“E se noi riconosciamo bene la mente dell’Artefice”: Bellori e la nascita dell’iconologia...

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Stefano Pierguidi »E se noi riconosciamo bene la mente dell’Artefice«: Bellori e la nascita dell’iconologia come (fallace) scienza interpretativa In un convegno dedicato a Cesare Ripa e alla sua Iconologia non si può fare a meno di ricordare quanta importanza ebbe quel manuale per le ricerche di Erwin Panofsky, ovvero di colui che davvero è stato il padre dell’Iconologia come moderna scienza inter- pretativa. 1 Lo studioso tedesco si servì dell’Iconologia come di un semplice strumento di indagine nel saggio del 1926, scritto a quattro mani con Fritz Saxl, e dedicato all’Allegoria della Prudenza di Tiziano. 2 Quando quattro anni dopo ripubblicò quello studio all’in- terno del libro sul tema dell’Ercole al bivio, egli, rifacendosi agli studi di Emile Mâle, già definiva l’Iconologia una miniera inesauribile di cui si erano servite generazioni di artisti. 3 Nel 1955, nella sua terza e definitiva versione di quel saggio, Panofsky arrivava a definire Ripa eruditissimo, e a riconoscere in lui un’autorità indiscussa. 4 Nell’indice dei nomi dei suoi classici Studies in Iconology del 1939, Ripa ricorre molto frequentemente, 1 Naturalmente, ancora prima di Panofsky, si dovrebbe ricordare Emile Mâle, cfr. Ernst H. Gombrich: Aby Warburg. una biografia intellettuale (London 1970), Milano 1983, p. 266: »Secondo una diffusissima opinione, Warburg è lo studioso che nella storia dell’arte propende per l’abbandono dell’analisi for- male a favore dell’iconografia. Chi ha letto questo libro sa che sarebbe caricaturale collegare War- burg a questo indirizzo. Se c’è uno storico dell’arte il cui nome dovrebbe essere legato all’iconografia, questi è naturalmente Emile Mâle.« Proprio Mâle, come è noto, ›riscoprì‹ l’Iconologia in un saggio del 1927 (»La Clef des allegories peintes et sculptées au 17e et au 18e siécles«, in: Revue des Deux Mondes, XXXIX (1927), pp. 107–129 e 376–394). Per molti versi, però, gli studi di Mâle sono ancora legati ad una concezione ottocentesca dell’iconologia, intesa prima di tutto in senso classificatorio. Proprio per questa ragione, peraltro, il manuale di Ripa, quasi un dizionario, fu essenziale per i suoi studi, laddove in questa sede si sottolineerà il rapporto fra Bellori e Panofsky. A questo proposito si legga anche quanto scritto da Georges Didi-Huberman in relazione a Warburg, i cui studi sono molto lontani dal modello dell’Iconologia di Ripa: »In realtà, l’autore della Ninfa non si interessava della ›simbolica‹ figurativa sul piano di un dizionario dei simboli (alla Ripa) o di un ›enigma figurato‹ (alla Panofsky) […] Appare chiaramente che il modello del dizionario – cioè l’organizzazione stessa dell’Iconologia di Cesare Ripa – non poteva adattarsi all’epistemologia delle sopravvivenze«; cfr. Geor- ges Didi-Huberman: L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte (Paris 2002), Torino 2006, pp. 169 e 453. 2 Erwin Panofsky e Fritz Saxl: »A Late Antique Religious Symbol in Works by Holbein and Titian«, in: The Burlington Magazine, IL (1926), p. 179, nota 13. Panofsky era stato uno dei pochi studiosi che aveva utilizzato il manuale di Ripa in anni precedenti alla pubblicazione dello studio di Mâle (cfr. nota 1), cfr. Donald James Gordon: »Ripa’s Fate«, in: The Renaissance Imagination, Berkeley 1975, p. 54. 3 Erwin Panofsky: Hercules am Scheidewege und andere antike Bildstoffe in der neueren Kunst, Leipzig 1930, p. 29; cfr. anche nota 1. 4 Erwin Panofsky: Il significato nelle arti visive (Garden City, N.Y. 1955), Torino 1962, p. 164; sulla validità dell’interpretazione panofskiana del dipinto di Tiziano, più volte messa in discussione, cfr. Stefano 221

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Stefano Pierguidi »E se noi riconosciamo bene la mente dell’Artefice«: Bellori e la nascita dell’iconologia come (fallace) scienza interpretativa

In un convegno dedicato a Cesare Ripa e alla sua Iconologia non si può fare a meno di

ricordare quanta importanza ebbe quel manuale per le ricerche di Erwin Panofsky,

ovvero di colui che davvero è stato il padre dell’Iconologia come moderna scienza inter-

pretativa.1 Lo studioso tedesco si servì dell’Iconologia come di un semplice strumento di

indagine nel saggio del 1926, scritto a quattro mani con Fritz Saxl, e dedicato all’Allegoria

della Prudenza di Tiziano.2 Quando quattro anni dopo ripubblicò quello studio all’in-

terno del libro sul tema dell’Ercole al bivio, egli, rifacendosi agli studi di Emile Mâle,

già definiva l’Iconologia una miniera inesauribile di cui si erano servite generazioni di

artisti.3 Nel 1955, nella sua terza e definitiva versione di quel saggio, Panofsky arrivava a

definire Ripa eruditissimo, e a riconoscere in lui un’autorità indiscussa.4 Nell’indice dei

nomi dei suoi classici Studies in Iconology del 1939, Ripa ricorre molto frequentemente,

1 Naturalmente, ancora prima di Panofsky, si dovrebbe ricordare Emile Mâle, cfr. Ernst H. Gombrich: Aby Warburg. una biografia intellettuale (London 1970), Milano 1983, p. 266: »Secondo una diffusissima opinione, Warburg è lo studioso che nella storia dell’arte propende per l’abbandono dell’analisi for-male a favore dell’iconografia. Chi ha letto questo libro sa che sarebbe caricaturale collegare War-burg a questo indirizzo. Se c’è uno storico dell’arte il cui nome dovrebbe essere legato all’iconografia, questi è naturalmente Emile Mâle.« Proprio Mâle, come è noto, ›riscoprì‹ l’Iconologia in un saggio del 1927 (»La Clef des allegories peintes et sculptées au 17e et au 18e siécles«, in: Revue des Deux Mondes, XXXIX (1927), pp. 107–129 e 376–394). Per molti versi, però, gli studi di Mâle sono ancora legati ad una concezione ottocentesca dell’iconologia, intesa prima di tutto in senso classificatorio. Proprio per questa ragione, peraltro, il manuale di Ripa, quasi un dizionario, fu essenziale per i suoi studi, laddove in questa sede si sottolineerà il rapporto fra Bellori e Panofsky. A questo proposito si legga anche quanto scritto da Georges Didi-Huberman in relazione a Warburg, i cui studi sono molto lontani dal modello dell’Iconologia di Ripa: »In realtà, l’autore della Ninfa non si interessava della ›simbolica‹ figurativa sul piano di un dizionario dei simboli (alla Ripa) o di un ›enigma figurato‹ (alla Panofsky) […] Appare chiaramente che il modello del dizionario – cioè l’organizzazione stessa dell’Iconologia di Cesare Ripa – non poteva adattarsi all’epistemologia delle sopravvivenze«; cfr. Geor-ges Didi-Huberman: L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte (Paris 2002), Torino 2006, pp. 169 e 453.

2 Erwin Panofsky e Fritz Saxl: »A Late Antique Religious Symbol in Works by Holbein and Titian«, in: The Burlington Magazine, IL (1926), p. 179, nota 13. Panofsky era stato uno dei pochi studiosi che aveva utilizzato il manuale di Ripa in anni precedenti alla pubblicazione dello studio di Mâle (cfr. nota 1), cfr. Donald James Gordon: »Ripa’s Fate«, in: The Renaissance Imagination, Berkeley 1975, p. 54.

3 Erwin Panofsky: Hercules am Scheidewege und andere antike Bildstoffe in der neueren Kunst, Leipzig 1930, p. 29; cfr. anche nota 1.

4 Erwin Panofsky: Il significato nelle arti visive (Garden City, N.Y. 1955), Torino 1962, p. 164; sulla validità dell’interpretazione panofskiana del dipinto di Tiziano, più volte messa in discussione, cfr. Stefano

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e si deve immaginare che Panofsky tenesse sempre sul suo tavolo da lavoro una copia

dell’Iconologia da consultare in ogni momento. Solo con la memorabile recensione di

Elizabeth McGrath al libro di Gerlind Werner avremmo infatti cominciato a vedere

Ripa per quello che egli realmente fu, ovvero un abile divulgatore, non uno studioso

erudito.5

È prima di tutto alla luce della grande stima tributata da Panofsky all’Iconologia

che si deve rileggere l’interpretazione data dallo studioso tedesco di un celebre dipinto

di Nicolas Poussin, la Danza alla musica del Tempo della Wallace Collection di Londra

(1638–40 circa; Fig. 1).6 Panofsky partì dalla lettura delle Vite di Giovanni Pietro Bellori

(1672), dove il dipinto è indicato come »Il ballo della vita humana«, e le protagoniste sono

così descritte:

»L’inventione della vita humana nel ballo di quattro donne simili alle quattro sta-

gioni. Figurò il Tempo a sedere con la lira, al suono quattro donne, la Povertà, la

Fatica, la Ricchezza e’l Lusso scambievolmente si danno le mani in giro, e danzano

perpetuamente, variando la sorte de gli huomini. Ciascuna di loro esprime la pro-

pria forma: stanno avanti il Lusso e la Ricchezza, questa coronata di perle, e d’oro,

quella inghirlandata di rose e di fiori, pomposamente adorne. Dietro volgesi la

Povertà, in habito mesto, cinta il capo di secche fronde, in contrasegno de’ perduti

beni. Viene ella accompagnata dalla Fatica, la quale scopre le spalle ignude, con le

braccia indurate e brune, e riguardano la sua compagna, mostra lo stento del corpo

e’l patimento.«7

Panofsky, ritenendo probabilmente a ragione che Poussin avesse attinto all’Iconolo-

gia per l’iconografia dell’Ira nella Verità sollevata dal Tempo del Louvre,8 ipotizzò che l’ar-

tista si fosse rifatto a varie altre voci del manuale di Ripa per le protagoniste del dipinto

della Wallace Collection.9 Solo recentemente Malcolm Bull ha respinto decisamente

Pierguidi, »L’Allegoria della Prudenza di Tiziano e il Signum Tricipitis del Cerbero di Serapide«, in: International Journal of the Classical Tradition, XIII/2 (2006), pp. 188–196.

5 Elizabeth McGrath »Personifying Ideals«, recensione a Gerlind Werner: Ripa’s Iconologia: Quellen – Methode – Ziele, Utrecht 1976, in: Art History, VI (1983), pp. 363–368.

6 Erwin Panofsky: »Et in Arcadia ego: On the conception of Transience in Poussin and Watteau«, in: Philosophy and History: Essays presented to Ernst Cassirer, a cura di Raymond Klibansky and H.J. Paton, Oxford 1936, pp. 241–242.

7 Giovanni Pietro Bellori: Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni (Roma 1672), a cura di Evelina Borea, con introduzione di Giovanni Previtali, Torino 1976, p. 463.

8 Cesare Ripa: Iconologia, Roma 1593, p. 146; Panofsky, op. cit. (cfr. nota 6), pp. 252–253.9 La lettura Bellori/Panofsky (Panofsky, op. cit. (cfr. nota 6), pp. 241–242 e 252–253) venne accolta da

Anthony Blunt (Anthony Blunt: Nicolas Poussin, 2 voll., London 1967, I, p. 153, e Anthony Blunt: The

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l’interpretazione di Bellori e, di conseguenza, di Panofsky, sostenendo che il dipinto raf-

figuri molto più semplicemente la danza delle quattro stagioni, sulla scorta magari di

una precisa fonte testuale, la traduzione francese delle Immagini di Filostrato il Vecchio

di Blaise de Vigenère (Parigi 1615), una cui incisione offre un confronto stringente con

la tela della Wallace.10

Panofsky, da parte sua, non entrava nel merito se Bellori fosse

stato in grado di identificare correttamente quelle figure grazie alla sua conoscenza

diretta e personale di Poussin o attraverso la consultazione dell’Iconologia. Certo, dalla

descrizione della perduta Verità salvata dal Tempo dipinta dallo stesso Poussin per Giulio

Rospigliosi (1640 circa), si potrebbe evincere che Bellori avesse una certa familiarità con il

manuale di Ripa, poiché egli identificò correttamente la Maldicenza con le due fiaccole

Paintings of Nicolas Poussin: a critical catalogue, London 1966, pp. 81–82, n. 121) e, più recentemente, da Richard Beresford: A Dance to the Music of Time by Nicolas Poussin, London 1995, p. 24.

10 Malcolm Bull (Malcolm Bull: »Poussin and Nonnos«, in: The Burlington Magazine, CXL (1998), pp. 730–738, in particolare, per la confutazione della lettura di Bellori e Panofsky, p. 736, nota 73) ritiene che Poussin si sia rifatto anche alle Dionisiache di Nonno, ma su questo punto cfr. anche nota 58.

1 Nicolas Poussin, Danza alla musica del Tempo, 1638–40, olio su tela, 83 · 105 cm, Londra: Wallace Collection.

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in mano,11

ma si potrebbe sempre avanzare l’ipotesi che il soggetto dell’opera gli fosse

stato descritto dal pittore o magari dal suo committente.

Altri passi delle Vite, infatti, sembrerebbero dimostrare l’indipendenza di Bellori

dall’Iconologia. Si legga ad esempio la sua descrizione del Monumento funebre di Leone XI di

Alessandro Algardi in San Pietro (1634–1644) (Fig. 2):

»Sopra il sepolcro siede il Papa in atto di benedire, e da i lati dell’urna sono disposte

due statue, la Prudenza, in habito e forma di Pallade con l’elmo, e la mano appog-

giata allo scudo; la Liberalità, che dal corno versa gemme, e monete, virtù celebri di

questo Pontefice.«12

11 Ripa, op. cit. (cfr. nota 8), p. 158; Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), p. 464; Panofsky, op. cit. (cfr. nota 6), p. 253.

12 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), p. 406.

2 Alessandro Algardi, Monumento funebre di Leone XI, 1634–1644, Roma: San Pietro.

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In realtà la prima delle due figure allegoriche è indicata precisamente, e giu-

stamente, come una Magnanimità nel contratto del 1634 tra lo scultore e il cardinale

Roberto Ubaldini.13

Giovanni Battista Passeri avrebbe più opportunamente parlato di

una »Maestà del Regno«,14

poiché sarebbe stato davvero difficile confondere l’iconografia

di quella personificazione con quella, tipica, della Prudenza, così come veniva descritta

anche da Ripa (con gli attributi, cioè, dello specchio, del serpente e del viso bifronte).15

Bellori era però coerente con sé stesso: in quegli stessi anni, infatti, egli aveva stilato

il programma iconografico dell’affresco con il Trionfo della Clemenza eseguito dall’amico

Carlo Maratti nel salone di palazzo Altieri nel 1674, dove compare una Prudenza identica

alla Magnanimità del Monumento funebre di Leone XI, descritta dallo stesso Bellori nella

sua vita di Maratti (Fig. 3):

»Siede la Clemenza sopra l’iride e su le nubi in una gran luce, in cui risplendono

sette candide stelle, impresa del pontefice. Con una mano regge l’occhiuto scettro

della Provvidenza, con l’altra distende un ramo di olivo sopra il globo del mondo,

retto da due amoretti celesti, l’uno de’ quali scioglie un volume col motto del poeta

Claudiano «CUSTOS CLEMENTIA MUNDI», significando il pacifico e felice reggi-

mento del mondo cristiano nel suo santissimo pontificato. Sotto siede la Giustizia

con due altre virtù: Prudenza e Fortezza, e sollevando il volto verso la Clemenza

pare che ammiri la sua bellezza e la sua luce; tiene ella con una mano il libro aperto

delle leggi, con l’altra il compasso, col quale misura i premii e le pene, ed al suo

fianco volgesi un amoretto con li fasci, pronto a ferire ed a punire l’azzioni ingiuste.

Siede sul lato destro la Prudenza in abito di Pallade armata d’elmo, e sedendo posa la

mano su lo scudo con l’impresa delle sette stelle Altiere…Dal lato sinistro della Giu-

stiza istessa sollevasi un giovane eroico inteso per la Fortezza con spoglia di leone

in capo rilegato il petto, e tiene il confalone, rappresentando la persona del signor

prencipe don Gasparo Altieri nipote del medesimo pontefice confaloniero di Santa

Chiesa; dalle quali virtù derivando la Felicità pubblica, viene ancor questa figurata

in atto di guardar verso terra a pro de’ mortali col caduceo e corno di Amaltea, da cui

ella versa i suoi beni. Il qual concetto vien compito da quattro altri fanciulli rappre-

sentanti le quattro stagioni.«16

13 Jennifer Montagu: Alessandro Algardi, 2 voll., New Haven 1985, II, p. 434, n. 161.14 Giambattista Passeri: Die Künstlerbiographien, a cura di Jacob Hess, Leipzig 1934, p. 203.15 Ripa, op. cit. (cfr. nota 8), pp. 224–226.16 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), p. 596. Sul programma iconografico di Bellori per l’affresco di Maratti cfr.

soprattutto Jennifer Montagu: »Bellori, Maratti and the Palazzo Altieri«, in: Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XLI (1978), pp. 334–340. Cfr. anche Stella Rudolph, scheda in: L’idea del bello: viaggio

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Anche la Giustizia e la Clemenza non corrispondono alle omonime voci dell’Icono-

logia, e in fondo questo non è troppo sorprendente. Il manuale di Ripa non dovette mai

godere, nel Seicento, della stima degli uomini di cultura, e non sembra infatti venisse

utilizzato neanche dagli autori dei programmi iconografici dei grandi affreschi alle-

gorici di palazzo Barberini, il Trionfo della Sapienza di Andrea Sacchi (1629–31; Fig. 4) e

il Trionfo della divina Provvidenza di Pietro da Cortona (1632–39), da identificare forse,

rispettivamente, con Tommaso Campanella e Francesco Bracciolini.17

Quando, al con-

per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni) a cura di Evelina Borea e Carlo Gasparri, Roma 2000, pp. 466–468.

17 John Beldon Scott: Images of Nepotism. the Painted Ceilings of Palazzo Barberini, Princeton 1991, in parti-colare pp. 88–94 e 137. Per l’identificazione delle figure allegoriche del primo affresco Bellori (op. cit. (cfr. nota 7), pp. 545–547) si rifece, sebbene non pedissequamente, alla descrizione di Girolamo Teti

3 Carlo Maratti, Trionfo della Clemenza, ca. 1674, affresco, Roma: Palazzo Altieri.

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trario, erano i pittori stessi, con ogni probabilità, ad elaborare iconograficamente le pro-

prie opere, come nel caso dell’Allegoria dell’Aria affrescata da Mattia Preti in una sala di

palazzo Pamphilj a Valmontone (1660–61),18

in quello dell’Allegoria della divina Sapienza

delle Aedes Barberinae, cfr. Hieronymus Tetius: Aedes Barberinae ad Quirinalem descriptae – Descrizione di Palazzo Barberini al Quirinale: il palazzo, gli affreschi, le collezioni, la corte, a cura di Lucia Faedo e Thomas Frangenberg, Pisa 2005, pp. 325–331. Quasi tutte le personificazioni che compaiono nell’affresco di Sacchi non hanno alcun corrispettivo nell’Iconologia di Ripa (Ann Sutherland Harris: Andrea Sacchi, Oxford 1977, pp. 11–12), ed è improbabile che Bellori potesse identificare correttamente figure come la Perspicacia e la Bellezza senza aver prima consultato il volume di Teti; questi, a sua volta, doveva aver consultato il programma iconografico originale, conservato ancora oggi alla Biblioteca Aposto-lica Vaticana. Secondo Ann Sutherland Harris (scheda in L’Idea del Bello cit., p. 455) »le varie interpre-tazioni, secentesche e moderne, costituiscono un materiale interessante per un’analisi comparativa delle metodologie iconografiche,« ma in realtà Bellori avrebbe potuto rifarsi a Teti: egli se ne allon-tanò coscientemente.

18 Barbara Fabjan: »Valmontone o l’iperbole dei carri«, in: Mattia Preti: Il Cavalier Calabrese, catalogo della mostra (Catanzaro, Convento di Santa Caterina), Napoli 1999, pp. 71–81. Secondo la studiosa Preti avrebbe attinto dall’Iconologia »scegliendo una serie di icone [sic!] che dal piano strettamente ›natu-rale‹ scivola in quello morale.« – Più recentemente Barbara Fabjan: »Le stanze del Fuoco e dell’Aria«, in: Palazzo Doria Pamphilj a Valmontone, a cura di Barbara Fabjan e Monica Di Gregorio, Roma 2004, p. 46, dopo aver accolto la precisazione dello scrivente (Stefano Pierguidi: »Le drame de la lumière et de l’ombre: la tradizione iconografica della sequenza Notte–Aurora–Giorno«, in: Studi romani, L (2002), pp. 294–295) e aver rinunciato a parlare dei »quattro momenti del giorno«, in favore di un più corretto »carri raffiguranti diversi momenti del giorno, due notturni e due diurni« (nel ciclo di

4 Andrea Sacchi, Trionfo della Sapienza, 1629–1631, affresco, Roma: Palazzo Barberini.

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affrescata da Francesco Cozza nella biblioteca di palazzo Pamphilj a Roma (1667–73),19

in un ciclo progettato nel 1670 da Giovanni Battista Passeri per una sala dell’Accademia

di San Luca a Roma,20

o ancora nei perduti affreschi di Luca Giordano sulla volta della

navata della chiesa dell’abbazia di Montecassino (1677),21

e in quelli dello stesso Gior-

dano nella galleria di palazzo Medici Riccardi a Firenze (1682–1685),22

l’Iconologia veniva

letteralmente saccheggiata. Un caso molto interessante è quello dei quattro pennacchi

in San Carlo ai Catinari affrescati da Domenichino nel 1628–30 con le Quattro virtù cardi-

nali. Malvasia, piuttosto genericamente, ne attribuiva l’invenzione a Giovanni Battista

Agucchi,23

che però aveva lasciato Roma nel 1624.24

Probabilmente Domenichino attinse

autonomamente al manuale di Ripa.25

Bellori identificò correttamente il Dominio di sé

stesso raffigurato sotto la Forza ed esemplato sull’omonima voce dell’Iconologia:

»Huomo a sedere sopra un Leone, che habbia il freno in bocca, et regga con una

mano detto freno et con l’altra punga esso Leone con uno stimolo.26

Un heroico giovine formato con heroici lineamenti, siede a cavallo sopra un feroce

leone rampante; regge il freno con una mano, con l’altra vibra in alto un dardo,

quasi lo freni e lo pugna…significando ancora l’imperio, che l’huomo forte ha di se

stesso nel domare con virtù le passioni, e l’impeto dell’animo.«27

Valmontone manca infatti la raffigurazione del Crepuscolo, e ci sono due carri associati alla Notte, quello di Diana e quello della Notte stessa), ha poi definito poco convincenti le mie conclusioni. La Fabjan è tornata anche a sottolineare il supposto rapporto tra gli affreschi di Preti e un dipinto di Jan Brueghel della collezione Pamphilj, preferendo sempre riproporre una citazione inventariale piuttosto che la riproduzione del quadro stesso, evidentemente troppo diverso dal ciclo di Preti per prestarsi davvero ad un confronto plausibile.

19 John Beldon Scott: Allegories of Divine Wisdom in Italian Baroque Art, Ph. D., Ruthers University, 1982, Ann Arbor 1984, pp. 149–151.

20 Anthony Colantuono: »Invention and caprice in an iconographical programme by G. B. Passeri«, in: Storia dell’arte, 87 (1996), pp. 188–205.

21 Erna Mandowsy: »Ricerche intorno all’Iconologia del Ripa«, in: La Bibliofilia, XLI (1939), pp. 303–327; Robert Enggass: »Montecassino«, in: A Taste for Angels: Neapolitan painting in North America 1650 – 1750, catalogo della mostra, New Haven, Sarasota, Kansas City 1987, pp. 54–55, nota 6.

22 Gabriele Finaldi: »Gli affreschi di Palazzo Medici Riccardi«, in: Luca Giordano 1634–1705, catalogo della mostra, Napoli, Vienna, Los Angeles 2001, pp. 251–252.

23 Carlo Cesare Malvasia: Felsina pittrice: vite de’ pittori bolognesi, edizione a cura di Giampietro Zanotti, 2 voll., Bologna 1841, II, p. 239.

24 Richard E. Spear: Domenichino, 2 voll., New Haven 1982, I, p. 275.25 Emile Mâle: L’art religieux après le Concile de Trente: etude sur l’iconographie de la fin du XVI siècle, du XVII,

du XVIII siècle. Italie, France, Espagne, Flandres, Paris 1932, pp. 392–93.26 Ripa, op. cit. (cfr. nota 8), p. 64.27 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), p. 344; Spear, op. cit. (cfr. nota 24), I, p. 275.

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Lo stesso Bellori, però, non identificò con la Benignità, sempre tratta dall’Iconologia,

la donna che compare sotto alla Giustizia.28

Nonostante la grande ammirazione che Bellori nutriva per Domenichino e Poussin,

nessuno dei dipinti e degli affreschi di questi due artisti venne sottoposto ad un’ana-

lisi e a una interpretazione tanto approfondite quanto le opere di Annibale Carracci.29

Egli, di una o più generazioni più anziano dei vari Domenichino, Sacchi e Poussin, e

quindi non un contemporaneo di Bellori, era ormai da questi considerato un grande

maestro del passato, al pari quasi di Raffaello, e le sue creazioni maggiori vennero trat-

tate dall’autore con la stessa reverenza con cui egli guardava a quelle dell’Urbinate nelle

Stanze in Vaticano e alla Farnesina. Come è noto, infatti, Bellori dedicò agli affreschi di

Annibale nella galleria Farnese e ai suddetti cicli di Raffaello delle lunghe descrizioni,

pensate per essere accompagnate da incisioni di traduzione (la seconda opera, però, finì

per uscire postuma, nel 1696, priva delle illustrazioni).30

È soprattutto in questi scritti

che Bellori si presenta a noi, secondo le parole di Willem Lash, come »one of the first to

study the literary sources of themes in paintings with a view to thereby establishing the

deeper significance and the general symbolic ›idea‹ of the work of art.«31

È noto che Gior-

gio Vasari, nei suoi Ragionamenti (Firenze 1588) abbia sovrainterpretato, a posteriori, il

significato del grandioso ciclo pittorico realizzato sotto la sua direzione in Palazzo Vec-

28 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), pp. 342–343; Spear, op. cit., (cfr. nota 24), I, p. 276.29 Nella Caccia di Diana di Domenichino, a cui pure egli dedicò una lunga ekphrasis, Bellori (op. cit. (cfr.

nota 7), pp. 365–369) non cercò di individuare reconditi significati allegorici; anzi egli terminò la descrizione con il seguente passaggio: »siché tacendo con essi [i due pastori che compaiono sulla destra] anche noi adopriamo lo sguardo solo ed ammiriamo l’immagine, celebrando l’artefice con eterne lodi.« Bellori, in realtà, non comprese bene neanche l’azione del dipinto, cfr. Stefano Pierguidi: »La freccia in aria, ovvero la rappresentazione del tempo in pittura: La Caccia di Diana di Domeni-chino e Le tre Parche di Simon Vouet«, in: Les Cahiers d’Histoire de l’Art, 7 (2009), pp. 20–25. Significativa è anche la lettura belloriana dell’affresco di Domenichino in palazzo Costaguti, pensata in chiave apologetica, cfr. Stefano Pierguidi: »Il Carro del Sole e la Verità sollevata dal Tempo di Domenichino in Palazzo Patrizi Costaguti nel contesto della polemica intorno all’Ultima Comunione di San Girolamo«, in: Arte a Bologna, in corso di pubblicazione.

30 Giovanni Pietro Bellori: Argomento della Galleria Farnese dipinta da Annibale Carracci, Roma 1657; Gio-vanni Pietro Bellori: Descrizzione delle Imagini dipinte da Rafaelle D’Urbino nelle camere del Palazzo Apo-stolico Vaticano, Roma 1695; su queste imprese editoriali cfr. Evelina Borea: »Giovan Pietro Bellori e la commodità delle stampe«, in: Documentary culture: Florence and Rome from Grand-Duke Ferdinand I to Pope Alexander VII, a cura di Elizabeth Cropper, Giovanna Perini e Francesco Solinas, Bologna 1992, pp. 263–285; Sonia Maffei: »Un giano bifronte: Raffaello e Apelle in Giovan Pietro Bellori; osservazioni intorno all’operetta ›Dell’ingegno eccellenza e grazia di Raffaelle comparato ad Apelle‹«, in: Huma-nistica, IV/2, (2009), pp. 135–137; sull’uso in generale delle stampe da parte di Bellori cfr. ora le preci-sazioni di Domingo Gasparro: Dal lato dell’immagine: destra e sinistra nelle descrizioni di Bellori e altri, Latina 2008.

31 Willem F. Lash: »Iconography and iconology«, in: The Dictionary of Art, 15 (London 1996), p. 89.

»E se noi riconosciamo bene la mente dell’Artefice«

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chio a Firenze.32

Girolamo Teti, nelle sue Aedes Barberinae ad Quirinalem descriptae (Roma

1642), fece qualcosa di simile per gli affreschi secenteschi di palazzo Barberini.33

Le let-

ture interpretative di Bellori, però, costituiscono qualcosa di sostanzialmente diverso:

l’erudito antiquario, infatti, aveva l’ambizione di ricostruire le intenzioni degli artisti e

degli autori dei programmi iconografici, laddove sia Vasari sia Teti non fecero altro che

amplificare il significato delle opere che stavano descrivendo, utilizzandole come spunti

per vere e proprie digressioni letterarie. Non a caso Francesco Bracciolini ne Il Pellegrino,

altra descrizione degli affreschi di Pietro da Cortona in palazzo Barberini, indicava in

quelle pitture delle »Fantasie poetiche di cui non una, ma cento allegorie inventar si

potrebbero.«34

Le forzature interpretative di Bellori nella descrizione degli affreschi della

Stanza della Segnatura, alcune delle quali avevano alle spalle quelle di Vasari, vennero

stigmatizzate da Gombrich già nel 1972.35

Ma quello che oggi davvero stupisce è l’in-

comprensione, e in alcuni casi persino il consapevole stravolgimento, da parte di Bellori,

del significato generale degli affreschi di Annibale nel camerino e nella galleria Farnese.

Dei primi, in genere, si ritiene che egli abbia sostanzialmente compreso il contenuto del

programma iconografico, ma questo è vero solo in parte. Bellori scrisse:

»Con queste pitture Annibale ne’ fatti d’Ercole intese la vita attiva e contemplativa,

in quelli di Ulisse la medicina e la fuga contro il vizio, ne’ fratelli catanesi l’ammi-

revole valore della virtù, cedendo loro le voraci fiamme. Ultimamente ci propose

Medusa per lo gastigo del vizio punito da gli uomini e dal cielo…e ne’ quattro angoli

della volta, le quattro virtù, Giustitia, Prudenza, Temperanza, Fortezza. Sopra cia-

scuna lunetta, dove sono le favole, aggiunse ovati di giallo con figurine simboleg-

gianti la felicità, e la fama proprio fine de’ seguaci della virtù.«36

32 Elizabeth McGrath: »Il senso nostro: the Medici Allegory applied to Vasari’s mythological frescoes in the Palazzo Vecchio«, in: Giorgio Vasari tra decorazione ambientale e storiografia artistica, atti del conve-gno di studi (Arezzo, 8 – 10 ottobre 1981) a cura di Gian Carlo Garfagnini, Firenze 1985, pp. 117–134.

33 Cfr. Tetius, op. cit. (cfr. nota 17), passim.34 Thomas Frangenberg: »La nascita di un libro«, in: Tetius, op. cit. (cfr. nota 17), p. 131.35 Ernst H. Gombrich: Immagini simboliche: studi sull’arte nel Rinascimento (London 1972), Torino 1979,

pp. 121–122 e 136; ancora André Chastel (André Chastel: Art et Humanisme a Florence au temps de Laurent le Magnifique. Études sur la Renaissance et l’Humanisme platonicien, Paris 1959, p. 472) accoglieva senza esitazioni l’interpretazione di Vasari (ripresa da Bellori) secondo cui i colori delle vesti della Filosofia sulla volta della Stanza della Segnatura alluderebbero ai quattro elementi, cfr. Giorgio Vasari: Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a cura di Rosanna Betta-rini, commento secolare di Paola Barocchi, 6 voll., 1966–1994, IV, Firenze 1976, p. 168.

36 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), pp. 55–56.

230

Stefano Pierguidi

Bellori, cioè, non sottolineò, anzi ignorò, il nesso fondamentale che legava gli affre-

schi nelle lunette alle figure allegoriche soprastanti (Fig. 5).37

Di queste egli non iden-

tificò il soggetto, limitandosi a parlare genericamente (ed erroneamente) della Felicità

e della Fama. Poi interpretò allegoricamente il significato dell’episodio de I fratelli di

Catania come »l’ammirevole valore della virtù«, laddove esso rappresentava più precisa-

mente la Pietà raffigurata nella volta; e dei due episodi di Ulisse, che nel camerino erano

associati alla Castità e alla Intelligenza, egli scrisse che rappresentavano »la medicina e la

37 John Rupert Martin: »Immagini della Virtù: The Paintings of the Camerino Farnese«, in: The Art Bul-letin, XXXVIII (1956), pp. 101–103; John Rupert Martin: The Farnese Gallery, Princeton 1965, pp. 31–37.

5 Annibale Carracci, Affreschi del Camerino (part.), ca. 1596–1597, affresco, Roma: Palazzo Farnese.

»E se noi riconosciamo bene la mente dell’Artefice«

231

fuga contro il vizio.« Non è facile, peraltro, stabilire se Bellori non cogliesse questo nesso,

o lo ignorasse di proposito, poiché per il ciclo della Stanza della Segnatura, che era stato

elaborato secondo il medesimo principio logico, egli aveva scritto correttamente:

»Conforme la mente di Raffaelle, dobbiamo intendere che le quattro Imagini grandi

da esso dipinte nelle quattro pareti, ò faccie di questa Camera, derivano tutte da

un solo principio, e da un solo argomento, che è la Sapienza delle cose divine, ed

umane, e la Virtù, nella quale consiste il bene, e la felicità di questa mortal vita per

conseguire l’eterna, come ora vedremo. Sono esse la Teologia, la Filosofia, la Giuri-

sprudenza, ò sia la Giustitia, et insieme la Poesia, ciascuna accomodata al fine mede-

simo, ed all’azzione principale, che compongono.«38

Una volta stabilito questo, ci si chiede se sia davvero possibile ritenere Bellori una

fonte affidabile circa l’interpretazione allegorica degli affreschi. Egli scrisse che l’epi-

sodio di Ercole sostiene il globo terrestre (Fig. 6), rimandando al mito secondo cui l’eroe

avrebbe imparato da Atlante la scienza dell’astronomia (e infatti in basso sono raffigu-

rati due astronomi), alluderebbe alla vita contemplativa. Al contrario, quello di Ercole in

riposo davanti alla Sfinge (Fig. 7), in cui l’iscrizione in greco, trascritta e tradotta da Bellori,

recita »la fatica è cagione di riposarsi bene«, alluderebbe alla vita attiva. Questa lettura

è stata accolta da tutti, da John Rupert Martin a Charles Dempsey, e giudicata un inge-

gnoso paradosso, elaborato da Fulvio Orsini, autore del programma iconografico del

ciclo.39

In realtà il significato di ciascuna delle due scene è più verosimilmente da inter-

pretare come la rappresentazione della necessaria convivenza e compenetrazione della

vita attiva con quella contemplativa per la conduzione di una vita pienamente virtuosa.

La critica ha da sempre ricollegato la scelta del tema di Ercole sostiene il globo terrestre ad

un emblema delle Symbolicae Quaestiones di Achille Bocchi (Bologna 1555), dedicato al

»più grande dei Farnese«, in cui si vede Ercole misurare il globo, ed Atlante consultare

un libro. Il titolo dell’emblema celebra la vita attiva, mentre il testo prima contrappone

la vita attiva, rappresentata da Ercole, a quella contemplativa, rappresentata da Atlante,

38 Bellori, op. cit. (cfr. nota 30), p. 4.39 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), pp. 49–51; Martin, op. cit. 1956 (cfr. nota 37), p. 97; Charles Dempsey: »Anni-

bal Carrache au Palais Farnèse«, in: Le Palais Farnése, 3 voll., 1980–1994, II, 1, Rome 1981, p. 277. Martin (op. cit. 1956 (cfr. nota 37), pp. 97–98) riteneva che i due affreschi qui in esame, insieme al dipinto centrale con Ercole al bivio (oggi a Napoli, Gallerie di Capodimonte) significassero anche, sulla scorta prima di tutto di Marsilio Ficino, i tre stadi di una vita virtuosa: prima il rifiuto della vita volut-tuosa (Ercole al bivio) e poi i due aspetti della vita attiva e contemplativa. Un esempio tipico, questo, di sovrainterpretazione.

232

Stefano Pierguidi

6 Annibale Carracci, Ercole sostiene il globo terrestre, ca. 1596–1597, affresco, Roma: Palazzo Farnese, Camerino.

7 Annibale Carracci, Ercole in riposo davanti alla Sfinge, ca. 1596–1597, affresco, Roma: Palazzo Farnese, Camerino.

»E se noi riconosciamo bene la mente dell’Artefice«

233

e poi sembra quasi rovesciare i termini della questione. Attraverso Ercole che, pur nelle

vesti di astronomo, sostiene fisicamente il globo terrestre, sulla scorta di quell’emblema

di Bocchi, Orsini voleva quindi sottolineare la duplice valenza di quell’immagine come

raffigurazione della vita attiva e di quella contemplativa. Lo stesso significato, evidente-

mente, aveva l’immagine di Ercole che si riposa dalle fatiche, accompagnata dall’inequi-

vocabile motto »la fatica è cagione di riposarsi bene.«

Il ciclo del camerino, comunque, si prestava meglio di quello della galleria ad essere

analizzato da chi, come Bellori, voleva ad ogni costo trovare un significato univoco,

meglio se di tono moraleggiante.40

Non a caso nelle Vite si legge:

»Seguitò Annibale nella Galleria il modo tenuto nella prima camera descritta, ordi-

nando varie favole ad un fine; e l’argomento, come habbiamo veduto, è l’amore

humano regolato dal celeste, secondo il senso delle quattro imagini descritte. Egli è

ben vero, che le favole medesime non sono così ben disposte, come in essa camera; e

più si ordinano alli siti che al loro soggetto.«41

Bellori, cioè, confessava di non poter individuare uno schema preciso secondo il

quale i soggetti sarebbero stati ordinati per rispondere al programma che egli era con-

vinto di aver decifrato, ma non per questo rinunciava a credere alla validità della sua

interpretazione. In fondo anche Panofsky, alle prese con gli affreschi di Correggio nella

Camera di San Paolo di Parma (1518–19 circa), pur riconoscendo che il ciclo non aveva un

soggetto univoco come quelli in Vaticano di Michelangelo e Raffaello o quelli di Rosso

Fiorentino a Fontainebleau e di Perin del Vaga a Genova, cercò a tutti i costi di indivi-

duare uno schema basato sui tre specula, naturale, morale e dottrinale, nonostante l’am-

biente si articoli naturalmente in quattro pareti (le pareti nord ed ovest sarebbero state

entrambe dedicate all’illustrazione dello speculum morale) .42

Bellori, inoltre, scrisse che il tema degli affreschi era »La guerra e la pace tra ’l celeste

e ’l vulgare Amore instituiti da Platone,«43

e sebbene già nel 1968 Dempsey, giustamente,

40 Secondo Clare Robertson: »Ars vincit omnia: the Farnese Gallery and Cinquecento ideas about art«, in: Mélanges de l’École Française de Rome: Italie et Méditerranée, CII/1, 1990, pp. 24–25, Bellori sarebbe stato fuorviato, nella sua ossessiva ricerca di un significato univoco nei cicli dei Carracci, dalla sua dimestichezza con quelli di pieno Seicento quale appunto il Trionfo della Sapienza di Sacchi.

41 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), p. 76.42 Erwin Panofsky: The iconography of Correggio’s Camera di San Paolo, London 1961, pp. 98–100 (ripub-

blicato in italiano in Il Correggio e la Camera di San Paolo, a cura di Francesco Barocelli, Milano 1988, pp. 147–220, in particolare, pp. 213–214); Ernst H. Gombrich: Topos and Topicality in Renaissance art, London 1975.

43 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), p. 60.

234

Stefano Pierguidi

giudicasse questa lettura uno stravolgimento del reale significato degli affreschi, che

sarebbero invece una gioiosa celebrazione dell’amore tout court,44

non sono cessati, anche

in anni recenti, i tentativi di restaurare l’interpretazione belloriana.45

Gli elementi che

suggeriscono di respingere la lettura moraleggiante dell’erudito antiquario sono in

realtà molti e incontrovertibili,46

ma questa non è la sede per affrontare e riassumere

tutta la questione;47

è bene però richiamare l’attenzione su un’altra forzatura interpre-

tativa di Bellori, evidente e sintomatica. In merito ai due arcieri che compaiono in alto

nel già citato Trionfo della Sapienza di Sacchi (ed in particolare in merito a quello di sini-

stra) l’autore del programma iconografico scriveva:

»Perché l’increata Sapienza, nel governo ammirabile del mondo deve esser’amata,

et temuta, perciò dalla Pittura si rappresenta in atto di commandare all’Amore et al

Timore, suoi diversi Arcieri, che tirino di mira al bersaglio del Mondo, per saettare

et ferire salutevolm.te gli animi degli huomini…l’Amore, giovinetto generoso e di

colore vivace, cavalcando il leone celeste, della sua generosità proporzionato gerogli-

fico, avventa una frezza d’oro, tra metalli perfettissimo, per avviso della perfettione

et eccellenza dell’Amore.«48

In seguito Girolamo Teti, nel 1642, rifacendosi verosimilmente al medesimo

programma iconografico, avrebbe correttamente sviluppato l’argomento nel modo

seguente:

»Ci sono inoltre fanciulli armati di faretra e frecce, che al cenno della Divina

Sapienza, corrono agili qua e là tra le vergini. Uno di questi, che spicca il dorso alato,

mentre siede su un leone e trattiene la belva inferocita con redini di seta, tira frecce

44 Charles Dempsey: »Et nos cedamus amori. Observations on the Farnese Gallery«, in: The Art Bulletin, L (1968), pp. 363–374.

45 Si veda in particolare Silvia Ginzburg Carignani: »Sulla datazione e sul significato degli affreschi della Galleria Farnese«, in: Studi di Storia dell’Arte in onore di Denis Mahon, a cura di Maria Grazia Ber-nardini, Silvia Danesi Squarzina e Claudio Strinati, Milano 2000, pp. 95–101. Da ultimo cfr. anche Stefano Colonna: La Galleria dei Carracci in Palazzo Farnese a Roma. Eros, Anteros, Età dell’Oro, Roma 2007 (tutto teso a dimostrare la validità della lettura belloriana) e ancora Stefano Colonna: »Due incisioni inedite di Agostino Carracci per gli epitalami di Ranuccio Farnese e Margherita Aldobrandini e il programma della Galleria Farnese«, in: En blanc et noir: studi in onore di Silvana Macchioni, a cura di Francesco Sorce, Roma 2007, pp. 83–90.

46 Stefano Pierguidi: »Sull’Amor omnia vincit del J. P. Getty Museum e la fortuna delle allegorie d’amore a Roma intorno al 1600«, in: Bollettino d’arte, XCI/137–138 (2006), pp. 68–69.

47 Per un equilibrato riepilogo cfr. Clare Robertson: The Invention of Annibale Carracci, Cinisello Balsamo (MI) 2008, pp. 161–176.

48 Beldon Scott, op. cit. (cfr. nota 17), p. 44.

»E se noi riconosciamo bene la mente dell’Artefice«

235

continuamente, e trafiggendo i cuori mortali con dardi di fuoco, in modi meravi-

gliosi li accende d’amore per la Divina Sapienza. L’altro, anch’esso alato, un po’ pal-

lido in volto, è trasportato da una lepre dalle lunghe orecchie ed è armato di frecce

d’argento…direi che essi esemplificano i duplici sentimenti dell’Amore e del Timore,

per cui gli uomini, costretti in vari modi, compiono i voleri divini.«49

Bellori, che pure conosceva certamente la descrizione dell’affresco di Teti,50

avrebbe

completamente stravolto il significato dei due arcieri, per piegarlo al tema a lui caro,

già erroneamente individuato negli affreschi della galleria Farnese, della punizione

dell’amore profano:

»Due arcieri in tanto ministri della dea in alto su le nubi frenano due irragionevoli

belve, che tiranneggiano l’animo umano…onde dal lato destro sopra una nube vedesi

un angelico giovanetto alato ignudo col manto di color fuoco ventilante indietro, il

quale cavalcando un feroce leone per l’aria rampante, lo frena e lo corregge dal corso

furioso colla sinistra mano, e colla destra vibra in alto un aureo strale pungendolo

amorosamente…Dall’altro vedesi un altro angelico giovinetto parimente alato, il

quale piegandosi sopra una nube a volo, anch’egli vibra uno strale non d’oro, ma

di piombo, fugando l’amor lascivo figurato in una fuggitiva lepre ch’egli perseguita

ed incalza per ferirla. Di questi strali pare intenda Ovidio negli amori di Apolline e

Dafne […] Questi due arcieri celesti ministri della sapienza frenano l’amore e l’ira,

che derivano dall’irragionevole appetito, e sono contrari all’intelletto ed alla ragione

perturbando la felicità umana; essi colle loro saette penetrano gli umani petti; quelli

di piombo feriscono l’amor lascivo; gli strali d’oro sono contrarii all’ira.«51

Egli, quindi, rovesciò il significato generale dell’azione degli arcieri, che era quella

di stimolare, non di frenare, i sentimenti degli uomini.

Al termine della sua vita di Annibale, Bellori dedicò un’ekphrasis alla Venere dormiente

di Chantilly (Musée Condé; 1602–3; Fig. 8), che riprendeva alcuni temi già sviluppati

nella sua descrizione di un cameo antico pubblicato ne Le gemme antiche figurate di Leo-

nardo Agostini (Roma 1657),52

Quasi al termine della descrizione, sulla scorta di un pas-

49 Tetius, op. cit. (cfr. nota 17), p. 331.50 Cfr. nota 17.51 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), pp. 544–545.52 Margaret Daly Davis: »Giovan Pietro Bellori: from ›glyptic‹ interpretation to pictorial invention«, in:

Kunst und Humanismus: Festschrift für Gosbert Schüßler zum 60, a cura di Wolfgang Augustyn e Eckhard Leuschner, Passau 2007, pp. 515–529.

236

Stefano Pierguidi

saggio della più lunga ekphrasis che Giovanni Battista Agucchi aveva dedicato al mede-

simo dipinto,53

Bellori scrisse:

»Fu bellissimo il ritrovamento dell’ingegnoso pittore, il rappresentarne altri [putti]

in terra, altri in acqua ed altri in aria, per dare ad intendere che se bene Amore è

tutto fuoco e calore, egli nondimeno signoreggia non ad uno solo, ma a ciascuno de

gli elementi ed a qual siasi cosa creata. E se noi riconosciamo bene la mente dell’ar-

tefice, li due Amori che si tirano li pomi a vicenda, inferiscono l’amicizia e ’l mutuo

desiderio; percioché quelli che giuocano dànno il principio ad amore, gli altri due

che saettano il cuore, confermano l’amore già cominciato.«54

Credo non ci sia bisogno di argomentare a lungo il fatto che nulla, nel dipinto di

Chantilly, suggerisce davvero il tema del trionfo di Amore sui quattro elementi: nessuno

degli amorini, in realtà, è davvero in aria, e se Annibale avesse voluto alludere al fuoco,

sarebbe stato certo più esplicito. Un tipico esempio di sovrainterpretazione, comunque,

simile a quello compiuto dallo stesso John Rupert Martin, peraltro su suggerimento di

53 Denis Mahon: Studies in Seicento art and theory, London 1947, p. 149, nota 35; Margaret Daly Davis: »Giovan Pietro Bellori and the Nota delli musei, librerie, galerie, et ornamenti di statue e pitture ne’ palazzi, nelle case, e ne’ giardini di Roma (1664): modern libraries and ancient painting in Seicento Rome«, in: Zeitschrift für Kunstgeschichte, LXVIII (2005), p. 223.

54 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), p. 103.

8 Annibale Carracci, Venere dormiente, ca. 1602, olio su tela, 190 · 328 cm, Chantilly: Musée Condé.

»E se noi riconosciamo bene la mente dell’Artefice«

237

Panofsky, in merito ai medaglioni monocromi con Storie di Ercole nel camerino Farnese,

anch’essi letti come allegoria del trionfo della Virtù sui quattro elementi, con forzature

evidenti (Ercole che soffoca Anteo, un soggetto scelto negli affreschi della galleria La Vrillière

a Parigi, del 1646–49, per alludere alla Terra, di cui Anteo era figlio, nel camerino Farnese,

per Martin, rappresenterebbe l’Aria).55

Quanto alla progressione del significato delle tre

coppie di amorini, Bellori si rifece all’ekphrasis dei »Cupidi« delle Immagini di Filostrato

il Vecchio (I, 6): questa, però, non era davvero la fonte testuale del dipinto di Chantilly,

bensì dell’Offerta a Venere di Tiziano (1518–20; Madrid, Prado; Fig. 9), e Annibale si era

rifatto prima di tutto a quella tela, non direttamente a Filostrato. Nel quadro di Tiziano,

55 Martin, op. cit. 1956 (cfr. nota 37), pp. 98–99; Stefano Pierguidi: »Gli affreschi del salone Peretti. il tema dei quattro elementi e la cultura alchemica«, in: Storia dell’Arte, 103 (2003), p. 51.

9 Tiziano, Offerta a Venere, c. 1518, olio su tela, 172 · 175 cm, Madrid: Prado.

238

Stefano Pierguidi

in primo piano, si vedono quindi le due coppie di amorini descritte dall’autore greco: i

primi due, intenti a tirarsi l’un l’altro un pomo, significavano, per Filostrato, l’amicizia

di chi sta per innamorarsi, mentre gli altri due, intenti invece a tirarsi l’un l’altro una

freccia, significavano la conferma di un amore già sbocciato. Nella tela di Annibale, in

realtà, ritroviamo solo la coppia di amorini che gioca con un pomo, ma sono scomparsi

i due impegnati con arco e freccia; Bellori, per richiamarsi a Filostrato, fu costretto a

identificare la seconda coppia con gli amorini che, molto più indietro, sono raffigurati

in una gara di tiro a segno con l’arco. Questi due erano stati inseriti da Annibale per

alludere ad una celebre impresa farnesiana (Fig. 10):56

senza nessun rapporto visivo con

la prima coppia, non sostituivano certo i due che nel dipinto di Tiziano giocano con arco

e freccia, e non erano quindi una variazione sul tema dell’ekphrasis di Filostrato.

Bellori, insomma, sovrainterpretava sistematicamente, e a volte presumibilmente

con piena consapevolezza, le opere che ammirava di più. La sua già citata lettura della

Danza alla musica del Tempo di Poussin è illuminante: egli doveva sapere che l’artista,

attraverso la danza delle stagioni, e quindi attraverso il tema del passaggio del Tempo,

aveva voluto alludere alla caducità della vita umana, ed in questo modo egli infatti

interpretava giustamente il significato dei due fanciulli che chiudono in basso la com-

posizione:

»A’ piedi del Tempo vedesi un fanciullo, il quale tiene in mano, e contempla un

oriuolo a polvere numerando i momenti della vita. Dal contrario lato il compa-

56 Anne Brookes: »A Farnese impresa in Annibale Carracci’s Sleeping Venus«, in: The Burlington Magazine, CXL (1998), pp. 676–679. Julian Kliemann: Il bersaglio dell’arte: la Caccia di Diana di Domenichino nella Galleria Borghese, Roma 2001, pp. 59–60.

10 Impresa di Alessandro Farnese, Girolamo Ruscelli: Le imprese illustri, Venezia: Francesco Rampazetto, 1566, p. 43.

»E se noi riconosciamo bene la mente dell’Artefice«

239

gno, come sogliono i fanciulli per giuoco, spira da un cannellino col fiato, globi di

spuma, e d’aria, che si struggono in un momento, in contrasegno della vanità, e

brevità della vita medesima.«57

Era fondamentalmente attraverso questi putti che Poussin aveva trasformato una

canonica allegoria naturalistica in una riflessione di carattere morale, e sono infatti

proprio questi putti che non ricompaiono nel più tradizionale disegno di Claude Lor-

rain ispirato al dipinto della Wallace Collection.58

A quel punto egli forzò la lettura del

dipinto identificando le stagioni, che in fondo aveva riconosciuto (egli parlava infatti di

un »ballo di quattro donne simili alle quattro stagioni«), con il Lusso, la Ricchezza, la

Povertà e la Fatica, senza certamente fare ricorso all’Iconologia, alla quale neanche Pous-

sin si era rifatto, e limitandosi a inventare fantasiosamente un secondo livello di lettura

del dipinto. Anche in questo caso si può trovare una sorta di parallelo nelle moderne

ricerche iconologiche: mi riferisco al tentativo di Edgar Wind di identificare e interpre-

tare allegoricamente le tre Grazie nella Primavera di Botticelli (1478 circa; Firenze, Galle-

ria degli Uffizi) come Castitas-Pulchritudo-Voluptas.59

Con questi confronti e paralleli non

si vuole certo affermare che l’iconologia novecentesca non abbia dato anche e soprat-

tutto risultati di straordinario valore: Panofsky, come Bellori prima di lui, ebbe a volte

una tendenza a sovrainterpretare il contenuto delle opere d’arte,60

ma a differenza del

suo predecessore seicentesco, fu spesso in grado di penetrare il significato di dipinti ed

affreschi realizzati non pochi decenni, ma svariati secoli prima che egli fosse nato.

57 Bellori, op. cit. (cfr. nota 7), p. 463. 58 Marcel Roethlisberger: Claude Lorrain: the Drawings, 2 voll., Berkeley 1968, I, pp. 327–328, n. 879; Beres-

ford, op. cit. (cfr. nota 9), pp. 19–20. La presenza di questi due putti, evidentemente l’elemento chiave della tela di Poussin, non è stata tenuta nella giusta considerazione da Malcolm Bull, che ha propo-sto una lettura del dipinto fin troppo complessa (un altro esempio di sovra interpretazione?), cfr. nota 10.

59 Edgar Wind: Misteri pagani nel Rinascimento (London 1958), Milano 1995, pp. 145–149; la lettura di Wind venne duramente attaccata da Charles Hope: »Naming the Graces« (recensione a Edgar Wind: The Eloquence of Symbols: Studies in humanist Art, Oxford 1983, pubblicato postumo a cura di Jaynie Anderson, e a Kenneth Clark: The Art of Humanism, London 1983), in: London Review of Books, VI/5 (1984), p. 13.

60 Anche lo scrivente, più modestamente, ammette che la sua lettura degli affreschi di François Perrier e Giovanni Francesco Grimaldi in palazzo Peretti a Roma (1644–45) è probabilmente viziata, in più punti, dalla stessa tendenza a sovrainterpretare, cfr. Pierguidi, op. cit. (cfr. nota 55), in particolare pp. 45–49. Su una possibile, diversa spiegazione per la strana iconografia di uno degli affreschi del ciclo, cfr. Francesca Cappelletti: »La storia di Psiche, il mito di Raffaello: in margine alla storia dei restauri antichi«, in: Raffaello: la loggia di Amore e Psiche alla Farnesina, a cura di Rosalia Varoli-Piazza, Cinisello Balsamo (MI) 2002, p. 44.

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