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Annali d’italianistica 32 (2014). From Otium & Occupatio to Work & Labor in Italian Culture
Lorenzo Sacchini
Dalla solitudine della villa alla conversazione della città.
Itinerari dell’ozio in una triade di lezioni accademiche
secentesche di Cesare Crispolti
1. Breve storia dell’ozio dall’Antichità al Seicento
Gli odierni e gli antichi dizionari della lingua italiana registrano alla voce “ozio”
una serie di svariate sfumature semantiche. Un esempio paradigmatico è offerto
dal Grande dizionario della lingua italiana che ne riporta ben undici (XII, 306-
07). La sovrapposizione nel tempo di diverse accezioni testimonia la difficoltà di
formulare una definizione univoca del detto termine, la cui etimologia è ancora
incerta. 1 In generale prevale oggi il significato negativo (ozio quale
manifestazione d’indolenza o svogliatezza) che contrasta il più positivo ed
antico concetto di ozio quale momento riservato alla riflessione, alla
meditazione, o all’apprendimento delle lettere. Tra i due valori semanticamente
contrari, l’ozio assume di nuovo una sfumatura moderatamente positiva quando
è inteso come periodo di quiete o d’interruzione dalle consuete fatiche. La
convivenza di significati diametralmente opposti nella medesima parola ha
consentito una certa libertà nell’uso della stessa e ne ha determinato la fortuna
lungo i secoli.
L’evidente ambiguità non è certo nuova e risale, di fatto, al termine latino
otium, che Traina ha giustamente definito vox media (“Introduzione” 20). Di là
dalle note concezioni personali messe a punto, per esempio, da Catullo,
Cicerone, Orazio e Seneca, l’otium latino è inteso in primo luogo come il tempo
libero (talvolta forzosamente libero)2 dalle occupazioni pubbliche. Può essere
pertanto un momento di pace e di quiete, dedicato magari alle occupazioni
intellettuali, agli studi. Lo stesso otium, però, può essere talvolta sprecato
nell’inattività, nell’inoperosità e dunque confondersi con esse.3
Ad inizio Seicento il Vocabolario degli Accademici della Crusca registra
prontamente il valore negativo che il termine ha ormai assunto. L’ozio è definito
1 Riassume la questione Dosi 10-14. 2 Come lamenta Cicerone, confrontando il suo otium con quello di Scipione l’Africano:
De off. III 1-4. 3 Si rimanda di nuovo ai contributi di Dosi e Marchetti.
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il “cessar dall’operazioni” che “per lo più racchiude in sé non so che di pigrizia
e di riposo vizioso.”4 Non a caso le ulteriori occorrenze di “ozio”, disseminate
qua e là negli esempi che seguono i lemmi del Vocabolario, sono accostate al
peccato capitale della “lussuria” o, in alternativa, alle voci che indicano
decadimento fisico o morale (“immortire”, “inmarcire”, “lascivia”,
“poltroneggiare”, “soddomito”, “tedio”). Il Vocabolario considera dunque l’ozio
alla stregua di un vizio, che l’uomo talvolta colpevolmente ricerca. Tale
equiparazione non risale certo unicamente al vocabolario degli accademici
toscani, ma appartiene già alla sapienza popolare. L’ozio è infatti definito “il
padre del vizio” nel primo della serie dei brillanti proverbi che Orlando Pescetti
menziona nella sua raccolta alla voce ozio (175r).
Si registrano copiosi, tra XVI e XVII secolo, gli avvertimenti a rifuggire
dall’ozio. 5 Il napoletano Tommaso Costo intitola emblematicamente “Il
fuggilozio” la sua raccolta che comprende le novelle, i motti e le facezie
raccontati da un gruppo di amici per alleviare l’“oziosa malinconia” (25) del
priore Ravaschiero. Nelle pagine iniziali l’autore avverte il lettore di evitare
l’ozio con mezzi consoni ed aggiunge che proprio a questo fine gli può venire in
aiuto la lettura della sua raccolta:
Quanto è manifesto a ciascuno il dannosissim’ozio doversi fuggire con mezi però che
onesti e non punto biasimevoli sieno, tanto mi rendo io sicuro che la fatica alla quale mi
son messo debba essere a chiunque vorrà vederla non poco grata e che in esso quello
effetto a fare abbia, che da piacevole et esemplar lezzione si può sperare.
(1)
Il rimedio escogitato per mitigare sia la sofferenza di Ravaschiero, affetto dalla
gotta, sia l’ozio dell’immaginario lettore, è dunque l’intrattenimento letterario:
4 Così inteso, il termine verrebbe a essere sinonimo di “oziosità”, che, a sua volta, vale
“accidia” (Vocabolario 124). Qui e nelle seguenti citazioni, la trascrizione dai testi
antichi è stata improntata a criteri moderatamente conservativi. I pochi interventi sono
così riassumibili: distinzione di u da v; resa del nesso ij con ii; sostituzione della nota
tironiana & e della et con e o ed davanti a vocale; scioglimento delle abbreviazioni;
riduzione delle maiuscole; adattamento all’uso moderno degli accenti, apostrofi e della
punteggiatura. Sono stati invece conservati l’h etimologica e il nesso -ti davanti a vocale.
Sono stati mantenuti gli altri usi grafici presenti nei testi, quali separazioni ed elisioni
oggi in disuso, anche ove non omogenei. Nella trascrizione dei manoscritti compaiono
talvolta minime osservazioni filologiche tra parentesi quadre. Queste riguardano la parola
o le parole che la precedono: nel caso, per esempio, della notazione [che…aurea in
sopralinea], si intende che tutta l’espressione in essa contenuta, cioè “che dissero l’età
aurea”, è collocata nel testo in sopralinea. 5 La concezione dell’ozio nel Rinascimento è oggetto delle riflessioni di Beer; Nuovo; e
Vickers. Risulta di grande interesse l’intervento di Fragnito sul caso di Ludovico
Beccadelli.
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una pratica che unisce compiutamente le dimensioni dell’utile e del dulci. È
mossa da punte di risentimento altrettanto profondo una poco nota orazione In
biasimo dell’otio che Alberto Lollio scrive agli Accademici Occulti negli
anni ’60 del Cinquecento. L’ozio è il grande avversario, è l’“horrendo, crudele e
pestilentioso mostro […], nimico della virtù” (2r), che gli accademici bresciani
devono impegnarsi a combattere. Sulla scorta degli esempi classici, Lollio li
esorta a non disperdere il proprio tempo nell’inerzia e a dedicarsi invece alla
virtù e alla sapienza. Il letterato ferrarese raccomanda agli Occulti di godere
solamente di quella dolce “fatica” (parola che ricorre spessissimo nel testo) che
viene dall’aver portato a maturazione le sementi date da Dio. Soltanto
l’applicazione, lo studio, la pratica e il continuo esercizio — sostiene Lollio —
allontanano l’ozio e consentono il conseguimento di “opere virtuose” (2v).
Ancora: nell’orazione di Cesare Rao Contro gli otiosi, l’autore senza mezzi
termini definisce l’ozio una “pestilentissima fera”, un “abominevolissimo
mostro” (89r); Silvio Antoniano, noto per essere stato uno degli eruditi cui
Tasso sottopose la Gerusalemme liberata, considera l’ozio “uno de i maggiori
inimici de i giovani”, maestro del peccato, agente scatenante di “appetiti”
sensuali (163r). In un suo Discorso del 1591 il letterato udinese Niccolò
Strasolini opera una precisa distinzione tra la virtù e l’ozio, considerati tra di essi
non solo incompatibili ma antitetici. Di qui, Strasolini compone una vera e
propria invettiva contro gli oziosi, rei di perdere “tempo in vanissimi discorsi” e
di intrattenersi in “cose minime […] come se fossero di gravissima importanza”
(B3r). Dimostrando particolare attenzione a cogliere le eventuali ricadute
pratiche dell’ozio, il letterato friulano non manca però di precisare che gli
“honesti e leciti trattenimenti” sono invece concessi all’uomo impegnato nei
negozi “per raddolcire talvolta le travagliate passioni dell’animo humano” (B4v).
I momenti d’ozio non sono del tutto liberi, ma devono anch’essi sottostare al
rispetto di due precetti etici del classicismo cinquecentesco: la moderazione (per
cui questa attività ricreativa non deve esser così lunga da venire a “noia”) e la
convenienza (per cui il “trattenimento” è ammesso perché “honesto” C2v).
2. Cesare Crispolti, gli Insensati e le lezioni sull’ozio
A differenza della maggioranza dei testi finora citati, le tre lezioni inedite del
perugino Cesare Crispolti, che sono oggetto del presente intervento, si
propongono di dichiarare sia il valore positivo sia il valore negativo dell’ozio,
dilatando fino all’estremo l’ambivalenza del termine in esame. Prima di
discutere il contenuto delle stesse, mi limito a offrire una breve biografia del
loro autore, ancora non molto noto agli studiosi.6
Membro di una famiglia di antica nobiltà, Cesare Crispolti nasce nella città
6 Sulla vita di Crispolti si vedano almeno Belloni; Patrizi 25-39; Teza, “Cesare Crispolti”
11-25; Vermiglioli, I 360-361; e Volpi.
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umbra nel 1563. Entrato in seminario a 14 anni, Crispolti ha occasione di
frequentare le lezioni del celebre latinista Marco Antonio Bonciari, con cui sarà
in stretto contatto anche dopo gli anni della prima formazione. 7 Conclusa
l’esperienza seminaristica, Crispolti è ordinato sacerdote nel 1588, dopo esser
già divenuto, nel 1586, canonico della cattedrale di san Lorenzo. Accanto alla
carriera religiosa, Crispolti si dedica allo studio del diritto addottorandosi in
utroque iure nel 1591 ed entrando a fare parte, l’anno successivo, del collegio
dei giuristi della città di Perugia. Sempre refrattario alle lusinghiere richieste dei
“primi porporati della corte”, che, “invaghiti delle sue virtù”, con insistenza lo
chiamano a Roma, Crispolti trascorre la sua esistenza interamente a Perugia,
dove diviene il principale organizzatore della vita culturale perugina (Agostini,
citato in Patrizi 31). In casa sua non solo accoglie una collezione tutt’altro che
trascurabile di opere d’arte,8 ma ospita anche le riunioni delle due più influenti
accademie perugine del secondo Cinquecento, quella degli Unisoni e degli
Insensati. La partecipazione ai due sodalizi ha senz’altro avuto riscontri positivi
sulla sua eclettica attività di studioso che presenta una serie di opere piuttosto
distanti tra loro per i temi affrontati. Pur avendo dato alle stampe soltanto un
trattato educativo, l’Idea dello scolare del 1604, Crispolti è autore di importanti
opere storiche, quali gli Annali delle guerre civili e Perugia Augusta, uscita
postuma nel 1648, e di una sorta di guida della città di Perugia, la Raccolta delle
cose segnalate (1597), edita nel 2001 da Laura Teza. Sono andate invece
perdute le sue raccolte di rime e di lettere.
L’Accademia degli Insensati, di cui diviene il leader dagli anni ’90 del
Cinquecento, gode di una certa notorietà a cavallo tra il XVI e il XVII secolo.9
Vi partecipano, per esempio, Paolo Mancini, fondatore a inizio Seicento
dell’Accademia degli Umoristi, Maffeo Barberini, futuro Urbano VIII, i
cardinali Bonifacio Bevilacqua, Carlo Conti, Silvio Savelli, i poeti Giovan
Battista Marino, Gaspare Murtola, Aurelio Orsi, oltre al citato Bonciari e ai
perugini Filippo Alberti, Leandro Bovarini, Giovan Battista Lauri, Fulvio
Mariottelli, e così via. Il significato dell’impresa dell’accademia è di grande
interesse per il tema che si viene trattando. L’emblema collettivo presenta uno
stormo di gru che reggono una pietra e volano sopra il mare. Fuor di metafora,
gli Insensati intendono dimostrare che loro, come le gru zavorrate dal peso dei
sensi (i sassi), riescono comunque a indirizzare i propri pensieri verso le cose
celesti, dimenticando le basse pulsioni terrene. Gli accademici si definiscono
7 Sul seminario perugino, si rimanda a Gabrijelcic. 8 Sulla collezione di Crispolti ha scritto, da ultimo, Teza, Caravaggio 7-13, cui si rimanda
per la bibliografia. 9 Sull’Accademia si vedano i contributi di Fanelli 7-8; Irace, “Accademie e cultura
ecclesiastica”; Irace, “Le accademie e la vita culturale”; Irace, “Le accademie letterarie”;
Maylender III 306-11; Sacchini, “Inediti dell’Accademia”; Sacchini, Verso le virtù; Teza,
Caravaggio 41-47; Valeriani 64-72.
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perciò Insensati perché liberi dai sensi e dati alla contemplazione.10 Nonostante
il tema dell’ozio appaia perfettamente contestualizzato nell’ambito di un
progetto accademico votato alla contemplazione, non risulta, secondo le
testimonianze note, che esso sia stato affrontato nei primi tre decenni di attività
del consesso.11 Dopo che la guida dell’accademia viene presa da Crispolti, le
esercitazioni collettive degli Insensati dimostrano un maggior interesse verso la
filosofia, che può esplicitarsi nella scelta di soggetti filosofici (con una certa
insistenza per i temi delle scienze naturali) o nel trattamento “filosofico” di
componimenti letterari. 12 Le lezioni composte dopo gli anni ’90 spaziano
dall’estetica (In lode della bellezza, In lode della bruttezza, De i nei) alla
disciplina comportamentale (Intorno al ben fare; In lode del tacere), dal
divertissement retorico (In lode della lode; In lode del biasimo) alla lettura di
componimenti di autori cinquecenteschi (Coppetta, Della Casa, Tasso). Buona
parte di questa produzione viene raccolta in tre codici manoscritti della
Biblioteca Augusta di Perugia (mss. 1058-1060) copiati quasi integralmente
dallo stesso Crispolti. Come emerge con evidenza sin dai titoli citati, spesso gli
accademici si divertono a porre in contrapposizione due argomenti contrari,
individuando ragioni a favore del primo e negandole poi a vantaggio del
secondo. Questo amore per la contrapposizione si rivela anche nel caso delle tre
lezioni prese in considerazione, che recano per titolo, rispettivamente, In lode
della villa e in biasmo della città, In lode della città e in biasimo della villa e
Discorso nel quale si risponde alle calunnie che si danno alla città.13 Grazie alle
indicazioni fornite nelle intestazioni dallo stesso Crispolti, è possibile datare i tre
discorsi agli ultimi mesi del 1600: il primo è recitato in accademia il 20
settembre, il secondo il 6 dicembre; mancano notizie precise intorno al terzo che,
comunque, è concepito assieme al secondo e pertanto verisimilmente letto nei
giorni o nelle settimane successive a quello.
Le tre lezioni di Crispolti inseriscono il tema dell’ozio (contrapposto a
occupatio) all’interno del più grande meccanismo di opposizione tra l’universo
10 Sull’impresa degli Insensati, si veda Sacchini, Verso le virtù 129-132. Utili notizie
intorno alla simbologia della stessa in Bisello 13; 39-44. 11 Dal 1561 fino ai primi anni ’90, infatti, gli interessi degli Insensati si rivolgono ad altre
questioni. Gli accademici si dedicano principalmente alla lettura di sonetti petrarcheschi
(soffermandosi sugli aspetti linguistico-retorici) o a descrivere le loro stesse imprese. In
alternativa, svolgono topiche celebrazioni della virtù quale sommo esito delle fatiche
letterarie del consesso (Sacchini, “Inediti dell’Accademia”; Sacchini, Verso le virtù 125-
66). 12 Come ha dimostrato Andreoni (29-44; 58-63), le lezioni accademiche del fiorentino
Benedetto Varchi avevano dato un contributo decisivo nella messa a punto di
quest’ultima impostazione metodologica. 13 La diversa grafia ‘biasmo’ e ‘biasimo’ dei titoli delle lezioni non è un errore di
trascrizione: le due varianti convivevano senza difficoltà nei testi degli accademici.
142 Lorenzo Sacchini
della campagna e della città. La dicotomia tra i due ambienti è un tema molto
fortunato che attraversa la letteratura italiana nei secoli, assumendo assai spesso
i contorni di un conflitto ideologico che muta secondo la preferenza dell’autore
per il primo o il secondo ambiente. La campagna da una parte è la sede
tradizionale del riposo, della quiete dalle preoccupazioni della città; dall’altra è
anche il luogo dove vive il contadino, il villano: l’uomo rozzo e incivile.
Ugualmente, la città non rappresenta solo il centro nevralgico dei negotia degli
uomini indaffarati, ma anche il luogo dell’urbanità, della cortesia, delle belle e
buone maniere.14 Nel secondo Cinquecento la letteratura che ha per oggetto la
villa conosce una straordinaria fioritura e mira in molti casi a estendere anche
alla campagna alcune delle nobili qualità della città. Tra le composizioni più
significative non si possono non annoverare la Lettera in laude della villa di
Alberto Lollio (1544); la Villa di Bartolomeo Taegio (1559); le Dieci giornate
dell’agricoltura e de’ piaceri della villa di Agostino Gallo (1564; diventeranno
Venti nel 1569); le Ville di Anton Francesco Doni (1566) e il Podere di Luigi
Tansillo, inedito sino al Settecento. Non sorprende certo che l’ozio trovi spazio
in particolare nella prima lezione di Crispolti, dedicata all’ambientazione
campestre. Crispolti, infatti, connota la villa quale luogo privilegiato per una vita
tranquilla, solitaria, scandita da ritmi lenti e generosi. La città invece rappresenta,
almeno inizialmente, il luogo della frenesia, dell’inganno, della truffa; ma subirà
una notevole evoluzione fino a divenire simbolo di valori del tutto positivi.
L’ozio — si vedrà — percorre invece l’itinerario opposto.
3. Il sereno ozio della villa nella lezione di Crispolti
L’esordio della lezione In lode della villa contiene la topica giustificazione per
la poca sapienza e abilità dell’autore, che si scusa per la nudità dello scritto
(primo indizio, in realtà, di una evidente ambizione letteraria). Tale forma di
excusatio è argutamente connessa al soggetto dell’orazione: la sua lingua sarà
nuda perché “la villa ama e gradisce una certa rozezza e semplicità ed aborrisce
ogni ornamento civile e pomposo” (Lode della villa 51v).15 Svolta la premessa,
Crispolti annuncia di voler comparare le abituali attività dell’abitatore della villa
e del cittadino. Questo dettagliato confronto, che segue le giornate dei due
personaggi dalle prime luci dell’alba sino al momento di coricarsi a letto, è
architettato al fine di rendere evidente la distanza (morale) che intercorre tra di
loro. Chi sta in città — scrive Crispolti — si desta al mattino con la mente già
colma di quei pensieri e preoccupazioni che non l’hanno fatto dormire durante la
notte. Al contrario, chi abita in villa e si contenta di un’“humile casetta” (di
14 Molto efficace in questo senso è la sintesi di Sberlati. 15 Sulla letteratura in villa nel Rinascimento, si vedano Ackerman 146-69; La letteratura
di villa e di villeggiatura e L’antico regime in villa. Per la concezione della villa si
rimanda alle monografie di Ackerman e Burns.
Dalla solitudine della villa alla conversazione della città 143
contro al “magnifico palazzo” del cittadino), si alza di buona ora dal letto,
rinfrancato dal breve e “ininterrotto” riposo. L’abitazione del cittadino è subito
inondata da molti “falsi” amici, che il padrone di casa si sente obbligato a
intrattenere. L’abitatore della villa vive, invece, in solitudine, lieto di poter
soddisfare più il suo “core” che l’altrui. Mentre il cittadino è costantemente
angustiato dalle rendite dei suoi “negotii”, l’abitatore della villa, non desideroso
di guadagni ma solo di serena quiete e del silenzio dei campi, “può attendere
senza ch’alcuno l’annoia e quanto lo aggrada a i suoi fruttuosi studii, essendo di
essi l’otio della villa amicissimo” (Lode della villa 53r). Di seguito Crispolti cita
pochi versi di una canzone di un altro Accademico Insensato, Filippo Massini, in
cui è lodato l’ozio “soave” (cioè letterario) dell’uomo “beato” che vive in villa
ed è biasimato invece l’ozio “neghittoso” di chi ama bighellonare: “Otio soave,
ove già mai non lice / vivere in otio neghittoso e vile, / otio che fa per
gl’innocenti Dio”. 16 Il confronto dialettico tra le giornate del cittadino e
dell’abitatore della villa prosegue con la descrizione del momento del pasto.
Durante il pranzo il primo si riempie lo stomaco senza misura di cibi raffinati e
succulenti, accompagnati con i migliori e più pregiati vini:
Venuta poi l’hora del pranzo, colui che habbita la città, si pone alla mensa carica di
diversi ed esquisiti cibi, non per acquetare il bisogno della natura, che di poche cose si
contenta, ma per satiare l’ingordigia sua, non accorgendosi l’infelice, che la moltitudine e
varietà de’ cibi, suole molte e varie infermità, quasi frutto della malvagità loro, recare a
coloro che gli godono. […] Né solo questi si contenta di cibi delicati, ma pone gran
studio in fare che la mensa sia fornita di vini pretiosi e forastieri.
(Lode della villa 54r-v)
L’abitatore della villa preferisce invece un pasto frugale, che Crispolti descrive
con toni entusiastici, quasi patetici:
O quanto è migliore la vita di colui che dimorando nella villa per suo vitto s’appaga di
cibi semplici e non comprati, ch’il suo horticello e la sua greggia dispensa alla sua parca
mensa! O come sono saporosi quei cibi, che le nuove herbette di lor propria volontà, fuori
della terra uscite, gli somministrano! O quanto gusto egli sente in spegner la sete molte
volte con l’acqua, presa con concava mano da qualche vivo fonte o da rivo corrente!
(Lode della villa 55r)
L’idea di porre a confronto i diversi momenti della giornata dell’abitatore della
villa e della città non è certo un’invenzione di Crispolti. Un identico paragone
16 La canzone di Massini, Beato quei, che da le cure edaci, si legge anche nelle sue Rime
del 1609 (87-91). Come sostiene Francesco Visdomini nello scritto prefatorio delle
medesime Rime, la canzone era stata in precedenza stampata per errore quale opera di
Francesco Panigarola (6v-8r).
144 Lorenzo Sacchini
caratterizza per intero il secondo capitolo del primo libro del De vita solitaria di
Petrarca, che è assai probabilmente il principale e non dichiarato modello che
agisce dietro le pagine della lezione dell’accademico perugino.17 Il raffronto tra i
due testi, che ora si rende obbligatorio, non porta però a rilevare ulteriori
significative somiglianze (pur in considerazione, naturalmente, della diversa
lingua dei due scritti). Al contrario, esso mostra piuttosto — quasi
impietosamente — la notevole distanza nelle capacità dei due autori di rendere
coinvolgente il racconto delle due giornate: Crispolti si affida a immagini
statiche, stereotipate, e non può competere, se non in rarissimi casi, con la
maestria narrativa di Petrarca, che crea affreschi di grande effetto e vivacità.
Basti un esempio. Nel mettere in scena il pranzo dell’occupatus — secondo la
definizione usata nel De vita solitaria — Petrarca disegna una scena alquanto
animata, dando spazio a dettagli del tutto assenti nel testo di Crispolti.
All’interno della sua casa sudicia, dove domina la confusione, l’indaffarato
cittadino si muove con una certa goffaggine. Sulla scorta di alcuni versi oraziani,
Petrarca lo descrive proprio mentre questi quasi sprofonda su un instabile
baldacchino (Noce 425-28). L’apice del racconto è senz’altro costituito dalla
metafora militare che presenta il servizio al tavolo e la preparazione del pranzo
come una feroce battaglia che si scatena non appena vien dato il segnale:
“Instructa acie datur tandem lituo signum pugne. Coquine duces aule ducibus
concurrunt, ingens fragor exoritur, convehuntur terra marique conquisite epule
et vina priscis calcata consulibus” (Petrarca 282).18 Si è visto prima che invece
Crispolti preferisce, più sbrigativamente, limitarsi a descrivere soltanto
l’ingordigia furibonda che caratterizza i pranzi del goloso cittadino.
4. La concezione “positiva” dell’ozio di Crispolti e i suoi modelli
Conclusa la narrazione della giornata dell’uomo di campagna e di città, Crispolti
intende dimostrare la superiorità della villa sulla realtà urbana. Sostiene per
prima cosa che la villa è più nobile perché più antica: infatti Dio al “principio
del mondo” l’aveva assegnata, nella forma di Paradiso terrestre, come
“habitatione” propria dell’uomo (Lode della villa 58r). Seguendo la tradizione
biblica (Gen. 4:17), Crispolti individua poi in Caino il primo fondatore della
città, suggerendo così una qualche connessione tra il suo atto feroce, l’uccisione
17 Sul De vita solitaria si vedano almeno Conaway Bondanella; Maggi; Nuovo 13-50; e
Tufano. Per la concezione dell’ozio in Petrarca, si rimanda a Tateo e von Moss. 18 “Schierato l’esercito, la tromba dà finalmente il segnale della battaglia. I generali della
cucina s’incontrano con i generali della sala da pranzo, un grande fragore si leva, si
portano le vivande procurate per terra e per mare e i vini premuti al tempo dei consoli
antichi” (Petrarca, 283; traduzione di Antonietta Bufano). Quale fonte di Petrarca, oltre
ad Orazio, per l’episodio della cena dell’occupatus, Noce annota Seneca, De brev. XII 5
(421-23).
Dalla solitudine della villa alla conversazione della città 145
di Abele, e la violenza di cui è sede la città.19 Da ultimo Crispolti vagheggia il
“felice Regno di Saturno” quando ancora si viveva in “campagna con somma
concordia e tranquillità, senza distintione di mio e tuo” (Lode della villa 59r).Di
qui si passa alla seconda e più breve metà della lezione, dove si mira a
dimostrare che la villa soddisfa i “tre fini” delle “operationi” umane, vale a dire
l’“utile”, l’“honesto” e il “diletto” (Lode della villa 60v). La villa è utile perché
l’animo, non distratto dai negozi della città, “si gode un beatissimo e felicissimo
otio ed a quello somigliante di cui disse Scipione maggiore, ch’egli mai era
meno otioso che quando era otioso” (Lode della villa 61v).20 L’animo, infatti, è
più pronto ad accogliere in sé le “lodevoli scienze” quando è “libero”, cioè non
impedito da alcuna restrizione. Trova spazio qui una seconda celebrazione
dell’ozio letterario che si apre con una doppia similitudine ingegnosa e arguta:
Come le generose fere si domano e perdono assai del loro natio vigore con lo [corretto da
collo] stare serrate nelle gabbie di ferro, così l’alte menti divengono pigre e neghittose
con lo [corretto da collo] stare rinchiuse nelle città. Un cavallo è provocato al corso da
una campagna aperta, e l’animo nostro da i luoghi aperti e liberi [corretto da libberi] al
corso de i lodevoli studii. Nella villa qua l’huomo vede un antro riposto, o selve, che con
i loro fidi orrori l’incitano a compor versi, ne’ quali la posterità nel tempio dell’eternità
inalzi e consacri il nome suo. Là un horto ameno che l’alletta a stendersi sopra le sue
herbe fresche con la [corretto da colla] dolce compagnia de’ suoi cari libri, ed ivi a
ragionar con essi e con se stesso. Qua il mormorio di un’acqua corrente l’innalza a nobili
ed elevati pensieri.
(Lode della villa 62r-v)
Quali sono, dunque, gli elementi che contraddistinguono l’ozio prospettato da Crispolti? L’ultima citazione si sofferma sulla veste idilliaca dell’ambiente agreste, che invita al contatto coi libri e ispira nuove composizioni. Lo scenario rurale è infatti indispensabile a quest’ozio “naturale” e letterario, il quale abbisogna anche — come si sarà notato — di solitudine e di un volontario isolamento dal mondo.
In virtù degli elementi appena ricordati, sembra allora di poter riconoscere
una contiguità con il precedente modello di vita solitaria proposto da Petrarca
nell’omonimo scritto. Il poeta toscano teorizza a sua volta la propria esperienza
di ritiro dal mondo a partire dagli scritti senecani (Dotti 82-86). Il motivo
dell’otium ricorre con una certa insistenza nei volumi del filosofo latino: oltre
19 Le pietre su cui si edificavano le città — chiosa infatti Crispolti — sembrava dovessero
esser “bagnate dal sangue fraterno infame”: così fu per Enoch, così per Roma (Lode della
villa 58v). Non basta: la comunità cui diede origine Caino divenne una società malvagia e
corrotta, di cui l’ambizioso fondatore volle assumere il ruolo di “guida” dannata. 20 La dichiarazione sull’ozio di Scipione l’Africano è con tutta probabilità una citazione
del De officiis ciceroniano (III, 1), il cui autore afferma a sua volta di aver letto
l’aneddoto negli scritti di Catone il Censore.
146 Lorenzo Sacchini
alla composizione del De otio, Seneca dedica al tema passi del De brevitate
vitae, del De tranquillitate animi e delle Epistulae morales ad Lucilium. Di là
dai vari “aggiustamenti” cui la nozione di otium andò incontro negli scritti di
Seneca (Dosi 80-86), l’ideale di tempo libero da lui immaginato è un ozio tutto
dedicato alla sapienza; un ozio che è e si fa azione, divenendo esso stesso una
forma alta di negotium. La dignitosa quiete proposta da Seneca è interamente
votata all’arricchimento spirituale, che consente all’uomo saggio di raggiungere
e mantenere la serenità. Crispolti, per parte sua, mostra di aderire a questo
ritratto idealizzato dell’otium, di cui, però, non coglie o non accetta un aspetto
fondamentale. Sia Petrarca che Seneca, infatti, concepiscono la vita solitaria
come strumento “per giovare il più possibile a tutti gli uomini” (Dotti 84),
perché gli scritti che compongono durante i momenti di ozio contengono
insegnamenti morali universalmente utili. 21 Il perugino, invece, sembra
immaginare l’ozio come momento di personale appagamento senza alcuna
ricaduta su un contesto sociale più ampio.
5. Il riscatto della città e la caduta dell’ozio nella terza lezione di Crispolti. La
vittoria dell’onore
La seconda lezione inaugura il percorso inverso nella dinamica tra la villa e la
città e dunque tra ozio e occupatio. Dando prova di “molta accortezza” per aver
mutato opinione, Crispolti esordisce sostenendo di preferire ora la città rispetto
alla villa. La seconda lezione offre una serie di riflessioni sulla città, tutte
orientate a stabilire la maggiore nobiltà della stessa rispetto alla campagna.
Rifacendosi alla Politica di Aristotele, Crispolti definisce la città una
“communione di huomini, inventata dalla natura per il vivere […] una vita
ottima” (In lode della città 70v). Sbagliarono allora Virgilio, Ovidio e Dante che
l’avevano relegata nell’inferno, perché essa tende al bene ed è espressione di
virtù. Spiega poi che la città, quale sistema complesso di relazioni e gerarchie, si
trova in ogni dove e può prendere varie forme, tra cui quella umana. Lo stesso
globo terrestre è una città, come lo è in generale ogni tipologia di governo. La
complessità della lezione viene dall’argomentazione poco fluida di Crispolti, che
procede non di rado per accenni sconnessi e non sempre coerenti. Il luogo di
maggior interesse all’interno del discorso dell’accademico perugino è contenuto
nell’incisiva apostrofe della Città a Cicerone. Questa, personificata, si rivolge in
prima persona all’oratore latino e lo accusa con vibranti parole di aver finto di
preferire la villa a lei.
21 Vi è un’ulteriore ragione di distanza tra le opere di Crispolti e Petrarca. È evidente,
infatti, l’intenzione di quest’ultimo di proporre nel De vita solitaria un modello di vita
monastica, aperta anche al laico, che può, con l’ozio dedicato alle lettere, la solitudine e
la distanza dal mondo rendersi veramente e cristianamente libero (Tateo 102-09). Nelle
lezioni del letterato perugino non si ritrova traccia di un simile discorso.
Dalla solitudine della villa alla conversazione della città 147
Un numero ben maggiore di spunti intorno alla questione in esame viene
dall’ultimo discorso, che replica punto per punto alle affermazioni (ora definite
esplicitamente “calunnie”) della lezione In lode della villa. Per condurre a
termine il suo ragionamento, l’accademico perugino non fa altro che sostenere,
poggiando di norma le sue sentenze sopra quella o questa autorità, l’esatto
opposto di quando asserito in prima istanza. Dovendo far puntuale riferimento
alle argomentazioni addotte in precedenza in favore della villa, quest’ultimo
discorso ha una struttura ben più rigida degli altri due. Sono precisamente
quindici i punti che Crispolti prende in considerazione e confuta, talvolta
giustapponendo più di una motivazione a supporto delle opinioni di cui si fa ora
portavoce. Invece di offrire una sinossi della lezione, che imporrebbe di
affastellare in uno spazio ridottissimo le numerose contestazioni mosse da
Crispolti a se stesso, è parso più opportuno concentrare l’analisi intorno ai tre
punti che riguardano l’ozio più da vicino. Nella prima lezione — si ricordi —
Crispolti aveva paragonato la giornata in villa alla vita felice che si conduceva
durante il Regno di Saturno. Ora il perugino, con malcelato sarcasmo, non nega
la comparazione, ma mette in discussione lo stesso mito. Il locus amoenus
dell’età d’oro di Saturno, cantata dai poeti latini, si riduce ora a una mitizzazione
contraria, dove prevalgono gli istinti e la mancanza di decoro:
O che bella età, o che desiderabile felicità doveva esser quella che dissero l’età aurea
[che…aurea in sopralinea]: l’assuefare il corpo ad un otio infingardo, l’andare mezo
ignudi, il coprirsi solo di frondi o di vili pelli d’animali, il possedere il tutto in confuso,
senza distinguere il tuo dal mio, come doveva appunto essere [in quell’ depennato]
nell’antico caos, il cibarsi di ghiande e d’altri frutti silvestri a guisa di fere, il non
conoscere le giuste nozze ed i certi figlioli, il non sapere che cosa importasse la virtù e la
gloria, che le va dietro, l’habitare, in vece di case e di palazzi, grotte e spelonche!
(Calunnie 80v)
L’ozio diviene “infingardo”, neghittoso; perde la sua connotazione positiva.
Analogamente l’ambiente circostante — la stessa campagna che prima era lo
scenario complice dell’uomo solitario — assume tinte fosche quasi minacciose.
Nella descrizione di Crispolti, essa si trasforma nel luogo dove “sembrano
attenuarsi, se non annullarsi, le norme che regolano la convivenza civile nella
città” (Sberlati 70). La campagna viene dunque risemantizzata in senso
peggiorativo; già luogo di quiete e di appagante contemplazione interiore, ora
diviene un ambiente potenzialmente irto di insidie, moralmente degradato.
Nel passo successivo Crispolti vuole confutare l’affermazione che l’animo possa
beneficiare dall’ozio vissuto in villa. È un vero e proprio biasimo dell’ozio,
accusato in maniera del tutto esplicita di essere la causa dei mali dell’uomo, del
decadimento fisico e della perdizione morale:
Quell’ozio poi […] che l’animo nostro come cosa tanto desiderabile nella villa si gode, o
di quanti mali può esserli cagione! “Otio qui nescit uti plus negotii habet quam cum est
148 Lorenzo Sacchini
negotium in negotio” disse Ennio con verità. Per l’otio l’huomo viene quasi a putrefarsi
ed amarcirsi non solamente nel corpo, ma etiandio nell’animo. Come si putrefanno
l’acque, che stanno ascoste, percioché non corrono, e l’ombra le è sempre sopra, così la
vita degli otiosi, percioché non si communica altrui, si corrompe e disfà nella pigritia.
(Calunnie 82r)
La citazione dell’Iphigenia del poeta latino fa parte di un frammento più ampio
della tragedia, che pone drammaticamente l’accento sullo smarrimento emotivo
dato dai momenti di ozio forzoso. Crispolti non sfrutta, però, questo raffinato
motivo del testo enniano e ripropone invece — con il preziosismo di una
citazione plutarchesca non dichiarata22 — la consueta equiparazione tra lo stesso
ozio e il marcimento interiore dell’animo umano, che va incontro ad una sorta di
inarrestabile “implosione” morale.
Resta da considerare l’ottava obiezione, dove l’autore intende smentire che
la villa sia il luogo migliore per coltivare le scienze. Egli sostiene ora che
l’animo umano sia meglio disposto ad apprendere il sapere in città, dove è meno
distratto. Per dimostrarlo, l’accademico perugino si avvale di un argomento
filosofico:
Perché non ho dubbio alcuno che all’hora l’animo nostro è più atto all’acquisto delle
dette [in sopralinea] scienze quando è tra sé stesso raccolto e ristretto, avenga che per
sentenza de’ filosofi la virtù unita sia più forte che la dispersa. In quella maniera ch’il
calor naturale, quando è ristretto e unito, opera meglio le sue funzioni che quando è
sparso, l’animo nostro che con ragione fu rassomigliato ad un fuoco quando è in se stesso
ristretto, è più atto [a far depennato] alle scienze. […] Così l’animo nostro ha maggior
vigore e forza d’attendere a gli studii stando unito e raccolto dentro le città che essendo
distratto dalla vista de’ campi spatiosi e de’ [in sopralinea] paesi aperti.
(Calunnie 82r-v)
Crispolti fa qui appello presumibilmente a un’obiezione già di Quintiliano, che
trova discussa anche nel testo del De vita solitaria di Petrarca (338-40). Nella
sua Institutio oratoria, infatti, Quintiliano giudicava i boschi e le selve non
adatti all’acquisizione della disciplina, perché, a suo giudizio, sono luoghi
piacevoli e quindi distraenti per l’animo. Meglio allora le città, nelle quali
l’anima è costretta a rimanere raccolta in se stessa e a non disperdere inutilmente
la propria forza di concentrazione.
A mo’ di corollario nella parte dedicata a sviluppare la medesima ottava
obiezione, Crispolti aggiunge alcune brevi righe che si rivelano di grande
interesse per il tema in esame. Crispolti trova un’altra serie di ragioni che
giustificano la maggior utilità della città nell’acquisizione della disciplina:
22 Essendo un calco pressoché identico, l’inserto è senz’altro proveniente dal
volgarizzamento di Marc’Antonio Gandino dei Moralia di Plutarco (I, 299).
Dalla solitudine della villa alla conversazione della città 149
Taccio poi la commodità de’ libri, le conferenze degli huomini litterati, le varie
accademie e l’emulatione degli eguali che sono d’utile incredibile a gli studii, e solo nella
città e non nella villa si ritrovano. Dicalo la dotta Athene, dicalo l’antica Rodo […];
dicalo questa nostra istessa città Augusta, alla quale così fiorita e scelta gioventù,
partendosi da lontane parti, e poco curandosi degli agii delle case proprie, [solo
depennato] invaghita della virtù, concorre in così gran numero come veggiamo.
(Calunnie 82v-83r)
Di là da esigenze meramente pratiche (l’approvvigionamento dei libri), questa
seconda citazione ha il merito di cogliere una trasformazione da tempo in atto
nei modi della circolazione del sapere. Alla solitaria meditazione petrarchesca si
sostituisce una pratica di condivisione, produzione e fruizione dei testi letterari,
che si realizza negli spazi collettivi delle coeve corti e accademie.
Un altro breve estratto della seconda lezione, quasi un passo parallelo, getta
ulteriore luce sul brano appena citato. Ricordando tutti i beni di cui si può
godere vivendo in città, il perugino elenca tra gli altri la “bellezza”, gli “amici”,
le “buone arti”, la “loda”, l’“honore”, e precisa che “ciascheduno di questi beni
[…] nella civile conversatione si produce” (Lode della città 72r). Non potrebbe
essere più esplicito il riferimento all’omonimo e fondamentale volume di
Stefano Guazzo del 1574 e quindi al sistema etico classicistico che quel
medesimo libro illustra. Proprio Guazzo, per voce del cavalier Annibale
Magnocavalli, aveva definito la “solitudine” un “veleno” e aveva imposto al
recalcitrante fratello Guglielmo la conversazione come suo “antidoto” (I, 16). La
proposta di Guazzo, sulla scorta di un’ormai rigogliosa tradizione di testi
moralistici cinquecenteschi che ha come suo modello e archetipo il Cortegiano
di Castiglione, ha come primario interesse quello di formare e normalizzare
(cioè assoggettare a regole precise) il comportamento del gentiluomo in società.
I riferimenti nella lezione di Crispolti alle “conferenze degli huomini litterati”,
all’“emulatione degli eguali” assumono il loro effettivo significato soltanto se
vengono interpretati alla luce di questa prospettiva relazionale. La via che
conduce alla virtù, cioè lo studio delle lettere, va intrapresa collettivamente:
viene ad essere cioè uno sforzo comune (e concorde) che i letterati sono
chiamati ad affrontare insieme. L’uomo di cultura di secondo Cinquecento e
primo Seicento intende trovare un immediato riscontro alla propria attività di
letterato, andando alla ricerca di quel sicuro plauso che è certo di ricevere in un
contesto amico quale l’accademia, grazie alla complicità degli altri membri e
sodali. Si spiega anche così la forte tendenza all’omologazione e alla
convenzionalità della letteratura del tempo. Appare evidente, rispetto
all’ideologia petrarchesca, la sottomissione dell’ozio letterario a esigenze
pragmatiche subito spendibili. Prima della gloria viene ora l’onore.
150 Lorenzo Sacchini
6. Una considerazione a margine: ozio e accademia tra fine Cinquecento e
inizio Seicento
Come si è visto, il trittico di lezioni di Crispolti si chiude con il tramonto
dell’ozio ed il trionfo dell’accademia. Non per caso Gino Benzoni aveva rilevato
la ricorrenza del motivo dell’ozio quale obiettivo polemico degli accademici
nella produzione dei sodalizi letterari della seconda metà del XVI e del XVII
secolo (187-91).23 La tesi universalmente condivisa in questi scritti vuole che il
rimedio all’inerzia e alla pigrizia sia proprio l’accademia, vale a dire il luogo
dove si procede allo studio collettivo delle lettere. Nel suo Breve trattato sopra
le academie il veronese Alessandro Canobbio si scaglia con violenza contro
l’ozio, “sentina e ridotto dell’istesso male” [B3r], e ne individua l’antidoto nelle
neonate accademie cittadine, dispensatrici di virtù. Analogamente Torquato
Tasso, in una giovanile e “non memorabile” (Gigante 21) orazione, Nell’aprirsi
dell’Academia Ferrarese, celebra le accademie quale strumento indispensabile a
evitare l’ozio. Sono due infatti gli “esercizi” tra quelli atti a sconfiggere l’inerzia,
che dimostrano il “supremo grado di nobiltà e di gloria”: le arti politico-militari
e gli “studi delle lettere” (II, 20). Per favorire i secondi, si creano appunto le
accademie, dove sono coltivate “virtù e dottrina” (II, 21).
Tuttavia non può sfuggire l’apparente paradosso insito in questa
opposizione tra ozio e accademia. Infatti “il tempo dell’accademia” — sostiene
con ragione Amedeo Quondam — “si iscrive in una dimensione essenzialmente
festiva, pertiene alla tipologia culturale della festa” (L’accademia 829). In altre
parole i sodalizi letterali non possono esistere se non nell’ozio, cioè nel tempo
sottratto ai negozi. L’accademia si realizza nell’ozio e nello stesso tempo ne è la
principale avversatrice.
Come si può risolvere il paradosso? Bisogna intanto ricordare la sfortuna
del termine “ozio” nel tardo Rinascimento (di cui si è detto a inizio articolo) che
impedisce, o comunque scoraggia, l’uso di quel termine per definire il tempo
dell’accademia. Di qui si deve considerare che la forma accademia, osserva
puntualmente Quondam, “deriva comunque e sempre da un’opzione
consapevole e responsabile di dispendio socialmente e culturalmente connotato
del tempo libero, come vero e proprio investimento produttivo dell’ozio” (La
conversazione 237). Se essa è il luogo deputato a un uso produttivo del tempo
libero, smette allora di essere sterile ozio e diviene, finalmente, civile
conversazione.
University of Durham
23 Nelle medesime pagine Benzoni spinge però oltre la propria analisi, mettendo in luce la
forte contraddizione di cui si rendono protagonisti, a suo giudizio, gli accademici del XVI
e XVII secolo. Essi, infatti, dichiarano di combattere l’ozio, ma con la loro attività
accademica, divengono essi stessi oziosi, incapaci cioè di reagire pragmaticamente alla
situazione di profonda crisi politica e morale in cui versava la penisola dopo le guerre
d’Italia.
Dalla solitudine della villa alla conversazione della città 151
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