La filosofia, 1. La ricerca filosofica di Cicerone

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LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Volume VII I TESTI: 2. LA PROSA Direttore PIERGIORGIO PARRONI A cura di ALESSANDRO FUSI, ANGELO LUCERI, PIERGIORGIO PARRONI, GIORGIO PIRAS S SALERNO EDITRICE ROMA

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LO SPAZIO LETTERARIODI ROMA ANTICA

Volume VII

I TESTI: 2. LA PROSA

DirettorePIERGIORGIO PARRONI

A cura diALESSANDRO FUSI, ANGELO LUCERI,

PIERGIORGIO PARRONI, GIORGIO PIRAS

SSALERNO EDITRIC E

ROMA

ISBN 978-88-8402-746-7

Tutti i diritti riservati - All rights reserved

Copyright © 2012 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la riproduzione,la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasimezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica,ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà

perseguito a norma di legge.

In redazione:

CARLO FRANCO

Inserti iconografici:

EUGENIO POLITO

Traduzioni:

Carlo Franco e Giusto Traina

PRESENTAZIONE

Questo volume antologico di prosa latina, vii della serie, che va ad affiancarsi al vi

dedicato alla poesia, completa la sezione Testi dello Spazio letterario di Romaantica, un corredo indispensabile per chi intenda accostarsi alla letteratura latina nonsolo attraverso i pur assai utili saggi critici e gli ampi panorami letterari (a questa esi-genza provvedono egregiamente i voll. i-v), ma anche ascoltando direttamente le vo-ci degli scrittori latini ed entrando nel vivo dei problemi interpretativi posti dalle loroopere.

Come per il vi volume, quella che qui presentiamo si distingue da consimili, spes-so pregevoli, opere antologiche oggi in circolazione soprattutto per due motivi: la scel-ta di organizzare, in carattere con l’impostazione generale dello Spazio letterario, lamateria per generi letterari, e quella di non sorvolare sulle difficoltà che ogni testo ine-vitabilmente pone, ma di presentarle al lettore fornendogli nel contempo gli strumen-ti necessari per affrontarle e possibilmente avviarle a soluzione, sia pure spesso col be-neficio del dubbio. Per questo, di ogni testo si precisa l’edizione critica da cui è tratto enel commento si discutono, quando è il caso, le scelte compiute dall’editore, specie lad-dove non si condividono, lasciando peraltro sempre al lettore la possibilità di farsiun’opinione personale, anche diversa da quella del curatore. Al commento, che nellasua sobrietà non trascura alcuno degli altri problemi interpretativi che il testo esami-nato pone (storici, letterari, antiquari, linguistici, stilistici), sono complementari le tra-duzioni a fronte, tutte originali, che si sforzano di essere limpide e piane e non hannoaltro scopo che quello di suggerire, senza pretese di letterarietà, una possibile interpre-tazione del testo prescelto. Al lettore attento non sfuggiranno alcune novità sia critico-testuali che esegetiche disseminate qua e là nel corso della trattazione.

Già nella premessa al volume sulla poesia si erano messi in luce i principali peri-coli, del resto ben noti, che comporta la disposizione della materia per generi letterari(“smembramento” di alcuni autori, qualche inevitabile forzatura) e non è il caso ditornarci qui, ma non possiamo fare a meno di ribadire che essa presenta sicuri van-taggi: se non vi è dubbio che ogni scrittore entra per cosí dire in gara con chi l’ha pre-ceduto nello stesso genere, questo è tanto piú vero per uno scrittore antico. Avere dun-que di fronte a sé l’evoluzione di un genere letterario attraverso i suoi piú significati-vi rappresentanti dal periodo arcaico alla tarda antichità è indispensabile per farsiun’idea completa e organica di una storia letteraria cosí ricca e complessa come quelladi Roma. Gli autori che in base al criterio adottato vengono per necessità di cose ri-

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partiti in piú sezioni recuperano in qualche modo la loro unità nelle schede bio-bi-bliografiche finali che comprendono tutti gli autori antologizzati e che vanno a costi-tuire un aggiornamento della bibliografia contenuta nel vol. v.

Il volume si compone di sei sezioni: la storiografia, la retorica e l’oratoria, la lette-ratura filosofica, il romanzo, gli epistolari, la letteratura tecnico-scientifica ed erudita.Ognuna delle sezioni si apre con un’introduzione di carattere generale sul genere let-terario di cui tratta (corredata di bibliografia) e altrettanto avviene per le sottosezionidestinate a illustrare, a seconda dei casi, uno o piú autori; di quello o di quelli anto-logizzati, che immediatamente seguono, ogni singolo brano è fornito di una brevepresentazione che rende ragione della scelta e ne illustra il contenuto. Quando se neoffra l’opportunità si rinvia ai precedenti volumi della collana in modo da stabilireun utile rapporto di continuità all’interno dell’intero corpus. Il proposito di esercita-re la scelta sia sui “maggiori” che sui “minori” ha creato, come è facile immaginare,difficoltà analoghe se non addirittura superiori a quelle incontrate per la poesia. Masi tenga presente che i brani prescelti, anche se di necessità esigui, non perseguono loscopo del florilegio, ma mirano piuttosto a suggerire, attraverso exempla comunquesignificativi, un metodo di lettura, che il lettore accorto potrà esercitare con ben mag-giore ampiezza sull’intera opera di ogni singolo autore.

I curatori, pur tenendosi in stretto contatto fra loro e con il coordinatore in mododa dare all’insieme un aspetto il piú possibile unitario, si sono divisi variamente il la-voro in base alle loro competenze e preferenze: Alessandro Fusi ha curato interamen-te il romanzo e parzialmente la filosofia (cap. ii) e gli epistolari (nota introduttiva,capp. i-iv); ad Angelo Luceri si devono per intero la storiografia e in parte gli episto-lari (capp. v-vi) e la letteratura scientifica (capp. vi, viii-ix); di quest’ultima si de-vono a me il saggio introduttivo e alcune sezioni (capp. i, iv-v, vii); delle restanti(capp. ii-iii) si è occupato Giorgio Piras, che è anche autore della sezione retorico-oratoria e di parte di quella filosofica (nota introduttiva, cap. i). Di Alessandro Fusisono le schede bio-bibliografiche ad Apuleio, Frontone, Petronio, Plinio il Giovane;di chi scrive le schede a Celso, Columella, Plinio il Vecchio, Pomponio Mela; diGiorgio Piras le schede a Cicerone, Frontino, Gellio, Macrobio, Quintiliano, dei dueSeneca, Varrone, Vitruvio; le rimanenti si devono ad Angelo Luceri. L’inserto icono-grafico è, come per il vol. vi, di Angelo Luceri. A Giorgio Piras si deve la revisione ge-nerale e la redazione dell’indice delle abbreviazioni e dei nomi e delle cose notevoli.Un vivo ringraziamento a Barbara Pulcini per la collaborazione.

Piergiorgio Parroni

presentazione

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ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE *

AL R. Anthologia Latina sive Poesis Latinae supplementum, edd. F. Bueche-ler-A. Riese, pars i, Carmina in codicibus scripta, 1-2, rec. A. Riese,Leipzig, Teubner, 1894-19062 (rist. Amsterdam, Hakkert, 1972-1973).

AL Sh. B. Anthologia Latina, i, Carmina in codicibus scripta, rec. D.R. Shackle-ton Bailey, 1. Libri Salmasiani aliorumque carmina, Stuttgart, Teub-ner, 1982.

ANRW Aufstieg und Niedergang der römischen Welt. Geschichte und KulturRoms im Spiegel der neueren Forschung, hrsg. H. Temporini-W. Haa-se, i-, Berlin (poi Berlin-New York), de Gruyter, 1972- (in conti-nuazione).

CC, SL Corpus Christianorum, series Latina, i-, Turnhout, Brepols, 1954- (incontinuazione).

CIL Corpus inscriptionum Latinarum, i-, Berlin (poi Berlin-New York),Reimerus (poi de Gruyter), 1853- (in continuazione).

CRF Comicorum Romanorum praeter Plautum et Syri quae feruntur sententiasfragmenta, rec. O. Ribbeck, Leipzig, Teubner, 18983 («Scaenicae Ro-manorum poesis fragmenta», ii).

CTC Catalogus translationum et commentariorum, ed. P.O. Kristeller et al., i-ix, Washington, Catholic Univ. of America Press, 1960-2011.

DG Doxographi Graeci, coll. rec. prolegomenis indicibusque instr. H.Diels, Berlin, Reimer, 1879 (rist. ivi, de Gruyter, 1958).

Die römische Satire Die römische Satire, hrsg. J. Adamietz, Darmstadt, Wbg, 1986.Dramatische Dramatische Wäldchen: Festschrift für Eckard Lefèvre zum 65. Geburts-

Wäldchen tag, hrsg. E. Stärk, G. Vogt-Spira, Hildesheim, Olms, 2000. EACL B. Munk Olsen, L’étude des auteurs classiques latins aux XIe et XIIe siè-

cles, i. Catalogue des manuscrits classiques latins copiés du IXe au XIIe siè-cle: Apicius-Juvenal, Paris, Cnrs, 1982; ii. Catalogue [ . . .]: Livius-Vi-truvius, 1985; iii/1. Les classiques dans les bibliothèques médiévales, 1987;iii/2. Addenda et corrigenda. Tables, 1989.

FGrHist F. Jakoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, parti i-iii, Berlin,Weidmann (poi Leiden, Brill), 1927-1958 (CD-Rom, Leiden,Brill, 2004; P. Bonnechere, Indexes of parts i, ii, and iii, indexes of an-cient authors, 1999); AA.VV., Die Fragmente der griechischen Historiker:continued, Leiden-Boston-Köln, Brill, 1998-.

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* Le riviste sono indicate secondo il sistema abbreviativo utilizzato nell’Année Philologique, cuisi rimanda per lo scioglimento delle sigle.

Filologia e forme Filologia e forme letterarie: studi offerti a F. Della Corte, i-v, Urbino, letterarie Univ., 1987.

FPL Bl. Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium etLucilium, post W. Morel novis curis adhibitis ed. C. Buechner,edit. tertiam auctam cur. J. Blänsdorf, Leipzig, Teubner, 1995.

GL Grammatici Latini, ex rec. H. Keilii, i-vii + Supplementum, Leipzig,Teubner, 1855-1880 (rist. Hildesheim, Olms, 2007).

GLM Geographi Latini minores, coll., rec., prolegomenis instr. A. Riese,Heilbronn, Henninger, 1878 (rist. Hildesheim-Zürich-New York,Olms, 1995).

GRF Grammaticae Romanae Fragmenta, rec. H. Funaioli, Leipzig, Teub-ner, 1907 (rist. Stuttgart, Teubner, 1969).

Groningen Colloquia Groningen Colloquia on the Novel, ed. H. Hofmann et al., i-ix, Gro-ningen, Forsten, 1988-1998.

Hofmann-Szantyr J.B. Hofmann-A. Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik, Mün-chen, Beck, 1965 (riv. 1972).

Hommages à C. Hommages à Carl Deroux, éd. P. Defosse, i-v, Bruxelles, Latomus,Deroux 2002-2003.

HRR Historicorum Romanorum reliquiae, ed. H. Peter, i-ii, Leipzig, Teub-ner, 19142-19061 (rist. Stuttgart, Teubner, 1967).

ILS Inscriptiones Latinae selectae, ed. H. Dessau, i-iii, Berlin, Weidmann,1892-1916.

Incontri triestini Incontri triestini di filologia classica, a cura di L. Cristante et al., Trie-ste, Univ., 2003- (in continuazione).

La prosa latina La prosa latina. Forme, autori, problemi, a cura di F. Montanari, Ro-ma, La Nuova Italia Scientifica, 1991 (rist. Roma, Carocci, 2001).

MGH, AA Monumenta Germaniae historica, Auctores antiquissimi, i-xv, Berlin,Weidmann, 1877-1919.

ORF Oratorum Romanorum fragmenta liberae rei publicae, ed. H. Malcovati,Torino, Paravia, 19764.

Otto A. Otto, Die Sprichwörter und sprichwörtlichen Redensarten der Römer,Leipzig, Teubner, 1890 (rist. Hildesheim, Olms, 1962).

Papers on Grammar Papers on Grammar, ed. G. Calboli, i-ix, Bologna, Clueb (poi Ro-ma, Herder), 1980-2005.

Papers on Rhetoric Papers on Rhetoric, ed. L. Calboli Montefusco, i-x, Bologna, Clueb

(poi Roma, Herder), 1993-2010.Prefazioni, prologhi, Prefazioni, prologhi, proemi di opere tecnico-scientifiche latine, i-iii, a cura

proemi di C. Santini, N. Scivoletto e L. Zurli, Roma, Herder, 1990-1998.RAC Reallexikon für Antike und Christentum. Sachwörterbuch zur Auseinan-

dersetzung des Christentum mit der antiken Welt, hrsg. Th. Klauser-E.Dassmann, i-, Stuttgart, Hiersemann, 1950- (in continuazione).

RE Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, hrsg. G.

abbreviazioni bibliografiche

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Wissowa-W. Kroll-K. Witte-K. Mittelhaus-K. Ziegler, i-xxiv +ia-xa + xv Supplemente, Stuttgart (poi München), Metzler (poiDrukkenmüller), 1893-1978.

ROL Remains of Old Latin, ed. transl. E.H. Warmington, i-iv, Cam-bridge (Mass.), Harvard Univ. Press, 1935-1940 (con varie ristam-pe).

SLLRH Studies in Latin Literature and Roman History, ed. C. Deroux, i-xiv,Bruxelles, Latomus, 1979-2008.

Studi Noniani Studi Noniani, Genova, Ist. di filol. class. e med. (dal 1987 Darfi-

clet), 1967-.Studi Perutelli Studi offerti ad Alessandro Perutelli, a cura di P. Arduini et al., Roma,

Aracne, 2008, 2 voll.SVF Stoicorum veterum fragmenta, coll. I. ab Arnim, i-iii, Leipzig, Teub-

ner, 1903-1905; iv, ivi, id., 1924 (con varie ristampe; trad. it. a curadi R. Radice, Milano, Rusconi, 1998).

ThlL Thesaurus linguae Latinae, i-, Leipzig (poi Berlin-New York), Teub-ner (poi de Gruyter), 1900- (in continuazione).

Tosi, Dizionario R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano, Rizzoli(Bur), 1991.

TRF Tragicorum Romanorum fragmenta, rec. O. Ribbeck, Leipzig, Teub-ner, 18973 («Scaenicae Romanorum poesis fragmenta», i).

TT Texts and Transmission. A Survey of the Latin Classics, ed. L.D. Reyn-olds, Oxford, Univ. Press, 1983.

VS H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker: Griechisch und Deutsch,fünfte auflage hrsg. W. Kranz, i-iii, Berlin, Weidmann, 1934-1937(i: 19568).

*

Avvertenza sui testi. I segni critici adottati nel testo latino e nella traduzione so-no quelli consueti nella tradizione ecdotica: le parentesi uncinate (‹ ›) segnalano leintegrazioni degli editori, le parentesi quadre ([ ]) porzioni di testo ritenute non ge-nuine e da espungere, le cruces († †) quelle non sanabili, tre asterischi (***) una lacunariconosciuta ma non colmata. Degli interventi critico-testuali piú significativi si se-gnala di solito l’autore, rimandando alle edizioni critiche di riferimento per le infor-mazioni piú esaustive in proposito.

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abbreviazioni bibliografiche

III

LA FILOSOFIA

NOTA INTRODUTTIVA

La letteratura di argomento filosofico stentò ad affermarsi a Roma in quantotale, come impegno intellettuale degno di applicazione particolare e continua,e a essere riconosciuta e valorizzata adeguatamente nell’ambito del sistemaletterario latino. Gli sforzi maggiori furono compiuti in tal senso da Ciceroneche si mostra pienamente consapevole della scarsa rilevanza della produzionefilosofica a lui precedente (per cui probabilmente si deve pensare a una sorta di“letteratura tecnica”, finalizzata direttamente e strettamente alla diffusione dideterminate conoscenze specialistiche grazie all’ausilio della scrittura: l’inten-to divulgativo sarà stato uno degli scopi principali e di certo non si può parlaredi “prosa letteraria” o “prosa d’arte”). A Cicerone si deve del resto, cosí comeper l’oratoria – e anzi probabilmente in misura ancora piú rilevante –, la rico-struzione delle prime fasi dell’affermazione di una disciplina e di una lettera-tura filosofica a Roma (e vedremo che molteplici sono i punti di contatto tra idue ambiti). Ma la ricerca filosofica non è mai stata neanche per lui una di-mensione realmente autonoma dall’attività pubblica, anzi è spesso considera-ta un presupposto necessario, accettabile in quanto portatrice di esigenze poli-tiche e sociali in senso lato, stadio preliminare sia per l’esercizio dell’oratoria inmaniera compiuta ed efficace sia per la conduzione dello stato (solo nei mo-menti di piú acuta crisi del proprio agire politico prima della morte di Cesarel’Arpinate è stato tentato dal ritiro negli studi e nella speculazione).

La diffusione della riflessione filosofica a Roma fu senza dubbio il portatodella conoscenza del patrimonio filosofico greco, in particolare dei risultaticonseguiti dalle varie scuole di età ellenistica, in sostanza quindi della produ-zione filosofica recente o contemporanea: il confronto con tale produzionedovette infatti iniziare a Roma abbastanza presto, anche se non con gli stessitempi e la stessa consistenza e pervasività di quello che avvenne col patrimo-nio greco di ambito piú propriamente letterario, poetico o teatrale, ma dovet-te essere un fenomeno abbastanza rilevante, sostanzialmente da comprenderenella piú generale fase di ellenizzazione della cultura romana “alta” avvenutanel corso del III sec. a.C., una fase culminata nel periodo successivo alla con-clusione della seconda guerra punica (241 a.C.) con l’inizio di una produzioneletteraria in lingua latina comparabile con quella delle altre grandi capitali delmondo ellenistico. Per il piú antico periodo preletterario si può solo imma-ginare l’esistenza di un sapere magico-religioso che poteva concretizzarsi in

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formule e rituali espressi negli antichi carmina, di cui quasi nulla ci è giunto. Di certo una fase piú rilevante di approfondimento della speculazione gre-

ca si ebbe nel corso del II secolo a.C., un periodo di rinnovata e piú profondaellenizzazione della cultura romana, di cui non restano però che attestazioniesterne, anche perché scarsa fu la produzione di opere filosofiche in latino pri-ma del secolo seguente. Del resto di opere latine di argomento filosofico scrit-te in età repubblicana a noi non rimangono in forma completa che gli scritti diLucrezio e Cicerone e per il resto ci dobbiamo accontentare di pochi fram-menti e di testimonianze antiche piú o meno attendibili ed esaustive. Sembraperaltro probabile che molte delle idee provenienti dalla filosofia greca, con-cernenti in particolare i problemi etici, ma anche questioni di dialettica e logi-ca e di fisica, circolassero in forma orale, diffuse dall’insegnamento di maestrigreci o esperti della cultura ellenica. Tracce consistenti di esse si trovano ancheall’interno di generi letterari differenti: è questa un’altra costante della filoso-fia romana che la differenzia da quella greca, la scarsa autonomia e la diffusio-ne subordinata all’inclusione in forme letterarie di ambito e contenuto piú va-sto e differente, una peculiarità della produzione latina forse dovuta al fattoche essa è opera di filosofi non professionali, che per lo piú inserivano temi fi-losofici all’interno di altri generi letterari (f i p. 245). Non è escluso che questaparticolarità sia in parte dovuta alle modalità di conservazione dei testi filoso-fici: sono state infatti preservate solo alcune opere di respiro piú ampio, ma giàquesto è un dato di fatto che difficilmente può essere ritenuto casuale e nonpiuttosto il frutto di un interesse privilegiato in tal senso.

Nel periodo arcaico le tracce piú significative di interesse per la speculazio-ne filosofica provengono da un autore dalla profonda conoscenza della lette-ratura greca e fortemente innovativo nei suoi tentativi sperimentali: l’Euheme-rus di Ennio, forse la prima opera in prosa della letteratura latina e l’unica nonpoetica di tale autore, è una rielaborazione in latino dell’opera di Evèmero diMessina (III secolo a.C.) che proponeva un’interpretazione razionalistica de-gli dei che inficiava i cardini della mitologia e della religione tradizionali. An-che dai frammenti rimasti di altri scritti enniani emergono temi di fisica e diteologia, affrontati da angolazioni a quanto pare differenti, dal tono mistico-pitagorizzante (Epicharmus, proemi degli Annales) o evemeristico, e di cui ri-mangono troppo pochi relitti per poter ricomporre un quadro unitario di pen-siero, se mai ci fu; di certo l’opera che conosciamo meglio, gli Annales, sembrapossa essere ricondotta a una posizione piú tradizionale dal punto di vista filo-sofico (tenendo comunque conto del diverso genere e delle differenti motiva-

iii · la filosofia

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zioni ideologiche che ispirarono la composizione). Riflessioni riconducibilialla speculazione filosofica grecizzante si possono trovare anche in Catone(che con il suo Carmen de moribus sembra rinviare piuttosto alla saggezza tradi-zionale degli antenati, come è sottolineato dalla scelta stessa della forma ritmi-co-asseverativa), nelle Satire di Lucilio e persino nelle tragedie e nelle comme-die di Plauto e Terenzio (cosí del resto anche nelle opere teatrali greche presea modello), anche se numerosi sono gli indizi di una certa diffidenza verso unimpegno esclusivo in tal senso (philosophari paucis, ‘filosofare su poche questio-ni, con moderazione’ è la celebre espressione enniana [Ennio, Scaen., 376 Vah-len2, cfr. 95 Jocelyn] assunta da Cicerone come emblematica della ritrosia neiconfronti della speculazione filosofica: Tusc., ii 1). Molto scarsa, o forse addirit-tura inesistente, fu invece la produzione di scritti filosofici particolari in lingualatina. È un fatto che solo molto piú avanti si può parlare dell’esistenza a Romadi vere e proprie “scuole” filosofiche e di intellettuali dediti esclusivamente al-la filosofia.

Secondo Cicerone nessuno si dedicò allo studio della sapienza prima dell’e-tà di Scipione Emiliano e Gaio Lelio: Sapientiae studium vetus id quidem in nostris,sed tamen ante Laeli aetatem et Scipionis non reperio quos appellare possim nominatim,‘Lo studio della filosofia è certamente antico nei nostri, ma non trovo comun-que prima dell’età di Lelio e Scipione alcuno che potrei citare per nome’ (Tusc.,iv 5; vd. anche ivi, i 5 sg., cit. sotto, p. 345). La considerazione rimanda al fattoche l’ambiente di Scipione fu aperto alla frequentazione di filosofi greci di ri-lievo, in particolare lo stoico Panezio che visse a lungo a Roma, ma – nell’am-bito della ricostruzione della storia della filosofia avanzata da Cicerone in tar-da età – ingenera il sospetto di parzialità e può far pensare al tentativo di azze-rare completamente la tradizione filosofica precedente all’età scipionica. Inogni caso l’interesse per il pensiero greco non fu di certo di natura professiona-le, ma fu piuttosto avvertito come compatibile con l’idea che dell’uomo e del-l’impegno politico si andava diffondendo in questi ambienti (f i p. 241). Cer-tamente la filosofia stoica fu quella che ebbe maggiore presa in questo periodonella classe dirigente romana, ma questa tesi – di ascendenza ciceroniana –non può essere dimostrata convincentemente sulla base di fonti diverse. Inogni caso non risultano figure di intellettuali romani dediti alla produzione fi-losofica e speculativa (un’eccezione è forse costituita da Quinto Muzio Scevo-la “Pontifex”, autore di un’importante sistemazione del diritto civile, che si oc-cupò anche di teologia, anche se non è certo che abbia scritto un’opera specifi-ca in materia).

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nota introduttiva

La diffusione della filosofia greca a Roma fu un fenomeno parallelo a quel-lo della retorica e della grammatica greca (vd. sopra, pp. 215, 219-20), fu anzi aesso connesso anche negli attori coinvolti. Queste correnti di pensiero furonospesso guardate con sospetto dalla classe dirigente, in particolare da coloro cheindividuavano in esso i germi di concezioni potenzialmente pericolose per lastabilità politico-sociale e per la religione tradizionale: la partecipazione stessaalla vita collettiva poteva essere messa in crisi da idee e pratiche puramentespeculative (è il caso in particolare dei filosofi di tendenza epicurea, ma nonsolo). Nel 186 a.C. si vietarono con un famoso senatoconsulto i culti bacchici aRoma, un insieme di pratiche misteriche di origine greca. Anche il pitagori-smo di provenienza magnogreca – diffuso a Roma probabilmente già nel IVsec. a.C. (Cicerone ritiene pitagorico il carmen di Appio Claudio Cieco, vissutoalla fine di quel sec.: Tusc., iv 4) – aveva assunto un aspetto misterico che fu fon-te di grave preoccupazione negli ambienti piú tradizionalisti. Nel 181 a.C. fu-rono ritrovati nel presunto sepolcro del re Numa Pompilio sul Gianicolo alcu-ni antichi rotoli sul diritto pontificale e sulla disciplina sapientiae di tendenza pi-tagorica (forse in greco), i cosiddetti « libri di Numa » (f i p. 243). La vicenda,raccontata dagli annalisti (Cassio Emina e Valerio Anziate: vd. Livio, xl 29 3-14; Plinio il Vecchio, Nat. hist., xiii 84-86; Plutarco, Num., 22 2-8) con alcune in-certezze e incongruenze, è interessante come testimonianza della diffusionedel misticismo filosofico di marca pitagorica e come tentativo di nobilitare insenso ellenizzante quelli che dovevano essere tratti di antica saggezza italica:« io credo che per l’ammirazione che avevano nei confronti dei pitagorici i po-steri considerarono anche il re Numa pitagorico » (Cicerone, Tusc., iv 3, chenota l’evidente anacronismo dell’affermazione; cfr. anche Re p., ii 28 sg.; Deorat., ii 154). Il Senato e il pretore Quinto Petilio giudicarono pericolosa la dif-fusione del contenuto di tali libri e ne ordinarono la distruzione, forse per ilcollegamento che essi avrebbero potuto stabilire tra i fondamenti religioso-sa-crali dello stato romano e la speculazione razionalizzante di origine greca.

Il provvedimento di ostilità nei confronti del pensiero greco piú esemplarefu l’espulsione decretata dal Senato nel 161 a.C. di filosofi e retori greci (vd. so-pra, p. 215), una misura che cercava di impedire la diffusione dell’insegnamen-to di queste discipline da parte dei Greci che si trovavano in città. Nel 173 (o nel154) un provvedimento simile aveva già colpito i filosofi epicurei Alcio e Fili-sco: della filosofia di Epicuro (giunta a Roma probabilmente dalla MagnaGrecia già agli inizi del III secolo) venivano infatti viste con sospetto l’esorta-zione al disimpegno dall’attività pubblica e la critica radicale all’intervento di-

iii · la filosofia

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vino nelle vicende umane, ma probabilmente anche l’edonismo estremo pro-fessato era considerato come potenzialmente eversivo e non compatibile conl’etica statale romana. Questa tendenza filosofica continuò comunque a in-contrare il favore dei Romani, forse in questa fase soprattutto da parte delleclassi meno elevate, e sappiamo che tra II e I secolo a.C. circolavano trattati inlatino che divulgavano la dottrina di Epicuro. La nostra fonte è ancora Cicero-ne, che però menziona la diffusione degli scritti degli epicurei “in negativo”,per mettere in evidenza come in questo periodo non vi fosse stata ai suoi occhiuna letteratura filosofica degna di questo nome, ma solo una produzione discarso livello e nessuna elaborazione letteraria, di facile appiglio per gli igno-ranti, ma che raggiungeva in realtà solo gli adepti di questa scuola: era l’assen-za di opere di maggiore impegno, la facile comprensione e l’esortazione al pia-cere ad attirare verso il pensiero di Epicuro (Tusc., i 6; iv 6 sg.). La mancanza dicura formale rende questi opuscoli indegni di essere letti dagli uomini colti(ivi, i 6 e ii 7), mentre ben altro – come vedremo – era l’intento ciceronianonell’atto stesso di mettersi a scrivere opere di argomento filosofico. Poco piúche semplici nomi sono rimasti per noi, forse proprio per il drastico giudiziodell’Arpinate, gli epicurei Tito Albucio, Gaio Amafinio (II sec.) e Rabirio (Isec.), cfr. Acad., i 5: didicisti enim non posse nos Amafinii aut Rabirii similes esse, quinulla arte adhibita de rebus ante oculos positis vulgari sermone disputant, nihil definiuntnihil partiuntur nihil apta interrogatione concludunt nullam denique artem esse nec dicen-di nec disserendi putant, ‘hai capito infatti che non possiamo essere simili ad Ama-finio o a Rabirio, che discettano in una lingua rozza senza alcuna arte di coseevidenti, non pongono distinzioni o partizioni o non concludono nulla con legiuste domande, non ritengono insomma che vi sia alcuna arte del dire o deldisputare’. Di Cazio, contemporaneo di Cicerone, sappiamo di opere di fisicae di etica che non ci sono giunte che gli consentiranno di figurare tra i pochi fi-losofi latini menzionati da Quintiliano (Inst. or., x 1 124, che lo giudica « nonspiacevole » dal punto di vista stilistico). Di tutt’altra rilevanza per la letteratu-ra latina fu invece in questo periodo il poema didascalico-filosofico di Lucre-zio (f i pp. 247-53; vi pp. 172 sgg.), di impianto solidamente epicureo ma dal-l’impegno stilistico e concettuale ben piú profondo di quello che possiamo im-maginare presente in questi trattati prosastici (e ben consapevole della novitàdell’esposizione di tali contenuti in lingua latina in una forma poetica adegua-ta: i 926-30; iv 1-5), anche se fu forse da essi in qualche maniera influenzato dalpunto di vista dottrinale.

Diverse le vicende delle altre scuole filosofiche ellenistiche nel confronto

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nota introduttiva

con la realtà romana, anche se simile fu la diffidenza iniziale della cultura piútradizionale. Nel 155 a.C. furono inviati a Roma in missione diplomatica imaggiori rappresentanti delle principali scuole filosofiche ateniesi del tempo,Carneade, esponente principale della Nuova Accademia, che diede alla scuo-la un indirizzo scettico (non però cosí accentuato come il suo predecessore Ar-cesilao), assieme allo stoico Diogene di Babilonia e al peripatetico Critolao(non appare casuale la mancanza di un esponente dell’indirizzo epicureo). Se-condo Cicerone gli Ateniesi avrebbero scelto di inviare come ambasciatori deifilosofi perché consapevoli dell’interesse della classe dirigente romana per ilpensiero greco. Il racconto della vicenda, che mostra analogie con quella delsoggiorno a Roma del grammatico Cratete (un pensatore non estraneo al con-testo filosofico ellenistico: era di tendenza stoica, vd. infra, p. 639), insiste sulsuccesso che ebbero le conferenze dei tre filosofi, in particolare nel pubblicogiovane; alcuni esponenti conservatori, tra i quali Catone, si sarebbero preoc-cupati di farli ripartire al piú presto. Carneade, tra l’altro, si cimentò in una di-sputa a favore e contro la giustizia che fece molta impressione.

Rimase sempre una certa diffidenza tra i Romani nei confronti delle attivi-tà puramente speculative ed estranee alla dimensione pubblica, un’ostilità peruna disciplina dalla evidente derivazione esterna, spesso praticata e diffusa daintellettuali greci o magnogreci di bassa condizione sociale. È questo scarsocredito in fondo la causa della mancata affermazione della filosofia (Tusc., i 4:honos alit artes, omnesque incenduntur ad studia gloria, iacentque ea semper quae apudquosque improbantur, ‘il prestigio sociale alimenta le arti, e per la fama tutti si in-fiammano agli studi, e giacciono sempre inerti le attività che sono in discredi-to presso ciascuno’) ed è questo il compito che Cicerone si prefigge e affrontacon serietà e impegno, anche retorico-letterario, nella fase finale della propriacarriera (ivi, i 5 sg.), consapevole della possibilità di suscitare per questo nonpochi malumori (Fin., i 1: aliquos futuros suspicor, qui me ad alias litteras vocent, genushoc scribendi, etsi sit elegans, personae tamen et dignitatis esse negent, ‘immagino che cisaranno alcuni che mi richiameranno ad altra produzione letteraria, e riterran-no questo genere di scritti, anche se elegante, non adeguato alla dignità dellapersona’; vd. anche ivi, i 10-12; Off., ii 2: interdum vereor ne quibusdam bonis virisphilosophiae nomen sit invisum mirenturque in ea tantum me operae et temporis ponere,‘talvolta temo che a qualche uomo per bene la parola filosofia risulti invisa eche si meravigli che io occupi tanta energia e tempo in essa’). Non è che i gran-di uomini del passato non abbiano riflettuto con profondità su alcune impor-tanti questioni, ma, impegnati nella bene vivendi disciplina, l’arte di vivere in ma-

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niera onesta (Tusc., iv 5), non hanno dedicato le energie rimaste dalle grandiimprese alla stesura di trattati che non avrebbero raggiunto il grande pubblico(ivi, iv 6). Uno dei maggiori sforzi compiuti dall’Arpinate fu infatti quello diallargare alla classe dirigente romana nel suo complesso l’orizzonte della pro-duzione filosofica in lingua latina, di renderla congruente con i bisogni e le tra-dizioni di Roma: la celebre formula dell’otium cum dignitate riassumeva appun-to il tentativo di una conciliazione tra dimensione speculativa e rispetto dei va-lori etico-politici aviti. Non è casuale in questo senso la scelta di rendere pro-tagonisti dei propri dialoghi filosofici esponenti della classe dirigente, spessopersonalità illustri della storia di Roma ma non filosofi di professione, non so-lo per farne figure esemplari ed emblematiche nel tentativo di rendere accet-tabile l’impiego dell’otium nella riflessione su temi astratti e puramente specu-lativi, ma quasi per calare concretamente nella dimensione romana le temati-che e le idee provenienti dal pensiero greco.

La stessa scelta della forma dialogica, influenzata dalla tradizione platonico-aristotelica e perfettamente adeguata al metodo di ricerca della Nuova Acca-demia di cui si dirà piú avanti, rappresenta anche una messa in scena dramma-tica del dibattito filosofico e presuppone in qualche maniera un pubblico dilettori-ascoltatori con cui si pone in rapporto non dissimile da quello dell’ora-tore con i frequentatori del foro. Sin dalle esperienze giovanili si può dire chefilosofia e retorica convergevano in Cicerone (f i p. 254, cfr. anche p. 255: « L’u-nione di filosofia ed eloquenza è una costante del pensiero ciceroniano e trovaespressione letteraria nella forma del dialogo, che egli adottò come peculiaredella sua scrittura filosofica »); ponendo i personaggi dietro cui si cela l’autoredei dialoghi nella posizione di coloro che cercano di persuadere l’uditorio coni mezzi e gli atteggiamenti della retorica è come se si presentassero le tesi deifilosofi greci al giudizio del pubblico romano (f i p. 257). Vario è il modo di at-tuare questa forma da parte di Cicerone nel corso della sua produzione, che ri-sulterà comunque decisivo anche per la letteratura filosofica successiva, a par-tire naturalmente da Seneca.

La formazione filosofica ciceroniana era stata essenzialmente di improntastoico-accademica, con frequentazione diretta di importanti esponenti dellaNuova Accademia (Filone di Larissa, Antioco di Ascalona) e della Stoa (Dio-doto e Posidonio). La sua conoscenza del pensiero greco piú antico sembra es-sere stata dossografica, a parte la lettura diretta di Platone e forse anche dellaproduzione acroamatica di Aristotele, ma probabilmente poté allargarsi so-prattutto grazie alla frequentazione di numerosi pensatori greci contempora-

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nota introduttiva

nei, sia durante il giovanile viaggio in Grecia che negli anni successivi, in unperiodo in cui molti filosofi ellenici giunsero a Roma.

L’indirizzo accademico fu seguito anche da Marco Bruto, il cesaricida, cheCicerone considerava in qualche modo suo erede anche nell’oratoria (si vd. ilfinale del Brutus) e che si occupò di problemi di etica in alcuni trattati che nonci sono giunti (significativi i titoli Sulla virtú, Sul conveniente, Sulla pazienza), matale scelta non fu molto frequente tra la nobilitas romana, di solito propensa aseguire le dottrine stoiche o epicuree (per le seconde propendeva Tito Pom-ponio Attico) o, soprattutto in età imperiale, neoplatoniche e misticheggianti.Per Cicerone l’impegno filosofico vero e proprio, la scrittura cioè di opere diargomento speculativo, fu un traguardo della tarda età (nelle senili Tusculanaesi tesse un elogio della vita contemplativa e della pura speculazione, vissutanella condizione del saggio che si isola nella sua sapientia in nome della puravirtú), bastevole a se stessa, dopo una precedente subordinazione dello studiofilosofico alla pratica retorica (cosí nel De oratore): Tusc., i 7: Ut enim antea decla-mitabam causas, quod nemo me diutius fecit, sic haec mihi nunc senilis est declamatio, ‘Co-me infatti in precedenza declamavo le cause, cosa che nessuno ha fatto piú alungo di me, cosí questa è ora la mia declamazione senile’. La filosofia viene inquesta fase della sua produzione a inglobare le precedenti attività politiche eretoriche (forse su influenza di Antioco di Ascalona; la filosofia sarebbe del re-sto giunta a Roma dalla Grecia dove languiva e fiorisce – almeno negli auspicidi Cicerone – in una fase in cui l’oratoria ha cominciato la sua fase di declino:Tusc., ii 5), in nome di un’unità di metodo ricostruita e affermata a posteriori:vd. Div., ii 1-4, con la spiegazione dettagliata del piano filosofico perseguito fi-no a quel momento, in part. 4: Cumque Aristoteles itemque Theophrastus, excellen-tes viri cum subtilitate tum copia, cum philosophia dicendi etiam praecepta coniunxerint,nostri quoque oratorii libri in eundem librorum numerum reverendi videntur: ita tres eruntde oratore, quartus Brutus, quintus Orator, ‘E dal momento che Aristotele e pari-menti Teofrasto, uomini che eccellevano sia nell’acutezza che nella facondia,unirono alla filosofia anche gli insegnamenti dell’arte del dire, anche i nostrilibri sull’oratoria risulta che debbano essere considerati in questa schiera di vo-lumi: lo saranno quindi i tre Dell’oratore, come quarto il Bruto, come quinto l’O-ratore’. Il pubblico della filosofia è del resto piú limitato di quello dell’oratoria odel teatro, ma si avverte lo sforzo di porre la filosofia a fondamento di attivitàpiú sentite tradizionalmente dai Romani quali l’oratoria e la politica; divienecosí programmatica l’esportabilità delle idee filosofiche a un largo pubblico(Div., ii 1), raggiungibile grazie agli artifici della comunicazione retorica e let-

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teraria. La filosofia è descritta come fondamento della civiltà umana e libera-trice dai timori (Tusc., v 5: Est autem unus dies bene et ex praeceptis tuis actus peccantiinmortalitati anteponendus, ‘Un sol giorno condotto secondo virtú e sulla basedei tuoi insegnamenti è preferibile a una vita immortale vissuta nell’errore’).

I lavori degli ultimi anni, in particolare la produzione del biennio 45-44, vie-ne a costituire quindi un insieme unitario di opere che – pur coprendo proble-mi filosofici distinti e senza ambire a fornire un sistema di pensiero chiuso –offrono un modello di umanesimo filosofico di notevole impatto e influenzasulla cultura dei secoli successivi. L’eclettismo filosofico che gli deriva in partedal probabilismo accademico permette di cogliere spunti specifici da scuoledifferenti, mai accolti acriticamente o in nome dell’appartenenza settaria odella esclusività del modello seguito, sulla scorta dell’insegnamento di « nonimporre alcun proprio giudizio, approvare quelle tesi che sembrano piú similial vero, confrontare le ragioni ed esprimere quello che si può dire contro cia-scuna opinione, senza far pesare la propria autorità lasciare intatto e libero ilgiudizio agli uditori », « un uso ereditato da Socrate » (Div., ii 150). Il discorso fi-losofico è quindi aperto a tutte le teorie ed è libero in quanto non necessita del-la sanzione di alcuna autorità (Tusc., v 83); la letteratura filosofica latina conser-vata mostra del resto in maniera costante – a parte Lucrezio – la tendenza anon rimanere legata in maniera stabile a una singola scuola filosofica, forse an-che come risultato del fatto che questi scrittori non erano impegnati concreta-mente nella pratica dell’insegnamento della filosofia, non erano filosofi diprofessione (f i p. 244). Nel procedere ciceroniano è però fondamentale laconsapevolezza – e la convinzione – dell’impossibilità di giungere a conclu-sioni certe e definitive sul piano gnoseologico (Tusc., iv 7: nos institutum tenebi-mus nullisque unius disciplinae legibus adstricti quibus in philosophia necessario parea-mus, quid sit in quaque re maxime probabile semper requiremus, ‘ci atterremo al prin-cipio e senza essere costretti dai precetti di una sola scuola a cui obbedire ne-cessariamente in filosofia, sempre andremo in cerca di cosa sia maggiormenteprobabile in ogni questione’), ma senza arrivare a professare uno scetticismoradicale (Nat. deor., i 12): non enim sumus i quibus nihil verum esse videatur, sed i quiomnibus veris falsa quaedam adiuncta esse dicamus tanta similitudine ut in is nulla insitcerta iudicandi et adsentiendi nota. Ex quo exsistit et illud, multa esse probabilia, quaequamquam non perciperentur, tamen, quia visum quendam haberent insignem et inlus-trem, his sapientis vita regeretur, ‘non siamo infatti tra coloro a cui nulla appare ve-ro, ma tali da affermare che a tutte le verità sono aggiunte falsità tanto similiche in esse non vi sia alcun segnale certo di giudizio o di assenso. Da ciò deriva

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che vi sono molte cose probabili che, benché non siano riconosciute come ta-li, tuttavia, poiché hanno un aspetto rilevante e nobile, possono guidare la vitadel saggio’. La forma migliore per rendere concretamente questo approcciometodologico è il dialogo, il confronto dialettico tra opinioni opposte o co-munque differenti, da cui emerge progressivamente la conclusione piú proba-bile e simile al vero, sempre che essa possa essere raggiunta senza tradire ilprincipio di verisimiglianza. Se nelle sue opere non si possono rintracciaregrandi novità dottrinali sul piano della pura teoresi, è di notevole rilevanzaquesto modo di procedere dell’argomentazione, spesso serrata e rigorosa, effi-cace sul piano letterario e del pensiero.

Forse non è casuale il fatto che nell’ultima opera filosofica, il De officiis dellafine del 44 – contemporaneo all’estrema grande battaglia politica ciceronianain difesa della repubblica contro i suoi nemici, una lotta che lo vedrà prestosoccombere –, quando è piú vicino a un quadro dottrinale di derivazione stoi-ca, egli abbandoni l’esposizione dialogica a favore del trattato dai toni talvoltaasseverativi e pedagogici (la dedica al figlio rimanda alla tradizione didatticainaugurata da Catone con il Libri ad filium), con una precettistica che ambisce aessere estesa a tutto il corpo sociale. La sistemazione dei doveri si fonda sullagerarchia stoica delle virtú e degli uffici che ne conseguono (la fonte dichiara-ta è il PeriÖ tozü kauhökontow, ‘Sul conveniente’, di Panezio di Rodi), in una vi-sione etico-politica incentrata sul concetto di decorum che ha forte radicamen-to nell’estetica (l’honestum, di cui il decorum è la manifestazione esteriore e rap-presenta uno dei cardini del sistema, è il corrispondente latino del greco ka-loön); il contrasto tra “buono” e “utile” tende a risolversi con l’identificazionedel primo nel secondo, qualora quest’ultimo sia correttamente individuato. Sepure affonda nelle virtú stoiche il quadro tracciato da Cicerone tende inevita-bilmente all’esteriorizzazione dell’etica nel comportamento socialmente rico-nosciuto, se vogliamo anche alla dissimulazione moralmente accettabile.

L’ambizione di posizionare in maniera stabile nel sistema letterario latino ilgenere del trattato o del dialogo filosofico imponeva anche uno sforzo lingui-stico e stilistico non indifferente. In ciò Cicerone riprende la strada lucreziananei confronti della povertà linguistica latina in ambito filosofico, questa voltaperò in prosa: con ampio ricorso a neologismi o a calchi semantici Ciceroneebbe meriti rilevanti nella creazione di un linguaggio filosofico latino (talvol-ta con rese non sempre omogenee), retoricamente elaborato ma non impreci-so dal punto di vista concettuale. Il grado elevato di letterarietà di queste rea-lizzazioni relegò ai margini e fece infine scomparire la trattatistica piú tecnica

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e specialistica, realmente “indigesta” per il largo pubblico e difficilmente at-traente anche per gli intellettuali piú raffinati (non dissimili furono le conse-guenze in ambito retorico dell’impegno ciceroniano: cfr. sopra, pp. 214, 221).Fu proprio l’esigenza di conferire letterarietà ai suoi scritti in misura parago-nabile a quella da lui praticata con successo in altri generi a far di solito preva-lere uno stile “medio”, con il superamento e l’innalzamento espressivo deldettato rispetto allo stile “tenue” che secondo la stessa dottrina retorica cicero-niana era proprio del docere del filosofo (ma non mancano variazioni in en-trambe le direzioni stilistiche).

La tarda età repubblicana conobbe una ripresa del pitagorismo, forse maisopito del tutto, ma che in questo periodo trova i suoi seguaci anche tra gli ari-stocratici; a Nigidio Figulo, suo contemporaneo, Cicerone assegna il meritodi aver rinnovato tale indirizzo, antichissimo ma estinto ormai da tempo(Tim., 1). L’attività di questo erudito, impegnato anche nella guida di una settaesoterica, fu quanto mai vasta e, oltre alla scienza e alla grammatica, compresein particolare la mantica (inclusa l’astrologia, un campo di indagine che conti-nuerà a essere molto seguito anche nella prima età imperiale) e diversi tratta-ti di argomento mistico e teologico, dalla scrittura oscura e difficile, di cui ri-mangono pochi frammenti. A Nigidio è accostato già dagli antichi per la va-stità delle conoscenze e degli scritti l’altro grande erudito del periodo, Varro-ne, anch’egli affascinato dal pitagorismo, in particolare dagli aspetti aritmolo-gici di tale dottrina: allievo come Cicerone di Antioco di Ascalona in Grecia,piú dell’Arpinate si mantenne sul solco della sintesi e dell’eclettismo filosofi-co del maestro greco (la cui posizione difende nei secondi Accademici cicero-niani), cogliendo spunti e riflessioni da indirizzi diversi e senza ambire – perquanto possiamo ricostruire – a una produzione filosofica sistematica edesclusiva. Varie tracce se ne possono trovare nelle sue opere, dagli accenni de-clinati ironicamente nelle Menippee ad alcuni temi contenuti nelle Antiquitates(in particolare sul versante teologico) o nei diversi Logistorici, in cui singolequestioni venivano trattate a partire da un esempio fornito dalla storia roma-na (a questo genere possono essere avvicinati anche il Cato Maior e il Laelius ci-ceroniani, che coniugano i temi piú popolari del dibattito etico-filosofico conla resa “esemplare” della tradizione romana). Nei Disciplinarum libri Varronecollocò la filosofia in una posizione centrale e da essa fece discendere il siste-ma enciclopedico elaborato in tarda età; del De philosophia è rimasto un cele-bre frammento tramandato da Agostino in cui tutte le possibili posizioni at-torno al problema del sommo bene sono classificate in maniera rigorosa, se-

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condo una predilezione tassonomica di cui rimangono vari esempi nei restidelle sue opere.

La collocazione nell’ambito dell’enciclopedia delle artes sostenuta da Varro-ne sembra quella piú fruttuosa nel periodo di passaggio tra la repubblica e ilprincipato, quando la filosofia è depositaria per lo piú del sapere e della pre-cettistica etica (il prevalere di questa dimensione è comunque una caratteristi-ca generale della cultura romana, a cui si associa l’interesse per la fisica, con-nessa alla prima in gran parte del pensiero antico f i p. 245). Il greco è la lingua“tecnica” della filosofia, in particolare degli indirizzi prevalenti, quello stoico equello epicureo, ma forti sono le presenze della diatriba cinico-stoica anche aipiú alti livelli della cultura augustea. Un sottofondo filosofico si può coglierenei maggiori intellettuali attivi attorno alla corte del princeps (a cominciare daVirgilio e Orazio, senza peraltro adesioni incondizionate e complete a qual-che dottrina), ma la dimensione filosofica assumerà presto valenze politiche(f i p. 264): gli imperatori vedranno in talune scuole rischi concreti per il loropotere, sia nello stoicismo, che assume spesso atteggiamenti e valenze filore-pubblicani (in questo senso Catone l’Uticense è un modello esemplare di in-transigenza etico-politica), sia talvolta anche in altri indirizzi. Forse troppopessimistico (e comunque molto discusso) il quadro fornito da Seneca della si-tuazione delle scuole filosofiche ai suoi tempi, introdotto a dimostrare la ge-nerale noncuranza per gli studi: « Chi si volge allo studio della filosofia o dellearti liberali se non quando sono rinviati i giochi, quando sopravviene un gior-no di pioggia che fa piacere perdere? » (Nat. quaest., vii 32 1). Si sarebbero quin-di estinte per mancanza di guida le scuole accademiche, scettiche, pitagorichee quella di recente costituzione dei Sestii. Il fondatore di quest’ultima, pretta-mente romana (nova et Romani roboris secta, ‘una setta nuova e dall’energia ro-mana’, Seneca, ivi, vii 32 2) fu Quinto Sestio che caratterizzò la sua predicazio-ne in lingua greca (Seneca, Epist., 59 7) nel senso dell’ascetismo e del rigorismomorale fondato sulle virtú, contemperando elementi stoici (nonostante lo ne-gasse: Seneca, ivi, 64 2), platonici e pitagorici. La scuola fu poi proseguita dal fi-glio di Quinto Sestio, Sestio Nigro; a essa appartenne anche Aulo CornelioCelso, autore di diversi trattati filosofici che non ci sono pervenuti (della suaenciclopedia ci rimane solo il De medicina: vd. infra, pp. 757-59), e Papirio Fa-biano, maestro di Seneca.

Significativa appare in Seneca la scelta decisa a favore dell’utilizzo del latinoper la filosofia sulla scorta del grande esempio ciceroniano e del suo maestroPapirio Fabiano, in un periodo – come si è visto – in cui la riflessione filosofi-

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nota introduttiva

ca in greco è frequente; a Cicerone fa pensare anche il forte grado di elabora-zione retorica dei suoi scritti e la circostanza che la produzione filosofica è sta-ta piú intensa nella parte finale della sua vita (62-65 d.C.), dopo il ritiro dall’im-pegno pubblico come consigliere di Nerone, anche se lo ha accompagnato pertutta l’esistenza (anche questa costante è in fondo ciceroniana). Le opere filo-sofiche sono raccolte nei Dialogi (in 12 ll.), cui si aggiungono – tra quelle con-servate in forma completa – il De clementia e il De beneficiis, le Naturales quaestio-nes e le Epistulae morales (le ultime due dedicate a Lucilio e certamente tarde).Prevale anche in Seneca l’interesse etico, ma di grande rilievo è la riflessioneattorno al potere e alla sua natura, un tema ricorrente anche nella produzionetragica (f vi pp. 384 sgg.). Esso è al centro del De clementia, indirizzato a Nero-ne all’inizio del suo principato per esortarlo a una conduzione saggia dello sta-to ispirata alla virtú della clemenza e all’autocontrollo. La teodicea è trattatanel De providentia dal punto di vista stoico, con il ridimensionamento dei maliesterni che deve affrontare il sapiens (delineato nelle sue caratteristiche nel Deconstantia sapientis); la giusta prospettiva nei confronti dei valori esteriori è alcentro del De vita beata; l’analisi serrata di una devianza della ragione come l’i-ra copre ben tre libri del trattato sul tema dedicato al fratello Novato. Piú det-tagliata ed estesa ancora è la trattazione di un argomento specifico contenutanel De beneficiis, in 7 ll., in cui si affrontano natura, motivazioni e tipologie delbeneficio, con ampio studio di casi particolari. Stretto è il legame tra etica e fi-sica nella produzione scientifica, di cui rimangono le Naturales quaestiones, ba-sate in particolare sulle teorie di Posidonio ma con importanti apporti dellascienza aristotelica, cui fa da sottofondo ispiratore il forte impegno moraleconnesso al processo del conoscere il mondo naturale (vd. sotto, pp. 692-95).Molto differenti sono le forme letterarie utilizzate in questa ampia serie diopere (non tutte quelle note sono conservate), anche se su tutte predomina ildialogo, con interlocutore fittizio o anche con se stesso (la modalità miglioredi espressione dell’intento parenetico del suo messaggio filosofico), ma trovia-mo anche il trattato, l’epistola filosofica e la satira menippea (l’Apocolocyntosis).

Seneca si accostò alla filosofia affascinato dal pitagorismo (Epist., 108 17), poiripudiato a seguito dell’insegnamento ricevuto da un membro della scuola deiSestii, Papirio Fabiano, e in nome dello stoicismo (importante in questo sensoanche un altro maestro, Attalo); ferma fu la sua adesione alla Stoa – in partico-lare allo stoicismo di mezzo di Panezio e Posidonio –, ma il suo atteggiamen-to nei confronti delle dottrine esistenti è programmaticamente antidogmati-co, e non esita a trarre giovamento anche dall’insegnamento di Epicuro (Epist.,

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2 5; 29 10-11). Lo sforzo di innalzamento morale, tendente alla perfezione idea-le del sapiens, ha come punto di partenza ineludibile la propria coscienza, og-getto di analisi serrata, in una continua tensione tra dimensione interna edesterna, tra vita attiva e quiete dell’ozio contemplativo (un argomento affron-tato da Seneca in tre dei Dialogi, De otio, De tranquillitate animi e De brevitate vitae),e nella piena consapevolezza dell’inattingibilità dell’ideale supremo – per cuisi deve combattere e anche nel superamento degli ostacoli consiste la realizza-zione della virtú – e della necessità per l’uomo di vivere in una condizione re-lativa rispetto alle virtú assolute: « solo nel sapiens non c’è scarto fra teoria eprassi » (Cambiano f i p. 266). Il linguaggio impiegato – asimmetrico e carat-terizzato da scossoni e addensamenti concettuali ed espressivi, le sententiae –segue bene questi ondeggiamenti e queste tensioni, talvolta innalzandosi reto-ricamente con intenti parenetici, in altri momenti facendosi piú semplice e di-retto, in nome della rispondenza tra res e verba (Epist., 75 4: Haec sit propositi nostrisumma: quod sentimus loquamur, quod loquimur sentiamus; concordet sermo cum vita,‘Questo è il nostro proposito massimo, dire quello che sentiamo, sentire quel-lo che diciamo; la lingua si accordi alla vita’; cfr. anche 24 19): la filosofia deveinfatti rifuggire i ragionamenti capziosi e le tentazioni degli artifici dialettico-retorici (ivi, 16 3: philosophia . . . non in verbis sed in rebus est). Non si esclude il ri-corso alla lingua d’uso in una scrittura che è in sé ricerca filosofica e interiore,medicamento dell’anima sperimentato in primis su se stessi (f i pp. 268-69).

Nel II sec. d.C. si accresce l’interesse per la filosofia platonica, con moltospazio dedicato a problemi metafisici e forti spinte all’irrazionalismo e al mi-sticismo (è questo un periodo in cui ancora una volta il pitagorismo dà voce aqueste istanze). La cultura piú alta segue ancora lo stoicismo piú tradizionale(ma scrivono comunque in greco Musonio Rufo e Marco Aurelio), ma altresono le tendenze piú diffuse, anche per il diffondersi della cosiddetta « Secon-da Sofistica » e per il generale prevalere degli aspetti iniziatici ed esoterici delsapere (f i p. 273). Lo scrittore piú rilevante è Apuleio (f i pp. 272-74), di for-mazione retorica e tendente all’enciclopedismo, che segue dottrine mediopla-toniche, esposte nel De Platone et eius dogmate (si autodefinisce philosophus Plato-nicus in Apol., 10 6), in particolare in tema di teologia e “demonologia” (De deoSocratis: i demoni, intermediari tra uomini e dei, sono degno oggetto di culto),ma alla tradizione peripatetica rimanda il De mundo (traduzione e parafrasidell’omonimo trattato pseudoaristotelico). Evidenti i toni misticheggianti nel-le Metamorfosi, che però esulano propriamente dal genere filosofico.

Nei secoli seguenti sarà proprio tale modello di sapere, vario e articolato nei

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nota introduttiva

confronti delle tradizioni filosofiche piú antiche, a essere vincente anche nelrapporto, non necessariamente problematico, con la cultura cristiana predo-minante. Prosegue a livello erudito o scolastico l’attività filosofica di tendenzaper lo piú neoplatonica, in una fase in cui la conoscenza tende a divenire pre-servazione del sapere tradizionale, mentre molti sono gli esempi di esoteri-smo (p. es. nel dialogo Asclepius, risalente alla filosofia ermetica). Pienamentecristiana è la Consolazione della filosofia di Boezio (VI sec.), dialogo tra la filoso-fia e un prigioniero condannato a morte, una vera e propria esortazione ad av-vicinarsi alla divinità, un’opera che riassume le varie tipologie di riflessione fi-losofica del passato accentuandone il valore terapeutico (f i p. 276) ed è rivol-ta per molti versi piú al Medioevo che al pensiero filosofico antico, anche semostra stretti legami con forme ed espressioni della migliore tradizione clas-sica.

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I

LA RICERCA FILOSOFICA DI CICERONE

Tra le molteplici realizzazioni letterarie di Cicerone spicca una consistente atti-vità speculativa in lingua latina, che non sorprende alla luce delle dichiarazioni tar-de sulla sua formazione filosofica e sulla frequentazione assidua con intellettualigreci e latini di profonda dottrina: si era dedicato agli studi filosofici in gioventú,anche perché attratto dalla rerum ipsarum varietas et magnitudo, ‘dalla varietà e dall’im-portanza delle questioni trattate’ (Brut., 306, dove si accenna al magistero esercitatonei suoi confronti dall’accademico Filone di Larissa). Ad Atene – durante il viaggiodel 79-78 a.C. – stette sei mesi con Antioco di Ascalona, esponente della vetus Aca-demia, con cui riprese e rinnovò lo studio della filosofia, numquam intermissum a pri-maque adulescentia cultum et semper auctum (‘mai interrotto e sempre coltivato e ap-profondito sin dalla prima giovinezza’, ivi, 315). Lo stoico Diodoto dimorò in se-guito nella sua casa a Roma (con lui si esercitava con grande zelo nella dialettica,quae quasi contracta et astricta eloquentia putanda est, ‘che è da ritenere come un’elo-quenza ridotta e condensata’, ivi, 309, e senza la quale non si può raggiungere la ius-ta eloquentia, che a sua volta è quasi una « dialettica dilatata »). La pratica filosofica –ci confessa lo stesso Cicerone – non fu mai abbandonata, come provano anche idiscorsi « ricchi di affermazioni filosofiche e le frequentazioni con gli uomini piúdotti nel campo » (Nat. deor., i 6), e noi non abbiamo grandi difficoltà a ritenere ve-ritiere queste professioni, anche se sostenute in contesti chiaramente apologeticidella filosofia.

Nel primo grande dialogo di argomento retorico, il De oratore, del 55 a.C., si pro-pugna con vigore e convinzione la necessità di un’ampia formazione filosofica daparte dell’oratore, una tesi non scontata nella Roma del tempo che riprende in fun-zione conciliativa l’antico problema del rapporto tra retorica e filosofia, ma di fattosubordina la preparazione filosofica all’esercizio di una retorica compiuta e consa-pevole. Il dialogo mostra importanti spunti metodologici dal punto di vista dell’ap-proccio argomentativo, in particolare la struttura elaborata sulla base della disputa-tio in utramque partem di origine accademica (vd. sopra, p. 236) e soprattutto la sceltastessa della forma dialogica. Obbligata in un certo senso per un seguace della tradi-zione accademico-peripatetica, essa era particolarmente soddisfacente dal punto divista delle esigenze metodologiche e retoriche di Cicerone, permettendogli di pre-sentare tutte le sfaccettature delle questioni affrontate, incarnate nei personaggidelle sue opere, e di metterne in scena il confronto dialettico, conformemente alleregole della retorica persuasiva. Ma se pure il modello esplicito è Platone (i 28) e aesso rimanda l’ambientazione scenografica e drammatica, molti tratti e alcune di-

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chiarazioni dell’epistolario rinviano ad Aristotele, in particolare per il trattamentoextradiegetico dei proemi e l’utilizzo della discussione a parti alterne. Tale model-lo sarà seguito piú da vicino nella maggior parte delle opere filosofiche ciceronia-ne, per lo piú composte in forma dialogica: in esse Cicerone compí scelte diverse aseconda degli argomenti, oscillando tra il dialogo drammatico del primo Platone equello espositivo di marca aristotelica; da quest’ultimo egli riprese tra l’altro la sud-divisione in vari libri del dibattito, l’utilizzo dei proemi e soprattutto la partecipa-zione dell’autore stesso al dialogo messo in scena (ulteriori modalità specifiche de-rivano a Cicerone probabilmente dai piú tardi Eraclide Pontico e Dicearco di Mes-sina).

Importanti e ampie riflessioni di Cicerone concernono la filosofia politica e la fi-losofia del diritto. Del De re publica, composto tra il 54 e il 51 a.C., non rimangonotutti e sei i libri originariamente scritti, ma ampie porzioni di essi che consentonodi seguire l’andamento del pensiero ciceroniano sulla forma dello stato e le sue isti-tuzioni principali: il modello platonico, evidente sin dal titolo, è temperato da con-siderazioni ispirate allo stoicismo nel solco della tradizione romana (Cicerone ri-vendica la pertinenza filosofica del tema in Div., ii 3, dove ricorda che l’argomentopolitico è stato affrontato da Platone, Aristotele, Teofrasto e tutta la scuola peripa-tetica). È lo stesso Scipione Emiliano, il protagonista del dialogo che si immaginaambientato poco prima della sua morte (129 a.C.), a esporre la teoria della costitu-zione “mista”, equilibrio tra poteri e forme statali diverse raggiunto dall’assetto po-litico romano (la teoria è di derivazione greca, si ispira in particolare a Panezio ePolibio); dopo la trattazione teorica della forma statale e delle sue origini contenu-ta nel l. i, nel secondo viene illustrato l’articolarsi della repubblica romana da unpunto di vista storico. Ma la discussione riguarda tutti gli aspetti dell’organizzazio-ne dello stato, in particolare il tema della giustizia e del diritto (ll. iii-iv, con la pole-mica con Carneade a proposito dell’esistenza del diritto naturale), e quello dellaconduzione della repubblica (ll. v-vi), e termina con il celebre sogno sul buon go-verno in cui, nella visione profetica di Scipione che prefigura la ricompensa ultra-terrena all’uomo politico che si è impegnato nella gestione della cosa pubblica, aglielementi platonici si aggiungono spunti riconducibili allo stoicismo e al pitagori-smo. La concezione conservatrice e oligarchica (e romanocentrica: si difendono leguerre “giuste” di espansione imperiale) si concretizza nel delineare un regime go-vernato da un princeps illuminato (il « reggitore », bonus et sapiens et peritus utilitatis dig-nitatisque civilis, quasi tutor et procurator rei publicae; sic enim appelletur quicumque erit rectoret gubernator civitatis, ‘onesto e saggio ed esperto dell’utile e della dignità dei cittadi-ni, come un tutore e un amministratore dello stato; cosí sia chiamato infatti chiun-que sarà guida e timoniere della città’, Re p., ii 51), rispettoso delle istituzioni repub-blicane, un progetto non troppo distante dalla concreta realizzazione condotta atermine da Augusto.

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Sulla scia dell’ispirazione platonica, Cicerone scrisse nel medesimo periodo an-che il trattato De legibus, in tre ll., rimasto incompleto (l’autore stesso annuncia allafine del l. iii un ulteriore volume) e giunto in forma mutila. Nel l. i lo stesso Cice-rone, protagonista del dialogo, espone i cardini della propria concezione giuridicafondata sul diritto positivo di cui si identificano le basi naturali, cioè logiche e ra-zionali ma anche metafisiche. Il secondo libro tratta del diritto religioso e il terzoesamina in particolare il sistema legislativo romano, visto come esemplare, e le ma-gistrature civili che lo costituiscono.

Nella fase finale della sua esistenza Cicerone si dedicò con grande intensità allascrittura filosofica, il modo migliore per continuare a giovare ai suoi concittadinidismessa l’attività politica (vd. Div., ii 1; Off., ii 4: « abituato il mio animo sin da gio-vane a questi studi pensai di poter eliminare le mie delusioni nel modo piú degnoritornando alla filosofia. Benché da ragazzo le avessi dedicato molto tempo per im-parare, dopo che cominciai a rivestire cariche pubbliche e mi diedi completamen-te allo stato, per la filosofia vi era lo spazio che mi rimaneva del tempo occupato pergli amici e per lo stato »), mettendo al servizio della trattatistica morale o di altri te-mi tipici della speculazione delle scuole di pensiero ellenistiche tutte le armi dellaretorica e della letteratura per tanti anni esercitate nel foro o in Senato: Tusc., i 5-6:Philosophia iacuit usque ad hanc aetatem nec ullum habuit lumen litterarum Latinarum; quaeinlustranda et excitanda nobis est, ut, si occupati profuimus aliquid civibus nostris, prosimusetiam, si possumus, otiosi . . . (6) . . . quare si aliquid oratoriae laudis nostra attulimus industria,multo studiosius philosophiae fontis aperiemus, e quibus etiam illa manabant, ‘La filosofia èrimasta inerte sino ai nosti tempi e non ha ricevuto luce alcuna dagli scritti in lingualatina; darle lustro e risvegliarla è il mio dovere, cosí che se quando siamo stati im-pegnati in pubblico abbiamo recato una qualche utilità ai nostri concittadini, lo fac-ciamo, se siamo in grado, anche ora che ci siamo ritirati [. . .] (6) [. . .] perciò se ab-biamo recato con il nostro impegno qualche gloria all’eloquenza, con molto mag-giore sforzo sveleremo le fonti della filosofia, dalle quali derivava anche quella’.Suo scopo dichiarato è quello di dotare la cultura romana anche di una produzionefilosofica che abbia i necessari requisiti di piacevolezza e ricercatezza che la renda-no un genere degno di figurare nel sistema letterario e di raggiungere un pubblicoostile ai tecnicismi e agli specialismi della trattatistica filosofica latina diffusa tra lescuole e le sette filosofiche (soprattutto gli epicurei sono bersagliati da Cicerone daquesto punto di vista. Solo con l’ostilità tradizionale – e personale! – nei confrontidi tale indirizzo si può forse spiegare lo strano silenzio nei confronti dell’opera lu-creziana che pure lo vide con ogni probabilità nelle vesti di editore postumo, con-vinto dell’ingenium e dell’ars del poema di Lucrezio: Ad Q. fratrem, ii 10 3). La scrittu-ra filosofica deve quindi rispettare i canoni della retorica e della letteratura elabora-ta dal punto di vista espressivo: Tusc., i 7: hanc enim perfectam philosophiam sempre iudi-cavi, quae de maximis quaestionibus copiose posset ornateque dicere, ‘ho sempre giudicato

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infatti come esempio compiuto di filosofia quello in grado di trattare dei problemipiú importanti in maniera faconda ed elegante’.

A una prima ricognizione dossografica rappresentata dai Paradoxa Stoicorum del46 (l’illustrazione di alcuni tra i piú significativi assiomi paradossali della Stoa costi-tuisce in certo senso un ponte tra la riflessione sui principi della retorica e i proce-dimenti della speculazione filosofica), seguí la Consolatio a se stesso per la mortedella figlia (marzo 45). Essa è perduta, cosí come il dialogo Hortensius, prima tappadel progetto di affrontare i maggiori argomenti filosofici: da quello che possiamoricostruire dalle testimonianze antiche (dello stesso Cicerone o di autori successi-vi) entrambe le opere erano significativamente riconducibili nell’ampio alveo delpensiero platonico. La consolazione infatti, al di là delle convenzioni del genere edel pessimismo esistenziale che la predominava, sosteneva la tesi dell’immortalitàdell’anima, una posizione che verrà ripresa – anche se in maniera piú articolata esfumata – nelle Tusculanae. Del protrettico filosofico, che tanto ispirò Agostino, èda notare la forma dialogica, con l’antitesi tra le posizioni contraria e favorevole al-la stessa filosofia sostenute rispettivamente dall’oratore Ortensio e dall’autore, per-sonaggio attivo dell’opera. La fonte principale è il Protrettico aristotelico che riman-da in ultima analisi a importanti aspetti della filosofia di Platone.

Particolarmente istruttivo sul piano del metodo di indagine è il dibattito messoin scena negli Accademici, passati nel corso di pochi mesi dalla redazione in due libria quella in quattro. Centrale è il problema della conoscenza e della possibilità digiungere a una verità oggettiva per mezzo della ricerca filosofica. In questo ambitoCicerone si orienta decisamente verso le posizioni scettiche della Nuova Accade-mia di Carneade e del suo maestro di gioventú Filone di Larissa; critica invece le te-si di Antioco di Ascalona – che affermava la possibilità di conoscere la realtà –,esposte da Lucullo nel l. ii della prima versione (l’unico rimasto di essa) e da Varro-ne nel primo dell’ultima (anche di questa fase compositiva rimane un unico libro,conservato parzialmente, in cui prevale la rassegna delle varie dottrine gnoseolo-giche).

La prima vasta trattazione specifica di argomento morale affrontata da Ciceronefu il De finibus bonorum et malorum (in 5 ll.; cfr. Div., ii 2: cumque fundamentum esset phi-losophiae positum in finibus bonorum et malorum, ‘dal momento che la base della filoso-fia consiste nello stabilire il sommo bene e il sommo male’), dedicato a Bruto, cheraccoglie tre dialoghi fittizi di tipo aristotelico e risalente attorno alla metà del 45.La ricerca del bene sommo era uno dei problemi centrali discussi dalle maggioriscuole filosofiche di età ellenistica; Cicerone ne esamina dialetticamente i risultatie le posizioni principali dedicando il primo dialogo, ambientato nella sua villa aCuma ed esposto nei primi due ll., alla dottrina epicurea (confutata nel l. ii dallostesso autore, che prende parte al dialogo, per gli aspetti utilitaristici insiti nell’edo-nismo), il secondo, immaginato nella villa di Lucullo a Tuscolo (ll. iii-iv), a quella

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i · la ricerca filosofica di cicerone

stoica, illustrata da Catone l’Uticense e criticata ancora da Cicerone (l’aspetto pococoncreto ed eccessivamente intellettualistico di tale pensiero costituisce il nocciolodelle sue obiezioni), con il dialogo finale ambientato ad Atene durante il viaggio inGrecia di Cicerone (79 a.C.) e incentrato sul pensiero neoaccademico di Antioco diAscalona, tendente sul piano etico a un sincretismo tra la posizione peripatetica equella stoica; a esso l’autore si mostra abbastanza vicino, nonostante alcune per-plessità sul piano del metodo avanzate sulla scorta degli orientamenti piú scetticidella scuola accademica e alcuni ondeggiamenti verso il rigorismo del pensierostoico. Su tale base il dialogo non approda a conclusioni definitive e illustra bene ilprocedere ciceroniano tra opinioni spesso contrapposte, talvolta divergenti in ma-niera sottile ma anche concordi, un approccio che lascia al lettore la libertà di trar-re le proprie conclusioni senza essere sopravanzato dalle tesi dell’autore.

Il problema morale è centrale anche nelle Tusculanae, in 5 ll., composte in pochimesi tra l’estate e l’autunno del 45 e anch’esse dedicate a Bruto come il De finibus.Svelando che cosa è soprattutto necessario per raggiungere la felicità (cosí lo stessoCicerone in Div., ii 2) vengono passate in rassegna le opinioni dei vari indirizzi dipensiero su alcuni problemi centrali dell’esistenza umana: il timore della morte (l.i), la sopportazione del dolore (l. ii), il modo di placare l’angoscia (l. iii), le passioni(l. iv) e i ruolo della virtú (l. v; essa è sufficiente infatti per una vita beata, Div., loc.cit.). Lo scopo è quello della liberazione dell’anima umana da paure e sconvolgi-menti che allontanano dalla vita virtuosa, un obiettivo catartico della filosofia tra ipiú sentiti (v 5).

Il dialogo espositivo di derivazione aristotelica è seguito da vicino in quest’ope-ra, costituita quasi da una serie di monologhi ciceroniani (povera è anche la sceno-grafia, come nel contemporaneo Brutus); l’intento è didascalico, quasi divulgativo,e nello stesso tempo “terapeutico”. Cicerone espone le dissertazioni da lui tenutein maniera sistematica e in utramque partem nel corso di cinque giorni, una sorta di« declamazioni senili » (i 7), come spiega esplicitamente nel proemio (i 8): Itaquedierum quinque scholas, ut Graeci appellant, in totidem libros contuli. Fiebat autem ita ut, cumis qui audire vellet dixisset quid sibi videretur, tum ego contra dicerem, ‘Perciò raccolsi le scho-lae (‘lezioni’), come le chiamano i Greci, tenute in cinque giorni in altrettanti libri.Avveniva che, quando colui che voleva ascoltare un argomento aveva esposto lapropria opinione, allora io parlassi in senso contrario’. La forma è probabilmentepiú consona all’atteggiamento asseverativo di Cicerone nei confronti delle questio-ni esaminate, al di là dei principi altrove praticati dello scetticismo neoaccademico:prevale infatti su alcuni temi una posizione genericamente platonizzante o, sul te-ma delle passioni, vicina piuttosto al rigorismo stoico e alla necessità di una regola-mentazione di esse. L’autosufficienza del saggio e della virtú rispetto agli altri beniesterni che affiora spesso nella trattazione deriva anch’essa dalla speculazione dellaStoa, e in particolare dello stoicismo piú rigido dei fondatori della scuola. Forse so-

lo in questo periodo di piú acuto pessimismo sulle sorti della repubblica, dopo lapiena assunzione di potere da parte di Cesare, Cicerone ha inteso la sfera dello stu-dio individuale e della ricerca filosofica pura come una possibile dimensione auto-noma dell’esistenza (cosí, pare, nel perduto Hortensius, ma anche nel De finibus enelle Tusculanae sembra essere varcato quel limite alla speculazione filosofica postoda Crasso nel iii l. del De oratore).

Le problematiche dell’etica sono trattate da un’altra angolazione nei tre ll. delDe officiis, un’esposizione sistematica e non dialogica per il figlio Marco della dottri-na di derivazione paneziana del decorum, il prèpon (‘conveniente’), cardine etico edestetico secondo Cicerone dell’agire umano e “sociale”. È l’ultima opera filosoficadell’Arpinate, composta rapidamente tra il settembre e il novembre del 44 a.C. (del5 novembre è la lettera ad Attico, xvi 11, in cui Cicerone giustifica la traduzione delgreco kauhükon, ‘conveniente’, con officium e dichiara come sue fonti per il De officiisnon solo Panezio, ma anche Posidonio, di cui attende un compendio), nel periodoconvulso della opposizione a Marco Antonio, contro cui Cicerone sta scrivendo laSeconda Filippica, lontano da Roma e ramingo per l’Italia, una fase di difesa estremadella repubblica e dei valori tradizionali della classe dirigente romana. Nella siste-mazione, di impostazione stoica, delle virtú basilari che Cicerone propone all’at-tenzione del figlio e quindi di tutti i giovani membri dell’aristocrazia romana (e ita-lica), è centrale l’honestum, esaminato nelle sue ramificazioni nel l. i: di fondamen-tale importanza in questo ambito è il dovere della socievolezza (communitas, artico-lata in iustitia e beneficentia), prevalente su quelli della ricerca della verità, della gran-dezza d’animo e della moderazione. Alla categoria dell’honestum si oppone quelladell’utile (ne tratta il l. ii), ma Cicerone cerca di superare l’antitesi nell’ultimo libroin cui si distacca dal modello paneziano, per giungere a una teoria che vede la verautilità nell’onestà, al cui culmine si pone l’utilitas rei publicae (peraltro non illimitata).Ne viene fuori un quadro articolato sin nei minimi dettagli dei doveri del vir bonusche avrà larga fortuna nei galatei dei secoli successivi, una visione etica fortementeancorata alla dimensione politico-sociale e ricca di esempi tratti dalla storia roma-na. La difesa dei valori tradizionali della classe dirigente romana – su cui non si po-teva avere dubbi o essere scettici (f i p. 259) – si traduce però talvolta in una osser-vanza meramente esteriore dei codici di comportamento.

Un altro ambito di indagine filosofica frequentato da Cicerone è quello riguar-dante il problema teologico. Esso è centrale nel De natura deorum (dell’inizio del 44),dove si confrontano dialetticamente le principali tesi in proposito a cominciare daquella piú radicale, l’epicurea, difesa nel l. i da Velleio e controbattuta in nome del-lo scetticismo neoaccademico da Cotta. La posizione degli stoici compare invecenel l. ii, esposta da Balbo, ed è criticata nel libro seguente, l’ultimo, ancora da Cottain nome della razionalità, ma le conclusioni di Cicerone non sono cosí nette in pro-posito. Piú convinta è invece la condanna della divinazione che l’autore pronuncia

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nel secondo dei due ll. del De divinatione, dopo che il fratello Quinto ne aveva cer-cata una difesa nel primo l. proprio sulla base del fatalismo e del provvidenzialismodegli stoici. Tale aspetto era criticato pure nel De fato, giunto in maniera parziale,anche in nome del libero agire umano (perduto è invece il trattato De auguriis). Sul-l’argomento teologico sono da menzionare anche la traduzione del Timeo di Plato-ne, conservata solo in parte, ma probabilmente importante tappa preparatoria allatrattazione del tema fisico da parte di Cicerone (destinata verosimilmente nelle in-tenzioni dell’autore a concretizzarsi in un dialogo).

Da ricordare infine due brevi dialoghi, entrambi del 44, dal taglio divulgativo,che esaltano due figure del recente passato romano ponendole al centro del siste-ma di valori etico-politici ciceroniano, il Cato Maior de senectute e il Laelius de amicitia.In essi gli aspetti positivi dei due concetti, di grande peso anche politico nella so-cietà romana, vengono presentati e illustrati in nome di due personaggi esemplarie sulla base delle dottrine filosofiche piú diffuse, con spunti provenienti anche dal-la diatriba: Catone dialogando con Scipione e Lelio afferma che in vecchiaia è an-cora possibile l’attività politica e spirituale, secondo una concezione attiva della se-nectus, e non si deve temere la morte; simile l’ambientazione del Laelius, dove si trat-ta della natura e delle caratteristiche dell’amicizia. Per una precisa scelta dell’Arpi-nate sono infatti membri della classe dirigente romana a rivestire il ruolo di prota-gonisti dei suoi dialoghi filosofici, e spesso si tratta di figure altamente rappresenta-tive della storia di Roma, in particolare negli scritti dalla piú evidente valenza poli-tica come il De re publica, oltre al Cato e al Laelius (il De officiis, come detto, non haforma dialogica).

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i · la ricerca filosofica di cicerone

TUSCULANAE DISPUTATIONES

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[31] Maxumum vero argumentum1 est naturam ipsam de inmortalitate ani-morum tacitam iudicare, quod omnibus curae sunt, et maxumae quidem,quae post mortem futura sint. « Serit arbores, quae alteri saeclo prosint »,2 ut ait‹Statius›3 in Synephebis, quid spectans4 nisi etiam postera saecula ad se perti-nere? Ergo arbores seret diligens agricola, quarum aspiciet bacam ipse num-quam; vir magnus leges instituta rem publicam non seret?5 Quid6 procreatio

Tusculanae disputationes. L’opera, dedicata a Marco Giunio Bruto come il contemporaneo dialo-go sulla storia dell’oratoria, il Brutus, contiene in ognuno dei cinque libri la trattazione di una que-stione morale: Cicerone seguendo il modello del dialogo espositivo aristotelico, su sollecitazionedi un non identificato discipulus o auditor (con ogni probabilità un membro delle classi elevate), af-fronta nel l. i il timore della morte (un tema tipico della letteratura consolatoria, in cui si risentel’influenza dell’Apologia di Platone), nel ii la preoccupazione per il dolore, nel iii la capacità di sop-portazione dell’afflizione da parte del sapiente, nel iv il rapporto con le passioni e nel v l’esamedella nozione di virtú. I cinque libri corrispondono a cinque giornate di discussioni tenute nellavilla prediletta di Tuscolo, la cui data fittizia è fissata tra il 16 e il 20 giugno; la mattina Cicerone sidedica all’insegnamento della retorica ad amici e discepoli riuniti presso il suo possedimento, ilpomeriggio a quello della filosofia. L’anno di composizione è il 45 a.C., quando Cicerone speri-menta il definitivo disincanto per la vita pubblica a causa dell’affermazione della dittatura cesaria-na e conosce profonde sofferenze nel privato, quelle per la morte della figlia Tullia. Il periodo ècaratterizzato da un’intensa produzione, in particolare di ambito filosofico: oltre alla perduta con-solatio a se stesso per la morte della figlia, risale a quest’anno anche il protrettico alla filosofia Hor-tensius, gli Academica, il De finibus bonorum et malorum, l’inizio della stesura del De natura deorum, a cuisi lega anche la traduzione del Timeo e del Protagora platonici. La scrittura filosofica nelle Tuscula-nae si configura come una vera e propria alternativa all’impegno politico, in concomitanza con l’i-nizio del declino dell’oratoria a Roma, e assume un valore terapeutico che va al di là delle eviden-ti intenzioni di divulgazione del pensiero delle maggiori scuole filosofiche attorno alle questionimorali piú urgenti per l’esistenza umana. Dal l. i si è tratta l’argomentazione piú ricca dal punto divista letterario a proposito del problema della sopravvivenza dell’anima oltre la morte. Il secondobrano scelto è invece una celebre riflessione sul trasferimento della ricerca filosofica dalla Greciaa Roma, realizzabile secondo Cicerone solo a condizione che i frutti di tale speculazione siano dif-fusi tra i Romani in un’adeguata forma retorico-letteraria: è questa l’intenzione programmaticaesplicita degli scritti filosofici ciceroniani del periodo. Si è scelto infine un passo del l. iv che trattadella distinzione tra le passioni, in particolare tra la fermezza (fortitudo) e l’irascibilità (iracundia);condotto essenzialmente sulla base della dottrina stoica, il brano è ricco di riferimenti letterari.L’ed. è quella di M. Pohlenz (Leipzig, Teubner, 1918; rist. Stuttgart, Teubner, 1976).

i 31-35. Il presentimento delle generazioni future. Nel brano selezionato Cicerone argomenta quellache considera la prova piú importante dell’immortalità dell’anima: ogni persona, dal semplicecontadino all’uomo di stato, si preoccupa per quello che avverrà nelle generazioni future (similiargomentazioni anche in Cato M., 82), ma tale preoccupazione che accomuna tutti in ogni societàsarebbe infondata se l’anima perisse col corpo come vogliono gli epicurei oppure le sopravvivesse

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LE TUSCOLANE

i 31-35

[31] Ma la prova piú consistente1 è che la natura stessa, se pur in silenzio,esprime un giudizio sull’immortalità delle anime, perché a tutti stanno a cuo-re, e piú di tutto, le cose che accadranno dopo la morte. « Pianta alberi perchégiovino alla generazione successiva »,2 come dice Stazio3 nei Sinefebi, avendo inmente che cosa4 se non che anche le generazioni future lo riguardano? Dun-que il contadino coscienzioso pianterà alberi di cui egli non vedrà mai il frut-to; un uomo grande non pianterà le leggi, le istituzioni, il governo?5 Che cosa6

di poco come sostengono gli stoici con le loro conflagrazioni periodiche. Tuttavia Cicerone stes-so – che pure propende su influenza della filosofia platonica per la tesi dell’immortalità anche sen-za arrivare a esprimersi con tutta sicurezza in proposito – osserva piú avanti (parr. 90-91) che tuttifanno progetti per il futuro, di cui si sentono responsabili, a prescindere dalle convinzioni circa lesorti dell’anima e che l’uomo saggio pensa al futuro non tanto per il desiderio della fama, quantoper il conseguimento della virtus in sé (91): « Perciò anche chi considera che l’anima è mortale puòoperare in vista dell’eternità, non per desiderio di gloria, di cui non si avrà percezione, ma dellavirtú, cui necessariamente consegue la gloria, anche se non si agisce per questo ».

1. Maxumum vero argumentum: Cicerone aveva già addotto la considerazione che gli antichi rite-nevano che « nella morte fosse presente la sensibilità e nell’allontanamento dalla vita l’uomo non siestinguesse a tal punto da perire completamente » (27): questo spiegava il culto dei morti e deglieroi divinizzati. Per natura, inoltre, si compiange la scomparsa dei propri cari convinti che i defun-ti avvertano la separazione: « quei lamenti lugubri e i pianti afflitti derivano dal fatto che riteniamoche colui che abbiamo amato sia privato dei vantaggi della vita e di ciò si renda conto » (30). Si in-troduce ora una prova ulteriore dell’immortalità dell’anima, desunta dalla dottrina accademica, checonsiste nella constatazione che per natura tutti tendono a preoccuparsi per cosa succederà sullaterra dopo la propria morte. c 2. « Serit . . . prosint »: il verso, attribuito a Cecilio Stazio (CRF, 210; vd.n. seguente), ha per soggetto agricola, ricavabile dal periodo successivo, il quale pianta alberi di cuivedranno i frutti solamente le generazioni future. – quae . . . prosint: è una proposizione relativa convalore finale. c 3. ‹Statius›: il nome dell’autore è integrato sulla base di un’altra citazione del mede-simo verso fatta da Cicerone nel contemporaneo Cato Maior (24; altri propongono di integrare ilbrano con un generico ille o ipotizzano che il sogg. di ait non sia l’autore, ma il personaggio che re-cita la battuta): sed . . . in eis elaborant quae sciunt nihil ad se omnino pertinere. « Serit arbores, quae alteri saecloprosint », ut ait Statius noster in Synephebis, ‘ma [. . .] si affaticano in quelle cose che sanno non li riguar-dano affatto. « Pianta alberi perché giovino alla generazione successiva », come dice il nostro Stazionei Sinefebi’. Cicerone immagina anche cosa risponderebbe il contadino a chi gli chiedesse per chisemina: « Dis immortalibus, qui me non accipere modo haec a maioribus voluerunt, sed etiam posteris prodere »,‘« Per gli dei immortali, che vollero che non solo ricevessi queste cose dagli antenati ma le trasmet-tessi anche ai posteri »’ (Cato M., 25). I Synephebi sono una commedia di Cecilio Stazio ripresa da unaomonima opera di Menandro. c 4. quid spectans: continua il discorso cominciato con serit avente agri-cola come soggetto (ut ait ‹Statius› in Synephebis, è parentetico). c 5. Ergo . . . non seret? : Cicerone adottaqui con il paragone tra il mondo contadino e quello delle istituzioni lo schema dell’argomentazio-ne a minore ad maius. – bacam: ha il senso generico di ‘frutto’. c 6. Quid: si ripete in anafora per cinque

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i · la ricerca filosofica di cicerone

liberorum, quid propagatio nominis, quid adoptationes7 filiorum, quid testa-mentorum diligentia, quid ipsa sepulcrorum monumenta elogia8 significantnisi nos futura etiam cogitare?

[32] Quid? Illud num dubitas, quin specimen naturae capi deceat ex optimaquaque natura?9 Quae est melior igitur10 in hominum genere natura quam eo-rum, qui se natos ad homines iuvandos tutandos conservandos arbitrantur?Abiit ad deos Hercules:11 numquam abisset, nisi, cum inter homines esset,eam sibi viam munivisset.12 Vetera iam ista et religione omnium consecrata:quid in hac re publica tot tantosque viros ob rem publicam interfectos cogitas-se arbitramur? Isdemne ut finibus nomen suum quibus vita terminaretur?13

Nemo umquam sine magna spe inmortalitatis14 se pro patria offerret ad mor-tem. [33] Licuit esse otioso Themistocli,15 licuit Epaminondae, licuit, ne et ve-tera et externa quaeram,16 mihi; sed nescio quo modo inhaeret in mentibusquasi saeclorum quoddam augurium futurorum, idque in maximis ingeniis al-tissimisque animis et existit maxime et apparet facillime. Quo quidem demp-to quis tam esset amens, qui semper in laboribus et periculis viveret? [34] Lo-quor de principibus; quid? Poetae nonne post mortem nobilitari volunt? Un-de ergo illud:

Aspicite, o cives, senis Enni imaginis formam: hic vestrum panxit maxima facta patrum?17

Mercedem gloriae flagitat ab is quorum patres adfecerat gloria, idemque:

volte introducendo altrettanti sintagmi costruiti in maniera simile (soggetto e genitivo di specifica-zione): nei primi tre il nominativo precede il genitivo, con variazione nel numero di quest’ultimo(i primi due soggetti, procreatio e propagatio, sono assonanti e isosillabici tra di loro), il quarto presen-ta l’inversione del genitivo rispetto al nominativo; l’ultimo membro è maggiore per numero di pa-role. c 7. adoptationes: in Cicerone si trova anche il sinonimo adoptio. c 8. monumenta elogia: bimem-bro asindetico, tipico della lingua arcaica, usato per convogliare due concetti in un’unica area se-mantica, in questo caso per rafforzare l’idea del perdurare della fama dopo la morte. – elogia: Cice-rone si riferisce alle iscrizioni incise sulle tombe di uomini eminenti; ne sono un esempio quellecelebri degli Scipioni e quella di Ennio riportata poco oltre. c 9. specimen . . . natura? : il concetto che ilrappresentante di ogni specie diviene modello a cui tutti tendono si trova in Aristotele (cfr. ad es.Eth. Nic., i 6). – deceat: corrisponde al greco preöpei, ‘è adatto, opportuno’. c 10. igitur: da notare l’inso-lita collocazione in quarta posizione nel periodo. c 11. Hercules: è lo specimen per eccellenza per gliuomini, esemplare a motivo delle sue celebri imprese; era stato nominato poco prima tra coloro as-sunti in cielo e quindi venerati dagli altri uomini (28): apud Graecos indeque perlapsus ad nos et usque adOceanum Hercules tantus et tam praesens habetur deus, ‘presso i Greci e di lí giunto a noi e sino all’Ocea-no, Ercole è considerato un dio grande e assai benefico’. c 12. viam munivisset: espressione tecnicacon cui si indica propriamente la costruzione delle strade. c 13. Isdemne . . . terminaretur?: cfr. Cato M.,82: Anne censes . . . me tantos labores diurnos nocturnosque domi militiaeque suscepturum fuisse, si eisdem finibusgloriam meam quibus vitam essem terminaturus?, ‘Pensi forse [. . .] che mi sarei accollate tali fatiche di

iii · la filosofia

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stanno a significare la procreazione dei figli, la perpetuazione del proprio no-me, le adozioni7 dei figli, la cura dei testamenti, gli elogi stessi incisi sui sepol-cri8 se non che noi pensiamo anche al futuro?

[32] E che? Nutri forse dei dubbi sul fatto che convenga che il modello esem-plare naturale sia preso da ciascuna natura migliore?9 Quale natura nel genereumano è dunque10 migliore di quella di coloro che si reputano nati per aiutare,tutelare e salvare gli uomini? Se ne andò tra gli dei Ercole:11 mai ci sarebbe an-dato, se, mentre stava tra gli uomini, non si fosse preparato quella via.12 Si trat-ta di storie ormai passate e consacrate dalla credenza di tutti: quale pensiamosia stato in questa repubblica il pensiero di tanti e valorosi uomini morti per lostato? Forse che il loro nome avesse termine con la loro vita?13 Nessuno maisenza una grande speranza di immortalità14 sacrificherebbe se stesso per la pa-tria. [33] Per Temistocle15 sarebbe stato possibile rimanere inattivo, lo sarebbestato per Epaminonda, lo sarebbe stato, per non andar cercando casi passati estranieri,16 per me; ma non so in che modo è impresso nella mente come unpresentimento delle generazioni future, ed esso negli ingegni piú grandi e ne-gli spiriti piú profondi è presente in massimo grado e si presenta senza diffi-coltà alcuna. Chi, senza tale presentimento, sarebbe cosí dissennato da viverein continuazione tra fatiche e pericoli? [34] Parlo dei capi; Ma che? I poeti nonvogliono essere celebrati dopo la morte? Da dove nascerebbe il famoso passo:

Volgete lo sguardo, cittadini, ai tratti dell’aspetto del vecchio Ennio: costui cantò le piú grandi imprese dei vostri padri »? 17

Pretende come ricompensa la gloria da coloro ai cui padri aveva conferito glo-ria; e lo stesso:

giorno e di notte, in pace e in guerra, se avessi delimitato la mia gloria nei termini stessi della vita?’.c 14. sine . . . inmortalitatis: cfr. Platone, Symp., 208d, dove esempi illustri di sacrificio della propria vita(Alcesti, Achille, Codro) sono motivati dalla speranza di ottenere una « memoria immortale per lavirtú ». c 15. Themistocli: Temistocle, il generale che condusse gli Ateniesi alla vittoria di Salaminacontro i Persiani (480 a.C.), è menzionato insieme al condottiero tebano Epaminonda (artefice del-le vittorie della sua città contro gli Spartani) all’inizio delle Tusculane (par. 4). In questo e nel para-grafo successivo Cicerone fa riferimento a uomini che sono divenuti famosi come politici, poeti,artisti o filosofi: tale sequenza rispecchia in ordine decrescente la stima loro accordata dalla societàromana. c 16. ne . . . quaeram: analogo proposito in Cato M., 82, un capitolo che presenta diverse so-miglianze con il nostro passo. c 17. Aspicite . . . patrum: due versi che formavano un epigramma di En-nio (Var., 15-16 Vahlen2), posto forse sul basamento di una sua immagine, per lo piú ritenuti auten-tici e da alcuni uniti al distico citato subito dopo proprio per il fatto di comparire di seguito in que-sto passo. Si notino due particolarità metriche arcaiche in Ennı* imagini’ forma, la desinenza finale delgenitivo abbreviata per lo iato con la parola seguente e la -s di imaginis che non chiude la sillaba, per-ciò breve (“-s caduca”).

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i · la ricerca filosofica di cicerone

Nemo me lacrimis . . . . . . Cur? Volito vivos per ora virum.18

Sed quid poetas?19 Opifices post mortem nobilitari volunt. Quid enim Phi-dias20 sui similem speciem inclusit in clupeo Minervae, cum inscribere ‹no-men› non liceret? Quid? Nostri philosophi nonne in is libris ipsis, quos scri-bunt de contemnenda gloria, sua nomina inscribunt?21

[35] Quodsi omnium consensus naturae vox est,22 omnesque qui ubiquesunt consentiunt esse aliquid, quod ad eos pertineat qui vita cesserint, nobisquoque idem existimandum est, et si, quorum aut ingenio aut virtute animusexcellit, eos arbitrabimur, quia natura optima sint, cernere naturae vim maxu-me,23 veri simile est, cum optumus quisque maxume posteritati serviat, essealiquid, cuius is24 post mortem sensum25 sit habiturus.

ii 3-9

[3] Quamquam1 non sumus ignari2 multos studiose contra esse dicturos;3

quod vitare nullo modo potuimus, nisi nihil omnino scriberemus. Etenim si

18. Nemo . . . virum: la porzione mancante dei due versi è citata al par. 117 (e anche in Cato M., 73); ildistico completo è quindi (Var., 17-18 Vahlen2): Nemo me lacrumis decoret nec funera fletu / faxit. Cur?Volito vivos per ora virum, ‘Nessuno mi onori con le lacrime, né mi porti in funerale con il pianto. Per-ché? Vivente volo per le bocche degli uomini’; in esso si può notare l’uso insistito dell’allitterazio-ne (funera fletu faxit . . . volito vivos . . . virum). Si tratta di un autoepitafio, secondo l’uso dei poeti elle-nistici, che insiste sul tema dell’immortalità concessa dalla poesia. c 19. Sed quid poetas?: è sottintesoqualcosa come commemoro che spiega il cambio di costruzione rispetto a Loquor de principibus di ini-zio paragrafo. c 20. Phidias: lo scultore Fidia aveva rappresentato se stesso, calvo e in atto di scaglia-re una pietra, sullo scudo della statua criselefantina di Athena Parthenos – come racconta Plutarco(Pericl., 31) –, mentre aveva inciso il suo nome sulla statua di Zeus ad Olimpia (Pausania, v 10 2). c21. Quid? . . . inscribunt?: cfr. Arch., 26: « siamo tutti trascinati dalla ricerca della fama e tutti i migliorisono guidati massimamente dalla gloria. Quegli stessi filosofi, anche nei trattati che scrivono suldisprezzo della gloria, appongono il proprio nome: nel momento stesso in cui disprezzano la ce-lebrazione e la fama vogliono essere celebrati e ricordati per nome ». c 22. Quodsi . . . est: cfr. 30: om-ni autem in re consensio omnium gentium lex naturae putanda est, ‘in ogni materia il consenso di tutti è daritenere una legge naturale’. Cicerone riassume qui le tre prove dell’immortalità dell’anima, esem-plificate a partire dal par. 27 (vd. sopra, n. 1). c 23. eos . . . maxume: cfr. sopra, 32: Illud num dubitas, quinspecimen naturae capi deceat ex optima quaque natura? c 24. is: riprende quisque. c 25. post mortem sensum:cfr. 27: unum illud erat insitum priscis illis . . . esse in morte sensum, ‘questa sola cosa era radicata in quegliantichi [. . .] che nella morte vi fosse sensibilità’. Il saggio è comunque in grado di andare anche ol-tre questa convinzione comune pensando che la posterità lo riguardi (91).

ii 3-9. Dall’oratoria alla filosofia. Carico delle delusioni per gli sviluppi della crisi politica della re-pubblica, Cicerone auspica che la filosofia possa diffondersi a Roma, trasferendo la sua sede dalla

iii · la filosofia

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Nessuno con le lacrime . . .. . . Perché? Vivente volo per le bocche degli uomini.18

Ma perché parlare dei poeti?19 Anche gli artisti dopo la morte vogliono esserecelebrati. Infatti perché Fidia20 avrebbe inserito il proprio ritratto sullo scudodi Minerva, visto che non gli era possibile apporvi la sua firma? E che? I nostrifilosofi non pongono forse il proprio nome su quegli stessi libri che scrivonosul disprezzo della gloria?21

[35] Se il consenso di tutti è voce di natura,22 e tutti quelli che si trovano inogni luogo sono d’accordo che esiste qualcosa che riguarda coloro che sonousciti dalla vita, anche noi dobbiamo pensarla cosí, e se riterremo che coloro, ilcui animo si distingue per ingegno o per virtú, poiché sono di natura ottima,valutano la forza della natura nel miglior modo possibile,23 è verosimile che,poiché tutti i migliori in massimo grado si mettono al servizio della posterità,esista qualcosa, di cui essi24 avranno percezione dopo la morte.25

ii 3-9

[3] Tuttavia1 non ignoriamo2 che molti con forza avranno da ridire;3 la qual-cosa non si può evitare in alcun modo, se non non scrivendo affatto. Infatti se

Grecia ormai in declino nella città in cui si sono sviluppate tutte le discipline un tempo coltivatedai Greci. Per questo la ricerca filosofica deve riuscire a vincere la diffidenza che essa tradizional-mente suscita tra i Romani e attrarre il pubblico colto allettandolo con una forma esteriore elabo-rata, del tutto assente negli opuscoli filosofici diffusi in lingua latina dai discepoli di Epicuro, chenon sono letti se non dagli epicurei stessi. Espressione piú alta della ricerca filosofica, sia sul pianodel metodo di indagine che della sua esposizione retorica, è la disputa su posizioni opposte, un’a-bitudine che risale ad Aristotele e risulta efficace non solo per affinare il pensiero, ma anche lo sti-le. Cicerone si accinge a riproporre ora questa consuetudine nella significativa cornice del suo gin-nasio costruito all’interno della villa di Tuscolo. Il brano, dal carattere introduttivo, vuole sancireanche il passaggio di Cicerone dall’attività oratoria (ora in crisi e soggetta alle tendenze negative dipresunta origine attica) alla ricerca di tipo filosofico e costituisce uno dei capisaldi della ricostru-zione delle vicende della filosofia a Roma.

1. Quamquam: Cicerone ha appena riassunto le conclusioni raggiunte nel libro precedente (2):« mi sembrava che fosse stato ottenuto grande disprezzo della morte, che non poco è efficace nelliberare l’animo dalla paura. Chi teme infatti ciò che non si può evitare non può in nessun modovivere con animo tranquillo; ma chi non teme la morte non solo perché è necessario morire, maanche perché la morte non ha nulla che sia orribile, si procura un grande sussidio per la vita feli-ce ». Ora viene avanzata la possibilità che qualcuno si dichiari contrario a tale tesi, ma ciò non ser-ve tanto a riprendere e riaprire la discussione precedente quanto a introdurre un nuovo tema (Ete-nim), quello delle sorti recenti dell’oratoria a Roma. c 2. non sumus ignari: litote e plurale di mode-stia. c 3. esse dicturos: si noti la clausola cretico + spondeo (e6sse* dı6ctu6ro6s), assai comune in Cicerone.

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i · la ricerca filosofica di cicerone

orationes, quas nos multitudinis iudicio probari volebamus (popularis estenim illa facultas, et effectus eloquentiae est audientium adprobatio)4 – sed sireperiebantur non nulli,5 qui nihil laudarent nisi quod se imitari posse confi-derent, quemque sperandi sibi, eundem bene dicendi finem proponerent,6 etcum obruerentur copia sententiarum atque verborum, ieiunitatem et famemse malle quam ubertatem et copiam7 dicerent, unde erat exortum genus Atti-corum is ipsis, qui id sequi se profitebantur, ignotum, qui iam conticueruntpaene ab ipso foro inrisi: [4] quid futurum putamus, cum adiutore populo, quoutebamur antea, nunc minime nos uti posse videamus?8 Est enim philosophiapaucis contenta iudicibus, multitudinem consulto ipsa fugiens eique ipsi et sus-pecta et invisa,9 ut, vel si quis universam velit vituperare, secundo id populo fa-cere possit, vel si in eam quam nos maxime sequimur10 conetur invadere, ma-gna habere possit auxilia e reliquorum philosophorum disciplinis. Nos autemuniversae philosophiae vituperatoribus respondimus in Hortensio,11 pro Aca-demia autem quae dicenda essent, satis accurate in Academicis quattuor li-bris12 explicata arbitramur; sed tamen tantum abest ut scribi contra nos noli-mus,13 ut id etiam maxime optemus. In ipsa enim Graecia philosophia tanto in

4. (popularis . . . adprobatio): sulla dimensione “popolare” dell’eloquenza e la necessità che essa miri alconsenso della folla degli ascoltatori cfr. Brut., 185: Efficiatur autem ab oratore necne, ut ii qui audiunt itaafficiantur ut orator velit, volgi adsensu et populari adprobatione iudicari solet. Itaque numquam de bono oratoreaut non bono doctis hominibus cum populo dissensio fuit, ‘Che si ottenga poi o no da parte dell’oratore checoloro che ascoltano siano impressionati cosí come vuole l’oratore, si è soliti giudicarlo dal con-senso della folla e dall’approvazione del popolo. Perciò mai vi fu disaccordo sull’oratore valido onon valido tra i dotti e il popolo’. c 5. sed . . . nulli: sed ha funzione di ripresa dopo un’interruzione.Notevole il forte anacoluto nella costruzione della frase che è cominciata con si orationes: dopo l’in-terruzione della parentesi ci si aspetterebbe qualcosa come nonnulli reprehendebant con orationes co-me oggetto; a rendere il periodo contorto contribuisce, inoltre, l’elevato numero di subordinate.Cicerone si riferisce qui alla corrente oratoria dei cosiddetti « Atticisti » (la definizione è cicero-niana: vd. infra; cfr. anche Quintiliano, Inst. or., xii 10 12-15, e Tacito, Dial., 18 4-5), un gruppo di gio-vani che criticò lo stesso Cicerone e quegli oratori da loro definiti “Asiani” in nome del ritorno al-la purezza dello stile oratorio rappresentato per gli esponenti di questo indirizzo da Lisia e Tuci-dide. c 6. qui . . . proponerent: cfr. Orat., 24: Nunc enim tantum quisque laudat quantum se posse sperat imita-ri, ‘Ora infatti ognuno loda solo quello solamente che spera di poter imitare’ (detto proprio a pro-posito dei modelli oratori seguiti). Sul piano piú generale cfr. Sallustio, Cat., 3 2: « ciò che ciascunoritiene facile da compiersi per sé, lo accetta di buon grado, quello che va oltre, lo pensa inventato ecome falso ». c 7. ieiunitatem . . . copiam: le due coppie caratterizzano antiteticamente le due tenden-ze: la magrezza dello stile (ieiunitas è il corrispettivo del greco iäsxnoöthw; fames vale qui ‘magrezza,povertà’) è un tratto tipico dell’atticismo: cfr. Brut., 285: sin autem ieiunitatem . . . in Attico genere ponit,hoc recte dumtaxat, ‘se poi assegna la magrezza al genere Attico, questo almeno è giusto’ (sulle carat-teristiche dell’atticismo e degli oratori e scrittori attici presi a modello dagli esponenti di questacorrente vd. in generale Brut., 284-85, la nostra fonte principale di notizie su questa tendenza stili-

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le orazioni, che noi volevamo approvate dal giudizio della folla (infatti quellacompetenza è del popolo e l’efficacia dell’eloquenza consiste nell’approvazio-ne del pubblico)4 – ma se si trovavano alcuni5 che non lodavano nulla, se nonquello che pensavano di poter imitare, e che proponevano come fine del par-lare bene proprio quello che speravano per loro stessi;6 e quando venivano tra-volti dall’abbondanza dei concetti e delle parole, affermavano di preferire unostile tutto magro e scarno a uno stile opulento e rigoglioso;7 da qui era spunta-ta la corrente degli Attici, ignota persino a quegli stessi che professavano di se-guirla, i quali ormai hanno raggiunto il silenzio, derisi quasi dallo stesso foro:[4] che pensiamo che accadrà, visto che ora non possiamo affatto servirci del-l’aiuto del popolo come facevamo in precedenza?8 La filosofia si accontentainfatti di pochi giudici, dal momento che essa stessa per scelta evita la folla e aquesta stessa è in sospetto e invisa,9 cosí che, se uno volesse disprezzarla nel suoinsieme, potrebbe farlo con il favore del popolo, se poi tentasse di attaccarel’indirizzo che noi seguiamo massimamente,10 potrebbe contare su validi aiutifra le altre scuole filosofiche. D’altronde nell’Ortensio11 abbiamo risposto ai de-trattori della filosofia nel suo insieme, cosa dire poi a favore dell’Accademia ri-teniamo di averlo spiegato adeguatamente nei quattro libri degli Accademici.12

Ma tuttavia prendiamo cosí tanto le distanze dalla posizione di chi non vuoleche si scriva contro13 da desiderarlo anzi molto intensamente. Infatti nella stes-

stica). La sovrabbondanza espressiva, insieme alla cura del ritmo e alla predilezione per l’arguto eil concettoso, appartengono invece all’ “asianesimo” (cfr. Brut., 325), l’indirizzo retorico opposto al-l’atticismo, cui appartiene Ortensio Ortalo e che nella sua forma piú moderata include anche Ci-cerone. c 8. cum adiutore . . . videamus?: a differenza dell’attività oratoria di Cicerone, la produzionefilosofica non è destinata a un largo pubblico, come viene spiegato di seguito. c 9. eique . . . invisa: lostesso pensiero ritorna nel proemio al libro iii (1): Quidnam esse, Brute, causae putem, cur. . . animi autemmedicina nec tam desiderata sit, ante quam inventa, nec tam culta, posteaquam cognita est, nec tam multis grata etprobata, pluribus etiam suspecta et invisa?, ‘Quale mai, Bruto, potrei pensare sia il motivo per cui [. . .] lacura dell’animo non era cosí ambita prima che fosse scoperta, né cosí coltivata dopo la sua cono-scenza, né gradita e approvata da cosí tanti, ai piú anche sospetta e in odio?’. c 10. in eam . . . sequimur:la corrente accademica, di ispirazione platonica, ma con le innovazioni introdotte nel corso deltempo dai pensatori successivi a Platone. c 11. in Hortensio: l’Hortensius, opera perduta (ma ancoradisponibile ad Agostino), scritta tra il marzo e l’aprile del 45 a.C., inaugurava il piano delle operefilosofiche che Cicerone si accingeva a comporre: aveva carattere di esortazione alla filosofia edera indirizzata a Ortensio Ortalo che nel dialogo impersonava il personaggio che sosteneva le tesicontrarie alla filosofia, mentre Cicerone difendeva la superiorità della ricerca filosofica sulla prati-ca oratoria. c 12. in Academicis . . . libris: il dialogo, giunto incompleto, ha conosciuto una doppia re-dazione: la prima in due libri, di cui rimane il secondo volume, la seconda in quattro, di cui resta ilprimo. Esso tratta del problema della conoscenza, secondo i dettami di un moderato scetticismoneoccademico. c 13. sed . . . nolimus: si ritorna sul tema di apertura del cap. 3 (Quamquam non sumus

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i · la ricerca filosofica di cicerone

honore numquam fuisset, nisi doctissimorum14 contentionibus dissensioni-busque viguisset.

[5] Quam ob rem hortor omnis, qui facere id possunt, ut huius quoque ge-neris laudem iam languenti Graeciae eripiant et transferant in hanc urbem, si-cut reliquas omnis, quae quidem erant expetendae, studio atque industria suamaiores nostri transtulerunt.15 Atque oratorum quidem laus ita ducta ab hu-mili venit ad summum,16 ut iam, quod natura fert in omnibus fere rebus, senes-cat brevique tempore ad nihilum ventura videatur, philosophia nascatur17 La-tinis quidem litteris ex his temporibus, eamque nos adiuvemus nosque ipsosredargui refellique18 patiamur. Quod i ferunt animo iniquo, qui certis quibus-dam destinatisque sententiis quasi addicti et consecrati19 sunt eaque necessita-te constricti, ut etiam, quae non probare soleant, ea cogantur constantiae cau-sa defendere: nos, qui sequimur probabilia nec ultra id quod veri simile occur-rit progredi possumus,20 et refellere sine pertinacia et refelli sine iracundiaparati sumus.

[6] Quodsi haec studia traducta erunt ad nostros, ne bibliothecis quidemGraecis egebimus, in quibus multitudo infinita librorum propter eorum estmultitudinem,21 qui scripserunt. Eadem enim dicuntur a multis, ex quo libris

ignari multos studiose contra esse dicturos), per affermare non solo la disponibilità e l’apertura verso al-tre posizioni di pensiero, ma anzi l’utilità del confronto di tesi e opinioni anche opposte per il pro-gresso della ricerca filosofica. c 14. doctissimorum: equivalente a philosophi, grecismo che Ciceroneevita di usare qui probabilmente perché già utilizzato poche frasi prima (reliquorum philosophorumdisciplinis). c 15. sicut . . . transtulerunt: Cicerone riprende qui le considerazioni sul passaggio delle di-scipline dalla Grecia a Roma che aveva espresso in principio dell’opera (i 1): meum semper iudiciumfuit omnia nostros aut invenisse per se sapientius quam Graecos aut accepta ab illis fecisse meliora, quae quidemdigna statuissent in quibus elaborarent, ‘è sempre stata mia convinzione che ogni attività sia stata in-ventata dai nostri per loro conto in maniera piú sapiente dei Greci o che le attività accolte da quel-li siano state rese migliori, quelle almeno che fossero state ritenute degne di impegno da parte lo-ro’. c 16. ab humili . . . ad summum: l’espressione indica concretamente l’innalzamento di un muro.La visione è quella che sta alla base della storia dell’eloquenza romana contenuta nel coevo Brutus,con il culmine dell’oratoria raggiunto da Ortensio e dallo stesso Cicerone. c 17. nascatur: il con-giuntivo (anche per i successivi adiuvemus e patiamur) è dovuto al fatto che Cicerone vuole sottoli-neare come la nascita della filosofia sia connessa con la contestuale decadenza dell’oratoria a se-guito del raggiungimento del culmine di quella ars (concetto quest’ultimo espresso con ut e ilcong.: ut iam . . .); non è comunque escluso il valore esortativo dei tre congiuntivi, o forse degli ulti-mi due. Da notare come all’oratoria e alla filosofia venga applicata la terminologia propria dellaesistenza umana: esse nascono, crescono e muoiono; si tratta dello stesso ambito metaforico chePolibio aveva usato per descrivere le vicende delle costituzioni politiche. c 18. redargui refellique: sinoti l’allitterazione delle due parole isosillabiche: con il primo termine si intende lo ‘smentire’,con il secondo il ‘confutare’, sempre tramite dimostrazione; Cicerone torna ancora sul tema ini-ziale della possibile confutazione dei propri scritti da parte di altri e della sua disponibilità ad ac-cettare le critiche; il verbo refellere compare allo stesso proposito anche poco piú avanti. c 19. addic-

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sa Grecia la filosofia non sarebbe stata mai cosí celebrata se non fosse stata rin-vigorita dai contrasti e dalle contese dei piú dotti.14

[5] Perciò esorto tutti coloro che sono in grado di farlo a strappare la palmaanche di questo genere alla Grecia ormai indebolita e a trasferirla in questa cit-tà, cosí come i nostri antenati vi trasferirono con il proprio impegno e la pro-pria attività tutte le altre, quelle almeno che erano desiderabili.15 E pure la glo-ria degli oratori mossa da umili origini è giunta al vertice,16 cosí che ormai –fatto che la natura realizza quasi in ogni cosa – invecchia e in breve sembra chesi ridurrà a nulla, nasce17 in questa epoca una filosofia in latino e noi siamopronti ad aiutarla e a tollerare di essere ripresi e confutati.18 Cosa che mal tol-lerano coloro che sono per cosí dire asserviti e consacrati19 ad alcune opinionifisse e prefissate e che sono soffocati da un tale laccio da essere costretti a di-fendere per motivi di coerenza anche quanto di solito non approvano: noi, cheseguiamo il probabile e non possiamo andare oltre ciò che si presenta comeverisimile,20 siamo preparati sia a confutare senza ostinazione sia a essere con-futati senza adirarci.

[6] E se questi studi saranno trasferiti presso di noi, non avremo piú bisognoneppure delle biblioteche greche, nelle quali si trova un numero sterminato dilibri a causa del numero sterminato21 di coloro che li hanno scritti. Infatti in

ti et consecrati: addicti è tratto dal lessico giuridico, dove indica oggetto o persona assegnata in pos-sesso, quindi vincolata; per il suo uso metaforico cfr. in seguito Orazio, Epist., i 1 14: nullius addictusiurare in verba magistri (‘non costretto a giurare sulle parole di alcun maestro’, metafora tratta dalmondo dei gladiatori), e Quintiliano, Inst. or., iii 1 22: neque enim me cuiusquam sectae velut quadam su-perstitione inbutus addixi, ‘non mi sono infatti legato alla setta di nessuno, come imbevuto di unaqualche superstizione’. – consecrati: nel lessico religioso significa ‘persone dedicate alla divinità’.Probabilmente la critica ciceroniana è rivolta in particolare nei confronti degli epicurei che vene-ravano con osservanza quasi religiosa il proprio maestro. c 20. nos . . . possumus: Cicerone è un se-guace della Nuova Accademia, che sul piano gnoseologico sosteneva lo scetticismo consistentenel limitare la possibilità di conoscenza al probabile (probabilia, corrispondente al greco piuanaö) eal veri simile. Cfr. i 17: ea quae vis, ut potero, explicabo, nec tamen quasi Pythius Apollo, certa ut sint et fixa, quaedixero, sed ut homunculus unus e multis probabilia coniectura sequens. Ultra enim quo progrediar, quam ut verisimilia videam, non habeo; certa dicent ii, qui et percipi ea posse dicunt et se sapientis esse profitentur, ‘ti spie-gherò, per quanto posso, quello che desideri, ma tuttavia non come l’Apollo pizio, di modo chesiano certe e immutabili le cose che dirò, ma come un piccolo uomo fra i molti che insegue il pro-babile per congettura. Non ho modo infatti di andare oltre la visione del verisimile; le certezze leaffermeranno coloro che dicono di poterle cogliere e sostengono di essere saggi’. Cfr. anche iv 47:me . . . cui nihil est necesse nisi, ubi sit illud, quod veri simillimum videatur, anquirere. . . veri simile, quo longiusmens humana progredi non potest (‘per me [. . .] è necessario indagare dove si trovi quello che appare almassimo simile al vero [. . .] il verisimile, oltre il quale non può andare la mente umana’: vd. infra,pp. 362 sg.), e Div., i 24: coniectura . . . ultra quam progredi non potest (‘la congettura [. . .] oltre la quale nonsi può avanzare’). c 21. multitudo . . . multitudinem: poliptoto e chiasmo (m. . . . librorum . . . eorum . . . m.).

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omnia referserunt. Quod accidet etiam nostris, si ad haec studia plures conflu-xerint.22 Sed eos, si possumus, excitemus, qui liberaliter eruditi23 adhibitaetiam disserendi elegantia ratione et via24 philosophantur. [7] Est enim quod-dam genus eorum qui se philosophos appellari volunt, quorum dicuntur esseLatini sane multi libri;25 quos non contemno equidem, quippe quos num-quam legerim; sed quia profitentur ipsi illi, qui eos scribunt, se neque distinc-te neque distribute neque eleganter neque ornate scribere, lectionem sine ul-la delectatione neglego. Quid enim dicant et quid sentiant i qui sunt ab ea dis-ciplina,26 nemo ne mediocriter quidem doctus ignorat.27 Quam ob rem, quo-niam quem ad modum dicant ipsi non laborant, cur legendi sint nisi ipsi interse28 qui idem sentiunt, non intellego. [8] Nam, ut Platonem reliquosque Socra-ticos29 et deinceps eos, qui ab his profecti sunt,30 legunt omnes, etiam qui illaaut non adprobant aut non studiosissime consectantur, Epicurum autem etMetrodorum31 non fere praeter suos quisquam in manus sumit, sic hos Lati-nos i soli legunt, qui illa recte dici putant. Nobis autem videtur, quicquid litte-ris mandetur, id commendari omnium eruditorum lectioni decere; nec, si idipsi minus consequi possumus, idcirco minus id ita faciendum esse sentimus.[9] Itaque32 mihi semper Peripateticorum Academiaeque consuetudo de om-nibus rebus in contrarias partis disserendi33 non ob eam causam solum placuit,quod aliter non posset, quid in quaque re veri simile esset, inveniri,34 sed etiamquod esset35 ea maxuma dicendi exercitatio. Qua princeps usus est Aristote-

22. confluxerint: il verbo confluo è usato propriamente per i fiumi che si riversano in un altro corsod’acqua confondendosi con esso. c 23. liberaliter eruditi: sono coloro che sono stati educati nelle artesadatte a un uomo libero, le arti liberali (come le definirà Seneca, Epist., 88 2), destinate a formare iltrivio e il quadrivio medievali (grammatica, dialettica, retorica e artimetica, geometria, musica,astronomia). c 24. ratione et via: endiadi per rendere il corrispettivo greco meöuodow. c 25. quoddam . . .libri: bersaglio di questo paragrafo, come del successivo, sono gli epicurei romani autori di libri dinessun valore non soltanto per il contenuto, ma anche – per loro stessa ammissione – per la resastilistica e formale. Cfr. i 6: multi iam esse libri Latini dicuntur scripti inconsiderate ab optimis illis quidem vi-ris, sed non satis eruditis . . . itaque suos libros ipsi legunt cum suis, nec quisquam attingit praeter eos qui eandem li-centiam scribendi sibi permitti volunt, ‘si dice che vi siano già molti libri scritti in latino in maniera sciat-ta, da uomini certo bravissimi, ma non abbastanza colti [. . .] perciò questi leggono i loro libri con iloro compagni, e non li tocca nessuno tranne coloro che si vogliono concedere la stessa trasanda-tezza nello scrivere’ (il riferimento è da intendere soprattutto agli epicurei Amafinio, Rabirio eCazio, spesso bersagliati da Cicerone per la mancanza di cultura). c 26. qui. . . disciplina: calco dalgreco oi† aäpoÖ tazöthw thüw doöjhw e simili (cfr. anche De orat., ii 160: erat enim ab isto Aristotele, ‘era infat-ti della scuola di Aristotele’, e Fin., iv 7: Zeno et qui ab eo sunt, ‘Zenone e i suoi discepoli’). c 27. doctusignorat: si noti l’accostamento di due parole di significato opposto. c 28. ipsi . . . ipsi inter se: il prono-me ipsi è in anafora ed è ulteriormente rafforzato da inter se. Per l’autoreferenzialità di questa co-munità di filosofi vd. sopra, n. 25. c 29. Platonem . . . Socraticos: fra gli allievi di Socrate Platone ha per

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molti dicono le stesse cose, per cui tutto è pieno zeppo di libri. Ciò capiterà an-che ai nostri, se in troppi si riverseranno22 in questi studi. Ma, se possiamo, sol-lecitiamo coloro che, educati nella maniera degna di un uomo libero23 e ricor-rendo anche all’eleganza dell’esposizione, potranno filosofeggiare secondouna procedura razionale.24 [7] C’è infatti una certa genia di quelli che si fannochiamare filosofi, dei quali si dice vi siano davvero molti libri in latino;25 non lidisprezzo neppure, dal momento che non li ho mai letti; ma poiché queglistessi che li scrivono riconoscono di scrivere senza chiarezza, senza ordine,senza eleganza e senza arte, non prendo in considerazione una lettura priva diattrazione. Infatti che cosa dicano e che cosa pensino coloro che appartengonoa tale scuola26 nessuno anche mediamente colto lo ignora.27 Perciò, poiché es-si stessi non mettono cura nel modo di esprimersi, non capisco perché si deb-bano leggere, a meno che non siano i medesimi tra loro28 che la pensano allostesso modo. [8] Infatti, come tutti leggono Platone e gli altri socratici29 e quin-di quelli che da loro hanno derivato il proprio pensiero,30 anche chi non ap-provi quelle tesi o non le segua in tutto e per tutto, Epicuro invece e Metrodo-ro31 non li prende in mano quasi nessuno a meno che non ne sia un seguace,cosí leggono questi autori latini solo quelli che reputano che vengano sostenu-te idee giuste. A noi sembra invece che qualsiasi cosa venga consegnata allascrittura sia opportuno che venga raccomandata alla lettura di tutte le personecolte; e, se noi non riusciamo a raggiungere in pieno questo risultato, non pen-siamo perciò che cosí non si debba fare. [9] Pertanto32 sempre ho approvato l’a-bitudine dei peripatetici e dell’Accademia di discutere su ogni argomento a fa-vore e contro,33 non solo per il motivo che altrimenti non si può trovare checosa in ciascuna questione sia verisimile,34 ma anche perché è35 questo il piú al-

Cicerone una posizione di particolare preminenza. c 30. eos . . . sunt: si riferisce alle scuole risalentiin ultima analisi all’insegnamento socratico-platonico, gli accademici e i peripatetici, ma anche glistoici (cosí già Panezio). c 31. Metrodorum: Metrodoro di Lampsaco (330-278 a.C.), allievo di Epicu-ro, definito da Cicerone paene alter Epicurus (Fin., ii 92). c 32. Itaque: Cicerone conclude l’introdu-zione al ii libro insistendo in particolare sulla necessità di dare un’adeguata forma retorica alla di-scussione, per superare quindi i limiti letterari dei trattati filosofici che circolavano in lingua latinadi cui si è parlato nei parr. 7 e 8. c 33. in contrarias partis disserendi: si tratta della cosiddetta disputatio inutramque partem, un metodo di discussione adottato da Cicerone nei propri dialoghi filosofici e non(compare per la prima volta nel De oratore: vd. sopra, pp. 221 sg., 236). c 34. aliter . . . inveniri: cfr. i 8:haec est enim, ut scis, vetus et Socratica ratio contra alterius opinionem disserendi. Nam ita facillime, quid veri si-millimum esset, inveniri posse Socrates arbitrabatur, ‘questo è infatti, come sai, quel metodo antico e diSocrate di discutere contro l’opinione dell’altro. Cosí infatti Socrate riteneva che si potesse nellamaniera piú facile individuare il verisimile’. c 35. esset: il congiuntivo, come per il precedente posset,si spiega con il fatto che Cicerone vuole mettere in evidenza che sta riportando l’opinione delle

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les,36 deinde eum qui37 secuti sunt. Nostra autem memoria Philo, quem nosfrequenter audivimus,38 instituit alio tempore rhetorum praecepta tradere,alio philosophorum:39 ad quam nos consuetudinem40 a familiaribus nostrisadducti in Tusculano,41 quod datum est temporis nobis, in eo consumpsimus.Itaque cum ante meridiem dictioni operam dedissemus, sicut pridie fecera-mus,42 post meridiem in Academiam descendimus.43 In qua disputationemhabitam non quasi narrantes exponimus, sed eisdem fere verbis, ut actum dis-putatumque est.44

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[47] Quid est igitur quod occurrat in hac quaestione,1 e quo possit attingi ali-quid veri simile, quo longius mens humana progredi non potest?2 Definitioperturbationis, qua recte Zenonem usum puto.3 Ita enim definit, ut perturba-

due scuole (l’imperfetto si giustifica invece con la presenza di placuit). c 36. princeps . . . Aristoteles: cfr.Fin., v 10: ab Aristoteleque principe de singulis rebus in utramque partem dicendi exercitatio est instituta, ut noncontra omnia semper, sicut Arcesilas, diceret, et tamen ut in omnibus rebus, quicquid ex utraque parte dici posset,expromeret, ‘dal caposcuola Aristotele fu istituito l’esercizio di discutere dei singoli argomenti daentrambe le parti, di modo che non sempre si parlasse contro tutte le tesi, come Arcesilao, e tutta-via si esprimesse a proposito di tutti gli argomenti quello che si poteva dire da entrambe le parti’.Cicerone anche in quel passo sottolinea inoltre la valenza retorica e non solo filosofica di tale ge-nere di disputa. c 37. eum qui: si noti l’anastrofe. c 38. Philo . . . audivimus: Filone di Larissa (ca. 160-80a.C.), scolarca dell’Accademia succeduto a Clitomaco e maestro di Antioco di Ascalona (il princi-pale punto di riferimento filosofico per l’Arpinate), fu ascoltato da Cicerone a Roma, dove Filonesi rifugiò durante la guerra mitridatica scoppiata nel 89 a.C. (cfr. Brut., 306: eodemque tempore, cumprinceps Academiae Philo cum Atheniensium optumatibus Mithridatico bello domo profugisset Romamque ve-nisset, totum ei me tradidi admirabili quodam ad philosophiam studio concitatus, ‘a quel tempo, essendo fug-gito dalla patria il caposcuola dell’Accademia Filone con gli ottimati ateniesi durante la guerra mi-tridatica ed essendo giunto a Roma, io mi affidai completamente a lui, sospinto da un notevole ar-dore verso la filosofia’). Filone, nell’ambito di un moderato scetticismo, tese a circoscrivere il con-cetto di verosimiglianza. c 39. alio . . . philosophorum: Aristotele dedicava invece le lezioni lezionimattutine alla filosofia, quelle pomeridiane alla retorica (cfr. Quintiliano, Inst. or., iii 1 14, e Gellio,Noct. Att., xx 5 5); l’inversione dell’orario di insegnamento da parte di Filone è segno di una mag-giore importanza riservata alla retorica. – rhetorum . . . philosophorum: sono sostantivi concreti (lett.‘gli insegnamenti dei retori e dei filosofi’). c 40. ad quam nos consuetudinem: si noti l’iperbato tra ilpronome relativo e il sostantivo corrispondente che mette in evidenza il nos (in poliptoto con il se-guente nostris, a sottolineare la dimensione collegiale e comunitaria della discussione). c 41. in Tus-culano: sott. rure, nel territorio dell’odierna Frascati; è il luogo dove si trovava la piú amata delle vil-le di Cicerone, che in questo caso dà nome al dialogo. Nell’opera il possedimento non è descritto,ma ricaviamo numerose indicazioni su di esso dall’epistolario. c 42. sicut pridie feceramus: la discus-sione del giorno precedente è quella incentrata sul tema della paura della morte contenuta nel li-

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to esercizio della parola. Aristotele se ne serví per primo,36 poi chi lo37 ha se-guito. Ai nostri tempi, poi, Filone, che abbiamo ascoltato di frequente,38 stabi-lí di dedicare ai precetti della retorica una parte del tempo, un’altra a quelli del-la filosofia.39 Spinto dai miei amici a tale abitudine40 ho trascorso a Tuscolo41

in tale attività il tempo concessoci. Pertanto dopo esserci dedicati di mattina al-la retorica, come abbiamo fatto il giorno prima,42 di pomeriggio siamo scesinell’Accademia.43 Espongo la discussione avuta in essa non come una narra-zione, ma quasi con le stesse parole con cui si tenne il dibattito e si discusse.44

iv 47-54

[47] Dunque qual è l’argomento che si presenta in questa questione,1 da cuisi possa conseguire una qualche verosimiglianza, oltre la quale la mente uma-na non può inoltrarsi?2 La definizione della passione, che Zenone ritengo ab-bia data correttamente.3 Cosí infatti la definisce: la passione è uno sconvolgi-mento contro natura della mente lontana dalla ragione, o, piú in sintesi, la pas-

bro i. c 43. in Academiam descendimus: Cicerone aveva fatto allestire nella sua villa dei portici che ri-producevano quelli delle principali scuole filosofiche ateniesi, un Liceo, dove si trovava la sua bi-blioteca, e un’Accademia (posta piú in basso del Liceo: cfr. anche iii 7: ut enim in Academiam nostramdescendimus, e iv 7). c 44. non . . . disputatumque est: cfr. i 8: Sed quo commodius disputationes nostrae expli-centur, sic eas exponam, quasi agatur res, non quasi narretur, ‘Ma per svelare in modo piú consono le no-stre discussioni, le esporrò quasi nel modo in cui si affronta un argomento e non nel modo in cuisi racconta’.

iv 47-54. Forza senza ira. Nel brano selezionato Cicerone si sofferma a indagare sulla passione(perturbatio, ‘turbamento, sconvolgimento’) della fermezza, dell’audacia (fortitudo), che non deveessere sovrapposta all’irascibilità (iracundia): è possibile infatti essere intrepidi senza necessaria-mente essere in preda all’ira e viceversa. L’argomentazione si basa in particolare sulle definizionidi tale passione data dagli stoici, gli unici a potersi avvalere del titolo di philosophi, anche se Cicero-ne ne tempera gli aspetti paradossali in nome della tradizione romana e degli esempi tratti dal pa-trimonio letterario greco-latino. Tutto il passo è infatti ricco di citazioni e di esempi mitici, storicio della vita di tutti i giorni (compreso un accenno autobiografico); sul piano letterario prevale il ri-corso agli autori piú autorevoli e rappresentativi (Omero ed Ennio).

1. in hac quaestione: i peripatetici affermano che le passioni dell’animo, le perturbationes, non solosono naturali, ma anche utili (iv 43: idem Peripatetici perturbationes istas, quas nos extirpandas putamus,non modo naturalis esse dicunt, sed etiam utiliter a natura datas, ‘i medesimi peripatetici dicono che que-ste passioni che noi pensiamo debbano essere eliminate non solo sono naturali, ma anche util-mente fornite dalla natura’), compresa anche l’aegritudo, la tristezza, l’inquietudine (iv 47). Cicero-ne loda in particolare all’inizio del capitolo 47 (qui omesso) la discrezione e la chiarezza con cui iperipatetici affermano le loro opinioni in proposito. c 2. veri . . . non potest?: il verisimile – secondo idettami della Nuova Accademia – è il limite oltre il quale la conoscenza umana non può andare,un confine cui si attiene anche Cicerone: cfr. ii 5 (sopra, pp. 358 sg.). c 3. Definitio. . . puto: le defini-

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tio sit aversa a ratione contra naturam animi commotio, vel brevius, ut pertur-batio sit adpetitus vehementior, vehementior autem intellegatur is qui proculabsit a naturae constantia. [48] Quid ad has definitiones possim4 dicere? Atquehaec pleraque sunt prudenter acuteque disserentium,5 illa quidem ex rheto-rum pompa: « ardores animorum cotesque virtutum ».6 An vero vir fortis, nisistomachari coepit, non potest fortis esse? Gladiatorium id quidem. Quam-quam in eis ipsis videmus saepe constantiam: « Conlocuntur, congrediuntur,quaerunt aliquid, postulant »,7 ut magis placati quam irati esse videantur, sed inillo genere sit sane Pacideianus aliquis hoc animo, ut narrat Lucilius:8

« Occidam illum equidem et vincam, si id quaeritis » inquit,« verum illud credo fore: in os prius accipiam ipsequam gladium in stomacho furi ac pulmonibus sisto.Odi hominem, iratus pugno, nec longius quicquamnobis, quam dextrae gladium dum accomodet alter;usque adeo studio atque odio illius ecferor ira »;

[49] at sine hac gladiatoria iracundia videmus progredientem apud HomerumAiacem9 multa cum hilaritate, cum depugnaturus esset cum Hectore; cuius,10

ut arma sumpsit, ingressio laetitiam attulit sociis, terrorem autem hostibus, utipsum Hectorem, quem ad modum est apud Homerum, toto pectore tremen-tem provocasse ad pugnam paeniteret.11 Atque hi conlocuti inter se, priusquam manum consererent, leniter et quiete nihil ne in ipsa quidem pugna ira-

zioni occupano un ruolo centrale nella dottrina stoica perché per tale indirizzo filosofico le paro-le non sono convenzionali, ma si collegano in maniera necessaria agli oggetti. La definizione del-la passione del fondatore dello stoicismo è stata già riportata da Cicerone al par. 11: Est igitur Zeno-nis haec definitio, ut perturbatio sit, quod paöuow ille dicit, aversa a recta ratione contra naturam animi commotio,‘È propria di Zenone tale definizione, la passione, che egli chiama pàthos, è uno sconvolgimentocontro natura della mente lontana dalla corretta ragione’. Essa si applica particolarmente bene al-la intemperantia (22). c 4. possim: vi sono tracce nella tradizione manoscritta della variante possintche avrebbe come soggetto i peripatetici (‘cosa potrebbero dire a proposito . . .’), ma – come pocopiú sotto (53) – è lo stesso Cicerone a giudicare delle definizioni dei filosofi precedenti, secondoun’attitudine dossografica e valutativa propria del dialogo e del pensiero ciceroniano. c 5. pruden-ter . . . disserentium: Cicerone apprezza la cura formale delle definizioni stoiche mentre trova ap-prossimative quelle dei piú tardi peripatetici del III e II sec. a.C.: cfr. Fin., iii 41: est enim eorum (scil.Peripateticorum) consuetudo dicendi non satis acuta propter ignorationem dialecticae, ‘il loro [scil. dei peripa-tetici] uso linguistico non è infatti abbastanza acuto a causa della mancata conoscenza della dia-lettica’, e iii 3 sullo stile subtile vel spinosum potius degli stoici (cfr. anche Brut., 118, dove si mette in-vece in evidenza una certa povertà nell’oratoria vera e propria da parte di questi filosofi). c 6. « ar-dores . . . virtutum »: al par. 43 Cicerone aveva affermato che i peripatetici definiscono l’ira cotem forti-tudinis (‘pietra per affilare il coraggio’), ma probabilmente il riferimento è qui piú in generale alla

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sione è un desiderio troppo violento, e per troppo violento si intende quel de-siderio che è lontano dall’equilibrio di natura. [48] Che potrei4 dire a propositodi queste definizioni? Inoltre queste affermazioni in maggior parte sono pro-prie di chi discute con avvedutezza e acume,5 della schiera dei retori invecequelle del tipo « ardori dell’anima e pietre per affilare le virtú ».6 Ma davveroun uomo forte, se non comincia a dar di bile, non può essere forte? Questo èproprio dei gladiatori. Tuttavia proprio in loro spesso vediamo equilibrio:« Dialogano, si radunano, pongono domande, avanzano richieste »,7 cosí chesembrano piú calmi che irati, ma in quella categoria vi può senz’altro essere unPacideiano con un’indole tale, come racconta Lucilio:8

« Lo ucciderò di certo e lo vincerò, se lo volete sapere » dice, « ma credo che andrà cosí: io stesso prenderò un colpo in bocca prima di affondare la spada nello stomaco e nei polmoni di quel ladro. Odio quell’uomo, combatto colmo di ira, e per me niente è piú lungodel tempo che l’altro ci mette ad impugnare la spada con la destra; a tal punto il profondo odio per lui mi trascina nell’ira »;

[49] eppure senza questa rabbia da gladiatore vediamo avanzare Aiace in Ome-ro9 con grande serenità, mentre stava per combattere contro Ettore; il suo10 in-gresso, appena prese le armi, portò gioia ai compagni, terrore invece ai nemici,cosí che Ettore stesso, come si narra in Omero, tremando fino al profondo delcuore si pentí di averlo sfidato.11 Eppure questi dopo essersi parlati tra di loropacatamente e con calma prima di scontrarsi, neppure durante lo stesso com-

retorica epidittica o comunque lontana dalla pacata riflessione filosofica. c 7. « Conlocuntur. . . po-stulant »: si tratta di un settenario trocaico di autore ignoto; per alcuni il verso potrebbe essere del-lo stesso Cicerone. c 8. Lucilius: 153-58 Marx (= 155-60 Krenkel). Pacideiano fu un famoso gladia-tore del periodo dei Gracchi che Lucilio racconta nel iv l. delle sue Satire si scontrò con un certoEsernino (149-52 Marx = 151-54 Krenkel; il secondo di questi versi è citato da Cicerone anche inTusc., ii 41, altre porzioni in altre opere): Aeserninus fuit Flaccorum munere quidam / Samnis, spurcus ho-mo, vita illa dignus locoque, / cum Pacideiano componitur, optimus multo / post homines natos gladiator qui fuitunus, ‘Vi fu un certo Esernino nello spettacolo dei Flacchi, un Sannita, uomo infimo, degno diquella vita e di quella condizione; si scontra con Pacideiano, che fu di gran lunga il migliore gla-diatore dopo la creazione degli uomini’. c 9. apud Homerum Aiacem: la sfida si trova in Il., vii 211sgg.; in realtà tra i due eroi risuonano aspre parole, ma si separano secondo regole cortesi. Aespressioni del brano omerico Cicerone allude qua e là piú o meno esplicitamente. c 10. cuius: ilpronome non si riferisce al termine piú vicino (Hectore), ma al soggetto dell’infinitiva (Aiacem). c11. quem . . . paeniteret: Cicerone rielabora calcandola la reazione di paura di Ettore in Omero (Il., vii

216 sg. « Ma a ciascuno dei Troiani prese le membra un tremore possente, e allo stesso Ettore sob-balzò il cuore nel petto »).

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cunde rabioseve fecerunt. Ego ne Torquatum quidem illum,12 qui hoc cogno-men invenit, iratum existimo Gallo torquem detraxisse, nec Marcellum apudClastidium13 ideo fortem fuisse, quia fuerit iratus. [50] De Africano14 quidem,quia notior est nobis propter recentem memoriam, vel iurare possum15 non il-lum iracundia tum inflammatum fuisse, cum in acie M. Alliennium Paelig-num scuto protexerit gladiumque hosti in pectus infixerit. De L. Bruto16 for-tasse dubitarim, an propter infinitum odium tyranni ecfrenatius in Arrunteminvaserit; video enim utrumque comminus ictu cecidisse contrario. Quid igi-tur huc adhibetis iram? An fortitudo, nisi insanire coepit, impetus suos non ha-bet? Quid? Herculem, quem in caelum ista ipsa, quam vos iracundiam essevultis, sustulit fortitudo, iratumne censes conflixisse cum Erymanthio apro autleone Nemeaeo?17 An etiam Theseus Marathonii tauri cornua conprehenditiratus?18 Vide ne fortitudo minime sit rabiosa sitque iracundia tota levitatis.

[51] Neque enim est ulla fortitudo, quae rationis est expers. « Contemnendaeres humanae sunt, neglegenda mors est, patibiles et dolores et labores putan-di ». Haec cum constituta sunt iudicio atque sententia, tum est robusta illa etstabilis fortitudo, nisi forte, quae vehementer acriter animose fiunt, iracundefieri suspicamur. Mihi ne Scipio quidem ille pontufex maxumus,19 qui hocStoicorum verum esse declaravit, numquam privatum esse sapientem,20 iratusvidetur fuisse Ti. Graccho tum, cum consulem languentem reliquit atque ipse

12. Torquatum quidem illum: Tito Manlio Torquato ottenne il cognomen di “Torquato” per aver strap-pato il torques (‘collana’) a un Gallo durante la battaglia presso il fiume Aniene nel 361 a.C. Sull’epi-sodio cfr. Livio, vii 9-10; Cic., Off., iii 112 (hic T. Manlius is est, qui ad Anienem Galli, quem ab eo provoca-tus occiderat, torque detracto cognomen invenit, ‘questo è il Tito Manlio che presso l’Aniene prese il no-me di Torquato dalla collana sottratta a un Gallo che aveva ucciso dopo che lo aveva provocato’);Gellio, Noct. Att., ix 13 7-19, che riporta il racconto contenuto nel primo libro degli Annali di Clau-dio Quadrigario. c 13. Marcellum apud Clastidium: M. Claudio Marcello vincitore nel 222 a.C. a Clas-tidium, nella Gallia Cisalpina, sui Galli guidati da Viridomaro; a lui è dedicata una delle Vite di Plu-tarco. L’episodio si trova in Plutarco, Marc., 6, e Polibio, ii 34. c 14. De Africano: l’episodio in cui è co-involto Scipione l’Emiliano (l’ “Africano Minore”: cfr. piú avanti propter recentem memoriam) è altri-menti sconosciuto. c 15. iurare possum: si noti l’enfasi posta sul racconto della vicenda riguardantel’Emiliano – un personaggio storico tra i piú idealizzati da Cicerone –, rispetto alla prudenzaespressa dal verbo existimo scelto per Torquato e Marcello (è probabile anche una certa diffidenzaverso le fonti di quegli episodi). c 16. De L. Bruto: la morte di Lucio Bruto avvenuta nel 509 a.C.mentre combatteva contro il figlio di Tarquinio il Superbo, Arrunte, è narrata da Livio (ii 6 9), do-ve ricorre anche l’espressione ictu contrario, che si è ipotizzato potesse risalire a Ennio o a una dellefonti principali per l’intero passo, vale a dire Tuberone o Pisone. A tale morte Cicerone aveva fat-to riferimento anche in i 89. c 17. Erymanthio apro . . . leone Nemeaeo?: due tra le piú celebri fatiche diErcole, l’uccisione del cinghiale che infestava il monte Erimanto in Arcadia e del leone presso Ne-mea in Argolide (cfr. Diodoro Siculo, risp. iv 12 1 e 11 3). Si noti il chiasmo tra agg. e sost. c 18. The-

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battimento agirono mai in preda all’ira o alla rabbia. Io credo che neppure quelTorquato12 che per primo ottenne questo nome strappò irato la collana al Gal-lo, e neanche Marcello fu valoroso a Clastidio13 perché era pieno di ira. [50] Dicerto sull’Africano,14 dal momento che ci è piú noto per il ricordo piú recente,potrei giurare15 che non fu acceso dall’ira allorquando in battaglia protesse conlo scudo il peligno Marco Alliennio e affondò la spada nel petto del nemico.Potrei forse nutrire dei dubbi su Lucio Bruto,16 se non abbia attaccato Arruntein maniera troppo sfrenata a causa del suo odio senza fine nei confronti del ti-ranno; mi risulta infatti che entrambi caddero nel corpo a corpo per il colpodell’avversario. Perché dunque qui fate riferimento all’ira? La fermezza, senon comincia a infuriare, non ha i suoi slanci? E che? Uno potrebbe pensareche Ercole, il quale fu accolto in cielo per quella stessa fermezza che voi soste-nete che sia ira, si scontrò forse in preda all’ira con il cinghiale di Erimanto ocon il leone nemeo?17 O anche Teseo prese per le corna il toro di Maratona inpreda all’ira?18 Bada che la fermezza non sia affatto contrassegnata dalla rabbiae che l’ira non sia del tutto il risultato della mancanza di costanza.

[51] Infatti non c’è alcuna fermezza che sia priva della ragione. « Le vicendeumane sono da disprezzare, la morte è da trascurare, dolori e travagli sono daritenersi tollerabili ». Quando queste affermazioni sono rese salde con il giudi-zio e la convinzione, allora quella fermezza diviene vigorosa e sicura, a menoche non sospettiamo che quanto accade con veemenza, con energia, con riso-lutezza accada per effetto dell’ira. A me sembra che neppure Scipione, il notopontefice massimo,19 il quale dimostrò vero il principio degli stoici che il sa-piente non è mai un privato cittadino,20 fosse in collera con Tiberio Graccoquando lasciò da parte il console indolente e lui in persona, pur privato cittadi-

seus . . . iratus?: Teseo è l’eroe ateniese oggetto di culto panellenico come Ercole. L’episodio della cat-tura del toro di Euristeo catturato da Teseo e sacrificato ad Apollo ricorre, tra gli altri, in Plutarco,Thes., 14. c 19. Scipio . . . maxumus: si tratta di Publio Scipione Nasica Serapione che da privato citta-dino guidò nel 133 a.C. i nobili contro Tiberio Gracco che tentava la terza rielezione a tribuno del-la plebe, considerata l’indolenza del console in carica (anche altrove Scipione Nasica è lodato perquesta azione che portò alla morte di Gracco: In Cat., 1 1 3; Off., i 76). Probabilmente Cicerone nel-l’episodio voleva far cogliere un’allusione anche al proprio operato contro Catilina: le due vicen-de sono infatti paragonate in In Cat., loc. cit.: An vero vir amplissumus, P. Scipio, pontifex maximus, Ti.Gracchum mediocriter labefactantem statum rei publicae privatus interfecit; Catilinam orbem terrae caede atqueincendiis vastare cupientem nos consules perferemus?, ‘Ma forse quel grandissimo uomo di Publio Scipio-ne, il pontefice massimo, uccise da privato cittadino Tiberio Gracco che solo in parte minava lecondizioni della repubblica e noi, da consoli, tollereremo Catilina, desideroso di devastare il mon-do intero con stragi e distruzioni?’. c 20. hoc . . . sapientem: un paradosso stoico, riportato da Stobeo(Ecl., ii p. 206), afferma che il saggio ha sempre il compito di pensare al pubblico.

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privatus, ut si consul esset, qui rem publicam salvam esse vellent, se sequi ius-sit.21 [52] Nescio, ecquid ipsi nos fortiter in re publica fecerimus: si quid feci-mus, certe irati non fecimus. An est quicquam similius insaniae quam ira?Quam bene Ennius22 « initium » dixit « insaniae ». Color, vox, oculi, spiritus,inpotentia dictorum ac factorum quam partem habent sanitatis? Quid AchilleHomerico foedius, quid Agamemnone in iurgio?23 Nam Aiacem quidem iraad furorem mortemque perduxit.24 Non igitur desiderat fortitudo advocatamiracundiam;25 satis est instructa parata armata per sese. Nam isto quidem mo-do licet dicere utilem vinulentiam ad fortitudinem, utilem etiam dementiam,quod et insani et ebrii multa faciunt saepe vehementius. Semper Aiax fortis,fortissimus tamen in furore; nam

Facinus fecit maximum, cum Danais inclinantibussummam rem perfecit manu.26

[53] Proelium restituit insaniens: dicamus igitur utilem insaniam? Tracta defi-nitiones fortitudinis: intelleges eam stomacho non egere. Fortitudo est igitur« adfectio animi legi summae27 in perpetiendis rebus obtemperans » vel « con-servatio stabilis iudicii in eis rebus quae formidolosae videntur subeundis etrepellendis » vel « scientia rerum formidolosarum contrariarumque aut omni-no neglegendarum conservans earum rerum stabile iudicium » vel brevius, utChrysippus (nam superiores definitiones erant Sphaeri,28 hominis in primisbene definientis, ut putant Stoici; sunt enim omnino omnes fere similes, seddeclarant communis notiones29 alia magis alia) – quo modo igitur30 Chrysip-pus? « Fortitudo est » inquit « scientia rerum perferendarum vel adfectio animiin patiendo ac perferendo summae legi parens sine timore ».31 Quamvis licetinsectemur istos, ut Carneades32 solebat, metuo ne soli philosophi sint. Quaeenim istarum definitionum non aperit notionem nostram, quam habemus

21. qui . . . iussit: l’espressione, quasi formulare, è riferita a Scipione anche da Velleio Patercolo, ii 3, eValerio Massimo, iii 2 17. c 22. Ennius: inc., 18 Vahlen2. c 23. Achille . . . in iurgio?: la contesa tra i due sitrova in Il., i 121 sgg. c 24. Aiacem . . . perduxit: cfr. Od., xi 543-60. c 25. advocatam iracundiam: metaforatratta dal lessico giuridico. c 26. Facinus . . . manu: versi di autore e opera ignota (TRF, inc. inc. 64-65,dove si accetta la proposta di Hermann di inglobare nella citazione anche le parole che seguono inCicerone, Proelium restituit insaniens, correggendo in manu sua restituit proelium / insanies; altri attri-buiscono anche il nam introduttivo alla citazione ottenendo cosí un verso dal ritmo giambico); inessi si presuppone una versione del mito in base alla quale Aiace impazzito non si suicida – comedi solito tramandato –, ma muore combattendo contro il nemico in difesa dei Danai in fuga. Si no-ti la figura etimologica facinus fecit e la frequenza allitterante del suono m nel secondo verso. c 27. le-gi summae: la legge che regola tutto l’esistente è la ragione. c 28. Sphaeri: Sfero di Boristene, scolaroad Atene di Zenone e Cleante, andò poi a insegnare ad Alessandria su invito di Tolemeo Filopato-

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no, come se fosse il console, ordinò di seguirlo a coloro che volevano salva larepubblica.21 [52] Non so se io stesso abbia agito con fermezza nella vita politi-ca; se ho fatto qualche cosa, certamente non l’ho fatta in preda all’ira. Che cosac’è di piú simile alla pazzia dell’ira? Che giustamente Ennio22 definí « iniziodella pazzia ». Il colorito, la voce, gli occhi, il respiro, l’incapacità di parlare e diagire che hanno di sano? Che cosa c’è di piú turpe di un Achille omerico, checosa di un Agamennone in lite?23 L’ira condusse poi Aiace addirittura al furoree alla morte.24 Dunque la fermezza non desidera l’ira come alleata;25 è suffi-cientemente equipaggiata, preparata, armata di per sé. Su questa scia si potreb-be dire che l’ubriacarsi è utile alla fermezza, utile anche l’uscir di senno, perchédementi e ubriachi spesso fanno molte cose con grande veemenza. Aiace èforte sempre, ma fortissimo quando è furioso; infatti

Compí un’impresa suprema, quando, battendo in ritirata i Danai, compí una grande azione con le sue mani.26

[53] In preda alla follia raddrizzò la battaglia: dunque dobbiamo dire utile lapazzia? Esamina le definizioni di fermezza: comprenderai che non ha bisognodella bile. La fermezza è dunque « un moto dell’anima che obbedisce alla leg-ge suprema27 nell’affrontare le situazioni » o « il mantenimento di un giudizioequilibrato in quelle situazioni che fanno paura nell’intraprenderle o nel re-spingerle » o « la conoscenza delle situazioni che fanno paura e di quelle con-trarie o di quelle del tutto trascurabili che mantiene un giudizio equilibrato ditali cose » o piú in sintesi, come Crisippo (infatti le definizioni precedenti era-no di Sfero,28 uomo tra i piú bravi nel dare definizioni secondo gli stoici; sonoinfatti tutte molto simili, ma chiariscono una meglio dell’altra le nozioni co-muni29) – come è la definizione di Crisippo dunque?30 « La fermezza » dice « èla conoscenza delle situazioni da sopportare o un moto dell’anima pronto adobbedire senza paura alla legge suprema nel sopportare e nel soffrire ».31 Perquanto possiamo criticarli, come era solito fare Carneade,32 ho paura che sia-no loro gli unici filosofi. Quale infatti di queste definizioni non disvela la no-

re. Cfr. SVF, i fr. 628. c 29. communis notiones: corrisponde al gr. koinaiÖ e,nnoiai, con cui gli stoici in-tendono quei concetti che in base all’esperienza si ritrovano in tutti gli uomini, come l’idea di di-vinità. c 30. igitur: riprende il pensiero interrotto dalla parentesi che ha lasciato in sospeso la fraseprecedente. c 31. « Fortitudo . . . sine timore »: SVF, iii fr. 285. c 32. Carneades: a Carneade di Cirene(214-129 a.C., tra i filosofi greci compresi nella celebre delegazione che si recò in ambasceria a Ro-ma nel 155 a.C.) risale l’indirizzo probabilistico della Nuova Accademia; egli avversò soprattutto lostoicismo di Crisippo (cfr. Cicerone, Nat. deor., ii 162: Carneades lubenter in Stoicos invehebatur, ‘Car-neade prediligeva criticare gli stoici’).

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omnes de fortitudine tectam atque involutam?33 Qua aperta quis est qui autbellatori aut imperatori aut oratori quaerat aliquid neque eos existumet sinerabie quicquam fortiter facere posse? [54] Quid? Stoici, qui omnes insipientesinsanos esse dicunt,34 nonne ista conligunt? Remove perturbationes maxume-que iracundiam: iam videbuntur monstra dicere. Nunc autem ita disserunt, sicse dicere omnes stultos insanire, ut male olere omne caenum. « At non sem-per ». Commove: senties. Sic iracundus non semper iratus est; lacesse: iam vi-debis furentem. Quid? Ista bellatrix iracundia, cum domum rediit, qualis estcum uxore, cum liberis, cum familia? An tum quoque est utilis? Est igitur ali-quid quod perturbata mens melius possit facere quam constans? An quisquampotest sine perturbatione mentis irasci? Bene igitur nostri, cum omnia essentin moribus vitia, quod nullum erat iracundia foedius, iracundos solos moro-sos35 nominaverunt.

DE OFFICIIS

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[152] Sed ab iis partibus quae sunt honestatis quemadmodum officia duce-rentur, satis expositum videtur.1 Eorum autem ipsorum quae honesta sunt po-

33. istarum . . . involutam?: notio per Cicerone corrisponde a quanto i Greci intendono con e,nnoia econ proölhciw, che la filosofia ha il compito di sottrarre al vago in modo da renderla chiara ed evi-dente (cfr. Top., 31). In realtà con e,nnoia (‘nozione, concetto’) gli stoici intendono quanto si ap-prende, mentre proölhciw è la ‘nozione innata’. Tuttavia non sempre è possibile stabilire una diffe-renza certa nell’uso dei termini nei frammenti conservati dei filosofi di tale indirizzo. c 34. om-nes . . . dicunt: SVF, iii fr. 665; cfr. ivi, fr. 664 (« tutti gli stolti sono folli »), e Cicerone, Par. Stoic., iv 27;il paradosso stoico vuole mettere in evidenza come le passioni rendono irrazionali. c 35. morosos:Cicerone pone in collegamento etimologico l’aggettivo morosus, ‘intrattabile, bisbetico, bizzarro’con la parola mos, -ris, ‘uso, costume’ (cfr. comunque il greco meörimna, ‘preoccupazione’, o mvriöa,‘follia’, dalla radice mer-).

De officiis. L’opera, nella forma di trattato suddiviso in tre volumi e già probabilmente conclusa il9 dicembre del 44 a.C., quando l’ex console fece rientro a Roma per condurre la battaglia finalecontro Antonio, fu redatta in un lasso di tempo molto breve nell’autunno di quell’anno, una frettacompositiva che non passa inosservata al lettore (vi si trovano periodi interrotti, ripetizioni e an-che doppioni che hanno favorito l’inserimento di successive interpolazioni). Lo scopo di Cicero-ne è di mostrare quale sia l’officium ideale per le varie componenti della società, in particolare per iboni impegnati nella vita pubblica e per coloro che ambiscono a divenire tali (il trattato è dedicatoal figlio Marco). La fonte principale è il perduto PeriÖ tozü kauhökontow (‘Sul conveniente’) del filo-sofo stoico Panezio di Rodi, arricchito probabilmente dei risultati di altri pensatori (in particolare

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zione nostra, che tutti abbiamo della fermezza anche se oscura e nascosta?33

Una volta disvelatala chi è che al guerriero, al comandante, all’oratore chiede-rebbe altro e non li stimerebbe in grado di compiere azioni coraggiose senzarabbia? [54] E che? Gli stoici, che dicono che tutti i non sapienti sono folli,34 for-se che non mettono assieme questi argomenti? Elimina le passioni e soprattut-to l’ira: sembreranno dire delle mostruosità. Ora invece cosí ragionano, dico-no che tutti gli stolti sono folli cosí come tutta la melma ha un cattivo odore.« Ma non sempre ». Smuovila: lo sentirai. Cosí l’iracondo non è sempre in pre-da all’ira; stuzzicalo: subito lo vedrai divenire una furia. E che? Questa ira sem-pre in guerra, quando rientra a casa, come si comporta con la moglie, con i fi-gli, con la servitú? Anche allora è utile? C’è dunque qualcosa che una mentefuori di sé possa fare meglio di una equilibrata? Può uno adirarsi senza scon-volgimento della mente? Bene dunque fecero i nostri antenati, dal momentoche tutti i vizi, di cui nessuno è piú turpe dell’ira, trovano il loro fondamentonei costumi, a chiamare intrattabili35 solo quelli in preda all’ira.

I DOVERI

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[152] Ma mi sembra che si sia detto a sufficienza del modo in cui i doveri so-no dedotti da quegli elementi che costituiscono l’onesto.1 E spesso può acca-

di Posidonio), da cui Cicerone riprende la teoria etico-politica del preöpon, il decorum, cardine del-l’agire sociale. I due valori di riferimento del sistema costruito da Cicerone sulla base della filoso-fia della Stoa piú recente sono l’honestum e l’utile, alla cui trattazione sono dedicati risp. il i e il ii li-bro; al confronto e alla conciliazione tra le due dimensioni è riservato il l. iii, in cui l’autore si di-stacca dichiaratamente dal suo modello primario per giungere a una illustrazione dei suoi princi-pi piú adatta alla prospettiva della classe dirigente romana della fine della repubblica. Nel passotratto dal primo libro Cicerone paragona i principi basilari dell’honestum, concentrandosi in parti-colare sull’opposizione tra ricerca della conoscenza (cognitio) e tendenza naturale alla socievolezza(communitas), un confronto che va a tutto vantaggio della seconda, conformemente ai valori di im-pegno civico e politico della tradizione romana. Nel secondo brano si possono cogliere elementisignificativi di umanesimo, basato sulla propensione spontanea ad aiutare il prossimo per il solofatto di trovarsi di fronte a un altro essere umano: l’utilità coincide quindi per ciascuno con quelladella collettività e lo spinge a venire in soccorso dei propri simili e a subire qualsiasi avversità piut-tosto che danneggiare per proprio tornaconto un altro uomo. Cicerone esamina – probabilmentesulla scorta di Posidonio – le limitazioni di questa legge assoluta dettate dalle circostanze, conclu-dendo che l’interesse generale può consistere nel caso nel privilegiare individui che siano di utili-tà per la comunità e a vantaggio dei quali può essere subordinato il bene del singolo cittadino, ma

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test incidere saepe contentio et comparatio, de duobus honestis utrum hones-tius: qui locus a Panaetio2 est praetermissus. Nam cum omnis honestas3 maneta partibus quattuor,4 quarum una sit cognitionis, altera communitatis, tertiamagnanimitatis, quarta moderationis, haec5 in deligendo officio saepe inter secomparentur necesse est.

[153] Placet igitur aptiora esse naturae ea officia quae ex communitate quamea quae ex cognitione ducantur;6 idque hoc argumento confirmari potest,7

quod, si contigerit ea vita sapienti ut, omnium rerum adfluentibus copiis,[quamvis] omnia quae cognitione digna sint summo otio secum ipse conside-ret et contempletur, tamen, si solitudo tanta sit ut hominem videre non possit,

tale eccezione è sempre condizionata alla necessità superiore di non violare il principio di giusti-zia. Ben diverso è il trattamento da riservare invece al tiranno, da estirpare dal corpo della societàcome un arto incancrenito: un’allusione forse alla recente uccisione di Cesare da parte dei tiranni-cidi. L’ed. è quella curata da M. Winterbottom (Oxford, Univ., 1994) tranne in un caso segnalatoin nota.

i 152-58. Vita attiva e vita contemplativa. Cicerone sostiene con decisione la superiorità della vita at-tiva, impegnata nella politica, rispetto a quella contemplativa, totalmente assorbita dallo studio: iltendere al sapere avulso da una ricaduta pratica è infatti insopportabile per l’uomo, per natura ani-male sociale. Per tale motivo tra i principi dell’honestum risalenti alle virtú cardinali la preferenzaciceroniana va nettamente a quello che spinge alla vita sociale, la communitas (‘socialità’), un istintofondamentale dell’uomo. Tra i quattro principi fondamentali viene condotto un confronto chenell’articolazione del ragionamento non si rivela però realmente serrato: sono infatti trascurati iparagoni reciproci tra tutti e quattro i principi e la discussione si concentra sulla cognitio e la commu-nitas (di fatto sono relegate ad accenni la grandezza d’animo e la temperanza, gli altri due elemen-ti primari dell’honestum), con il prevalere della seconda dimensione sulla prima.

1. ab iis . . . videtur: Cicerone, dopo aver definito nel par. 15 le quattro partes (cioè i principi, gli ele-menti costitutivi, i punti di partenza) da cui è costituito l’honestum, si è dilungato fino a questo pun-to nella descrizione di esse e dei certa officiorum genera (‘determinate tipologie di doveri’) che ne de-rivano. c 2. a Panaetio: Panezio di Rodi (ca. 180-ca. 105 a.C.), soggiornò a Roma tra il 146 e il 131 a.C.,dove fu vicino a Lelio e Scipione Emiliano, e fu a capo della Stoa dal 129 a.C. alla morte: è il filoso-fo che ha moderato il rigore morale dello stoicismo per renderlo fruibile dalla società romana. Lasua opera Sul conveniente, per noi perduta, è la fonte principale del De officiis; Cicerone ne riprendel’individuazione dei quattro elementi costitutivi dell’honestas e li pone a confronto, un passaggiotrascurato a detta di Cicerone da Panezio (ma il confronto è in realtà articolato in sostanza solo tracognitio e communitas, mentre la magnanimitas è relegata al par. 157 e la moderatio al par. 159, qui non ri-portato). Secondo alcuni studiosi questo passo sarebbe ispirato da un filosofo di scuola stoica piúrecente, Posidonio di Apamea (ca. 135-50 a.C., ascoltato direttamente da Cicerone a Rodi), citatopiú oltre al par. 159, ma la questione non è risolta in termini definitivi. c 3. honestas: è il termine, as-sieme ad honestum, con cui Cicerone sceglie di tradurre il kaloön di Panezio. c 4. partibus quattuor: glielementi costitutivi dell’honestas sono la cognitio, che esprime il desiderio di conoscere innato negliuomini, come dichiara Aristotele ad apertura della Metafisica, la communitas, segno della tendenzadell’uomo a radunarsi con altri uomini (anch’esso innato secondo Aristotele, Eth. Nic., 1169b 18:politikoÖn gaÖr o† a,nurvpow kaiÖ szyhün pefzkoöw, ‘l’uomo è infatti un essere sociale e per natura de-

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dere che tra gli aspetti stessi dell’onesto vi sia paragone e confronto, su qualefra due atti onesti sia piú onesto: un punto che non è stato preso in considera-zione da Panezio.2 Infatti, dal momento che ogni atto onesto3 deriva da quat-tro elementi,4 dei quali il primo è la conoscenza, il secondo il senso della co-esione sociale, il terzo la grandezza d’animo, il quarto la capacità di modera-zione, nell’individuare il dovere è spesso necessario confrontare tali elementi5

tra di loro.[153] Si vuole dunque che siano doveri piú consoni alla natura quelli dedotti

dal senso della coesione sociale piuttosto che quelli dedotti dalla conoscenza;6

e lo si può cosí argomentare:7 se al sapiente toccasse di vivere una vita tale che,per la copiosa disponibilità di ogni bene, potesse passare il tempo in totaletranquillità a contemplare e considerare solo con se stesso ogni cosa degna diconoscenza, tuttavia, se la solitudine fosse cosí assoluta da non poter vedere

stinato a vivere con gli altri’; cfr. anche Pol., 1253a 2), la magnanimitas, la pulsione a distinguersi nelfare del bene (non esente da rischi nell’applicazione pratica: cfr. i 42-45, 61 sgg.) e infine la modera-tio, la capacità di autocontrollo che sola può rendere benefica la magnanimitas e in cui è compresol’importante concetto di decorum (‘conveniente’), l’equivalente del greco preöpon (cfr. i 93: id, quoddici Latine decorum potest; Graece enim preöpon dicitur, ‘ciò che in latino si può dire decorum; in greco in-fatti si dice prèpon’ ). Vd. anche i 15: Sed omne, quod est honestum, id quattuor partium oritur ex aliqua. Autenim in perspicientia veri sollertiaque versatur aut in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique et re-rum contractarum fide aut in animi excelsi atque invicti magnitudine ac robore aut in omnium quae fiunt quae-que dicuntur ordine et modo, in quo inest modestia et temperantia, ‘Ma tutto l’onesto nasce da uno di que-sti quattro elementi. O infatti risiede nella diligente conoscenza del vero o nella preservazionedella comunità degli uomini con l’attribuzione a ognuno del suo e nel rispetto degli impegni stret-ti o nella grandezza e la forza di un animo eccelso e invincibile o nell’ordinamento e nella misuradi tutto ciò che si fa e che si dice, in cui consiste la moderazione e la temperanza’. c 5. haec: è la for-ma arcaica del nom. femm. plur. riferito a partes. c 6. Placet . . . ducantur: cfr. i 159: Illud forsitan quae-rendum sit, num haec communitas, quae maxime est apta naturae ea sit etiam moderationi modestiaeque semperanteponenda. Non placet, ‘Ci si potrebbe forse chiedere se questa socialità che è sommamente con-forme alla natura sia anche sempre da preferire alla temperanza e alla moderazione. Non convin-ce’. Il criterio della valutazione della corrispondenza con la natura è un metro di giudizio tipicodella filosofia stoica (cfr. iii 13: quod summum bonum a Stoicis dicitur, convenienter naturae vivere, ‘quelloche è detto dagli stoici il sommo bene, vivere in conformità con la natura’). – Placet: Cicerone usatale verbo per indicare una motivazione a suo parere convincente ma che non ha il valore di unadimostrazione, come si vede anche in i 159 appena citato. c 7. idque . . . potest: l’argomentazione a fa-vore della communitas nei confronti della cognitio si articola in tre punti, rilevati da altrettante mar-che linguistiche: idque hoc argumento, che introduce l’osservazione dell’insostenibilità di una vitadedita esclusivamente allo studio e separata dal consorzio umano; princepsque, dove l’enclitica -quesegnala una nuova riflessione sulla sapientia che coincide con la conoscenza della coesione socialee dei legami fra uomini e dei; etenim, che porta infine alla conclusione che lo studio fine a se stessoe non a una actio rerum è imperfetto. Cicerone in questa scala di valori riflette la concezione tradi-zionale della vita attiva come dimensione superiore a quella puramente contemplativa.

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excedat e vita.8 Princepsque omnium virtutum illa sapientia quam sophianGraeci vocant (prudentiam enim, quam Graeci phronesin dicunt, aliam quan-dam intellegimus, quae est rerum expetendarum fugiendarumque scientia),9

illa autem sapientia, quam principem dixi, rerum est divinarum et humana-rum scientia, in qua continetur deorum et hominum communitas et societasinter ipsos; ea si maxima est, ut est certe, necesse est quod a communitate du-catur officium, id esse maximum. Etenim cognitio contemplatioque naturaemanca quodam modo atque inchoata sit si nulla actio rerum consequatur. Eaautem actio in hominum commodis tuendis maxime cernitur; pertinet igiturad societatem generis humani; ergo haec cognitioni anteponenda est.

[154] Atque id optimus quisque reapse10 ostendit et iudicat. Quis enim esttam cupidus in perspicienda cognoscendaque rerum natura ut, si ei tractanticontemplantique res cognitione dignissimas subito sit adlatum periculum dis-crimenque patriae cui subvenire opitularique possit, non illa omnia relinquatatque abiciat, etiamsi dinumerare se stellas aut metiri mundi magnitudinemposse arbitretur?11 Atque hoc idem in parentis, in amici re aut periculo fecerit.[155] Quibus rebus intellegitur studiis officiisque scientiae praeponenda esseofficia iustitiae, quae pertinent ad hominum utilitatem,12 qua nihil homini es-se debet antiquius.

Atque illi ipsi,13 quorum studia vitaque omnis in rerum cognitione versataest, tamen ab augendis hominum utilitatibus et commodis non recesserunt.Nam et erudierunt multos, quo meliores cives utilioresque rebus suis publicisessent, ut Thebanum Epaminondam Lysis Pythagoreus,14 Syracosium Dio-

8. si contigerit . . . vita: cfr. ii 39: Ac mea quidem sententia omnis ratio atque institutio vitae adiumenta hominumdesiderat, ‘Secondo la mia opinione ogni modalità e ogni disposizione di vita richiede l’aiuto degliuomini’; Fin., iii 65: nemo in summa solitudine vitam agere velit ne cum infinita quidem voluptatum abun-dantia, ‘nessuno vorrebbe condurre una vita in totale solitudine, nemmeno con disponibilità infi-nita di piaceri’. – [quamvis]: la concessiva è sembrata superflua dopo si contigerit e per questo sin daLambinus (Denis Lambin, 1520-1572) si preferisce espungere quamvis che però non è del tutto in-tollerabile. c 9. prudentiam . . . scientia: cfr. p. es. SVF, iii fr. 598: « gli stoici [. . .] dicono che la saggezza(froönhsiw) essendo conoscenza dei beni e dei mali e delle cose indifferenti . . . ». c 10. reapse: arcai-smo per re ipsa, introdotto da Lambinus per correzione di re ab se di una parte della tradizione ma-noscritta. c 11. Quis . . . arbitretur? : l’esempio viene prospettato quasi come una situazione reale: Ci-cerone potrebbe aver avuto in mente il grande matematico e astronomo Archimede (287 ca.-212a.C.; cfr. sopra, p. 277 n. 6), che si prodigò e perse la vita nel corso dell’assedio alla sua città Siracusacondotto dai Romani guidati da Marcello. Egli fu esperto nel dinumerare stellas e metiri mundi magni-tudinem (cfr. Tusc., i 63: « Archimede collegò a una sfera i movimenti della luna, del sole, e dei cin-que astri che si muovono ») e mise la sua scienza al servizio di Siracusa al momento del bisogno. Sinoti l’allitterazione insistita nella frase dinuMErare Se StellaS aut MEtiri Mundi MagnitudineM. c 12.ad hominum utilitatem: il punto di vista utilitaristico è sempre stato diffuso nel pensiero antico; Ci-

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un’anima viva, si allontanerebbe dalla vita.8 Ancora, principio di ogni virtú èquella sapienza che i Greci chiamano sophían (infatti con la prudenza, che iGreci chiamano phrònesin, intendiamo altro, cioè la conoscenza delle cose daricercare o da fuggire);9 la sapienza, che ho definito principio, è la conoscenzadelle cose divine e umane, entro la quale è contenuto il senso di coesione tradei e uomini e i rapporti tra questi ultimi; se essa è la virtú piú grande, come loè, di necessità ne consegue che il dovere piú grande sia quello derivato dal sen-so della coesione sociale. E infatti la conoscenza e la contemplazione della na-tura sarebbero in qualche modo monche e incompiute se non ne conseguissealcuna azione. D’altra parte l’azione si discerne soprattutto all’atto di tutelare ivantaggi degli uomini; concerne dunque la coesione del genere umano; per-ciò è da preferirsi alla conoscenza.

[154] Tutti i migliori lo mostrano coi fatti10 e danno questo giudizio. Chi è in-fatti cosí desideroso di osservare e conoscere la natura che, se all’improvviso,mentre si occupa delle cose piú degne della conoscenza e le osserva, gli venis-se riferito di un pericolo fatale per la patria, alla quale potrebbe recare aiuto esoccorso, non lasci e getti via tutte quelle cose, anche se ritenesse di essere ingrado di contare le stelle o di misurare la grandezza del mondo?11 Altrettantofarebbe in una situazione che riguarda o è pericolosa per un genitore o un ami-co. [155] Dalle quali cose si capisce che i doveri della giustizia sono da preferirsiagli studi e ai doveri della conoscenza, perché i primi sono a vantaggio degliuomini,12 rispetto a cui nulla deve essere piú importante per l’uomo.

E pure coloro,13 di cui gli studi e tutta la vita furono dedicati alla conoscenza del-le cose, non rifuggirono tuttavia dall’accrescere i vantaggi e gli interessi degli uo-mini. Infatti ne educarono anche molti, perché fossero cittadini migliori e piú uti-li alla propria comunità, come il pitagorico Liside educò il tebano Epaminonda,14

cerone insiste sulla sua necessità: cfr. iii 35: cum igitur aliqua species utilitatis obiecta est, commoveri necesseest, ‘quando dunque si presenta un’apparenza di utilità, è necessario che se ne venga eccitati’ (cfr.anche iii 101: « tutti infatti cerchiamo l’utile e ne siamo attratti e non possiamo fare diversamen-te »). c 13. Atque illi ipsi: Cicerone, dopo aver osservato che anche lo studioso piú dedito alle scien-ze astratte vuole aiutare la patria in pericolo, aggiunge la menzione di famosi filosofi e intellettua-li impegnati nel ruolo di educatori nei confronti degli uomini politici (il pitagorico Liside conEpaminonda, Platone con Dione di Siracusa: l’elenco si conclude con un accenno all’esperienzapolitica diretta di Cicerone, formato alla dottrina dei filosofi). c 14. Thebanum . . . Pythagoreus: il pita-gorico Liside di Taranto (V-IV sec. a.C.) fu tra i maestri di Epaminonda, il generale fautore delladecennale egemonia tebana con le vittorie su Sparta a Leuttra nel 371 e Mantinea nel 362 a.C., do-ve egli trovò la morte (cfr. Cicerone, De orat., iii 139, e Nepote, Epam., 2, sulla dedizione di Epami-nonda per il severo maestro).

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nem Plato15 multique multos, nosque ipsi, quidquid ad rempublicam attuli-mus, si modo aliquid attulimus, a doctoribus atque doctrina instructi ad eam etornati accessimus.16 [156] Neque solum vivi atque praesentes studiosos discen-di erudiunt ac docent, sed hoc idem etiam post mortem monumentis littera-rum adsequuntur. Nec enim locus ullus est praetermissus ab iis qui ad leges,qui ad mores, qui ad disciplinam reipublicae pertineret, ut otium suum ad nos-trum negotium17 contulisse videantur. Ita illi ipsi doctrinae studiis et sapientiaedediti ad hominum utilitatem suam intellegentiam prudentiamque potissi-mum conferunt; ob eamque etiam causam eloqui copiose, modo prudenter,melius est quam vel acutissime sine eloquentia cogitare, quod cogitatio in seipsa vertitur, eloquentia complectitur eos quibuscum communitate iuncti su-mus.18

[157] Atque ut apium examina non fingendorum favorum causa congregan-tur, sed cum congregabilia natura sint19 fingunt favos, sic homines, ac multoetiam magis, natura congregati adhibent agendi cogitandique sollertiam. Ita-que, nisi ea virtus quae constat ex hominibus tuendis, id est ex societate gene-ris humani, attingat cognitionem rerum, solivaga cognitio et ieiuna videatur,itemque magnitudo animi remota communitate coniunctioneque humanaferitas sit quaedam et immanitas. Ita fit ut vincat cognitionis studium conso-ciatio hominum atque communitas.20

15. Syracosium . . . Plato: Dione, allievo di Platone a Siracusa, abbatté il tiranno Dionigi il Giovane nel357 a.C., ma fu assassinato nel 353. Le medesime due coppie di allievo e maestro sono citate in Deorat., iii 139 (vd. n. precedente). c 16. nosque . . . accessimus: qui Cicerone fa riferimento alla propriaformazione filosofica: cfr. Nat. deor., i 6: doctissimorum hominum familiaritates, quibus semper domus nos-tra floruit, et principes illi Diodotus Philo Antiochus Posidonius, a quibus instituti sumus, ‘le frequentazionicon gli uomini piú dotti, di cui sempre fu affollata la nostra casa, e principalmente dei celebri Dio-doto Filone Antioco Posidonio, da cui siamo stati formati’ (il riferimento è agli stoici Diodoto ePosidonio e agli accademici Filone di Larissa e Antioco di Ascalona). Si noti la paronomasia docto-ribus . . . doctrina, che sottolinea l’endiadi a doctoribus atque doctrina. c 17. otium . . . negotium: si noti la co-struzione chiastica (sostantivo, aggettivo possessivo, aggettivo possessivo, sostantivo) e la figuraetimologica (otium . . . negotium) a sottolineare la tradizionale opposizione tra la vita contemplativae di quiete e la vita attiva in ambito pubblico (si oppongono anche suum e nostrum). La riflessione ela meditazione filosofica degli intellettuali hanno come scopo la messa in pratica dei precetti e de-gli ammaestramenti nell’azione pubblica da parte di coloro che si impegnano nella vita attiva (quiCicerone ha in mente soprattutto l’attività politica e di governo). c 18. quod . . . sumus: l’eloquenza,che consiste essenzialmente nella comunicazione con gli altri uomini, è una sorta di messa in attodella riflessione che altrimenti sarebbe sterile ed è quindi a essa superiore; sullo stretto legame traeloquenza e filosofia cfr. anche Inv., i 1: sapientiam sine eloquentia parum prodesse civitatibus (‘poco gio-va alle società umane la saggezza senza l’eloquenza’), e De orat., iii 141-43. c 19. ut . . . sint: il confron-to tra la comunità umana e quella delle api si trova già in Aristotele, Pol., 1253a 7-9, ed è ripreso da

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Platone il siracusano Dione,15 e molti altri altri ancora; noi pure, qualsiasi van-taggio abbiamo potuto recare alla repubblica, se mai ne abbiamo arrecatoqualcuno, formati dall’insegnamento di uomini dotti ci siamo avvicinati pre-parati alla vita politica.16 [156] E non solo da vivi e di persona educano e istrui-scono coloro che sono desiderosi di apprendere, ma questo stesso risultato loottengono dopo la loro morte con la testimonianza dei loro scritti. Infatti nonè stato trascurato da loro nessun argomento relativo alle leggi, alla morale, allaorganizzazione dello stato, cosí che sembrano aver consacrato il proprio spa-zio di tranquillità alla nostra vita attiva.17 In tal modo quegli stessi uomini de-diti agli studi di erudizione e di filosofia riversano in massimo grado la propriaintelligenza e la propria esperienza a vantaggio degli uomini; e per lo stessomotivo anche il parlare abbondante, purché controllato, è meglio del riflette-re nel modo piú profondo possibile senza eloquenza, perché la riflessione è ri-volta in se stessa, l’eloquenza coinvolge quelli con cui siamo uniti dal senso dicoesione sociale.18

[157] E come gli sciami delle api non si raggruppano per costruire favi, ma poi-ché sono aggregabili per natura19 costruiscono favi, cosí gli uomini, e in gradoanche molto maggiore, associati per natura usano la propria capacità di agire epensare. Pertanto, se quella virtú che consiste nel proteggere gli uomini, cioènella coesione del genere umano, neppure sfiorasse la conoscenza delle cose, laconoscenza sembrerebbe andare per conto suo ed essere sterile, e ugualmentela grandezza d’animo disgiunta dalla coesione sociale e dal consorzio umanosarebbe per cosí dire un’immane bestialità. Cosí accade che la convivenza e lacoesione sociale degli uomini vincano l’ardore per la conoscenza.20

Plutarco, An seni res p. sit ger., 1 9. L’alveare non è il fine dell’aggregazione delle api, ma il loro sensoinnato di aggregazione ha come conseguenza la costruzione dell’alveare. Cosí l’uomo non si uni-sce agli altri uomini per vantaggi pratici, come sostengono ad es. i seguaci di Epicuro (vd. inizio delpar. sg.), ma ancora piú che per le api per il senso innato della coesione, dell’empatia. Dunque lavirtú che non si dispieghi nel consorzio umano si svilisce e nel caso della magnitudo animi sradical’uomo dalla sua natura trasformandolo in bestia. c 20. Itaque . . . communitas: in tutta l’argomenta-zione sostenuta da Cicerone in questi paragrafi il periodo che va da Itaque, nisi ea virtus a feritas sitquaedam et immanitas è l’unico riferimento alla magnitudo animi e perciò è stato da alcuni o spostatoo espunto o spiegato come una inserzione successiva di Cicerone; la magnitudo animi non sarebbeperò altrimenti considerata nel confronto tra le virtutes e sembra difficile trovare una soluzioneconvincente. Diverso è invece il caso della frase successiva (Ita fit . . . communitas) che anticipa le con-clusioni cui si giunge nel corso del par. 158: si è ipotizzato perciò che si possa trattare di una versio-ne alternativa rispetto alla formulazione di quel par., piú probabilmente il relitto di una preceden-te stesura rimasto nel testo nel corso della pubblicazione dell’opera (forse postuma e comunquepriva della revisione finale dell’autore) e per questo motivo viene generalmente espunta dagli edi-

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[158] Nec verum est, quod dicitur a quibusdam, propter necessitatem vitae,quod ea quae natura desideraret consequi sine aliis atque efficere non posse-mus, idcirco initam esse cum hominibus communitatem et societatem;21

quodsi omnia nobis quae ad victum cultumque pertinent quasi virgula divi-na,22 ut aiunt, suppeditarentur, tum optimo quisque ingenio negotiis omnibusomissis totum se in cognitione et scientia collocaret. Non est ita. Nam et soli-tudinem fugeret et socium studii quaereret, tum docere, tum discere vellet,tum audire, tum dicere.23 Ergo omne officium quod ad coniunctionem homi-num et ad societatem tuendam valet anteponendum est illi officio quod cog-nitione et scientia continetur.

iii 26-32

[26] Ergo unum debet esse omnibus propositum, ut eadem sit utilitas uniuscuiusque et universorum; quam si ad se quisque rapiet, dissolvetur omnis hu-mana consortio.1

[27] Atque etiam, si hoc natura praescribit,2 ut homo homini, quicumque sit,ob eam ipsam causam quod is homo sit, consultum velit, necesse est secundum

tori (non però da Winterbottom che non menziona il problema nell’apparato critico della sua edi-zione). Sulle questioni poste dal passo cfr. K.B. Thomas, Textkritische Untersuchungen zu CicerosSchrift de Officiis, Münster, Aschendorff, 1971, pp. 31-35. c 21. Nec . . . societatem: il par. riprende quantogià sostenuto in 153 a proposito della tendenza naturale a radunarsi in comunità e a non isolarsi, an-che laddove la società non fosse per assurdo necessaria per soddisfare le esigenze pratiche dell’uo-mo (cfr. anche i 12: « E la natura medesima con la forza della ragione avvicina l’uomo all’uomo e allinguaggio e alla comunità di vita e soprattutto produce un amore nei confronti di chi si è genera-to e spinge a celebrare e frequentare le riunioni e le adunanze tra gli uomini e per questi motivi asforzarsi di procacciarsi ciò che serve alle necessità e ai bisogni della vita, non solo per se stessi, maanche per il coniuge, per i figli e per gli altri che si ha cari e si deve proteggere; tale preoccupazio-ne stimola anche gli animi e li rende piú grandi nell’intraprendere l’azione »). Cicerone criticaquindi una visione meramente utilitaristica del formarsi delle società umane. c 22. virgula divina: sitratta della “bacchetta magica” che compie la sua prima apparizione nelle letterature classiche conla Circe omerica, ma che in primo luogo è da associare al caduceo di Mercurio (per cui vd. p. es.Virgilio, Aen., iv 242-45). c 23. tum docere . . . dicere: si noti la disposizione chiastica dell’aspetto attivoo passivo delle azioni indicate (insegnare, imparare, ascoltare, parlare).

iii 26-32. Il bene di ciascuno coincide (quasi sempre) con quello di tutti. A tutela della convivenza civile c’èuna legge di natura universale che spinge gli uomini ad aiutare il prossimo per il solo fatto di ap-partenere alla specie umana; per questo l’utilità comune coincide con il vantaggio di tutti i singoli(non esiste un vantaggio personale al di fuori dell’utilitas comune) e non è permesso recare violen-za agli altri; senza questa naturale tendenza le comunità umane svanirebbero e non vi sarebbe po-

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[158] E non è vero quanto sostengono alcuni, che per i bisogni della vita, dalmomento che quanto la nostra natura desidera non siamo in grado di ottener-lo o procurarcelo senza l’aiuto di altri, è per questo che è iniziato il senso di co-esione e la società fra gli uomini;21 che se ogni cosa relativa ai bisogni e alle ne-cessità della vita ci fosse fornita come per un tocco di bacchetta magica,22 comedicono, allora tutti i piú dotati di ingegno, messa da parte ogni incombenza, siriverserebbero completamente nella conoscenza e nella scienza. Non è cosí.Infatti costoro fuggirebbero la solitudine e andrebbero alla ricerca di un com-pagno di studio, vorrebbero talvolta insegnare, talaltra imparare, talvolta ascol-tare, talaltra parlare.23 Dunque ogni dovere che vale a preservare il consorziodegli uomini e la società è da preferirsi a quel dovere che si ritrova nella cono-scenza e nella scienza.

iii 26-32

[26] Dunque tutti devono condividere questa sola idea: la medesima è l’utili-tà del singolo e quella di tutti; se ognuno se ne impadronisse per sé, ogni co-munità umana svanirebbe.1

[27] E ancora, se la natura prescrive2 che un uomo, a prescindere da chi sia,provveda di sua volontà a un altro uomo per il fatto stesso che è un uomo, di

sto per la coesistenza regolata e pacifica degli uomini. Cicerone pone al vaglio dell’utilitas la normagenerale esaminando alcune situazioni particolari in cui essa sembrerebbe essere modificata econdizionata dalle particolari circostanze: 1) quando essa riguarda e tutela gli affini, ma esclude gliestranei; 2) riguarda i concittadini, ma esclude gli stranieri; 3) riguarda i meritevoli, ma non gli in-capaci; 4) riguarda tutti, ma non il tiranno. Solo in caso di superiore interesse della comunità a te-nere in vita il saggio, utile alla comunità intera, è possibile subordinare a tale esigenza il bene del-l’uomo qualunque, ma da tale possibilità non deve derivare l’ingiustizia. Ben diverso è invece iltrattamento da riservare al tiranno, appartenente a una genia da estirpare dalla società civile comeun arto malato (probabilmente un’allusione all’uccisione di Cesare).

1. unum . . . consortio: cfr. iii 21: Detrahere igitur alteri aliquid et hominem hominis incommodo suum com-modum augere magis est contra naturam quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam cetera, quae possunt autcorpori accidere aut rebus externis. Nam principio tollit convictum humanum et societatem, ‘Sottrarre dunqueall’altro qualcosa e accrescere il proprio vantaggio a spese di un altro uomo è maggiormente con-tro natura della morte, della povertà, della sofferenza, e degli altri accidenti che possono capitareal corpo o ai beni esteriori. Annienta infatti per principio la convivenza e la società umana’. Cice-rone è il primo a usare consortio in prosa (in poesia si trova in Lucilio, 818-19 Marx = 857-58 Krenkel)invece del piú diffuso consortium: il sostantivo indica l’insieme di chi condivide le sortes, con cui sipossono intendere anche le parti toccate in eredità. c 2. natura praescribit: la iunctura, con la personi-ficazione della natura, ricorre piú volte in Cicerone.

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eandem naturam omnium utilitatem esse communem. Quod si ita est, unacontinemur omnes et eadem lege naturae,3 idque ipsum si ita est, certe violarealterum naturae lege prohibemur. Verum autem primum, verum igitur extre-mum.4 [28] Nam illud quidem absurdum est, quod quidam dicunt, parenti seaut fratri nihil detracturos sui commodi causa, aliam rationem esse civium reli-quorum.5 Hi sibi nihil iuris, nullam societatem communis utilitatis causa sta-tuunt esse cum civibus; quae sententia omnem societatem distrahit civitatis.Qui autem civium rationem dicunt habendam, externorum negant, ii diri-munt communem humani generis societatem, qua sublata beneficentia libera-litas bonitas iustitia funditus tollitur; quae qui tollunt, etiam adversus deos im-mortales impii iudicandi sunt. Ab iis enim constitutam inter homines societa-tem evertunt, cuius societatis artissimum vinculum est magis arbitrari essecontra naturam hominem homini detrahere sui commodi causa quam omniaincommoda subire vel externa vel corporis vel †etiam ipsius animi†6 quae va-cent iustitia. Haec enim una virtus omnium est domina et regina virtutum.7

[29] Forsitan quispiam dixerit:8 « Nonne igitur sapiens, si fame ipse conficia-tur, abstulerit cibum alteri homini ad nullam rem utili? [Minime vero: nonenim mihi est vita mea utilior quam animi talis adfectio, neminem ut violemcommodi mei gratia.]9 Quid? Si Phalarim, crudelem tyrannum et imma-nem,10 vir bonus, ne ipse frigore conficiatur, vestitu spoliare possit, nonne fa-ciat? ».

3. lege naturae: Cicerone, dopo aver chiarito che la natura non consente di accrescere i propri beni« con le spoglie degli altri » (iii 22), ha definito la natura come ius gentium (‘diritto naturale’) e la na-turae ratio (‘ragione naturale’) come lex divina et humana (‘legge divina e umana’, iii 23). c 4. Verum . . .extremum: ribadisce la struttura sillogistica del ragionamento: se la comune umanità ci spinge aprenderci cura degli altri uomini, la natura ci spinge a non violare gli interessi degli altri uominiperché a noi collegati dalla medesima umanità. c 5. quod . . . reliquorum: si tratta della visione tradi-zionale della società basata su una concezione familistica, avversata dagli stoici in nome della co-mune natura umana. Cicerone va anche oltre, enfatizzando l’importanza della convivenza civile,che acquisisce un’aura di sacralità in quanto sancita dal volere divino. Sui vari gradi delle societàumane, da quella infinita che abbraccia tutto il genere umano, a quella sancita da vincoli di stirpe elingua, a quella cittadina e infine a quella piú ristretta costituita sulla base dei legami familiari vd. i53. c 6. †etiam . . . animi† : sembra che sia la mancanza di alcune parole dopo questa espressione arendere il periodo incompleto. Tra le varie proposte emendatorie da segnalare la congettura diSydow, affectiones (‘passioni, perturbazioni’, da inserire dopo animi), e la proposta di Atzert di con-siderare le parole seguenti, quae vacent haec, come risultato della corruzione di una nota marginaledi un lettore che si sarebbe accorto della lacuna (l’originario quaere vacant hic, ‘bada, qui manca qual-cosa’, sarebbe stato in seguito deformato e inglobato nel testo nella forma attualmente conserva-ta). c 7. una . . . virtutum: si noti il poliptoto virtus . . . virtutum; per l’espressione domina et regina cfr.Tusc., ii 47: domina omnium et regina ratio, ‘la ragione signora e regina di ogni cosa’, che può divenire

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necessità in base alla medesima natura l’utilità di tutti è un’utilità comune. E seè cosí, tutti noi siamo vincolati da un’unica e identica legge di natura3 e se ciòsta cosí, ci è interdetto con certezza per legge di natura di recare violenza all’al-tro. Vera quindi la premessa, vera la conseguenza.4 [28] Infatti risulta assurdoquello che alcuni dicono, che non sottrarrebbero niente al padre o al fratelloper tornaconto personale, ma che sarebbe diverso quando si trattasse dei rima-nenti cittadini.5 Costoro affermano di non avere con gli altri concittadini alcunlegame giuridico, alcuna comunanza con lo scopo del bene comune; una posi-zione che lacera ogni coesione sociale. Quelli poi che dicono che bisogna ave-re riguardo per i concittadini, ma lo negano agli stranieri, costoro disgregano lacomune coesione del genere umano, eliminata la quale si annientano dallefondamenta la beneficenza, la liberalità, la bontà, la giustizia; coloro che le an-nientano devono essere ritenuti empi anche nei confronti degli dei immortali.Sradicano infatti la società costituita tra gli uomini dagli dei, società il cui lega-me piú stretto è il ritenere maggiormente contro natura che un uomo sottrag-ga qualcosa a un altro uomo per proprio tornaconto piuttosto che subire ognitipo di avversità sia esterne sia del corpo †sia pure interiori . . .†6 che manchinodi giustizia. Essa è infatti l’unica virtú sovrana e regina di tutte le virtú.7

[29] Qualcuno potrebbe dire:8 « Dunque il sapiente stesso, se consunto dallafame, non sottrarrà il cibo a un altro uomo buono a nulla? [Certamente no: in-fatti la mia vita non è per me piú importante della predisposizione d’animo percui non reco danno a nessuno per mio tornaconto personale.]9 E che? Se unuomo onesto, per non essere ucciso dal freddo, potesse privare della veste Fa-laride, tiranno crudele e disumano,10 non lo farebbe? ».

perfecta virtus. c 8. Forsitan . . . dixerit: Cicerone prospetta due quesiti che potrebbero limitare il valo-re assoluto della norma di natura che consiste nel non danneggiare l’altro a proprio vantaggio: en-trambi paradossali, riguardano una eventuale gerarchia e priorità tra il sapiens e colui che è ad nul-lam rem utilis, o l’uomo onesto e il tiranno. Alla prima domanda Cicerone risponde nei parr. 30-31,alla seconda nel 32. La validità della legge universale è suffragata dalla capacità del sapiente di va-lutare i diversi frangenti e di agire a difesa dell’interesse comune anche quando reca danno a unpoco di buono o a un tiranno. Sembra probabile che la fonte di Cicerone per questa parte sia Po-sidonio, in partic. il PeriÖ tozü kataÖ periöstasin kauhökontow (‘Sul dovere a seconda delle circostan-ze’), probabilmente una sezione del suo scritto Sul dovere, che Cicerone chiedeva ad Attico proprioin connessione con la composizione del De officiis (cfr. Ad Att., xvi 11 4); a esso si allude alla fine delpar. 32: quaestiones . . . in quibus ex tempore officium exquiritur, ‘quesiti [. . .] nei quali si ricerca il dovere inbase alle circostanze’. c 9. [Minime. . . gratia]: il periodo è ritenuto un’interpolazione successiva ouna glossa di Cicerone collocata erroneamente nel testo perché la risposta alla prima domanda sitrova al par. 30 e quella alla seconda al 32 (sospetto, anche se non impossibile, l’uso dell’aggettivoutilior nel senso di ‘piú importante’). Per una discussione sulle diverse posizioni vd. Thomas, Text-kritische Untersuchungen, cit., pp. 102-4. c 10. Phalarim . . . immanem: il tiranno di Agrigento (VI sec.

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[30] Haec ad iudicandum sunt facillima. Nam si quid ab homine ad nullampartem utili utilitatis tuae causa detraxeris, inhumane feceris contraque natu-rae legem, sin autem is tu sis qui multam utilitatem reipublicae atque homi-num societati, si in vita remaneas, adferre possis, si quid ob eam causam alteridetraxeris, non sit reprehendendum.11 Sin autem id non sit eiusmodi, suumcuique incommodum ferendum est potius quam de alterius commodis detra-hendum. Non igitur magis est contra naturam morbus aut egestas aut quideiusmodi quam detractio atque appetitio alieni, sed communis utilitatis dere-lictio12 contra naturam est; est enim iniusta. [31] Itaque lex ipsa naturae, quaeutilitatem hominum conservat et continet,13 decernet profecto ut ab homineinerti atque inutili ad sapientem bonum fortem virum transferantur res ad vi-vendum necessariae, qui si occiderit multum de communi utilitate detraxerit,modo hoc ita faciat ut ne ipse de se bene existimans seseque diligens hanc cau-sam habeat ad iniuriam.14 Ita semper officio fungetur utilitati consulens homi-num et ei quam saepe commemoro humanae societati.

[32] Nam quod ad Phalarim attinet, perfacile iudicium est. Nulla est enimsocietas nobis cum tyrannis et potius summa distractio15 est, neque est contranaturam spoliare eum, si possis, quem est honestum necare, atque hoc omnegenus pestiferum atque impium ex hominum communitate exterminandumest. Etenim, ut membra quaedam amputantur si et ipsa sanguine et tamquamspiritu16 carere coeperunt et nocent reliquis partibus corporis, sic ista in figurahominis feritas et immanitas beluae17 a communi tamquam humanitatis cor-

a.C.) è ampiamente usato come paradigma di crudeltà (cosí p. es. Aristotele in piú occasioni): cfr.ii 26: Phalaris, cuius est praeter ceteros nobilitata crudelitas, qui non ex insidiis interiit . . . ut hic noster, sed in quemuniversa Agrigentinorum multitudo impetum fecit, ‘Falaride, la cui crudeltà è nota oltre gli altri, che nonmorí per congiure [. . .] come questo nostro tiranno, ma che fu assaltato da tutta la popolazione diAgrigento’, dove si può notare l’allusione a Cesare (hic noster), cui forse Cicerone pensa anche nelnostro luogo; cfr. anche iii 19: Num igitur se adstrinxit scelere, si qui tyrannum occidit quamvis familiarem?,‘Si rende dunque forse colpevole di un delitto colui che uccide un tiranno, anche se a lui vicino?’(con chiaro riferimento al tirannicida Bruto). Nel periodo della composizione del De officiis Cesa-re è infatti già stato ucciso e sono possibili riferimenti di tale tipo. c 11. sin autem . . . reprehendendum:si veda però la decisa risposta del filosofo stoico Ecatone, citato da Cicerone in iii 89, alla possibili-tà che un sapiente salvi la propria vita a scapito di quella di uno sciocco: « Lo nega, perché sarebbecontrario al diritto ». c 12. derelictio: la parola compare qui per la prima volta ed è probabile che siastata coniata da Cicerone. c 13. conservat et continet: si noti la paronomasia tra i due verbi formati conil medesimo preverbio (cum) cosí come poco dopo avviene tra i due aggettivi iners e inutilis (inerti at-que inutili). c 14. modo . . . iniuriam: la considerazione della maggiore utilità per la società rappresen-tata dalla sopravvivenza dell’uomo saggio o valoroso rispetto all’inetto è limitata dalla necessitàche tale predilezione non sia viziata dall’eccessiva autostima e dall’amor proprio del sapiens, dallafilaztiöa, su cui il giudizio comune e dei filosofi è spesso negativo. c 15. distractio: per l’uso di que-

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[30] Questi quesiti sono estremamente facili a risolversi. Infatti se tu sot-traessi qualcosa a un uomo di nessun valore per la tua utilità, avresti agito inmodo disumano e contro la legge di natura, ma se tu sei tale da poter recaremolta utilità alla repubblica e al consorzio degli uomini con il rimanere in vita,nel caso in cui sottraessi qualcosa a un altro per tale motivo, non sarebbe dabiasimare.11 Ma se d’altra parte non c’è una tale situazione, ognuno deve sop-portare il proprio disagio personale piuttosto che sottrarre qualcosa dai beni diun altro. Dunque malattia o povertà o cose simili non sono piú contro naturadel sottrarre a un altro o del desiderarne i beni, ma l’abbandono12 dell’utilitàcomune è contro natura: è infatti ingiusto. [31] Pertanto la legge stessa di natu-ra che consiste nel conservare e mantenere13 l’utilità degli uomini, stabiliscesenza equivoci che i beni necessari a vivere vengano trasferiti da un uomoinetto e inutile a un uomo saggio, buono, valoroso, il quale, se morisse, sot-trarrebbe molto all’utilità comune, purché solo egli compia questa azione sen-za prendere la stima e la predilezione per se stesso come motivo per compiereun’ingiustizia.14 Cosí svolgerà sempre il proprio dovere provvedendo all’utili-tà degli uomini e a quella coesione sociale che spesso vado ricordando.

[32] Per quanto riguarda poi Falaride, il giudizio è molto semplice. Infatti nonabbiamo alcuna relazione con i tiranni e anzi una ostilità15 massima, e non ècontro natura, se si può, denudare colui che è cosa onesta uccidere, ed è un ob-bligo estirpare completamente dalla comunità degli uomini questa pestifera edempia stirpe. E difatti, come si amputano alcuni arti non appena comincino anon avere sangue e per cosí dire vitalità16 e nuocciono alle rimanenti parti delcorpo, cosí questa ferocia e disumanità da bestia con l’aspetto di uomo17 è da se-

sto termine nel senso di ‘disaccordo, discordia’ del corpo civico cfr. Varrone, De vita pop. Rom., fr. 66Riposati (= 395 Salvadore): distractione civium elanguescit bonum proprium civitatis atque aegrotare incipit etconsenescit, ‘per il disaccordo tra i cittadini si indebolisce il bene proprio dello stato e comincia a sof-frire e si logora’. c 16. tamquam spiritu: il tamquam serve a segnalare la valenza metonimica di spiritusapplicato a un singolo membro del corpo, visto che solitamente riguarda l’intera persona. c 17.ista . . . beluae: tale raffigurazione ferina del tiranno era già in Re p., ii 48: tyrannus, quo neque taetrius ne-que foedius nec dis hominibusque invisius animal ullum cogitari potest; qui quamquam figura est hominis, mo-rum tamen inmanitate vastissimas vincit beluas. Quis enim hunc hominem rite dixerit, qui sibi cum suis civibus,qui denique cum omni hominum genere nullam iuris communionem, nullam humanitatis societatem velit?, ‘il ti-ranno, di cui non si può concepire un essere vivente piú abietto o immondo o piú odioso agli deie agli uomini; il quale, per quanto abbia sembianze di uomo, per disumanità dei costumi superatuttavia le belve piú mostruose. Chi infatti chiamerebbe correttamente un uomo colui che nonvuole con i suoi concittadini, e quindi con l’intera stirpe umana, alcuna comunanza del diritto, ealcuna aggregazione sociale propria dell’umanità?’; l’immagine, anche se non riferita al tiranno,torna anche al par. 82: Quid enim interest, utrum ex homine se convertat quis in beluam an hominis figura im-

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i · la ricerca filosofica di cicerone

pore18 segreganda est. Huius generis quaestiones sunt omnes eae in quibus extempore officium exquiritur.

manitatem gerat beluae?, ‘Che differenza c’è infatti se da uomo uno si trasformi in bestia o se con lesembianze di uomo rechi la disumanità della bestia?’. c 18. humanitatis corpore: è correzione dei co-dici piú recenti, di solito accolta dagli editori, al posto della lezione humanitate corporis dei testimo-ni piú importanti (‘umanità del corpo’; quest’ultima variante è mantenuta da Winterbottom cheperò segnala in apparato come « forse giusta » l’altra lezione): humanitate corporis sembrerebbe in-fatti essere stata influenzata dalla precedente espressione astratta (feritas et immanitas beluae, e forse

iii · la filosofia

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parare dal corpo comune, per cosí dire, dell’umanità.18 Di questo tipo sono tut-ti quei quesiti nei quali si ricerca il dovere in base alle circostanze.

anche da figura6 hominis). Per il confronto tra i membri della società e del corpo umano vd. iii 22: Ut,si unum quodque membrum sensum hunc haberet, ut posse putaret se valere, si proximi membri valitudinem adse traduxisset, debilitari et interire totum corpus necesse esset, ‘Come, se un membro potesse essere dell’i-dea di essere vigoroso traendo a sé il vigore del membro vicino, necessariamente si indebolirebbee perirebbe il corpo tutto’.

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i · la ricerca filosofica di cicerone

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INDICE

Presentazione 9

Abbreviazioni bibliografiche 11

I. LA STORIOGRAFIA 15

Nota introduttiva 17

I. Cesare e i Commentarii 35Gall., vii 77-79; 84-89. La presa di Alesia 40Civ., i 1-5. I prodromi della guerra 50

II. Sallustio e la storiografia monografica 58Cat., 5 1-8. Il ritratto di Catilina 62Cat., 20-22. Il discorso di Catilina ai congiurati 64Cat., 37-39. La corruzione della plebe 70Iug., 6-8. Virtuosa gioventú di Giugurta 74Iug., 63-64. Ritratto di Mario 78Hist., ii fr. 47. Il discorso di Gaio Cotta al popolo romano 84

III. Il ritorno della narrazione annalistica: Tito Livio 88xxii 44-50 3; 51. La battaglia di Canne 92

IV Velleio Patercolo e la storiografia filoimperiale 106ii 84-87. La battaglia di Azio 108

V. Una storia esemplare: i Fatti e detti memorabili di Valerio

Massimo 116ix 1. L’amore del lusso e la passione dei sensi 118

VI. Tra storiografia e romanzo: Curzio Rufo 126vi 5 24-6 12. Alessandro incontra la regina delle Amazzoni e adotta i costumipersiani 128

VII. Tacito e la storiografia senatoria 134Agr., 29-32. Il discorso di Calgaco 138Germ., 18-19; 22-24. Virtú e vizi dei Germani 144Hist., v 2-5. Origini e costumi degli Ebrei 150Ann., xiv 1-8. Il matricidio di Nerone 158

indice

994

VIII. Ammiano Marcellino e la storiografia pagana 172xvi 5. Virtú e meriti di Giuliano 176

IX. La letteratura biografica 184Nepote, Ham., 1; 3-4. Vita di Amilcare 188Nepote, Att., 21-22. Nobile morte di Attico 192Svetonio, Cal., 29-31. Detti e azioni crudeli di Caligola 194Svetonio, Vit., 13-14. Dissolutezza e crudeltà di Vitellio 198Elio Lampridio, Hel., 14-17 7. L’ingloriosa fine di Eliogabalo 202

II. L’ORATORIA E LA RETORICA 211

Nota introduttiva 213

I. Cicerone tra pratica oratoria e riflessione teorica 231Mur., 60-68. Severità esagerata 240Cael., 33-35. Un Romano d’altri tempi 248In Pis., 26-33. Un console da dimenticare 254Mil., 90-91. La curia a ferro e fuoco 262Phil., 2 68. La casa di Pompeo 266De orat., i 149-59. L’esercitazione necessaria 268De orat., iii 132-36. Unitarietà delle discipline e condanna della specializzazione 276

II. Gli sviluppi della retorica e le declamazioni 282

Seneca il Vecchio, Contr., vii 8 thema; 7-11. Il diritto a una scelta consapevole 284

III. Eloquenza e educazione in Quintiliano 292i 10 1-11. “Enciclopedia” e formazione dell’oratore ideale 296ii 8. Inclinazione naturale e cure del maestro 302xii 7. Scelta delle cause e compenso dell’oratore 306

IV. Il Dialogus de oratoribus 31420. Che pedanti questi antichi! 31638. Non c’è piú materia per l’eloquenza 320

III. LA FILOSOFIA 325

Nota introduttiva 327

995

indice

I. La ricerca filosofica di Cicerone 343Tusc., i 31-35. Il presentimento delle generazioni future 350Tusc., ii 3-9. Dall’oratoria alla filosofia 354Tusc., iv 47-54. Forza senza ira 362Off., i 152-58. Vita attiva e vita contemplativa 370Off., iii 26-32. Il bene di ciascuno coincide (quasi sempre) con quello di tutti 378

II. La filosofia di Seneca tra politica e morale 3861. Consigli al principe: il De clementia 386

Clem., i 5 2-7. La clemenza si addice ai sovrani 3882. La dottrina stoica: i Dialogi 392

Prov., 4. La lotta della virtú 396Cons. ad Helv., 8. Lo spettacolo della natura 406Tranq., 2 6-15. Il disgusto di sé 410

IV. IL ROMANZO 421

Nota introduttiva 423

I. Un enigma letterario: il Satyricon di Petronio 42926 7-44 18. Le mille e una esibizioni di Trimalchione 434

II. Le Metamorfosi di Apuleio tra magia, favola e misteri 462iv 28-v 4. Psiche novella Venere. La condanna dell’oracolo. La reggia divina el’arrivo dell’ignoto marito 466v 11. L’avvertimento e l’annuncio 480v 18-19. La malizia prevale sull’ingenuità 482v 21-25. Il piano notturno e l’apparizione di Cupido 482v 28-30. L’ira di Venere 490vi 16-24. La prova finale. Il matrimonio 494

V. GLI EPISTOLARI 505

Nota introduttiva 507

I. Vita attraverso le lettere: le raccolte epistolari di

Cicerone 514Ad Q. fratrem, ii 10 (9). La poesia di Lucrezio 518Ad Att., vii 11. La guerra civile 520Ad fam., v 12. A Lucceio. Una richiesta impudente 522

indice

996

II. La lettera come strumento di progresso morale: le Epistole

a Lucilio di Seneca 5321. Solo il tempo è nostro 53647. Anche gli schiavi sono uomini 538

III. L’ epistolario come genere letterario: Plinio il Giovane 548vi 16. La morte di Plinio il Vecchio 550x 96 (97). Come comportarsi con i cristiani? 556x 97 (98). Non vanno ricercati 558

IV. Frontone e il gusto arcaizzante 562iv 3. L’importanza di scegliere le parole 564

V. Testimonianze di un intellettuale pagano: le Lettere di

Simmaco 574iii 11. Questioni di stile epistolare e ringraziamento per i doni letterari 576iii 13. Un nuovo invito 578iii 14. Negata ospitalità 580iii 16. Un premurosa richiesta 582

VI. I nuovi confini del genere: l’epistolario di Sidonio Apollinare 584ii 1. Ritratto di Seronato 586iv 22. La “recusatio” del genere storiografico 590

VI. LA LETTERATURA TECNICO-SCIENTIFICA ED ERUDITA 597

Nota introduttiva 599

I. L’agricoltura e l’agrimensura 613Catone, Agr., 1-2. L’acquisto del podere e i doveri del capofamiglia 620Varrone, Rust., iii 16 1-11. L’apicoltura 626Columella, xii praef. Divisione dei compiti nell’antica famiglia romana edevoluzione della società 632

II. La filologia, la grammatica, l’erudizione 638Varrone, Ling. Lat., v 80-86. Magistrati e sacerdoti 646Varrone, Ling. Lat., x 72-78. L’analogia linguistica in rapporto all’uso deiparlanti 650Gellio, Noct. Att., i 18. A proposito di etimologie sbagliate 654Gellio, Noct. Att., xi 15. Sull’origine e il valore di una “particula” 658

997

indice

Gellio, Noct. Att., xv 9. Un grammatico ignorante 660Macrobio, Saturn., v 1. Virgilio oratore 664

III. L’architettura 674Vitruvio, i 4. Salubrità dei luoghi e fondazione delle città 676Frontino, Aqu., 9-12. Gli acquedotti di Agrippa e di Augusto 684

IV. La filosofia della natura: le Naturales quaestiones di Seneca 692vi 31-32. Il terremoto in Campania 696

V. La descrizione del mondo 704Mela, i 49-60. L’Egitto 708Plinio, Nat. hist., vi 81-91. L’isola di Ceylon 714

VI. Il sapere enciclopedico 722Plinio, Nat. hist., ii 14-27. La critica della religione 728Plinio, Nat. hist., viii 89-97. Fauna nilotica 736Marziano Capella, ix 920-29. I doni di Armonia 742Cassiodoro, Inst., i 30. Le “armi” del copista 750

VII. La medicina e la veterinaria 756Celso, ii 5-6. Diagnostica e utilità della medicina 764

VIII. La culinaria: Apicio 772v 179. Farinate “giuliane” 774v 187. Timballo di piselli 774vi 232. Per il fenicottero 776vi 247. Pollo “alla Varda” 778viii 367. Maialino farcito due volte 778viii 380. Maialino “all’ortolana” 780ix 399. Aragoste arrosto 780

IX. La poliorcetica 782Frontino, Strat., ii 5 1-16. Le imboscate 786Vegezio, Mil., i 8. Quando devono essere tatuate le reclute 792Vegezio, Mil., i 28. Esortazione alla scienza militare e alla virtú romana 794

SCHEDE BIO-BIBLIOGRAFICHE 799

Ammiano Marcellino 801Apicio 804

indice

998

Apuleio 807Cassiodoro 815Catone 819Celso 822Cesare 825Cicerone 831Columella 854Cornelio Nepote 857Curzio Rufo 860Frontino 863Frontone 865Gellio 868Historia Augusta 871Livio 877Macrobio 882Marziano Capella 886Petronio 889Plinio il Giovane 893Plinio il Vecchio 897Pomponio Mela 900Quintiliano 903Sallustio 907Seneca 914Seneca il Vecchio 926Sidonio Apollinare 928Simmaco 931Svetonio 934Tacito 938Valerio Massimo 944Varrone 947Vegezio 955Velleio Patercolo 958Vitruvio 961

INDICI

Indice dei nomi e delle cose notevoli 967

Indice delle illustrazioni 992

questo volume vii

de « lo spazio letterario di roma antica »

è stato composto con il carattere bembo e stampato a

cittadella (padova) da bertoncello artigrafiche

per conto della salerno editrice.

aprile 2012