L'inizio della svolta. Perchè la crisi sarà un bene per il volontariato

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IN CASO DI MANCATO RECAPITO INVIARE ALL’UFFICIO SI CMP ROSERIO [MILANO] PER LA RESTITUZIONE AL MITTENTE CHE S’IMPEGNA A PAGARE IL DIRITTO FISSO DOVUTO Centro servizi per il volontariato nella provincia di Milano Rivista trimestrale Anno 1 numero 1 maggio 2010 Perché la crisi sarà un bene per il volontariato Magatti Non profit, via d’uscita alla dittatura del desiderio e al capitalismo illiberale Nervo Una supplica ai politici «Ascoltate i poveri prima di ogni scelta» Zamagni I corsi di formazione? Non bastano più Ora servono vere scuole dossier Anno 1 numero 1 maggio 2010 dossier

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Centro servizi per il volontariato nella provincia di MilanoRivista trimestraleAnno 1 numero 1 maggio 2010

Perché la crisi sarà un bene per il volontariatoMagattiNon profit, via d’uscitaalla dittatura del desiderioe al capitalismo illiberale

NervoUna supplica ai politici«Ascoltate i poveriprima di ogni scelta»

ZamagniI corsi di formazione?Non bastano piùOra servono vere scuole

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piazza Castello, 3 - 20121 Milano - tel. 02.4547.5850 - fax 02.4547.5458 www.ciessevi.org

Sommario

L’editorialeUna rivista per il futuro. L’approfondimento per innovare il volontariato A PAGINA 5

La radiografia Tagli, deficit e ritardi. Il volontariato milanese fa i conti con la crisi A PAGINA 11

Diamo i numeri Quando la mission fa risparmiare sui costi sociali A PAGINA 18

Magatti «Non profit, via d’uscita alla dittatura del desiderioe al capitalismo illiberale» A PAGINA 23

Dopo il crack La ricetta della ripresa: investire nelle passioni e in testimoni non profit A PAGINA 32

L’anticonformistaAssociazioni tolemaiche. Rimettiamo al centro giovani ed educazione A PAGINA 36

Relazione pericolose Mi impegno ergo sum. La molla della gratuità?Il piacere di aiutare gli altri A PAGINA 42

Altruismo low cost Né professionisti né eroi. Soltanto uomini e donne attenti a chi gli è accanto A PAGINA 47

Monsignor Nervo Una supplica ai politici: «Ascoltate i poveriprima di ogni scelta» A PAGINA 53

Veneziani«Piccolo non è utile. Bisogna tessere una rete per salvare il welfare» A PAGINA 58

Il senso perduto L’emorragia di altruismo si cura passando dal fare alla coltura del pensiero A PAGINA 64

Strategia anti-fugaPuntiamo sugli under 25: un patentino socialeper le leve del futuro A PAGINA 67

Zamagni«I corsi? Non bastano più. Ora servono vere scuoleper selezionare i volontari» A PAGINA 71

Lezione Americana Ok alle fusioni tra enti per migliorare l’efficienza.Ma soltanto se sono sagge A PAGINA 79

Vdossierrivista trimestrale

Centro servizi per il volontariato nella provincia di Milano

maggio 2010anno 1numero 1

Registrazione del Tribunale di Milano n. 550 del 1/10/2001

EditoreAssociazione Ciessevipiazza Castello 320121 Milanotel. 02.45475850fax 02.45475458email [email protected]

Direttore ResponsabileLino Lacagnina

RedazioneElisabetta BianchettiPaolo Marelliemail: [email protected]

Hanno Collaborato a questo numeroGiovanni NervoSilvia Rapizza

Progetto EditorialePaolo Marelli

Progetto Grafico e ImpaginazioneFrancesco CamagnaSimona Corvaiaemail [email protected]

StampaIl Papiro soc. coop. soc. Onlusvia Baranzate 72/7420026 Novate Milanese (MI)

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purchè venga citata la fonte

L’editoriale

5

Questo trimestrale spiegherà la realtà del non profit milanese, diventando una

bussola per le associazioni, perché nelle suepagine si troveranno rappresentate. Con

un’ambizione: fare di Vdossier uno strumentoindispensabile per le organizzazioni

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Una rivista per il futuro.L’approfondimentoper innovare il volontariato

Il nuovo Vdossier

di Lino Lacagnina, presidente Ciessevi

UELLO CHE AVETE FRA LE MANI, che state sfo-gliando e leggendo è il primo numero diVdossier. Un giornale nuovo che raccoglierà l’eredità di NewsQ

Volontariato, il periodico che appartiene alla storia di Ciessevi e chedopo dodici anni si è avviato sul viale del tramonto.

Dal 1998 a oggi, News Volontariato è stato la vetrina del Cen-tro Servizi di Milano: ha raccontato le sue attività, ha promossola cultura della solidarietà, ha saldato la coesione sociale, ha svi-luppato l’economia del dono, ha sollecitato l’attenzione delle isti-tuzioni, della città e del territorio sul non profit.

Con il passare degli anni, però, anche News Volontariato, co-me tutti gli organi del paniere dell’informazione nell’era dellaglobalizzazione, ha incontrato degli ostacoli: un calo di lettori,notizie di corto respiro, l’erosione di un interesse causato dallacrescita del sito internet www.ciessevi.org, una lenta e progressi-va disaffezione da parte di associazioni e volontari che non si

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specchiavano più una rivista pensata e costruita per loro. A fron-te di questa crisi d’identità, il Consiglio Direttivo di Ciessevi hacominciato a riflettere su un progetto per cambiare l’identikit diNews Volontariato, adeguandolo alle mutate esigenze delle orga-nizzazioni di volontariato e del panorama editoriale. Cruciale perorientare la bussola del restyling è stata una specifica ricerca sultema, che ha stabilito il punto di partenza.

La revisione totale di News Volontariato, non doveva esseresoltanto nella grafica, ma anche nei contenuti per raccontare me-glio la realtà del non profit e come parte del sistema integrato diinformazione e comunicazione di Ciessevi.

Oltre a questi, avevamo anche un altro obbligo nei confrontidelle organizzazioni di volontariato, quello di continuare adoffrire un servizio, con una novità: il servizio dell’approfondi-mento. Perché, se il flusso quotidiano e settimanale delle noti-zie, delle informazioni e delle comunicazioni ha ritagliato econsolidato dal 2001 in avanti il suo spazio sul sito web, inquesti nove anni è emerso, con sempre maggior certezza e con-sapevolezza, che la missione di News Volontariato non potevaessere la stessa della sua genesi. Serviva un’evoluzione dellaspecie, perché quel News Volontariato non era nato con la mis-sion dell’approfondimento, dell’analisi, dell’indagine, la ri-flessione e della discussione. Ed è per perseguire quest’obiet-tivo che invece è nato Vdossier. Sarà il nuovo periodico diCiessevi ma continuerà a camminare nel solco della strada trac-ciata da News Volontariato.

Vdossier uscirà con quattro nume-ri all’anno, con le sue copertine colorpastello, con uno sfoglio corposo, conuna grafica che valorizza la pulizia,l’ordine, il bianco, con un “grandan-golo” alla fine di ciascun articolo cherinvia a siti e libri per allargare il cer-chio degli interessi personali. Lo stiledi Vdossier sarà chiaro e lineare, velo-ce e agile, sarà uno stile curioso e ori-ginale nei titoli e negli articoli. Vdos-sier è una rivista bella e moderna, che

con l’approfondimento vuole aiutare noi e voi a decifrare la real-tà del volontariato milanese, perché siamo certi che conoscere ènecessario e indispensabile per capire, per essere volontari piùconsapevoli del proprio ruolo e del proprio compito nella societàe per essere parte attiva come cittadini.

Senza dimenticare il piacere della buona lettura, Vdossierspiegherà meglio dove va il volontariato milanese, anticipandoi bisogni delle organizzazioni, proponendo soluzioni e risposte,ragionando su quesiti concreti, focalizzando chiavi di lettura,interpretando la realtà del volontariato e le sue necessità, di-ventando una bussola di riferimento e di orientamento per chi“governa” le singole associazioni. In sintesi sarà uno strumen-to di cerniera fra le associazioni e la società civile e fra la so-cietà civile e le associazioni, in un dialogo, moderato ed equili-brato, laico e apolitico, sempre coordinato da Ciessevi nellapluralità delle sue voci.

Ecco da che parte staremoDa che parte starà Vdossier? Resterà dalla parte dei valori del Ter-zo settore e continuerà a promuovere la cultura della solidarietà.Vdossier non muta il Dna di News Volontariato, anche se è di-verso, perché più selettivo negli argomenti da trattare, più atten-to a quello che accade, pur senza rinunciare al suo compito di ga-rante delle relazioni istituzionali. Vdossier è pronto a difenderee innovare, con la sua voce, le sue idee e le sue proposte, il vo-lontariato e il ruolo chiave dei Centri di servizio.

Il nuovo Vdossier diventerà lo specchio dell’identità di chilo legge, cioè di coloro che sono al timone delle organizzazio-ni e delle associazioni, che vanno orgogliosi di quello che fan-no anche se in mezzo a una miriade di difficoltà e problemi. Eb-bene questa categoria di persone che “pilotano” organizzazionie associazioni avranno inVdossier il loro punto di riferimento,perché nelle sue pagine si troveranno rappresentati, perché isuoi articoli toccheranno quei problemi, temi e argomenti chegli stanno più a cuore. Perché un Vdossier nuovo fornirà lorouna molteplicità di elementi utili per decidere, per giudicare,per formarsi un’opinione, per costruire il futuro del volonta-riato. Con un’ambizione: fare di Vdossier uno strumento indi-

Vogliamo aiutare noi e voi a decifrare il Terzo settore, perché siamo certi che conoscere è necessario per capire e per essere più consapevoli del proprio ruolo

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spensabile per le associazioni. Entriamo ora nelle pagine di questo primo numero dedicato al

volontariato e alla crisi economica. L’assunto di partenza è che lacrisi non è soltanto finanziaria, poiché, come in un effetto domi-no, il “terremoto” con epicento Wall Street, negli ultimi diciottomesi, con le sue scosse, in misura maggiore o minore, ha fatto tre-mare e vacillare anche le vite di ciascuno di noi, ha aperto feriteprofonde nella società, nell’etica, nei valori, nella politica e nel-la cultura.

E il volontariato? Come ha reagito il non profit? Ha cercatodi sopravvivere. O almeno ha tentato di riuscirci, anche se nontutti i risultati sono sempre positivi. Sfogliando Vdossier trove-rete un lungo articolo, che abbiamo titolato “la radiografia”, pro-prio in quanto racconta per filo e per segno il miracolo quoti-diano di migliaia di associazioni milanesi che resistono inmezzo a un mare di difficoltà, che architettano stratagemmi pertirare avanti con casse sempre più magre. E non solo: perché, co-me spiega il sociologo Mauro Magatti in una lunga intervista,questa «crisi del capitalismo tecno-nichilista» è figlia di una«dittatura del desiderio» che ha stravolto l’idea di libertà, di so-cialità, di relazione. «E il non profit può essere un modello daseguire per la ricostruzione post crisi».

A patto che, scrive monsignor Giovanni Nervo, anche i poli-tici nelle loro scelte sappiano «ascoltare anzitutto la voce degli ul-timi». Ma per rivitalizzarsi è necessario che il volontariato mila-nese, come auspica il sociologo Maurizio Ambrosini, rimetta al

centro i giovani e l’educazione. Tantoche Guido De Vecchi, nel suo inter-vento, tiene a sottolineare che non èimmaginabile perdere la generazioneunder 25 e che bisognerebbe istituireuna sorta di “patentino del volonta-riato” per avvicinare al Terzo settore iragazzi e trattenerli nella galassia del-la solidarietà milanese.

Questa crisi economica e di valo-ri, però, ci ha insegnato che per in-centivare l’impegno di giovani e me-

no giovani, secondo l’economista Gianpaolo Barbetta, è neces-sario investire di più in una triplice direzione: nella capacità didonarsi gratuitamente, nei valori dell’altruismo e nella forzadella solidarietà più che nelle strutture e nelle specializzazio-ni. Ma come tagliare questo traguardo? Offrendo testimoni edesperienze di vita volontaria vissuta. Quelle che il pedagogistaRaffaele Gnocchi definisce «storie non di eroi né di professio-nisti», ma semplicemente di persone che, mosse da un robustosenso civico, si prendono cura, aiutano, stanno vicini e assi-stono gli altri. Perché, secondo il sociologo Vitale, «la molladella gratuità è un piacere di per sé».

Eppure non basta il fare, come sostiene Emilio Lunghi, presi-dente dell’Auser provinciale di Milano ed ex vicepresidente Cies-sevi, la vera sfida per il futuro del volontariato è il pensare, è il ri-trovare il senso di ciò che si fa e del proprio impegno quotidiano.In questa prospettiva allora diventano cruciali i due spunti offer-ti dall’economista Stefano Zamagni, che vorrebbe non più sola-mente corsi di formazione per i volontari, ma vere e proprie scuo-le; e da Veneziani che ritiene che il non profit milanese abbiaurgente bisogno di fare “rete” per innovare se stesso e il welfare.

Auguro a tutti voi una buona lettura.

In questo primonumero il temasotto i riflettori è il non profit e la crisi, che nonè solo economica e finanziaria, ma investe la società, l’etica e la cultura

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Dall’osservatorio di Ciessevi il non profit prova a resistere al terremoto finanziario,

architetta stratagemmi per arginare la riduzione delle risorse, tenta

di sopravvivere con casse sempre piùmagre compiendo un miracolo quotidiano

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IL VOLONTARIATO MILANESE, VISTO DALL’OSSERVATORIO DI CIESSEVI, èuna galassia di organizzazioni che prova a resistere alla crisi fi-nanziaria, che cerca stratagemmi per arginare i tagli delle risor-

se economiche, che tenta di sopravvivere con casse sempre più ma-gre compiendo una sorta di miracolo quotidiano. Tanto cheascoltando la voce dei dirigenti delle associazioni di Milano e pro-vincia si può dipingere un quadro che raffigura gli ultimi tempi co-me un annus horribilis. La percezione diffusa è che i diciotto mesiappena passati si sono, giorno dopo giorno, progressivamente tinti

di nero a causa e/o in conseguenza diun ventaglio di problemi e incognite le-gate con vari nodi al tracollo economi-co recente. Ecco perché di fronte a que-sto scenario vanno moltiplicandosi,settimana dopo settimana, gli appellialla generosità lanciati dalle associazio-ni, anche attraverso iniziative e mani-festazioni con l’unico scopo di racco-

Tagli, deficit e ritardi:il volontariato milanesefa i conti con la crisi

La radiografia

Le organizzazioni dipingono gli ultimidiciotto mesi come un periodonero. Ci sono sempre meno soldi che girano nel Terzo settore

La radiografiadossier maggio 2010

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gliere fondi. Sarà che la crisi non allenta la sua morsa, sarà che le ta-sche dei milanesi sono più leggere, sarà che le ristrettezze non ri-sparmiano fondazioni bancarie, enti pubblici e aziende private, ob-bligandoli a centellinare gli esborsi; fatto sta che di soldi nel mondodel non profit ne girano sempre meno, che i cordoni della borsa sisono stretti e le previsioni non volgono al sereno.

In un panorama statistico fitto di segni meno, c’è un dato, recen-te, che balza all’occhio più di altri e che può essere considerato co-me una sorta di punta dell’icerberg: nel 2009 sono salite dal 25 al32% le associazioni che segnalano una diminuzione della raccoltafondi. Un innalzamento percentuale del più 7 per cento che indicacome il Terzo settore cominci a rimanere a secco di risorse.

I dati di un rubinetto che sta lentamente restando a secco emer-gono da un’indagine dell’Istituto italiano della donazione (Iid), cheha studiato un campione di centotre enti non profit. E non è tutto:perché, anche se il Rapporto Italia dell’Eurispes conferma che il71,3% degli italiani dichiara di avere più fiducia nel volontariato chenelle forze dell’ordine e nel Presidente della Repubblica, rimane ilfatto che nell’animo degli italiani e con loro dei milanesi ha comin-ciato a erodersi la “cultura del dono”, provocata da «una mancanzadi fiducia, da una crescente diffidenza, da una società nella qualeognuno si rinserra nel suo piccolo mondo, nel proprio privato e fi-nisce con il disinteressarsi di ciò che lo circonda e che non interagi-sce direttamente con i suoi interessi e con i suoi bisogni».

L’unica eccezione, sottolineano all’Istituto italiano della dona-zione (Iid) sono i periodi di festività (Natale e Pasqua), oppure le

emergenze umanitarie (per esempio, iterremoti), dove la raccolta fondi trami-te donazioni subisce sempre un’accele-razione verso l’alto, anche se «la situa-zione di stallo economico di famiglie eimprese inizia a farsi sentire e le pro-spettive di raccolta fondi nei prossimimesi non appaiono certo ottimistiche».

Su questa lunghezza d’onda, una ri-cerca americana, pubblicata a fine mar-zo sul New York Times, asseriva che, seil 2009 è stato un anno duro a causa del-

la crisi e del taglio delle donazioni, il 2010 non sarà migliore, perchéla morsa della recessione non si allenterà e di conseguenza la «be-neficenza non sarà la prima a trarre un vantaggio dalla ripresa eco-nomica». La percezione statunitense non si discosta dal comune sen-tire che si respira fra le organizzazioni in Italia, in Lombardia e inprovincia di Milano. Le associazioni prevedono un 2010 in salita co-me l’anno passato e stimano che a fronte di un aumento delle ri-chieste di aiuto le risorse a disposizione per far fronte ai nuovi biso-gni saranno inferiori.

Clara Miller, l’amministratore delegato di Nonprofit FinanceFund, la società curatrice della ricerca apparsa sul quotidiano ne-wyorkese, sostiene che «la ripresa arriverà lentamente al settore nonprofit e che inizialmente non raggiungerà le persone più bisognosee le organizzazioni che sono deputate ad aiutarle».

Terzo settore record in Italia: muove 38 miliardiLe associazioni devono guardare avanti e aspettarsi tempi grami? Sì.Le prospettive, dati alla mano, sono negative. Eppure il non profit èsempre più un fattore importante per l’economia nazionale. Secon-do un rapporto messo a punto dall’Istat Cnel il variegato mondo delTerzo settore lungo la Penisola muove risorse per oltre 38 miliardi dieuro. La cifra però non deve trarre in inganno. Perché l’Eurispes ri-leva che le associazioni da noi, a differenza di quanto accade in altriPaesi, hanno come entrate principali le attività istituzionali, mentrele erogazioni libere non scavalcano il 3% e le risorse pubbliche nonsuperano il 36 per cento, rimanendo sotto la media dei principalipartner europei: Francia 58%, Gran Bretagna 47%, Germania 64%. Così come, stando a un’indagine della Fondazione Zanotto, noi oc-cupiamo una posizione bassa nella classifica che misura la forza la-voro nel Terzo settore: siamo inchiodati a un 2,6%, un terzo in me-no rispetto a Francia, Regno Unito e Germania, ben al di sotto anchedella media europea che si aggira attorno al 6 per cento.

Complice la crisi economia, ma complice anche una cultura delvolontariato non ancora pienamente matura, un senso civico da col-tivare e far crescere, una filantropia con il freno a mano tirato, un si-stema di norme e leggi che potrebbe e dovrebbe essere migliorato. Ilnon profit zoppica, continua a tirare avanti in mezzo a mille ristret-tezze, fatiche, complicazioni e ostacoli.

Donazioni in ribasso:nel 2009 sono saliti al 32% gli enti che denunciano una diminuzione nella raccolta fondi.Anche se il 71,3% degli italiani ha fiducia nel volontariato

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Ma è altrettanto vero che il ventaglio di numeri sulla rendicon-tazione delle associazioni milanesi già nel 2007 faceva risuonare uncampanello d’allarme. Tale fotografia in chiaroscuro è stata riassun-ta nella ricerca di Ciessevi e Provincia di Milano “Il volontariato a Mi-lano e provincia”, pubblicata lo scorso anno e che vale la pena diconsultare ancora, perché è lo specchio in cui si riflette un settore,quello del non profit, che arranca di fronte a una crisi economica chenon fa sconti e non concede tregua.

Il crollo delle risorse finanziarieGli effetti, le ripercussioni, gli strascichi del crack economico finan-ziario sono appunto racchiusi in germe nelle 102 pagine del volume,in cui emerge che le risorse finanziarie delle singole associazioni, ri-spetto al 2003, l’anno con la miglior performance del decennio, giàquattro anni dopo erano calate mediamente di meno 4.677 euro. Ciòsignifica che almeno la metà delle organizzazioni milanesi disponedi entrate mensili inferiori oppure pari a 2.230 euro. Un terzo circa(31,1%) delle organizzazione passate al setaccio nell’analisi ha en-trate inferiori a 12 mila euro, mentre un quinto (il 19,9%) ha pro-venti che non superano i 30 mila euro. Nel complesso risulta eleva-ta la quota di associazioni che sopravvive con introiti bassi. Senzadimenticare che sotto la soglia dei 30 mila euro ricade la metà delleorganizzazioni. Numeri bui a cui si saldano altri segni negativi, a par-tire da quello relativo al personale retribuito: meno 699 contratti perdipendenti e collaboratori rispetto a sei anni fa.

Giù anche il numero dei volontari: meno 3.114. Così come la ten-denza, nel tempo, registra un minore impegno in termini di ore: se,nel 2003, un volontariato, spendeva una media di cinque ore allasettimana nell’organizzazione, nel 2007, la stessa persona ne investesoltanto tre. Con un corollario allarmante: la difficoltà nel gestire l’at-tività volontaria a causa della frammentazione dell’impegno. «Cioè,tante persone impegnate per poche ore possono innescare notevolidisagi organizzativi», spiegano in coro parecchi responsabili di or-ganizzazioni. Ma, in un giro di colloqui con i vertici delle associa-zioni, si apprende con una frequenza crescente che la morsa della cri-si cambia anche l’età anagrafica dei volontari. Gli over cinquantenniche escono dal mercato del lavoro e che si reinseriscono con il con-tagocce nel tessuto occupazionale dedicano il loro tempo in attività

solidali. A Milano e provincia i volontari con oltre cinquantaquattroanni sono ormai il 52,8% del totale: il 32% in una fascia tra i 55 e i64 anni, il 20% fra i 65 e gli 80 anni. Il confronto con l’anno prece-dente, è chiarificatore: l’incremento dei volontari con oltre cinquan-taquattro anni era stato del più 3,4 per cento.

Non soltanto alla luce di questa descrizione in cifre, ma anche gra-zie alle informazioni raccolte da incontri e consulenze con le orga-nizzazioni di volontariato si può scattare un’immagine d’insieme chepone in rilievo come la questione finanziaria sia percepita come il“problema” da tutte le associazioni di Milano e provincia, al puntoche la crisi economica ha moltiplicato paure e timori per il futuro.

Sempre nella ricerca emerge che il 30-40 per cento delle orga-nizzazioni ammette crescenti difficoltà nella raccolta fondi e nell’ot-tenere finanziamenti pubblici e/o privati. E per di più a gravare suibilanci delle associazioni c’è anche la penuria nella quale naviganogli enti locali.

Non è un segreto che Comuni, Provincia e Regione, blindate tra ri-spetto del Patto di stabilità e tagli dei fondi statali, hanno pochi soldiin cassaforte. E, di conseguenza, le amministrazioni e gli enti locali,da tempo ormai, rimborsano con il contagocce i costi delle attività edei servizi svolti dalle associazioni di volontariato. E già un anno fa,il Forum del Terzo settore denunciava che «la pubblica amministra-zione è un pessimo pagatore, che fa del ritardo cronico un’abitudineconsolidata», e che il non profit «ne subisce le conseguenze con an-cor più gravi penalizzazioni», considerato che «non gode delle faci-litazioni nell’accesso al credito e non può, ancor più non vuole, so-spendere le forniture dei servizi cheoffre, in quanto ciò andrebbe a imme-diato discapito dei cittadini e dell’interosistema del welfare». Ma questo senso diresponsabilità, sottolineava ancora il Fo-rum del Terzo settore, «non è un buonmotivo per proseguire con questo siste-ma che mette in serissime difficoltà mi-gliaia di associazioni».

Dodici mesi dopo, sempre dal Forumdel Terzo settore, rimbalza un’altra gravedenuncia: chi lavora nel non profit per-

Il 30-40 per centodell’associazioniammette difficoltà a ottenere fondi.Ecco perché chilavora nel non profitguadagna stipendi inferiori ai “colleghi” del profit

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cepisce stipendi inferiori del 20-25% rispetto ai loro “colleghi” che la-vorano, con la stessa qualifica, nelle aziende “profit”. Questo perché,in diversi casi la pubblica amministrazione ritarda i pagamenti deiservizi anche fino a 6-9 mesi e le organizzazioni, soprattutto quellemedio-piccole, fanno fatica a rimediare fondi per le paghe.

Ciononostante, negli ultimi anni, il lavoro e gli operatori (più 20%nell’ultimo quinquennio) sono aumentati fino ad arrivare a quota800 mila in Italia, mentre le risorse per sostenerli sono rimaste ferme.Ciò spiega come mai il portavoce del Forum del Terzo settore, An-drea Olivero, ritiene che il non profit abbia bisogno di «più risorse,di riforme e di una normativa che lo ridefinisca e faccia maggior chia-rezza contro eventuali inquinamenti».

Enti soffocati e schiacciati dalla burocraziaA questo ostacolo se ne deve aggiungere un altro, che zavorra non sol-tanto l’azione bensì anche lo sviluppo delle organizzazioni. Si trattadel Leviatano della burocrazia, che schiaccia e soffoca gli enti nonprofit, e che troppo spesso cammina a braccetto con un mancato ri-spetto delle regole: come, per esempio, i tempi infiniti per l’asse-gnazione della quota del cinque per mille.

In sostanza, un mare di impedimenti che crea una montagna didisagi alle associazioni, primo fra tutti il freno al lancio di nuovi pro-getti. In questo cono d’ombra andrebbe illuminato l’imperativo ca-tegorico del rispetto dei patti fra le parti. Solamente il restare fedeleagli accordi permetterebbe alle associazioni una corretta program-mazione delle spese ed eviterebbe il ricorso a prestiti dalle banche,

oppure il sacrificio degli operatori delleorganizzazioni che ricevono in ritardo illoro compenso. Nondimeno ascoltandole testimonianze raccolte quotidiana-mente agli sportelli di Ciessevi, emergeche una delle maggiori preoccupazionidelle associazioni milanesi è quello del-la sede. La quasi la totalità degli enti uti-lizza locali messi a disposizione da altrisoggetti. La metà ha locali in uso gratui-to mentre un terzo ha l’onere dell’affittoda sommare alle numerose voci di usci-

ta. Questo significa che 450 organizzazioni, oltre alle normali spese(energia elettrica, riscaldamento) devono provvedere al pagamentodel canone di locazione. Ecco perché un problema molto diffuso, econnesso all’aspetto economico-finanziario, resta quello della di-sponibilità della sede. A ciò va aggiunto che le organizzazioni se-gnalano: la mancanza di strutture da utilizzare per manifestazionipubbliche; la difficoltà di trovare locali adeguati alle attività per ac-cogliere nuovi volontari; i problemi nella condivisione degli spazicon altre realtà; la mancanza di visibilità quando l’organizzazioneopera all’interno di strutture, come ospedali o scuole.

Oltre che da questi macigni il volontariato milanese è appe-santito anche da un aumento dei costi generali che hanno ormairaggiunto una quota vicina ai 143 milioni di euro ogni anno. Os-servando con la lente d’ingrandimento questo capitolo relativo al2007, è stimabile che la proiezione sia stata al rialzo anche per l’ul-timo biennio, tanto che il confronto con la spesa del 2006 eviden-zia un lieve aumento percentuale per gli esborsi del personale di-pendente (più 0,6%) e dei collaboratori (più 0,6%). Rimanendo suquesto terreno, però, c’è da rimarcare che sono invece diminuiti irimborsi destinati ai volontari per una quota pari al meno 0,3 percento. C’è poi un altro aspetto dolente, vagliando le rendiconta-zioni degli enti c’è da segnalare che il 28,3% delle organizzazioniha dichiarato di aver chiuso l’anno con un disavanzo. Si tratta com-plessivamente di un deficit che ammonta a 4,2 milioni di euro, pa-ri a 16.100 euro di “rosso” per ciascuna organizzazione.

Questa è la fotografia, scattata at-traverso la lente dei conti economicie dalle esperienze, testimonianze econfidenze, del volontariato milane-se. Una fotografia di sicuro parziale,magari incompleta, forse insufficien-te a inquadrare tutte le sfumature diuno scenario vario e complesso. Unafotografia che però è contrassegnatada un comune denominatore: il vo-lontariato attraversa una stagione ar-dua e faticosa, con davanti a sé unastrada in ripida salita.

Una delle maggioripreoccupazioni delle associazioniè quella della sede.Sono numerose le organizzazioni che faticano a pagare canoni di locazione semprepiù alti

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La generosità batte la crisi?Osservatorio IID, gennaio 2010

Gli italiani e le donazioniOsservatorio Sinottica Eurisko,ottobre 2007

2010 State of the Sector surveyNonprofit Finance Fund, marzo 2010

Il volontariato a Milano e provinciaCiessevi – Provincia di Milano,novembre 2009

webwww.nonprofitfinancefund.org

GRANDANGOLO

Diamo i numeridossier maggio 2010

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I L VOLONTARIATO È COME UNA SCIALUPPA DI SALVATAGGIO nel mareburrascoso dell’economia odierna scossa dalle onde della crisi.Negli ultimi tempi i ricercatori dell’Università John Hopkins di

Baltimora, uno degli atenei più prestigiosi degli Stati Uniti, sono so-liti usare questa immagine per fotografare il ruolo sempre più im-portante che il non profit esercita sulla bilancia dei costi sociali deiPaesi occidentali. Perché l’attività delle organizzazioni permette unrisparmio di risorse finanziarie agli enti pubblici e ai privati.

La tesi che il volontariato sia un fattore economico cruciale vie-ne a galla da uno studio messo a puntodalla John Hopkins. Si tratta di un dos-sier voluminoso dal titolo “Comparati-ve Non Profit Sector Project” (il proget-to è iniziato nel 1990 in tredici Paesi eora si estende a più di quaranta Paesi ditutte le regioni del mondo).

Nelle pagine di questa ricerca si as-serisce anzitutto che il Terzo settore

contribuisce ormai a circa il 5 per cento del Pil (Prodotto internolordo) delle economie nazionali.

Negli ultimi anni il problema della misurazione del valore eco-nomico del volontariato è diventato sempre più una questione cen-trale. Per questo i ricercatori della John Hopkins si sono messi al la-voro e hanno passato al setaccio il settore non profit e l’incidenzadella sua mission su un campione di quarantuno nazioni dei Paesipiù sviluppati. I risultati ottenuti dalla ricerca sono piuttosto inte-ressanti e possono essere riassunti in quattro punti: 1. i volontari rappresentano l’equivalente del 3-5% della popola-

zione economicamente attiva in molti Paesi dell’Occidente; 2. l’apporto del volontariato è pari a 400 miliardi dollari di contri-

buto per l’economia mondiale; 3. il numero di volontari impegnati in maniera continuativa è di ol-

tre 140 milioni di persone; 4. se i volontari fossero una nazione, sarebbero il nono Paese più

popoloso del mondo. Su questa lunghezza d’onda c’è da segnalare che in un recente

rapporto dal titolo “Satellite Account on Nonprofit Institutions andVolunteering”, elaborato da Statistics of Canada si evidenzia che ilcontributo in termini di Pil prodotto dai volontari nel Paese norda-mericano supererebbe il contributo prodotto da tutto il settore agri-colo. Oltre a questo, nello studio si definisce il volontariato comeuna “risorsa rinnovabile” per il sociale e per la soluzione di nume-rosi problemi in tutto il mondo. Seguono poi alcuni esempi: dallosforzo per debellare poliomielite e vaiolo nei Paesi in via di svilup-po agli forzi per il salvataggio di vite umane e la ricostruzione postterremoto a Haiti e in Cile. Ma il dossier canadese ricorda che i vo-lontari non esistono solo per le circostanze straordinarie: «Ogni gior-no infatti i volontari danno un’enorme contributo per il sollievo del-la sofferenza e della qualità della vita in tutto il mondo».

Al di là degli aspetti correlati con l’economia e la crisi che l’ha in-vestita, in quest’ultimo anno e mezzo, la ricerca americana fa risaltareche il volontariato riveste un’enorme importanza nell’autostima, nelsenso di fiducia delle comunità e al benessere delle persone, oltre chealla ricchezza della vita sociale. Si tratta di fattori che ovviamente nonsono quantificabili numericamente, né sono misurabili, né sono tra-ducibili in cifre, ma per questo non sono meno importanti.

Quando la missionfa risparmiare sui costi sociali

Diamo i numeri

È di 400 milioni di euro l’apporto del volontariatoall’economia del pianeta. I volontari nelmondo superano i 140 milioni

18

Diamo i numeridossier maggio 2010

2120

Performance da 99 milioni per il non profit milanesePurtroppo, constata la ricerca «la nostra capacità di farlo è seriamen-te ostacolata dalla mancanza di informazioni di base circa la portatae i contorni del volontariato, circa i fattori che sembrano favorire o ri-tardare l’impatto che sta avendo». Uno dei motivi di questa impasseè che «il sistema delle statistiche economiche a livello internaziona-le, considera il volontariato al di fuori del “confine della produzione”dell’economia». E, quindi, è come se non valesse la pena di misurar-lo. Con quale risultato? Che il volontariato è regolarmente svalutato,che i volontari sono sotto-apprezzati, soprattutto dai governi; mentrepotrebbero essere una risorsa che potrebbe aiutarli ad affrontare unagamma di problemi sociali, economici e ambientali.

Su questa strada l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si èmobilitata, ha fatto dei passi in avanti concernenti la misurazionedel volontariato in tutto il mondo, tanto che un processo è stato mes-so in atto per affrontare questa mancanza di dati. La prima tappa èstata la costituzione da parte del Johns Hopkins Center for Civil So-ciety Studies (JHU/CCSS) di un gruppo internazionale di esperti conl’obiettivo di redigere un “Manuale sulle istituzioni senza scopo dilucro nel sistema dei conti nazionali”, per guidare le agenzie di sta-tistica di tutto il mondo nell’inserire i numeri degli enti senza sco-po di lucro e del volontariato all’interno delle statistiche economi-che. Poiché nessun orientamento uniforme era disponibile adassistere i Paesi nel calcolare i dati necessari sul volontariato, un se-condo passo è stato fatto per produrre un “Manuale sulla Misura-zione del lavoro volontario”.

Il traguardo prestabilito è quello diprodurre un sondaggio a livello inter-nazionale sul lavoro volontario inseritonelle indagini condotte dai Paesi euro-pei e in tutto il mondo. Una bozza diquesto manuale è stata accettata dallaConferenza internazionale degli stati-stici nel dicembre 2008 e sta per essereultimata. Il risultato di questo lavoro, at-teso per la fine del 2010, sarà un ap-proccio sistematico a livello interna-zionale per la raccolta di dati

comparativi sulla quantità e sul valore del lavoro volontario e la suadistribuzione tra le varie discipline. Una volta adottato, questo ma-nuale conterrà la promessa di rivoluzionare la base di conoscenzadel volontariato in tutto il mondo. Infatti per la prima volta saran-no disponibili dati comparativi sul numero di volontari, le loro ca-ratteristiche demografiche (genere, occupazione, livello di istruzio-ne, reddito, residenza urbana o rurale, origine etnica), il tipo divolontariato che fanno, il numero di ore di volontariato, se il vo-lontariato avviene in modo diretto o attraverso un’organizzazione,in quale campo si trova in questa organizzazione, e quanto sarebbecostato svolgere questo lavoro con personale pagato o assunto.

Con questo processo si rafforzerà la visibilità e la credibilità delvolontariato nei confronti dei responsabili politici, con una piùchiara comprensione del contributo che esso può dare, così comesarà utile per aiutare coloro che sono interessati a promuovere il vo-lontariato. Nel solco di questa frequenza d’onda, con un salto dauna parte all’altra dell’Atlantico, con un balzo dagli Stati Uniti al-l’Italia in particolare a Milano, Ciessevi e l’amministrazione pro-vinciale di Milano, già nel 2008, avevano elaborato una stima sulvalore economico (anche se soltanto in linea teorica) dell’impegnoofferto dai volontari coinvolti nel sociale in provincia di Milano. Laricerca ruotava intorno a questo perno: quale somma risparmia lacollettività grazie all’intervento e all’azione dei volontari? A Mila-no e provincia sono impegnati 39.447 volontari sistematici. Me-diamente ogni volontario dedica alle attività quattro ore alla setti-mana. La stima è di 3.945 personeimpegnate a tempo pieno (impe-gnate cioè quaranta ore alla settima-na). Utilizzando come parametro diriferimento uno stipendio lordo - co-sto aziendale - annuale di 25 milaeuro corrispondente al quarto livel-lo del Ccnl del Commercio, si arrivaa stimare un risparmio complessivodi 99 milioni di euro complessiviannui. Il risultato ottenuto è straor-dinario, anche se non è stata un’ope-razione semplice.

La generosità batte la crisi?Osservatorio IID, gennaio 2010

Gli italiani e le donazioniOsservatorio Sinottica Eurisko,ottobre 2007

2010 State of the Sector surveyNonprofit Finance Fund, marzo 2010

Il volontariato a Milano e provinciaCiessevi – Provincia di Milano,novembre 2009

webwww.nonprofitfinancefund.org

GRANDANGOLO

La ricerca annuale di Ciessevi sul volontariatodi Milano e provinciastima che, ogni anno,grazie all’azione dei40mila volontari, la comunità risparmiacirca 99 milioni di euro

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Nel mondo d’oggi serve ripensare le relazioni sociali. E qui entra in gioco il non profit, che porta con sé un’idea

di libertà-responsabilità alla qualeguardare con grandissima attenzione per costruire un futuro più a misura d’uomo

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«LA VITA SOCIALE È COME IL MARE; ma non si può studiareil mare. È troppo grande. Troppo maestoso». Eppuregli ultimi dieci anni li ha passati, giorno dopo giorno,

a studiare le correnti profonde della modernità, a sviscerare lacrisi del capitalismo tecno-nichilista (in cui «siamo dentro daalmeno trent’anni»), a vincere una sfida concettuale: mettere indiscussione “l’immaginario della libertà” per cercare e ritrovarela libertà autentica, quella che rende l’uomo più uomo, cioè unanimale relazionale, più responsabile verso gli altri.

«Non profit, via d’uscitaalla dittatura del desiderio e al capitalismo illiberale»

Magatti

Sulla scrivania del suo studio,Mauro Magatti, che insegna socio-logia all’Università Cattolica di Mi-lano, sfoglia le pagine del suo libro,Libertà immaginaria. Le illusionidel capitalismo tecno-nichilista, unvolume vasto e complesso, chespazia da Max Weber a FriedrichNietzsche, da Pierre Bourdieu aRené Girard. E le sue riflessioni

Il sociologo Magatti spiega che in crisi non è soltanto un sistema economico e un’ingegneriafinanziaria, ma un modello di produzione, di consumo e un’idea di cultura

Magattidossier maggio 2010

2524

Volendo fare una sintesi estrema,

questa è ciò che chiamiamo glo-

balizzazione.

Proprio quella innovazione finan-ziaria, di cui oggi vediamo l’incon-sistenza, è stata uno degli ingre-dienti dello sviluppo economicoglobale degli ultimi due decenni. Eva sottolineato che il sistema ha fun-zionato molto bene per diversi annie la sua crisi – come quando la ma-ionese impazzisce - è dovuta a erro-ri ed esagerazioni che avrebbero po-tuto essere evitati. Ma il punto sucui conviene soffermarsi è un altro.Il problema è che, come la nostramaionese, l’architettura finanziariasu cui tale sistema si basava eraestremamente precaria. E, nono-stante molti osservatori ne abbianosottolineato la vulnerabilità, poco oniente è stato fatto.

Sul terreno di tale vulnerabilità è

fiorito il capitalismo tecno-nichili-

sta, con l’economia che ha smar-

rito qualunque scopo sociale.

Il modello capitalistico presuppo-neva che la giustizia sociale e la cu-ra della persona si realizzassero permero effetto secondario. Usandoun gergo ciclistico, la fuga del drap-pello di testa avrebbe generato l’in-seguimento da parte del “plotone”rimasto indietro.

Non è stato così per certi versi?

Mi piace ricordare quello che mi hadetto uno dei principali manager diuna grande banca italiana: “La glo-balizzazione non sarebbe esplosa ecentinaia di milioni di persone nonavrebbero raggiunto un livello di

benessere superiore senza gli stru-menti che chiamiamo tossici”. Ilmanager ha ragione, salvo il fattoche mette tra parentesi gli inevita-bili “costi umani” che l’accelera-zione impressa dal capitalismo tec-no-nichilista ha comportato suindividui e comunità.

Quindi viviamo sulla nostra pelle

una crisi che ha perso il rapporto

con la realtà. Wall Strett e la vita

concreta sono separati da una di-

stanza abissale?

Sicuramente. Tanto che i top ma-nager che hanno occupato le posi-zioni di potere nelle grandi banchedi investimento non avevano piùalcun contatto con la vita concretadelle persone.

Ciò spiega come mai, negli ultimi

due decenni, la crescita economica

abbia avuto come unico obiettivo

una moltiplicazione della ricchez-

za, con un aumento indiscriminato

delle opportunità individuali. Di

fatto c’è stata la vittoria del profit-

to, su qualsiasi etica.

Una tale prospettiva si è spinta finoal punto in cui ogni riferimento al“senso” - sia esso di ordine sociale,politico e morale su quello che sifa - è stato rimosso. Si è pensatoche tale aumento delle opportuni-tà costituisse un bene in sé, da per-seguire comunque. Tutto ciò ha fat-to sì che il profitto, mezzo e misuradell’efficienza economica, si siaimposto come fine in se stesso.

E lei, in proposito, ritiene che que-

sta sorta di patologia finanziaria,

sulla crisi che sferza il nostro tem-po spaziano dall’economia all’or-ganizzazione sociale, dalla finan-za all’etica, dalla psicologia allafilosofia. Il suo argomentare veleg-gia dal cosa e come desideriamo,produciamo, consumiamo; perpassare al come ci rapportiamoagli altri, all’analisi dei nostri com-portamenti e, infine, alla dimen-sione della solidarietà.

È un viaggio, che assomiglia auna scalata irta e difficile, per ca-pire che il vero problema sta amonte: nella cultura che respiria-mo, nell’immagine di ragione im-bevuta di tecnica che abbiamostampata nella mente, nell’idea diindividuo, di “verità”, di socialità.Alla fine del lungo colloquio conil professor Magatti, sarà più chia-ro che ciò che è in discussione nelnostro tempo non è tanto un siste-ma economico, un’ingegneria fi-nanziaria gravida di imperfezionie di illusioni, che ha impoverito lenostre vite. «Il rischio vero - sinte-tizza il sociologo - è che, schiac-ciati come siamo in una prospetti-va esistenziale di “immediatezza”,perdiamo la nostra libertà».

Il nostro sistema culturale edeconomico ha prodotto quella chelui definisce una vera “dittatura deldesiderio”; o che tradotta in unaformula accademica è “un’econo-mia libidica del plusgodere”.

Ma torniamo al punto di parten-za: la crisi finanziaria, iniziata nel-l’autunno 2008 e che «non ci ha an-cora abbandonati». Magatti muovedall’assunto che questa crisi «mettea nudo le contraddizioni derivantidall’eccesso di “mercatismo”». Eccoperché porta «in superficie l’urgen-za di correggere il modello capitali-stico che si è imposto negli ultimivent’anni». Quanto accaduto puòessere spiegato ricorrendo ad una si-militudine: «Per fare la maionese -spiega - occorre sbattere il tuorlodell’uovo in modo da farne aumen-tare il volume facendovi entrarearia. Ma, come tutti coloro che han-no provato, la miscela che, in questomodo si viene a formare, ha la ca-ratteristica di essere altamente in-stabile. Basta poco e la maionese“impazzisce”».

Eppure lei sostiene che lo sviluppo

del sistema finanziario degli ulti-

mi 20-30 anni ha reso possibile

uno straordinario aumento del vo-

lume delle risorse disponibili su

scala globale.

Sì, è vero e lo ha fatto mediantel’introduzione di strumenti tecnicisempre più raffinati. Di più: nonsolo è aumentata vorticosamente lavelocità degli scambi finanziari, maè cresciuto anche, su scala planeta-ria, il volume complessivo delle ri-sorse disponibili.

La crisi economica mettea nudo le contraddizioniderivanti da un eccesso di “mercatismo”. Eccoperché occorre correggereil modello capistalisticoche si è imposto negli ultimi 20 anni

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Magattidossier maggio 2010

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tropologica, perché la tecnica - com-preso l’ambito economico e finan-ziario - ha fatto enormi passi inavanti nell’ultimo scorcio di secolosenza che il nostro pensiero (e le no-stre pratiche) siano ancora in gradodi governarli. Tali mutamenti, asso-ciati alla cultura prevalente e alletrasformazioni istituzionali che lihanno resi possibili, hanno favoritoil formarsi di una concezione unila-terale della libertà, che - pensando-si come ab-soluta - ha finito per es-sere “immaginaria”. A ben guardare,se si prova ad apprendere la lezioneche la crisi prova a darci, il proble-ma che abbiamo di fronte consistenel ri-costruire una relazione rispet-tosa della realtà, vista come un li-mite alla nostra volontà di potenza(come desiderio e come tecnica).Ciò concretamente significa abban-donare l’idea secondo la quale tuttociò che viene creato dall’azioneumana è, di per sé, legittimo. Key-nes aveva sostenuto che l’economia- ma dovremmo dire lo stesso dellatecnica in generale - ha un difettofondamentale: nell’inseguire lamassimizzazione del profitto perdeil proprio rapporto con il reale. Key-nes aveva bene in mente la radicedel problema che egli chiamava “ilfeticcio della liquidità”: per lo svi-luppo è indispensabile un sistemafinanziario, ma tale sistema tende aperseguire un profitto di breve ter-mine. E allora, quando tale tenden-za riesce ad avere uno spazio troppogrande, le conseguenze possono es-sere devastanti, perché l’economianon serve più gli scopi sociali per iquali nasce. Il modello keynesiano

assumeva che una crescita stabilenecessitasse di uno sviluppo socia-le complessivo e che la migliore ga-ranzia per una crescita economicadi medio-lungo termine fosse datadallo sviluppo sociale.

Da questo punto di vista, il tem-

po che stiamo attraversando è

portatore di una straordinaria

opportunità che non va assoluta-

mente perduta…

La crisi, infatti, riorganizza l’agen-da della nostra vita personale e col-lettiva, costringendoci a confron-tarci con il problema della gestionedei costi umani e sociali che essaproduce e, più in generale, della de-finizione di una nuova relazione traeconomia e società. In fondo, essacostituisce un nuovo forte campa-nello d’allarme che permette di co-gliere le contraddizioni del model-lo di sviluppo che si è affermatonegli ultimi vent’anni. Da questopunto di vista, essa costringe alla ri-cerca di un pensiero nuovo.

Se lo scenario è questo, dobbiamo

aspettare un incattivirsi dei rap-

porti sociali?

di cui stiamo sopportando le con-

seguenze, rappresenta uno dei ca-

si più puri di quell’“immaginario

della libertà” che si è progressiva-

mente sviluppato nei Paesi avan-

zati.

Azioni e comportamenti sono statisvuotati di significato. Si è spintol’acceleratore solamente sul latodel desiderio reso godimento. Nelcapitalismo tecno-nichilista il mes-saggio è ossessivamente sempre lostesso: per crescere occorre poten-ziare il desiderio individuale che èl’energia inesauribile in grado dialimentare indefinitamente lo svi-luppo. Siamo rimasti imprigionatiall’interno di un modello di svi-luppo che, convinto della sua on-nipotenza certificata dai successi,ha finito per rimuovere interi pez-zi della realtà. Ecco perché la crisinon ha fatto altro che rendere ma-nifesti alcuni dei problemi impli-citi in tale modello.

Il crack finanziario ci ha impoveri-

to, anche se gli ultimi segnali

sembrano far pensare che siamo

riusciti a scongiurare l’apocalisse.

Ma ciò non toglie che le conse-

guenze di quello che è successo

segneranno profondamente gli

anni a venire.

Nel caso della crisi finanziaria, ècome se il mondo fosse stato colpi-to da un grave infarto. In una talesituazione, la prima preoccupazio-ne è, ovviamente, quella di soprav-vivere. E, in effetti, l’interventod’urgenza delle autorità nazionalidi questi ultimi mesi ha avuto - eha ancora - proprio questo obietti-

vo: quando la crisi è acuta, il pro-blema è usare i farmaci giusti; nonc’è posto per nessun altra conside-razione. Ma, ammesso e non con-cesso che possa essere consideratasuperata, la fase acuta altro non èche l’anticamera di un periodo -più o meno lungo - di convale-scenza nel quale è fondamentale ri-conoscere che non si può più tor-nare quelli di prima. Pretendere ilcontrario, far finta che non sia suc-cesso niente, tornare a vivere esat-tamente nello stesso modo, è unareazione comprensibile, ma moltorischiosa e sbagliata.

Come dice il proverbio: “Non tutto

il male viene per nuocere”. Allora

l’impossibilità di continuare a es-

sere quelli di prima potrebbe alla

fine rivelarsi un vantaggio.

Forse si potranno recuperare di-mensioni dimenticate, o scopriredi avere qualità che non conosce-vamo. Comunque ci vorranno an-ni per riassorbire i costi umani esociali che lo sconquasso ha pro-vocato; e se ne uscirà solo grazie aun pensiero e un’azione innovativi,soprattutto per quanto riguarda latransizione individuo-istituzione.

Quale potrebbe essere invece una

soluzione a medio termine?

Nel medio termine la soluzione del-la crisi non è semplicemente di tipotecnico. O per meglio dire, ciò di cuic’è bisogno è di una tecnica cheesprima una nuova visione cultura-le e una rinnovata logica istituzio-nale. Volendo risalire alla radice, laquestione è, in ultima istanza, an-

La lezione che la crisifinanziaria prova a darci è la seguente: occorre ri-costruire una relazionerispettosa della realtà, vista come un limite alla nostra volontà di potenza

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Magattidossier maggio 2010

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mondo e agli altri, anche nel suorapporto con le istituzioni. Per que-sto, non si tratta solo né essenzial-mente di una questione tecnica.Ma, prima, viene una filosofia, unavisione, un’ispirazione.

Servirebbe una sorta di rivoluzio-

ne per riportare al centro il bene

comune, gli interesse collettivi, la

cittadinanza attiva e per sbarrare

una volta per tutte la strada alla

dimensione privata individuale.

Cosa succederà dipenderà da tantifattori, compresa naturalmente lacapacità dei singoli e dei gruppi dimobilitarsi e di fare in modo chel’esito della crisi guardi in una di-rezione piuttosto che in un’altra.Diciamo che le due prospettive so-no, da un lato, un possibile incatti-vimento ulteriore dei rapporti so-ciali e una radicalizzazione di tuttauna serie di aspetti che, in una faseprecedente, erano già emersi: pen-siamo alla contrapposizione socia-le tra ricchi e poveri, al restringi-mento degli orizzonti della propriavita su una scala sempre più picco-la. Dall’altra parte, c’è la speranza ol’opportunità di andare avanti de-clinando questa libertà di cui di-sponiamo in un modo più maturo,diventando consapevoli del fattoche la libertà ha sempre una di-mensione relazionale. Se ciascunoè libero per se stesso, il rischio è chela libertà si traduca in uno sfrutta-mento reciproco, oppure in unapaura reciproca. Se invece la mia li-bertà ha strettamente a che fare conla libertà dell’altro e quella dell’al-tro ha strettamente a che fare con la

mia, allora le due libertà sono pro-fondamente intrecciate e non pos-sono essere separate.

Secondo lei, con la crisi la spinta

solidale in questi anni è cambiata?

E come si concilia con i desideri in-

dividuali?

La solidarietà, dal mio punto di vi-sta, è una parola che presenta nu-merosi problemi. Perché non è poicosì positiva come spesso si presu-me. Anzitutto chiariamo che soli-darietà deriva dall’essere in solido,cioè dal percepire di condividereuna medesima condizione. E anco-ra: dall’idea che non ci si salva dasoli. In linea di principio la solida-rietà non è buona. Tanto che nellastoria la solidarietà spesso è stataassociata alla contrapposizionecontro qualcun altro. Per esempio,le istanze localistiche di questi an-ni sono in un certo senso solidari-stiche: “noi contro gli altri”, oppu-re “ci dobbiamo solidarizzareinsieme contro qualcun altro”.Pensiamo alla solidarietà operaia eal ruolo giocato nella lotta di clas-se. Quindi la solidarietà ha i suoiproblemi, così come la libertà ha isuoi problemi. Ritengo, invece, cheil concetto di solidarietà sia legatoall’idea di libertà, ma a una libertàche la cui natura deve essere rela-zionale, cioè siamo veramente li-beri solo se siamo e stiamo in rela-zione con gli altri. La libertà se èindividualistica, come lo è stata ne-gli ultimi anni, è catastrofica. Lacrisi economica ne è la prova.

Il soggetto sociale nato e cresciuto

La sfida futura consisterà nel rista-bilire una nuova logica dello svi-luppo, che rinunci allo sfrutta-mento infinito del desiderio resogodimento, assumendosi la re-sponsabilità di orientare tale ener-gia per sostenere/riprodurre/rige-nerare le basi della socialità.

Anche su questo secondo piano,

dunque, la crisi pone questioni di

vasta portata.

Pone la questione di un “nuovoimmaginario della libertà”, in gra-do di decentrare l’ossessione deldesiderio individuale e di reintro-durre, anche se in forma del tuttonuova, una dimensione “sociale” e“di senso”. Si tratta di costruireuna strada che eviti le due deriveopposte a cui siamo esposti: da unlato, quella individualistica, chepensa il singolo come un atomo in-dipendente e senza legami, in pre-da solo al suo desiderio; e dall’al-tro, quella collettivistica, che tendecontinuamente a riproporsi nellaforma di fondamentalismi più omeno mascherati: religiosi, etnici,territoriali. La strada, invece, èquella di riconoscere la centralità

delle due dimensioni negate dalcapitalismo tecno-nichilista, quellarelazionale e quella del senso. Perfare emergere questo nuovo imma-ginario ci vorrà tempo, ci vorrannonuovi soggetti sociali, ci sarà biso-gno di nuove idee. Forse è ora dicapire che ognuno di noi è troppodipendente dagli altri per potereavere accesso alla felicità in modoindividualistico e senza porsi do-mande su quello che sta facendo.

Come l’esperienza dimostra, un

modello che punta solo sul desi-

derio soggettivo, se risolve alcuni

problemi, lascia molte conseguen-

ze negative.

Per questa stessa ragione, un taleriorientamento non potrà essereprodotto solo per effetto di un’azio-ne politica, anche se è difficile im-maginare di poterlo fare senza po-litica. Esso potrà avvenire solo senella società civile e nell’economianasceranno i germi in grado di so-stenere tale visione. Ma si dovrà al-meno trovare un’intesa sulla que-stione di fondo, e cioè sul fatto chela strada battuta negli ultimi de-cenni va corretta.

Per tutte queste ragioni, l’uscita

della crisi non avverrà in un arco

temporale di mesi bensì di anni. E

non solo: essa coinciderà con l’in-

gresso in una nuova fase di svilup-

po, di cui oggi però non vediamo

neanche i contorni.

Al fondo, come è successo in tantealtre epoche della storia, il proble-ma è quello di riimmaginare la li-bertà, in se stessa e in rapporto al

È ora di capire cheognuno di noi è troppodipendente dagli altriper poter avere accessoalla felicità in modoindividualistico e senzaporsi domande su quelloche sta facendo

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Magattidossier maggio 2010

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modello non sta in piedi. Non bi-sogna però condannare la paura,ma occorre ragionare su questapaura. Faccio questo esempio peressere più chiaro: quando si è inuna casa che brucia, è fondamen-tale spiegare alle persone impauri-te dalle fiamme come comportarsiper non commettere errori che po-trebbero avere conseguenze piùgravi. Ecco, in preda a questa pau-ra figlia della crisi, occorre riflette-re su come comportarsi.

Secondo lei, qual è il percorso più

idoneo da seguire?

Sapere che le soluzioni non si ot-tengono nell’emergenza, ma si ot-terranno solamente se ci sarà la ca-pacità di fare adeguati investimenticulturali. È necessario fare unosforzo per capire che l’innovazio-ne e l’efficienza hanno bisogno diuna fibra morale su cui basarsi, al-trimenti in futuro non sarà possibi-le costruire niente di buono.

E questa fibra morale sulla base di

quali valori va costruita?

Prima di tutto è indispensabileascoltare il Paese, evitando di farediscorsi generici e campati in ariache non portano da nessuna parteperché non sono fondati sulla no-stra cultura e sulla nostra storia.

Il volontariato è sopravvissuto alla

crisi, ma a suo avviso dovrebbe in-

novarsi?

Il problema è che il volontariato inItalia ha avuto una spinta creativanegli anni Ottanta, che ha innesca-to tutta una serie di effetti positivi

che si sono prolungati negli anniNovanta e in parte in questo de-cennio. Ma, adesso, se si pensa dirianimare quella stagione d’oronon si va da nessuna parte. Il vo-lontariato per rilanciarsi ed essereadeguato ai tempi di oggi, deve riu-scire a cogliere più in profondità lanatura di una crisi che è, in primoluogo, di ordine morale. Per farequesto non c’è bisogno né di soldiné di strutture, c’è bisogno del pro-filo più caratteristico del volonta-riato, che è la sua capacità di rim-boccarsi le maniche.

in un modello iper individualistico

è isolato, frammentato, scollega-

to, solo.

Per definire la società attuale piùche l’immagine della solitudine,userei quella dell’adolescenza. Lesocietà avanzate hanno creato unsoggetto sociale che assomigliasempre più a un sedicenne. Un ra-gazzo che esce da casa e vive l’eb-brezza di essere lontano dai geni-tori. Come un adolescente, ancheil cittadino dell’Occidente credeche libertà significhi fare quelloche si crede. Ma si sbaglia di gros-so. Deve imparare a gestire la pro-pria libertà sapendo che ci sonodei limiti, senza i quali la libertà èdistruttiva. Ecco perché il nostroadolescente deve imparare a met-tere in relazione la propria libertàcon quella degli altri. Tornando al-la società attuale, è necessario ri-mettere al centro la responsabilità:“Se siamo liberi, dobbiamo anchesaper decidere di non fare qualco-sa che si potrebbe fare”. Questocomportamento vale quanto perl’economia come per la bioetica,ma anche per le relazioni sociali,per la soddisfazione dei desideri.

La forza di un pensiero differente,libero, va misurata su questa pro-spettiva. E non è tutto: perché ser-ve ripensare uno scambio socialepiù adatto all’oggi. E qui entra ilgioco il non profit, che porta consé un’idea di libertà-responsabilitàa cui guardare con grandissima at-tenzione per costruire un futuropiù a misura d’uomo.

Tornando alla crisi finanziaria: una

sua drammatica conseguenza è

stata l’emorragia di posti di lavo-

ro che ha investito l’Italia e i Pae-

si occidentali. E inoltre per riallac-

ciarci a quello che diceva lei, a

riguardo dell’emergere di istanze

localistiche, questa recessione

economica ha acuito la paura, la

diffidenza, nei rapporti tra le per-

sone? Possono essere questi una

serie di tensioni che minano la

coesione sociale? In questo scena-

rio che ruolo occupa l’azione vo-

lontaria?

Come è noto la paura è una dellescorie negative che il modello disviluppo che abbiamo alle spalleha generato. E se il concetto è che“ognuno deve essere libero per sestesso”, uno degli esiti inevitabili èche diventiamo una minaccial’uno per l’altro. Poi, essendo mi-naccia l’uno per l’altro, dato cheognuno deve ossessivamente esse-re libero per se stesso, collettiva-mente trova anche qualche valvoladi sfogo, qualche capro espiatoriosu cui scatenare quest’ansia che ciproduciamo gli uni con gli altri. Lapaura serpeggiante è appunto unodei danni che dimostra che quel

Il volontariato, in Italia, per rilanciarsi ed essereadeguato ai tempi di oggi,deve riuscire a cogliere più in profondità la natura di una crisi che è anche di ordine morale e culturale

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M. MagattiLibertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilistaFeltrinelli 2009

M. Magatti, C. Giaccardi L’io globale. Dinamiche della socialità contemporaneaLaterza 2006

M. Magatti, M. De Benedittis I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?Feltrinelli 2006

M. MagattiIl potere istituente della società civileLaterza 2005

M. Magatti, C. Giaccardi La globalizzazione non è un destino.Mutamenti strutturali ed esperienzesoggettive nell’età contemporaneaLaterza 2001

M. Magatti, M. Monari, L. Ruggerone Donne esploratrici. Percorsi nella imprenditoria femminileGuerini e Associati 2000

M. Magatti, M. Monaci L’impresa responsabileBollati Boringhieri 1999

M. MagattiTra disordine e scisma. Le basi sociali per la protesta del NordCarocci 1998.

GRANDANGOLO

Barbettadossier maggio 2010

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NON PROFIT, COOPERAZIONE SOCIALE, FILANTROPIA, responsabilitàeconomica, mercati equo solidali. Sono alcuni dei temi diricerca nel ventaglio dei suoi interessi di studioso e

professore. Ma Gianpaolo Barbetta, una cattedra all’UniversitàCattolica di Milano, alla teoria è sempre piaciuto unire la pratica,verificare come la speculazione si traduce nella prassi. E allelezioni nell’ateneo affianca il suo ruolo all’interno del think tankdella Fondazione Cariplo, che gli permette di sperimentare sulcampo i suoi studi, fermamente convinto che l’approfondimento

La ricetta della ripresa: investire nelle passionie in testimoni non profit

Dopo il crack

dei fatti possa essere utile per defi-nire e mettere a punto le strategie fi-lantropiche dell’ente lombardo.

Da questo suo duplice osservato-rio privilegiato, il professor Barbettadisegna la curva del crollo economi-co globale, le sue ripercussioni fi-nanziarie, occupazionali, sociali,che lambiscono anche il pianeta vo-lontariato. «Dalla crisi non siamo an-

cora usciti - spiega -. Di certo ci sia-mo lasciati alle spalle la fase di dra-stico peggioramento, che è statamassiccia e prolungata nel tempo.Su quanta strada, però, ci sia ancorada percorrere per uscirne c’è un’as-soluta incertezza, al punto che nonsi sa quanto siamo ancora lontani dauna situazione di normalità».

Da che cosa si può dedurre che il

peggio è superato? Sulla base di

quali elementi possiamo guardare

avanti con una timida fiducia?

I segnali sono diversi. Gli indici eco-nomici registrano il calo del prodot-to interno lordo (Pil) dello scorso an-no e il miglioramento (oppure ilcessato peggioramento) di di alcuniindicatori come la produzione in-dustriale. Da questa analisi sia l’Ita-lia che altri Paesi europei comincia-no a mostrare segnali di ripresa. Se,nel corso del 2009, il Pil è caduto del5% e la produzione industriale an-cora di più, nel 2010 i primi dati cimostrano dei cenni di tiepida ripre-sa. Più critica, invece, è la situazionesui dati che fotografano il mercatodell’occupazione, dove siamo anco-ra lontani da numeri positivi, ancheperché l’occupazione reagisce conritardo rispetto all’aumento del Pil.

Secondo lei, questa crisi economi-

ca ha inciso anche sulle relazioni

sociali? E se sì, come? Penalizzan-

do quali fasce della popolazione?

Sicuramente ci sono alcune catego-rie che hanno sofferto maggiormen-te rispetto ad altre. La crisi non hapenalizzato la fascia degli anziani,che sono stati toccati molto poco.

Basti pensare che le pensioni nonsono diminuite e che i prezzi sonoaumentati in misura minore rispet-to agli anni più recenti. L’inflazionenon è salita; anzi, in alcuni settoriparticolari ci sono state delle defla-zioni. Quindi tutti coloro che han-no una rendita fissa (ad esempiouna pensione) non sono stati tocca-ti particolarmente dalla crisi. Diver-so, invece, lo scenario per chi haperso il lavoro, oppure è finito incassa integrazione, per coloro cheerano in condizioni lavorative fragi-li; in questo caso la crisi non ha mi-gliorato le condizioni di nessuno.Semmai le ha peggiorate, oppureaggravate in maniera drammatica.Quelli che però stanno soffrendomaggiormente in questa difficilecongiuntura economica sono sen-z’altro i giovani. E, in particolare,coloro che si affacciano solamenteora al mercato del lavoro e si trova-no davanti porte chiuse, percorsimolto più selettivi, strade soventelegate a condizioni di precariato.

A suo avviso, il volontariato ha aiu-

tato queste categorie maggior-

mente colpite dalla crisi?

Il volontariato ha continuato a svol-gere il proprio compito, cercando ditamponare al meglio alcune situa-zioni critiche. È stato in alcune cir-costanze un discreto ammortizzatoresociale, nella consapevolezza che auna crisi di tale livello non si possarispondere solo con risorse volonta-rie ma sia indispensabile il ruolo del-le politiche pubbliche. Preziosi sonostati, in questa direzione, il Banco ali-mentare, la Caritas, le mense dei po-

L’economista Barbettaritiene che per la crescitadel volontariato sianecessario trasmettere con l’esperienza e non con campagnepubblicitarie i valori della solidarietà

Barbettadossier maggio 2010

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Vedo un volontariato a due velocità.Da un lato, forte nella capacità di ri-spondere ad alcuni bisogni; dall’al-tro estremamente debole per quan-to riguarda la capacità di rigenerarele motivazioni dei volontari. Eccoperché ho la sensazione e la perce-zione che quest’ultimo sia il proble-ma fondamentale che si riscontrasul nostro contesto sociale. Riusci-re con i giovani, ma anche con gliadulti e gli anziani, a ridare motiva-zione, a rivitalizzare, l’esperienzadel servizio al prossimo, del donaregratuitamente agli altri. Non si puònon notare che siano proprio le mo-tivazioni pro-sociali a venire menoin questo ultimo periodo. E, secon-do me, è ancora più grave che nes-suno si preoccupi di capire come sipossano rigenerare queste motiva-zioni. A mio parere, chi vive l’espe-rienza del volontariato dovrebbetrovarsi in una posizione privilegia-ta per capire come infondere nei cit-tadini la voglia di occuparsi di sestessi e delle proprie comunità. Ve-do un volontariato un po’ disatten-to da questo punto di vista, che siinterroga molto sui ritardi dei paga-menti, sulla professionalizzazione eche invece si interroga poco sul per-ché i volontari sono sempre più an-ziani e perché i giovani preferisconofare altro che non impegnarsi inazioni altruistiche. Questo mi sem-bra il nocciolo del problema.

È un problema di valori, una que-

stione culturale?

Credo che i valori si trasmettano at-traverso l’esperienza e non astratta-mente. La motivazione nasce dal

vedere persone motivate e non dal-le campagne pubblicitarie, di infor-mazione e di sensibilizzazione. Noncredo proprio che il volontariato siaun terreno fertile a cui applicare ilmarketing. Come in una famiglia,sono i genitori a educare i propri fi-gli, a trasmettere loro valori, moti-vazioni, cultura; allo stesso modo ivolontari devono crescere ed edu-care nuovi volontari in una catenache si allunga nelle pieghe della so-cietà e delle sue relazioni. Ovvia-mente informare e dare conto èsempre utilissimo, però non conte-rei esclusivamente su questa levaper generare risorse volontarie. Miaffiderei maggiormente sull’esem-pio, sulla passione, sulla motiva-zione, sulla testimonianza vissuta enon semplicemente raccontata.

veri e il Fondo di solidarietà istituitodal cardinale di Milano, Dionigi Tet-tamanzi. Tutti questi soggetti, ed altrimeno noti, hanno svolto un ruolo dicontenimento e di aiuto per i casi piùcritici. Altre tipologie di volontariato- sportivo, culturale, socio-sanitario -hanno continuato a fare il proprio la-voro di routine. Non hanno pretesodi dare delle risposte a problemi chesono difficilmente trattabili con glistrumenti tipici del volontariato.Quindi un ruolo più rilevante, inquesta fase, lo hanno svolto quellestrutture tradizionalmente più di tipoassistenziale.

Il volontariato, in questo periodo,

lamenta ritardi nei pagamenti da

parte degli enti pubblici soprattut-

to laddove svolge un lavoro di sup-

plenza per servizi. Questa crisi, che

ha avuto come risultato anche un

taglio nelle risorse dello Stato verso

gli enti locali, in qualche modo ri-

propone il problema del finanzia-

mento del volontariato?

Per principio sono contrario all’ec-cesso di finanziamento del volon-tariato, perché se è finanziato chevolontariato è? Il ruolo fondamen-tale del volontariato, nel nostro si-stema di Welfare, credo che nondebba e non possa essere quellodell’erogazione di servizi in sup-plenza di altre enti preposti. Tantopiù se in sostituzione dell’ente pub-blico. Ritengo, invece, che le pecu-liarità delle organizzazioni di vo-lontariato le debba indurre asvolgere un ruolo differente. Al vo-lontariato spetta un ruolo di ani-mazione della società civile, di ri-

costruzione delle motivazioni dellasocialità, della relazionalità comu-nitaria sui territori, tanto nei picco-li comuni quanto nei quartieri diuna grande città come Milano.

Quindi l’erogazione di servizi è più

di competenza di altri tipi di orga-

nizzazioni del non profit, magari

più strutturate per assolvere a que-

sto specifico compito.

Sì, perché il volontario deve occu-parsi gratuitamente dei problemidella collettività. Ovviamente quan-do ci si occupa di tali questioni sipossono gestire oppure erogare al-cuni servizi, ma non altri che sonopiù complessi e meno adattai a es-sere amministrati e guidati dal vo-lontariato. Stabilita questa premes-sa, resta comunque il fatto che lacrisi ha prodotto l’aumento dellaspesa per alcuni interventi di Welfa-re, come la cassa integrazione ordi-naria o la cassa integrazione in dero-ga. Questo aumento, in un contestofinanziario difficile, ha portato il go-verno a contenere altre voci di spe-sa, ad esempio il Fondo nazionaleper le politiche sociali. E se questoperiodo di incertezze dovesse pro-trarsi nel tempo, suppongo che ci sa-rà un ulteriore taglio alle spese sianazionali, sia regionali che comuna-li. Se questo poi si tradurrà in ritardinei pagamenti dei servizi e delle pre-stazioni è difficile prevederlo. Di cer-to, quello che osservo è la tendenzaa contenere il più possibile le spese.

Alla luce di queste riflessioni, pro-

vando a immaginare il futuro del

volontariato, come lo vede?

G. BarbettaIl commercio equo e solidale in ItaliaCRC Working Paper n. 3Università Cattolica del Sacro Cuore

G. Barbetta, Chiara Paola DoneganiDieci anni di cooperazione socialeI percorsi del gruppo cooperativo CGMEdizioni Diabasis, 2009.

G. BarbettaLe Fondazioni di origine bancaria:dalla nascita per caso all’eserciziodell’innovazione sociale Patrimoni & scopi. Per un’analisieconomica delle Fondazioni Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli,Torino, 2008

G. BarbettaResponsabilità economico-socialedelle banche di credito cooperativo:bene comune, coesione sociale e sviluppo del territorioin Rivista della Cooperazione, n. 4/2005

webwww.fondazionecariplo.it/osservatorio

GRANDANGOLO

Ambrosinidossier maggio 2010

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«LA CRISI HA UN DOPPIO VOLTO», esordisce Maurizio Am-brosini. Ma subito s’interrompe. Si alza, prendere il di-zionario e legge: «Il termine greco krìnein ha la stessa

radice di discernimento». E comincia a ricomporre il puzzle delsuo pensiero: «La crisi, quindi, è anche vaglio, momento di veri-fica, passaggio e forse anche cambiamento. Ecco perché l’esplo-sione di questo crack finanziario potrebbe essere l’occasione pro-pizia per ripensare al funzionamento della società e dell’economiae, magari, anche dei nostri sistemi culturali».

Qualcosa si sarebbe già mosso: «In-fatti, dopo l’ubriacatura finanziaria, c’èstato un maggiore sguardo critico, il cuiesito è stata l’introduzione di nuove re-gole, più severe, e una spinta a mag-giori controlli». Più lenta è la riparten-za sul piano culturale. «Ma si sa che ècosì. Perché i valori sono un terreno in-sidioso sul quale muoversi. E qui, un

cambiamento è più difficile, richiede un lavoro certosino, di semi-na, di cura, di crescita e solo col tempo si arriva al raccolto». Sulpiano politico, invece, «l’idea che il mercato sia la risposta a tutti iproblemi e che lo Stato debba imporre il minor numero possibiledi regole, mi pare un’altra leggenda che è stata sfatata dalla crisi emi auguro che non si torni indietro rispetto a questa acquisizione».

Ambrosini parla nella doppia veste di professore di sociologiaall’Università degli Studi di Milano e di presidente dell’associazio-ne volontari di Caritas Ambrosiana, da anni impegnato nello studiodel fenomeno delle migrazioni e dell’associazionismo, soprattuttocon uno sguardo mirato alla partecipazione dei giovani e all’orien-tamento al volontariato. «La crisi, dunque, ci consente di ripensaread alcuni aspetti del funzionamento delle nostre società, in partico-lare al rapporto tra politica ed economia». Il docente di sociologiaentra nel cuore del problema. «È chiaro che è più difficile un ripen-samento della vita delle famiglie e dei suoi sistemi dei valori. Quicolgo che ci sia un bisogno di continuità con il passato e, quindi, lasperanza di tornare a crescere come prima e di poter ambire a con-servare e, magari, incrementare i livelli di benessere precedenti».

Milano, la metropoli che rifiuta il cambiamento Da questo punto di vista, «se c’è un effetto della crisi più negativo,è la ricerca del capro espiatorio. Aumenta il rancore nei rapporti so-ciali e forse una maggiore chiusura nei confronti di componentipiù deboli e percepiti come estranei. Mentre il disoccupato italia-no è oggetto di uno sguardo simpatetico: è uno di noi, merita di es-sere aiutato. Il disoccupato straniero invece molto meno. L’irrego-lare, anche per effetto della crisi, è addirittura percepito come unapresenza ingombrante e disturbante, malgrado sia una figura tran-sitoria che prima o poi fuoriesce dalla rarità e dall’eccezionalità,come vediamo dalle recenti sanatorie. I rom, infine, sono oggetto diuna esclusione sociale dura, che la crisi probabilmente accentua. Ese molti disoccupati fanno fatica a trovare un lavoro, i gruppi de-boli e stigmatizzati ne hanno ancora di più».

L’analisi di Ambrosini non frena su l’autocritica, piuttosto por-ta un atto di accusa al capoluogo lombardo. «A Milano c’è unatendenza ad irrigidire i rapporti sociali. Così come a escludere lefasce della popolazione considerate più disturbanti. La metropo-

Associazioni tolemaicheRimettiamo al centro giovani ed educazione

L’anticonformista

Per il sociologoAmbrosini il crackfinanziario potrebbe essereun’occasione per ripensare adun funzionamentodella società

dossier maggio 2010

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Ambrosini

li vive una contraddizione tra la sua natura multietnica e la resi-stenza ad accettare i cambiamenti. Questo fenomeno appare co-me un tentativo vano di riportare indietro l’orologio della storia».

Nella sua requisitoria il professore prova a demolire una de-finizione consolidata: “Milano capitale del volontariato”. «È unaleggenda. E lo affermo anche dal punto di vista della diffusionedel volontariato. Perché qui occorre fare una distinzione impor-tante: un conto sono le sedi di numerosi associazioni, un altro èla pratica del volontariato. Se osserviamo il numero di aderenti alvolontariato rispetto al numero di abitanti, Milano al confrontocon altre città, è in una posizione di bassa classifica. Sono le cit-tà di medie dimensioni quelle dove c’è più partecipazione asso-ciativa. Quindi quella di Milano capitale del volontariato è unabufala, che è parente stretta di quella che indicava Milano comecapitale morale. Anzi, in particolare, Milano si distingue per lacaccia ai rom e agli immigrati irregolari. Una linea dura che si èacuita negli ultimi anni per mezzo delle delibere contro la men-dicità approvate dagli enti locali che possono farlo grazie al con-senso elettorale ottenuto dalla popolazione».

Il discorso di Ambrosini scivola neanche troppo velatamente a unj’accusealla classe politica e al governo. «Questo visibile irrigidimentodei rapporti sociali è incentivato da una certa politica. Per fare unesempio, a Bergamo l’Ufficio della promozione della pace è stato tra-sformato in Ufficio per la sicurezza del territorio; e questo è emble-matico di ciò che sta succedendo in Lombardia, dove i temi della si-curezza stanno prendendo il posto dei temi della solidarietà».

Ma in questo tessuto sociale comesi comporta il volontariato milanese?«È certo che le associazioni lamentanouna crisi, soprattutto quelle con più tra-dizione. Oggi le persone sono meno di-sposte a prendere delle tessere ed è or-mai ricorrente, nei convegni e negliincontri, sentire questo lamento, cioè ladifficoltà a trovare volontari. Forse la re-altà non è tutta così perché in realtà c’èuna trasformazione del volontariatoverso forme più sporadiche, occasiona-

li, situazionali, non così vincolanti come quelle di appartenenza». Quindi il rapporto tra giovani e volontariato appare oggi più

problematico di un tempo. Da qualche anno, infatti, da più partiviene posta in dubbio la disponibilità dei giovani a dedicarsi gra-tuitamente agli altri, e quindi ad assicurare il ricambio genera-zionale delle risorse umane del mondo del volontariato. Su que-sta linea Ambrosini ha le idee chiare: «Per esempio, il Festivaldella letteratura di Mantova che dura alcuni giorni e richiede unvolontariato che non ha bisogno di tessere o appartenenze forti,coinvolge centinaia di giovani. E così altre manifestazioni legatead eventi che richiedono una partecipazione limitata nel tempocome disponibilità. Questo andamento è legato ad un aspettomolto diffuso nella nostra cultura contemporanea. La curiosità, lavoglia di esserci, nelle occasioni percepite come importanti, è in-dubbio che raccolga consensi. Mentre c’è difficoltà a coinvolgerein modo continuativo i giovani che faticano ad assumere delleidentità definite come appartenenza a qualche cosa. Così come èpiù difficile aderire ai partiti, ai sindacati, in generale alle asso-ciazioni e quindi al volontariato».

La colpa delle organizzazioni? L’eutanasia del ricambioNon ha dubbi Ambrosini, «il non profit milanese dovrebbe svi-luppare maggiormente una capacità di orientamento e di ascoltodella domanda di volontariato. In buona misura, il volontariato è“tolemaico”. Si pone cioè al centro e vuole che le persone girino in-torno a lui. Un centro che è definito dall’associazione, dalle suestrategie e dalle sue esigenze. Il volontariato di fatto cerca bracciaper mandare avanti il progetto dell’organizzazione e confermarnela leadership. Anche quando le associazioni dicono di fare orien-tamento, lo fanno tentando di convogliare i candidati verso se stes-si. Invece la strada da perseguire è un’altra: perché fare orienta-mento, vuol dire ascoltare che cosa le persone desiderano, che cosachiedono e proporre loro una gamma più ampia di possibilità».

A questo proposito il sociologo milanese propone un suggeri-mento: “Va sviluppata maggiormente un’idea di sperimentazione,proponendo delle giornate “A porte aperte”, così come si fa nel-le scuole o nelle facoltà universitarie. Le associazioni devono ca-pire che la proposta di volontariato è un servizio che si fa ai gio-

Una parte della classepolitica incentival’irrigidimentosociale: a Bergamo,l’ufficio dellapromozione dellapace è diventatoquello alla sicurezza,mortificando la solidarietà

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Ambrosinidossier maggio 2010

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vani per aiutarli a crescere. L’idea surrettizia, invece, è quella difarli venire nell’associazione e di metterli ai nostri ordini. Quin-di occorre una visione alta del proprio ruolo». E per dare ossige-no a questa visione alta bisognerebbe istituire una sorta di agenzieeducative ad hoc, che mettano a punto e predispongano dei percorsidi informazione e formazione nei quali i giovani possano fare espe-rienze di senso, di miglioramento di sé, di acquisizione di compe-tenze e di capacità partecipando alle attività di volontariato. «È veroche queste esperienze ci sono già, ma hanno un difetto: mancano diuna vera strategia, non seguono un percorso educativo strutturato. Diconseguenza per arrivare a questo traguardo la strada è ancora lunga.Ma il primo passo da compiere sarebbe quello anzitutto di incre-mentare la formazione dei responsabili delle organizzazioni. Su que-sto tasto a Milano e in provincia bisogna ammettere che siamo ca-renti. Infatti è evidente che quando si affronta l’argomento formazionesubito si risponde che essa è una priorità. Ma si omette di dire che lasi fa soltanto per volontari. E non per i dirigenti. O meglio, come si di-ce a Napoli, tutti pensano di essere “già imparati”».

Ambrosini, inoltre, vorrebbe allargare il cerchio della formazionecoinvolgendo anche altri organismi. Da qui la proposta di percorsimirati e opportunità di orientamento frutto di una collaborazione conaltri enti educativi, come le scuole e le università. «Occorre che il vo-lontariato faccia un investimento sulla propria capacità di accoglien-za e di accompagnamento nei confronti dei giovani e delle personeche vanno alla ricerca di qualcosa in cui impegnarsi. Emerge infatticon sempre maggior evidenza e insistenza che sono in tanti coloro

che vorrebbero investire capacità, risor-se, energie e tempo per gli altri, forsespinti da un semplice desiderio, daun’emozione, ma non sanno né comefarlo né spesso hanno una piena co-scienza del senso del loro impegno».

Quindi, al contrario di quanto spes-so si afferma, l’Italia non occupa una po-sizione di leadership per quanto riguar-da la cittadinanza attiva e il sentirsi parteviva del tessuto sociale. «Direi propriodi no - asserisce Ambrosini -. Guardia-

mo, per esempio, al mondo anglosassone, dove il volontariato ha unarobusta tradizione educativa, con un florido collegamento con scuo-le e università, e una predisposizione di percorsi che confluisconoanche in forme di servizio civile. Inoltre sono molto più elevati i se-nior, cioè le persone che arrivano alla pensione e che nell’ultima par-te della propria vita si dedicano al volontariato».

Le elite italiane disertano l’impegno nel non profitIn Italia, invece? «Il volontariato delle fasce qualificate è scarso. Leelite italiane disertano l’impegno nel non profit perché lo concepi-scono come un impegno da cattolici o da classe medio bassa che nonha niente di meglio da fare. Non gioca a golf non va in barca, e quin-di fa volontariato. All’estero non è così. Fare volontariato è un onoreper un ex dirigente, per un ex professionista. Poi ci sono molte azien-de che nel proprio codice etico prevedono attività nel Terzo settore peri propri quadri persino durante l’orario di lavoro. In Italia non esisto-no esperienze di questo tipo. Anzi, soprattutto a Milano vige una leg-ge non scritta che è “fatevi i vostri interessi!”. Ma correndo su questobinario si arriva a comportamenti assurdi e incivili come quello cheho vissuto in prima persona gareggiando alla corsa agonistica “Stra-milano”, dove c’erano le macchine in coda che suonavano e inveiva-no contro i maratoneti perché erano ferme a causa loro. Questo nonaccade in altre città italiane. A Firen-ze, a Napoli, ti applaudono, scendonodalla macchina e ti incitano. Questa èuna tipica sindrome milanese “devofare i miei interessi e chi mi ostacolami fa perdere tempo”. Fra le elite ita-liane resistono solo alcune sacche mi-noritarie, come i medici che svolgo-no lavoro volontario negli ambulatoricollegati alle mense dei poveri. E cheoltretutto si sono ribellati alla normacontenuta nel pacchetto sicurezzache li voleva obbligare a denunciaregli irregolari. Ma, seppur agguerrite,sono minoranze scollegate dal senti-re della gran parte dei cittadini».

Il primo passo da compiere sarebbequello di aumentarela formazione dei responsabili delle organizzazioni.Su questo tasto a Milano bisognaammettere chesiamo carenti

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M. AmbrosiniUn’altra globalizzazioneIl Mulino, 2008

M. Ambrosini, C. MarchettiCittadini possibili FrancoAngeli, 2008

M. AmbrosiniSociologia delle migrazioniIl Mulino, 2005

M. AmbrosiniScelte solidaliIl Mulino, 2005

M. Ambrosini, S. MolinaSeconde generazioniEdizioni della FondazioneAgnelli, 2004

M. Ambrosini, E. Abbatecola Immigrazione e metropoli Franco Angeli, 2004

GRANDANGOLO

Vitaledossier maggio 2010

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ICONFLITTI URBANI SONO SEMPRE STATI IL CAVALLO DI BATTAGLIA delle suericerche, al punto che è arrivato a studiare le politiche possibiliper un abitare gomito a gomito con rom e sinti. Ma nel mirino dei

suoi molteplici interessi di sociologo Tommaso Vitale, docente al-l’Università degli Studi-Bicocca, non manca di considerare il volonta-riato, a maggior ragione in questo periodo in cui una crisi galoppantenon investe soltanto l’economia ma anche le relazioni sociali.

Di certo la recessione è «più avvertita dalle persone dei cetipiù popolari rispetto a chi appartiene al ceto medio» spiega. Per

ceti popolari intende gli operai, op-pure coloro che rientrano nella sferadel settore impiegatizio dequalificato,cioè con un basso livello d’istruzione.«E occorre precisare che la stretta eco-nomica di questi mesi - chiarisce Vi-tale - è molto più percepita di quantonon si riscontra sulle pagine dei gior-nali, nei Tg, nei talk show televisivi e

nei notiziari radio, oppure da quanto espresso nei dibattiti dellaclasse politica locale e nazionale».

Per inquadrare il perimetro del problema, Vitale volge anzi-tutto uno sguardo al passato. «Quello che le ricerche sociologichefotografano e che dicono sul volontariato è che vi partecipano dipiù le persone che hanno una vita per così dire più complicata. Peresempio, per fare un confronto aderiscono maggiormente alle at-tività di volontariato le donne che hanno un lavoro rispetto alle ca-salinghe; partecipano di più le persone che hanno figli da accudirerispetto a quelle che non li hanno. E che dire poi dell’esercito deineopensionati. È fuor di dubbio che essi costituiscono una straor-dinaria risorsa, e che partecipano di più alle attività quella schie-ra di pensionati che hanno avuto una vita occupazionale e pro-fessionale più intensa, più piena, più appagante».

Di fronte a questi scenari, il ricercatore della Bicocca eviden-zia che i meccanismi della “partecipazione volontaria” si fonda-no su un modello che gli studiosi sono soliti chiamare di “cen-tralità”. Analizzando «la vita sociale emerge che più una personapone al centro della sua esistenza l’idea di avere un potere d’in-fluenza sulla propria vita, sulla vita altrui e anche sulla vita deipropri territori e sulla vita delle persone più in difficoltà, mag-giormente si attiva, si mobilita e si impegna».

Non solo sentimenti nella vocazione all’altruismo Facendo leva su questa tesi la riflessione si coniuga con «la do-manda sulla propensione alla solidarietà». Un tema che affrontatodal punto di vista della sociologia, e non in una prospettiva ideo-logica, morale o filosofica, fa emergere che la vocazione all’al-truismo e alla gratuità non è legata semplicemente a valori emo-zionali oppure a un sentimentalismo, ma è annodata «a elementiprofondi tali per cui le persone pensano di poter avere un’op-portunità di influenza sulla vita di qualcuno».

Ma ciò, per Vitale, costituisce una deriva pericolosa. Da qui sirischia di scivolare su due questioni preoccupanti. Primo: «Ognigenere di indagine che abbiamo a disposizione in Italia e all’esteroprova che non è mai stato vero che le persone si mobilitano dipiù quando si sta peggio, ma si mobilitano di più quando pensa-no che il loro ruolo sia più efficace, cioè quando ipotizzano che

Mi impegno ergo sumLa molla della gratuità? Il piacere di aiutare gli altri

Relazioni pericolose

«Alla sorgente dellasolidarietà - spiega Vitale - c’è l’idea di poter influirepositivamentesulla vita dellepersone che sono in difficoltà»

Vitaledossier maggio 2010

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mobilitandosi siano maggiori le opportunità di ottenere dei ri-sultati positivi». Secondo: «Non è il peggioramento di una con-dizione oggettiva che mobilita di più, ma è l’aprirsi di opportu-nità percepite dalle persone». Come dire: la miccia che innescal’impegno nel volontariato è una condizione culturale, soggetti-va, in cui si legge un’opportunità di poter fare qualcosa. «Non èil fatto di stare peggio in sé, ma è la lettura culturale della condi-zione che favorisce o meno la mobilitazione delle persone».

Se questo è vero, allora nella fase attuale un ruolo fondamen-tale lo giocano le organizzazioni di volontariato e, in particolare,quelle cosiddette “a ombrello”, cioè “quelle stratificate su più li-velli”. Tocca a esse favorire e premere per «una lettura del con-testo in termini di opportunità aperta». E se non viene messa inmoto questa manovra, che «è un’operazione d’investimento cul-turale, di ridefinizione del modo con cui il cittadino ordinarioguarda e attribuisce senso e significato al proprio agire potenzia-le, sarà poi molto difficile mantenere degli alti livelli di mobili-tazione dei volontari, che in Italia sono già più bassi rispetto adaltri Paesi europei».

Per il sociologo Vitale, un segnale positivo alla crisi lo ha datoil Cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, che ha istituto il Fon-do “Famiglia e lavoro”, ma quello che manca «sono iniziative dieffetto sull’opinione pubblica, che ridiano una lettura in terminidi opportunità aperte ed efficaci all’azione volontaria, che impe-gnino figure che siano più centrali nella società: persone che han-no uno stato lavorativo più consolidato, che hanno certezze, che

hanno un livello d’istruzione mediosuperiore».

Per quanto riguarda, invece, la ge-stione del tempo libero, non si hannodati recenti, ma sulla base delle ultimericerche a disposizione risulta che la so-cietà italiana e lombarda è contrasse-gnata da grandissime disuguaglianze.Lo conferma il fatto che anche nel Mi-lanese «c’è un’emergenza per le donnetra i 25 e i 44 anni causata dal grosso so-vraccarico di lavoro e dei compiti di cu-

ra dei figli e dei genitori anziani». Queste donne fanno una fatica im-mensa a conciliare professione e famiglia, in quanto «lavorano piùlontano rispetto a dove vivono, hanno tutti i carichi di cura e assi-stenza dei figli ma soprattutto dei genitori anziani che, tendenzial-mente, le aiutano meno rispetto a quanto avveniva anche solo die-ci anni fa, perché quegli stessi genitori sono invecchiati e hannomaggiore bisogno di aiuto. Questa tipologia di donne ha carriereprofessionali più atipiche e una richiesta d’impegno sul loro lavo-ro estremamente più intensa che in passato». Tale carico enorme diimpegni su molteplici fronti erode tutto il tempo a disposizione del-le donne in una fascia di età tra i 25 ai 44 anni, al punto che esse nonhanno più spazio per azioni di solidarietà.

La leva del mutualismo come ricetta anticrisiMa come la crisi economica ha mutato la “chiamata al volonta-riato”? «Cosa sia successo in questo periodo non lo sappiamo.Possiamo però delineare due traiettorie di tendenza. La prima, èun germe positivo verso il mondo del mutualismo che si sta svi-luppando e che è molto differente rispetto alla stagione altruisti-ca degli anni Ottanta e Novanta. Quello odierno è un mutuali-smo, nelle forme, più vicino a quello di inizio Novecento ed èrilevante perché sposa due caratteristiche: una è la socialità, l’al-tra la messa in comune del proprio bisogno. Una messa in co-mune che muove da un interesse personale e diventa una leva dimutualismo, quindi di solidarietà aperta». Un esempio? «Rife-rendosi ancora alle donne fra i 25 e i 44 anni, esse si aiutano vi-cendevolmente per trovare delle solu-zioni rispetto alle loro fatiche. Questaè una linea di tendenza importanteche inizia ad avere alcune traduzionieconomiche, dato che la gente comin-cia a mettersi insieme per acquistarebeni e servizi, diminuendo così il co-sto dei consumi. E in questa prospetti-va tale trend può rivelarsi positivo sela crisi dovesse protrarsi più a lungo».

«La seconda linea di tendenza -sottolinea ancora Vitale - è di progres-

Sempre meno donnenel volontariato? C’è una generazione fra i 25 e i 44 anniche tra lavoro, cura dei figli e assistenzadei genitori anzianinon ha più tempolibero da dedicare agli altri

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Uniti contro la crisi: la gente comincia a mettersi insieme per acquistare beni e servizi, riducendo il costo dei consumi.Una tendenza utile se la recessione non concederà nessuna tregua

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dossier maggio 2010

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siva dismissione delle attenzioni del volontariato nei confrontidegli ultimi, delle persone più svantaggiate, dei poveri, dei biso-gnosi. Le attenzioni del volontariato si calamitano invece verso fi-gure che sono considerate più meritevoli di aiuto, come malati,anziani o persone sole».

Così come si assiste a una piccola riduzione dell’impegno al-truistico nei confronti delle situazioni di disagio estremo. Si staverificando, per esempio, una riduzione dell’impegno in carcere,nei confronti delle prostitute, dei malati di mente, degli alcolisti.

L’architrave della coesione sociale? La quotidianitàIl sociologo dell’Università di Milano, infine, prova a smontare unluogo comune. «Spesso si sente ripetere fra i dirigenti del Terzo Set-tore che “le questioni serie, sono quelle drammatiche e tragiche”.Così dicendo però si presuppone che le cose poco serie sarebbero lasocialità ordinaria, come per esempio l’organizzare una gita per glianziani del quartiere». Per Vitale non c’è niente di più sbagliato chequesta equazione. «Questo tipo di letture emergenziali sono deva-stanti per la coesione sociale. Infatti i legami non si tengono uniti sol-tanto se c’è un’emergenza drammatica. La coesione sociale vive nel-l’ordinario, in un tessuto capace dipromuovere e valorizzare il protago-nismo dei cittadini nella vita di tut-ti i giorni. Solo così le persone nondiventano semplicemente deglispettatori. Perché è un dato di fattoche lo spettacolo del dolore non hamai mobilitato nessuno. Semmai hasuscitato, nel migliore dei casi, lapresa di parola di persone estrema-mente “centrali”, come i politici, manon ha mai mobilitato forme strut-turate di solidarietà. Lo spettacolodel dolore in sé e per sé arriva al cuo-re della pietà, cioè al corpo emozio-nale. Mentre il passaggio all’azioneè basato sulle dinamiche che abbia-mo affrontato».

E NTRA SUBITO NEL VIVO: «Non abbiamo bisogno di volontariprofessionisti. Piuttosto di persone che siano capaci di sta-re accanto ad altre persone in un luogo. E in quale luogo?

Un quartiere, un paese, una città, una porzione di territorio. Nonimporta il dove, ciò che conta è soddisfare un bisogno crescentedi prossimità reale. Una vicinanza e un aiuto concreti che perònon sono soltanto una concessione di beni; sono, soprattutto, unadisponibilità alla relazione». Ruota attorno a questo cardine la ri-flessione sul ruolo del volontariato in un tempo di crisi del peda-

gogista e formatore di Caritas Ambro-siana Raffaele Gnocchi. «Attualmentela funzione a cui sono chiamati i vo-lontari - spiega - è diversificata a se-conda di dove svolgono la loro espe-rienza, fermo restando il valorefondamentalmente culturale della lo-ro attività». Per questo ritiene che «ilvolontariato non debba necessaria-

Né professionisti né eroi Ma solo volontari attenti a chi gli è accanto

Altruismolowcost

«C’è da soddisfare - dice Gnocchi - un bisogno di prossimità. Una vicinanza chenon è tanto un dare,ma una disponibilitàalla relazione»

Luc BoltanskiLo spettacolo del doloreRaffaello Cortina, 2000

T. Vitale, R. TorriAi margini dello sviluppourbano. Uno studio su Quarto OggiaroBruno Mondadori, 2010

T. VitalePolitiche possibili. Abitare le città con i rom e i sintiCarocci, 2009

V. Haddock, S. Moulaert,Rigenerare la città. Pratiche di innovazionesociale nelle città europeeIl Mulino, 2009

web www.shakti.uniurb.it/rc21

gspm.ehess.fr

www.indiana.edu/~workshop

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Gnocchidossier maggio 2010

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mente dotarsi di strumenti di analisi concettuale». È più impor-tante che il volontario «capisca il momento storico, culturale e so-ciale nel quale vive e opera». Così come è fondamentale che «i vo-lontari facciano bene il proprio lavoro, per quello che ognunoriesce ad esprimere. Quindi tenendo fede alle proprie caratteristi-che, disponibilità e attenzioni».

Un’etica del fare che per Gnocchi si scontra inevitabilmente condue capisaldi della società odierna: la mania di perfezione e l’ansiada prestazione. «Nel mondo d’oggi - asserisce il pedagogista - guaia dimostrare i propri limiti. Tanto che quando ci si accorge di aver-ne vanno subito rimossi. Perché i nostri deficit, le nostre manche-volezze, le nostre debolezze sono considerati un ostacolo, un im-pedimento alla realizzazione personale». Il modello sociale vincenteè improntato alla produttività: «Dobbiamo essere sempre efficienti.Siamo quindi dentro, e non ce ne accorgiamo, a un modello e unostile di vivere che non è poi così umano».

Efficienza e perfezione: un modello sostenibile?Da qui però si apre una spinosa questione. «E se qualcuno non riu-scisse a stare dentro a questo modello? Se qualcuno non rispon-desse positivamente alle pressanti richieste che gli vengono fatte?Che succederebbe?», si chiede il pedagogista.

In questa prospettiva emerge che la crisi economica, con l’emor-ragia di posti di lavoro che ne è conseguita, con tanti single e fami-glie ridotti sul lastrico, con l’allargamento del cerchio della povertàa nuovi soggetti, emerge il dato di fatto che c’è qualcuno che non cela fa a rispettare quel paradigma di perfezione.

«Per cui, in questi ultimi tempi, abbiamo una schiera di perso-ne che si accorgono di vivere in un contesto che ormai non gli ap-partiene più», precisa Gnocchi. Un malessere psicologico e socialeche conferma come sempre più persone non riescono a reggere aquesta mania di perfezione ed efficienza e diventano invisibili. Per-ché non sono riconosciute come individui normali, non si sentonoriconosciute nel loro bisogno, e tanto più si sentono staccate da uncontesto che potrebbe dare loro risposte. «Non si sentono più ap-partenenti a un contesto cittadino, perdono ogni forma di relazio-ne». Il problema è potenzialmente più grave dato che il rischio di es-sere eclissati in questo cono d’ombra lo corriamo tutti, anche

l’ipotetico volontario. E in questo chiaroscuro si annida una nuovaforma di povertà che fa risuonare un allarme sociale davanti al qualele istituzioni non possono soprassedere. «Se guardiamo alle forme diurbanizzazione che si stanno realizzando da decenni, balza all’occhioche l’anonimato, la dimensione della non conoscenza fra persone, ildisinteresse verso gli altri, sembra che siano diventati una prassi quo-tidiana, una prassi consolidata». Di fronte a questa indifferenza dila-gante, Gnocchi disegna una nuova mappa dei bisogni che si snodasu due versanti: «Oltre alle povertà che scaturiscono dalla crisi eco-nomica e che pertanto si possono considerate delle forme di povertàinaspettate, si registra il fenomeno galoppante delle povertà di tiporelazionale. Allora la risposta non sta solo nel distribuire sussidi e so-stegni. Risulta evidente che l’erogazione di contributi da soli non ba-stano a dare una risposta, occorre anche creare occasioni che per-mettano alle persone di riallacciate delle relazioni, dei legami sociali».È vero che tali relazioni possono anche partire da un bisogno eco-nomico, ma è altrettanto vero che i sussidi da soli non riescono a ce-mentarle. Per rinsaldare i legami sociali occorre illuminarli, è ne-cessario farli emergere, aiutarli a sviluppare una capacità di richiesta,accompagnarli verso la luce. Di fronte a questo problema, «i serviziterritoriali pubblici dovrebbero rispondere ai bisogni che emergono,ma purtroppo ciò non succede», ammette Gnocchi. «Alla domandasul perché questo non accade - continua il pedagogista -, a me piacerispondere citando una frase del libro Dracula di Bram Stoker: “Lamorte corre veloce”. Mi piace questa affermazione perché analogi-camente la stessa cosa la si può riscontrare rispetto alla povertà».

«La povertà e le forme nella qualenoi la percepiamo - argomenta - corronocosì veloci che non facciamo in tempoa occuparci del problema dei nuovi po-veri che già questi nuovi poveri hannocambiato fisionomia e volto. Ecco per-ché, quello che in termini di flessibilitàe di tempestività non è possibile richie-dere al pubblico e ai servizi, dato chehanno risposte lente ai problemi, credopossa essere richiesto a un volontariatoattento alle relazioni».

Contro la povertà non bastano i contributi a pioggia, maoccorre anche creareoccasioni chepermettano allepersone in difficoltàdi riallacciare delle relazioni

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Alla fine conoscendo e scoprendo che la chiave di volta per usci-re dalla situazione della povertà è «la strutturazione di relazioni si-gnificative, questo lo si può chiedere alle organizzazioni di volonta-riato». Tenendo però presente che non servono strumenti particolari,ma la semplice «attenzione alla relazione in sé e a quello che ti staaccanto». Quindi se è vero che il volontariato è dentro a questo con-testo, allora l’essere volontari è «un’arma culturale capace di mette-re insieme degli estremi, cioè ha un effetto calamita che attrae i poliopposti: da una parte un individualismo molto spinto e dall’altra laricerca di un bene comune». Per Gnocchi, «siamo di fronte ad unaconcezione della vita molto egoistica», ma non tanto nel senso cheviene meno il gesto dell’elemosina, quanto nel fatto che c’è un vuo-to di cultura, un vuoto del dono. E in quest’ottica il volontariato, an-che a Milano e provincia, può giocare un ruolo cruciale, perché è lavera sfida da vincere per il futuro della nostra società.

Il volontariato “costruisce” persone responsabiliAddentrandosi nei dettagli il pedagogista milanese, prima di tutto af-ferma che «il dono in sé non è sparito». Poi, rimarca che «il dono èinsito nelle persone», tanto che «è un’esigenza fare e farsi del bene».Certificata tale premessa, allora occorre far entrare in campo il volon-tariato «come strumento culturale»: «Soltanto il volontariato riesce atamponare l’emorragia di senso che c’è nelle relazioni che sembranovotate a una rilettura meramente economica». Secondo Gnocchi, que-sta non è teoria è una pratica che «è possibile vivere e far vivere quan-do nell’accompagnamento formativo, oppure nelle esperienze, si rie-

sce a far capire che dietro i gesti, leazioni, le attività, le iniziative, c’è sempreuna relazione tra due o più persone.Quando c’è l’incontro tra due o più per-sone, saltano gli schemi di appartenenzaculturale, ideologica, religiosa, geografi-ca, nazionale, perché la persona è perso-na». E allora su questa riaffermazione delvalore delle persone in relazione fra lo-ro, si ha un’ulteriore chiave di volta perdire «al volontario che, per esempio, nonsolo sta meramente consegnando dei pa-

sti, ma sta anche affermando che è possibile riconoscere nel benefi-ciario non soltanto una categoria - i nuovi poveri -, ma delle personecon le quali gli è chiesto di entrare in relazione. L’azione volontaria for-ma delle persone capaci di essere all’interno della quotidianità, di co-struire un vicinato, di essere persone attente e responsabili. Questesono le persone che fanno la differenza nella nostra società. E il belloè che alla fine ti scopri volontario e non a fare il volontario».

Stringendo la visuale su Milano e la sua provincia, Gnocchi con-ferma come «il volontariato oggi stia esprimendo il meglio di sé, inun contesto come quello del capoluogo lombardo, dove c’è un’atti-vità lavorativa frenetica, un individualismo spinto, un egoismo evi-dente e crescente. Eppure ci sono schiere di persone che ricono-scono nella loro disponibilità a essere volontari la chiave di volta peresistenze più significative e interessanti».

Studioso dei fenomeni e dei problemi delle gravi emarginazionisociali, Gnocchi osserva che spesso «entro in contatto con tante per-sone disposte a fare volontariato, perché l’emarginazione è un’area diattività che catalizza molto l’interesse a soccorrere, ma devo dire an-che l’interesse a capire cosa stia succedendo. Il desiderio di com-prendere è forse mosso dalle domande che il dolore, la sofferenze deimeno fortunati, degli svantaggiati, delle fasce più deboli della popo-lazione sollevano. In questi anni ho incontrato tanti volontari che, ol-tre alla loro disponibilità, manifestavano una voglia di conoscere lecause, i motivi, le ragioni di quell’emarginazione». Non tutte le per-sone quindi rispondono con un semplice gesto di elemosina, tanti sipongono si interrogano e ci interrogano. «La formazione di ciascunodiventa l’occasione per fare una rilettura sull’opportunità di fareun’esperienza in una determinata area di bisogno, con determinati eurgenti problemi da risolvere, dotandosi anche di strumenti per com-prendere». Sugli scenari futuri del volontariato, Gnocchi è certo cheil domani non sarà diverso dall’oggi. Con un’eccezione però: «Il pas-saggio che le organizzazioni dovrebbero fare è il seguente: aprirsi mag-giormente ad accogliere persone con una disponibilità limitata di tem-po da dedicare al servizio degli altri». In sintesi: «Un volontariatomolto circoscritto». «Essere volontari oggi - conclude il pedagogista -è una missione e un compito alla portata di chiunque, è il naturalecompletamento dell’essere uomini e donne che abitano nella città diMilano e nel suo hinterland. Il volontariato è per tutti».

Siamo di fronte a una concezione della vita egoistica.Non tanto perchéviene meno il fare l’elemosina,quanto perché c’è un vuoto di cultura del dono

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«SONO STATO COME UN CAPOCORDATA in una scalata alpina,che inevitabilmente ha più visibilità sui mass media,ma la scalata è egualmente di tutti», ha detto di sé in

un’intervista per i suoi 90 anni. Sacerdote e partigiano, educato-re e vescovo. Fondatore della Caritas italiana («Non ho fatto al-tro che prendere un pullman che qualcuno mi ha messo in ma-no e guidarlo») e testimone instancabile del Vangelo.

Monsignor Giovanni Nervo è il “padre” nobile del volonta-riato italiano. La sua è stata una vita spesa tra iniziative assi-

stenziali, umanitarie e studi. Nel1964 istituì a Padova la FondazioneZancan - Centro di ricerca sulle po-litiche sociali e sui servizi alla per-sona - di cui è presidente onorario.La sua lunghissima biografia ha ac-compagnato, passo dopo passo, lanascita e la crescita del Terzo setto-re lungo tutta la Penisola.

Una supplica ai politici:«Ascoltate i poveri prima di ogni scelta»

Monsignor Nervo

In una situazione di crisi etica e politica, il volontariato ha il compito

e la responsabilità di collaborare al buonfunzionamento delle istituzioni,

portando nella vita di tutti i giorni il valore del servizio e della solidarietà

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‘’Prete e partigiano,educatore e vescovo,monsignor GiovanniNervo ha fondato nel 1971 la Caritased è consideratoil “padre” nobile del volontariato

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Nel 1971 ha fondato la Caritas italiana, seguendo l’inse-gnamento di Papa Paolo VI: «Creare un organismo che nonavesse solo un compito assistenziale ma anche pastorale e pe-dagogico». Sotto la guida di monsignor Nervo, la Caritas visseun passaggio epocale, culminato in due convegni: il primo nel1975, “Volontariato e promozione umana”; il secondo un an-no dopo, “Evangelizzazione e promozione umana”. Una du-plice tappa che spalancò le porte della società italiana ai pri-mi vagiti del non profit.

La sua capacità di stare in frontiera, soprattutto nell’ascolto enell’osservazione dei bisogni dei più poveri, facendo risuonareovunque la voce dei dimenticati, ha portato monsignor Nervo,ancora oggi, superata la soglia dei novant’anni, a suggerire scel-te politiche che mettano al centro i diritti, la dignità e la promo-zione della persona. Dalle pagine dei suoi libri (segnaliamo inparticolare Ha un futuro il volontariato?, edizioni Dehoniane) tra-spare il racconto di un prete in prima linea alla ricerca di rispo-ste concrete ai bisogni dell’uomo contemporaneo. Di recente,monsignor Nervo ha ricevuto due lauree ad honorem (in econo-mia e in scienza dell’educazione) a sigillo della riconoscenza do-vuta a un maestro di vita, di fede, di carità.

* * *

È opportuno richiamare ancora una volta il significato «autenti-co» di volontariato, cioè servizio spontaneo, gratuito, perché ne-

gli ultimi decenni si è dato un signifi-cato molto ampio e indeterminato altermine volontariato, comprendendoqualsiasi espressione spontanea di so-lidarietà della società civile.

Questa precisazione è necessariaperché ad esempio la crisi economi-ca non ha inciso sui «servizi legge-ri» basati sul rapporto, anzi puòaverli sollecitati e valorizzati; men-tre certamente avrà influito sullacooperazione sociale, che molte vol-

te è stata confusa con il volontariato. Le cooperative sociali, in-fatti, sono imprese sociali e si basano normalmente su con-venzioni con gli enti locali.

La crisi economica ha diminuito le risorse e molto spesso i ta-gli vengono fatti sul sociale, che è il settore più debole e ha me-no capacità di fare resistenza.

Comunque la crisi economica ha indotto molto spesso il vo-lontariato ad assumere un ruolo di supplenza dell’ente pubblicoe quindi ad offrire ai cittadini un segno di benevolenza e solida-rietà sociale con servizi dovuti per giustizia.

In situazioni di emergenza è proprio del volontariato assu-mere anche il ruolo di supplenza, per non lasciar mancare ser-vizi essenziali ai cittadini. Però bisogna distinguere con chia-rezza le situazioni di emergenza e le situazioni di normalità.La durata della emergenza deve essere limitata nel tempo al-l’indispensabile.

C’è chi sta preparando un film sul terremoto dell’Abruzzo.Nella notte del terremoto e nei giorni successivi ci fu a L’Aquilaun consistente afflusso di volontari per aiutare ad estrarre le per-sone sepolte dalle macerie e per dare assistenza ai sopravvissuti.

Riscopriamo il ruolo politico del non profitIl volontariato completò con grande abnegazione ed efficacial’opera della protezione civile. Il suo intervento non era di sup-plenza, ma di integrazione.

Dieci mesi dopo il terremoto però le macerie nel centro del-l’Aquila erano ancora intatte. La pro-tezione civile e gli enti locali avevanoimpegnato tempo e risorse per co-struire gli alloggi temporanei e toglie-re le persone e le famiglie dalle tendee dagli alberghi. La popolazione però,per avere stimolo e coraggio per parti-re per la ricostruzione, aveva bisognodi vedere rimosse le macerie dal cen-tro della città. E qui nacque il «popo-lo delle carriole», una singolare formadi volontariato, che coinvolse tutti i

Occorre richiamare il senso autentico, di volontariato, cioéservizio spontaneo,gratuito; perché negli ultimi decenni nel suo significato si è compresa ogni azione di solidarietà

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Dopo il terremoto, a L’Aquila è nato il “popolo dellecarriole”: una formadi volontariato, che è un’azione di supplenza delle istituzioni e di stimolo allaclasse politica

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cittadini, compreso il vescovo, in una azione che è insieme sup-plenza, integrazione delle istituzioni, stimolo politico.

In una situazione di crisi economica, poi, assume una parti-colare importanza il ruolo politico del volontariato.

Crisi economica significa scarsità di risorse. Ma proprio quan-do sono scarse le risorse occorre curare bene le priorità, cioè l’at-tenzione ai bisogni più urgenti e alle persone più deboli, gli ulti-mi della fila. Il volontariato, che è a contatto con i bisogni dellagente, è chiamato per sua vocazione naturale a farsi voce dei piùdeboli e a richiamare le giuste priorità a loro tutela nella destina-zione delle risorse. Non è compito del volontariato fare le sceltepolitiche del Paese, ma influenzarle secondo giuste priorità.

Crisi economica e crisi etico socialeAd esempio, che senso ha investire ingenti risorse nel ponte diMessina, mentre i paesi della Sicilia vengono travolti dalle franee dalle macerie per la mancanza di cura del territorio?

Le università continuano a laureare geologi, che vanno ad ac-crescere il numero dei disoccupati, mentre un numero elevato dicomuni sono esposti al disastro idrogeologico per mancanza dicompetente manutenzione.

La crisi economica del nostro paese, poi, si accompagna aduna profonda crisi etico sociale, che può mettere a rischio la stes-sa democrazia.

Indro Montanelli parecchi anni fa, in una intervista a Rai2, fuinterrogato dall’intervistatore: «Lei è stato fascista?» «Sì, rispo-

se, sono stato fascista. Ero giovanegiornalista a Firenze. Mi chiamano altelefono da Roma. All’apparecchio lostesso Mussolini mi invita a Roma».Racconta poi la sua vicenda con lui econclude: «Fu detto che Mussolini èstato il boia della democrazia in Ita-lia; io sono convinto che sia stato ilbecchino della democrazia in Italia,perchè nel 1922 la democrazia in Ita-lia era già morta». E aggiunse: «Pertanti aspetti la situazione di oggi non

è molto diversa da quella del 1922». E portò questa ragione:«Quando le istituzioni vanno al di sotto di un certo funziona-mento, la gente perde la fiducia nelle istituzioni, si arrabbia e seviene avanti un uomo forte che promette di mettere a posto le co-se, trova molti che gli vanno dietro». In questa situazione di cri-si etica e politica il volontariato ha il compito e la responsabili-tà di collaborare al buon funzionamento delle istituzioni,portando nella vita di tutti i giorni il valore del servizio, dellasolidarietà, della giustizia sociale, dell’amore del prossimo pro-pri di un volontariato autentico.

Il volontariato, che è a contatto con i bisogni della gente, è chiamato per suavocazione a farsicarico dei più debolie a richiamare alla giuste priorità la destinazione delle risorse

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G. NervoHa un futuro il volontariato? EDB, 2007

G. NervoStato liberale o stato sociale? Edizioni Messaggero di S. Antonio, 2009

G. NervoLa solidarietà. Uno per tutti,tutti per uno Edizioni Messaggero di S. Antonio, 2008

G. NervoTerzo sistema o terzo settore? Edizioni Messaggero di S. Antonio, 2009

A. Prezioso Le politiche sociali in Italia:una storia, un testimone.Interviste a Giovanni Nervodella Fondazione ZancanEDB, 2001

web www.fondazionezancan.it

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Venezianidossier maggio 2010

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UNA LETTURA SUPERFICIALE, univoca e, quindi, errata. «AMilano e nella sua provincia c’è stata una sottovalutazionedegli effetti provocati dalla crisi economica e dei danni che

essa ha causato al benessere dei cittadini, alle relazioni sociali eall’autostima delle persone», afferma Sergio Veneziani, portavocedel Forum del Terzo settore della Lombardia e presidente di AuserLombardia. E subito precisa: «Tutti hanno considerato questa crisicome ciclica e storica: ma non è così. È diversa da tutte le altre ein quanto tale richiede risposte diverse, non convenzionali».

«Piccolo non è utileBisogna tessere una rete per salvare il welfare»

Veneziani

Il peccato è stato all’origine. PerVeneziani il passo falso è statocommesso quando si è ipotizzatoche il tracollo economico-finan-ziario scaturito dal 2008 in avantinon incidesse sul tessuto sociale eche pian piano si potesse risolvere.«Un approccio sbagliato - dice -.Sicuramente da questa crisi siuscirà, ma quello che attualmente

Il crack è penetrato nelle relazioni umane, e ora come uscirne? Se ne esce solamenteinsieme, restando uniti,perché individualmantepurtroppo non si va ùda nessuna parte

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non siamo ancora in grado di sa-pere è come il tessuto sociale usci-rà da questo tunnel».

Secondo Veneziani solo l’ar-civescovo di Milano, il cardina-le Dionigi Tettamanzi, non hasottovalutato gli effetti della cri-si, tanto che ha posto al centrodella sua azione pastorale il pro-blema del lavoro, le cui conse-guenze sul piano psicologico esociale sono devastanti. «Anchese una persona non perde il po-sto di lavoro, ma va soltanto incassa integrazione, passa da unreddito di 1.200-1.300 euro almese a uno di 800 euro. Ebbenequesta persona si trova di colpoin una situazione di povertà e inpiù patisce uno stigma socialenegativo tremendo, perché è in-dubbio che attraverso il lavorouna persona si realizza, anchenella propria comunità».

Mentre adesso serpeggiano pau-

ra e vergogna fra chi è disoccu-

pato o precario.

Sì. E inoltre le persone cercano dinascondere la propria situazione,con un abbassamento complessi-vo della qualità della loro vita edelle comunità in cui vivono.

La crisi è penetrata dentro il tes-

suto collettivo e nelle relazioni

umane, come uscirne? Con qua-

le ricetta?

Non ho la soluzione, però houn’idea: se la situazione è questa,se ne esce solamente insieme,stando uniti, perché individual-mente non si va da nessuna parte.

Quindi chi può dare una risposta o

chi può alleviare il senso di males-

sere, disagio e frustrazione delle

persone che perdono il lavoro?

Solo una comunità accogliente.Quell’autostima che le personenon riescono ad avere attraversol’attività lavorativa, la possonoavere da una comunità attiva, at-tenta, che non li fa sentire soli, cheli aiuta a sopportare una parente-si difficile. La risposta, proprioperché è di senso, la può dare so-lo la comunità. Che può essere ilquartiere, il paese, la piccola città.Esistono dei terminali sul territo-rio che sono in grado di percepiree comprendere questi bisogni.

Se il problema diventa una rispo-

sta collettiva, bene; altrimenti

chi non ce la fa “si arrangi!”.

Non c’è nessun altra possibilità.Una comunità che fa coesionecrea anche i presupposti per per-mettere al singolo in difficoltà dipoter riemergere.

Questo è quello che si potrebbe

fare e che invece manca.

Ad una comunità con queste ca-

Per Veneziani, portavocedel Forum del Terzosettore, c’è stata una sottovalutazione degli effetti della crisi e dei danni che hacausato nell’autostimadelle persone

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re - che inevitabilmente si dovrà ri-costruire perché si dislocano di-versamente le risorse – e che saràuno Stato sociale dentro il quale lereti del Terzo settore diventerannodei soggetti non solo integranti madei soggetti integrati. La nostra co-munità vivrà meglio o peggio se isoggetti, cioè l’autorganizzazionedei cittadini, diventerà un pezzodel modello di sviluppo del terri-torio. Questo è sostanzialmentequello che immagino avverrà. In al-tre parole, bisogna fare un saltodalla legittima difesa orgogliosadelle proprie peculiarità, ad unamessa in comune di queste pecu-liarità. In questo modello ognunocontinua a fare quello che fa e lo fa-rà anche meglio a patto che peròinsegni qualcosa a qualcuno e im-pari a sua volta.

Il volontariato ha le capacità, è

preparato, ha le competenze per

partecipare a questo modello di

Welfare?

In questo momento, no. Ma non èun “no” definitivo. Certo anch’ioho difficoltà in qualità di presi-dente a partecipare ai tavoli diprogrammazione perché bisognaessere esperti, competenti. Manon è questo il problema. L’osta-colo che dobbiamo superare è lacostruzione della rete e come rea-lizzarla. Ma dove non riesce lapiccola associazione da sola, ciriesce una rappresentanza co-struita assieme, ossia ci riesce larete. Se si entra nei terreni del-l’autoprogrammazione (piani dizona, Asl, tavoli tematici, tavoli

del Terzo settore), chi vi parteci-pa, rappresenta, conosce, pro-muove e sostiene quello che av-viene sul territorio, allora anche lapiccola associazione di tre volon-tari diventa un patrimonio.

Ma il volontariato, secondo lei,

ha la percezione dell’importan-

za della rappresentanza, della

partecipazione?

Come ho detto prima penso chesia ancora molto forte la culturadel fare rispetto a quella della re-te e, quindi, è faticoso capire que-sto passaggio. Ma il quesito, a mioavviso, va posto in modo diffe-rente: quando si definiranno inuovi modelli di Welfare, quandosi comincerà a mettere in discus-sione diritti consolidati ma nonpiù garantiti, solamente allora sicapirà l’importanza dell’annoda-re legami saldi, perché non c’è al-ternativa. Saremo con le spalle almuro: o si seguirà questa stradamaestra, percorrendo la via dellacoesione fra persone e associazio-ni, oppure saremo tagliati fuori.

È vero che, volendo muovere una

critica al volontariato, si può ac-

cusarlo di una scarsa visione

d’insieme, però è altrettanto ve-

ro che il volontariato non è in al-

cun modo “ingabbiabile”.

Il valore vero del volontariato èche gruppi di persone si mettonoassieme, poiché sanno che ci sonodei bisogni e cercano di darvi del-le risposte. Sono pienamente d’ac-cordo che è sbagliato limitare lacapacità di autorganizzazione dei

ratteristiche devono concorreretutti, nessuno escluso. Anzi, ognu-no faccia la sua parte: sindacato,parrocchie, associazioni di volon-tariato, enti di promozione socia-le, cooperative. In sostanza, è fon-damentale la partecipazione deicittadini alla ridefinizione del tes-suto sociale. Sembrano frasi fatte,però si possono tradurre in realtà.

Qual è il limite che in questa cri-

si ha avuto e sta avendo il vo-

lontariato?

Ha prevalso la cultura del fare ri-spetto alla cultura del capire, delcomprendere quello che stavasuccedendo nella società. Ognunodi noi è abituato a dare risposte al-le emergenze, come per esempioil terremoto in Abruzzo. E questoè relativamente facile: perché è unmeccanismo che mette in campocultura, tradizione, modi di lavo-rare già collaudati. Ma il problemavero è la quotidianità. La qualità ela maturità del volontariato inLombardia e nel Milanese non simisurano con le emergenze, per-ché per quelle le coscienze si mo-bilitano. Il volontariato, invece, si

misura tutti i giorni con le emer-genze delle persone.

Cosa prevale quindi dentro

l’idea del volontariato?

Che l’importante è il fare e la rela-zione, ma la relazione se non hauna dimensione più grande fini-sce e si esaurisce in quell’atto chestai facendo. Questo è il limite, ildifetto che ancora ha il volonta-riato. E questo problema si superaattraverso non la rinuncia al fare,ma attraverso l’inserimento del fa-re dentro una rete più grande, do-ve il fare di ognuno diventa un pa-trimonio per tutti, e tutti possonoinsegnare a tutti come fare,

In economia si direbbe “fare si-

stema”.

Ritorniamo al concetto che, se ioaiuto te e la mia azione si esauri-sce in quel gesto, allora ha pocopeso, poca forza, ha un senso ri-dotto ai minimi termini. Ma, sequello che faccio diventa patrimo-nio, diventa rete, pian piano ci sisposta sulla risposta al problema.

A suo dire, questo sarebbe il

grosso limite del volontariato. La

sua è quasi un’autocritica.

Sì, perché sono anch’io presiden-te di un’associazione di volontaria-to. Ma la verità, è che ognuno indi-vidua degli spazi piccoli, quelli delsuo intervento, del suo fare e ne ègratificato, ha una corrispondenzadiretta perché ha una relazione conle persone, poi però tutto finisce lì.Adesso, invece, stiamo andandoverso un nuovo modello di Welfa-

La qualità del volontariato non si misura con le emergenze, per quelle le coscienze si mobilitano.Ma il volontariato si misura tutti i giorni di fronte alle emegenze delle persone

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per la comunità. Ma se queste so-no le previsioni come cambierà lasocietà? Per esempio, nel miopaese, quando sono nato, c’erano2.500 abitanti, di cui 600 bambinie 25 anziani. È chiaro che la so-cietà si era organizzata per dareuna risposta ai bambini; in quellostesso paese fra 25 anni la situa-zione si sarà ribaltata: ci saranno600 anziani e 25 bambini. Alloraquei 600 ultrasettantacinquennipossono essere una risorsa per lacomunità? Ritengo di sì, al puntoche potrebbero offrire una manoalle giovani coppie accudendo iloro figli quando mamma e papàlavorano. Con questo voglio direche occorre promuovere il volon-tariato, ma su una visione ancora-ta alla società, con scenari e mo-delli attuali. Il volontariato deveabbandonare un ruolo caritatevo-le e spingersi verso un ruolo dipromozione della qualità della vi-ta delle comunità.

C’è, a suo modo di vedere, una

crisi del volontariato giovanile?

Né più né meno di prima. Il pro-blema è il numero di giovani pre-senti nella nostra società. Se pri-ma c’erano mille giovani e il dieciper cento faceva volontariato, il ri-sultato erano cento volontari. Og-gi la realtà è cambiata: ci sono cen-to giovani, il dieci per centocontinua a impegnarsi, ma il ri-sultato è diverso, perché sono ap-pena dieci i giovani che fanno vo-lontariato. Penso che rispetto alpassato, non c’è né maggiore néminore voglia di fare volontariato,

semmai ci possono essere oppor-tunità diverse di farlo.

Cioè l’azione volontaria va inse-

rita in una visione del futuro?

Esattamente. Da sempre i giovanipensano di avere il futuro in ma-no, hanno energie, entusiasmo, ot-timismo; così sono portati anche adare una mano agli altri, Ma la re-altà è mutata: oggi un giovane lau-reato che si barcamena con con-tratti precari e a malapena arrivaa guadagnare uno stipendio di 800euro al mese, ritengo che abbia po-ca voglia di impegnarsi gratuita-mente.

Il volontariato è congiunto con

la fiducia nel domani

È uno sguardo di prospettiva chelimita la partecipazione al volon-tariato dei giovani. Perché parlia-mo di un’attività che fa diventarecittadini attivi, che fa pensare a unfuturo per sé e per gli altri.

cittadini. Ma il nodo da sciogliereè quello di riuscire a riempire diun senso le cose che si fanno; euna volta dato un senso, costruireuna rete. Ma guai se non difendes-simo la capacità di autorganizza-zione, vorrebbe dire far venir me-no la ragione del volontariato.

La mission del volontariato è

l’aiuto alla persona, ma questa

relazione si dà dentro a un Ter-

zo settore forte, strutturato e or-

ganizzato. Come coniugare que-

sto obiettivo, con un calo dei

volontari registrato dalle asso-

ciazioni di Milano e provincia?

Certo i volontari non si possonocercare per mezzo di un annunciopubblicitario. Per esperienza per-sonale, posso dire che nella nostraassociazione abbiamo costruito unprogetto di reclutamento che si in-titola “Vi stiamo cercando”. I ri-sultati sono stati positivi, tantoche laddove l’abbiamo proposto,abbiamo trovato persone dispostea impegnarsi. Altro problema in-vece è che, dopo averli reclutati, ivolontari vanno gestiti, a comin-ciare dal dirgli cosa fare.

Resta una questione aperta, co-

sì sintetizzabile: diminuiscono i

volontari ma è ancora possibile

promuovere le attività di volon-

tariato.

Rispondo con una provocazione:in futuro una persona dovrà fareil volontariato per scelta o per-ché non ci sono alternative sevuole difendere un modello diwelfare che ponga al centro lapersona, se vuole difenderel’esercizio dei diritti, se vuole di-fendere la qualità della propriavita. Piuttosto che un impegnoper necessità, preferisco una so-cietà nella quale una persona favolontariato per piacere, perchédà un senso alla vita, perché ègratificante. E lo verifico nellamia esperienza: i primi avvan-taggiati dal volontariato non so-no quelli che usufruiscono delservizio, ma sono coloro che fan-no qualcosa per gli altri.

C’è poi un difetto di visibilità sui

mass media: il volontariato rim-

balza su tv e giornali soltanto

quando è direttamente coinvol-

to nelle emergenze, come un

terremoto; mentre il volontaria-

to non è solo lo straordinario,

ma soprattutto è l’ordinario.

C’è in questo un problema di co-municazione da parte del volon-tariato, ma c’è anche un problemadi visione della società. Attual-mente in Lombardia ci sono870mila ultra settantacinquennie, secondo le statistiche, nel 2025saranno 3 milioni. Una situazio-ne difficile sia per il lavoro che

In futuro una personadovrà fare il volontariatoper scelta o perché non ci sono alternative se vuole difendere un modello di welfare che difenda la qualitàdella propria vita

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La condizione sociale degli anzianiAuser, marzo 2010

III Rapporto Enti Locali e TerzoSettore, Auser, marzo 2010

49° Rapporto sulla situazionesociale del Paese, Censis 2009

Il futuro del volontariatoFondazione Zancan, 2009

Dall’adattamento all’exaptationUn Mese di Sociale 2009/4, Censis

S. Gould, E. S. VrbaExaptation. Il bricolagedell’evoluzioneBollati Boringhieri 2008

webwww.forumterzosettore.it

GRANDANGOLO

Lunghidossier maggio 2010

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«IBISOGNI DELLE FAMIGLIE AUMENTANO, ma i servizi pubbli-ci subiscono continue sforbiciate e questo provocaun’impennata delle richieste di aiuto al mondo del vo-

lontariato». A fare una radiografia della crisi e delle sue millecode è Emilio Lunghi, presidente dell’Auser provinciale di Mi-lano ed ex vicepresidente di Ciessevi, la galassia di riferimentoper cinquantacinque associazioni che operano sul territorio.

Le risorse scarseggiano e, come le famiglie tirano la cinghia,anche il volontariato arranca sotto i colpi della recessione. A pre-

occupare, però, non è solo l’aspettoeconomico. È anche l’altro lato dellamedaglia, quello che porta con sé im-ponenti ricadute sociali: «Sempre piùvolontari - è l’allarme di Lunghi - so-no costretti a ridurre il proprio impe-gno verso gli altri per dedicarsi di piùalla propria famiglia. Anche se la vo-glia di aiutare c’è ancora, la mancanza

di tempo e le ristrettezze economiche spingono i volontari a pren-dersi una pausa». Figli, genitori, lavoro tornano, dunque, a esse-re le priorità, anche per chi ha fatto della propria vita un emble-ma del servizio ai più bisognosi.

Di fronte a questa “emorragia di altruismo” il rischio di unacrisi valoriale è in agguato. «In questo periodo - ne è convintoil presidente dell’Auser milanese - i disvalori sono aumentatie il volontariato, purtroppo, non è stato capace di arginarli. Larete delle associazioni non profit, insomma, non è riuscita a fa-re diventare più pregnante la cultura della solidarietà e del-l’aiuto reciproco». E qui, l’autocritica è d’obbligo, secondo Lun-ghi, sempre più convinto che la grande sfida del volontariatosia quella di andare oltre il semplice concetto del fare, del met-tersi a disposizione degli altri. «Incontrando a più riprese re-sponsabili e volontari delle associazioni affiliate ad Auser -spiega - mi sono reso conto che si tende sempre a privilegiareil fare, trascurando però la consapevolezza del perché si fac-cia, ovvero del fine ultimo del volontariato: costruire una ca-tena solidale che abbia nel volontario e in chi riceve l’aiuto idue anelli imprescindibili».

In questa catena, però, non deve mancare un terzo anello, quel-lo delle istituzioni, che è fondamentale per recepire e soddisfarequei bisogni di cui il volontariato, da solo, non può farsi carico.

«Il volontariato ha senso se favorisce la socializzazione del-le persone, oltre ad aiutare chi è in difficoltà. Non può e nondeve sostituirsi all’istituzione, erogando un servizio. Dobbia-mo fare nostri questi principi - sostiene Lunghi -, altrimentil’azione del volontario si riduce a una prassi, a un’esperienzache si ripete quasi meccanicamente ma che di fatto porta a per-dere di vista il senso stesso del donarsi agli altri». E se si per-de la bussola il rischio in cui si incappa è la “fuga” del volon-tario, fenomeno che, complice la crisi, si sta ampliando. «Nondimentichiamo che aiutare chi è in difficoltà è anche una tera-pia per il volontario stesso», evidenzia il presidente di Auserprovinviale di Milano. È proprio questo lo slogan forte che bi-sognerebbe trasmettere ai giovani per coinvolgerli nei progettidel Terzo settore e dell’universo non profit.

E per appassionarli, asserisce ancora Lunghi, bisogna render-

L’emorragia di altruismosi cura passando dal farealla coltura del pensiero

Il senso perduto

Lunghi di Auserlancia l’allarme: sono in aumento le richieste di aiuto,ma i volontari sonocostretti a ridurre il loro impegno permancanza di tempo

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dossier maggio 2010

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li protagonisti. «Il volontariato deve sempre più mettere sul piat-to un ventaglio di proposte interessanti, con associazioni dotatedi una struttura efficiente e qualificata, capace di leggere gli in-teressi, i desideri e le vocazioni delle nuove leve di modo che ta-le che non restino soggetti passivi. Ma siano una risorsa preziosae utile per soddisfare i bisogni che emergono dal tessuto sociale».

Non ci sono solo i giovani, però, all’orizzonte della nuovafrontiera del volontariato. La sfida, in futuro, sarà anche quelladi razionalizzare sempre più unagalassia di realtà non profit cheproliferano a dismisura e che ri-schiano di far collassare il sistemastesso che sta alla base dell’impe-gno gratuito. «Sono molto preoc-cupato - mette in allarme Lunghi -dalla crescita esponenziale del nu-mero di organizzazioni che si staverificando da alcuni anni a questaparte». Il sovradimensionamentodel numero di organizzazioni, se-condo l’ex vicepresidente di Cies-sevi, conduce inevitabilmente «aduno spreco di energie e di risorse.Perché, se tante sono le realtà esempre meno le risorse a loro di-sposizione, la torta dei finanzia-menti dovrà essere tagliata in pic-cole fette».

Risultato? «Gestire un’associa-zione che si occupa di volontariatodiventerà ancor più un percorso aostacoli fra tagli di spese e acroba-zie per far quadrare i bilanci. E a ri-metterci - ammette Lunghi - saràproprio il volontario, la cui dispo-nibilità rischia di venir meno se losi costringe a diventare una sorta di“operaio” del sociale».

«C ERVELLI» IN FUGA, ANCHE NEL VOLONTARIATO. Lo dice il ter-mometro sociale, quello che misura la febbre dei merca-ti post-crisi economica e i suoi effetti sulla società. Ma lo

testimonia anche un protagonista del non profit che da anni si oc-cupa, nel Milanese, dei problemi delle persone con disabilità.

Guido De Vecchi, infatti, è il presidente dell’Associazione Fami-glie Persone Disabili di Rozzano (Milano), è membro di “Ledha”, laLega per i diritti delle persone con disabilità, e consigliere di Ciesse-vi. E lancia un allarme: «Nel nostro Paese, la crisi economica sta

strappando ogni speranza professiona-le ai giovani, costretti a rifugiarsi al-l’estero per proseguire gli studi o trova-re un impiego. Questo induce leassociazioni di volontariato che poteva-no contare su nuove leve a rinunciare auna risorsa preziosa per la loro attività».E il calo dei giovani volontari non sem-bra arginarsi: «Con questo buio econo-

Puntiamo sugli under 25:un patentino sociale per le leve del futuro

Strategia anti-fuga

De Vecchi (Ledha),propone moderne soluzioni per incentivare le nuove generazioniad avvicinarsi al volontariato

Le sfide dell’Italia che scommette sul futuroLibro verde del terzo settoreForum del terzo settore,febbraio 2010

Luigino Bruni, Ethos del mercatoUn’introduzione ai fondamentiantropologici e relazionalidell’economia Mondadori Bruno, 2010

Paolo VenturiVolontariato e felicitàMeltemi Express, 2009

L. Becchetti Oltre l’uomo economicoCittà Nuova, 2007

Zygmunt BaumanVita liquida, Laterza 2006

U. Beck, La società del rischioVerso una seconda modernitàCarocci, 2001.

Laura Pravisano, Altri noi.Identità e migranti: individui,comunità e associazioniIl mulino, 2009

Pierpaolo Donati e Luigi TroncaIl capitale sociale degli italiani:le radici familiari, comunitariee associative del civismoF. Angeli, 2008

Mauro Moruzzi, Internet e sanità:organizzazioni e managemental tempo della reteFranco Angeli, 2008

Filippo BarberaLa ricerca socio-economica tra politiche pubbliche, interessi economici e società civile, Franco Angeli, 2009

GRANDANGOLO

De Vecchidossier maggio 2010

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mico che ci avvolge - spiega De Vecchi - i giovani non sanno più dache parte andare. E nella maggior parte dei casi scelgono di alzare losguardo al di fuori dei confini italiani, per partecipare a corsi uni-versitari o a scambi culturali attraverso i progetti Erasmus. Lascian-do casa e le attività che qui praticano, dallo sport ai momenti in cuisi dedicano agli altri. Questo provoca un vuoto insostituibile nella no-stra rete di associazionismo».

Proprio per centellinare questa fuga, De Vecchi propone nuovesoluzioni per “coccolare” le nuove generazioni di volontari e incen-tivarle ad avvicinarsi al mondo del non profit: «Bisognerebbe - è lasua idea - garantire ai giovani che fanno volontariato dei benefit, unasorta di riconoscimento sociale per l’attività che svolgono». Un bo-nus, insomma, un incentivo per chi si prende cura degli altri all’in-terno di un’associazione o di una realtà assistenziale strutturata. Esu come realizzare concretamente queste idee, l’esponente di Ledhaabbozza già alcuni contenuti: «Sarebbe corretto - fa un esempio - chechi ha l’incarico di amministratore di sostegno volontario sia dotatodi un tesserino che gli permetta, per esempio, di evitare le code al-l’Asl». De Vecchi non lo reputa «un gesto clientelare, ma un sempli-ce attestato che riconosce il ruolo civico svolto dal volontario».

Anche perchè il volontariato, a suo avviso, è «il più alto impegno“politico” del cittadino». «Spesso vengono pubblicate delle ricerche- chiarisce - in cui il volontario è dipinto come un frustrato, comeuna persona che si rifugia in questo mondo per carenze personali, af-fettive o psicologiche che siano. Ritengo che questo atteggiamentosia profondamente offensivo e privo di ogni fondamento».

Chi si dedica ai più bisognosi svolge un ruolo importantissimo, se-condo il presidente dell’associazione di Rozzano, «A differenza deipolitici che si occupano di amministrare il bene pubblico in terminieconomici, noi ce ne occupiamo in termini culturali e di relazione conle persone». E se davvero il volontario riveste un ruolo primario nellasocietà, allora «bisogna trovare delle formule per fare in modo che lepersone si sentano onorate di fare i volontari». La strada del bonus, se-condo De Vecchi, è una di quelle più percorribili, anche se si tratta «diuna grossa operazione culturale, che necessita l’appoggio dei vari livelliistituzionali. Altrimenti queste proposte restano delle gocce nel mare».

Ma per portare nuova linfa al volontariato è sempre più vitaleche la galassia delle sue associazioni si mettano in rete. «Dobbiamo

contrastare l’autocelebrazione - ammette - e lavorare di più per la re-te, più che l’eccellenza è bene alzare l’asticella della normalità nei no-stri territori». Fare squadra diventa dunque la parola d’ordine. «Sa-pere di far parte di una comunità più grande aiuta e dà la forza perandare avanti nelle battaglie sociali». In primis, nell’accaparrarsi i fi-nanziamenti: «Le associazioni - è l’invito di De Vecchi - devono uni-re le proprie forze per raccogliere fondi su cause comuni». Il model-lo - per l’Italia ancora lontano - è quello della Gran Bretagna, doveesistono le Community Foundation, cioè fondazioni di comunità cheraccolgono fondi attraverso progetti realizzati in collaborazione trasoggetti pubblici e privati. De Vecchi denuncia che «a Milano non esi-ste nulla di tutto questo. Nonostante la mia esperienza ormai tren-tennale nel Terzo settore, non ho mai visto mettere a punto una cam-pagna che metta in rete tutte le associazioni che hanno a cuore unadeterminata questione». E se questo avviene è anche “per colpa” del-la proliferazione smisurata di nuove realtà che si occupano di vo-lontariato: «Paradossalmente era più semplice in passato, quandoesistevano poche ma grosse associazioni specializzate ciascuna inun ambito, dalla famiglia ai minori, alle persone con handicap». Difronte a questa “segmentazione”, De Vecchi sollecita «una riflessio-ne approfondita e comune sul tema della raccolta fondi».

Se il fare squadra deve diventare il punto di forza del sistema nonprofit, a Rozzano un’idea per come farla camminare ce l’hanno già:«Ho proposto all’assessore compe-tente - conclude il presidente De Vec-chi - di rinunciare come associazionidel comune al 10 per cento di quelloche ci viene riconosciuto ogni annoper investirlo nel Coordinamento co-munale delle associazioni affinchèdiventi un’entità seria e di servizio.Anche perché in quel territorio non èl’associazionismo che tenta di dareindicazioni agli enti locali, sono i co-muni che usano le associazioni. Ca-pita che le associazioni siano asservi-te agli assessorati, mentre invecedovrebbe essere il contrario».

Gino Mazzoli, Maurizio ColleoniC’e spazio per un volontariatodei giovani? Gli esiti di unlaboratorio, AnimazioneSociale - Gruppo Abele, 2008

Maddalena ColomboCittadini nel welfare locale:una ricerca su famiglie,giovani e servizi per i minoriFranco Angeli, 2008

Piero AmerioGiovani al lavoro: significati,prospettive e aspirazioniIl Mulino, 2009

webwww.valuenetwork.org.ukwww.eee-yfu.orgwww.youthforum.orgcommunity.cev.be

GRANDANGOLO

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SALE IN CATTEDRA IL PROFESSOR STEFANO ZAMAGNI. E la sua lezionesulla crisi, il volontariato e il suo futuro ha lo stesso effetto diun fiume in piena. Un fiume gonfio non d’acqua ma di idee,

tanto che l’economista bolognese, presidente del l’Agenzia per leOnlus e “mente scientifica” di Aiccon (Asso cia zione Italiana perla Cultura Cooperativa e delle Organizzazioni Non Profit),straripa ragionamenti e riflessioni in un giro d’orizzonte atrecentosessanta gradi. Eppure c’è un filo che lega il flusso delsuo pensiero e che si può tentare di riassumere in un appello di

«I corsi? Non bastano piùOra servono vere scuole per selezionare i volontari»

Zamagni

quattro parole: «Occorre cambia-re il volontariato».

Prima però di illustrare la sua“rivoluzione culturale”, prima diinvitare le associazioni ad avere ilcoraggio di guardarsi allo specchioe non risparmiarsi una dose di au-tocritica, prima di consigliare alleorganizzazioni un autentico esamedi maturità e una maggiore impe-

«Occorre cambiare il volontariato»: ruota attorno a questo perno la lezionedell’economista Zamagni,che invita le associazionia guardarsi allo specchioper fare autocritica

I volontari hanno sete di conoscenza.Nel nostro Paese la fame più

preoccupante, oggi, non è quelladi pane, ma di pensiero.

Non va dimenticato che la forma più altadi carità è la carità intellettuale

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Zamagnidossier maggio 2010

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marcare questa distinzione fra cri-

si dialettica e crisi entropica?

Perché sono diverse le strategie diuscita dai due tipi di crisi. Non siesce da una crisi entropica conaggiustamenti di natura tecnica econ provvedimenti legislativi oregolamentari anche se necessari.La crisi entropica, come dicevo, èla conseguenza della perdita disenso, quando cioè la società per-de il senso del proprio esistere,del proprio operare, allora entraappunto in crisi.

Dunque sembrerebbe di capire che

la crisi entropica sia più difficile da

risolvere della crisi dialettica.

Certamente. Perché nella crisi dia-lettica una volta composto il con-flitto, per esempio il conflitto diclasse - prendiamo quello lavora-tori-industriali -, allora si riparte.Invece dalla crisi entropica, comequella attuale, l’uscita sarà moltopiù lunga, perché bisogna cam-biare il modo di pensare, cioè lemappe cognitive delle persone,della gente comune, delle fami-glie. Questo è il vero problema.Mentre da una crisi dialettica sene esce mettendo attorno a un ta-volo i rappresentanti dell’una edell’altra parte per trovare un ac-cordo, per la crisi entropica non ècosì facile. Per esempio, quandoin Italia ci fu l’accordo sul puntounico della contingenza, oppuresulla scala mobile che successe?Accadde che i sindacati e Confin-dustria, dopo un’estenuante trat-tativa, alla fine raggiunsero un’in-tesa e il resto poi seguì.

Il suo ragionamento lascia intuire

che con una crisi entropica questo

modus operandi non è possibile.

No. Perché investe l’intera culturapopolare, compreso anche il volon-tariato. Quindi quella che viviamooggi è una crisi che non riguarda so-lo l’alta finanza, ma semmai è par-tita dall’alta finanza e ci è cascataaddosso. E questo evidentemente cifa capire perché servirà parecchiotempo perché si possa dire che lacrisi sia superata.

Che cosa fare allora? Come supera-

re questa sorta di Scilla e Cariddi?

Bisogna che la gente torni a calzarenuovi occhiali con cui guardare larealtà. Anche nella galassia del vo-lontariato: questa crisi ha fatto cre-dere al volontariato che il suo ruoloè quello di essere stampella della so-cietà. Siccome c’è la crisi, siccomec’è la gente che soffre, c’è della gen-te che è in difficoltà, allora il volon-tariato deve intervenire e fare la cro-ce rossa sociale. Ma questo è unosnaturamento del volontariato, per-ché per la croce rossa sociale c’è giàla Protezione civile. Per cui non ècompito del volontariato fare que-

gno nella formazione, il professorZamagni congela momentanea-mente la sua ricetta per una nuovaprimavera del volontariato e si con-centra ad analizzare l’inverno dellacrisi, che continua a mordere nonsoltanto il mondo dell’economia,della finanza e del lavoro, ma an-che l’universo del volontariato ita-liano, lombardo e milanese.

«Anzitutto per parlare della cri-si serve fare una distinzione - spie-ga Zamagni -. Perché ci sono due ti-pi di crisi che, grosso modo, èpossibile identificare nella storiadelle nostre società: una dialettica,l’altra entropica».

Cominciamo con il circoscrivere e il

definire la crisi dialettica.

È quella che nasce da un conflittoche prende corpo dentro una deter-minata società e che contiene, alproprio interno, i germi o le forzeper proprio superamento. Va da séche non necessariamente l’uscitadalla crisi rappresenta un progressorispetto alla situazione precedente.

Quali esempi si possono citare nel-

la storia di crisi dialettica?

La rivoluzione americana, la rivo-luzione francese, la rivoluzione del-l’ottobre 1917 in Russia.

Tornando alla crisi entropica in-

vece…

Entropica è invece la crisi che ten-de a far collassate il sistema perimplosione, ma senza modificarlo.E la crisi attuale è di questo secon-do tipo, cioè entropica. Questo ti-po di crisi si sviluppa ogniqual-volta la società perde il senso –cioè, letteralmente, la direzione –del proprio incedere.

Anche di tale tipo di crisi immagi-

niamo che la storia ci offra degli

esempi?

Sì. Ci offre esempi notevoli: la ca-duta dell’impero romano, la transi-zione dal feudalesimo all’età mo-derna; e con un salto nel Novecento:il crollo del muro di Berlino, il dis-solvimento dell’impero sovietico.

Come giudicare, invece, la crisi eco-

nomico-finanziaria del 1929…

No. La crisi attuale non è assoluta-mente corretto assimilarla – se pernon gli aspetti meramente quanti-tativi – con quella che scosse ilmondo nel 1929. Quella fu piutto-sto di natura dialettica e non entro-pica, in quanto fu causata da erroriumani commessi, soprattutto dalleautorità di controllo delle transa-zioni economiche e finanziarie,conseguenti a un preciso deficit diconoscenza circa i modi di funzio-namento del mercato capitalistico.

Scusi, ma perché è importante ri-

Quella che ci ha investitoè una crisi di tipo“entropico”, cioè è la conseguenza di una società che ha perso il senso del proprio esistere e operare

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Quello che viviamo oggi è un crollo che non è solodell’alta finanza, anche seè partita da lì e ci ècascata addosso. Allorabisogna che la gente tornia guardare la realtà conocchi diversi

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Zamagnidossier maggio 2010

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“tu fai da mangiare sempre”, ri-spondo no, perché tradirei la miavocazione, che è quella di fare lostudioso e non il cuoco. Certoquesto non esclude che cucini,quando ci sia da cucinare, non mivergogno e anzi sono ben lieto difarlo. Ma non è la mia attività,non è la mia inclinazione. La stes-sa cosa vale per il volontariato: èovvio che di fronte all’emergenzasi deve intervenire, però un contoè dire questo e un conto è chequella sia la funzione del volon-tariato. Se così fosse il volontaria-to tradirebbe quello che è il suomandato. La missione del volon-tariato non è quella di sostituireoppure di scalzare la Protezionecivile. Non per nulla, se andiamoin tutti i Paesi del mondo, notia-mo che c’è la Protezione civile edipende dal Governo, non è unainiziativa spontanea della societàcivile, come invece lo è il volon-tariato tout court.

Cosa deve fare allora in concreto il

mondo del volontariato milanese

per non tradire la sua attitudine?

È semplice. Non dovete stancarvidi ripetere questi concetti. Di più:dovete scriverli, avete il dovere disottolinearli nelle vostre dichiara-zioni. Perché, a volte, vi dimenti-cate. Date per scontate queste ri-flessioni che ovvie non lo sono.Dovete ogni volta che intervenitenelle emergenze dire che questa èuna situazione emergenziale: noiinterveniamo perché siamo perso-ne responsabili, però non è questala nostra vocazione. Perché la no-

stra vocazione è quella di diffon-dere il principio di reciprocità ecreare legami sociali. Questa è lamissione specifica del volontaria-to. Non è quella di sostituire nél’ente pubblico né l’ente privato.

In sostanza, il suo invito è quello

che le nostre associazioni non si

stanchino di annunciare la loro

missione.

Basta dire che l’emergenza è l’ec-cezione che non è la vostra missio-ne. Perché il vostro mandato èquello di lavorare giorno per giornonegli ambienti di vita dove operateperché si diffondano i legami so-ciali. Come farlo, dipende poi dal-le capacità dei singoli e dalle spe-cificità delle singole associazioni.Per esempio, un’organizzazioneopera in un quartiere di Milano,oppure in una grande comune del-l’hinterland, oppure ancora in unpiccolo paese di provincia, eccoche allora cambiano le forme dioperare, ma il principio non muta.Piuttosto cambiano i modi per rea-lizzare il legame sociale e per rea-lizzare la cultura della reciprocità,ma l’obiettivo resta lo stesso.

sto. Eppure, ormai, questo messag-gio si è diffuso nell’opinione pub-blica; nei mass media è passata que-sta idea. C’è l’emergenza terremoto,c’è lo tzunami, la risposta arriva dalvolontariato, come se il volontariatofosse una Protezione civile a bassocosto per risolvere questi problemi.

Ma la natura del volontariato non è

questa?

Certo che no! La natura del volon-tariato è quella di diffondere nellasocietà l’idea del legame sociale e,soprattutto, di diffondere il princi-pio di reciprocità, cioè educare allareciprocità. Il volontariato non deveessere la manovalanza delle situa-zioni emergenziali. Attenzione pe-rò: non voglio dire che non lo deb-ba fare. Ma un conto è dire che lo sifa, appunto, nelle emergenze, ditanto in tanto; un conto è ridurre lafunzione a questo.

La crisi, però, ha fatto scoppiare

tutta una serie di nuovi problemi

sociali. È evidente che il volontaria-

to si è mobilitato su questo fronte.

Le nostre organizzazioni sono staterisucchiate da questi problemi e il

rischio è che così facendo perdanola propria bussola. Perché c’è ilgrosso pericolo che, quando frauno, due, tre anni la crisi sarà defi-nitivamente superata, la gente co-mune non saprà più che farsene delvolontariato. E allora lo scaricherà.Ecco perché personalmente sonopreoccupato, perché il rischio chesi corre è esattamente quello dellairrilevanza. Infatti alla Protezionecivile succede così: quando finiscel’emergenza chi si ricorda più dellaProtezione civile? Nessuno, fino al-la prossima emergenza, al prossimoterremoto nessuno più si ricorda.Ora ridurre il volontariato a unasorta di Protezione civile sociale èun errore gravissimo.

Quali strategie mettere a punto e

adottare, come far sì che le nostre

associazioni di volontariato non

scivolino in queste sabbie mobili e

riescano a dribblare questo rischio

che lei adombra all’orizzonte?

Il problema è quello di non ridurrel’agire del volontariato soltanto aglisms che adesso vanno di moda; e difar credere ai volontari che quella èla loro mera funzione.

Ma questa è un’eccezione che du-

rerà quel tanto che deve durare.

Non è questo il nostro compito?

No, assolutamente no. Per esserepiù chiari: è ovvio che se c’èun’emergenza bisogna spegnere ilfuoco. Facciamo anche un esem-pio per evitare fraintendimenti: iofaccio il professore, ma quando acasa c’è da far da mangiare, lo fac-cio io. Ma se uno mi dovesse dire

Non c’è niente di piùsbagliato dell’immagineche il volontariato si attivi solo nel caso di una calamità, che il volontariato sia una sorta di Protezionecivile sociale

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Non stancatevi di ripetereche l’autentica vocazione del volontariato non è di intervenire nei casi di emergenza, ma è quella di diffondere il principio di reciprocità e di crearelegami sociali

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dossier maggio 2010 Zamagni

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Alla luce di questa riflessione, se-

condo lei, di che cosa ha bisogno

soprattutto il volontariato oggi?

Di una cosa semplicissima, ma allostesso tempo molto impegnativa. Ivolontari bisogna mandarli a scuo-la di reciprocità. Che vuol dire? Si-gnifica che non si può pensare cheun’associazione di volontariato siabasata soltanto su uno spontanei-smo di tipo emozionale. Ecco per-ché ai volontari bisogna fare lezio-ne. Io faccio sempre questoesempio: a chi vuol diventare pretelo si fa studiare sei o sette anni inseminario; gli insegnano teologia,filosofia, psicologia, esegesi ecc.Con ciò intendo rimarcare che nonbasta che una persona affermi “ioho la vocazione di fare il prete e mifate diventare prete”. Così comenon può essere sufficiente che unapersona dica “io ho la vocazione difare e lo faccio”. Questa è una stra-da di corto respiro. Se vuoi faredavvero il volontariato devi metter-ti a studiare. Cosa vuol dire studia-re? Non vuol certo dire studiare persuperare l’esame, ma significa ac-culturarsi. Purtroppo ci sono deivolontari che ancora confondono il

principio di reciprocità con il prin-cipio dello scambio; che non sannodistinguere tra dono come regalo edono come gratuità, eccetera.

Lei dipinge un quadro nero. La si-

tuazione sembrerebbe grave. In al-

tri Paesi non è cosi?

Oggi c’è troppa informazione e c’èuna carenza gravissima di educa-zione. L’informazione è utile, manon basta. Se una persona vuole farparte di un’associazione, bene, sap-pia che deve accettare di tornare a“scuola”; una scuola ovviamente“sui generis”. Sono fermamenteconvinto che occorre che i volonta-ri si mettano a “studiare”, a pensa-re, che frequentino certi ambienti.Dopotutto è quello che si è semprefatto in ambito partitico, associa-zionistico, politico. Si è sempre fat-to così, perché non si è parte di unqualsiasi ente se non si ha la cono-scenza dei fondamenti ad ampioraggio. La stessa cosa deve valereper il volontariato.

Chi è allora il vero volontario: è an-

zitutto una persona che si sottopo-

ne a un massiccio programma di

studio?

Sì. Perché se non si studia non cipuò essere capacità di educare allareciprocità. Solo attraverso lo stu-dio le persone diventano libere. Li-bere dall’ignoranza, dal condizio-namento, dalle manipolazioni. Ioho iniziato a fare volontariato all’etàdi 14 anni. La mia fortuna è stataquella di avere avuto maestri chemi hanno insegnato a studiare. Og-gi occorre avere il coraggio di porre

Se vuoi fare volontariatodevi metterti a studiare. È vero che non c’è nessunesame da superare, ma solo lo studio rendedavvero libere le persone da qualsiasi tipo di manipolazione

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le seguenti condizioni: sei libero dientrare in questa associazione, peròsappi che devi studiare. Invece,purtroppo, stà passando l’idea se-condo cui le associazioni debbanoprendere chiunque. Questa è la di-struzione del volontariato.

Eppure a Milano è ormai attivo da

anni un ventaglio di corsi di for-

mazione per i volontari.

Vanno bene. Ma non bastano. I cor-si di formazione insegnano le cosebase, come quando si va a prende-re la patente. Sono soltanto l’abc.Non sto dicendo che non ci voglio-no, sostengo che non sono suffi-cienti. Io parlo di scuola vera e pro-pria. Una volta i partiti, fino a circa20 anni fa, avevano le scuole di par-tito. Quando le hanno chiuse si èvista la degenerazione che ha as-sunto la politica. Allora il volonta-riato deve fare le sue scuole, perchésolo così viene fuori la nuova lea-dership.

Le persone oggi sono disposte a in-

vestire le proprie energie in questo

tipo di percorso?

Sicuramente. E lo posso dire concertezza, perché per ragioni profes-sionali giro parecchio l’Italia. So-stengo da tempo che se si facesse-ro scuole vere e proprie divolontariato arriverebbero in tanti.Tenete conto che sono molte le per-sone dotate e generose che pur-troppo rimangono deluse dalleesperienze che hanno vissuto nel-le associazioni. Bisogna evitare chenel volontariato si inneschi un pro-cesso di selezione avversa, un pro-

cesso che tende ad attrarre sola-mente i meno dotati sotto il profilointellettivo. Basta pensare al vo-lontariato come una sorta di “do-polavoro ferroviario” dove la genteva, parlotta, fa qualcosa pure dibuono ma senza una strategia pre-cisa. Oggi più che mai, in un mon-do sempre più complesso, dobbia-mo ritornare a un concetto forte ealto di azione gratuita.

Queste sue tesi nascono dalla sua

esperienza a capo di un’ONG a li-

vello mondiale con sede a Ginevra

la ICMC (International Catholic Mi-

gration Commission)?

A Ginevra chiamavamo i maggioriesperti a livello mondiale e le per-sone venivano e si “divertivano” e,soprattutto, venivano consideratee apprezzate per le loro caratteri-stiche. I volontari hanno sete di co-noscenza, la chiedono. E non sipuò non offrirgli nulla. Anche lagente comune ha fame di cono-scenza. Prendiamo in considera-zione le università della terza età,sono piene di persone. Questovuol dire che c’è domanda di co-noscenza e quindi occorre soddi-

È necessario evitare che nel volontariato si inneschi un processo che tende ad attrarre solo i meno dotati sotto ilprofilo intellettuale. Bastapensare al volontariatocome a un dopolavoro

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dossier maggio 2010

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sfare questa richiesta. Bisogna ri-cordarsi che la forma più alta dicarità - come ricordava AntonioRosmini - è la carità intellettuale:far arrivare all’altro - soprattutto alpovero, all’indifeso, all’umile - unpensiero che sappia indicargli unavia. Nel nostro Paese, la fame piùpreoccupante, oggi, non è quella dipane, ma di pensiero.

Ma ci sarebbero docenti disposti a

impegnarsi in queste scuole, di-

sposti a fare un percorso con i vo-

lontari?

Se ci fosse questo tipo di richiestasono convito che molti sarebberocoloro che sarebbero disposti a met-tersi in gioco. Ma se non c’è la do-manda mai ci sarà l’offerta. I Centridi servizio potrebbero essere i primie più importanti aggregatori di unatale domanda. Nella Caritas in veri-tate, Benedetto XVI ha scritto: “Ilmondo oggi soffre della mancanzadi pensiero”. Mica ha scritto “man-canza di risorse!”. Come sappiamoc’è il pensiero calcolante e il pen-siero pensante. Noi difettiamo, oggi,del primo; è del pensiero che dà ladirezione, cioè del pensiero pen-sante, che c’è oggi grande bisogno.E questo vale anche per il volonta-riato: la expertise, la professionaliz-zazione, e l’acquisizione di tecni-che organizzative raffinate vannocertamente bene , ma quando tuttociò avviene a spese del pensieropensante, le degenerazioni sonodietro l’angolo. E infine, ma non daultimo, nell’universo del volonta-riato c’è da affrontare il problemadelle pari opportunità…

Cioè anche nelle associazioni, co-

me in politica, bisogna aprire al-

le quote rosa?

Rispondo anzitutto con un quesi-to: perché nel volontariato i diri-genti sono in prevalenza uomini?In Norvegia nel 2006 è stata ap-provata una legge che obbliga leimprese private quotate in borsaa destinare almeno il 40% dei po-sti del Consiglio di Amministra-zione alle donne. Sarebbe unabella rivoluzione se una normasociale del genere fosse inseritanegli statuti delle organizzazionidi volontariato.

N EL BEL MEZZO DELLA CRISI FINANZIARIA MONDIALE, gli investito-ri stanno sempre più suggerendo al non profit di considerarela “fusione”. Cioè unire la gestione e i soggetti giuridici in

un’unica organizzazione. Nel solo 2009, la mia società di consu-lenza ha lavorato a 60 presentazioni e workshop in materia di fu-sioni e forme di partenariato che hanno vista raddoppiata la parte-cipazione rispetto all’anno precedente. Allo stesso modo, la nostraattività di ristrutturazione strategica (che si occupa di fusioni e col-laborazioni) è cresciuta del 60 per cento rispetto all’anno scorso, du-

rante la parte peggiore della recessione. Anche nel 2010 la voglia di unione

non mostra segni di cedimento. Alla ba-se di questa tendenza ci sono due con-vinzioni fondamentali: il settore nonprofit ha troppe organizzazioni e la mag-gior parte sono troppo piccole e quindiinefficienti. Il pensiero che guida questanuova tendenza alle fusioni è nella di-

Ok alla fusione tra entiper migliorare l’efficienzama soltanto se è saggia

Lezione americana

di David La Piana*

È cresciuta del 60%la ristrutturazionedegli enti non profit:alla base di questatendenza c’è il fattoche il Terzo settoreha troppeorganizzazioni

S. Zamagni Crisi economica, crisi antropologica.L’uomo al centro del lavoro e dell’impresa Il Cerchio, 2010

S. Zamagni Avarizia. La passione dell’avere. I 7 vizi capitaliIl Mulino, 2009

S. ZamagniEconomia ed etica. La crisi e la sfida dell’economia civileLa Scuola , 2009

S. ZamagniAmore e verità. Commento e guida alla lettura dell’Enciclica Caritas in veritatePaoline Editoriale Libri, 2009

S. Zamagni, E. Screpanti Profilo di storia del pensieroeconomico. Dalle origini a KeynesCarocci, 2004

S. Zamagni, E. ScrepantiProfilo di storia del pensieroeconomico. Gli sviluppi contemporaneiCarocci, 2004

webwww.legiornatedibertinoro.it

www.aiccon.it

www.icmc.net

GRANDANGOLO

La Pianadossier maggio 2010

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rezione di ridurre sia la concorrenza sia i finanziamenti scarsi. Con-solidare le organizzazioni introdurrebbe inoltre economie di scalaper il settore, aumentando l’efficienza e migliorando l’efficacia.

Eppure, con uno sguardo più approfondito il settore non profitsuggerisce che questo pensiero sia troppo semplicistico. Le fusionisono rischiose. A volte non riescono, anche se non così spesso co-me nel mondo aziendale. Di solito costano più del previsto. A vol-te creano più problemi di quanti ne risolvano.

Invece guardando al partenariato le organizzazioni non profitdovrebbero prendere in considerazione una varietà di modi di la-vorare insieme. Facilitando ristrutturazioni, comprese le fusioni, ac-corpamenti amministrativi e altri partenariati. I miei colleghi ed ioabbiamo sviluppato alcune regole su quando il non profit dovreb-be unirsi e su quando, invece, dovrebbero rimanere del tutto indi-pendente. Abbiamo anche individuato come i donatori possono aiu-tare o danneggiare la formazione di consorzi senza scopo di lucro.

Serve il giusto numero di organizzazioni non profit Un grido familiare nel settore non profit, in particolare tra i donatori,è che ci sono troppe organizzazioni in competizione anche per po-chi dollari. Il settore ha permesso non solo a migliaia di fiori di sboc-ciare, ma anche, secondo i critici, di far crescere anche molte er-bacce. Con la recessione, essi concludono, è giunto il momento perpotare e sradicare.

Diamo uno sguardo ai numeri. Quando parlo di fusioni per ri-durre la concorrenza per le donazioni non parlo delle organizza-zioni non profit che hanno bilanci annuali di esercizio superiori a100.000 dollari. Parlo della miriade di piccole associazioni, per lo

più gruppi di volontariato, checostituiscono la maggior partedel settore, perché queste orga-nizzazioni riempiono costante-mente le caselle di posta dei do-natori con le richieste disovvenzione.

Nel 2005, solo 170.000 orga-nizzazioni non profit statuniten-si (su un totale di 1,4 milioni)

hanno registrato spese superiori a 100.000 dollari. Mentre solo55.000 organizzazioni non profit hanno speso più di un milione didollari, compresi i 5.000 ospedali e scuole che in genere non sonocompresi nelle discussioni del settore.

Al contrario, 6,7 milioni delle circa 30 milioni di imprese statu-nitensi hanno avuto entrate pari a 100.000 dollari, e 1,4 milioni han-no registrato entrate superiori a un milione di dollari. Rispetto alleimprese, il settore non profit è molto piccolo sia in termini di unità or-ganizzative sia in termini di dimensione media delle organizzazioni.Quindi non è possibile affermare che la presenza di “molti attori” sulmercato sia la causa della forte concorrenza per l’accaparramento deifinanziamenti. Il motivo principale di questa corsa ai finanziamentisi trova invece nei pochi dollari disponibili per sostenere i servizi divitale importanza per la comunità che solo il non profit offre.

La maggior parte delle organizzazioni non profit risponde a ciòche gli economisti chiamano un “fallimento del mercato”: il non pro-fit, infatti, deve fornire i servizi necessari ai cittadini che non hannoi mezzi per pagarli. Governo e donatori privati devono quindi col-mare la carenza di finanziamenti. In periodi di congiuntura sfavore-vole queste parti tendono a tirarsi indietro, lasciando il non profitcon finanziamenti inadeguati, spesso proprio nel momento in cuistanno vivendo un aumento della domanda per i loro servizi.

Le fusioni non sono in contrasto con questa dinamica che si svol-ge in ogni recessione. Quando i donatori riducono il loro sostegno,le organizzazioni senza scopo di lucro sono a rischio di fallimento.

Quando la fusione è un vantaggio: alcuni esempiChe fare allora di fronte all’affermazione secondo cui ci sarebberomolte organizzazioni troppo piccole e troppo inefficienti in un set-tore che sarebbe più stabile se si componesse di un minor numerodi organizzazioni più forti? Il settore è inefficiente - questa critica so-stiene - perché molti gruppi forniscono gli stessi servizi. Un con-cetto forse troppo semplicistico. Quando alcune organizzazioni svol-gono attività simili all’interno della comunità, la comunità haprobabilmente bisogno di più servizi, non di meno.

Si consideri, per esempio, un quartiere che ha cinque strutturedi accoglienza per senzatetto, con una capacità complessiva di cen-to posti letto. Un esame di questo quartiere rivela però che ci sono

La strada della fusione che riduce la concorrenzaper le donazioni riguarda una miriade di piccoleassociazioni checostituiscono la maggiorparte del settore non profit

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quasi cinquecento persone senza tetto che vivono nella zona. Anchese queste strutture offrono servizi essenziali, insieme possono ser-vire soltanto uno su cinque dei senzatetto nella loro comunità; i let-ti sono troppo pochi, non troppi.

Il problema qui non è la duplicazione di servizi, ma la duplica-zione delle strutture che offrono servizi. Ogni organizzazione im-piega un direttore, dispone di un consiglio di amministrazione e so-stiene una struttura amministrativa. Unire le organizzazioni e le loroinfrastrutture può spesso avere senso.

La fusione tra Centro di Supporto per la Gestione delle Orga-nizzazioni Non Profit, con sede a San Francisco, e il Centro di Svi-luppo per il Non Profit, a quaranta miglia di distanza a San José, èun esempio di una riuscita integrazione che, attraverso la fusionedelle infrastrutture, ha migliorato la fornitura di servizi.

Nel 1998, il Centro di Supporto era noto a livello nazionale trale organizzazioni non profit che si occupavano di consulenza e for-mazione per le organizzazioni. Il Centro di Sviluppo per il Non Pro-fit era invece in difficoltà in termini di finanziamenti e management(era rimasto recentemente senza esecutivo). Alcuni principali fi-nanziatori suggerirono la fusione delle due organizzazioni.

Come molte organizzazioni non profit, il Centro di Sviluppo erarestio ad accettare la perdita di autonomia che sarebbe inevitabil-mente conseguita ad una fusione. I membri del Consiglio erano pre-occupati all’idea di dover collaborare con un gruppo di persone chenon conoscevano. Con un fatturato in calo e un vuoto di leadership,tuttavia, il Centro di Sviluppo per il Non Profit ha avuto poche op-zioni. I donatori chiarirono inoltre che non avrebbero più suppor-tato il Centro senza una fusione.

Convocare i dirigenti provenienti dalla frenetica area di San Fran-cisco non è stata una cosa facile. Persino decidere dove tenere le riu-nioni del consiglio è stato snervante. Le differenze culturali tra la strut-tura di San Francisco e quella di San Josè ha creato inevitabili tensioni.Ma le difficoltà sono la regola nelle fusioni, non l’eccezione.

Eppure, la fusione ha preservato e rafforzato i servizi essenzialidi gestione del non profit erogati nella Silicon Valley. «L’alternativaera la chiusura del Centro di Sviluppo per il Non Profit», dice JanMasaoka, amministratore delegato del Centro di Supporto di SanFrancisco e successivamente capo dell’organizzazione nata dalla fu-

sione, CompassPoint Non profit Services. «Quindi sì, è stato un suc-cesso e sono stati mantenuti la maggior parte degli obiettivi delledue organizzazioni». Infatti molti osservatori ritengono ora Com-passPoint Non Profit Services la principale organizzazione di sup-porto alla gestione del non profit nella nazione.

Un’altra situazione di potenziale fusione si verifica quandoun’organizzazione si trova vicina al fallimento, ma conta ancora unoo più validi programmi con linee di finanziamento stabile, comenel caso di convenzioni con enti pubblici, o in presenza di uno zoc-colo duro di donatori fedeli. In questo tipo di fusione, un’organiz-zazione non profit più grande e più stabile integra il singolo pro-gramma ancora valido nel suo portafoglio di servizi con ridotti costiamministrativi.

Benchè meno drastica della completa fusione tra due organiz-zazioni, anche in questo caso sono necessari negoziati, il raggiungi-mento di un accordo sulle condizioni, e, in definitiva, l’assenso diciascun consiglio di amministrazione.

Nel 1994, per esempio, PediatriCare, di Oakland in California èstata sull’orlo della chiusura. Due psicologi part-time guidavanol’organizzazione che offriva gruppi di supporto a decine di famigliecolpite da malattie gravi. I due dirigenti erano oberati di lavoro nonsolo per l’attività di reclutamento e supervisione dei volontari e ti-rocinanti, ma anche per l’attività di raccolta fondi, la gestione fi-nanziaria e la gestione di tutte le altre aree dell’organizzazione.

La fusione con Oakland-based East Bay Agency for Children(Ebac), una più grande organizzazione non profit multiservizio, cheguidavo in quel periodo, permise al personale di PediatriCare diconcentrarsi solo sulla fornitura del servizio.

I suoi dirigenti, invece, moltidei quali sono entrati nel consi-glio Ebac, potevano dedicarsi al-la raccolta fondi. Attraverso que-sta fusione, PediatriCare, oranota come Circle of Care, hascongiurato la chiusura. A più disedici anni l’organizzazione ri-mane una risorsa preziosa per lasua comunità.

Un’utile fusione si verificaquando un’organizzazioneè vicina al fallimento, ma conta ancora validiprogrammi già finanziati,allora per un’associazione più grande è convenienteassorbirla

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La fusione non di traduce di per sé in un risparmio A dispetto di quanto si potrebbe pensare, le fusioni non generanonuove entrate e non riducono le spese. Nel breve periodo richiedo-no persino nuovi fondi per far fronte ai costi di integrazione.

Anche nel lungo periodo, l’atto di fusione di per sé non porta anotevoli risparmi di costo per la stragrande maggioranza delle fu-sioni che la mia azienda ha facilitato. Gli enti che nascono da unafusione presentano infatti maggiori dimensioni e complessità e ri-chiedono un management meglio preparato e un costo che superaspesso i risparmi derivati dalla fusione.

Nel 1999, la fusione delle due organizzazioni californiane che ope-ravano per il benessere dei bambini, Sunny Hills e Children’s Garden,comportò l’eliminazione di una delle due posizioni di amministrato-re delegato. Anche le due figure di manager finanziario di medio livellofurono sostituite da un amministratore finanziario senior, attraversoun’operazione che permise di ridurre i costi. Ma le accresciute di-mensioni e complessità dell’organizzazione hanno richiesto l’inseri-mento di una nuova figura di coordinatore organizzativo con una ri-duzione dei risparmi realizzati. «La fusione si è però tradotta nellanascita di in un ente con una migliore gestione finanziaria e miglioriservizi amministrativi», dice Bob Harrington, ex amministratore dele-gato di Children’s Garden, che dirige attualmente la nostra aziendaStrategic Restructuring Practice. Se non sul piano di risparmio dei co-sti, questa fusione è stata utile da un punto di vista strategico.

Se osservatori casuali percepiscono spesso risparmi di costo co-me conseguenza delle fusioni, un esame più attento rivela che essenon comportano di per sé un risparmio. Sono però in grado di fa-vorire lo sviluppo, all’interno della nuova struttura, di un manage-

ment capace di assumere deci-sioni anche difficili (relative alicenziamenti, a ristrutturazioni,a nuovi programmi di raccoltafondi) che portano infine ad unmiglior posizionamento finan-ziario dell’organizzazione. Deci-sioni, bisogna ricordarlo, cheavrebbero potuto essere preseanche in assenza di fusione, se

solo la leadership dell’organizzazione fosse stata disposta e in gra-do di assumerle. Ancora, nel 2004, Easter Seals e United CerebralPalsy (UCP), due associazioni affiliate in North Carolina hanno ef-fettuato una fusione. Con sede centrale a Raleigh e con uffici e pro-grammi in tutto lo stato, la nuova organizzazione ha assunto unaserie di rischi calcolati che nessuna delle due singole parti avrebbemai potuto fare da sola, tra cui una seconda fusione e l’acquisto diuna organizzazione profit, trasformata poi in ente senza scopo dilucro. Easter Seals-UCP North Carolina è passata da un bilancio ope-rativo di trentatre milioni dollari al momento della fusione ad unbudget di ottanta milioni dollari per l’anno fiscale 2009, dovuta siaalle due fusioni sia alla sua crescita organica.

Se due organizzazioni che partecipano ad una fusione in con-dizioni di stress finanziario non fanno, dopo la loro unione, quellescelte difficili, ma necessarie, per fronteggiare le grandi sfide in-contrate, sperimenteranno la stessa crisi in cui sarebbero cadute sefossero rimaste separate. In altre parole, una concentrazione puòfornire il contesto favorevole allo sviluppo di una buona leadership,di un efficace processo decisionale e implementazione di qualità,ma non può sostituirsi ad esse.

La fusione di due gruppi dirigenti può offrire una gamma piùampia di prospettive e di esperienze per risolvere i problemi. E dueaziende possono portare una maggiore varietà di programmazione.Le fusioni, inoltre, possono incoraggiare le organizzazioni a ridurrei costi e aumentare le entrate. Le organizzazioni devono pertantovedere la fusione come un mezzo per attuare altre strategie, e non co-me fine strategico in sé stesso.

Altre forme di integrazione tra organizzazioniAnche se una fusione è il mezzo più familiare per unire i propri de-stini, non è l’unico modo. Esistono almeno tre forme di integrazionetra organizzazioni che permettono loro di rafforzarsi reciprocamente.

La prima forma, MSO - Management Service Organizations (Or-ganizzazioni di servizi di gestione) - combina solo le funzioni am-ministrative dei partner. La seconda è la joint venture tra organiz-zazioni che porta alla fusione e condivisione di un sottoinsiemedelle funzioni programmatiche. Mentre la terza forma, è quella del-le partnership parentsubsidiary che coniuga la gestione ammini-

Le fusioni non generanonuove entrate e nonriducono le spese.Piuttosto sono in grado di sviluppare un management capace di assumere decisionianche difficili

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strativa e quella programmatica quando una fusione è desideratama non è tecnicamente possibile.

Un’organizzazione di servizi di gestione (MSO) nasce quando ungruppo di organizzazioni non profit crea una società giuridicamente se-parata che permette di condividere i servizi amministrativi compren-dendo, il più delle volte, i servizi dell’area finanziaria, delle risorseumane e dell’Information Technology (IT). Di solito le MSO sono or-ganizzazioni associative il cui regolamento prevede come unici soci leorganizzazioni non profit fondatrici. Questo regolamento attribuisce ilcontrollo finale agli enti non profit che hanno costituito l’MSO.

Nel 2007, MACC CommonWealth si è formata quando cinqueagenzie di servizi per il personale con sede in Minnesota hanno de-ciso di coniugare le rispettive funzioni di back-office: area finan-ziaria, risorse umane e IT. Il consiglio direttivo della nuova orga-nizzazione è composto dai direttori generali delle cinque entità inpartnership, mentre uno staff di 15 persone è in grado di offrire unagamma completa di servizi amministrativi per i membri di MACC.Oltre a fornire elevati livelli di servizio, MACC ha realizzato un ri-levante risparmio sui costi. Nel suo primo anno di attività, i mem-bri hanno registrato una riduzione del 3 per cento dei costi ammi-nistrativi e più del 10% di costi ridotti relativi a benefits aziendali,buste paga, e acquisto all’ingrosso.

La forma della joint venture tra organizzazioni, invece, utilizzauna struttura come quella del MSO, ma mette in comunione i pro-grammi e non i servizi amministrativi. Per esempio, Stanford Chil-dren’s Home, River Oak Centre for Children, e Sierra Adoption Se-ervices sono tutti programmi per il benessere e la tutela del bambinosituati nella California centrale. Per rafforzare i loro programmi vol-ti alla tutela dei giovani con problemi, queste organizzazioni hannocreato una joint venture non profit denominata Family Alliance.Prima di questa operazione, i diversi programmi registravano deideficit a causa delle ridotte dimensioni. Successivamente si sonoregistrate importanti economie di scala.

Normalmente non si sceglie di costituire una parent subsidiarypartnership, ma talvolta questo è l’esito a cui si perviene. Nel 1999,Women’s Crisis Support e Defensa de Mujeres hanno deciso di fon-dersi. Queste due organizzazioni californiane, della contea di San-ta Cruz, fornivano protezione e altri servizi a donne vittime della

violenza domestica. Esse si occupavano dello stesso problema nel-le stesse aree geografiche e in effetti nacquero a seguito della scis-sione avvenuta all’interno di una stessa associazione. Pur separate,continuavano a condividere valori e mission istituzionale. Trovan-do una nuova forma di fusione, avrebbero servito l’intera contea eavrebbero potuto parlare con una sola voce nel dibattito politico.L’unione delle proprie strutture del personale avrebbe inoltre raf-forzato e dato maggior stabilità all’organizzazione.

Tuttavia, la fusione fu ostacolata da un impedimento tecnico: ilgoverno della California aveva imposto un contributo massimo difinanziamento per i tipi di servizio erogati da queste organizzazio-ni ed entrambe avevano già raggiunto la soglia massima. La fusio-ne avrebbe quindi ridotto le loro entrate. Così le due organizzazio-ni hanno optato per la partnership parent subsidiary. In questomodo le organizzazioni hanno congiunto i rispettivi programmi eservizi amministrativi, pur mantenendo due distinte strutture giu-ridiche proprio perché la fusione da loro desiderata non era tecni-camente possibile.

Alleanze strategiche e le fusioni amministrativeLe alleanze strategiche permettono alle organizzazioni di mettere incomune programmi e ridurre i costi pur rimanendo in qualche modoindipendenti. Se un’organizzazione non profit vuole trovare un par-tner per ridurre i costi, dovrebbe per prima cosa esaminare la possi-bilità di realizzare una fusione delle funzioni amministrative (conso-lidamento amministrativo). Questa modalità consente di condividerei servizi amministrativi, pur rimanendo entità completamente sepa-rate. Nella maggior parte dei casi, un gruppo fornisce servizi per gli al-tri come se fosse un fornitore.

Un tale accordo è stato speri-mentato da tre enti non profit diChattanooga in Tennessee nel2001. Il primo, il Creative Disco-very Museum, dalla sua apertu-ra nel 1995 ha avuto una gestionein deficit perché era stato conce-pito per ospitare più visitatori diquanti furono poi registrati nella

Se un’organizzazionevuole trovare un partnerper ridurre i costi,dovrebbe prima esaminare la possibilità di realizzare una fusionedelle funzioniamministrative

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realtà. La seconda organizzazione, il “Museo Hunter of American”,ha affrontato una sorte completamente diversa anche se altrettantodifficile. Questa istituzione culturale, la più antica di Chattanooga,aveva attraversato un crescente scollamento dalla comunità a causadelle infrastrutture divenute sempre più obsolete, con un basso ac-cesso ad Internet e con sistemi basati su carta. E la modernizzazionedel museo necessitava di crescenti finanziamenti.

Nello stesso periodo il “Tennessee Aquarium” ha conosciuto in-vece una fase di prosperità. In effetti questo ente disponeva di una ca-pacità amministrativa in eccesso: le sue finanze, risorse umane, e al-tre funzioni di back-office potevano gestire un maggior carico dilavoro senza dover ricorrere a nuovo personale o sistemi di gestione.

I due musei si sono avvicinati all’Acquarium proponendo l’ideadi una fusione. Acquarium ha ricambiato con una proposta di con-solidamento amministrativo: avrebbe fornito risorse per la gestionefinanziaria, del personale, IT e altri servizi per i due musei. L’ac-quario avrebbe sopportato costi aggiuntivi minimi, e avrebbe potu-to richiedere ai due musei il pagamento di una tariffa molto inferioreai costi da loro sopportati per gestire in autonomia tali servizi. Ogniente avrebbe però mantenuto la propria indipendenza, leadership emission. Negli otto anni da quando è iniziato il consolidamento, il“Creative Discovery Museum” e il “Museo Hunter” hanno rispar-miato quasi quattro milioni di dollari di costi amministrativi. Con-testualmente l’acquario ha guadagnato più di un milione di dollariin tariffe dai suoi soci.

La programmazione congiunta utilizza lo stesso meccanismo delconsolidamento amministrativo: un accordo scritto o un contrattoche combina programmi piuttosto che le funzioni amministrative,

senza intaccare l’indipendenzadi ciascuna singola organizza-zione. Lo vediamo, per esempio,nei casi di finanziamenti eroga-ti da parte di una fondazione, onei casi di contratti con un entepubblico. Essi normalmente pre-vedono il coinvolgimento di unamolteplicità di attori per affron-tare problematiche complesse.

Piuttosto che concedere quote di finanziamento a ciascuna parte, ilfinanziatore eroga ad una sola delle organizzazioni non profit coin-volte. Questa organizzazione, nota come ente capofila, distribuiràpoi una parte dei fondi alle altre parti.

Le alleanze strategiche garantiscono una maggiore autonomiaorganizzativa delle integrazioni aziendali, spesso rendendole piùappetibili per i partner. Se il risultato atteso da un partenariato èquello di condividere i servizi amministrativi quali la contabilità odi coordinare la fornitura di servizi, l’alleanza strategica è la stradada percorrere. Solo quando il risultato desiderato è un allineamen-to strategico più completo, la scelta dovrebbe ricadere sulla fusioneo su un altro tipo di integrazione aziendale.

Puntate sulle collaborazioni, salvaguardano le governanceLa collaborazione è la forma meno impegnativa di partnership traorganizzazioni non profit ed anche la più diffusa. A differenza dellefusioni, la forma della collaborazione non va a modificare i profiligiuridici e le forme di governance delle organizzazioni. Inoltre, a dif-ferenza delle alleanze strategiche, le collaborazioni non richiedonoun accordo scritto che specifichi il ruolo e le responsabilità di cia-scuna parte. Le collaborazioni sono molto più informali e di solito so-no intraprese in una occasione specifica o per uno scopo limitato.

Per esempio, come direttore esecutivo ho partecipato nel 1980ad una collaborazione che ha coinvolto 25 organizzazioni non pro-fit. La diverse organizzazioni erano tutte finanziate dal Dipartimen-to di Salute Mentale della Contea di Alameda (California). Periodi-camente, una volta all’anno, in occasione della definizione delBudget della Contea, le agenzie non profit erano minacciate di ri-duzione dei fondi. In questa occasione, le diverse organizzazionicoinvolte nella collaborazione accantonavano la competizione chele vedeva rivaleggiare nel corso dell’anno per la conquista di con-tratti, personale, donatori e attenzione mediatica, e si coalizzavanonell’opporsi ai tagli di bilancio verso qualsiasi membro del gruppo.Questa collaborazione, che continua ancora oggi, non ha richiestodi dar vita a forme di partnership più formali.

Le collaborazioni sono appropriate quando le esigenze che por-tano le organizzazioni ad unirsi sono circoscritte o limitate nel tem-po, o, come nell’esempio precedente, entrambe le cose. Nonostante

Le alleanze strategichegarantiscono unamaggiore autonomiaorganizzativa e per questosono più adatte percondividere la contabilitàe coordinare la fornitura di servizi

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la loro portata limitata, le collaborazioni non possono avere succes-so senza un livello minimo di fiducia e trasparenza. Organizzazioniche non si fidano reciprocamente, non possono lavorare insieme, ocomunque non in modo efficace. Una volta fui ingaggiato per aiuta-re un gruppo di organizzazioni non profit che stavano cercando dicondividere la funzione del reclutamento di personale. Ma poichédiffidavano l’un l’altro, non credevano che i loro partner avrebberoagito nel rispetto delle modalità concordate. Qualcuno ruppe pre-ventivamente l’accordo per battere sul tempo eventuali organizza-zioni sleali. Inutile dire che la collaborazione non fu più ripresa.

Promozione di partnership e ristrutturazioni strategicheCon la crisi economica che continua a farsi sentire, sono molte lefondazioni che si domandano se un incremento di fusioni o di al-tre partnership non sia in grado di rafforzare le organizzazioni nonprofit più vulnerabili.

La risposta è “dipende”. Sono innumerevoli i fattori che entra-no in gioco nel decidere di dar vita a un partenariato. In caso di fu-sione, per esempio, i fattori più importanti sono la compatibilitàdelle mission, la presenza di leadership e la forza del modello diazione proposto.

Le altre forme di integrazione tra organizzazioni richiedono, peresempio, piani di compensazione delle culture, dei programmi, deibilanci e dei donatori.

Le alleanze strategiche devono garantire un equo scambio di va-lore tra i partner.

Le collaborazioni richiedono invece l’allineamento degli obiet-tivi e la capacità di costruire efficaci rapporti di lavoro tra gruppi chepossono anche essere concorrenti.

Ognuna di queste sfide è di solito risolvibile, ma i problemi direlazione e interazione tra i gruppi, per esempio, il livello di fiduciareciproca, spesso sono determinanti ai fini del successo della par-tnership. Tenendo conto di queste complessità, gli enti finanziatoridovrebbero cercare di diffondere un clima favorevole alle fusioni ealle altre forme di partnership tra organizzazioni non profit. Un pri-mo passo da fare consisterebbe nel pubblicizzare il loro sostegno aipartenariati. Molte organizzazioni infatti temono che i finanziatoriguardino alle partnership come ad un segno di debolezza.

I finanziatori potrebbero annunciare la messa a disposizione disovvenzioni per le fusioni e le partnership. Alcuni lo hanno già fat-to e hanno chiamato queste iniziative “ristrutturazione strategica”,un termine coniato più di un decennio fa, per indicare l’intera gam-ma di opzioni di partnership. Per esempio, la fondazione “HawaiiCommunity” dispone di un fondo strategico di ristrutturazione; la“Fondazione Dyson” ha a sua volta lanciato un iniziativa strategicadi ristrutturazione, e la “Fondazione Foellinger” in Indiana inseri-sce le ristrutturazioni strategiche tra i finanziamenti per il rafforza-mento delle organizzazioni.

Gli enti finanziatori dovrebbero anche smettere di salvare le or-ganizzazioni che sono in fase di fallimento. Se la motivazione pererogare una sovvenzione è che il beneficiario non potrebbe soprav-vivere senza di essa, il finanziatore dovrebbe lasciar fallire l’ente.Un migliore utilizzo dei fondi potrebbe in questo caso consisterenel sostenere partnership in grado di salvare alcuni dei servizi del-l’organizzazione oppure nel favorire e sostenere la procedura discioglimento dell’ente.

Il tempo è un elemento essenziale nella partnership e i finanzia-tori dovrebbero essere in grado di sostenere rapidamente le forme dipartnership. La finestra critica di opportunità è di circa trenta giorni.

Una volta che l’opzione di un partenariato è sul tavolo, ha biso-gno di iniziare a muoversi rapidamente o inizierà a generare dubbied ansia nelle organizzazioni che potrebbero inibire la motivazionedelle parti ad andare avanti.

I finanziatori dovrebbero dapprima destinare una parte dellesovvenzioni a coprire i costi di negoziazione e le spese legali. I fi-nanziamenti per l’implementazione della partnership dovrebberoessere erogati solo in un secon-do momento, dopo che le partihanno raggiunto un accordo.Questo approccio incentiva uncomportamento corretto e sco-raggia i tentativi di partenariatoche mirano solamente ad attrar-re finanziamenti.

Poiché i dirigenti spesso pos-sono ostacolare le partnership, i

I soggeti finanziatoridovrebbero cercare di diffondere un climafavorevole alle fusionie smettere di salvare le organizzazioni nonprofit che sono sull’orlo del fallimento

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finanziatori dovrebbero aver cura di prevedere e risolvere le loropreoccupazioni. Se un dirigente teme per il proprio posto di lavo-ro, potrebbe infatti sabotare i negoziati. I finanziatori potrebbero so-stenere forme di trattamento di fine rapporto per alcune categorie dilavoratori dell’organizzazione. La promessa di un equo e ragionevoletrattamento di fine rapporto, permette ai responsabili di rilassarsi ecomportarsi correttamente.

Infine, i finanziatori dovrebbero porsi essi stessi come modellodi partnership. Un finanziatore che prende sul serio la collabora-zione è Jerry Hirsch della “Fondazione Lodestar” a Phoenix. Per al-cuni anni ha incoraggiato la collaborazione tra i finanziatori inte-ressati a sostenere partnership tra organizzazioni non profit.

Nel contesto economico di oggi, con l’aumento della concor-renza per le risorse, gli investitori guardano sempre più alle par-tnership come strumento per salvare le organizzazioni non profitin difficoltà. La fusione è infatti una potente modalità di inter-vento. L’impiego diffuso di fusioni, tuttavia, non ridurrà la con-correnza tra le organizzazioni non profit perché, come si diceva sindall’inizio, il problema non è dato dalla presenza di troppe orga-nizzazioni. I finanziatori, le or-ganizzazioni non profit e i do-natori devono invece ripensareal modo per finanziare attivitàche sono socialmente necessa-rie, ma che, per loro stessa na-tura, non potranno mai finan-ziarsi in modo autonomo. Lefusioni sono solo una delle pos-sibili scelte, tra le opzioni offer-te dalle partnership di ristrut-turazione strategica.

(traduzione di Silvia Rapizza)

* Fondatore e presidente di La PianaConsulting

L’articolo è tratto dalla rivista “StanfordSocial Innovation Review”, pubblicata dal Center for social innovation -Graduate School of Business della StanfordUniversity, nella primavera 2010

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