"L’amarezza delle cose belle: villa Velluti tra storia, arte e memoria". Saggio ospitato in...

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3 LUOGHI E ITINERARI DELLA RIVIERA DEL BRENTA E DEL MIRANESE a cura di ANTONIO DRAGHI Volume Quarto (NB: nel volume originale immagini a colori ad alta definizione) PANDA EDIZIONI

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LUOGHI E ITINERARI

DELLA RIVIERA DEL BRENTA

E DEL MIRANESE

a cura di

ANTONIO DRAGHI

Volume Quarto

(NB: nel volume originale immagini a colori ad alta

definizione)

PANDA EDIZIONI

4

ISBN 9788899091095

© copyright 2014

Panda Edizioni - C.P. 160 - 31033 Castelfranco Veneto www.pandaedizioni.it

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L’AMAREZZA DELLE COSE BELLE: VILLA VELLUTI

TRA STORIA, ARTE E MEMORIA di Mauro Manfrin

Tutte le ricerche hanno un’origine, un punto di partenza. La mia ha

inizio da una suggestione, quella della storia dell’evirato cantore1

Giovanni Battista Velluti, la cui voce bellissima possiede, ai nostri

occhi così lontani dai suoi tempi, il retrogusto amaro delle sofferenze

inflittegli per ottenerla. È l’amarezza delle cose belle, quella che

ritroviamo anche nelle poesie o nei dipinti nati dall’espressione

dell’inquietudine dell’animo umano o dai vissuti difficili dei loro

autori. Una malinconica amarezza pervade anche l’ultima dimora del

sopranista, come se certi luoghi si facessero carico per sempre dei

trascorsi dei loro abitanti. Un brano di paesaggio fluviale, tra Dolo e

Mira, tra i più ricchi di fascino, un topos che rimanda a suggestioni

artistiche canore, teatrali, pittoriche e letterarie. La Riviera del Brenta

tutta deve molto a questo luogo che è stato rifugio per artisti la cui

fama, inevitabilmente, ha irradiato tutto il corso del Naviglio.

Impossibile non notare, percorrendo la strada o il fiume, la lunga e

armoniosa cortina grigia di edifici dove il tempo non sembra essersi

fermato, anzi, sembra piuttosto aver voluto sottolineare alcune

caratteristiche di un passato che evidentemente non esiste più. Come

1 Solo una volta userò la definizione di “evirato cantore”, che gli esperti mi

dicono essere il modo più corretto per descrivere tale arte - condizione,

preferendo in seguito usare quelli di “sopranista” oppure “musico”, termine

quest’ultimo ampiamente utilizzato proprio a tal scopo per tutto il ‘700. Mi

sembra doveroso evitare che sia la condizione fisica a pervadere la memoria di

questo grande interprete, entrato a pieno titolo nella storia del teatro.

70

un’anziana signora, rugosa e sfatta, di cui però si intuisce il passato di

bellissima ragazza, magari per gli occhi ancora luminosi e che per

questo risulta tutt’oggi piacevole.

Scorcio autunnale del Naviglio e dei complessi di villa Velluti e villa Tito.

Foto di Lorenzo Fuortiboni, al quale va il mio ringraziamento.

Tra le arti, è la fotografia che riesce a cogliere la malinconia emanata

da questa quinta scenica sul fiume, grazie alla complicità involontaria

di una giornata nebbiosa. I grigi intonaci delle costruzioni si

confondono nella monotonia cromatica della nebbia, come questa

fosse un morbido velo, un sipario immateriale che chiude la stagione

gloriosa della villa. È una “architettura crepuscolare” struggente, che

l’avvicina idealmente alla condizione del suo ospite più illustre, cui si

è legata per sempre, il sopranista Velluti. Il momento del crepuscolo è

una fase di “transizione” tra il giorno e la notte, immagine che Luca

71

Scarlini2 associa al musico quando scrive: “come a tutti coloro che

vivono un'era di transizione, a Velluti toccò quindi l'arduo compito di

essere esotica curiosità per un pubblico da lui diverso: l'arte gli offrì

un ruolo centrale nella società per poi indicargli la strada dell'ombra

tenacemente cercata nel palazzo, avvolto di nebbia e silenzio sulle

rive del Brenta, pieno di ricordi di un tempo tramontato per sempre”.

Il crepuscolo del Velluti ha il colore grigio della nebbia, il colore del

suo palazzo sulla Brenta.

Vi sono dei reticoli invisibili di relazioni e avvenimenti che

trasformano uno spazio fisico - pietre, infissi, arredi - in quello

immateriale dei ricordi, delle esperienze, del vissuto dei suoi abitanti.

Memoria e pietra in alcuni luoghi si intersecano, diventano termini

che rimandano reciprocamente l’uno all’altro. I muri, muti e anonimi

che vediamo continuamente, acquistano nuova luce quando le pietre

cominciano a parlare. Un triste destino il loro: non hanno il diritto

all’oblio e si imbevono dei ricordi, della vita, della storia di chiunque

vi abbia lasciato un segno.

È per queste ragioni che è inutile tentare di descrivere un luogo come

questo con gli unici strumenti dell’architetto o dello storico, perché

non gioverebbe al tentativo di svelarlo. Va piuttosto usato il metodo

del Marco Polo di Italo Calvino quando descrive la città di Zaira3 al

Kublai Khan: “Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale,

di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono

ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla” perché

Zaira, come villa Velluti, “non dice il suo passato, lo contiene come le

linee d'una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle

finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini,

nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi,

2 “Lustrini per il regno dei cieli: ritratti di evirati cantori” di Luca Scarlini.

Bollati Boringhieri, 2008. Pagina 83. 3 “Le città invisibili” di Italo Calvino. Einaudi editore, Torino 1972.

Descrizione della città di Zaira in “Le città e la memoria. 3”.

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seghettature, intagli, svirgole”. Solo così si potrà assaporarne la

bellezza e, volendo, comprenderne l’amarezza.

La ricerca ha inizio dall’analisi di un documento inedito: il Catastico

della Settima Presa4 del 1679, che descrive, tra le altre, le terre di

proprietà5 a Sambruson dei “NN. HH. ser Zorzi e Fratelli Bafi” la cui

conformazione è perfettamente riconoscibile tant’è la precisione

ammirevole del rilievo di Paolo Rossi, perito della Serenissima

incaricato di realizzare la ricognizione. I terreni sono due, divisi dalla

strada - l’attuale via Seriola - e confinano con le proprietà dei Badoer,

principalmente, ma anche di altri Nobil Homini quali “Francesco

Monfardini e Andrea Tascha a levante”. Curiosamente il fronte

canale, ovvero la maresana, ed il vicino ambito che corrisponde

all’attuale villa Tito sono di proprietà di tale “D. Zan Batta Gaglin”

che vi “lauora in casa”.

Queste informazioni sono preziose e confermano quanto già

individuato dal Baldan6, pur con alcune precisazioni. Già nel 1661

risultano proprietari di campi ottanta con casa dominicale7 i figli di

Domenico Baffo: Zan Andrea, Matteo, Sebastian e Zorzi.

4 La “Presa” era un comprensorio in cui veniva attivato un sistema idraulico,

che oltre a evitare inondazioni ed altro, portava vantaggi per l’agricoltura e la

navigazione. Il “Consorzio di Bonifica Settima Presa Superiore” ha avuto

origine dal 1604 ed uno dei pezzi più preziosi della documentazione

dell’archivio, inedito, è del 1679: il “Catastico della Settima Presa della

Brenta che contiene le ville tutte di essa cioè S. Brusò, Gambarare, Lugo, […]

fatto ad ordine delli NN. HH. D. Pietro Sagredo Abbate di San Giorgio

Maggior, […]. Da me Paolo Rossi perito […] l’anno MDCCLXXVIIII”.

Attualmente parte degli Archivi storici delle “Prese” sono gestiti dalla

Fondazione Cassamarca, custoditi nella tenuta di Ca’ Tron di Roncade (TV). 5 Mappali 82 e 83 in proprietà dei “NN. HH. E. Zorzi e Fratelli Bafi” e

lavorate da tale “Zuane Santello”. 6 “Storia della Riviera del Brenta” Volume III di Alessandro Baldan. Moro

Editore, 1980. 7 L’abitazione del “dominus”, il proprietario.

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Particolare del Catastico della Settima Presa Superiore del 1679 delle

proprietà Baffo a Sambruson.

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In particolare è Zorzi ad essere più spesso citato dai documenti8,

probabilmente il maggiore dei fratelli.

Secondo i genealogisti i Baffo risiedevano a Venezia fin dal IX secolo

e facevano parte della nobiltà legittimata dalla serrata del Maggior

Consiglio. Zorzi aveva sposato in prime nozze Cecilia Santasoffia9 e il

matrimonio aveva suggellato l'intesa tra una casa della “vecchia”

nobiltà, che si trovava in condizioni economiche non molto floride,

con una casa “nuova”, vale a dire aggregata nel corso della guerra di

Candia o successivamente, che intendeva in cambio di una dote

sostanziosa ottenere appoggi in seno alla classe dirigente10

.

Zorzi Baffo fu il nonno del celebre poeta Zorzi Alvise Baffo,

conosciuto fuori Venezia semplicemente come Giorgio Baffo11

. Il

chiacchierato poeta, noto per la licenziosità dei versi e per essere

maestro e amico di Giacomo Casanova che lo considerava “genio

sublime, poeta nel più lubrico dei generi, ma grande e unico”12

, aveva

solo dieci anni quando nel 1704 i possedimenti di Sambruson vengono

8 “Zorzi e fratelli bafi” è la dicitura più usuale. Zorzi (nome che è

l’equivalente veneziano di Giorgio) ed un fratello, Zan Andrea, erano stati

“titolati” ad entrare nei consigli giudiziari. Il primo era stato provveditore a

Corfù e giudice del Piovego, il secondo era stato camerlengo a Brescia.

L’altro fratello, Sebastian, divenne provveditore di Salò e un “Quaranta”

ovvero apparteneva alla Quarantia, uno dei massimi organi costituzionali

dell'antica Repubblica di Venezia, con funzioni sia politiche che di tribunale. 9 “Grazia Cecilia di Bartolomeo Santasoffia sposa Baffo Giorgio fu Domenico

il 30 aprile 1659” da «Avogaria di comun. Matrimoni patrizi per nome di

donna» periodo 1309 – 1797. Indice manoscritto. ASVe. 10 “Politica e cultura nella Venezia di metà Settecento: la «poesia barona» di

Giorgio Baffo «quarantiotto»” di Piero Del Negro, in COMUNITA' - Rivista

mensile culturale fondata da Adriano Olivetti. Edizione 184, 1982. 11 Nato nel 1694 dai patrizi Zan Andrea e Chiara Querini fu chiamato Zorzi

Alvise in onore dei due nonni, paterno e materno. 12 “Baffo osceno” di Giorgio Baffo, a cura di Marco Dotti e Ludovico Mian.

Stampa alternativa, 2001.

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venduti dal nonno al N.H. Francesco Vezzi13

. Chissà se, risalendo

pigramente la Brenta da Venezia verso Padova con un burchiello la

notte del 2 aprile 173414

, il poeta Giorgio Baffo, accompagnando

l’attrice e cantante Giovanna Casanova e suo figlio Giacomo di nove

anni, contemplò quei possedimenti che una volta furono del nonno.

Il passaggio delle proprietà Baffo - Vezzi è un tipico esempio di

avvicendamento tra vecchia e nuova nobiltà. Le entrate della famiglia

13 Nel 1704, con atti del notaio veneziano Francesco Brombilla, la proprietà

dei Baffo venne acquistata con quaranta campi da Francesco Vezzi che

abitava a Venezia, e la sua denuncia del 1711 a Sambruson comprende: “casa

domenicale con fabbriche e tutte sue habentie con brolo cinto di muro e

campi 40”. Inoltre egli denuncia a Nervesa altri 630 campi con l'intenzione di

costruirvi “un’altra casa domenicale”. Da “Studio storico ambientale artistico

della Riviera del Brenta” di Alessandro Baldan. Edizioni Bertato, Villa del

Conte, 1995. Pagg. 282 – 283. 14 “Storia della mia vita” di Giacomo Casanova, a cura di Piero Chiara e

Federico Roncoroni. Mondadori, Milano, 1989. Voll. 3, pagg. 28-29. Riporto

parte del brano perché, oltre a raccontare dell’amicizia tra Giorgio Baffo e

Casanova, narra di un “viaggio sulla Brenta” che è l’essenza stessa della

Riviera, sviluppatasi lungo le sue rive: “Il letto era basso e non scorgevo la

riva: attraverso la finestra vedevo solo le cime degli alberi che in due file

ininterrotte fiancheggiavano il fiume. La barca andava con moto così eguale

che non me ne potevo accorgere; così, gli alberi che scomparivano

rapidamente al mio sguardo suscitarono stupore. «Oh madre cara» esclamai.

«Cosa succede? Gli alberi camminano!» In quel momento entrarono i due

signori [...]. Essi risero, ma mia madre sospirò e mi disse in tono

compassionevole: «È la barca che cammina, non gli alberi. Vestiti.» [...]. Sto

quasi per piangere, ma chi mi rende la vita è Baffo, che mi abbraccia e mi

bacia teneramente dicendomi: «Hai ragione tu, bimbo mio. Il sole non si

muove, fatti animo, tira sempre le conseguenze logiche dai tuoi ragionamenti

e lascia che gli altri ridano.» Mia madre gli chiese se era matto a darmi

insegnamenti del genere, ma quel filosofo, senza degnarla di una risposta,

seguitò ad illustrarmi una teoria adatta alla mia mente semplice ed ancora

intatta”.

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Baffo, nonostante il blasone di antica origine, non erano più molto

floride15

e facevano affidamento unicamente sui “sacchetti” che

ricevevano in quanto membri delle Quarantie. Totalmente diversa la

storia della famiglia Vezzi. Francesco quondam Zuanne Vezzi (1651 –

1740) nacque a Udine in una famiglia modesta e da giovane si spostò

a Venezia dove divenne apprendista di un orafo e nell’ambito di

quest’arte fece una rapida fortuna. Il suo nome resterà per sempre

legato alla vicenda della “Casa Eccellentissima Vezzi” una delle prime

tre fabbriche di porcellana in Europa, la primissima in Italia.

Francesco che, come detto acquisì beni a Sambruson nel 1704, sei

anni dopo ottenne il titolo di conte da Carlo III di Spagna e nel 1716 il

titolo di patrizio veneto in seguito al versamento di centomila ducati,

di cui sessantamila a fondo perduto e il rimanente a sottoscrizione di

un prestito di guerra emesso dalla Repubblica durante l’assedio

dell’Impero Ottomano a Corfù, allora veneziana16

.

Fu però il figlio primogenito di Francesco, Giovanni (1687- 1746), ad

accordarsi con un tale Christoph Conrad Hunger, detentore del

millenario segreto per la realizzazione della porcellana, a dare avvio il

5 giugno 1720 alla realizzazione della famosa Porcellana Vezzi. Egli

investì cinquantamila ducati per avviare la produzione ed Hunger

venne nominato Fabriciere Principale: con il suo ricco bagaglio di

15 In occasione della redecima del 1740, Zan Andrea (il padre del poeta) aveva

dichiarato di possedere, oltre alla casa in cui abitava, soltanto un'altra

proprietà nella campagna trevigiana, affittata ad un altro quarantioto. (ASVe.

Redecime 1740). 16 Documenti: copia della supplica della famiglia Vezzi e della delibera dei

Pregadi presso la Biblioteca del Museo Correr di Venezia, Archivio Donà

delle Rose, 474-101; Commissione araldica «Nobili veneti», indice

manoscritto del 1870 contenente «Elenco delle famiglie insignite di titoli

araldici della Repubblica veneta per conferma o per nuova concessione»,

ASVe. Quest’ultimo rimanda al decreto del Senato e ai Provveditori sopra

feudi, datato “1716.18.3”.

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esperienze e facendo arrivare il caolino17

clandestinamente dalla

Sassonia, riuscì a portare la manifattura Vezzi ad un immediato

successo.

La storia della porcellana Vezzi è estremamente stimolante e ben

documentata18

, ma qui interessa seguirne un aspetto in particolare: la

successione ereditaria che investì anche i beni di Sambruson.

Dalla ricostruzione fatta dagli storici che hanno tolto dall’oblio la

vicenda, sembra si sia svolta così: il conte Francesco Vezzi, il 15

giugno 1719, mentre si trovava in viaggio a Vienna affida con una

procura tutti i suoi affari ed averi al figlio Giovanni. Quest’ultimo,

forse con l’iniziale aiuto del padre19

, dà avvio all’esperienza della

fabbricazione della porcellana nel 1720, attingendo a piene mani nel

patrimonio paterno che gli era stato affidato. Purtroppo però la

produzione aveva altissimi costi, in particolare per le maestranze

17 Il caolino è una roccia sedimentaria costituita prevalentemente da caolinite

(il nome deriva dalla località di Kao Ling, in Cina), un minerale silicatico

delle argille. La scoperta del primo giacimento europeo nel 1709 da parte

dell'alchimista Johan Friedrich Bottger rese possibile la formulazione della

ricetta per la porcellana. Christoph Conrad Hunger era un collaboratore di

Bottger ed è grazie a lui che il segreto della fabbricazione della porcellana

europea giunse tra le lagune dando origine alla fabbrica Vezzi. 18 Si vedano in merito: “Venezia e la magia dell’oro bianco” di Elisabetta Dal

Carlo in “Arti Decorative a Venezia” speciale a cura di Cinzia Boscolo.

Venice International Fondation, 2010; “Porcellane della Casa Eccellentissima

Vezzi. 1720-1727” di Francesco Stazzi, Milano 1967; “Giovanni Vezzi e le sue

porcellane” di Luca Melegati. Bocca, 1998; “At the Centre of the Old World:

Trade and Manufacturing in Venice and on the Venetian Mainland (1400-

1800)” di Paola Lanaro. Centre for Reformation and Renaissance Studies,

2006; “Privilegi d’industria e diritti di proprietà nelle manifatture di

ceramica della repubblica di Venezia. (XVII-XVIII secolo) di Giovanni Favero

in “Quaderni Storici” 135/a. XLV, n. 3, dicembre 2010. 19 Francesco Vezzi dovrebbe aver convinto Hunger a spostarsi da Vienna,

dove lavorava presso la manifattura imperiale.

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specializzate20

, i risultati economici ottenuti non erano quelli sperati e

fu così che Francesco, il 10 marzo 1724, decise di trasmettere al figlio

Giovanni la proprietà completa di tutti i capitali già impiegati nella

fabbrica, scindendoli dal resto dei propri beni. Fu un tentativo di

salvaguardare il patrimonio complessivo da un’impresa che sembrava

non riuscire a decollare. Giovanni Vezzi, che aveva legato i destini

della sua manifattura esclusivamente ai finanziamenti del padre, si

trovò a corto di capitali ed incapace di autofinanziarsi poiché tutto ciò

che possedeva risultava già investito. Dopo sette anni di lavorazioni,

di esperimenti e nonostante fosse riuscita finalmente a raggiungere

risultati degni di rilievo sotto il profilo qualitativo e quantitativo, la

Casa Eccellentissima Vezzi chiuse e, per ironia, proprio per volontà

del vecchio Francesco preoccupato del crescente passivo. Nel 1727,

infatti, fu il padre che si offrì di tacitare i creditori a condizione che la

fabbrica fosse chiusa per sempre e i forni venissero distrutti. In seguito

Giovanni ebbe relazioni con Cozzi, Ginori ed altri nuovi imprenditori

nel campo delle porcellane21

. Un amore il suo mai sopito.

Il 17 aprile 1739 Francesco mandò a chiamare un notaio per

consegnargli il suo testamento olografo. Questo si apre con la richiesta

di molte sante messe in suffragio, dispone elargizioni benefiche, e

passa quindi alla destinazione del patrimonio che viene lasciato ai figli

maschi del figlio Giovanni, il quale però non aveva figli maschi bensì

quattro ormai adulte figlie femmine e una moglie troppo cagionevole

di salute per partorire ancora. Francesco aggiunse, infine, che in caso

20 Il segreto della porcellana era stato svelato, ma la differenza tra porcellane

di alta o bassa qualità veniva data dalle caratteristiche delle materie prime e da

accorgimenti tecnici propri delle maestranze, che si vendevano al miglior

offerente. 21 Dopo la chiusura sembra siano rimasti a Giovanni Vezzi molti pezzi non

finiti, probabilmente decorati e passati in terza cottura in forni per maioliche e

messi in vendita da lui stesso fino al 1740 circa, quando risultano concluse le

ultime vendite.

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di mancanza di figli maschi i beni passassero interamente al Pio

Ospitale della Pietà, che effettivamente ricevette l'intero patrimonio

del vecchio Vezzi.

Ed è così che nel 1740 troviamo che l'ospedale della Pieta di Venezia

denuncia nelle redecime: “rese inutili le pretese dei figli dell’eredità

del conte Francesco Vezzi a Sambruson. Casa domenicale con

fabbriche e brolo cinto di muro, affittato a Rizzi per ducati 120 e a

Nervesa e Soravilla: altra casa domenicale”22

. A onor del vero già

alla visita pastorale del 1739 l’oratorio della casa dominicale risulta in

carico alla famiglia di Gaetano Rizzi, affittuario del Pio Ospedale.

È il primo crepuscolo a cui assistiamo: quello della società dirigente

veneziana. La vecchia nobiltà, rappresentata dai Baffo, cede il posto ai

nuovi nobili, i Vezzi, i quali però si trovano in difficoltà economica

perché non trovano investitori e per la mancanza di ogni tipo di

sussidio pubblico della Serenissima, concesso invece ad altri

imprenditori23

. L’assenza di una manifattura di importanza europea,

come quella Vezzi, si fece presto sentire ed il Senato veneziano

promulgò nel 1728, un anno dopo la chiusura della fabbrica, un

decreto teso ad accordare protezione ed esenzioni fiscali a chiunque si

fosse dimostrato in grado di migliorare la produzione di maiolica e di

introdurre quella di porcellana nello Stato veneto al fine di ridurre

l’importazione dall’estero24

. Ci volle quasi un trentennio per avere una

produzione di porcellane come quella Vezzi, i cui esemplari sono oggi

conservati nei principali musei europei. Se vogliamo è già percepibile

22 “Studio storico ambientale artistico della Riviera del Brenta” di Alessandro

Baldan. Edizioni Bertato, Villa del Conte, 1995. Pagg. 282 – 283. 23 Il sussidio fu ritenuto, forse, poco opportuno nel caso di una famiglia

patrizia veneziana che aveva acquistato il titolo nobiliare da pochissimi anni. 24 La vicenda della partecipazione dello Stato a questa ed altre imprese è ben

descritta in “Finanziamento e governance in un’impresa veneziana del

Settecento” di Riccardo Cella in “Studi e Note di Economia”, Anno XVII, n.

2-2012. Pagg. 297-322.

80

una certa amarezza delle cose belle: l’inseguimento di un sogno

artistico (quello di Giovanni), per la realizzazione delle belle e

preziose porcellane, infranto contro i limiti imposti dalla necessità

imprenditoriale di un adeguato ritorno economico (del padre

Francesco) e dalla società veneziana in cambiamento.

Le tracce lasciate dai Vezzi a Sambruson non sono molte, ma a

Francesco si deve certamente la costruzione dell’oratorio. È del 26

marzo 1734 la concessione della curia vescovile ad edificare un

oratorio pubblico purché sia “decentemente costruito con una sola

porta e quella sulla pubblica strada lontano dagli usi domestici” 25

. È

per questo che sorge così lontano dalla villa, come era in uso per tutti

gli oratori aperti al pubblico. Sarà benedetto il 2 ottobre dello stesso

anno.

La storia dei Vezzi a Sambruson non è comunque destinata a finire

così presto. Alla morte di Giovanni, nel 1746, l’area diventa proprietà

di donna Anzola (Angela) Vezzi fu Francesco, sorella di Giovanni.

Angela è la consorte di Avogadro Marino quondam Vido26

e, ironia

25 Il testo completo della concessione: “Essendo stato visitato il sito nel quale

il N.H. Francesco Vezzi, Patrizio Veneto, desidera far costruire un pubblico

oratorio presso la casa della di lui abitazione posta dentro li confini della

Parrocchia di Sambruson di questa diocesi, ed essendo stato trovato

opportuno come appare attestato dal molto reverendo Don Pietro Barrì

Arciprete della Villa di Sambruson, che di ordine nostro lo visitò, concediamo

licenza a esso Nobil Homo Vezzi di poter fabbricare esso oratorio con questo

che sia decentemente costruito con una sola porta e quella sulla pubblica

strada lontano dagli usi domestici e che il tutto sia fabbricato a norma delle

costituzioni sinodali, dovendo terminata che sia la fabbrica essere a voi fatta

relazione per ordinare la visita prima di rilasciare il mandato per benedirlo.

Datum Padova Cancelleria Episcopali, 26 marzo 1734”. Archivio Capitolare

di Padova. Diversorium. 26 Il matrimonio, celebrato il 25 gennaio 1717, è registrato in «Avogaria di

comun. Matrimoni patrizi per nome di donna» periodo 1309 – 1797. Indice

manoscritto a cura di Giuseppe Giomo. ASVe.

81

della sorte, la troviamo citata ancora ne “La storia della mia vita” di

Casanova: “Nel casino della signora Avogadro, donna spiritosa e

amabile nonostante i suoi sessant'anni, feci la conoscenza di un

gentiluomo polacco, molto giovane, a nome Gaetano Zawoiski. Egli

aspettava del denaro dal suo paese e intanto gliene davano le dame

veneziane, sedotte dalla sua bellezza e dai suoi gentili modi polacchi”.

Secondo gli studiosi del Casanova, non ci possono essere dubbi che si

tratti di Angela Avogadro nata Vezzi, sposa di Marin Avogadro, per il

tipo di donna che si dimostrò essere e poiché era l'unica della famiglia

che in quel periodo aveva l’età indicata dal Casanova.

Fu così che da metà Settecento, e per quasi un secolo, la proprietà

passò alla famiglia Avogadro27

. Dello stesso periodo è la famosa

ricognizione di G. F. Costa28

degli edifici più rilevanti lungo la Brenta.

Frutto di pazienti e scrupolosi rilevamenti effettuati con l'aiuto della

camera ottica, nell'intento di fornire una completa e obiettiva

illustrazione dei luoghi, il lavoro manca della ricognizione dei

possedimenti Vezzi – Avogadro, mentre vi sono tutti gli altri dalla

Mira Vecchia al Dolo. Eppure, come visto, la documentazione

sull’esistenza di edifici dominicali e dell’oratorio non manca. Non

ultimo, esiste la cartografia attribuita ad Antonio Rizzi Zannoni29

che

coincide in larga misura con la coeva ricognizione del Costa, dove

sono indicati due corpi edilizi vicini con uno, o forse due, oratori.

27 La famiglia Avogadro fu inclusa nel patriziato dal governo veneziano,

attorno al 1437-38, nella figura di Pietro Avogadro per l'aiuto militare offerto

alla Serenissima nel corso del consolidamento delle conquiste di terraferma. 28 “Delle delicie del fiume Brenta espressa ne' palazzi e nei casini situati

sopra le sue sponde dalla sboccatura nella laguna di Venezia fino alla città di

Padova disegnate ed incise da G.F. Costa architetto e Pittore veneziano” di

Costa Giovanni Francesco. 2 voll., Venezia, 1750 – 1756. 29 Giovanni Antonio Bartolomeo Rizzi Zannoni (Padova, 1736 – Napoli,

1814) famoso cartografo e geografo noto per alcune restituzioni molto

importanti come “La Gran Carta del Padovano” di fine settecento.

82

Particolare della mappa acquerellata attribuita ad Antonio Rizzi Zannoni di

metà ‘700. Fondazione Bianchi, Mirano, 2005.

Le incisioni delle delicie del Costa hanno permesso ai posteri di

individuare edifici ben più modesti del complesso che noi oggi

chiamiamo villa Velluti. Ma forse non è vero che non ci forniscano

delle informazioni interessanti.

Esaminando con attenzione la Tavola LX del volume primo, “Veduta

del Palazzo del N.H. Molin”, sulla riva destra del fiume risalendolo da

Venezia verso Padova, si scorgono appena dopo l’ansa del fiume,

sottolineata con la presenza di un burchiello che si allontana, due

edifici appena delineati che sembrano trovarsi esattamente in

corrispondenza delle proprietà Vezzi - Avogadro. La verifica è

semplice poiché, avendo usato la camera ottica, il Costa ci permette di

individuare esattamente il punto di presa e replicarlo. In effetti, dove

egli accenna a due edifici vicini e ad un muro di cinta, oggi è

rilevabile il complesso della villa.

83

Veduta del Costa del Palazzo del N.H. Molin. Appena dopo l’ansa del fiume

sono abbozzati due edifici. Il confronto con una foto attuale mostra come nel

medesimo punto oggi si intravveda la mole di villa Velluti.

Si può ragionevolmente pensare che il Costa non abbia disegnato tali

edifici perché, come da lui stesso abbozzato, non erano allora

meritevoli di essere segnalati. Questo potrebbe significare che il

84

complesso architettonico, pur avendo origine dalla fine del ‘600, è

stato totalmente rivisto, inglobato ed allargato, dopo la seconda metà

del ‘700 proprio dalla famiglia Avogadro.

Nel resoconto della visita pastorale del 1778 troviamo che l’oratorio è

di proprietà di Vido Avogadro con dedica alla “Concezione della

Beata Maria Vergine”. Vido, senatore, era uno dei quattro importanti

figli di Marino e Angela Vezzi assieme a Francesco, Claudio e

Giovanni Andrea. Quest’ultimo prese gli ordini come gesuita e

divenne nientemeno che vescovo di Verona.

Successivamente, nel 1797, sono quattro gli Avogadro proprietari

della villa: Claudio per “metà palazzino” e poi i nipoti Costantino,

Piero e Marin in sesta parte per ognuno30

.

Claudio Avogrado, “che sostenne le magistrature di prima istanza

civile e criminale, ed aspirava alla rettoria di Vicenza quando crollò

la Repubblica”31

, entrò nelle cronache e nei pettegolezzi veneziani

perché sposò nel 1783 una donna di “rango inferiore”, una non nobile

30 Possiamo conoscere meglio questi ultimi grazie alle informazioni

genealogiche (vedasi nota successiva) da cui, oltre a venire a conoscenza che

la “nob. Famiglia si mantenne in questo eminente Stato fino alla caduta della

Repubblica […], ottennero la conferma di loro nobiltà colle Sovrane

Risoluzioni di Sua Maestà I. R. A. del 1818”, apprendiamo che si tratta dei

fratelli: Marin Angelo Baldissera del fu Francesco e della nobile sig.ra

Catterina Carminati, nato il 18 giugno 1765; Pietro Maria Gasparo, nato il 9

gennaio 1772 e Costantino Alessandro, nato il 16 novembre 1776,

quest’ultimo congiuntosi in matrimonio colla nobile Catterina Camilla

Soranzo. 31 “Teatro araldico ovvero raccolta generale delle armi ed insegne gentilizie

delle più illustri e nobili casate che esisterono un tempo e che tutora

fioriscono in tutta l'Italia”. Di I. Tettoni e F. Saladini, volume quinto. Lodi,

pei tipi di CL. Wilmant e figli, 1841. In questo testo è visibile un albero

genealogico piuttosto completo nel quale ritroviamo gli stessi nomi emersi

nella ricerca effettuata presso l’ASVe.

85

di nome Marina Dorotea Sanzonio32

. Ebbero un figlio il 14 giugno

1787, Giovanni Andrea fu Claudio che troviamo essere il possessore a

Sambruson di “casa da villeggiatura” e varie “case d’affitto” censite

nel Catasto Napoleonico del 1808. In quello stesso anno ebbe a

sposare la nobile Isabella Maria Boldù33

ed in seguito ebbero sei figli.

Particolare della mappa catastale del Consorzio di Bonifica Settima Presa

Superiore del 1810 circa34.

32 “Protogiornale per l'anno 1787 ad uso della Serenissima Dominante Città

di Venezia”. È riportato il matrimonio, avvenuto nel 1783, all’interno di una

breve lista di matrimoni di patrizi abbienti con donne di diversa condizione.

Era un fatto non rarissimo ma comunque inusuale. 33 “Isabella di Giacomo Boldù sposa Avogrado Giovanni Andrea di Claudio il

6 settembre 1808” registrato in «Avogaria di comun. Matrimoni patrizi per

nome di donna», ASVe. Inoltre, grazie alla raccolta di necrologi “Menzioni

onorifiche de' defunti scritte nel nostro secolo: ossia Raccolta cronologica-

alfabetica di lapidi, necrologie, biografie, prose e poesie dei defunti nell'anno

1846” di Giovanni Battista Contarini, 1854, sappiamo che “nel dì 27

Novembre moriva in Venezia, in età di 72 anni la N. D. Isabella Boldù,

vedova del patrizio veneto Gio. Andrea Avogadro”. 34 “In sancto Ambrosone: uomini ed eventi a Sambruson fra l'alto Medioevo e

il primo Ottocento” di Mario Poppi. Associazione culturale Sambruson la

nostra storia, 2008. Pag. 129.

86

Gli Avogadro ebbero sicuramente la disponibilità economica ed il

tempo per apportare le modifiche ai possedimenti di Sambruson con

quel gusto settecentesco che contraddistingue ancora oggi la parte

centrale della villa.

In seguito, intorno agli anni venti del 1800 (probabilmente nel 1822),

divenne proprietario del complesso l’allora molto noto cantante

Giovanni Battista Velluti.

La storia del sopranista Velluti è l’emblema dell’amarezza delle cose

belle. La sua voce, che veniva considerata simile a quella che

dovrebbero avere gli angeli, era frutto di una menomazione avvenuta

prima della pubertà, in età infantile, allo scopo di mantenere la voce

acuta in età adulta.

Tralascio volentieri la descrizione della pratica terribile35

, inferta con

il benestare delle famiglie di origine a bambini che, semplicemente,

dimostravano buone capacità canore nei cori parrocchiali e che vedeva

una mortalità elevatissima e sofferenze inaudite, per soffermarmi su

questo personaggio assai singolare.

Nato nelle Marche, a Montolmo - oggi Corridonia - il 27 gennaio

1780, giunse in breve tempo ad esibirsi nei maggiori teatri d’Europa,

ottenendo un successo via via crescente. Molti ritengono che divenne

noto, oltre che per le sue eccezionali doti artistiche, per i suoi

atteggiamenti “divistici”. Gli venivano attribuiti amori con le donne

più belle ed esibizioni capricciose di fronte ai vari esponenti di rango

venuti per ascoltarlo, come la principessa del Galles o addirittura

l'imperatore Napoleone, oltre che ai grandi compositori come

Gioachino Rossini. In realtà non è facile sapere come siano andate

veramente le cose. Dobbiamo considerarlo alla stregua di una odierna

“star”, notando come le cronache ottocentesche siano ricchissime di

35 Il tema è stato molto dibattuto in letteratura. È di facile reperibilità il testo

“Lustrini per il regno dei cieli: ritratti di evirati cantori” di Luca Scarlini

(2008), che delinea con poche efficaci pennellate un mondo a noi oggi

incomprensibile.

87

“siparietti” a lui attribuiti in ogni parte d’Europa, ma registrando

anche come la popolarità dell’artista possa aver amplificato oltremodo

fatti piuttosto banali o mai avvenuti.

Sicuramente un dato è importante: il periodo storico in cui trovò ad

esprimersi era in vorticoso cambiamento. Napoleone esportava idee

nuove e lo scontro con l’ancien regime non era solo politico, ma

anche culturale. Si trovò il Velluti, suo malgrado, in mezzo a tale

scontro che interessò tutte le arti ma che trovò nel teatro luogo ideale

di espressione. L’allontanamento delle donne dai teatri non aveva da

tempo più senso agli occhi di tutti, ma si cominciava anche a dare

diverso spazio - dopo un incerto regno del contralto - anche al tenore,

uomo a ogni titolo, anzi sovente prototipo di “macho” che incarna

valori “nuovi” d'eroismo.

Non deve essere stato facile per il Velluti essere l’ultimo esponente di

un mondo che cominciava ad esigere dell’altro. Non a caso è

considerato l’ultimo ad esibirsi nei teatri ed in effetti, pur con qualche

rara eccezione, è quello che avvenne, poiché i suoi pari continuarono

per lo più ad esibirsi nelle chiese sui temi della musica sacra. Si trovò

spesso a confrontarsi tra coloro che lo consideravano un fenomeno da

circo, anacronistico e simbolo di un tempo passato, e coloro che lo

definivano l’ultima voce sublime e grande interprete36

. Ciò non toglie

che le sue soddisfazioni artistiche furono enormi.

36 Si veda in proposito: “Veluti in speculum: The twilight of the castrato” di J.

Q. Davies in Cambridge Opera Journal, Cambridge University Press, Volume

17. Novembre 2005, pagg. 271-301. L’autore gioca con il nome del

Sopranista ed il latino (non è cosa nuova, nel corso dell’800 fu fatto più volte)

ed esamina in dettaglio l’accoglienza ostile del Velluti nella stampa inglese.

Egli evidenzia come il sopranista divenne rapidamente una figura

inconcepibile per il pubblico sassone a seguito dell’affermarsi di idee

dominanti (romantiche) che lo descrivevano come “innaturale”. Infine, in

merito, vorrei citare la bella lettera “Defense of Velluti”, pubblicata nel 1826

in una rivista inglese da Mary Shelley, l'autrice del romanzo gotico

Frankenstein, indicando come fosse del Velluti unicamente “l’effeminatezza

88

Immagine satirica pubblicata nel 1825 che descrive come “cosa da nulla”

l’esecuzione del Velluti e una stampa più rispettosa del 1828 raffigurante il

Velluti in vestito di scena. Entrambe illustrano l’esecuzione de “Il Crociato in

Egitto” e si trovano presso la Harry R. Beard Collection del Victoria and

Albert Museum di Londra.

Tra i suoi estimatori quale “ultimo grande virtuoso” troviamo operisti

e librettisti importantissimi come Rossini e Felice Romani, Meyerbeer

e Gaetano Rossi che concepirono ruoli e drammi creati su misura delle

sue peculiari e originali virtù canore ed espressive.

La ricchezza delle sue “fioriture” e la forza intensa del suo “canto

sentimentale” ebbero rilevanti influenze sulla scrittura dei suoi autori,

ma anche sul gusto degli interpreti e del pubblico37

.

ad offendere molti inglesi”. Traduzione a cura dello scrivente. “A Mary

Shelley Encyclopedia” di Lucy Morrison, Staci L. Stone. Greenwood

Publishing Group, 2003. Pagina 111. 37 Al riguardo è di grande interesse il “Catalogo dei fondi musicali Antonio

Miari e Giovanni Velluti della Biblioteca civica di Belluno” di Paolo Da Col.

Fondazione Levi, 2008.

89

Lascio ad altri il compito di dipingere una biografia38

del musico, per

concentrarmi sul suo rapporto con i possedimenti sulla Brenta.

Sappiamo che diverse lettere sono inviate e ricevute presso questi

luoghi, ma in realtà quella in Riviera non sembra essere inizialmente

la sua dimora stabile. Egli è un grande viaggiatore e si muove in tutta

Europa, praticamente ovunque ci sia un teatro degno di questo nome.

Nel 1823 Velluti scrive a Giacomo Meyerbeer39

una lettera nel cui

incipit si intravede la sua non stanzialità, anzi sembra quasi un

inseguimento: “Trieste. 8 settembre 1823. Amatissimo Mio Giacomo.

La vostra pregiatissima lettera direttami alla Mira Vecchia in data 27

agosto, l’ho ricevuta soltanto ieri ed ora mi faccio un dovere

rispondere al carissimo mio Giacomo. La prima che mi inviaste a

Firenze la ricevetti ancor quella tardissimo”. Nello stesso periodo è

Gaetano Rossi a scrivere a Meyerbeer lamentando che non riceve

“lettere di Velluti da oltre un mese: mi scriveva che m’avrebbe

prevenuto con lettera del suo passaggio per Verona onde stare

assieme un po’ d’ore: non vedo più lettere. Lo aspettai, lo aspetto.

Ignoro se sia alla Mira e se partirà presto, dovendo per i primi di

settembre essere a Trieste”. Il Velluti e Rossi fanno accenno alla

“Mira Vecchia” perché era la località, per vicinanza, a cui faceva

38 Esiste un'unica biografia: “Giovan Battista Velluti cantante lirico (1780-

1860)” di Ermanno Illuminati per conto e a cura del Comune di Corridonia,

1985. Essa ha avuto il merito di essere la prima ricerca di rilievo, ma andrebbe

aggiornata, corretta in alcune parti, e completata in particolare per le

tematiche riguardanti il ruolo del cantore nella rivoluzione avvenuta nel

mondo della musica e del teatro negli anni della sua attività, anche in base alla

documentazione riguardante Rossini e gli altri compositori.

Sempre di origine marchigiana è un documentario del 2007, ideato e

promosso da ARTEsetTIMA, per la regia di Angelucci Cominazzini

Massimo, dove sono presenti anche alcune scene girate all’interno della villa

di Sambruson. 39 “Giacomo Meyerbeer: Briefwechsel und Tagebücher” di Heinz Becker,

Gudrun Becker. Walter de Gruyter, 1959.

90

riferimento questo tratto del fiume Brenta. È difficile da queste lettere

pensare che Velluti potesse passare lunghi periodi in Riviera, senza

contare la lunga parentesi passata in Inghilterra al King’s Theatre

attorno agli anni 1825-182640

.

Perché un uomo ricco e che conobbe i fasti e le bellezze di tutta

l’Europa decise di stabilirsi in questo luogo, rimarrà un suo segreto.

Se è vero che in questo periodo storico, traumatico della storia di

Venezia, molti nobili o ricchi borghesi decisero di spostarsi

stabilmente in terraferma41

è altresì vero che egli non era veneziano e

che in laguna non aveva interessi particolari, ma vi transitava come in

altre città italiane ed europee. Possiamo azzardare l’ipotesi che fosse

un sito più comodo per gli spostamenti, localizzato com’è tra Padova e

Venezia, per andare a Trieste, Verona, Milano, Parma e le altre città

che spesso frequentava. Inoltre, per il medesimo motivo, posto lungo

il percorso di quello che rimaneva del Grand Tour poteva ricevere i

suoi ospiti lontano da occhi indiscreti, poiché la campagna gli

garantiva quell’anonimato che la città ed i suoi abitanti, amanti dei

teatri, non gli potevano serbare. Certo è che se decise di passare il

resto della vita in questo luogo e qui essere sepolto, vuol dire che alla

fine deve averlo preferito a tutti gli altri a lui noti. Mi sembra

comunque difficile possa essere una “inspiegabile coincidenza”42

che

tre dei più grandi ultimi musici, Gaetano Guadagni43

, Gaspare

40 In merito è molto dettagliata la ricostruzione, particolarmente interessante

perché coeva all’autore e non postuma, leggibile in: “Seven Years of the

King's Theatre” di John Ebers. W. H. Ainsworth, 1828. 41 “Venezia Austriaca: 1798-1866” di Alvise Zorzi. Libreria Editrice

Goriziana, 2000. Pagina 28. 42 “Il crepuscolo degli angeli: Guadagni, Pacchierotti e Velluti, gli ultimi

castrati in terra veneta” di Giovanni Toffano, contenuto nel quaderno n. 4

(dicembre 2003), di Erta Italia Onlus–European Recorder Teachers

Association. 43 Gaetano Guadagni, contraltista e poi sopranista, è nato Lodi attorno al 1729

e deceduto a Padova nel novembre 1792.

91

Pacchierotti44

ed il Velluti, dopo anni trascorsi a raccogliere successi e

trionfi per i maggiori teatri d'Europa, siano andati a trascorrere

l’ultimo periodo della loro vita in questi luoghi, a Padova i primi due e

sulla Brenta a metà strada tra Padova e Venezia il Velluti, “quasi

confondendo il loro tramonto con il declino e la definitiva scomparsa

della Repubblica di Venezia, nei cui teatri trascorsero alcuni dei

momenti più importanti della loro carriera artistica”45

.

Evidentemente, per il loro tipo di arte, queste zone dovevano

assicurare un ritorno adeguato al loro prestigio. Forse andrebbe

indagato in modo più approfondito il rapporto tra Pacchierotti e

Velluti, entrambi marchigiani, entrambi amici di Rossini, entrambi

acquistarono una villa di campagna dove passare gli ultimi anni di

vita. Ad oggi non ho riscontrato prove di particolare amicizia tra i due,

ma in effetti sembra che il Velluti, di quarant’anni più giovane, abbia

seguito le tracce del Pacchierotti anche prima di morire: come Gaspare

adottò un nipote, al quale diede il cognome e di cui curò

meticolosamente la formazione e che nominò suo erede universale,

anche il Velluti prese con sé il nipote marchigiano Luigi, che ereditò

tutte le sue fortune.

L’addio alle scene, convenzionalmente, viene dato attorno il 1830,

dopo la tournée de “Il crociato in Egitto”46

.

In un articolo del 1826, che è in realtà una lettera di un corrispondente

per una rivista culturale in visita al Teatro la Fenice, leggiamo che:

“Velluti è qui, l’ho incontrato l'altro giorno nei giardini, ma è

abbastanza en particulier ed ha, credo, dato l’adieu al palco. Dicono

44 Gaspare (o Gasparo) Pacchiarotti, anche noto come Pacchierotti, è nato a

Fabriano nel 1740 e deceduto a Padova nel 1821. È considerato uno dei

maggiori “musici” dell'ultima fase della loro storia. 45 Vedasi nota 42. 46 Un melodramma eroico in due atti di Giacomo Meyerbeer, su libretto di

Gaetano Rossi che debuttò alla Fenice di Venezia il 7 marzo 1824. Il ruolo del

protagonista, Armando d'Orville, fu scritto espressamente per il Velluti

92

che si sia arricchito enormemente in Inghilterra, ma che non si goda

la sua ricchezza. Ha acquistato un bel posto sulla Brenta, tra Venezia

e Padova, e in generale ci vive in grande solitudine”47

. In realtà

sappiamo che si esibì ancora. I biografi di Stendhal ebbero a riportare

come nel salone del Quadri, il noto caffè di Venezia, nel 1831 egli

poté ascoltare il Velluti. Questi cantava nel Carnevale di quell’anno

alla Fenice, nella nuovissima opera del maestro Pavesi, “la Muta di

Portici”. Invitato, non si rifiutò di farsi udire in privato da pochi

ammiratori e clienti del Quadri, accompagnato al pianoforte da

Perrucchini48

. Stendhal, nell'unica lettera nota dello scrittore inviata da

Venezia (23 gennaio 1831), scrive che “Velluti non aveva mai cantato

meglio”49

. Nonostante il lusinghiero giudizio del grande romanziere

francese, molti erano i critici della voce dell’ormai cinquantenne

Velluti. Le esibizioni si fecero estremamente rare e cominciò nuova

vita sulle rive del bel fiume Brenta. Dalle visite pastorali sappiamo che l’oratorio della villa venne sospeso

nel 1822, ma è del 1832 il rilascio50

di un “permesso a benedire il

pubblico oratorio riadattato di G. B. Velluti”, come se nel decennio

precedente il cantore non avesse potuto o voluto occuparsene,

aspettando il suo ritiro pressoché definitivo dalle scene. Come decise

47 “The Oriental Herald. And journal of general letterature”. Volume 12 del

1827. Articolo “Letters from a Continental traveler”. Pag. 435. Traduzione a

cura dello scrivente (le parole in francese sono state mantenute come da testo

originale). 48 Giovanbattista Perrucchini (1784 –1870) fu segretario della corte d’appello

di Venezia e dilettante di musica. Si esibì spesso al pianoforte come solista

nelle case patrizie ed accompagnò sovente il Velluti. Musicò, inoltre,

componimenti in veneziano ed in italiano di Pietro Buratti (1772 – 1832),

anch’egli amico del sopranista, citato sovente nelle sue poesie. 49 “Dal Greco al Florian: scrittori italiani al caffè” di Riccardo Di Vincenzo.

Archinto, 2003. 50 Archivio Capitolare di Padova. Diversorium. Volume 25 (agosto 1821 –

aprile 1857), pag. 103.

93

di intervenire nella chiesetta, con ogni probabilità riadattò a proprio

gusto anche il complesso della villa. Per capire come doveva essere il palazzo del Velluti, ancora una

volta51

ci viene in aiuto un esponente della famiglia Von Martens,

Cristian, uno dei 14 figli del console danese52

a Venezia il quale aveva

la propria abitazione alla Mira Vecchia, poco distante da quella del

Velluti. Egli realizzò una mappa del fiume dalla località di Mira Porte

al Dolo, datata ottobre 1827, con l’inserimento di piccole viste ad

acquerello, piuttosto inusuali e di evidente gusto ottocentesco, delle

principali ville, tra cui quella del Velluti53

. È l’unica veduta del

complesso ad oggi conosciuta, nonché totalmente inedita54

. Per quanto

solo abbozzata ci permette di vedere che il corpo principale era

isolato, non aveva le due ali laterali, e di notare che il fronte del fiume

è rimasto immutato sino agli anni venti del ‘900 dove, in foto e rilievi

d’epoca, troviamo una situazione ad essa molto simile: tra la villa e

l’oratorio non vi era ancora nessuna costruzione ma solo un lungo

muro.

51 Un’interessante iconografia prodotta dagli esponenti dell’illustre famiglia

Von Martens sono state pubblicate anche nei precedenti due volumi de

“Luoghi ed Itinerari della Riviera del Brenta e Miranese”. Non sempre di

rilevante interesse sotto il profilo artistico, sono importanti per l’aspetto

documentario, perché ritraggono luoghi normalmente trascurati dai vedutisti

che pur hanno affollato le rive della Brenta. 52 Vedasi la ricerca “La famiglia Martens alla Mira Vecchia” di Mauro

Manfrin pubblicata in Rive 8, Comune di Mira, 2008. 53 Sono segnalate anche la vicina villa “Camerata”, la quale è caratterizzata da

un bellissimo vialetto di accesso al fiume, e dalle note sulla planimetria

scopriamo che l’altra vicina villa, oggi conosciuta come Tito, era a

disposizione dell’Ispettore delle Finanze. 54 Per gentile concessione di Massimo Zabeo, a cui va il mio ringraziamento.

La cartografia è stata presentata al pubblico alla mostra “L’Acqua di Venezia

e la Seriola Veneta” nel marzo-aprile 2014 a Dolo.

94

È accertato che, con il tempo, il sopranista cominciò a dedicarsi ad

altri interessi, in particolare si occupò di coltivazioni e di giardinaggio.

Anche di questa sua parte di vita risultano esserci molti aneddoti55

. Si

disse ad esempio che visitò in incognito la villa di Luigi Garzoni a

Mirano, con lo scopo di studiarne i giardini assieme ad alcuni suoi

ospiti, ma che venne smascherato dalla sua incapacità di trattenersi

dall’esibirsi alla vista di un magnifico pianoforte. Oppure che a

Mestre durante l’assedio austriaco, in visita per motivi di salute a

Pietro Berna56

, si trovò suo malgrado impegnato a liberare degli

arrestati.

Mi preme ricordare un episodio, che è riportato in un testo in lingua

francese del 185757

, poiché è emblematico di come siano inattendibili

molti aneddoti che riguardano il sopranista - da taluni dati per veritieri

pur essendo solo pettegolezzi del secolo scorso58

- ma anche perché

coinvolge una personalità estremamente importante per la Riviera e,

55 “Giambattista Velluti, ultimo dei sopranisti sulle liriche scene” di C.

Parolari. In «Rivista musicale italiana», XXXIX (1932), pagg. 263-298:274-

275. L’articolo racconta aneddoti raccolti dalla viva voce dei discendenti

Gioacchino Velluti e sua moglie Emilia Stadlbaur, alla quale è dedicato un

componimento poetico in apertura dello scritto. Certamente possiamo ben

vedere che il sopranista non viveva in esilio come spesso si scrive. Sono citati

tra i suoi amici oltre che Garzoni e Berna anche il professor Federico Moja,

insegnante di prospettiva all'Accademia di Belle Arti di Venezia, villeggiante

a Dolo, e molti altri. 56 Dovrebbe trattarsi del farmacista e più volte sindaco di Mestre, Pietro

Berna, ma le date non sembrano essere perfettamente coincidenti. 57 “La vie élégante à Paris” di François-Jérôme-Léonard de Mortemart de

Boisse. Hachette, 1857. Pagg. 345-347. 58 Lo stesso aneddoto, con piccole varianti, è da altri citato come avvenuto a

Milano, quando il Velluti si esibiva alla Scala, cambiando il De Blangy con un

anonimo parrucchiere. Inoltre in Francia veniva attribuito a Domenico

Giuseppe Biancolelli, detto Dominique (1636 – 1688), un attore italiano che

recitava come Arlecchino.

95

infine, perché fa riferimento a quella “malinconia” che, in fondo,

evoco nell’approccio sentimentale all’analisi della villa. In questo

testo si afferma che tale visconte De Blangy, un amabile dottore di

Venezia, durante una cena svoltasi alla Mira Vecchia assicura ai suoi

ospiti di aver conosciuto un uomo che si dice “affetto da profonda

malinconia”. Dopo un primo colloquio, egli gli consiglia del buon

vino, ma il malato in tutta risposta afferma di averne una cantina

fornitissima. Allora gli propone un bel viaggio, e il malato afferma

che è inutile, perché la malinconia lo insegue. Infine il De Blangy gli

suggerisce di andare ad ascoltare a teatro il cantante Velluti poiché

con la sua arte comunica a tutti verve e allegria, e questo gli risponde:

è solo una maschera, nulla di più, perché il Velluti sono io!

Quello che rende interessante ai rivieraschi tale aneddoto è che il

visconte De Blangy era soprattutto un grande chimico e divenne

famoso per aver perfezionato la produzione delle candele steariche59

,

fondando la fabbrica di Mira che poi divenne la Miralanza. Già nel

1837 il visconte Luigi Enrico De Blangy aveva ottenuto il privilegio

dall’Imperial Regio Governo di fondare la fabbrica a Mira, ricevendo

nel 1838 la medaglia d’oro ai “Premi d'agricoltura e d'industria del

Regno Lombardo-Veneto” per la sua produzione di candele60

. Ritengo

più che credibile che il Velluti potesse conoscere il De Blangy,

considerata la loro forte personalità e la presenza di entrambi alla

Mira.

59 Il testo più importante sul primo periodo della fabbrica è: “L'arte del ceraio

a Venezia e la fabbrica candele di Mira” di Bruno Polese ospitato in “La

chimica e le tecnologie chimiche nel Veneto dell'800: atti del settimo

Seminario di storia delle scienze e delle tecniche nell'Ottocento veneto,

Venezia, 9 e 10 ottobre 1998” a cura di Angelo Bassani. Istituto veneto di

scienze lettere ed arti, 2001. 60 “Atti della solenne distribuzione de’ premj d'agricoltura e d'industria fatta

in Venezia il 16 ottobre 1838. Con relativo discorso del sig. professore

Valeriano-Luigi Brera (etc.)” di Valeriano-Luigi Brera. Giuseppe Antonelli,

1839.

96

Particolare de “Il corso della Brenta dalle porte del Dolo sino alle porte della

Mira” del 1827 di Cristian Von Martens.

97

Degli anni ‘30 e ’40 dell’Ottocento, coevo agli aneddoti sul Velluti

“signorotto di campagna”, è il rilievo molto preciso del catasto detto

“Austriaco”. Rispetto alle precedenti cartografie, l’individuazione è

minuziosa. In particolare è rilevabile la presenza degli edifici a corte

posti tra i due corpi principali, che rappresentano forse il nucleo più

antico dell’intera struttura e, staccato rispetto al complesso, l’oratorio

pubblico cui è stato aggiunto sul retro un corpo di fabbrica piuttosto

allungato verso sud.

Particolare del Catasto detto “Austriaco”. 61

61ASVe. Censo Stabile, Mappe Austriache, cartella 31, foglio III. La

riproduzione è stata eseguita dalla Sezione di Fotoriproduzione dell’Archivio

di Stato di Venezia su gentile concessione del Ministero per i Beni e le

Attività Culturali - Archivio di Stato di Venezia, atto di concessione 60/2014

prot. 5473/28.13.07.1.

98

Del 1856 è una lettera inviata dall’amico Meyerbeer al Velluti, oramai

settantaseienne, nella quale scrive: “Ho ritardato da un giorno

all’altro a venire nella vostra [dimora di] campagna, dove voi mi

avete gentilmente invitato, volendo prima guarire dalla mia

malaugurata tosse, per potermi abbandonare più liberamente al

fascino dell’escursione al Tusculum62

dell’immortale artista di nome

Velutti [sic]; ma, ahimé, non sono ancora guarito ed ecco che una

lettera appena ricevuta mi obbliga a partire immediatamente per

Berlino. Sarò dunque privato del piacere di servirvi ancora, caro ed

illustre amico. Ma lasciatemi almeno che vi dica in queste righe

quanto sono stato felice di rivedervi a Venezia dopo tanti anni di

lontananza: voi, mio illustre Velutti, che io ammiro come uno dei più

grandi artisti [auteurs] che la vostra patria tanto feconda abbia

prodotto, e che allo stesso tempo io amo come uno degli animi più

nobili ed elevati. Sono fiero e fortunato dell’amicizia di cui voi mi

onorate e vi prego di conservarmela, come io serberò per voi, per

tutta la mia vita, una sincera riconoscenza per la vostra ammirevole

prima esecuzione [création] del ruolo del Crociato, a cui sono

debitore del successo che quest’opera ha avuto la fortuna di

ottenere”63

.

Mi sembra importante segnalare come in avanzata età, tutt’altro che

isolato dal mondo, il Velluti invitasse ancora i vecchi amici a casa.

Come afferma Paolo Peretti nel suo preciso lavoro, il più interessante

nel panorama attuale circa la figura del Velluti: “Meyerbeer si scusa

62 Tusculum è stata una città pre-romana, romana e medievale del Lazio, posta

sui Colli Albani nell'area dei Castelli Romani. Aveva notevoli costruzioni,

abbellita da una corona di giardini e ville, soprattutto nella sua parte bassa,

quella rivolta verso Roma. 63 La lettera è riportata in lingua francese in: “Lettere di musicisti esistenti nel

Museo civico di Padova” di G. Marangoni, in “La cronaca musicale”, XIII,

nr. 9 (sett. 1909), pagg. 260-264. La traduzione dal francese è di Paolo Peretti

(vedasi nota seguente).

99

di non poter andare, da Venezia in cui temporaneamente soggiornava

e dove i due si erano da poco rivisti dopo lungo tempo, a rendere una

promessa visita al cantante nella sua agreste dimora di Sambruson:

località non apertamente nominata ma che, nel dotto paragone

epistolare, diviene idealmente per la Venezia dell’epoca quello che

Tusculum - con le sue splendide ville - fu per l’antica Roma. Dal tono

alquanto formale, si evince tuttavia una sincera stima del compositore

per l’anziano cantante, sia sul piano artistico sia su quello umano” 64

.

Pochi anni dopo la citata lettera, nel 1861, alla veneranda età di 81

anni Giovanni Battista Velluti morì proprio nella sua villa di

Sambruson. Nel registro parrocchiale, alla quinta riga dell’anno 1861,

è scritto: “lì 24 Gen. Il Signor Giovanni Battista fu Saverio Velluti, e

fu Lucia N., nubile d’anni 81, munito di tutti gli aiuti spirituali morì

jer l'altro, alle ore 8 pom. e fu sepolto alle ore 11 ant.”.

Illuminati scrive che “le esequie furono semplici, al seguito del feretro

i familiari, alcuni estimatori e la gente del luogo; la salma venne

inumata all'interno del sagrato della chiesa parrocchiale e il nipote

Luigi vi pose una lapide di marmo. Alcuni anni dopo, la spoglia del

cantante venne traslata nella nuova cappella funeraria eretta dai

Velluti nel cimitero di Sambruson; la lapide posta nel sagrato venne

rimossa e murata nella parete esterna destra della chiesa” 65

. La bella

lapide posta dal “dolentissimo nipote Luigi” porta il fregio di una lira e

l’usignolo, gli emblemi della vita del Velluti. La sua morte ebbe una

certa eco nel mondo del teatro e della musica. D’altro canto con lui se

ne andava una parte di quel “mondo dell’arte” che probabilmente lo

aveva sostituito ma non dimenticato. Certamente, molto amato.

64 “Il ‘musico’ e l'usignolo. Omaggio a Velluti, ma non solo” di Paolo Peretti,

in “Studia Picena”, LXXVI (2011), pagg. 289-362. All’autore va il mio più

sentito ringraziamento per avermi inviato il risultato del suo importante

lavoro. 65 “Giovan Battista Velluti cantante lirico (1780-1860)” di Ermanno

Illuminati per conto e a cura del Comune di Corridonia, 1985. Pagina 21.

100

Lapide murata nella chiesa di Sambruson in memoria di Gio. Batta Velluti ed

un suo ritratto di metà Ottocento (collezione privata).

Gli furono riservati sonetti ed epigrafi e, tra quanti ho potuto

visionare, scelgo la seguente “menzione onorifica”:

“Gio. Battista Velluti di Pausola nel Piceno, gloria del canto italiano,

cessò di vivere la sera del giorno 29 cor. Gen., nel suo poderetto sul

Brenta presso il Dolo. […] Solo chi è maestro nell' arte, potrà

adeguatamente giudicare del suo merito musicale, che certo fu

grande, se Rossini non dubitò di chiamare il Velluti imperadore del

dolcissimo canto, e Mayerbeer, un prodigio miracolo della melodia,

ed il celebre Emanolito Garcia, fratello della Malibran, a me che

scrivo queste righe decantava miniera inesauribile di modi eletti e

purissimi per vestire musicalmente qualsiasi concetto. Né dovea

essere altrimenti, se il Velluti colle sue tre diverse maniere di canto,

rispondenti alle diverse stagioni della sua artistica carriera, intendo

coll' ardita ed immaginosa, coll’appassionata e commovente, colla

101

studiata e finita giunse a strascinare dietro a sé, novello Orfeo,

meravigliate Italia, Germania, Inghilterra. […] Egli che potea farsi

ricchissimo, se meno dell’oro non avessero in lui potuto la buona fede

ed un nobile disinteresse, lasciò in eredità ai suoi nipoti modesto

censo. Vogliano essi rendere onorata testimonianza al nome del loro

zio, imitandone le virtù, e serbando tra loro quella scambievolezza di

affetti, che agli sguardi di quello spirito eletto, fa e sarà sempre il

pegno più ragguardevole della loro rispettosa riconoscenza. Un

amico.” 66

Interessante l’individuazione delle “tre maniere diverse di canto”

corrispondenti alle diverse età, ma il censo lasciato agli eredi è

tutt’altro che modesto. Il nipote Luigi, oltre a vari possedimenti

terrieri, poté disporre di un’ingente somma di denaro che investì

prontamente in un’impresa manifatturiera, una fornace di mattoni, e si

dimostrò certamente un abile imprenditore. Nato a Montolmo nel

1822, era figlio di Tossano fu Saverio Velluti (1788-1849) ovvero del

fratello minore del sopranista. Sembra che sia stato inviato, ancora

adolescente, a vivere presso lo zio nella villa sulla Brenta. In seguito

sposò tale Caterina Bressanin ed ebbero una decina di figli.

Sappiamo che Luigi non fu l’unico nipote del sopranista a spostarsi

dalle Marche al Veneto. Anche Gaetano Velluti, che sposò tale

Marconi Giuseppina67

, prese possesso di proprietà a Saonara (luogo di

66 “Menzioni onorifiche dei defonti ossia Raccolta di lapidi, necrologie,

poesie, annunzii ad alcuni defonti di Venezia, nell'anno 1861” a cura di G. B.

Contarini. Tipografia Perini, 1861. Pagina 9. 67 Nel testo: “Bibliografia italiana ossia elenco generale delle opere d'ogni

specie e d'ogni lingua stampate in Italia e delle italiane pubblicate all'estero”,

Milano, 1842, nella rubrica “Libri in dialetti diversi” leggiamo dell’esistenza

di un componimento dedicato “All’egregio amico e incomparabile cantante

Giambattista Velluti per le faustissime nozze del diletto nipote Gaetano

Velluti colla signora Giuseppina Marconi. Gregorio Trentini offriva. Padova.

Tip. Sicca, 1842”.

102

cui un loro figlio, Giovanni Battista, fu segretario comunale68

), e dove

diedero origine ad una prolifica dinastia “padovana” dei Velluti.

Il catasto detto “Austro-Italiano” degli anni Sessanta dell’800 mostra

la presenza del primo impianto della fornace voluta dall’erede del

musico. Mentre dalla Gazzetta Ufficiale sappiamo che l’Ispettorato di

Padova stipulò un contratto in data 18 luglio 1866 con Luigi per la

vendita di una serie di fondi in Sambruson e Camponogara69

, fondi

che gli servirono per estrarre l’argilla e realizzare i mattoni nella

nuova manifattura. Anche la mappa dell’Istituto Geografico Militare

del 1887 evidenzia l’importante presenza della fornace. Dello stesso

anno è da segnalare la morte di Luigi, infatti, il registro parrocchiale

riporta in data 27 ottobre 1887 che “Velluti Luigi fu Tossano e Ridolfi

Gioconda, d’anni 65, colpito di morte repentina […] morì il 24

ottobre”, sembra a seguito di un colpo inferto dal calcio di uno dei

suoi cavalli, di cui era grande appassionato.

La fornace Velluti fu probabilmente il primo forno Hoffmann70

costruito nella zona della Riviera del Brenta, e rappresenta oggi

un’interessante area di archeologia industriale inserita in un sito di

particolare valore paesaggistico, compreso com’è tra i due corsi

68 “Volendo dare un attestato di Nostra Sovrana soddisfatione a quelle

persone che in special modo si segnalarono per intelligente ed efficace

cooperazione nel lavori del censimento generale della popolazione del Regno,

eseguito al 31 dicembre 1881” è stato insignito con “menzione onorevole” il

segretario municipale di Saonara, Gio Batta Velluti. Gazzetta Ufficiale del

Regno d'Italia. Roma - Supplemento al n. 289 del 1882. Segnalo, inoltre, che

Gio Batta fu il padre del parroco Felice Velluti (1883 – 1972), molto noto ed

amato nel padovano per il suo impegno verso i più deboli. 69 Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 314 del 18 novembre 1868. Reca

un decreto di approvazione di “n° 76 vendite di vari appezzamenti di terreno

erariale nel Veneto ai proprietari che vi stanno a confine”. 70 “Quei campanili industriali che svettano in Riviera. Un patrimonio storico

di grande valore simbolico in pericolo da conoscere, recuperare e

valorizzare” di Gianna Riva, pubblicato in Rive 2, Comune di Mira, 2002.

103

d’acqua della Seriola Veneta e del Naviglio del Brenta, e che sembra

non essere sufficientemente tutelato71

. Fu un’industria molto

importante per l’economia della zona e arrivò a superare il centinaio

di operai impiegati (nel 190572

furono contati 69 operai, mentre nel

192073

ne furono indicati 105).

L’impianto, realizzato dapprima a 16 camere, ampliato a 24 camere

nel 1943 dalla ditta Valdadige, venne ristrutturato con la costruzione

di forni a tunnel negli anni Sessanta del Novecento e dalla stessa ditta

gestito fino alla definitiva chiusura nel 1977.

Oltre agli impianti più recenti, ancora esistenti, e all’ammasso dei

ruderi del forno Hoffmann, sopravvive la vecchia ciminiera, ancora

integra e in discreto stato di conservazione. La presenza e lo stato di

abbandono di questa struttura non può che influire nella percezione di

mestizia che avvolge oggi l’intero complesso.

Alla morte di Luigi Velluti la villa e la fornace con tutti i possedimenti

terrieri passarono ai figli e, successivamente, la divisione ereditaria

portò uno di loro, Gioacchino (1882-1960), ad occuparsene

stabilmente.

71 Non posso far finta di ignorare, per formazione professionale ma

specialmente per amore della Riviera, che il Piano Regolatore Generale di

Dolo prevede in quest’area una lottizzazione (Progetto Norma 3: area ricettiva

ex fornace Valdadige) per un volume residenziale di 31.000mc (207 abitanti

per 150mc/ab) e ricettiva di 12.800mc (80 persone per 160mc/ab) per un

totale di quasi 44.000mc. Una colata di cemento che questo brano di territorio

proprio non si merita. 72 “Bollettino dell'Ufficio del Lavoro”, Vol. 3. Tip. nazionale di G. Bertero

e.c., 1905. Leggiamo: “Fornace Eredi Velluti in Dolo, 69 operai a L. 1.40 con

orari da 6 a 11 ore. Operai organizzati costruttori e accenditori si misero in

sciopero il 5 aprile essendo loro stato rifiutato un aumento di salario”. 73 “Sindacato e corporazione: bollettino del lavoro e della previdenza sociale;

informazioni corporative”. Vol. 34 del 1920. Leggiamo: “A Dolo sciopero

nella fornace di laterizi della Ditta Eredi Velluti. Gli scioperanti (105)

chiedevano ed ottennero aumenti di salario (dal 19 maggio al 7 giugno)”.

104

L’individuazione della Fornace Velluti sul catasto detto “Austro-Italiano”

redatto intorno al 186574 e su Tavoletta IGM del 1887.

La figura di Gioacchino è una delle più significative per lo studio del

complesso che nel corso del ‘900 subirà modifiche importanti, ma

oltre a lui, tra gli eredi di Luigi, è fondamentale citare anche Lucia

(1878-1956) che nel 1900 sposò il pittore Ettore Tito (1859–1941),

dando origine ad un sodalizio familiare ed artistico durato più

generazioni e particolarmente importante per tutta la Riviera del

Brenta. Non è possibile affrontare qui un tema che da solo

richiederebbe una monografia75

, ma necessariamente va delineato un

breve profilo.

74 ASVe – Censo stabile attivato, Mappe, cartella 25, fogli 3 e 4. La

riproduzione è stata eseguita dalla Sezione di Fotoriproduzione dell’Archivio

di Stato di Venezia su gentile concessione del Ministero per i Beni e le

Attività Culturali - Archivio di Stato di Venezia, atto di concessione 60/2014

prot. 5473/28.13.07.1. 75 Circa la vicenda artistica dei Tito in Riviera del Brenta si vedano: “I Tito.

Un secolo e mezzo di arte” di Matteo Mazzato. In Rive 5, edito dal Comune di

Mira (anno 2002); “Ettore Tito 1859-1941” in Archivi della Pittura

105

Ettore Tito, originario di Castellamare di Stabia ma di madre

veneziana, è stato uno dei più importanti pittori veneziani di tutto il

‘900, spesso definito dai suoi contemporanei “l’erede di Tiepolo”76

.

Sposò Lucia, di diciotto anni più giovane di lui, incontrata in

montagna, nel Cadore, luogo amatissimo da entrambe le famiglie.

Lucia aveva la passione per i cavalli, ereditata dal padre Luigi, visibile

in alcuni dei quadri più belli dell'artista, come “L’amazzone” del

1906. In quegli stessi anni la famiglia Tito prende possesso della villa

vicina a quella dei Velluti ed Ettore, come per la sua casa veneziana,

ne segue un restauro particolarissimo rendendola un’opera d’arte77

.

Felice Carena78

, commemorando Ettore, ricordava la casa di

Sambruson come “uno dei luoghi ove si conservavano più vivida la

sua vera anima di poeta, la materia della sua pittura e la sua tenera

malinconia”. Ancora una volta la malinconia in questo brano del

Brenta. Qui Ettore fu molto attivo e le due famiglie vivevano usando

spesso gli stessi spazi. In particolare la corte formata dagli annessi

delle due ville, oggi non più comunicanti, era una sorta di area

comune e vi si poteva accedere dall’una e dall’altra abitazione.

Ettore e Lucia già avevano due figli quando Gioacchino Velluti sposò

Stadlbaur Emilia nel 1909. Dal loro matrimonio nacquero cinque figli:

Veneziana, a cura di Alessandro Bettagno. Fondazione Giorgio Cini, Electa

1998; “La dimora di Ettore Tito” di A Mazzanti. In “Artista”, 1993. 76 Villa Tito è ricchissima di riferimenti a Giandomenico Tiepolo: dalla

riproposizione al piano nobile de “il Mondo Nuovo” al pappagallo rosso

affrescato nella cedraia, molto simile a quello presente a Ca’ Rezzonico

(Venezia) ed a molti altri che Tiepolo usava dipingere quasi come una firma. 77 A titolo d’esempio si deve ad Ettore Tito la monumentale cancellata che

unisce la villa al complesso dell'atelier e della cappella, studiata nei minimi

particolari (come dimostrano i suoi bozzetti preparatori), e che unisce

materiali, forme e colori presi in prestito dalla tradizione veneta e dalla natura,

rielaborati in un disegno architettonico di rara bellezza. 78 “Armonie degli spazi nelle dimore e nelle decorazioni parietali di Ettore

Tito” di A. Mazzanti, Electa 1998. Citazione pag. 45.

106

Luisa (1899–1918); Luigi detto “Gigetto” (1908-1985); Gioconda

detta “Dina” (1910–1977); Lucia (1918-1979) e Anna Maria (1920)

detta “Anny” la quale divenne la nuora di Ettore, sposandone il figlio

Luigi, anch’egli artista importante.

I nipoti erano presenze abituali nella casa di Ettore Tito che, come si

evince dalla giovane moglie, era sempre stato attratto dalla freschezza

giovanile, attrazione che si manifestò anche nella sua pittura79

.

Opere di Ettore Tito. Nell’ordine: Ritratto di Gigetto Velluti, 1918 (Museo

Civico di Rovereto); Dina Velluti in un particolare de “La sarabanda”, 1934

(Venezia, collezione privata); Lucia Velluti in un particolare de “La

preghiera”, 1932-33 (Venezia, collezione privata).

79 Egli ritrarrà molto spesso i nipoti e particolarmente famosi sono il quadro

“la Sarabanda” del 1934 che ritrae Dina e “La Preghiera” del 1932-33 dove

compare anche la nipote Lucia. Tra quelli meno noti segnalo il bellissimo

ritratto del giovane Gigetto. Nel catalogo “L'arte riscoperta”, 2000 (pagg.

220-221) l’autore Pizzamano scrive: “L'opera raffigura il giovane Luigi

Velluti, nipote di Ettore Tito, che in seguito si affermerà come scultore. [...] Il

ritratto, probabilmente eseguito intorno al 1918, è caratterizzato da una

pittura sintetica, quasi trasparente, nella stesura del colore, esaltato da un

gioco di pennellate luminose. Tito sa cogliere nel volto del nipote la

spontaneità, la dolcezza mista a malinconia, la poesia dell'infanzia, […]”.

107

È evidente che tale contesto, annoverando la presenza continua in casa

Tito di ospiti provenienti dal mondo culturale veneziano, non poteva

che influenzare molto la famiglia Velluti ed i luoghi da loro abitati.

Non sorprende quindi che nel 1922 la rivista “The Architectural

Forum” abbia dedicato a villa Velluti un lungo articolo. I due autori

dello scritto intrapresero un viaggio alla ricerca delle opere palladiane,

a partire dal palazzo alla Malcontenta, per una passione del mondo

sassone per il nostro Palladio che dura immutata nel tempo ancora

oggi.

Perché tra le ville palladiane venga inserito anche un lungo articolo su

villa Velluti è presto detto: si volle dimostrare come fossero state

messe in pratica, per secoli, le idee dell’architetto rinascimentale sulla

distribuzione degli spazi architettonici, e questa venne presa ad

esempio. Certamente non può essere stata casuale la scelta. Poiché gli

esempi cui potevano attingere erano centinaia, mi sono convinto che

gli autori dovessero essere guidati da qualcuno che conoscesse i

proprietari e che fosse “di casa”. Due anni dopo, nel 1924, l’arch.

Carlo Scarpa80

seguì dei lavori di ampliamento nella villa per conto di

Gioacchino Velluti e successivamente ebbe altri incarichi sia a

Venezia che a Dolo per conto della famiglia81

.

80 Carlo Scarpa è stato un noto architetto legato al razionalismo italiano. Una

personalità eclettica con una cultura alimentata oltre che dai suoi studi anche e

soprattutto dalle molteplici frequentazioni con artisti e studiosi (il prototipo

dell’architetto che deve essere anche e soprattutto intellettuale). Nacque a

Venezia nel 1906, nel 1919 si iscrisse al corso di architettura della Reale

Accademia di Belle Arti di Venezia e nel 1922-24 lavorò nello studio

dell’architetto Vincenzo Rinaldo. In quegli anni seguì alcuni lavori per la

famiglia Velluti. 81 Questi fatti sono riportati da diversi biografi dell’architetto e anche nei

registri dell’archivio dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia

(Unità archivistica progetti e incarichi professionali “Annesso alla villa

Velluti, Sambruson di Dolo (VE) / Carlo Scarpa . - [1924-1925]” Segnatura:

Scarpa-1.PRO/1/003 ). Purtroppo l’archivio è stato smembrato e gli enti che

108

La pubblicazione dell’articolo e l’interessamento dell’architetto

Scarpa non mi sembrano semplici coincidenze. Tra le interessanti

argomentazioni pubblicate82

vi è la descrizione del giardino: “la

passione per il Giardino Inglese, che un tempo imperversava in Italia

come una pestilenza, distruggendo molto di ciò che di prezioso già

esisteva e lasciando al suo posto solo in piccola misura ciò che vi era

di buono nello stile inglese, conquistò anche i proprietari di villa

Velluti. Di conseguenza vi è un bosco con un piccolo ruscello, un'isola

artificiale con, ovviamente, una collinetta che dimostra artificialità

altrettanto evidente, poi ponti rustici e tutti gli altri piccoli inganni di

cui i Capability Brown83

italiani di quegli anni facevano ricorso”.

Credo si possa affermare con certa sicurezza che si debba al sopranista

la sistemazione del giardino in stile romantico, su modello di quelli

inglesi che ebbe modo di apprezzare di persona in Inghilterra. Di

se ne occupano, in primis la Fondazione MAXXI di Roma, non sono riusciti

a rintracciare la documentazione, quindi non sono stato in grado di

quantificare la portata del suo operato. Nel registro si riporta che: “Su incarico

del veneziano Gioacchino Velluti, Scarpa si dedica alla progettazione in

autonomia, realizzando per il committente un annesso (ottanta metri

quadrati) alla settecentesca villa Velluti, a Sambruson di Dolo (Venezia),

lungo la riviera del Brenta. Per lo stesso Velluti egli realizzerà

successivamente una sopraelevazione del suo palazzo veneziano situato alle

Zattere (Calle dello squero)”. L’amicizia tra Carlo Scarpa e la famiglia

Velluti è stata comunque confermata anche da Federico Velluti, nipote di

Gioacchino. 82 “Villas of the Veneto. The Villa Velluti, at Mira Vecchia, canale di Brenta”

di Harold Donaldson Eberlein e Robert B. C. M. Carrere” contenuto in “THE

ARCHITECTURAL FORUM”, vol. 37, Billboard Publications, gennaio

1922. Traduzione dall’inglese a cura dello scrivente. 83 Lancelot Brown detto Capability Brown (1716 –1783) è stato un architetto

inglese, noto soprattutto per il suo peculiare stile architettonico dei giardini e

dei parchi che venne definito “all'inglese”, diffusosi poi anche nel resto

dell'Europa in reazione allo stile prima “italiano” e poi “francese” dominante

fino alla seconda metà del Settecento.

109

quanto elencato dai due architetti in giardino oggi non vi è quasi

traccia, ma un altro punto interessante riguarda i colori: “come ci si

aspetterebbe, la casa è costruita di mattoni e ricoperta di stucco. Ciò

suona abbastanza prosaico se ricordiamo quale diversità di colori gli

italiani impartiscono sulle superfici a stucco; in egual misura

pensando alle gradazioni di tonalità che si ritrovano nei tetti di

tegole: marrone, rosso, giallo, arancio e i verdi profondi dei muschi e

licheni. In questo caso lo stucco è un grigio rosato84

, i davanzali sono

di pietra bianca, e le persiane, cornici e figure sono di colore bianco”.

Così rispondendo, forse, ad un quesito ricorrente tra gli amanti di

questa villa che più volte hanno cercato un possibile colore originale.

Tra tutto però mi preme segnalare la parte conclusiva dell’articolo

dove i due autori affermano: “che la villa possieda un fascino

distintivo, è evidente a prima vista. Per determinare esattamente in

cosa consista l'essenza di questo fascino, tuttavia, il processo è più

sfuggente. L'insieme di tutto il gruppo di edifici contribuisce senza

dubbio in modo importante a determinarlo. Come contribuiscono

certamente il colore e gli altri elementi quali il tocco, molto

palladiano, dei frontoni sui lucernari posti ai due lati, caratterizzati

da finestre semicircolari di gusto romano, ma ciò che forse è più

importante di tutto è la composizione simmetrica e lineare del corpo

principale, con la sua disposizione gradevole di vuoti e pieni”. Analisi

intensa e condivisibile anche oggi, nonostante tutte le modifiche

apportate ai luoghi.

Dalle fotografie e dai disegni pubblicati possiamo notare che già era

presente, sotto il timpano della facciata principale, un orologio

meccanico (il quadrante è crollato in anni recenti a seguito di un

fortunale) che mediante due indici mobili, collegati a meccanismi

interni, segnava con notevole approssimazione le ore medie mentre

una soneria a maglio trasmetteva alle campane l’indicazione delle ore

84 In originale “pinkish gray” che, da una ricerca in rete, sembra corrispondere

ad un “color tortora”.

110

principali. Dal rilievo di alcuni particolari scopriamo che, su un fregio

posto sopra le campane, compaiono le iniziali di Luigi Velluti, il

nipote del sopranista. Fu lui, forse, a commissionarle per scandire il

lavoro degli operai della fornace.

Sulla facciata dell’oratorio oltre ai due angioletti, che qualcuno vuole

posti in onore della voce angelica del musico G.B. Velluti, ancora

esistenti, vi erano altre due testine andate perdute. Anche il

campaniletto a vela era totalmente diverso da quello attuale.

In generale, rispetto alla situazione attuale, spicca la modifica di tutto

il fronte del Naviglio (ad esclusione del corpo centrale della villa)

avvenuto quindi nel corso del ‘900.

111

112

Estratti dal reportage “Villas of the Veneto. The Villa Velluti, at Mira Vecchia,

canale di Brenta” di Harold Donaldson Eberlein e Robert B. C. M. Carrere”

contenuto in “THE ARCHITECTURAL FORUM”, vol. 37, Billboard

Publications, gennaio 1922.

A colori una foto odierna, per un diretto confronto con il rilievo proposto

nell’articolo.

113

Gioacchino, rimasto orfano da ragazzino, accolto sotto l’ala protettiva

della sorella maggiore Lucia ed accudito da un tutore fino alla

maggiore età, acquisì un titolo di studio in agraria e si interessò alle

moderne tecniche di agricoltura85

. È interessante la sua figura per

quanto riguarda le vicende della fornace. Nel 1927, in una rivista con

lo scopo di divulgare tecniche di debellamento della piaga della

malaria86

, leggiamo: “Sembrerebbe futile occuparmi di questo

argomento, oltre i limiti imposti dai doveri di ufficio, se non avessi

acquistata la convinzione che accanto al danno vi può essere il

rimedio, avendo recentemente potuto studiare la razionale

trasformazione agraria eseguita nelle cave di prestito annesse alla

fornace di laterizi di proprietà del cav.87

Gioacchino Velluti, in

territorio di Mira. Da una ininterrotta serie di acquitrini e

pozzanghere residuati all'escavo di argilla protratto per molti anni e

per uno spazio di parecchi ettari, il detto industriale ha ricavato una

fiorente campagna, che dà tutti i prodotti e permette anche la

coltivazione assai rimunerativa di ortaglie”. L’estrazione dell’argilla

provocava normalmente la creazione di bacini d’acqua che divenivano

facilmente, in quegli anni, luogo di proliferazione delle zanzare

malariche. La scelta di stoccare momentaneamente la terra fertile e

85 Tra le citazioni della sua attività nel campo agricolo segnalo il “Bollettino

del Laboratorio di zoologia agraria e bachicoltura del R. Istituto superiore

agrario di Milano”, Volume 3. Università di Milano, Istituto di entomologia

agraria, 1930. L’autore di un articolo sulla coltivazione dei bachi da seta

afferma: “Era mio intendimento di compiere degli esperimenti su vasta scala

presso l'azienda del Cav. Velluti di Dolo (Venezia) che gentilmente ci aveva

offerto l'ospitalità. Ma per un incidente indipendente dalla nostra volontà si

dovette rinunciare all'impresa”. La partita di bachi, proveniente dalla Marche,

risultò ammalorata. 86 Rivista di malariologia. Volume 6 del 1927. Pagg. 437 - 439. 87 Gioacchino risulta essere stato nominato Ufficiale dell’Ordine della Corona

d’Italia nel gennaio del 1932 (Gazzetta Uff. del Regno d'Italia del 6 aprile

1932) e commendatore nel 1942 (Gazzetta uff. del 15 ottobre 1942).

114

ripristinare, una volta esaurita l’estrazione dell’argilla, la campagna

per la normale coltivazione agricola fu un’idea moderna e vincente.

Sempre all’estrazione dell’argilla si deve il rinvenimento di materiale

archeologico sulle proprietà Velluti. Proprio Gioacchino aiutò a

salvarne una parte prestando anche i locali per la costruzione del

primo museo88

. Tra i ricordi tramandati “in famiglia” risulta che i

funzionari della Valdadige ordinarono agli operai di frantumare le

tombe alla cappuccina e di disperdere i ritrovamenti che affioravano

nei campi, prima che la moglie di Gioacchino, Emilia, nata in Baviera

e dotata di un buon bagaglio culturale, se ne accorgesse e fermasse lo

scempio. Sempre a lei si deve una particolare attenzione nel

preservare ciò che restava dei documenti del cantante ed il recupero di

materiali archeologici (armi e ceramiche cinquecentesche) salvati in

extremis durante un dragaggio nel greto del canale davanti alla villa89

.

Dopo la morte di Gioacchino la proprietà della villa passò ai figli90

.

88 Circa la storia dei ritrovamenti, piuttosto importanti, si veda: “Ad

duodecimum Mansio Maio Meduaco. Sambruson in epoca preromana e

romana” di Monica Zampieri, Associazione culturale Sambruson la nostra

storia, 2009. 89 Informazioni fornite da Federico Velluti, nipote di Gioacchino. 90 Luigi Velluti fu nominato coerede assieme alle tre sorelle. La nuda

proprietà dell’immobile e dei terreni passò in seguito a Gioconda detta “Dina”

che la riscattò tramite permuta ed acquisto. Quest’ultima, rimasta nubile,

nominò a sua volta eredi due nipoti, i figli del fratello Luigi. Dina è ricordata

con affetto in Riviera per l’apertura della villa ad eventi musicali. Al riguardo

è interessante il ricordo di Egida Sartori: “feci amicizia con le famiglie Tito e

Velluti, che abitavano in due antiche ville venete. Con i fratelli Velluti si

stabilì un simpatico scambio, amanti come sono e come furono sempre per

tradizione di ogni forma d'arte e della musica in particolare. Io suonavo in

cambio di generi alimentari. Bach, Beethoven, Franck erano scambiati con

uova fresche! Chi avrebbe pensato, allora, che dopo molti anni sarei stata

chiamata da Dina a inaugurare nella sua villa i “Concerti degli Amici della

Musica del Brenta”. Da “Cronaca di una favola chiamata musica: biografia

115

Il maggiore, Luigi, nato nel pieno della fiorente stagione di Ettore

Tito, intraprese l’attività artistica91

come anche la sorella Gioconda. In

particolare egli cercò una propria strada nel mondo dell’arte come

scultore, ottenendo anche qualche risultato di rilevo92

, ma dopo gli

eventi bellici dovette abbandonare le velleità artistiche.

Nell’ordine: “Ritratto di Lucia Velluti”, scultura in bronzo di Francesco

Messina del 1943; “Bambolotto Tonino” punta di diamante della ditta Furga

del 1955 realizzato da Gioconda “Dina” Velluti; scultura di cavallo in gesso

realizzato da Luigi “Gigetto” Velluti negli anni ’40, probabile studio per la

realizzazione di un bronzo (collezione privata).

artistica di Egida Sartori (1910-1999)” di Elena Pessot. Leo S. Olschki,

2005. Pagina 58. 91 Alcuni lavori di Luigi e Gioconda sono catalogati in “Cent'anni di

collettive: Fondazione Bevilacqua La Masa, 1899-1999”. Cicero, 1999. 92 Nel 1935 vinse un premio per la miglior scultura “Op. Bevilacqua la Masa”

e nel 1936 ottenne un buon piazzamento alle Olimpiadi di Berlino, nelle

competizioni artistiche, per la scultura “Pugile abbattuto”. Altri

riconoscimenti furono ottenuti intorno agli anni ’40, annoverando

partecipazioni alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. In

particolare furono apprezzate una certa personalità nella tecnica di lavorazione

ed alcune sue ricerche sulle argille.

116

Mi preme segnalare come entrambi siano stati molto attivi nella

resistenza veneziana durante l’epilogo della Seconda Guerra

Mondiale. In particolare lo studio veneziano di “Gigetto”, come

veniva chiamato Luigi, era una delle basi principali dei partigiani

operanti nel centro storico, e sappiamo che teneva i contatti con il

CLN e che organizzò l’evasione di alcuni prigionieri dalla caserma

della Guardia Nazionale Repubblicana di San Zaccaria: “Fu

organizzata una spedizione da Gigetto Velluti, un tipo allampanato e

occhialuto, dall'aria non mentita di studioso, che tante ne pensò, tante

ne fece, ma che noi ricordiamo soprattutto per un suo fantastico volo

attraverso la tromba delle scale che lasciò incretiniti i militi neri

andati ad arrestarlo nella sua casa”93

. Scoperto, riuscì

fortunosamente a scappare in montagna, in Valpolicella, ritornando

saltuariamente a Venezia e a Dolo, dove poté osservare la sua villa e

la fabbrica requisita dai tedeschi94

. Alcuni aneddoti95

vedono in prima

linea anche Gioconda, detta “Dina”, che studiò all’Accademia e che in

quella sede nascose delle armi usate dai partigiani anche per un’azione

93 Molte di queste vicissitudini sono narrate in “Vent'anni di resistenza al

fascismo” di A. Gavagnin. Einaudi, 1957. Autore attendibilissimo, Armando

Gavagnin (1901–1978) è stato direttore de “Il Gazzettino” e sindaco di

Venezia. Nel testo ampio spazio è dedicato anche a Mario e Luigi Tito, figli di

Ettore, anch’essi molto attivi tra i partigiani. Il secondo approfondì tali

esperienze, spesso drammatiche, anche nella propria ricerca artistica (“Luigi

Tito. Gli anni della resistenza” a cura di Mario De Michieli. Grafiche Turato,

Padova 1997). Alcuni aneddoti su Gigetto Velluti sono ripresi con maggiori

dettagli in “Giustizia e libertà e Partito d'azione a Venezia e dintorni” di

Renzo Biondo, Marco Borghi. Nuova dimensione, 2005. 94 Fatti ricordati da Alberto Ongaro, noto giornalista, scrittore e fumettista, in

un intervista contenuta in “Memoria resistente: la lotta partigiana a Venezia e

provincia nel ricordo dei protagonisti” a cura di Giulia Albanese, Marco

Borghi. Nuova dimensione, 2005. 95 “Volontarie della libertà” di Mirella Alloisio e Giuliana Gadola Beltrami.

Lampi di stampa, 2003. Pagg. 153-154.

117

dimostrativa al Teatro Goldoni. Dopo la guerra fu lei, inoltre, ad avere

un breve ma interessante successo. Infatti, a metà degli anni ’50

realizzò il modello del bambolotto Tonino96

, punta di diamante della

celeberrima ditta Furga e uno dei simboli del “boom economico”.

I fratelli Velluti frequentavano e facevano pienamente parte di quel

vivace gruppo di artisti veneti di allora che si bilanciava tra gli ultimi

sprazzi di una cultura eclettica, o per meglio dire accademica e l’inizio

del modernismo. Tra gli amici di Gigetto e Dina in quegli anni

troviamo anche Francesco Messina (1900-1995) noto scultore che,

come ricorda egli stesso97

, fu ospitato a Sambruson, e che nel 1943

realizzò un busto di Lucia, sorella minore di Luigi e Gioconda, che

aveva allora 25 anni. Luigi, invece, possedeva una scultura donata da

Arturo Martini, suo amico e per un certo tempo affittuale della loro

casa veneziana98

.

96 “Furga: le più belle bambole del mondo” di Elisabetta Sgualdini. Turris,

2000. 97 “Poveri giorni: Frammenti autobiografici, incontri e ricordi” di Francesco

Messina. Rusconi, 1974. Messina racconta: “Da un lato era il canale e la

strada provinciale per Venezia, schermata da pioppi, e dall'altro la piatta

campagna in fondo a cui si innalzava la mole della chiesa di San Bruson, con

il campanile svettante sulla pianura come un missile in procinto di partire.

Paesaggio delicatissimo, fiorito di intatta grazia veneta nelle stagioni

intermedie, soffocato dalla calura in estate, desolato in inverno. La guerra vi

appariva remota quando arrivammo, e per più di un anno non ci pesò troppo.

[…] Ma arrivammo al 1944 e l'agonia della guerra, con i bombardamenti e

mitragliamenti indiscriminati e la lotta civile, divenne la nostra agonia

quotidiana. La morte ci dormiva accanto, la notte. La mia era la sola

automobile privata che circolasse nella zona e sovente mi veniva richiesta per

il trasporto di ammalati. Poi, quando alcuni paesi vicini furono distrutti da

bombardamenti a tappeto, si rese necessaria per il trasporto dei feriti e degli

estratti dalle macerie. […] Verso la fine dell'anno l'automobile mi fu requisita

dal comando dell'Organizzazione Todt”. 98 Lo studio di Arturo Martini a Venezia si trovava nella casa di proprietà

Velluti, in calle dello Squero, nei pressi della punta della Dogana. Vi si era

118

Nel concludere la narrazione delle vicende di villa Velluti mi avvarrò

del racconto estremamente dettagliato dei lavori di restauro iniziati da

Federico Velluti, erede diretto di “Gigetto”, che lui stesso mi ha

gentilmente inviato99

. Federico, da sempre impegnato nella tutela dei

beni artistici, è diplomato all’Istituto Centrale per il Restauro di Roma

e guida una delle più note équipe di restauro del Veneto, ottenendo

prestigiosi incarichi di livello nazionale ed internazionale. Si

innamorò già negli anni ‘70 del bellunese dove è andato a risiedere e

da trent’anni cura il restauro del Castello di Lusa, acquisito con

l’intento di garantirne il recupero e la fruizione pubblica. Ha donato il

materiale in suo possesso, riguardante il musico G.B. Velluti, alla

biblioteca di Belluno che ne cura oggi il patrimonio documentale. I

suoi resoconti si sono rivelati molto importanti per il connubio tra la

familiarità con i luoghi in cui ha abitato e la grande competenza

nell’arte del restauro, ma spesso narrano di un allontanamento

tenacemente cercato da una Riviera del Brenta che egli ha visto

sfiorire, travolta da una bulimia di cemento100

, caratterizzata

dall’incuria se non dal ripudio di un paesaggio che era tra i più belli

trasferito dal novembre 1942 per svolgere l'attività didattica presso

l’Accademia. Luigi Velluti ebbe modo di assistere alle sue lezioni – per

quanto la guerra glielo permettesse – e con lui ebbe un interessante scambio

epistolare. L’ultima lettera di Martini a Velluti è datata 18 febbraio 1947.

Morirà a Milano appena un mese dopo. 99 Userò qui alcune tracce della vivace corrispondenza avuta con Federico

Velluti, che ringrazio infinitamente per lo sforzo, anche doloroso, dei ricordi

condivisi. 100 L’idea che la bulimia cementizia non si sia mai interrotta è facilmente

dimostrabile pensando alle grandi speculazioni passate ed in corso in quello

che viene chiamato il “Bilanciere Veneto” tra Padova e Venezia. E come non

fare riferimento al progetto della Romea Commerciale “Orte-Mestre” il cui

tragitto prevede proprio di passare sulle aree archeologiche di Sambruson e

vicino alle ville Velluti, Tito e Badoer, in uno dei pochi varchi rimasti liberi.

Una follia che, vivamente, mi auguro rimanga solo sulla carta.

119

d’Europa. Venendo alla struttura architettonica della villa, questa è

composta da un corpo centrale settecentesco distribuito su tre piani,

dei quali l’ultimo è ammezzato, più il corpo centrale dell’abbaino

sopraelevato e coronato da un frontone timpanato. È scandito da sette

assi, il cui centrale è anche asse di simmetria, e su questo si addensano

gli elementi architettonici più significativi come, al piano nobile, il

portale ad arco a tutto sesto in pietra che si apre su di un balconcino in

ferro battuto, e l’orologio meccanico che si trovava posto al livello

dell’abbaino. A richiamare il tema musicale vi sono sulla sommità del

frontone due statue che riproducono dei musici e un fastigio in ferro

con campane.

Questa parte centrale ingloba, con buona probabilità, alcune parti del

nucleo più antico risalente forse al XVII secolo. Lo testimonia il

contorno lapideo della porta che dà accesso al salone centrale nel

fronte verso il giardino. La cornice della porta, coronata da un

timpano, è composta da elementi di pietra di Nanto, materiale che non

appare frequentemente negli edifici settecenteschi della Riviera del

Brenta. Anche il sovrastante poggiolo in ferro battuto, formato da un

intreccio di motivi lobati, mostra caratteri stilistici che non

appartengono alle tipologie settecentesche. Le finestre centrali ad arco

leggermente ribassato sono state rimesse in luce durante un’indagine

condotta dallo stesso Federico ed il fratello, nel tentativo di

ripristinare la fisonomia originaria dell’edificio.

L’interno della casa era tutto controsoffittato con intonaco su arelle,

intervento ascrivibile al rinnovamento del primo Ottocento fatto

eseguire dal cantante Velluti. Tali strutture, particolarmente fatiscenti

e prive di pregio, sono state molto lesionate. I danni più consistenti si

sono verificati a causa della burocrazia, quando la sospensione

dell’erogazione di un contributo per il restauro del tetto da parte

dell’Ente Ville Venete ha fatto sì che la risistemazione della copertura

rimanesse incompleta per lungo tempo. Benché fossero stati

approntati dei ripari di emergenza, un fortunale ha strappato i teloni

protettivi riversando molta pioggia negli ambienti interni, con

120

conseguenze rovinose per le strutture e per gli arredi. Dopo tale

evento, parte delle controsoffittature sono crollate mettendo in luce le

antiche travature a vista, scialbate a calce ma prive di decorazioni. Gli

intonaci delle pareti, rifatti anch’essi nell’Ottocento, ricoprivano i resti

di una semplice malta scialbata a calce, priva di qualsiasi decorazione.

Il salone del piano terra era l’unico che conservava l’originario

apparato decorativo settecentesco costituito da una serie di tele con

figurazioni mitologiche ascrivibili all’ambito del pittore Francesco

Zugno (1709-1787). Ai margini delle tele, resecati e ridipinti,

apparivano i resti dell’incorniciatura a volute monocrome che

simulavano dei contorni a rilievo in stucco lasciando intuire che il

ciclo, in origine, possedeva una sua particolare impaginatura

architettonica. Il nucleo dei dipinti è stato, purtroppo, smembrato

durante la divisione ereditaria e non è più presente nella villa. La serie

era costituita da cinque quadri di forma rettangolare allungata. La

commissione di questo ciclo decorativo che ornava il salone del piano

terra e la pala della chiesetta (parzialmente bruciata in un incendio e

della quale si conserva solo la parte centrale) sarebbe da attribuire a un

ramo degli Avogadro. A tale proposito Federico rinvenne una

“ducale” settecentesca, a stampa della Repubblica Veneta, dove la

famiglia è menzionata. Il foglio, appallottolato, era stato infilato in un

anfratto della travatura di una stanza e fu trovata durante la pulitura da

incrostazioni di calce.

Tutti gli arredi interni, sedimentati nel corso di due secoli, erano stati

ulteriormente arricchiti dagli acquisti di Gioacchino Velluti e

costituivano un interessantissimo assieme di dipinti, mobili e

suppellettili varie che spaziavano dal XVII secolo al tardo periodo

impero. Buona parte di questo patrimonio, che assommava anche i

ricordi del cantante Velluti: stampe, acquerelli, ritratti, costumi di

scena, è stato smembrato e disperso malgrado la richiesta di vincolo

presso la Soprintendenza ai Beni Storico Artistici del Veneto per

alcuni nuclei più significativi, legati storicamente alla casa.

121

Alcuni scatti degli esterni ed interni della villa, fatti nel 2006, in occasione del

documentario ideato e promosso da ARTEsetTIMA, per la regia di Angelucci

Cominazzini Massimo. Per gentile concessione dello studioso Pietro Molini,

autore degli scatti, che ringrazio sentitamente anche per l’aiuto nella

ricostruzione dell’albero genealogico del musico.

mauro
Oval

122

Particolarmente interessante è la cucina col camino alla valesana

circondato da alti seggioloni. Durante i lavori di ripristino di questo

ambiente è riemersa la vecchia travatura a vista con decorazioni

seicentesche a tempera, parzialmente reintegrate, che mostrano

evidenti tracce di un rimpiego di materiale proveniente dall’edificio

preesistente. Analoghe travature dipinte sono state reimpiegate in un

ambiente della barchessa. La struttura architettonica di quest’ala,

ritmata delle finestre ovali scolpite in pietra d’Istria e ornate da

mascheroni di gusto longhenesco, fanno parte del nucleo seicentesco

sopravvissuto alle varie manomissioni.

Il corpo che collega la barchessa all’edificio centrale è stato

malamente alterato nei primi anni del XX secolo eliminando parte

delle aperture ovali e degli spioventi del tetto che davano continuità

alla struttura. Alcuni degli ovali sono stati inseriti nell’ala destra del

corpo centrale, frutto di una ricostruzione tarda. Anche la chiesetta

settecentesca ha subito un rimaneggiamento interno in epoca

neoclassica e presenta pareti affrescate in finto marmo ed una statua

incastonata nella nicchia dell’altare raffigurante Cristo flagellato alla

colonna.

Il giardino, pressoché inesistente nelle fotografie del primo novecento,

è stato ridisegnato da Gioacchino e dai suoi figli recuperando nel

mercato antiquario, prima che venissero esportate in America, le

statue seicentesche, in pietra di Costozza, che coronavano in origine i

muri di cinta della villa Fabbris di Camponogara rappresentanti i 12

mesi dell’anno. Federico per un periodo pose anche delle statue sul

fronte del Naviglio, davanti alla villa, come si vede in molte foto

pubblicate tra gli anni ’80 e ‘90, ma successivamente, per salvarle da

atti vandalici e furti, sono state poste nel giardino. Le uniche statue

settecentesche originali erano poste sui pilastri del cancello volto

verso la campagna, le quali stilisticamente si apparentano con quelle

di villa Widmann Foscari di Mira Taglio.

La facciata del corpo centrale rivolta verso il giardino conservava il

vecchio intonaco a marmorino profilato dai relativi marcapiani a

123

bugnato che in seguito furono occultati da un discutibile spatolato

sintetico di colore violaceo. Il busto marmoreo seicentesco che

campeggia sotto il timpano è un elemento ornamentale di recupero e

non corrisponde all’effige del cantante, come molti pensano. Un pregevolissimo elemento di fontana, scolpito con una teoria di

cherubini di gusto lombardesco, proviene da un edificio rustico che

sorge non lontano dalla villa, lungo la riva della Seriola. Con buona

probabilità il frammento lapideo, inglobato nella fontana novecentesca

posta al centro del giardino ed anch’essa recentemente danneggiata

dalla caduta di un monumentale albero, era originariamente inserito

nella sagrestia di una chiesa legata ad un complesso conventuale

soppresso.

Ville Velluti e Tito. Ripresa aerea dell’autore e di Maurizio Ruzzon (2014).

124

Questa la sua architettura e questa la sua storia. Eppure solo in parte

riusciamo a svelare questo luogo. Villa Velluti ha una sua memoria

segreta, un’aura inafferrabile emanata dalle sue mura e dal suo

giardino, che non potrà mai essere rivelata in un saggio di carattere

storico e che rimarrà sepolta tra le sue pietre e nei confini del

romantico fondale arboreo, nel suo silenzio, interrotto solo dal ritmo

incessante del picchio rosso che vi ha preso dimora. È uno di quei

luoghi che attraggono l’ignaro viandante attraverso un codice

misterioso che chiede di essere decifrato. Io ne sono stato l’ennesima

vittima e non sarò l’ultima.

Le pietre, gli infissi, gli arredi, tutto è impregnato della storia dei suoi

abitanti: dei sogni dei Baffo e dei Vezzi, della incredibile carriera e

degli aneddoti sul buen retiro dell’illustre cantante Velluti,

dell’imprenditorialità del nipote e della freschezza dei suoi eredi che

giovò all’arte pittorica di Ettore Tito e, persino, degli echi della

resistenza partigiana veneziana. Non tutti i luoghi sono così fortunati.

È come un romanzo scritto e riscritto, dove alle cancellature si

susseguono le aggiunte di note a margine, postille e nuovi capitoli. Ne

emerge così un capolavoro letterario composto in più stili: romantico,

accademico e modernista. Ma l’essenza del fascino, che sfuggiva per

loro stessa ammissione agli studiosi anglofoni degli anni ‘20, non è

formale, è in realtà sentimentale. È una percezione di varie suggestioni

velate di mestizia, della tristezza che traspare dall'aspetto un po’ cupo

e rassegnato, da un’aura decadente marchiata da tutti i crepuscoli che

la villa rappresenta: non ultimo quello della Riviera del Brenta stessa.

Le pietre, chissà come, riescono a trasmettere queste sensazioni, forse

le stesse che infondevano il bel canto del sopranista Velluti e che

turbano l’animo con quella che mi piace definire “l’amarezza delle

cose belle”.