‘L’insieme dei luoghi di cui si fa esperienza’. La geografia culturale, il film e la...

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A. MINUZ (A CURA DI), L’INVENZIONE DEL LUOGO. SPAZI DELLIMMAGINARIO CINEMATOGRAFICO, ETS, PISA, 2011 [INTRODUZIONE] ‘L’insieme dei luoghi di cui si fa esperienza’. La geografia culturale, il film e la produzione dell’immaginario [pp.7-24] 1. Memoria del Set e finzione del luogo In Paracinema, una videoinstallazione del 2006, l’artista Laurent Grasso ci conduce negli spazi dismessi degli studi di Cinecittà, tra le grandi scenografie impiegate nei set di vecchi film ormai abbandonate all’usura del tempo. Lo sguardo della telecamera si aggira tra strutture fatiscenti e mastodontiche. Scorgiamo quel che rimane di case coloniali e saloon utilizzati per qualche film western, rasentiamo i binari di una ferrovia che

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A. MINUZ (A CURA DI), L’INVENZIONE DEL LUOGO. SPAZI DELL’IMMAGINARIO CINEMATOGRAFICO,

ETS, PISA, 2011

[INTRODUZIONE]

‘L’insieme dei luoghi di cui si fa esperienza’.

La geografia culturale, il film e la produzione dell’immaginario

[pp.7-24]

1. Memoria del Set e finzione del luogo

In Paracinema, una videoinstallazione del 2006, l’artista Laurent

Grasso ci conduce negli spazi dismessi degli studi di Cinecittà, tra le grandi

scenografie impiegate nei set di vecchi film ormai abbandonate all’usura

del tempo.

Lo sguardo della telecamera si aggira tra strutture fatiscenti e

mastodontiche. Scorgiamo quel che rimane di case coloniali e saloon

utilizzati per qualche film western, rasentiamo i binari di una ferrovia che

incrocia i resti di enormi colonnati di cartone e scheletri di navi di legno,

vecchi scenari delle produzioni dei kolossal ambientati nell’antica Roma.

Come per il celebre ‘magazzino’ descritto da Nathaniel West in Il

giorno della locusta – una misteriosa discarica in cui si accatastano

disordinatamente gli accessori e le vecchie cartapeste dei set di Hollywood

– lo sguardo di Laurent Grasso trasforma una fabbrica dei sogni in un

malinconico luogo della memoria. Spogliato delle sue funzioni e della sua

stessa vita, il set di Cinecittà emana qui lo struggimento dei vecchi

giocattoli. Tra le varie suggestioni innescate da Paracinema c’è un’idea

tanto semplice quanto rimossa nella percezione comune. Ovvero, che alla

base del fascino del cinema c’è soprattutto la sua capacità di inventare

luoghi e spazi che di fatto esistono solo nell’immaginario, nella nostra

memoria di spettatori.

I film ci conducono in posti e paesaggi facilmente riconoscibili o

totalmente ricreati come universo fantastico ma, anche quando preesistenti,

questi sono sempre il frutto delle falsificazioni costitutive del cinema

(Bertetto 2010). Si configurano come ambienti virtuali poiché lo spazio

ripreso – frutto del lavoro di abili scenografi o di manipolazioni digitali –

prende vita soltanto nel corso del film. Una cosa sin troppo ovvia per i

mondi artificiali del genere fantasy, ma che tuttavia vale anche per città,

strade, paesaggi naturali che sono sempre assemblati dal linguaggio

cinematografico in una forma altra rispetto all’esistente.

Pensiamo, solo per fare qualche celebre esempio, alla Los Angeles del

2019 di Blade Runner (R. Scott, 1982) – accumulo di città esistenti e

modelli provenienti dall’immaginario cinematografico ormai indistinguibili

tra loro – o alla città-set di The Truman Show (P. Weir, 1998) – dove tutto è

configurato per illudere il protagonista dello show televisivo di vivere

un’esistenza normale in un’anonima cittadina uguale a tante altre. Tanto

nell’ambientazione futuribile che nella monotona provincia americana la

finzione del film non può esistere se non nell’invenzione, cioè nella

falsificazione degli spazi in cui prende forma.

Da qui prendono avvio i vari interventi di cui si compone questo libro.

Con modi e prospettive interpretative diverse forniscono altrettante,

possibili risposte alle domande principali che il volume affronta: Come si

costruisce un ‘senso del luogo’ al cinema? Che rapporto si crea tra il set

design del film e i luoghi? Attraverso quali processi e scambi simbolici i

‘luoghi del cinema’ entrano a far parte dell’immaginario? E ancora, che

legame c’è tra la narrazione del film e il trattamento figurale dello spazio

che esso costruisce?

Nelle pagine seguenti cercherò di inquadrare il più ampio orizzonte

teorico in cui simili interrogativi si collocano.

2. Spatial turn

Sin dagli inizi della storia del cinema, gli intellettuali affascinati

dall’ingresso del nuovo mezzo nel sistema delle arti hanno guardato al

rapporto tra il film e l’architettura come a uno dei possibili nodi

dell’estetica cinematografica. Questa relazione corre d’altronde parallela

allo sviluppo delle teorie del film, trovando poi nell’attenzione per il set

design uno dei possibili orizzonti di ricerca (Neumann 1996). Il rapporto

tra gli studi sul film, la geografia culturale e la riflessione antropologica sul

concetto di luogo (non-luoghi, iperluoghi, cyberluoghi, luoghi della

memoria, etc.) è invece, evidentemente, un fenomeno più recente e per certi

versi ancora tutto da scrivere. Da alcuni anni, gli scambi tra queste aree di

studio si definiscono nell’orizzonte di un cosiddetto spatial turn che

informa più ampiamente le scienze umane e sociali nel loro complesso

(Arias, Worf 2009).

Si tratta di una ricollocazione dello spazio quale segmento decisivo

della ricerca umanistica contemporanea, trasversale alle singole

competenze disciplinari. Ciò dipende da varie ragioni. Già Michel

Foucault, dopo aver dedicato grande attenzione alle funzioni della

spazialità nel nostro ordine sociale, intravedeva l’emergere di un processo

più ampio:

Il grande incubo che ha ossessionato il XIX secolo è stato la storia. L’epoca

attuale sarà, forse, piuttosto l’epoca dello spazio. Siamo nell’epoca del

simultaneo, siamo nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e

del lontano, del fianco a fianco, della dispersione (Foucault 1984: 46)

I lavori sviluppati attorno alla metà degli anni Settanta dal sociologo

urbanista Henri Lefebvre e dal geografo Yi-Fu Tuan, furono in tal senso

largamente anticipatori dell’orizzonte di ricerche che sarebbe poi via via

emerso in modo diffuso (Lefebvre 1976, Tuan 1977). Nella prospettiva

marxista adottata da Lefebvre, l’idea di uno spazio che è diretta espressione

dei modi di produzione del capitalismo (uno spazio che è quindi prodotto e

non soltanto occupato dalle merci) si configura all’incrocio di varie

discipline – dall’economia all’architettura, dalla linguistica alla pittura –

offrendo un modello interpretativo ripreso in seguito lungo varie direzioni,

dallo studio dei conflitti sociali nel capitalismo globale proposto da David

Harvey, alla teoria culturale di Fredric Jameson.

Nella prospettiva fenomenologico-esperienziale di Yi-Fu Tuan,

invece, la geografia abbandona le sue pretese di conoscenza oggettiva e

affronta la relazione tra l’individuo e lo spazio anche in termini emozionali

e affettivi, non esitando in questo caso a confrontarsi con questioni

metafisiche, sulla scia dell’interrogazione del concetto di abitare quale

tratto fondamentale dell’essere, come nel caso della filosofia di Heidegger.

Dalle analisi di Lefebvre e Tuan, emergono pertanto due opposti

modelli interpretativi con cui ripensare il ruolo dell’urbanistica o della

geografia nelle scienze umane. Entrambe, in ogni caso, rilanciano il tema

dello spazio verso nuove connessioni disciplinari e percorsi di ricerca.

Pensiamo, ad esempio, all’orizzonte teorico dei primi cultural studies

britannici e al reciproco scambio di ipotesi che avvolge i lavori di Stuart

Hall o Raymond Williams e la geografia sociale (come nel caso degli studi

sulla frontiera, la ‘diaspora’ e tutti quegli spazi fisici o immaginari in cui le

culture si trasformano e si mescolano tra loro).

Ma è soprattutto nel corso degli anni Novanta, cioè con il massiccio

avvio dei processi di globalizzazione, che l’idea stessa di produzione dello

spazio si diffonde lungo prospettive sempre più ampie e condivise cui fa da

sfondo una stretta e rinnovata interrelazione tra spazio e tecnologia. La

nozione di mediascape, avanzata sin dal 1990 dall’antropologo Arjun

Appadurai per indicare quel paesaggio integralmente ridefinito dai media

in cui siamo ormai immersi, è in tal senso decisiva di dell’intreccio

indistinguibile di narratività, spazialità e produzione dell’immaginario che

caratterizza il mondo contemporaneo (Appadurai 2001).

Un altro sintomo evidente di questo fenomeno lo ritroviamo

nell’erosione dell’idea di luogo e nella necessità di ripensare questa

nozione a partire dalle radicali mutazioni dei rapporti sociali o della

compressione dello spazio e del tempo delle nostre vite (Morley 2001).

Questo è stato d’altronde uno dei motivi dominanti del pensiero

postmoderno che ha poi trovato nell’idea di non-luogo, proposta da Marc

Augé (Augé 1993), o di global sense of place avanzata da Doreen Massey

(Massey 1991), una sua prima concettualizzazione – nonché nel caso di

Augé una formula efficace, ben presto entrata a far parte del lessico

comune.

Se questo è lo sfondo generale da cui emerge una nuova sensibilità

interdisciplinare nei confronti dello spazio, non è certo da oggi che l’arte e

l’estetica si dimostrano utili per la geografia e la costruzione di un senso

del luogo. Yi-Fu Tuan rintraccia ad esempio nel filosofo Wilhelm Von

Humboldt (1767-1835), uno tra i primi a usare la pittura di paesaggio e la

poesia per estendere lo spettro delle cosiddette esperienze geografiche.

Tuttavia, quando ormai lo spazio si offre nei termini di una

costruzione sociale di cui si riscrive continuamente il significato, il cinema

e il suo immaginario diffuso diventano interlocutori indispensabili. Così

come le cartine geografiche della cultura umanistica rinascimentale, lungi

dall’essere una rappresentazione trasparente dello spazio, ci parlano della

percezione condivisa e delle credenze di una data epoca, i media e le nuove

tecnologie definiscono un’esperienza e una sensibilità specifica della

contemporaneità, che ha nell’idea di spazio costruita dall’esperienza

filmica una delle sue prime manifestazioni. In tal senso si può affermare

che «al pari di quanto avviene per le mappe, il paesaggio disegnato dal

cinema dipende direttamente dalle mutazioni della tecnologia e della

tecnica, e come tale evolve nel tempo» (Harper, Rayner 2010:16).

Una cartina stradale e un navigatore satellitare non ci offrono,

d’altronde, lo stesso tipo di percezione dello spazio e conoscenza del

territorio. Pertanto anche il trattamento figurale dei luoghi e dello spazio

operato dal film, non riguarda soltanto la critica cinematografica ma può

essere studiato nell’orizzonte di un dialogo diretto con la geografia

culturale (vedi Aitken, Zonn 1994).

Ad esempio, si può indicare un’esplicita influenza del lavoro di

Lefebvre nell’estetica geopolitica di Fredric Jameson, da lui intesa come

studio di quella mappatura simbolica del mondo che il cinema costruisce

con il suo immaginario pervasivo (Jameson 1992); o ancora tracciare una

continuità tra la geografia fenomenologica di Tuan e i lavori di una

studiosa come Giuliana Bruno, che ormai da tempo affronta la relazione tra

spazio e immaginazione nei differenti percorsi emozionali definiti

dall’architettura, dal cinema, dai musei, dalle installazioni artistiche (Bruno

2006; 2006a; 2009). Dovendo definire il senso dei suoi lavori e il più

ampio orizzonte di ricerche in cui questi si collocano, è la stessa Giuliana

Bruno ad affermare che «dopo il postmoderno, in cui si manifestava la

tendenza a percepirsi fuori dalle cose, oggi si respira un rinnovato desiderio

di capire cosa significa abitare e cosa sia il mondo del vissuto: l’insieme dei

luoghi di cui si fa esperienza» (Di Stefano 2005: 19).

3. Gli studi sul cinema e l’idea di luogo (quattro prospettive di

ricerca) Dovendo qui schematizzare in modo radicale, diremo che l’idea di

luogo incrocia gli studi sul cinema e le discipline dello spazio lungo

quattro prospettive di scambio che, va da sé, possono o devono essere

pensate in stretta interrelazione tra di loro:

a) Il rapporto tra immaginario del cinema, sviluppo della metropoli e

soggettività

b) La costruzione del paesaggio nel cinema e l’interpretazione del nesso

visualità-cultural heritage

c) L’incrocio tra esperienza visiva e spazialità definito da dispositivi

museali, shopping mall, installazioni artistiche, parchi a tema e numerose

altre pratiche (audiovisive).

d) Il rapporto tra immaginario del cinema e turismo (i film come

appropriazione di territori esotici, e/o usati come macchine promozionali di

città e luoghi)

Vediamole molto rapidamente una a una, cercando di evidenziare il

senso dei rispettivi orizzonti interpretativi messi in gioco:

a) Cinema/Metropoli

Il rapporto tra l’immaginario del cinema e la metropoli non si

esaurisce soltanto nel ruolo decisivo della città, sia nell’ambito degli spazi

urbani creati dal film, da Metropolis (F. Lang, 1927) a Batman – The Dark

Knight (C. Nolan, 2008), che degli scenari metropolitani celebrati dal

cinema, da City Lights (Luci della città, C. Chaplin, 1931) a Sex and the

City (M. P. King 2008) – per non parlare di quelle pellicole che, sin dal

titolo, rendono omaggio esplicito a una città o ai suoi luoghi più famosi,

come Roma (F. Fellini, 1973), Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra

Berlino, W. Wenders, 1987), Manhattan (W. Allen, 1979), Les triplettes de

Belleville (Appuntamento a Belleville, S. Chomet, 2003) e molti altri

ancora. Al di là di questo, la relazione tra il cinema e la città si è soprattutto

configurata come uno degli orizzonti più produttivi per intrecciare gli studi

sul film, l’analisi culturale e l’antropologia dello spazio, nel quadro di tutte

quelle ricerche che riprendono la lezione dei grandi interpreti degli effetti

della modernità, quali George Simmel, Walter Benjamin, Sigfried

Kracauer (che proprio negli studi sul cinema più avanzati hanno goduto di

una rinnovata popolarità). In quest’ottica, tra cinema e città esiste un forte e

radicato rapporto di reciproca implicazione che va oltre il discorso

dell’ambientazione di un film. Da un lato, infatti, il cinema nasce e si

sviluppa come la più compiuta espressione di quello shock che, come

Benjamin ha mostrato, caratterizza l’esperienza sensoriale del soggetto

metropolitano; ma dall’altro è la stessa metropoli che si offre come un

dispositivo di intensificazione della vita nervosa prodotta da una

molteplicità diffusa di stimoli, secondo l’efficace formulazione di Simmel.

In questo senso si può affermare che «il cinema si presenta allo stesso

tempo come elemento di modernizzazione ma, anche, di ‘compensazione’

degli effetti della modernità», poiché «non incamera soltanto il senso

dell’alienazione metropolitana, ma anche le dinamiche culturali e i bisogni

sociali che vi hanno luogo» (Brancato:139).

Attraverso la relazione cinema/città prende così forma la più ampia

interpretazione del nuovo soggetto della modernità, cioè l’analisi di un

modello di esperienza iperstimolata e ricalcata sulle forme del desiderio

che la vita metropolitana mette in circolo come una ‘vetrina’ permanente o

una fantasmagoria delle merci (Charney, Schwartz 1995; Friedberg 1994;

in italiano, per una ricognizione generale, vedi Casetti 2002). Infine, una

declinazione particolare di questi studi riguarda più da vicino la relazione

tra il cinema e la città che prende forma nell’esperienza delle avanguardie

storiche ispirate dall’immaginario urbano e influenzate dalle sue polifonie

visive o dal dinamismo metropolitano in genere (Bertetto 1986; Costa

1990).

b) Cinema/paesaggio

Il ‘paesaggio come oggetto teorico’ ha una storia lunga e complessa

che, almeno a partire dall’esperienza romantica, intreccia l’estetica e le

scienze naturali, la storia dell’arte, la filosofia, la letteratura (Berque 1995,

2008; Jakob 2009).

Il fatto che, a differenza dello spazio, il paesaggio sia un concetto

visivo, inventato cioè in funzione dello sguardo e della presenza di un

soggetto contemplante, lo rende particolarmente adatto allo sconfinamento

negli studi sul film. Di per sé l’esperienza filmica si colloca d’altronde

nell’intervallo tra l’illusione di uno spazio praticabile attraverso i

movimenti della macchina da presa, e la distanza di un paesaggio

osservabile da un soggetto esterno, come avviene nello spazio pittorico –

una dialettica che trova nel film di Eric Rohmer, L’Anglais et le Duc (La

nobildonna e il duca, 2001) una delle sue più intense formulazioni.

Il paesaggio può pertanto presentarsi non soltanto come sfondo

dell’azione, ma come un oggetto di riflessione sul cinema, anche in

riferimento all’idea più ampia e complessa di territorio (AA.VV. 2010).

Ciò avviene sia nel caso dei cosiddetti ‘panorami’ dei film delle

origini (Gunning 2009), che nell’opera dei grandi autori della storia del

cinema (Bernardi 2002) – come a proposito del celebre rovesciamento di

valori formali tra paesaggio e personaggio nel cinema di Michelangelo

Antonioni. Il rapporto tra cinema e paesaggio si offre quindi a

considerazioni estetologiche che interrogano le mutazioni dello sguardo –

come nelle diverse stimolazioni emerse con la modernità, tra cui i viaggi in

treno, che Jacques Aumont guarda nel solco della relazione cinema/pittura

e della ridefinizione del rapporto tra l’uomo e il paesaggio (Aumont 1989).

Tuttavia, pensando ai film come a una ‘pratica di archiviazione dei

luoghi’, la relazione tra cinema e paesaggio permette anche di studiare

l’identità culturale e la storia di una nazione raccontando le varie mutazioni

dei suoi luoghi nel tempo (Lefebvre 2006; Harper Rayner 2010). Come

osservava lo storico Georges Duby, «la topografia che il geografo ha

davanti agli occhi e che si sforza di capire dipende certo da elementi tanto

materiali quanto lo sono le formazioni geologiche, ma dipende anche e in

misura molto maggiore di quanto si immagini, da rappresentazioni mentali,

da sistemi di valori, da una ideologia. E rappresenta la traduzione,

l’iscrizione sul suolo, della globalità di una cultura» (Duby 1980: 150). In

tal senso i film si offrono come altrettante forme di narrazione del

paesaggio, cioè di inclusione delle sue immagini e dei suoi significati

simbolici nella più vasta narrazione collettiva di una nazione, dalla

Monument Valley che fa da sfondo al racconto della frontiera americana, al

paesaggio devastato dell’Italia del dopoguerra raccontato dal cinema

neorealista.

c) Cinema/spazio/esperienza

Gli incroci tra il cinema e la dimensione sensoriale della spazialità,

intesa nella sua forma primaria di esperienza vissuta dello spazio, si

sviluppano lungo molteplici direttrici. Essi trovano una formulazione

significativa nei già citati lavori di Giuliana Bruno che si offrono come un

terreno di scambi fecondi tra la teoria del cinema, la storia dell’arte e la

cosiddetta ‘geografia emozionale’. Lo statuto anomalo dello spazio filmico

– l’illusione di un movimento nello spazio tridimensionale prodotta da una

superficie bidimensionale – ben si presta d’altronde a riflettere sui modi in

cui ‘abitiamo’ le diverse esperienze artistiche che, dall’architettura alle arti

visive in genere, ci offrono una configurazione emotiva dello spazio. Per

far questo Bruno si rivolge al concetto di aptico, proposto a suo tempo

dallo storico dell’arte Alois Riegl (1858-1905). Il termine indica infatti uno

statuto intermedio, tra la visione e il tatto, della percezione cinestesica;

come tale si può rivelare utile per misurare il nostro coinvolgimento

affettivo collegato al movimento, sia che a muoversi sia il soggetto (come

nel caso dell’architettura) o le immagini (come nel caso del cinema), o

entrambi (come nelle installazioni). L’idea di fondere tatto e movimento dà

conto di un coinvolgimento corporeo verso le immagini da cui prende

forma «una tattica per orientarsi nello spazio e dare un ‘senso’ a questo

movimento, che include il moto delle emozioni»; per cui «in quanto dimora

di immagini in movimento, il cinema, come la casa in cui viviamo è

profondamente abitabile» (Bruno 2006: 227).

Pensando ai rapporti tra il cinema e l’architettura lungo l’inestricabile

nesso di spazio e movimento che trova nell’esperienza corporea il proprio

riferimento, non possiamo non includere tutti quegli architetti che, ispirati

direttamente dal cinema e dal suo patrimonio teorico, ricombinano in una

diversa sensibilità la loro prospettiva progettuale. Ad esempio, la nozione

di sequenza, presa in prestito dal cinema, rivela ormai implicazioni decisive

per la progettazione architettonica, come negli scritti (per certi versi

profondamente cinematografici) di architetti quali Rem Koolhaas, Peter

Eisenman, Frank Gehry, Daniel Libeskind e altri. Riflettendo su questi

aspetti, l’architetto Jean Nouvelle afferma, ad esempio, che «l’architettura

deve appropriarsi della nozione di ‘deviazione’, di spostamento, cioè della

percezione del sensibile dal materiale all’immateriale […] facendo

riferimento a quello che l’architettura ha potuto prendere in prestito dal

cinema, la nozione di sequenza è molto importante, come ricorda Paul

Virilio. In altri termini, nozioni come spostamento, velocità, memoria, in

relazione ad un percorso imposto oppure a percorsi noti, ci permettono di

comporre uno spazio architettonico a partire non soltanto da quanto si vede,

ma da tutto quello che si memorizza in una successione di sequenze,

concatenate a livello di sensazioni (Baudrillard, Nouvelle 2003: 11)».

d) Cinema/turismo

Scomodando Heidegger, secondo il quale l’evento fondamentale

dell’era moderna era la conquista del mondo risolto in immagine,

potremmo dire che il cinema popolare e il turismo di massa funzionano

anche come ‘la conquista del mondo risolto in cartolina’. Gli scambi tra

l’industria del cinema e quella del turismo, la loro comune produzione di

immaginari e l’offerta di un’esperienza di ‘fuga dalla realtà’ fortemente

connotate sotto il profilo ideologico e culturale, sono studiati soprattutto in

chiave antropologica (Stran 2003). Centrale è l’idea di tourist gaze –

proposto da John Urry e ripresa in numerose ricerche successive. Tale

nozione allude ai processi di un immaginario condiviso e multiforme che,

tanto nei film che nei viaggi organizzati, si muove per stereotipi culturali,

simulazioni e surrogati dell’esperienza, ritraduzione di ogni differenza nelle

griglie dello sguardo occidentale (Urry 1990). Il cinema e il turismo

seguono d’altronde un simile percorso storico che li ha man mano condotti

a costituirsi come un ‘sistema di comunicazione integrato’ (Crouch

Lubbren 2003). È un percorso che ha le sue radici negli immaginari esotici

diffusi nel tardo XIX secolo, ma che si sviluppa in forma massificata lungo

il secolo seguente, trovando infine una sorta di fusione esperienziale

nell’epoca postmoderna.

Basti pensare alle cosiddette ‘escursioni guidate alla scoperta dei

luoghi cinematografici’ (ovvero i set naturali resi celebri dai film), che

sono un segmento decisivo del turismo contemporaneo in cui, annullando il

discrimine tra spettatore e visitatore, si prolunga l’esperienza filmica al di

fuori della sala cinematografica. Ma il circuito di questi scambi è ormai più

complesso e chiama in causa ulteriori processi di risignificazione, come nel

caso dei parchi a tema. Si prenda, ad esempio, Harry Potter. Da un lato

sulla scia dell’enorme successo della saga, l’industria del turismo scozzese

ha visto duplicare i propri introiti con numerosi visitatori in fila ogni anno

per vedere il castello di Alnwick, nella contrada di Northumberland.

Dall’altro, sulla scia di questo fenomeno, alla Universal Orlando Resort in

Florida è stato inaugurato ‘The Wizarding World of Harry Potter’, parco a

tema sulla saga che intende concorrere con Disneyland e offrire, soprattutto

a quegli americani fan di Harry Potter che non possono permettersi un

viaggio in Scozia, l’esperienza di entrare in quel mondo.

L’idea del cinema e del turismo come sistema di comunicazione

integrato, si ritrova infine nell’esplicita trasformazione dei film in

macchine promozionali dei luoghi. Film che sono cioè finanziati

direttamente degli enti per il turismo locali al fine di rilanciare l’immagine

della città, come nel caso di Vicky, Cristina Barcelona (W. Allen, 2009), o

di numerose produzioni del cinema italiano contemporaneo, create anche a

fini autopromozionali, dalle cosiddette film commission regionali.

4. Spazio, luogo, paesaggio, set

Anche dopo questo breve percorso, appare evidente come il concetto

di luogo sia intercettato da una serie di investimenti dell’immaginario e di

processi di risignificazione sempre più stratificati.

Spazio, luogo, paesaggio sono tutti termini strettamente irrelati, ma le

loro definizioni oscillano radicalmente alla luce delle differenti prospettive

interpretative adottate nelle ricerche. Nulla, come ogni geografo culturale

ben sa, appare meno scontato del modo in cui raccontiamo questi tre

concetti (Claval 2002). Il territorio dell’immaginario contemporaneo è così

un deposito di narrazioni in cui si producono modelli ed esperienze dello

spazio che possono trovare nell’esperienza filmica uno snodo decisivo.

Secondo Tuan, una delle differenze concettuali tra ‘spazio’ e ‘luogo’ sta nel

fatto che se con il primo termine si indica una forma indistinta, connessa al

movimento, nell’idea di luogo si esprime invece la ‘pausa’, quasi una sorta

di protezione temporanea dall’apertura infinita e indefinibile dell’idea di

spazio. È in tal senso che nel flusso del mediascape contemporaneo, i film

si offrono anche come dei luoghi. Non si limitano cioè a mostrare, ma sono

essi stessi l’esperienza di un luogo (Canova 1996).

Ecco perché oltre a costituirsi come attrazione turistica, o inesauribile

fonte di aneddoti per la storia del cinema, i luoghi del film rappresentano

una ricca opportunità interpretativa per indagare i modi di produzione

dell’immaginario, lungo un’inedita serie culturale che innerverà i concetti

di spazio, luogo, paesaggio e set.

Di un tale senso del luogo costruito dal cinema attraverso pratiche

eterogenee e modelli di messa in scena diversificati, questo libro intende

fornire un panorama che, di caso in caso, possa dar conto della più ampia

varietà dei processi culturali messi in gioco.

Partendo dalla mitologia della Monument Valley costruita dal

western, Paolo Bertetto confuta in modo radicale l’idea che il cinema ci

offra una rappresentazione dei luoghi, poiché il termine suggerirebbe una

trasparenza immediata tra ciò che vediamo nel film e la configurazione di

quel dato spazio. Il cinema invece è una pratica di invenzione del luogo

perché riscrive, manipola e organizza lo spazio in funzione

dell’immaginario, fino a che l’immaginario non diventa esso stesso un

‘luogo’. È cioè il carattere di immagine che «garantisce la comunicabilità e

la mediatizzazione della Monument Valley e la sua permanenza nel ricordo

e nella fantasia della gente. E la sua ricollocazione nel cosiddetto

immaginario collettivo si somma alla sua sistemazione nel nord

dell'Arizona in una dialettica in cui l'immagine mediatizzata finisce per

prevalere sull'ente geografico».

Simone Arcagni ci conduce invece lungo quel dispositivo illusorio e

seduttivo che è la città di Las Vegas. Al di là dei numerosi film che, specie

nel cinema postmoderno, sono ambientati nella città del gioco, è la stessa

Las Vegas che opera come il cinema; ovvero, «costruisce scenografie,

chiama star, appronta visioni meravigliose, accoglie visioni da tutto il

mondo e confeziona (nel buio del deserto) uno spettacolo luminoso e

sonoro». Nel saggio dedicato all’Overlook Hotel, Silvia Vacirca offre un

punto di vista inedito sul celebre film di Kubrick. Ricostruendo la

provenienza dei vari materiali assemblati per comporre l’immagine

dell’albergo, emerge una relazione significativa tra la pratica del set design

e l’articolazione del racconto. In tal senso, riferendosi alla costruzione

geometrica dello spazio e a un uso del décor in aperto dialogo con le

convenzioni dell’horror, ci invita a guardare Shining anche come una

cartografia allucinata delle mutazioni cui è sottoposto il senso moderno

dell’abitare.

L’intervento di Paolo Noto, dedicato a La dolce vita di Fellini,

interroga un film in cui, in modo esemplare, si mostra all’opera quel

processo di rifigurazione di un luogo che si smarca progressivamente dal

‘reale’, per acquisire una vita propria nell’orizzonte dell’immaginario.

Attraverso l'analisi delle sequenze più rilevanti del film, ci si chiede in che

modo la Via Veneto dello schermo abbia modificato la percezione di quella

reale, trasformandola in sede di verifica dei caratteri definiti dall'immagine

filmica. Valentina Valente ricostruisce invece la genealogia visuale del

«Korova Milk Bar», il celebre luogo di ritrovo dei ‘drughi’ di Arancia

meccanica, mostrando le sue rilocazioni reali (come avvenuto in varie città)

o virtuali (come nel caso di Second Life). Fortemente connotato

dall’influenza della Pop Art, se da un lato riflette il sentire e l’agire del

protagonista Alex, dall’altro è uno spazio che esprime al meglio la

visionarietà di Stanley Kubrick, che qui trova punti di contatto con la

ricerca di un’ibridazione del corpo ascrivibile alle tendenze posthuman

degli anni Novanta.

Rossella Catanese riflette sulla dimensione simbolica degli spazi di

Psyco, esplorando il Bates Motel e la tetra casa vittoriana antistante,

dimora della madre di Norman Bates. Tra i luoghi più celebri del cinema di

Hitchcock, essi rappresentano non soltanto l’archetipo dell’horror

moderno, ma si offrono anche come una riflessione più ampia

sull’organizzazione dello spazio prevista dalla società americana, e in

particolare sull’ideologia del motel e di tutti quegli anonimi spazi di

transito che, molti anni dopo, Augé avrebbe definito come ‘non-luoghi’.

All’orizzonte della cultura metropolitana americana, fa riferimento anche il

saggio di Lorenzo Marmo sulla produzione dei film noir ambientati a Los

Angeles. Riflettendo sui modi di rovesciamento dell’esperienza urbana

attivati da questi film, egli rileva come «lo spaesamento esistenziale dei

protagonisti del noir, il loro decentramento e la loro difficoltà di lettura del

mondo trovano nella struttura intrinsecamente frantumata di Los Angeles il

corrispettivo spaziale più esplicito e radicale».

Guido Vitiello esplora l’intreccio tra set artificiali e ‘luoghi della

memoria’ che prende forma nei vari tentativi cinematografici di raccontare

il trauma estremo dei campi di sterminio. Come nel più tristemente celebre

caso di Auschwitz, siamo di fronte a un luogo la cui topografia dell’orrore

è ormai inseparabile dall’immaginario eterogeneo che vi si è saldato nel

corso del tempo, e che prende la forma di un contradditorio circuito in cui

la finzione si lega al documentario, ai ‘viaggi della memoria’, ai percorsi

museali.

Andrea Minuz, infine, interroga le risonanze memoriali che investono

il set, il luogo e l’immaginario, analizzando il caso del film Elephant di

Gus Van Sant, ispirato alla tragica strage della Columbine High School

nel 1999. Se è vero che i luoghi possiedono una loro memoria che si

riverbera nelle varie forme che assumono nel tempo, la storia dell’edificio

di Portland qui utilizzato da Van Sant emerge in tal senso come la profonda

cifra perturbante di Elephant.

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