‘L’insieme dei luoghi di cui si fa esperienza’. La geografia culturale, il film e la...
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A. MINUZ (A CURA DI), L’INVENZIONE DEL LUOGO. SPAZI DELL’IMMAGINARIO CINEMATOGRAFICO,
ETS, PISA, 2011
[INTRODUZIONE]
‘L’insieme dei luoghi di cui si fa esperienza’.
La geografia culturale, il film e la produzione dell’immaginario
[pp.7-24]
1. Memoria del Set e finzione del luogo
In Paracinema, una videoinstallazione del 2006, l’artista Laurent
Grasso ci conduce negli spazi dismessi degli studi di Cinecittà, tra le grandi
scenografie impiegate nei set di vecchi film ormai abbandonate all’usura
del tempo.
Lo sguardo della telecamera si aggira tra strutture fatiscenti e
mastodontiche. Scorgiamo quel che rimane di case coloniali e saloon
utilizzati per qualche film western, rasentiamo i binari di una ferrovia che
incrocia i resti di enormi colonnati di cartone e scheletri di navi di legno,
vecchi scenari delle produzioni dei kolossal ambientati nell’antica Roma.
Come per il celebre ‘magazzino’ descritto da Nathaniel West in Il
giorno della locusta – una misteriosa discarica in cui si accatastano
disordinatamente gli accessori e le vecchie cartapeste dei set di Hollywood
– lo sguardo di Laurent Grasso trasforma una fabbrica dei sogni in un
malinconico luogo della memoria. Spogliato delle sue funzioni e della sua
stessa vita, il set di Cinecittà emana qui lo struggimento dei vecchi
giocattoli. Tra le varie suggestioni innescate da Paracinema c’è un’idea
tanto semplice quanto rimossa nella percezione comune. Ovvero, che alla
base del fascino del cinema c’è soprattutto la sua capacità di inventare
luoghi e spazi che di fatto esistono solo nell’immaginario, nella nostra
memoria di spettatori.
I film ci conducono in posti e paesaggi facilmente riconoscibili o
totalmente ricreati come universo fantastico ma, anche quando preesistenti,
questi sono sempre il frutto delle falsificazioni costitutive del cinema
(Bertetto 2010). Si configurano come ambienti virtuali poiché lo spazio
ripreso – frutto del lavoro di abili scenografi o di manipolazioni digitali –
prende vita soltanto nel corso del film. Una cosa sin troppo ovvia per i
mondi artificiali del genere fantasy, ma che tuttavia vale anche per città,
strade, paesaggi naturali che sono sempre assemblati dal linguaggio
cinematografico in una forma altra rispetto all’esistente.
Pensiamo, solo per fare qualche celebre esempio, alla Los Angeles del
2019 di Blade Runner (R. Scott, 1982) – accumulo di città esistenti e
modelli provenienti dall’immaginario cinematografico ormai indistinguibili
tra loro – o alla città-set di The Truman Show (P. Weir, 1998) – dove tutto è
configurato per illudere il protagonista dello show televisivo di vivere
un’esistenza normale in un’anonima cittadina uguale a tante altre. Tanto
nell’ambientazione futuribile che nella monotona provincia americana la
finzione del film non può esistere se non nell’invenzione, cioè nella
falsificazione degli spazi in cui prende forma.
Da qui prendono avvio i vari interventi di cui si compone questo libro.
Con modi e prospettive interpretative diverse forniscono altrettante,
possibili risposte alle domande principali che il volume affronta: Come si
costruisce un ‘senso del luogo’ al cinema? Che rapporto si crea tra il set
design del film e i luoghi? Attraverso quali processi e scambi simbolici i
‘luoghi del cinema’ entrano a far parte dell’immaginario? E ancora, che
legame c’è tra la narrazione del film e il trattamento figurale dello spazio
che esso costruisce?
Nelle pagine seguenti cercherò di inquadrare il più ampio orizzonte
teorico in cui simili interrogativi si collocano.
2. Spatial turn
Sin dagli inizi della storia del cinema, gli intellettuali affascinati
dall’ingresso del nuovo mezzo nel sistema delle arti hanno guardato al
rapporto tra il film e l’architettura come a uno dei possibili nodi
dell’estetica cinematografica. Questa relazione corre d’altronde parallela
allo sviluppo delle teorie del film, trovando poi nell’attenzione per il set
design uno dei possibili orizzonti di ricerca (Neumann 1996). Il rapporto
tra gli studi sul film, la geografia culturale e la riflessione antropologica sul
concetto di luogo (non-luoghi, iperluoghi, cyberluoghi, luoghi della
memoria, etc.) è invece, evidentemente, un fenomeno più recente e per certi
versi ancora tutto da scrivere. Da alcuni anni, gli scambi tra queste aree di
studio si definiscono nell’orizzonte di un cosiddetto spatial turn che
informa più ampiamente le scienze umane e sociali nel loro complesso
(Arias, Worf 2009).
Si tratta di una ricollocazione dello spazio quale segmento decisivo
della ricerca umanistica contemporanea, trasversale alle singole
competenze disciplinari. Ciò dipende da varie ragioni. Già Michel
Foucault, dopo aver dedicato grande attenzione alle funzioni della
spazialità nel nostro ordine sociale, intravedeva l’emergere di un processo
più ampio:
Il grande incubo che ha ossessionato il XIX secolo è stato la storia. L’epoca
attuale sarà, forse, piuttosto l’epoca dello spazio. Siamo nell’epoca del
simultaneo, siamo nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e
del lontano, del fianco a fianco, della dispersione (Foucault 1984: 46)
I lavori sviluppati attorno alla metà degli anni Settanta dal sociologo
urbanista Henri Lefebvre e dal geografo Yi-Fu Tuan, furono in tal senso
largamente anticipatori dell’orizzonte di ricerche che sarebbe poi via via
emerso in modo diffuso (Lefebvre 1976, Tuan 1977). Nella prospettiva
marxista adottata da Lefebvre, l’idea di uno spazio che è diretta espressione
dei modi di produzione del capitalismo (uno spazio che è quindi prodotto e
non soltanto occupato dalle merci) si configura all’incrocio di varie
discipline – dall’economia all’architettura, dalla linguistica alla pittura –
offrendo un modello interpretativo ripreso in seguito lungo varie direzioni,
dallo studio dei conflitti sociali nel capitalismo globale proposto da David
Harvey, alla teoria culturale di Fredric Jameson.
Nella prospettiva fenomenologico-esperienziale di Yi-Fu Tuan,
invece, la geografia abbandona le sue pretese di conoscenza oggettiva e
affronta la relazione tra l’individuo e lo spazio anche in termini emozionali
e affettivi, non esitando in questo caso a confrontarsi con questioni
metafisiche, sulla scia dell’interrogazione del concetto di abitare quale
tratto fondamentale dell’essere, come nel caso della filosofia di Heidegger.
Dalle analisi di Lefebvre e Tuan, emergono pertanto due opposti
modelli interpretativi con cui ripensare il ruolo dell’urbanistica o della
geografia nelle scienze umane. Entrambe, in ogni caso, rilanciano il tema
dello spazio verso nuove connessioni disciplinari e percorsi di ricerca.
Pensiamo, ad esempio, all’orizzonte teorico dei primi cultural studies
britannici e al reciproco scambio di ipotesi che avvolge i lavori di Stuart
Hall o Raymond Williams e la geografia sociale (come nel caso degli studi
sulla frontiera, la ‘diaspora’ e tutti quegli spazi fisici o immaginari in cui le
culture si trasformano e si mescolano tra loro).
Ma è soprattutto nel corso degli anni Novanta, cioè con il massiccio
avvio dei processi di globalizzazione, che l’idea stessa di produzione dello
spazio si diffonde lungo prospettive sempre più ampie e condivise cui fa da
sfondo una stretta e rinnovata interrelazione tra spazio e tecnologia. La
nozione di mediascape, avanzata sin dal 1990 dall’antropologo Arjun
Appadurai per indicare quel paesaggio integralmente ridefinito dai media
in cui siamo ormai immersi, è in tal senso decisiva di dell’intreccio
indistinguibile di narratività, spazialità e produzione dell’immaginario che
caratterizza il mondo contemporaneo (Appadurai 2001).
Un altro sintomo evidente di questo fenomeno lo ritroviamo
nell’erosione dell’idea di luogo e nella necessità di ripensare questa
nozione a partire dalle radicali mutazioni dei rapporti sociali o della
compressione dello spazio e del tempo delle nostre vite (Morley 2001).
Questo è stato d’altronde uno dei motivi dominanti del pensiero
postmoderno che ha poi trovato nell’idea di non-luogo, proposta da Marc
Augé (Augé 1993), o di global sense of place avanzata da Doreen Massey
(Massey 1991), una sua prima concettualizzazione – nonché nel caso di
Augé una formula efficace, ben presto entrata a far parte del lessico
comune.
Se questo è lo sfondo generale da cui emerge una nuova sensibilità
interdisciplinare nei confronti dello spazio, non è certo da oggi che l’arte e
l’estetica si dimostrano utili per la geografia e la costruzione di un senso
del luogo. Yi-Fu Tuan rintraccia ad esempio nel filosofo Wilhelm Von
Humboldt (1767-1835), uno tra i primi a usare la pittura di paesaggio e la
poesia per estendere lo spettro delle cosiddette esperienze geografiche.
Tuttavia, quando ormai lo spazio si offre nei termini di una
costruzione sociale di cui si riscrive continuamente il significato, il cinema
e il suo immaginario diffuso diventano interlocutori indispensabili. Così
come le cartine geografiche della cultura umanistica rinascimentale, lungi
dall’essere una rappresentazione trasparente dello spazio, ci parlano della
percezione condivisa e delle credenze di una data epoca, i media e le nuove
tecnologie definiscono un’esperienza e una sensibilità specifica della
contemporaneità, che ha nell’idea di spazio costruita dall’esperienza
filmica una delle sue prime manifestazioni. In tal senso si può affermare
che «al pari di quanto avviene per le mappe, il paesaggio disegnato dal
cinema dipende direttamente dalle mutazioni della tecnologia e della
tecnica, e come tale evolve nel tempo» (Harper, Rayner 2010:16).
Una cartina stradale e un navigatore satellitare non ci offrono,
d’altronde, lo stesso tipo di percezione dello spazio e conoscenza del
territorio. Pertanto anche il trattamento figurale dei luoghi e dello spazio
operato dal film, non riguarda soltanto la critica cinematografica ma può
essere studiato nell’orizzonte di un dialogo diretto con la geografia
culturale (vedi Aitken, Zonn 1994).
Ad esempio, si può indicare un’esplicita influenza del lavoro di
Lefebvre nell’estetica geopolitica di Fredric Jameson, da lui intesa come
studio di quella mappatura simbolica del mondo che il cinema costruisce
con il suo immaginario pervasivo (Jameson 1992); o ancora tracciare una
continuità tra la geografia fenomenologica di Tuan e i lavori di una
studiosa come Giuliana Bruno, che ormai da tempo affronta la relazione tra
spazio e immaginazione nei differenti percorsi emozionali definiti
dall’architettura, dal cinema, dai musei, dalle installazioni artistiche (Bruno
2006; 2006a; 2009). Dovendo definire il senso dei suoi lavori e il più
ampio orizzonte di ricerche in cui questi si collocano, è la stessa Giuliana
Bruno ad affermare che «dopo il postmoderno, in cui si manifestava la
tendenza a percepirsi fuori dalle cose, oggi si respira un rinnovato desiderio
di capire cosa significa abitare e cosa sia il mondo del vissuto: l’insieme dei
luoghi di cui si fa esperienza» (Di Stefano 2005: 19).
3. Gli studi sul cinema e l’idea di luogo (quattro prospettive di
ricerca) Dovendo qui schematizzare in modo radicale, diremo che l’idea di
luogo incrocia gli studi sul cinema e le discipline dello spazio lungo
quattro prospettive di scambio che, va da sé, possono o devono essere
pensate in stretta interrelazione tra di loro:
a) Il rapporto tra immaginario del cinema, sviluppo della metropoli e
soggettività
b) La costruzione del paesaggio nel cinema e l’interpretazione del nesso
visualità-cultural heritage
c) L’incrocio tra esperienza visiva e spazialità definito da dispositivi
museali, shopping mall, installazioni artistiche, parchi a tema e numerose
altre pratiche (audiovisive).
d) Il rapporto tra immaginario del cinema e turismo (i film come
appropriazione di territori esotici, e/o usati come macchine promozionali di
città e luoghi)
Vediamole molto rapidamente una a una, cercando di evidenziare il
senso dei rispettivi orizzonti interpretativi messi in gioco:
a) Cinema/Metropoli
Il rapporto tra l’immaginario del cinema e la metropoli non si
esaurisce soltanto nel ruolo decisivo della città, sia nell’ambito degli spazi
urbani creati dal film, da Metropolis (F. Lang, 1927) a Batman – The Dark
Knight (C. Nolan, 2008), che degli scenari metropolitani celebrati dal
cinema, da City Lights (Luci della città, C. Chaplin, 1931) a Sex and the
City (M. P. King 2008) – per non parlare di quelle pellicole che, sin dal
titolo, rendono omaggio esplicito a una città o ai suoi luoghi più famosi,
come Roma (F. Fellini, 1973), Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra
Berlino, W. Wenders, 1987), Manhattan (W. Allen, 1979), Les triplettes de
Belleville (Appuntamento a Belleville, S. Chomet, 2003) e molti altri
ancora. Al di là di questo, la relazione tra il cinema e la città si è soprattutto
configurata come uno degli orizzonti più produttivi per intrecciare gli studi
sul film, l’analisi culturale e l’antropologia dello spazio, nel quadro di tutte
quelle ricerche che riprendono la lezione dei grandi interpreti degli effetti
della modernità, quali George Simmel, Walter Benjamin, Sigfried
Kracauer (che proprio negli studi sul cinema più avanzati hanno goduto di
una rinnovata popolarità). In quest’ottica, tra cinema e città esiste un forte e
radicato rapporto di reciproca implicazione che va oltre il discorso
dell’ambientazione di un film. Da un lato, infatti, il cinema nasce e si
sviluppa come la più compiuta espressione di quello shock che, come
Benjamin ha mostrato, caratterizza l’esperienza sensoriale del soggetto
metropolitano; ma dall’altro è la stessa metropoli che si offre come un
dispositivo di intensificazione della vita nervosa prodotta da una
molteplicità diffusa di stimoli, secondo l’efficace formulazione di Simmel.
In questo senso si può affermare che «il cinema si presenta allo stesso
tempo come elemento di modernizzazione ma, anche, di ‘compensazione’
degli effetti della modernità», poiché «non incamera soltanto il senso
dell’alienazione metropolitana, ma anche le dinamiche culturali e i bisogni
sociali che vi hanno luogo» (Brancato:139).
Attraverso la relazione cinema/città prende così forma la più ampia
interpretazione del nuovo soggetto della modernità, cioè l’analisi di un
modello di esperienza iperstimolata e ricalcata sulle forme del desiderio
che la vita metropolitana mette in circolo come una ‘vetrina’ permanente o
una fantasmagoria delle merci (Charney, Schwartz 1995; Friedberg 1994;
in italiano, per una ricognizione generale, vedi Casetti 2002). Infine, una
declinazione particolare di questi studi riguarda più da vicino la relazione
tra il cinema e la città che prende forma nell’esperienza delle avanguardie
storiche ispirate dall’immaginario urbano e influenzate dalle sue polifonie
visive o dal dinamismo metropolitano in genere (Bertetto 1986; Costa
1990).
b) Cinema/paesaggio
Il ‘paesaggio come oggetto teorico’ ha una storia lunga e complessa
che, almeno a partire dall’esperienza romantica, intreccia l’estetica e le
scienze naturali, la storia dell’arte, la filosofia, la letteratura (Berque 1995,
2008; Jakob 2009).
Il fatto che, a differenza dello spazio, il paesaggio sia un concetto
visivo, inventato cioè in funzione dello sguardo e della presenza di un
soggetto contemplante, lo rende particolarmente adatto allo sconfinamento
negli studi sul film. Di per sé l’esperienza filmica si colloca d’altronde
nell’intervallo tra l’illusione di uno spazio praticabile attraverso i
movimenti della macchina da presa, e la distanza di un paesaggio
osservabile da un soggetto esterno, come avviene nello spazio pittorico –
una dialettica che trova nel film di Eric Rohmer, L’Anglais et le Duc (La
nobildonna e il duca, 2001) una delle sue più intense formulazioni.
Il paesaggio può pertanto presentarsi non soltanto come sfondo
dell’azione, ma come un oggetto di riflessione sul cinema, anche in
riferimento all’idea più ampia e complessa di territorio (AA.VV. 2010).
Ciò avviene sia nel caso dei cosiddetti ‘panorami’ dei film delle
origini (Gunning 2009), che nell’opera dei grandi autori della storia del
cinema (Bernardi 2002) – come a proposito del celebre rovesciamento di
valori formali tra paesaggio e personaggio nel cinema di Michelangelo
Antonioni. Il rapporto tra cinema e paesaggio si offre quindi a
considerazioni estetologiche che interrogano le mutazioni dello sguardo –
come nelle diverse stimolazioni emerse con la modernità, tra cui i viaggi in
treno, che Jacques Aumont guarda nel solco della relazione cinema/pittura
e della ridefinizione del rapporto tra l’uomo e il paesaggio (Aumont 1989).
Tuttavia, pensando ai film come a una ‘pratica di archiviazione dei
luoghi’, la relazione tra cinema e paesaggio permette anche di studiare
l’identità culturale e la storia di una nazione raccontando le varie mutazioni
dei suoi luoghi nel tempo (Lefebvre 2006; Harper Rayner 2010). Come
osservava lo storico Georges Duby, «la topografia che il geografo ha
davanti agli occhi e che si sforza di capire dipende certo da elementi tanto
materiali quanto lo sono le formazioni geologiche, ma dipende anche e in
misura molto maggiore di quanto si immagini, da rappresentazioni mentali,
da sistemi di valori, da una ideologia. E rappresenta la traduzione,
l’iscrizione sul suolo, della globalità di una cultura» (Duby 1980: 150). In
tal senso i film si offrono come altrettante forme di narrazione del
paesaggio, cioè di inclusione delle sue immagini e dei suoi significati
simbolici nella più vasta narrazione collettiva di una nazione, dalla
Monument Valley che fa da sfondo al racconto della frontiera americana, al
paesaggio devastato dell’Italia del dopoguerra raccontato dal cinema
neorealista.
c) Cinema/spazio/esperienza
Gli incroci tra il cinema e la dimensione sensoriale della spazialità,
intesa nella sua forma primaria di esperienza vissuta dello spazio, si
sviluppano lungo molteplici direttrici. Essi trovano una formulazione
significativa nei già citati lavori di Giuliana Bruno che si offrono come un
terreno di scambi fecondi tra la teoria del cinema, la storia dell’arte e la
cosiddetta ‘geografia emozionale’. Lo statuto anomalo dello spazio filmico
– l’illusione di un movimento nello spazio tridimensionale prodotta da una
superficie bidimensionale – ben si presta d’altronde a riflettere sui modi in
cui ‘abitiamo’ le diverse esperienze artistiche che, dall’architettura alle arti
visive in genere, ci offrono una configurazione emotiva dello spazio. Per
far questo Bruno si rivolge al concetto di aptico, proposto a suo tempo
dallo storico dell’arte Alois Riegl (1858-1905). Il termine indica infatti uno
statuto intermedio, tra la visione e il tatto, della percezione cinestesica;
come tale si può rivelare utile per misurare il nostro coinvolgimento
affettivo collegato al movimento, sia che a muoversi sia il soggetto (come
nel caso dell’architettura) o le immagini (come nel caso del cinema), o
entrambi (come nelle installazioni). L’idea di fondere tatto e movimento dà
conto di un coinvolgimento corporeo verso le immagini da cui prende
forma «una tattica per orientarsi nello spazio e dare un ‘senso’ a questo
movimento, che include il moto delle emozioni»; per cui «in quanto dimora
di immagini in movimento, il cinema, come la casa in cui viviamo è
profondamente abitabile» (Bruno 2006: 227).
Pensando ai rapporti tra il cinema e l’architettura lungo l’inestricabile
nesso di spazio e movimento che trova nell’esperienza corporea il proprio
riferimento, non possiamo non includere tutti quegli architetti che, ispirati
direttamente dal cinema e dal suo patrimonio teorico, ricombinano in una
diversa sensibilità la loro prospettiva progettuale. Ad esempio, la nozione
di sequenza, presa in prestito dal cinema, rivela ormai implicazioni decisive
per la progettazione architettonica, come negli scritti (per certi versi
profondamente cinematografici) di architetti quali Rem Koolhaas, Peter
Eisenman, Frank Gehry, Daniel Libeskind e altri. Riflettendo su questi
aspetti, l’architetto Jean Nouvelle afferma, ad esempio, che «l’architettura
deve appropriarsi della nozione di ‘deviazione’, di spostamento, cioè della
percezione del sensibile dal materiale all’immateriale […] facendo
riferimento a quello che l’architettura ha potuto prendere in prestito dal
cinema, la nozione di sequenza è molto importante, come ricorda Paul
Virilio. In altri termini, nozioni come spostamento, velocità, memoria, in
relazione ad un percorso imposto oppure a percorsi noti, ci permettono di
comporre uno spazio architettonico a partire non soltanto da quanto si vede,
ma da tutto quello che si memorizza in una successione di sequenze,
concatenate a livello di sensazioni (Baudrillard, Nouvelle 2003: 11)».
d) Cinema/turismo
Scomodando Heidegger, secondo il quale l’evento fondamentale
dell’era moderna era la conquista del mondo risolto in immagine,
potremmo dire che il cinema popolare e il turismo di massa funzionano
anche come ‘la conquista del mondo risolto in cartolina’. Gli scambi tra
l’industria del cinema e quella del turismo, la loro comune produzione di
immaginari e l’offerta di un’esperienza di ‘fuga dalla realtà’ fortemente
connotate sotto il profilo ideologico e culturale, sono studiati soprattutto in
chiave antropologica (Stran 2003). Centrale è l’idea di tourist gaze –
proposto da John Urry e ripresa in numerose ricerche successive. Tale
nozione allude ai processi di un immaginario condiviso e multiforme che,
tanto nei film che nei viaggi organizzati, si muove per stereotipi culturali,
simulazioni e surrogati dell’esperienza, ritraduzione di ogni differenza nelle
griglie dello sguardo occidentale (Urry 1990). Il cinema e il turismo
seguono d’altronde un simile percorso storico che li ha man mano condotti
a costituirsi come un ‘sistema di comunicazione integrato’ (Crouch
Lubbren 2003). È un percorso che ha le sue radici negli immaginari esotici
diffusi nel tardo XIX secolo, ma che si sviluppa in forma massificata lungo
il secolo seguente, trovando infine una sorta di fusione esperienziale
nell’epoca postmoderna.
Basti pensare alle cosiddette ‘escursioni guidate alla scoperta dei
luoghi cinematografici’ (ovvero i set naturali resi celebri dai film), che
sono un segmento decisivo del turismo contemporaneo in cui, annullando il
discrimine tra spettatore e visitatore, si prolunga l’esperienza filmica al di
fuori della sala cinematografica. Ma il circuito di questi scambi è ormai più
complesso e chiama in causa ulteriori processi di risignificazione, come nel
caso dei parchi a tema. Si prenda, ad esempio, Harry Potter. Da un lato
sulla scia dell’enorme successo della saga, l’industria del turismo scozzese
ha visto duplicare i propri introiti con numerosi visitatori in fila ogni anno
per vedere il castello di Alnwick, nella contrada di Northumberland.
Dall’altro, sulla scia di questo fenomeno, alla Universal Orlando Resort in
Florida è stato inaugurato ‘The Wizarding World of Harry Potter’, parco a
tema sulla saga che intende concorrere con Disneyland e offrire, soprattutto
a quegli americani fan di Harry Potter che non possono permettersi un
viaggio in Scozia, l’esperienza di entrare in quel mondo.
L’idea del cinema e del turismo come sistema di comunicazione
integrato, si ritrova infine nell’esplicita trasformazione dei film in
macchine promozionali dei luoghi. Film che sono cioè finanziati
direttamente degli enti per il turismo locali al fine di rilanciare l’immagine
della città, come nel caso di Vicky, Cristina Barcelona (W. Allen, 2009), o
di numerose produzioni del cinema italiano contemporaneo, create anche a
fini autopromozionali, dalle cosiddette film commission regionali.
4. Spazio, luogo, paesaggio, set
Anche dopo questo breve percorso, appare evidente come il concetto
di luogo sia intercettato da una serie di investimenti dell’immaginario e di
processi di risignificazione sempre più stratificati.
Spazio, luogo, paesaggio sono tutti termini strettamente irrelati, ma le
loro definizioni oscillano radicalmente alla luce delle differenti prospettive
interpretative adottate nelle ricerche. Nulla, come ogni geografo culturale
ben sa, appare meno scontato del modo in cui raccontiamo questi tre
concetti (Claval 2002). Il territorio dell’immaginario contemporaneo è così
un deposito di narrazioni in cui si producono modelli ed esperienze dello
spazio che possono trovare nell’esperienza filmica uno snodo decisivo.
Secondo Tuan, una delle differenze concettuali tra ‘spazio’ e ‘luogo’ sta nel
fatto che se con il primo termine si indica una forma indistinta, connessa al
movimento, nell’idea di luogo si esprime invece la ‘pausa’, quasi una sorta
di protezione temporanea dall’apertura infinita e indefinibile dell’idea di
spazio. È in tal senso che nel flusso del mediascape contemporaneo, i film
si offrono anche come dei luoghi. Non si limitano cioè a mostrare, ma sono
essi stessi l’esperienza di un luogo (Canova 1996).
Ecco perché oltre a costituirsi come attrazione turistica, o inesauribile
fonte di aneddoti per la storia del cinema, i luoghi del film rappresentano
una ricca opportunità interpretativa per indagare i modi di produzione
dell’immaginario, lungo un’inedita serie culturale che innerverà i concetti
di spazio, luogo, paesaggio e set.
Di un tale senso del luogo costruito dal cinema attraverso pratiche
eterogenee e modelli di messa in scena diversificati, questo libro intende
fornire un panorama che, di caso in caso, possa dar conto della più ampia
varietà dei processi culturali messi in gioco.
Partendo dalla mitologia della Monument Valley costruita dal
western, Paolo Bertetto confuta in modo radicale l’idea che il cinema ci
offra una rappresentazione dei luoghi, poiché il termine suggerirebbe una
trasparenza immediata tra ciò che vediamo nel film e la configurazione di
quel dato spazio. Il cinema invece è una pratica di invenzione del luogo
perché riscrive, manipola e organizza lo spazio in funzione
dell’immaginario, fino a che l’immaginario non diventa esso stesso un
‘luogo’. È cioè il carattere di immagine che «garantisce la comunicabilità e
la mediatizzazione della Monument Valley e la sua permanenza nel ricordo
e nella fantasia della gente. E la sua ricollocazione nel cosiddetto
immaginario collettivo si somma alla sua sistemazione nel nord
dell'Arizona in una dialettica in cui l'immagine mediatizzata finisce per
prevalere sull'ente geografico».
Simone Arcagni ci conduce invece lungo quel dispositivo illusorio e
seduttivo che è la città di Las Vegas. Al di là dei numerosi film che, specie
nel cinema postmoderno, sono ambientati nella città del gioco, è la stessa
Las Vegas che opera come il cinema; ovvero, «costruisce scenografie,
chiama star, appronta visioni meravigliose, accoglie visioni da tutto il
mondo e confeziona (nel buio del deserto) uno spettacolo luminoso e
sonoro». Nel saggio dedicato all’Overlook Hotel, Silvia Vacirca offre un
punto di vista inedito sul celebre film di Kubrick. Ricostruendo la
provenienza dei vari materiali assemblati per comporre l’immagine
dell’albergo, emerge una relazione significativa tra la pratica del set design
e l’articolazione del racconto. In tal senso, riferendosi alla costruzione
geometrica dello spazio e a un uso del décor in aperto dialogo con le
convenzioni dell’horror, ci invita a guardare Shining anche come una
cartografia allucinata delle mutazioni cui è sottoposto il senso moderno
dell’abitare.
L’intervento di Paolo Noto, dedicato a La dolce vita di Fellini,
interroga un film in cui, in modo esemplare, si mostra all’opera quel
processo di rifigurazione di un luogo che si smarca progressivamente dal
‘reale’, per acquisire una vita propria nell’orizzonte dell’immaginario.
Attraverso l'analisi delle sequenze più rilevanti del film, ci si chiede in che
modo la Via Veneto dello schermo abbia modificato la percezione di quella
reale, trasformandola in sede di verifica dei caratteri definiti dall'immagine
filmica. Valentina Valente ricostruisce invece la genealogia visuale del
«Korova Milk Bar», il celebre luogo di ritrovo dei ‘drughi’ di Arancia
meccanica, mostrando le sue rilocazioni reali (come avvenuto in varie città)
o virtuali (come nel caso di Second Life). Fortemente connotato
dall’influenza della Pop Art, se da un lato riflette il sentire e l’agire del
protagonista Alex, dall’altro è uno spazio che esprime al meglio la
visionarietà di Stanley Kubrick, che qui trova punti di contatto con la
ricerca di un’ibridazione del corpo ascrivibile alle tendenze posthuman
degli anni Novanta.
Rossella Catanese riflette sulla dimensione simbolica degli spazi di
Psyco, esplorando il Bates Motel e la tetra casa vittoriana antistante,
dimora della madre di Norman Bates. Tra i luoghi più celebri del cinema di
Hitchcock, essi rappresentano non soltanto l’archetipo dell’horror
moderno, ma si offrono anche come una riflessione più ampia
sull’organizzazione dello spazio prevista dalla società americana, e in
particolare sull’ideologia del motel e di tutti quegli anonimi spazi di
transito che, molti anni dopo, Augé avrebbe definito come ‘non-luoghi’.
All’orizzonte della cultura metropolitana americana, fa riferimento anche il
saggio di Lorenzo Marmo sulla produzione dei film noir ambientati a Los
Angeles. Riflettendo sui modi di rovesciamento dell’esperienza urbana
attivati da questi film, egli rileva come «lo spaesamento esistenziale dei
protagonisti del noir, il loro decentramento e la loro difficoltà di lettura del
mondo trovano nella struttura intrinsecamente frantumata di Los Angeles il
corrispettivo spaziale più esplicito e radicale».
Guido Vitiello esplora l’intreccio tra set artificiali e ‘luoghi della
memoria’ che prende forma nei vari tentativi cinematografici di raccontare
il trauma estremo dei campi di sterminio. Come nel più tristemente celebre
caso di Auschwitz, siamo di fronte a un luogo la cui topografia dell’orrore
è ormai inseparabile dall’immaginario eterogeneo che vi si è saldato nel
corso del tempo, e che prende la forma di un contradditorio circuito in cui
la finzione si lega al documentario, ai ‘viaggi della memoria’, ai percorsi
museali.
Andrea Minuz, infine, interroga le risonanze memoriali che investono
il set, il luogo e l’immaginario, analizzando il caso del film Elephant di
Gus Van Sant, ispirato alla tragica strage della Columbine High School
nel 1999. Se è vero che i luoghi possiedono una loro memoria che si
riverbera nelle varie forme che assumono nel tempo, la storia dell’edificio
di Portland qui utilizzato da Van Sant emerge in tal senso come la profonda
cifra perturbante di Elephant.
Bibliografia
- AA. VV. (2010), Territorio, num. monografico di «Fata Morgana», vol. 11
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