazione del proprio futuro. Ma il mito non è solo un’immagine di battaglia. Non lo è il «costituentismo», il «mito» del popolo-nazione italiano che il moderno principe deve appropriarsi per potersi porre alla testa del popolo non come un’avanguardia staccata e pedante, ma come espressione organica delle sue rivendicazioni politiche piú profonde e radicate.Ciò contribuisce a spiegare perché il mito in Gramsci non è un fatto irra-zionale, a differenza di Sorel194. Qui interviene il terzo filone di riflessione di

193 Quaderno 11, § 25: QC, 1430.194 Cfr. Sorel, Scritti politici, cit., p. 213.

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Gramsci, quello sul rapporto tra formazione della volontà collettiva e potere carismatico, sul rapporto tra democrazia e demagogia, o meglio tra le forme opposte di democrazia e di demagogia. Nel § 21 del Quaderno 8 Gramsci osserva che il principe non si può incarnare in un individuo, ma solo in un partito politico:

Il moderno Principe, il mito-Principe non può essere una persona reale, un indivi-duo concreto; può essere solo un organismo, un elemento sociale nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la forma moderna in cui si riassumono le volontà collettive parziali che tendono a diventare universali e totali195.

Basti qui rinviare alle riflessioni sulla «filologia vivente» e avremo, nel partito politico, il luogo in cui concretamente il «fanatismo» dell’azione si media con la «riflessione», in una pratica egemonica concreta di addestramento di massa a essere dirigenti, che trova la sua espressione verbale nel concetto di «riforma intellettuale e morale», che, precisa Gramsci, è «il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare nel terreno di una forma compiuta e totale di civiltà moderna»196. È cioè il luogo in cui la volontà col-lettiva suscitata dal mito si organizza e assume una forma «critica», senza però cessare di essere «religiosa».Come si vede, grazie al mito la dimensione «religiosa» è stata assorbita nella politica. Questa non è piú solamente arte o tecnica neutra (come Gramsci – in parziale debito con Croce – aveva sostenuto in relazione a Machiavelli fino a quel momento), ma è una volontà collettiva (cioè una democrazia reale, in azione) che si rafforza, si «stabilizza» nell’auto-educazione dei subalterni all’arte del governo.

Conclusione. Rileggere a questo punto l’avvio del § 21 del Quaderno 8 può essere istruttivo. Gramsci vi definisce Il Principe «un libro “vivente”, in cui l’ideologia diventa “mito” cioè “immagine” fantastica e artistica»197. Questa idea è tratta da Russo, ma con una forte enfasi sul termine «mito». Gramsci nota infatti: «Nei Prolegomeni di L. Russo il Machiavelli è detto l’artista della politica e una volta si trova anche l’espressione “mito”, ma non precisamente nel senso su indicato»198. Esso vi compare infatti in modo incidentale199, mentre Gramsci, legandolo a tutto il resto dei Prolegomeni, incentrati sull’arte come

195 QC, 951.196 QC, 953.197 QC, 951.198 Quaderno 13, § 1: QC, 1555.199 «[...] la grandezza stessa di quel Valentino, assunto dal nostro autore a principe-mito della sua dottrina» (Russo, Prolegomeni a Machiavelli, cit., p. 29).

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sintesi fantastica di religione e logica, fa confluire su questo punto la reinter-pretazione di Sorel che era andato svolgendo a partire dal 1930.Questo slittamento gli permette di procedere oltre, riducendo il «“condottie-ro”» al «simbolo della “volontà collettiva”»200, per cui la sua azione concreta coincide completamente con «la formazione della “volontà collettiva”»201. Il carat-tere mitico-fantastico del protagonista del libro rende pensabile l’immanenza reciproca tra il suo «svilupparsi» e lo «sconvolgimento» di «tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali», come Gramsci precisa, fuori di metafora, alla fine del testo202. Questa immanenza reciproca è, come si è mostrato, resa pos-sibile dal mito nella reinterpretazione gramsciana, perché in esso si mediano politicamente, concretamente, la passione e la ragione, e ciò costituisce la sola garanzia del fatto che la democrazia reale non venga neutralizzata in una nuova forma di passivizzazione e burocratizzazione203.Una volta stabilito il meccanismo di funzionamento del mito, nel suo legame con Machiavelli e con il partito comunista, è però anche necessario interrogarsi conclusivamente sul suo contenuto. Gramsci afferma che Il Principe può essere letto come una «esemplificazione storica del “mito” sorelliano, cioè dell’ideo-logia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come “fantasia” concreta operante su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva»204. Il contenuto del mito è dunque il sistema di immagini capace di suscitare, nell’Italia rina-scimentale, una volontà collettiva popolare nazionale. Pertanto, l’espressione «esemplificazione storica» non si riferisce a tutto il libro, ma solo alla Exhortatio a «prendere le difese» (ad capessendam) dell’Italia, liberandola dagli stranieri, in cui Machiavelli invoca il nuovo capo a nome di tutto il popolo. Il futuro principe viene presentato come investito di un compito storico dalla stessa provvidenza divina, che con una serie di prodigi ne ha annunciato la venuta.Parlando di «esemplificazione storica», Gramsci non allude dunque al libro, ma al caso concreto che è contenuto nel libro, cioè allo specifico mito della libera-zione dell’Italia dallo straniero. Individuando questo mito – sostiene Gramsci

200 QC, 951.201 Ibidem.202 QC, 953.203 Dal punto di vista qui enunciato, è sintomatico che Carl Schmitt esasperi il concetto soreliano di mito, sia esaltandone la natura irrazionale, sia riconducendo univocamente il mito alla guerra. L’opposizione di mito della nazione e mito della lotta di classe, che Schmitt conia nella Geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, è quindi secondaria, rispetto alla sua natura irrazionalistica e alla sua radice polemica. È qui che la posizione di Gramsci assume la sua profonda originalità rispetto a tutto il panorama degli anni Venti e Trenta, di destra come di sinistra. Su Schmitt e Sorel cfr. Rossi, «El mito más fuerte reposa sobre lo nacional»: Carl Schmitt, Georges Sorel y el «Concepto de lo político», cit.204 QC, 951.

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– Machiavelli ha «radicato» il proprio libro nella volontà collettiva: una volontà collettiva non esistente attualmente (infatti il «popolo» è «disperso e polveriz-zato»), ma sí potenzialmente. In questa potenzialità è la concretezza del mito, che avrebbe potuto realisticamente unire e mobilitare il «popolo», allo stesso tempo anche creandone la figura storica. Questo mito avrebbe annullato la dicotomia tra l’alto e il basso: il popolo avrebbe seguito con entusiasmo «reli-gioso» il suo «redentore».L’immagine del «moderno Principe» viene creata da Gramsci per assolvere la stessa funzione di redenzione popolare: questo partito deve cioè saper svolgere un compito nazionale popolare, sfidando il fascismo sul suo stesso terreno della politica di massa. Il modo in cui il moderno Principe potrà sventare tanto le derive fasciste quanto quelle liberali, è la traduzione, anzitutto nel suo stesso funzionamento interno, della religione in politica. Ma esso dovrà legarsi a un mito concreto, e agitarlo, affinché la «passione» venga suscitata e la massa entri in azione. Questo mito è la «costituente», termine in cui non solamen-te si accumulano le rivendicazioni secolari piú disparate del popolo italiano, tutte però convergenti nell’esigenza di una democrazia reale, ma nel quale – e questo dettaglio è decisivo – questo popolo ha iniziato già, per proprio conto, a fare la traduzione delle proprie rivendicazioni dal linguaggio dell’egualitari-smo evangelico in quello della moderna democrazia politica; ha già iniziato a costituirsi «miticamente» in forza storica, mediando cioè in sé stesso la passione spontanea e la ragione organizzativa.La riforma intellettuale e morale di cui il moderno Principe si fa banditore raccoglie questa tradizione, sempre interrotta, di conati e di lotte per la for-mazione autonoma del popolo nazione: lotte e conati che si riassumono nel «costituentismo che trapela da tutti i pori di quell’Italia “qu’on ne voit pas” e che solo da dieci anni sta facendo il suo apprendissaggio politico»205. Che questa frase compaia in un testo su Croce del giugno 1932, come risposta alla questione «come effettivamente viene accolta la sua opera educativa, a quali “leghe” ideologiche dà luogo? Quali sentimenti positivi fa nascere?»206, è estremamente significativo. Il libro di Russo è uno dei punti di passaggio

205 Quaderno 10 II, § 22: QC, 1260. Cfr. la lettera a Tatiana del 19 ottobre 1931: «Al tempo di Crispi, un pubblicista francese (mi pare si chiamasse Ballet) scrisse un libro L’Italie qu’on voit et l’Italie qu’on ne voit pas. Questo titolo potrebbe darsi a ogni libro sui caratteri nazio-nali, e ciò che si vede di solito sono gli intellettuali e ciò che non si vede sono specialmente i contadini che pure, come la maggioranza della popolazione, sono essi proprio la “nazione”, anche se contano poco nella direzione dello Stato e se sono trascurati dagli intellettuali (a parte l’interesse che desta qualche tratto pittoresco)» (Gramsci, Schucht, Lettere 1926-1935, cit., p. 840). Il libro (che in realtà precede di qualche anno il momento in cui Crispi fu primo ministro) è ricordato a memoria. Cfr. A. Brachet, L’Italie qu’on voit et l’Italie qu’on ne voit pas, Paris, Hachette, 1881.206 QC, 1260.

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verso quelle «leghe»: di qui la sua possibile funzione ideologica e politica come modo per regimare ancora una volta nell’alveo dell’antifascismo liberale le acque tumultuose del costituentismo democratico. Entro lo spazio del «la-boratorio» fascista (che Gramsci pensi il fascismo come un laboratorio in cui il popolo nazione «apprende» a fare politica, lo mostra l’espressione «solo da dieci anni», scritta nel 1932), non occorre lottare solo contro l’illusione che il totalitarismo implichi la fine della politica207, ma anche contro l’opposta illusione, alimentata dall’antifascismo di Russo, che dal liberalismo (cioé dalla tutela degli «intellettuali») non sia mai possibile evadere.

207 È questa anche l’impostazione che Togliatti diede alle sue lezioni sul fascismo. Cfr. P. Togliatti, Corso sugli avversari. Le lezioni sul fascismo, a cura di F.M. Biscione, Torino, Einaudi, 2010.