La folla criminale. Celano 1923

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LA FOLLA CRIMINALE: CELANO (1923)

Abstract: A lynching with religious reasons, occurred at the end of 1923in Celano, a mountain town in the Appennini highlands, not too far fromRome. The fact shook peasant life of the village, it became the object of at-tention of national media and marked indelibly community’s self-representa-tion. The article, which follows a microhistorical perspective, reconstructs whathappened contextualizing it and its significance in local and national culture,through various written sources: court records, texts of local historians, theethnography of an American anthropologist arrived in the town to completehis PhD and the novel dedicated to that tragic event by writer Renzo Paris,born and grown up in Celano, before becoming one of the most relevant Ital-ian writers of 1968 generation. Through a hermeneutical comparison of thesedifferent narratives on the same historical fact, the article intends to prob-lematize, epistemologically, the concept of memory, especially considering evencurrent use of that memory to identity and political purposes.

Parole chiave: Microstoria, Narrazione, Memoria Keywords: Microhistory, Narrative, Memory

La notte tra il 29 e il 30 dicembre del 1923, a Celano, un paesedegli Appennini marsicani non troppo distante da Roma, una folla in-ferocita uccide a colpi di asce e bastoni un ladro di arredi sacri. Que-sto, in sintesi estrema, il fatto: un fatto di gravità inaudita per la sto-ria locale, destinato a lasciare solchi profondi nella memoria della co-munità. Una memoria complessa da ricostruire, in bilico costante trala comprensione (se non la giustificazione) e la condanna del crimine,a seconda della postura che si assume nel giudizio, della posizione cul-turale di chi giudica. È per questo che le fonti a disposizione vannovagliate criticamente e messe a confronto, in modo da cogliere la dia-lettica che le distingue e le accomuna.

Seguirò, come guida, il romanzo che Renzo Paris ha dedicato, nel1999, a questa drammatica vicenda, quindi proverò a mescolare a quelcanovaccio narrativo, altre voci e altre versioni. Scrittore simbolo dellagenerazione del Sessantotto e protagonista del movimento romano, Pa-

ris è nato a Celano ed è vissuto in paese per tredici anni: Ultimi di-spacci della notte è il primo romanzo della trilogia che l’autore ha de-dicato alla sua terra d’origine1. Il titolo misterioso sembra proporre giàla duplice strada che il lettore può percorrere sfogliando le pagine delromanzo: una storica, l’altra metaforica. Le voci che si agitano, le no-tizie che camminano nell’oscurità rimandano al delitto di folla che neè l’argomento e al furto sacrilego che ne costituisce l’antefatto, un sa-crilegio perpetrato con il favore della notte profonda e dell’inverno dimontagna. Ma la notte narrata è anche quella della Storia, l’abisso deisecoli da cui sembra risalire un’umanità dai connotati bestiali, non an-cora vinta, a quell’epoca, in quel paese, dai duemila anni del cristiane-simo, dalle più recenti conquiste della modernità. L’intento di Paris èquello di raccontare il paese di cui è originario come un’«etnia», so-pravvivenza di una storia che discende direttamente dai tempi del mitoe dei rituali sacrificali: in questo il sottotitolo trova il suo senso, «ro-manzo etnico». Ma ad una lettura più attenta, non si può non rico-noscere la tentazione di Paris di rievocare quell’altrove temporale pertestarne la comprensibilità, per verificarne la distanza dalla propria di-mensione individuale, dalla nostra attuale realtà. E dunque è qui la vo-cazione etnografica del romanzo (e si potrebbe dire dei tre romanzidella «trilogia»), anche al di là dell’urgenza di una documentazione suun mondo riposto nella flebile memoria di sua madre, una marsicanatrapiantata a Roma. «Quella del Peluso era la sua favola più crudele»2,ammette Renzo Paris nell’«Epilogo» del romanzo, chiudendo il cir-colo, la cornice al racconto, che aveva aperto nel «Prologo»: «Ho sen-tito parlare per la prima volta del caso Tomei dalle sue labbra»3. Il rac-conto di Paris prende vita e forma dalle labbra della madre e poco pervolta, per giunta, come nei repertori dell’epica orale, a seconda delleoccasioni, dei momenti:

me lo raccontava controvoglia, davanti al camino acceso di un borgodel Fucino, nei primi anni Cinquanta. Le avevo chiesto che cosa vo-lesse dire: «Ti faremo come al Peluso», una minaccia che tra noi ra-gazzi provocava un silenzio agghiacciante. Mia madre allora riassumeval’accaduto in poche parole e subito correva a raccontarmi un’altra fa-

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1 La «trilogia marsicana» di Renzo Paris comprende: Ultimi dispacci della notte,Fazi, Roma 1999, La croce tatuata, Fazi, Roma 2005 e I ballatroni, Avagliano, Roma2007.

2 R. Paris Ultimi dispacci della notte, cit., p. 124.3 Ivi, p. 11.

vola, quella dell’Uccellin Belverde o quella dove un bambino era finitodentro un panno che una gru trasportava in un cielo nuvoloso. Solopiù tardi, quando pensava che fossi cresciuto, arricchiva la storia delPeluso con più personaggi. Sudavo, bevevo le parole di mia madrecome una verità assoluta4.

I tre spazi esplicitamente autobiografici, il Prologo, l’Epilogo e l’In-termezzo, si presentano, nel romanzo, come parentesi extranarrative,che consentono al lettore di cogliere meglio proprio la dimensione nar-rativa della ricostruzione del fatto, storicamente accaduto, che essistanno per leggere. L’autore così, attraverso questo filtro che serve arestituire la prospettiva storica, ci introduce in un mondo mitico, pre-moderno, che affidava all’oralità la propria memoria collettiva, le ra-gioni che dava a se stesso di se stesso. È il mondo a cui appartiene lamadre, dal quale egli stesso proviene:

a mia madre piacevano i maghi. Li andava a trovare una volta al mese.Ce n’erano diversi a Celano e tutti molto richiesti. A mia madre pia-ceva anche Gesù. Andava in chiesa tutte le domeniche e durante le fe-ste comandate. (…) Mia madre credeva nei folletti, negli gnomi, neimazzamurelli e in tutti i fantasmi cattivi che si celano tra le pieghedella notte e del giorno. Il regno dell’invisibile, per lei era molto piùaffollato di quello del visibile5.

Del rapporto speciale tra l’autore e la madre, Elisa, come anchedella funzione di stimolo che la sua morte ha avuto sulla scrittura dellatrilogia, non posso scrivere in questo articolo, ma qui vale la pena ri-salire a quell’universo narrativo che ha come sfondo un orizzonte mi-tico e folklorico e che, quindi, si trasferisce sulla pagina scritta comela concrezione sintetica di un mondo, di una forma di vita. È quelmondo e quell’universo che Renzo Paris riesce a raccontare, e nel qualesi muove come chi ne ha fatto esperienza. È la corda intrecciata deimolti fili narrativi che la tradizione ha annodato che l’autore risale, latrama intricata dagli anni e dai racconti che dà vita all’ordito che de-linea il disegno del tessuto finale: il racconto della madre.

E quello in questione non è un fatto come gli altri, la sua memo-ria non è neutra, si è già detto: il linciaggio del «Peluso», come venivasoprannominata la vittima in paese, contribuì da una parte a definire

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4 Ivi, pp. 11-12.5 Ivi, p. 9.

una autorappresentazione della comunità in termini di unità, devo-zione, autorevolezza, e dall’altra costruì la rappresentazione stereoti-pica del «celanese» violento e bruto che ancora oggi non scomparenei giudizi degli altri «marsicani». L’omicidio di folla, «il caso Tomei»,fece scandalo e destò scalpore nel circondario e in tutta Italia: la no-tizia tremenda ebbe una eco talmente grande che nel 1938 il reso-conto del fatto e del caso giudiziario che ne seguì venne pubblicatonella collana «Processi celebri» dell’editore Corbaccio di Milano, e ri-scosse un certo successo editoriale. Il titolo del volume, il cui autoreera un avvocato di Avezzano6, sintetizzava la narrazione dell’eventostorico e cristallizzava l’immagine della collettività celanese: «La follacriminale». Una memoria pubblicata come corredo alla ristampa7 diquel libretto, racchiude il senso di offesa che quel titolo suscitò inmolti a Celano:

Ricordo che il libro apparve nell’edicola della stazione ferroviaria diAvezzano nel novembre 1938. Frequentavo io, allora, la seconda classeginnasiale del Liceo «A.Torlonia» di Avezzano […]. Il libro fu per tuttinoi studenti una sorpresa poiché tutti conoscevamo la vicenda in essorievocata: la storia di Tomei Francesco detto «Il Peluso». Ma il titoloci irritò e suscitò la reazione dei più grandi in mezzo a noi, i quali ciorganizzarono (io avevo dodici anni) e ci portarono, una sera, all’u-scita da scuola, a protestare sotto lo studio dell’Avv. Falcone al cantodi una canzone che ne parodiava una del regime fascista, allora impe-rante: «Se non ci conoscete, guardateci dall’alto. Noi siamo i compo-nenti della folla criminale». Volevamo così dire a tutti che non era giu-sto criminalizzare un’intera popolazione. I celanesi avevano sofferto ab-bastanza per quel tristo misfatto, nel lasso di tempo che va dalla finedi dicembre del 1923 sino a quel momento. Il delitto Tomei, gravis-simo sotto il profilo del movente e per le sue aberranti modalità, avevacreato una pessima nomea per i celanesi. Ovunque c’era un atteggia-mento di ripulsa verso di loro, come se fossero degli appestati. I piùgrandi ci raccontarono che, in occasione dei pellegrinaggi nei vari san-tuari quando gli altri pellegrini si accorgevano di trovarsi a contattocon i celanesi, si alzavano e si allontanavano. L’umiliazione era troppo

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6 Ed è qui appena da notare come la provenienza dell’autore, data la annosa riva-lità tra gli abitanti dei due paesi confinanti, bastò a giustificare, ai celanesi, la tantoignominiosa fama che il libro aveva creato verso di loro.

7 Tale ristampa risale al 2/5/2005, ed è a cura dell’editoriale «Il Celanese» che pub-blica anche un periodico di cose locali.

pesante. Perciò la nostra protesta per quel titolo così sferzante che, adistanza di quindici anni, veniva a rinfocolare il disprezzo nei confrontidella nostra popolazione8.

A questa testimonianza si può accostare il giudizio di uno scrit-tore e storico locale, Ercole Di Renzo, un altro avvocato, che scrisse,tempo fa, una cronaca dell’avvenimento e del suo seguito giudiziarioproprio volta a «sfatare l’assurda leggenda d’una Celano popolata dauna folla criminale, accecata da sacri furori degni del medioevo più oscurantista»9:

tanta storia, falsata e negativa, [quell’avvenimento] ha fatto rimbalzare,per oltre mezzo secolo, e che continua ad imperversare, su Celano esui celanesi, nel nostro centro, nella Marsica, nella provincia e, si puòben dire, in ogni parte d’Italia. Un episodio raccapricciante, un atto dicondannabilissima criminalità che, però, costituisce errore ed ingiusti-zia quando, ad ogni costo (e non soltanto per mero gusto campanili-stico), lo si vuole generalizzare, imprimendo ad una intera popolazioneun marchio permanente di infamia, una nomèa poco edificante, unaforma di delinquenza collettiva che davvero non le competono. Perquesto abbiamo voluto riportare la realtà storica e i dettagli dell’avve-nimento di quella lontana sera del dicembre del 192310.

E qual è, dunque, la realtà storica? Quali i dettagli dell’avvenimentosecondo le fonti scritte menzionate? Come sintesi puntuale dell’acca-duto e col vantaggio che essa suona priva di giudizi, riproduco inte-gralmente la nuda cronaca che di quei due giorni infernali redassero imagistrati della Sezione d’Accusa del tribunale de l’Aquila, il 20 feb-braio del 1925:

La notte dal 29 al 30 dicembre 1923 in Celano veniva, mediante scasso,consumato un furto nella chiesa di San Giovanni. I ladri erano pene-trati in chiesa e, dopo di aver rotta la porta della nicchia dove si cu-stodivano le reliquie sacre, avevano preso le tre urne di bronzo do-rato che ivi si trovavano, le avevano aperte. Tolte le ossa dei Santi

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8 G. Cantelmi, Testimonianza pro veritate in A. Falcone, La folla criminale, ri-stampa anastatica, Il Celanese, Celano, 2005 (ed. orig. Corbaccio, Milano 1938).

9 V. Esposito, Prefazione a E. Di Renzo, Celano ieri e oggi, Edizioni MarsicaDomani, Avezzano [fine anni ’80], p. 6.

10 E. Di Renzo, Celano ieri e oggi, cit., p. 41.

Martiri che vi si custodivano (San Simplicio, San Costanzo e San Vit-toriano) le avevano lasciate per terra nella Chiesa stessa, asportandole dette urne ed altri arredi sacri per un valore complessivo di lireventicinquemila. Il furto fu constatato alle ore 8 del mattino del 29 ela notizia, subito diffusa, commosse profondamente tutta la popola-zione di Celano a quei santi fortemente devota e produsse in seno adessa un forte fermento. Per la scoperta dei colpevoli furono subitoiniziate attive indagini dai RR.CC. coadiuvati da militi della M.V.S.N.,ma mentre ad esse diligentemente quanto infruttuosamente si proce-deva, verso le ore 16 dello stesso giorno 30 dicembre, perveniva al Se-gretario politico, a mezzo posta, tassata, una lettera anonima nellaquale testualmente si informava che: «Il ladro (M) si trova alle stallealla Valchiera. Subito che stanotte fuggisce lui si trova la e due annofuggito e sono di Celano». Il Segretario Politico del Fascio di Celanorimise la lettera ai RR.CC. i quali recatisi assieme ai militi suddettinella contrada indicata dall’anonimo, in un fienile di proprietà di taleAngeloni Amerigo, scovarono il ladro nella persona del pregiudicatoTomei Francesco. Nello stesso locale, dissimulata sotto uno strato dipaglia, fu anche rinvenuta la refurtiva. Il Tomei fu subito tratto in ar-resto ed a stento, fra le imprecazioni e le minacce della folla, imman-tinente della notizia fatta scoperta raccolta intorno a lui, fu dai cara-binieri, aiutati dai militi fascisti, potuto condurre in caserma e rin-chiudere nella locale camera di sicurezza. Intanto sull’avvenuto arre-sto del ladro e sul rinvenimento delle sacre urne involate l’attenzionedella intera popolazione veniva richiamata dal suono delle campane.Una enorme folla raccolta in processione celebrò allora stesso al suonodella marcia Reale il recupero delle smemorate reliquie nella Chiesadei Santi Patroni.Poi la folla imprecando al ladro sacrilego ed invocando su di lui la giu-stizia sommaria si portò dinanzi la caserma dove il Tomei era custo-dito facendo mutare in marcia funebre la Marcia Reale che fino ad al-lora era stata suonata, invano trattenuta dalla parola del parroco cheraccomandava a tutti la calma ed il perdono e ad avere fede nell’operadell’Autorità, e dalla esortazione alla tranquillità fatta da altri cittadini.Inutilmente. Di fronte al crescere dell’atteggiamento violento della folla,i carabinieri ed alcuni militi della M.V.S.N. spararono in aria alcunicolpi di moschetto allo scopo di intimidirla e disperderla. La porta dellacaserma fu sfondata, la folla penetrò in essa in tumulto, arrivò fino allacamera di sicurezza mentre i carabinieri che continuavano ad opporreresistenza venivano travolti. Il Tomei, che era ancora ammanettato, fupreso e ferito a morte; trascinato in mezzo alla piazza del paese giàcadavere fu appeso alla ringhiera di ferro, fu evirato, fu squarciato edinfine, cosparso di benzina fu bruciato, sputacchiato, vilipeso. Il Pre-tore alle ore 23 dello stesso giorno procedette alla ricognizione e de-

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scrizione del cadavere che fu trovato appeso all’inferriata del muro sot-tostante alla via del Castello11.

Questa la «verità storica» per come la ricostruirono i magistrati,bene attenti a non inimicarsi nessuno dei potenti, a sottolineare l’im-pegno investigativo (benché vano) dei Carabinieri e della Milizia, a ri-levare la tempestività del Segretario del Fascio nel consegnare la let-tera anonima a lui recapitata nelle mani delle autorità di polizia, a sca-gionare il parroco e i notabili (i cittadini più «tranquilli») da una pos-sibile contaminazione con la bestialità di quella folla. Vennero proces-sati una ventina di uomini tra quelli più attivi nella rivolta, accusati di«violenza e minaccia con arma verso i RR.CC.» prima ancora che diomicidio, sevizie e vilipendio al cadavere. Ma il 9 giugno del 1925 gliimputati furono prosciolti, per non aver commesso il fatto: riuscironotutti a far credere di avere un alibi. E la Giustizia fu stranamente ce-lere.

Renzo Paris per il suo romanzo ha intrecciato, come egli stessoammette («sono entrato nelle biblioteche romane per leggere gli arti-coli sul caso Tomei»12), queste fonti scritte con la testimonianza oraledi sua madre, con la memoria delle zie («mia zia Genoveffa seppe in-dicarmi l’anno e, facendo una gran fatica ricostruì il mese. Si era spo-sata proprio in quell’inverno, perciò il ricordo non si era cancellato»13),preso dalla volontà di «collocare storicamente l’accaduto». E infatti ilsuo è anche un «romanzo storico», in cui le circostanze sembranomantenere una certa coerenza cronologica e i personaggi ricalcare quelli«reali». Ma al centro del romanzo, in ogni sua pagina, c’è la memoriadel racconto materno: dalla madre, è evidente, Paris ha raccolto unanarrazione priva dei giudizi politici di Di Renzo, la fonte da cui traela maggior parte delle informazioni, o di quelli storici di Cantelmi; haricevuto un racconto che non problematizza moralmente l’accaduto,ma lo ammette entro un orizzonte culturale che sfugge ai molti chehanno scritto su quella fine di dicembre del ’23. Si tratta di una sto-ria dentro la quale una folla poteva linciare un uomo non tanto perfanatismo religioso, come per lo più si è ritenuto, quanto perché quel-l’uomo era uno straniero e un ribelle. Ed è con gli occhi della madre,una nativa di quella etnia, che Paris sembra rileggere tutta la vicenda.

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11 Verbale riportato in A. Falcone, La folla criminale, cit., pp. 26-29.12 R. Paris, Ultimi dispacci della notte, cit., p. 12.13 Ibidem.

È dall’interno, con le parole di quel mito che Paris ricostruisce il sensoculturale del tragico accaduto, innestato su un universo parallelo, chepartecipa della natura e del sogno, della morte e della vita, in manierascioccante. Nelle pagine di Ultimi dispacci della notte si anima un con-flitto culturale tra due giudizi opposti su quel delitto, due mondi lon-tanissimi: quello del popolo celanese e quello della cultura «ufficiale»,condivisa dai personaggi di spicco, figure stereotipiche come il par-roco, il medico e il segretario del Fascio; questi ultimi, pur essendodel paese, sono elementi ambigui, interni ed esterni alla comunità, invirtù della loro partecipazione alla cultura nazionale. La condanna senzaappello di tanta efferatezza è la stessa, nel romanzo, di quella che silegge tra le righe degli storici locali. Il popolo offeso offre ai loro oc-chi un suo lato dionisiaco che quelli non comprendono a fondo: sfuggedalla loro portata il significato culturale di quell’offesa. Tra i due mondisi apre un profondissimo anacronismo, «une faille entre deux tempsinconciliables»14, secondo l’espressione che Daniel Fabre utilizza nellasua lettura antropologica di Cristo si è fermato a Eboli. Il romanzo diParis racconta i fatti storici entro questa dialettica temporale, messa inscena nei dialoghi dei suoi personaggi: l’autore sembra, così, immet-tere costantemente, nelle vene di Ultimi dispacci della notte, un liquidodi contrasto grazie al quale fa emergere i profili delle due (o più) cul-ture a confronto, che si definiscono per sottrazione, per differenza. Lediverse lenti con cui i protagonisti del romanzo guardano i fatti chesi trovano a vivere, i giudizi che essi arrivano ad esprimere su ciò chesi vedono accadere dinanzi agli occhi sembrano denunciare una loroirrimediabile estraneità al mondo della «folla criminale». O, sarebbeforse più sensato dire, al tempo della «folla criminale». La distanza trai «galantuomini» e i cafoni sembra declinarsi più specificamente sul-l’asse temporale, come del resto ragionando sul titolo del romanzoavevo già ipotizzato. Ce ne danno una conferma suggestiva i pensieridi Dompichele Maruso, il medico condotto, che commentano l’impetodi quei bifolchi armati di forconi e di asce, accompagnati dalla banda«al completo» che suona «l’inno reale»:

quello era il vero volto della folla medioevale alla ricerca del suo mo-mento di gloria. Spuntavano quelle facce dalle antichità più sperdute,

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14 D. Fabre, Carlo Levi au pays du temps, in «L’Homme», 114, avril-juin, XXX,2, p. 54.

uscivano dalle tane dei secoli e incutevano terrore. Niente atri mu-schiosi e fori cadenti, ma sotterranei senza luce15

Il silenzio e l’incomunicabilità tra quelle che gramscianamente de-finiremmo la cultura «egemone» e quella «subalterna» divengono il si-lenzio e l’incomunicabilità che non può che dividere un passato mi-tico, il «tempo magico» e la «modernità». Duemila anni di religionecattolica, ci testimonia il parroco, Don Giacomo, non sono serviti, aCelano, a far muovere di un centimetro la freccia del tempo, avvilup-pata nella propria ciclicità. Insomma, non si può che rilevare nel ro-manzo di Paris la messa in scena di un anacronismo: Cristo, la «ci-viltà» per gli evoluzionisti, lo Spirito per Hegel si sono davvero fer-mati oltre i monti della Marsica, in una «Eboli» che lo scrittore cela-nese individua di volta in volta negli occhi dei suoi personaggi.

Nel racconto dello scrittore, trova spazio la versione popolare, incui la vendetta contro il ladro sacrilego parte proprio dai Santi chesono stati profanati e offesi:

La voce del popolo raccontava che il ladro, con la refurtiva sotto ilcappotto militare, mezzo congelato dal freddo, aveva preso la stradapiù lunga per giungere alla Valichera, quella di Fontegrande. Giunto inquel posto di lupi, sotto la Serra, aveva visto con i suoi occhi febbri-citanti le acque dei Martiri ingrossarsi al punto di impedirgli il tran-sito. Un muro liquido si ergeva a difesa del santuario. Nell’immagina-zione popolare quelle acque erano diventate quelle del Mar Rosso. Cosìil ladro, zuppo di sudore, si vide perso e fece dietro-front. Attraversola via della Cutarda arrivò alla Valichera. Se poggiava quelle urne da-vanti al Santuario di Fontegrande il ladro era salvo. Ma non avevaascoltato il monito e, come una bestia braccata, era tornato sui suoipassi. La contrada dei fienili la conosceva bene. Era pallido e aveva co-nati di vomito ma non smetteva di bestemmiare quei santi che avrebbedovuto adorare. I santi erano stizziti, contrariati come divinità antiche.Ecco perché attizzavano l’ira popolare16.

La notizia di una simile leggenda, in cui si uniscono temi biblicicome quelli di Mosè che separa le acque del Mar Rosso e temi pa-gani, è confermata dalle fonti17 che Paris ha tenuto in considerazione:

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15 R. Paris, Ultimi dispacci della notte, cit., pp. 58-59.16 Ivi, pp. 81-82. 17 «Quivi [a Fontegrande] giunto (la località risulta essere quella del martirio dei

il mito entra prepotentemente nella testa dei celanesi, e ne indirizza leazioni. Il narratore non distingue i due piani, quello della verosimi-glianza storica e quello magico-religioso che anima il racconto. Comeper una sorta di realismo magico, il ladro, catturato, può affermare:«Ringraziate i Santi Martiri che stanotte Celano era sott’acqua»18, con-fermando la versione popolare e leggendaria della sua cattura volutadirettamente dai Santi. I celanesi sopravvivono in questo «mondo ma-gico», in cui gli esseri soprannaturali e gli uomini condividono dellerelazioni di tipo quasi «sociale», intervengono l’uno nella sfera dell’al-tro. E una delle piste interpretative che Paris ci fornisce per i fatti rac-contati è proprio quella della religiosità popolare sincretica, di cui èpossibile ricostruire le fondamenta pagane:

Quei cannibali erano collegati ai culti pagani che riguardavano l’acquae la luce. Che cosa sarebbe diventata Celano senz’acqua? Ecco perchévolevano sgozzare i ladri come si sgozza un maiale.

È la stessa versione che troviamo nell’etnografia di un giovane an-tropologo americano che, alla fine degli anni Settanta, venne proprioa Celano a compiere il fieldwork per la tesi di dottorato che avrebbediscusso a Oxford:

Secondo i verbali ufficiali, i Carabinieri ricevettero una lettera anonimache, il mattino dopo il furto, svelava il suo nascondiglio, e semplice-mente procedettero a fermarlo e ad arrestarlo. La versione popolare èpiù elaborata. Secondo quest’ultima, il crimine venne scoperto la mat-tina presto da un sacrestano, che iniziò a suonare le campane e a darel’allarme generale. I paesani accorsero subito e vennero informati delsacrilegio. Anche secondo questa versione ci fu una soffiata anonimariguardo al nascondiglio del ladro e i celanesi oltraggiati scesero tuttiinsieme a cercarlo. Quello si svegliò giusto in tempo per sentirli arri-vare e scappò dalla stalla [dove si era rifugiato]: lo videro buttarsi aovest e gli corsero dietro, ma era già troppo lontano, tanto da sem-brare ormai irraggiungibile. Quando raggiunse la fonte miracolosa cheera sgorgata nel luogo dell’uccisione dei Martiri, però, dovette attra-versare un ruscelletto che arriva fino al Fucino e che, come il ladro si

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Santi, dove le teste staccate dal carnefice, cadendo, provocarono tre sorgenti di acquatutt’ora in attività), il Tomei si vide sbarrare la strada da una improvvisa fuoriuscitadelle acque che gli impedirono di proseguire», in E. Di Renzo, Celano ieri e oggi, cit.,p. 40.

18 R. Paris, Ultimi dispacci della notte, cit., p. 92.

avvicinò, prese a gonfiarsi sempre più, tanto che gli fu impossibile at-traversarlo. Così la sua fuga venne bloccata e la folla riuscì a cattu-rarlo19.

Anche Gregory Smith, come Renzo Paris, è interessato al punto divista popolare. Secondo il mito, i tre santi, provenienti dalla Borgo-gna, erano giunti in Italia per predicare il Vangelo; siamo nel II secolod.C. e i cristiani erano ancora perseguitati: i tre, il padre e due figli,vennero arrestati e portati in giudizio dalle parti di Celano, dove, pare,il governatore deputato a simili questioni avesse la sua residenza estiva.Condannati per la loro fede, cui non vollero rinunciare,

venne pianificata per loro una morte orrenda: i tre uomini furono le-gati alle ruote dei carri, spinti poi giù dal lato roccioso della monta-gna. Pungolarono i buoi perché li trascinassero fino a far schizzarefuori dal cranio i loro cervelli, ma invano, perché le bestie erano statemiracolosamente incantate dai Santi e così presero a camminare conun passo più lento. Quando gli uomini raggiunsero poi il fondo delpendio, un altro miracolo fu testimone della loro santità. A questopunto i Romani decisero di ucciderli in un modo più sbrigativo e lidecapitarono semplicemente con le loro spade. Come il sangue scorsea terra, sgorgò miracolosamente una sorgente, una fonte che attraversoi secoli ha fatto da motore per molti mulini, e che tuttora fornisce ac-qua per l’irrigazione di un’area molto estesa della pianura20.

In questa devozione popolare, così evidentemente sincretica, deveessere ricercata la matrice culturale che spiega il linciaggio; il motivodell’acqua, a cui si è accennato nella chiave fenomenologica del mitodel martirio dei Santi, deve essere riconsiderato come elemento di unmito sociogonico: le teste dei tre martiri, rotolando e facendo miraco-losamente zampillare le sorgenti che ancora arricchiscono Celano diacqua, hanno permesso l’insediamento, la permanenza e la prosperitàdel gruppo sociale. Da sempre quell’acqua ha dato la vita al borgocontadino, e ancor di più da quando il Fucino è un lago di terra dacoltivare: la sorgente domestica di Celano si riversa in canali e rivolisugli appezzamenti dei paesani, che ne traggono così beneficio e be-nedizione. Smith sintetizza così: «i Santi Martiri sono sacri per i Ce-

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19 G.O. Smith, La comunità e lo Stato. Antropologia e Storia nella Marsica del No-vecento, Aleph editrice, Luco dei Marsi 2012, p. 209.

20 Ivi, pp. 207-208.

lanesi, ma non vengono invocati dagli individui per assistenza o in-tervento soprannaturale, come nel caso degli altri santi: piuttosto laloro sacralità è estesa alla comunità come ad un tutto e in passatospesso furono invocati in caso di necessità collettiva»21.

Come grida «la Pulce» (è interessante notare che i popolani, nelromanzo di Paris sono identificati solo grazie ai soprannomi) a Dom-pichele, il medico, quando lo incontra nel Caffè Italia: «I Santi Mar-tiri non dovevano toccarceli […] sono loro che ci hanno aperto l’ac-qua a Fontegrande»22. Non è un caso che tutti gli anni, a fine mag-gio, si celebrasse a Celano una processione in onore dei Santi Martiriperché fossero propizi al raccolto: procedendo in senso antiorario in-torno al Castello medievale, ai quattro punti cardinali, il sacerdote, se-guito dalle sacre reliquie, benediceva i campi in lontananza per scon-giurare i mali delle coltivazioni e la siccità. Insomma, «i Santi Martirisono carne e sangue» dei celanesi, perché, secondo il mito, la loromorte ha dato vita alla comunità. Il nucleo originario del paese si èsviluppato intorno a quella Fontegrande che sgorga ai piedi del MonteTino: la chiesa più antica, ancora in piedi, che neppure Federico II osòdistruggere, la chiesa di S. Giovanni Capodacqua, simbolo della con-tinuità storica della comunità, sorge nei pressi della sorgente: essa con-tenne per secoli le sacre ossa di quegli «eroi culturali» che i Santi Mar-tiri erano stati. Il mito della loro decapitazione è il mito di fondazionedella «Universitas Celani» medievale e ancora più indietro del villag-gio che su quei luoghi era nato. E dunque l’offesa ai Patroni tocca nelprofondo, alla base stessa della società, una Celano a cui sembra siastata «rubata l’anima».

In questa visione sociogonica del mito dei Martiri si mette a fuocola interpretazione più esplicitamente etnologica della morte violenta del«Peluso» che Ultimi dispacci della notte ci suggerisce. Auclide Mirolla,il maestro elementare, sintetizza così tale interpretazione, nel raccontoche fa dell’accaduto all’ignaro Secondino: «Il popolo di Celano ha sa-crificato ai suoi tre totem, i Santi Martiri, il Peluso, che ha rubato leurne dorate». Egli si era già chiesto e aveva chiesto ad un intimiditoOreste il cantoniere: «Che significa essere di Celano? Far parte di unatribù? Di un’antica etnia?». E qui si legge il nocciolo del punto di vi-sta specifico di Paris, il quale racchiude il contenuto drammatico delsuo romanzo entro una comprensibilità antropologica, lo fa viaggiare

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21 Ivi, p. 208.22 R. Paris, Ultimi dispacci della notte, cit. p. 34.

sulle categorie, pure un po’ indurite, dell’«etnico», di cui allo stessotempo dubita, da cui egli è in un certo senso turbato, come tutti i per-sonaggi della sua storia. Il maestro Auclide, forse quello che somigliadi più all’autore, prima ironizza sulla folla indemoniata, poi comprendeil senso sociale di una simile rivolta applicando il concetto di «tote-mismo» alla realtà dei suoi compaesani. Senza stare a scomodare Fra-zer o Lévi-Strauss, quello che mi preme qui sottolineare è l’interpre-tazione «etnologica» che Renzo Paris mette al centro del suo romanzo.Il narratore assume da subito come propria l’interpretazione «interna»(avrei forse potuto scrivere «emica») sul sacrilegio compiuto nella chiesamadre di Celano la notte del 29 dicembre del ’23: «in chiesa c’era pas-sata la Brutta Bestia». È quello che grida il sacrestano quando va adallertare il parroco, quello di cui è convinta Filuccia, la perpetua, chene sentiva persino «l’olezzo», quello per cui pregavano devote le be-ghine radunatesi sul posto appena appresa la notizia: «inginocchiatedavanti all’altare» su cui giacevano ammonticchiate le reliquie e, «sol-levando il sedere, baciavano lo scalino come tante mussulmane»23. Nonpuò esserci per loro nessun’altra spiegazione a quella scelleratezza, aquell’ignominia, a quell’offesa demoniaca verso i Santi Martiri «onoree gloria di quel fangosissimo borgo»24, «di Celano gran virtù» cometestimonia un canto popolare tutt’ora in uso durante i festeggiamentireligiosi della fine di agosto. L’allarme eccitato, incredulo e sgomentoè, da parte di tutti i popolani, «hanno rubato ai santi Martiri».

Del resto questa che Paris mette loro in bocca è la versione miticadei fatti che ha ricevuto da sua madre:

Prima di accennare a quel nome, mia madre si faceva il segno dellacroce per tre volte, intercalando: «Non sia povero d’anima».Il Peluso ai miei occhi diventava la Brutta Bestia, dinanzi alla qualenon si poteva fare nessuna resistenza, soltanto pregare. (…) Lei ne par-lava come di un personaggio mitico, passato nelle campagne marsicanecome un fantasma25.

La Brutta Bestia è l’assillo della madre Elisa, «il Diavolo», «Bel-zebù, che si traveste da signore per bene, che ti lusinga»26, l’essere delladissoluzione spirituale, che annienta l’individuo, lo priva della sua vo-

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23 Ivi, p. 17.24 Ivi, p. 14.25 Ivi, p. 12.26 R. Paris, La croce tatuata, cit., p. 213.

lontà e lo fa agire contro l’ordine eterno della morale. Invece per Renzomarxista, e in questo un po’ demartiniano, la Brutta Bestia è radicatanelle profondità del cuore superstizioso di sua madre, riassume e rie-suma tutte le sue «paure di essere vinta da una forza superiore» che,per motivi eminentemente storici, per il «dramma storico» che si trovaa vivere, è incapace, di controllare razionalmente. Eppure il Paris nar-ratore di Ultimi dispacci della notte rievoca nei suoi personaggi popo-lani le credenze della madre e in certo senso le fa proprie, desumendoda esse le chiavi interpretative più adatte a cogliere il senso più profondoai fatti di cui va scrivendo, incomprensibili a qualsiasi altro modelloermeneutico.

Gli storici locali non erano riusciti, nelle loro versioni dei fatti, adandare oltre la spiegazione religiosa, ed applicarono ad essi le catego-rie della devozione e della sua iperbole: il «fanatismo religioso». Cosìsentenziò l’Avvocato Falcone, di Avezzano:

In quella tristissima sera una folla ingente, composta da diverse mi-gliaia di persone, mossa, eccitata dal fanatismo religioso per il sacrilegofurto commesso, e più per lo sfregio arrecato alle ossa dei Santi Mar-tiri sparse nella Chiesa, si era addensata violenta innanzi alla caserma.Si poteva ben dire che tutta la popolazione valida e capace alla prote-sta costituiva quella sera la folla che dall’atto di fede rinnovato ai pro-pri patroni, passava poi all’atto della strage più selvaggio e più bru-tale27.

Aggiungendo magnanimo: «Questo il fatto umano, atroce ma spie-gabile»28, dovuto alla «idolatria rigida» da cui «attraverso i secoli lamassa non è riuscita a liberarsi»29. Lo stesso giudizio emette Di Renzo,riprendendo le parole di Falcone30.

Come gli storici locali, i personaggi del romanzo di Paris, tuttiesclusi dalla partecipazione alla criminalità della folla, sembrano nonriuscire a capire il reale movente del linciaggio, non ammettono tantacrudeltà per una cosa così da poco come un furto di scarso dannoeconomico. Sembrano mantenere la distanza che il giovane Renzo sen-tiva ingombrante tra sé e sua madre, tra il suo mondo e il mondo dilei. Tutto si consuma nella dialettica interno-esterno ed è in questa op-

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27 A. Falcone, La folla criminale, cit., p. 32.28 Ivi, p. 147.29 Ivi, p. 145.30 E. Di Renzo, Celano ieri e oggi, cit., p. 37.

posizione che va ricercata la cornice di senso per quel delitto di folla:se la venerazione per i Santi Martiri è il valore fondante la comunità,il loro disprezzo può essere un elemento perturbatore per la comunitàstessa, un fattore di disgregazione sociale.

È la venerazione dei Santi Martiri, virtualmente limitata al paese, chestabilisce una linea di demarcazione diretta tra chi è celanese e chi nonlo è. Il loro nome è sempre sulle labbra dei cittadini, seppure invaria-bilmente nelle bestemmie […]. Avrebbe poco senso per gli altri male-dirli, perché dagli altri essi non sono considerati allo stesso modo. ecomunque se uno straniero venisse in paese a bestemmiare i Santi Mar-tiri, questo sarebbe considerato un insulto verso l’intero sistema deivalori celanesi31.

Quella della bestemmia, mi sembra una chiave per meglio com-prendere il rapporto esclusivo tra Patroni e comunità celanese: la ce-lanesità passa in tutti i sensi attraverso i Santi Martiri, vere ipostasidella collettività, da cui tale collettività prende vita, a cui ricorre per laprotezione e da cui è punita in caso di «peccato». Un peccato controla socialità, si intende.

In tutto questo certamente meglio può essere collocato il sacrilegiodel Tomei contro quelle urne dorate. Il suo è un attentato diretto alcuore stesso della comunità celanese, che nelle ossa dei Santi Patroni,nel loro sangue, che fecondò il suolo dove ora sorge il paese, si ri-specchia come unità.

Tomei è uno straniero, e del resto non poteva essere altrimenti.L’offesa arriva da fuori i confini sociali del gruppo: già prima che siscoprisse il ladro nel fienile dove si era ricoverato, tutti sono certi chesi tratti di un «forestiero». «Dentro il Caffè Italia c’era chi spergiuravache il ladro fosse un forestiero, magari di Avezzano»32. Secondo VanGennep lo «straniero» è un essere considerato sacro in molte popola-zioni: «un benefattore o un malfattore che agisce in modo sovranna-turale»33. I Santi Martiri sono «stranieri» che hanno fondato mitica-mente la comunità celanese, mediante il loro sacrificio. Il «Peluso» èun forestiero mostruoso che mette in crisi la stessa collettività medianteil suo agire sacrilego. Sono due facce della stessa categoria (extra)so-

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31 G.O. Smith, La comunità e lo Stato, cit., p. 207.32 R. Paris, Ultimi dispacci della notte, cit., p. 34.33 A. Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1981, p. 23.

ciale, che a livello totemico, abbiamo visto, spesso si riconciliano: ildio e la bestia.

Francesco Tomei è un forestiero. Proviene da Morino, un borgopoverissimo ai tempi della storia, in fondo alla Valle Roveto. Era ve-nuto a Celano con i genitori, entrambi morti al tempo dei fatti, pernon morire di fame e vi era rimasto perché, con l’aiuto e la prote-zione di qualcuno era riuscito a vedere impunite le sue bravate concui si guadagnava la sopravvivenza. «I contadini parlavano di lui comedella Brutta Bestia, del diavolo, del Peluso, per via anche dei vistosipeli che gli uscivano dal petto»: egli è l’essenza del male, dell’anti-so-cialità, che assume le sembianze animalesche della natura. Non entra,se non in questa veste, nella cultura del gruppo. Contro di lui gli uo-mini più valorosi del paese, «i meno paurosi» conducono «una vera epropria caccia all’incarnazione del male, al demonio con le corna dimontone, la coda e tutto il resto»34. Il maestro Mirolla, si chiede sgo-mento: «Chi era quel ladro nella loro immaginazione e che cosa eradiventato?» e a Oreste il cantoniere che lo invita a partecipare alla cac-cia, per «stanare» il ladro «come una serpe», risponde: «Stanare, Orè!E tu ti figuri una belva assetata di sangue umano. Vuoi uccidere il malepersonificato, è così?»35. Tomei è diventato, nella mente invasata deimaschi celanesi, il nemico della stabilità sociale della comunità: il suocorpo è trasfigurato nella disumanità, il suo essere esterno ai confiniculturali del gruppo fa sentire come insopportabile la sua condotta de-viante, che pure, probabilmente, sarebbe stata tollerata o neutralizzatarispetto ad un individuo interno al gruppo. La sua «alterità radicale»lo pone sul piano metastorico del mito, della divinità, con la cui na-tura pure è entrato in contatto materialmente e magicamente tramiteil sacrilegio che ha compiuto. Le due essenze, del divino e dell’esserebestiale, si fondono nel corpo del «Peluso», che diventa sovraccaricodi forze magiche: scatta così quello che René Girard definisce il «mec-canismo vittimario», contro di lui la folla è chiamata a ripetere il mitodei Martiri in un sacrificio rituale.

Forse tutto questo può essere letto proprio nei termini girardianidel «sacrificio» e del «capro espiatorio». La crisi in cui il gesto irreli-gioso del Tomei, nonché i tanti attentati alla società durante le suescorrerie per il Fucino, i suoi furti, gli stupri, hanno immerso la col-

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34 R. Paris, Ultimi dispacci della notte, cit., p. 53.35 Ivi, p. 42.

lettività celanese, assume i tratti di quella che René Girard definisce«crisi mimetica» o «sacrificale». Nel momento in cui «il Peluso» en-tra in contatto contaminante con le reliquie dei Santi Patroni assumesu di sé una maggiore vicinanza all’«oggetto», si fa, in certo senso,«imitatore» dei devoti celanesi che quelle urne baciano e venerano: ilsuo «modello» (Paris stesso lo ritrae come bestemmiatore dei SantiMartiri!). Il sistema dell’imitazione per Girard è infatti «triangolare» epuò dare vita ad una collisione tra modello e imitatore nel momentoin cui desiderano lo stesso oggetto. In qualche modo, dunque, il sa-crilegio del Tomei è anche un suo tentativo di avere asilo nel gruppo,di essere riconosciuto come membro della collettività, ma per una viairregolare e negativa, che il gruppo non può accettare. Ne nasce una«rivalità mimetica» profonda, che mina alla radice proprio la tenutasociale della comunità celanese stessa: viene revocata in questione lademarcazione tra chi è dentro e chi è fuori, secondo il meccanismototemico su cui ho provato a ragionare prima. Si pone una equiva-lenza, anche se i due membri portano un segno contrario, tra il be-stiale «Peluso» e i Santi Martiri, e dunque Celano che in essi è per-sonificata. Scrive René Girard a proposito:

In seno alla crisi mimetica, la vittima è solo un antagonista in mezzoagli altri, il doppio di tutti gli altri, il gemello nemico, ma la polariz-zazione mimetica fa convergere su di essa tutte le significazioni di crisie di riconciliazione. Diviene, dunque, prodigiosamente significante especifica. In essa, dunque, si effettua il passaggio dall’aleatorio allo spe-cifico, la fine dei doppi e il ritorno al differenziato36.

Quindi la «doppiezza» del Peluso, la sua ormai sacra ambivalenza,gettano nel disordine generalizzato, espongono al rischio dell’esplo-sione della violenza intestina il gruppo, il quale per sopravvivere e ri-tornare all’ordine non può che agire ritualmente, secondo lo schemademartiniano del «così-come» destorificante37, replicando l’evento mi-tico che quell’ordine ha dischiuso per la prima volta: il parroco DonGiacomo, appena sa dell’orrenda fine del Tomei, sintetizza brutalmentecosì questa trasformazione rituale del sacrilego in vittima sacrificale, la

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36 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano1983 (ed. orig. 1978), p. 70.

37 Si veda, ad esempio, E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 2002 (ed.orig. 1959), p. 104.

rifondazione del mito originario: «San Peluso Martire!»38. Il «delittorituale» è proprio l’esito del «meccanismo vittimario» che il furto delleurne ha avviato, per quanto ho provato ad illustrare. La carica esplo-siva e disintegrante che la «crisi mimetica» ha innescato viene convo-gliata da tutto il gruppo sociale contro quello che, secondo Girard, èun universale dell’etnologia: il «capro espiatorio». Per debellare il con-flitto, quindi, che dissolverebbe i legami sociali, una collettività puòelaborare dei divieti, che tengano lontana la «crisi mimetica», o dei ri-tuali, che, viceversa, incanalino la violenza parossistica e generalizzataall’interno di sequenze e modalità programmate e soprattutto controun’unica vittima, quella che Girard definisce «arbitraria», perché im-putata della colpa generatrice dei conflitti. Nel caso del «Peluso», percome Ultimi dispacci della notte ce lo presenta, la «causa insignificante»del linciaggio, il furto delle urne dorate, è solo il pretesto perché siadesignata la vittima sacrificale, una vittima che ha anche altre caratte-ristiche fondamentali allo scopo del rituale: è «diversa» e dunque «unica»,e poi è indifesa: il ladro è orfano e solo, non ha nessuno che vendi-candola potrebbe ravvivare la violenza. Gli insulti e i maltrattamentiche il Tomei subisce prima di essere ucciso e dopo, già morto, rien-trano in quello schema per cui «la comunità sfoga la sua rabbia con-tro la vittima arbitraria, nell’assoluta convinzione di aver trovato l’u-nica causa del suo male»39; le sevizie che si accaniscono contro il ca-davere hanno un senso metaforico utile a definire proprio il «caproespiatorio», a neutralizzare la sua carica contaminante e pericolosa: gliviene rotta la testa con un accetta, più o meno secondo l’iconografiadel mito dei martiri, gli vengono tagliate le mani, che avevano rubato,gli vengono strappate le budella, le interiora, come si fa con gli ani-mali da mangiare, viene evirato come punizione per gli stupri che ave-vano messo in dubbio la genealogia dei maschi del paese, ma ancheper evitare che il suo seme forestiero potesse imbastardire la purezzadel gruppo. Quindi appeso ad una inferriata rimane esposto agli sputie alla derisione di tutti: «l’iconografia è quella della crocifissione»40.L’ultimo atto del rito è l’olocausto, il fuoco come simbolo di purifi-cazione. Alla fine, neutralizzato e decontaminato il cadavere del «Pe-luso», una volta che la violenza e il disordine hanno raggiunto il colmo,«la comunità si ritrova completamente solidale», compattata dalla vit-

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38 R. Paris, Ultimi dispacci della notte, cit., p. 100.39 Ibidem.40 Ivi, p. 108.

tima: il suo sacrificio riguadagna il gruppo all’unità. È quello che glistessi personaggi del romanzo notano, stando appena fuori dall’infernodel «delitto rituale»: «Quale invidiabile unità»41 esclama DompicheleMaruso osservando la piazza riempita di cafoni, una unità che non sivede nemmeno nelle processioni religiose e nelle sfilate fasciste, due ri-tuali che puntano alla celebrazione dell’identità locale. Le campane astormo e la musica della banda, sigillano la folla in un’unica frequenzaemotiva. La pace sociale è stata ristabilita, Celano è una città nuova,per quanto macchiata dall’infamia di quel delitto. Come il mito deiMartiri era stato fissato in una temporalità precisa e reso «evento sto-rico», pur sempre con una valenza fondatrice mitica, così il fatto dicronaca nera del 30 dicembre 1923 viene trasfigurato in quello che Fa-bietti e Matera chiamano «evento di memoria», «un accadimento in-vestito dal potere simbolico di evocare la comune appartenenza di al-cuni individui a una collettività»42. Celano è, da quel giorno, il paesedella «folla criminale» con buona pace di chi avrebbe voluto depen-nare quell’evento dalla cronologia della storia locale. Ciò che potrebbeimpedire la tradizione di quella fama cattiva sarebbe la perdita dellamemoria, la fine delle testimonianze, solo motore di quella tradizione.Senza di esse il legame che richiama al presente il passato viene a spez-zarsi. Ma è poi veramente ciò che la collettività celanese vuole? Peranni la fama dei celanesi è stata determinata da quel fatto di sangue,alla cui mitizzazione loro stessi hanno contribuito negli anni: «Ti fa-remo come al Peluso» è la minaccia che risuona nelle orecchie di Pa-ris bambino a Celano, una minaccia che io stesso ho sentito fino anon troppo tempo fa in questo che è anche il mio paese. E se unevento si cristallizza nei modi di dire dei bambini, fino a perdere, ma-gari, di significato, ciò non cancella la violenza che in esso è implicita,la cui costante evocazione riconduce a quella rifondazione mitica, ri-propone i termini sublimati di quella tregua sociale che fa vivere la co-munità. La prepotenza è da queste parti ancora un valore. E comun-que il racconto di quei giorni rivive ancora nelle fonti che, pur nel-l’intento, a volte, di scagionare la collettività dalla responsabilità deldelitto, di ristabilire la «verità storica», ha contribuito a rinfocolare lafinzione del mito. «Il mito», infatti, «è una figura del ricordo, proprio

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41 Ivi, p. 59.42 U. Fabietti - V. Matera, Memoria e identità. Simboli e strategie del ricordo.

Meltemi, Roma 1999, p. 91.

in quanto racconto delle origini, che ha il potere evocativo, simbolico,di fondare la realtà presente», e «anche in presenza di una scrittura ga-rante, di documenti probanti, di testimonianze affidabili la finzioneconserva il suo ruolo fondante: la storia è anch’essa costruzione, pro-dotto culturale, non solo racconto degli eventi, di ciò che è accaduto,ma accadimento, evento essa stessa»43.

Così assume profondamente senso leggere la motivazione che l’e-ditore del periodico «Il Celanese», voce della città, ha addotto per lasua iniziativa di ristampa del libretto «La folla criminale», solo appenaqualche anno fa:

Ecco che a rinverdire l’accadimento [il caso Tomei] e tutto ciò che neconseguì ci pensa il Fato. Alcuni mesi or sono, notavo un libro tratanti dimenticati nella polvere di una libreria antiquaria della Capitale…Sì, si trattava della «Folla criminale» di cui avevo solo sentito parlare.Bando agli scrupoli e senza rimpiangere le poche decine di euro l’hoacquistato, pensando di riproporlo alle stampe attraverso l’Editoriale«Il Celanese», affinché coloro che sono assetati di conoscenza della no-stra storia possano attingere, giudicare e rivivere gli eventi, dando unsoffio sulla polvere del nostro passato di cui, nel bene e nel male, dob-biamo essere comunque fieri44.

L’intento, nella prosa enfatica dell’editore, non è solo quello di fareStoria, ma di «rivivere» quegli eventi tragici, la cui ripetizione, la cuimemoria viva deve rinfocolare in chi ce l’ha già e suscitare in chi nonce l’ha la fierezza della propria storia, della propria identità di «cela-nesi».

Sarebbe fin troppo semplice problematizzare l’uso, in sede storio-grafica, di una serie così eterogenea di fonti: ciascuna di esse ha loscopo di esporre, tautologicamente, il senso e il giudizio per esprimereil quale è stata scritta. Della ricostruzione dei magistrati si è già detto,così pure degli intenti auto-assolutori degli intellettuali locali, i qualicolpevolizzano, con piglio illuminista, l’irrazionalità superstiziosa di unpopolo ignorante, che non esiste più. Ciascuno utilizza questo «eventodi memoria» per costruire la propria rappresentazione della comunità.Così anche Smith, l’antropologo, e Paris, lo scrittore, raccolgono ilpunto di vista «nativo», per la loro versione attenta alla portata dei

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43 Ivi, p. 93.44 G. Sforza, Un soffio sulla polvere del passato, prefazione ad A. Falcone La

folla criminale, cit.,. pp. 1-2.

simboli. Le diverse narrazioni dei fatti rispecchiano altrettante posi-zioni rispetto alla comunità: gli storici sono anche testimoni interni algruppo, ma applicano modelli interpretativi universali, propri della cul-tura «ufficiale»; lo scrittore e l’antropologo, esterni al gruppo (seppureentrambi in una posizione ambigua) utilizzano modelli interpretativiparticolari, legati alla specificità della cultura locale. D’altra parte «sca-vando dentro i testi, contro le intenzioni di chi li ha prodotti, si pos-sono far emergere voci incontrollate», per raggiungere, come scriveCarlo Ginzburg, dei «frammenti di verità»45, al di là delle inevitabiliincrostazioni retoriche, narrative, politiche. La memoria di un fatto sto-rico non è che rappresentazione, mediata da una costruzione che è dinecessità narrativa e piegata a uno scopo, per lo più politico (e dun-que, identitario); eppure il fatto esiste e resiste, collocato nello spazioe nel tempo, in tutta la sua realtà. Crudele, terribile realtà, nel casospecifico. Ciò che cambia (e lo cambiano) sono le voci che lo raccon-tano al presente: quella «miscela opaca di ricordo e di finzione nellaricostruzione del passato»46, infatti, ha sempre, secondo Paul Ricoeur,l’effetto (o la causa) dell’inclusione della futurità nell’apprensione delpassato»47. La dialettica interno/esterno corrisponde, dunque, a una dia-lettica di temporalità, non solo nel senso che si è già visto: le inter-pretazioni dei resoconti giuridici e storici presi in considerazione, de-terminano il fatto in un tempo puntuale, eccezionale e irripetibile, iltempo della storia, mentre le interpretazioni antropologiche, che ten-gono presente il racconto popolare, lo inseriscono in un circuito tem-porale che ritorna sempre all’identico, il tempo del mito e del rito. Sela storiografia in quanto «scrittura della storia» è un «discorso misto»,come pensava De Certeau, essa è costretta a barcamenarsi tra la di-mensione della «narrativizzazione e quella della «semantizzazione»48,per cui si interesecano modelli atemporali e cronologie: alla pluralitàstratificata dei documenti, delle storie e delle interpretazioni, il saperestoriografico risponde con «l’unicità della ricomposizione testuale»49,

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45 C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano, p. 10.46 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, introd. di

R. Bodei, il Mulino, Bologna 2004, p. 17.47 Ivi, p. 9.48 M. De Certeau, L’altro nella scrittura della storia, in La scrittura dell’altro, a

cura di S. Borutti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 105 (già pubblicato initaliano in La scrittura della storia, Il Pensiero Scientifico, Torino 1977).

49 Ivi, p. 106.

alla loro metaforizzazione inevitabile, il discorso storico oppone, senon proprio la verificabilità oggettiva, un alto grado di «affidabilità».La scrittura della storia impone un ordine laddove le «testimonianze»,le «fonti» seminano il disordine, trasformando un avvenimento, i rac-conti e le interpretazioni ad esso collegati, in un fatto storico, lo rendepensabile come tale. Anche un omicidio di folla avvenuto in un paesedi montagna novant’anni fa.

Francesco Della CostaPost-doc all’Hebrew University of Jerusalem

[email protected]

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