La città nel cinema di Pasolini: l'epos del villaggio, il Dopostoria della borgata

20
1 MASSIMILIANO MALAVASI LA CITTÀ NEL CINEMA DI PASOLINI: L’EPOS DEL VILLAGGIO, IL DOPOSTORIA DELLA BORGATA[p. 383] Una premessa Ho speso la mia prima adolescenza facendo a pugni con bulli di periferia e tirando calci a un pallone su campi di polvere e sassi tra Portonaccio e Casal Bruciato. Quando poi l’insana passione per lo studio letterario mi ha confinato nell’isole beate delle biblioteche storiche di Roma, il mio nuovo quotidiano si è depositato sui precedenti ricordi come i terreni alluvionali sugli antichi tavolati. Naturalmente continuo ad attraversare la zona orientale di questa città e ne osservo i mutamenti, facendo quadrare mentalmente qualche riflessione con le poche nozioni di sociologia, di storia nazionale e di sviluppo degli usi architettonici e urbanistici. E così, quando tra il 1996 e il 1997 è stato completato lo svincolo che collega i due segmenti – fino ad allora spezzati – dell’enorme arteria stradale di viale Palmiro Togliatti, ho avuto l’impressione che fosse accaduto qualcosa di importante. E subito dopo mi sono reso conto che il pensiero che avevo avuto mi era stato, in qualche maniera, suggerito da Pasolini; dai suoi elzeviri, dai suoi romanzi, ma soprattutto da i suoi film. Era stata la sua opera a dare un senso all’interpretazione storica e sociologica che mi stavo formando. E quel senso attraversava quella mia coscienza presente che rifletteva sul suo angolo di città, e quel passato di ragazzino di borgata romana, e la storia della sua famiglia che in quel territorio era andata a costruirsi una vita anni prima: quel senso costituiva una stratigrafia della mia interiorità. Il cuneo di Roma formato dalle consolari Tiburtina e Tuscolana e dall’arco di viale Togliatti è una mostruosa congerie di tombe romane, ville imperiali, acquedotti repubblicani, torri medievali, casali ottocenteschi, prati coltivati, baracche di pastori, borgate fasciste, complessi dell’INA-[p. 384]Casa, palazzoni degli anni ’70, discariche abusive, svincoli autostradali, sottopassaggi, tangenziali, e persino un cimitero. È questa la zona dove Pasolini visse e operò soprattutto nei suoi primi anni romani, quando abitava in via Tagliere e andava a insegnare a Ciampino. Sono le strade e i palazzi di questa zona a costituire lo sfondo di Ragazzi di vita, Una vita violenta, La notte brava, Questo saggio è apparso come appendice a GIORDANO MEACCI, Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma, minimum fax, 1999, pp. 383-408. Qui ne offro il testo identico a quello che fu stampato dall’editore ma a partire dal mio file word (e inserendo quindi tra parentesi quadre i cambi di pagina); ho aggiunto invece le immagini delle scene commentate, che non figurano nel saggio andato in stampa.

Transcript of La città nel cinema di Pasolini: l'epos del villaggio, il Dopostoria della borgata

1

MASSIMILIANO MALAVASI

LA CITTÀ NEL CINEMA DI PASOLINI:

L’EPOS DEL VILLAGGIO, IL DOPOSTORIA DELLA BORGATA∗

[p. 383]

Una premessa

Ho speso la mia prima adolescenza facendo a pugni con bulli di periferia e tirando calci a un

pallone su campi di polvere e sassi tra Portonaccio e Casal Bruciato. Quando poi l’insana passione

per lo studio letterario mi ha confinato nell’isole beate delle biblioteche storiche di Roma, il mio

nuovo quotidiano si è depositato sui precedenti ricordi come i terreni alluvionali sugli antichi

tavolati. Naturalmente continuo ad attraversare la zona orientale di questa città e ne osservo i

mutamenti, facendo quadrare mentalmente qualche riflessione con le poche nozioni di sociologia, di

storia nazionale e di sviluppo degli usi architettonici e urbanistici. E così, quando tra il 1996 e il

1997 è stato completato lo svincolo che collega i due segmenti – fino ad allora spezzati –

dell’enorme arteria stradale di viale Palmiro Togliatti, ho avuto l’impressione che fosse accaduto

qualcosa di importante. E subito dopo mi sono reso conto che il pensiero che avevo avuto mi era

stato, in qualche maniera, suggerito da Pasolini; dai suoi elzeviri, dai suoi romanzi, ma soprattutto

da i suoi film. Era stata la sua opera a dare un senso all’interpretazione storica e sociologica che mi

stavo formando. E quel senso attraversava quella mia coscienza presente che rifletteva sul suo

angolo di città, e quel passato di ragazzino di borgata romana, e la storia della sua famiglia che in

quel territorio era andata a costruirsi una vita anni prima: quel senso costituiva una stratigrafia della

mia interiorità.

Il cuneo di Roma formato dalle consolari Tiburtina e Tuscolana e dall’arco di viale Togliatti

è una mostruosa congerie di tombe romane, ville imperiali, acquedotti repubblicani, torri medievali,

casali ottocenteschi, prati coltivati, baracche di pastori, borgate fasciste, complessi dell’INA-[p.

384]Casa, palazzoni degli anni ’70, discariche abusive, svincoli autostradali, sottopassaggi,

tangenziali, e persino un cimitero. È questa la zona dove Pasolini visse e operò soprattutto nei suoi

primi anni romani, quando abitava in via Tagliere e andava a insegnare a Ciampino. Sono le strade

e i palazzi di questa zona a costituire lo sfondo di Ragazzi di vita, Una vita violenta, La notte brava,

∗ Questo saggio è apparso come appendice a GIORDANO MEACCI, Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma, minimum fax, 1999, pp. 383-408. Qui ne offro il testo identico a quello che fu stampato dall’editore ma a partire dal mio file word (e inserendo quindi tra parentesi quadre i cambi di pagina); ho aggiunto invece le immagini delle scene commentate, che non figurano nel saggio andato in stampa.

2

dei primi film; e questi quartieri (Tiburtino, Prenestino, Casilino e Tuscolano) torneranno

nell’incompiuto Petrolio. Qui si era formata quella nuova generazione di sottoproletariato, frutto

della mescolanza di immigrati del Veneto e del meridione con masse del Lazio contadino e vecchi

abitanti dei rioni romani abbattuti. E i figli di quella prima generazione “borgatara” erano i famosi

“ragazzi di vita”, dai jeans scuciti e strappati, con le scarpe impolverate, le magliette strette al torso

sudato, occhi neri e capelli ricci: sensuali, innocenti, pagani, erano per Pasolini a un tempo

espressione estetica della sua “passione” e evidenza palese della sua “ideologia”: le vittime della

ristrutturazione in atto nell’ordinamento del capitalismo mondiale. Con i loro volti, le loro storie, le

loro baracche Pasolini costruì la sua «riapparizione poetica di Roma».

Accattone

Accattone ha come scena centrale il quartiere vicino a quella Maranella dove vivevano i

Citti e dove era avvenuto l’incontro con Franco: il Pigneto. Schiacciato tra la confluenza di Casilina

e Prenestina, il Pigneto, specialmente nel tratto tra il fossato della ferrovia e via Alberto da

Giussano, è un dedalo di stradine polverose, a tutt’oggi solo malamente asfaltate, una ragnatela di

umili casette a due, tre piani e di baracche circondate da orticelli improvvisati; con il bar, sul [p. 385]

modello delle osterie ottocentesche per viaggiatori, come unico “servizio” urbano, e lotti occupati

da calcinacci e rifiuti, recintati con bastoni e fil dir ferro: Via Fanfulla da Lodi, in mezzo al Pigneto, con le casupole basse e i muretti screpolati, era di una granulosa grandiosità, nella sua estrema piccolezza; una povera umile, sconosciuta stradetta, sperduta sotto il sole, in una Roma che non era Roma.

Sin dalla prima immagine noi vediamo bene che nell’occhio del regista s’annida uno sguardo

d’amore per quest’isola nella città. Nella prima sequenza il gruppo di amici seduti sugli umili

tavolini del bar di via Fanfulla da Lodi offrono l’immagine di una comunione profonda tra il loro

essere e il territorio. Per quanto umile e degradato sia l’ambiente, tuttavia è palese la stretta

consanguineità di quei muri bianchi, della strada polverosa, dei cancelli in legno della casa vicina,

con questa umanità inerte e oziosa, distesa al sole per intimo e naturale senso di benessere fisico.

3

Uguale sensazione di benevolo rifugio comunica l’immagine dello spiazzo davanti alla “bicocca” di

Accattone: il protagonista vi rientra dalle sue peripezie cittadine, attraverso un mondo ostile e

nemico, e il nostro sguardo lo accompagna con un senso di gratitudine dei confronti di quest’angolo

appartato del “villaggio” del Pigneto. La baracca in muratura ha persino una specie di cancelletto in

legno e una striscia di terra coperta di piante a ingentilire lo squallore col ricordo di una abitudine

costruttiva di antico sapore paesano: l’evidenza di una abitazione sporca, disagiata, priva di servizi,

affollata oltre il limite della dignità umana si accompagna all’idea di uno spazio materiale

espressione di una essenza comune a quella del protagonista, di una tana polverosa che offre

benevolo rifugio all’a[p. 386]nimale umano ferito.

4

Analoghe riflessioni sul terzo angolo del Pigneto: l’osteria di via Fanfulla da Lodi angolo via

Braccio da Montone. Anche qui è forte l’impressione di un’immediata comprensione e di una sorta

di fraterno sentimento di alleanza e comunanza tra l’anarchica libertà della miseria di mura bianche

e steccati di legno e l’esistenza degli innocui delinquenti che vi passano il giorno.

Naturalmente, se le immagini del Pigneto comunicano un’impressione positiva nonostante il

degrado e la miseria, questo va attribuito non solo al fatto che l’occhio del regista valorizza

l’aspetto fenomenico positivo della loro condizione (la dimensione campagnola e paesana),

evidenziando la sensazione di benevola comunanza tra quelle case e il protagonista, ma anche alla

capacità di Pasolini di far condividere quel dramma a uno spettatore la cui natura immancabilmente

borghese non può che trovarsi a disagio davanti alla personalità di Accattone. Disagio che, però,

non avrebbe ragione di essere se una risolutoria condanna morale potesse essere espressa senza

riserve. Invece «Questi personaggi e Accattone particolarmente, sono, miracolosamente, simpatici.

Non avrebbero alcun motivo di esserlo: dovrebbero piuttosto essere odiosi ... invece noi siamo con

loro, e partecipiamo». Oltre le violenze psicologiche e morali compiute da Accattone, parzialmente

scusabili alla luce della miseria e della fame, ad apparire infatti davvero privo di ogni possibile

redenzione è un modo di vivere che non solo rifiuta l’idea borghese del miglioramento perenne e

della costruttività infaticabile, ma sembra incapace di concepire un modello alternativo che abbia in

sé un qualunque principio costruttivo (necessario fattore di civiltà e legge della materia prima che

ossessione nevrotica borghese). Eppure lo spettatore ne comprende le motivazioni dal momento che

[p. 387] Pasolini riesce a mostrarci come Accattone sia un sottoproletario pre-borghese inserito a forza

in un sistema economico e culturale alienante e opprimente. È l’erede di una cultura contadina

priva, nelle mutate condizioni, delle coordinate comportamentali e culturali per gestire mezzi e

risorse umane, e quindi un condannato alla sola funzione negativa nei confronti di quell’ordine

borghese che ha monopolizzato sistemi di produzione e cultura comportamentale, impedendo ogni

alternativa. Sappiamo come in Pasolini questa analisi del presente fosse funzione di una personale

visione della storia della civiltà: Mito-Sacro-Preistoria sono espressione dell’era agricola

dell’umanità e di questi valori la cultura contadina è stata custode religiosa. A questa sorta di età

dell’oro fece seguito la storia del progresso; che fu, sin dalle origini, storia borghese, imperialismo

militare e rivoluzione industriale: sulla statica ciclicità dell’aevum contadino si innestò la mala

pianta del tempus progressivo dell’era borghese. E ora, con l’arrivo del secondo Novecento, ecco la

terza fase: il Neocapitalismo, trionfante sulle ridicole dittature degli anni venti e sulla fallimentare

proposta del socialismo sovietico, sta stringendo le fila del nuovo ordine mondiale incentrato sulla

globalizzazione totalizzante dei mercati, sull’espansione incontrollata dei consumi, sulla

deportazione di masse contadine nei campi di concentramento delle periferie urbane al fine di

5

costituire il serbatoio di manodopera per le nascenti industrie dei beni voluttuari e le loro

oscillazioni occupazionali.

Accattone è ancora l’uomo sacro della civiltà contadina. Il suo essere privo di una direzione

morale, la sua incapacità nella gestione della realtà, l’assenza nella sua vita di una progettualità

costruttiva sono conseguenza del suo sdradica-[p. 388]mento sociale e culturale. Estraneo al codice

borghese – nella città dell’impero neocapitalistico – può solo compiere l’estrema realizzazione

dell’istintualità sacrale e mitica implicita nella sua natura: come in un antico epos il suo destino è

scritto nell’inizio degli eventi e lo condurrà all’ineluttabile morte prematura.

Il Pigneto rappresenta proprio questo estremo tentativo di resistenza e di ribellione all’ordine

neocapitalistico. La stirpe popolare qui non è ingabbiata nelle strutture produttive del sistema

borghese. Il gruppo degli amici di Accattone irride chi lavora; e il quartiere è il prodotto di una

spontanea volontà dei singoli abitanti di crearsi una casa e un rifugio, una “borgata libera”, non una

ossessiva sequenza di cubi di cemento come in quelle borgate “fasciste” o “democristiane” che

Pasolini aveva condannato senza appello nei suoi articoli su «Vie Nuove».

Il disegno antitetico si completa con geometrica precisione con la raffigurazione

dell’allucinante quartiere dove vive Ascensa, la moglie di Accattone. Si tratta dei resti [di] una

borgata fascista: desolante visione di cubetti bianchi sperduti tra abbozzi di strade, qua e la soffocati

da capanne e da baracche miserabili. Non a caso, nella sceneggiatura, questi ambienti sono indicati

con parole dispregiative («strada miserabile», «spiazzo miserabile») laddove quelli del Pigneto

hanno nomi affettuosi, caratteristici («baretto», «biccocca», «osteria»). L’immagine complessiva

offerta dalle sequenze girate sullo sfondo dello «spiazzo miserabile» è di disagio fisico, di

inquietudine profonda: un senso di soffocamento e di minaccia ben oggettivati nella presenza quasi

autistica del bambino sperduto seminudo nella polvere.

È facile riconoscere nell’intollerabile mostruosità della borgata di Ascensa una duplice natura, [p. 389]

materiale e psicologica: Ascensa e i suoi familiari infatti, esprimono il modello umano di un

sottoproletariato le cui doti tradizionali di buon senso, onestà, dedizione al lavoro si rivelano

strumenti della loro stessa condanna allo sfruttamento del sistema borghese, pretesti “morali” per

l’assoggettamento di vite umane alla schiavitù di un lavoro nell’ordine di quella borghesia

6

consumistica che lascia loro solo gli scarti della sua eterna festa: Ascensa, china in una misera

capanna, lava le bottiglie vuote della Coca Cola che altri hanno bevuto.

E ancora, coerentemente, ecco le immagini della nuova Centocelle, quartiere popolare

edificato per lo più dall’edilizia privata, dove Accattone e Pio mostrano a Stella tutto il loro

“premuroso affetto” acquistando per lei scarpe e vestiti; dove il protagonista e la ragazza

camminano in una alienante piazza dei Mirti sulla quale incombe la squallida facciata tombale e

colorata della chiesa: un quartiere di bianchi palazzoni verticali impegnati a recitare la parte dei

bravi scolaretti davanti l’estetica urbana dei signori, case per una piccola borghesia e un proletariato

inserito che si riveste a nuovo per entrare nella festa del consumo. Stesso sentimento di indifferenza

e di lontananza esprimono nelle scene finali i palazzoni di Testaccio, gonfi cubi di pietra scolpita

ubbidendo ai canoni dell’edilizia dei signori del primo Novecento; agglomerati di mattoni che,

immemori della loro origine popolare, si ritraggono in ranghi rettilinei e ordinati per lasciare vuoti

stradoni dove è facile gioco per la polizia avere la meglio sui tre ladri malaccorti.

Naturalmente le immagini di Roma in Accattone non si limitano ai quartieri periferici:

appena al termine della prima scena infatti, Accatone e i compagni si ritrovano sul galleggiante

dello stabilimento sul Tevere, ancorato al lato di ponte [p. 390] Sant’Angelo, per la spavalda

scommessa dell’attraversamento a nuoto del fiume dopo il pasto. La sequenza contiene la

memorabile inquadratura in cui Accattone si affianca all’angelo di pietra del Bernini. Ma l’ambiente

è testimone di altre scene del film: l’uscita di Accattone con gli amici e Stella, e la successiva corsa

disperata del protagonista che si rotola sulla sabbia del greto del Tevere. Rari momenti nei quali la

scena è posta nel cuore della Roma storica, della quale si riscopre l’aspetto naturale e ancestrale

della vita sul fiume, dei bagni, delle spiagge di sabbia, “costiera vacanziera” dei poveri.

7

E intanto, ecco la spettacolare ieratica perfezione del marmo bianco dell’angelo, sublime

rappresentante della grande tradizione culturale e artistica della città. Quell’angelo, presenza che

viene dalla storia della ricchezza dell’arte dei signori del passato, pur lontano nella sua pietrosa

atarassia, viene in qualche modo filmicamente associato alla figura e alla storia di Accattone. Stessa

impressione di lontananza morale e materiale e, allo stesso tempo, di vicinanza visiva offrono i

ruderi romani dell’Acqua Santa, che assistono inermi alla rappresaglia dei napoletani sull’indifesa

Maddalena; e le sepolture repubblicane della via Appia antica che testimoniano alla cerimonia della

pietà e dell’amore di Accattone che “perdona” Stella abbandonata dal cliente. Simile associazione

trova significato in quella filosofia della storia che animava il pensiero del Pasolini di allora, per il

quale l’attualità evidenziava l’avvenuto inizio di una terza e fatale epoca dell’umanità (alla quale

darà il nome ora di “Dopostoria” ora di “Nuova Preistoria”) dopo l’ aevum contadino – come s’è

detto – e il tempus borghese. Questa terza fase della storia umana si risolve in un momento di

frattura violenta e [p. 391] di netta separazione dalle epoche che l’hanno preceduta. Mentre nel passato

la cultura si avvolgeva a spirale inglobando l’arte delle ere scomparse, oggi invece l’esigenza del

mercato di velocizzare le mode e di trasformare la cultura in un effetto luminoso e passeggero, ha

indotto il sistema al disprezzo per tutto ciò che è vecchio e superato. La pittura rinascimentale, «la

musica di Bach», la scultura barocca, l’architettura classica, sebbene prodotti della cultura del

tempus borghese, assumono quindi il fascino e la gloria degli sconfitti dalla storia, dei reietti

dell’umanità, degli esclusi dalla festa dei vincitori. L’impero della Coca-Cola, dei frigoriferi, delle

utilitarie, delle lambrette, delle televisioni, autorizza anche ideologicamente al recupero di tutta

quella tradizione culturale che Pasolini amava per pura passione figurativa («Io sono una forza del

Passato»), disprezzava teoricamente per la sua appartenenza alla storia della civiltà borghese, e ora

poteva accumunare ai suoi eroi nel comune destino di sconfitta. Così Pasolini può utilizzare

l’enorme bagaglio figurativo e musicale dell’arte del passato associandogli un senso di sacralità:

non può essegli estranea una certa sensibilità borghese che gli suggerisce l’idea di una superiore

eccellenza di quel mondo culturale rispetto ai suoi derelitti e, naturalmente, rispetto alla cultura del

sistema neocapitalistico. Questo mondo, come abbiamo visto, non ama la tradizione (alla quale

preferisce «la musica sperimentale»...); e tuttavia le riconosce, con gusto monumentale e ipocrita

(dei “ministeri”, delle “accademie”) e con un malcelato senso di inferiorità, una superiore valenza

artistica, quasi una sacralità intrinseca: e quindi, con mirabile soluzione stilistica, che è anche

violenta provocazione, Pasolini associa volti, scene, immagini del suo mondo disperato a celebri

quadri del [p. 391] passato: proprio per trasferire quella sacralità – che la cultura borghese aveva

raffigurato nell’arte della tradizione – alla realtà dei nuovi umili della terra. Si tratta di quella

assoluta ispirazione figurativa che è stata riconosciuta da tutti i critici e confessata apertamente da

Pasolini stesso. Ecco allora tutta la serie dei volti degli amici di Accattone, per i quali la critica ha

8

unanimamente sottolineato l’ispirazione tratta dal gusto figurativo del Masaccio. Per il momento

non si arriva all’aperta citazione di opere celebri, ma si giunge comunque alla realizzazione di

inquadrature capaci di suggerire allusioni e reminiscenze: si pensi all’ “annunciazione” di Stella a

sinistra, intenta a lavare bottiglie, e Vittorio a destra, seduto a fissarla con maliziosa

chiaroveggenza. L’uso della musica (la Passione secondo Matteo di Bach) risponde alla stessa

esigenza di proiettare l’ombra della sacralità dell’arte della grande tradizione sulle vicende del

sottoproletariato romano.

Ma già nel primo film di Pasolini appaiono immagini e scenari che riflettono una nuova

sensibilità visiva del regista, e che gli permettono l’espressione di sentimenti spiegabili solo con

l’ultime derivazioni della sua coscienza storica. Pensiamo al percorso di Maddalena e dei napoletani

dal caratteristico angolo delle prostitute verso la macchina parcheggiata in una via laterale: un

vecchio ponte ottocentesco spezzato incrocia nel campo visivo un moderno cavalcavia percorso da

automobili mentre seguendo i passi del gruppo appare nell’ombra un impianto industriale con tubi

contorti e capannoni in lamiera. Poco dopo il gruppo è nei prati dell’Acqua Santa, in mezzo a ruderi

romani: mentre si consuma la violenza dei napoletani su Maddalena, la cinepresa indugia sulla

fredda e lunare lontanza delle luci delle macchine che corrono nel buio lungo la consolare. Mentre

Accattone e i suoi compari [p. 393] riescono a procurarsi un pacco di pasta e si appressano a divorare

un pasto dopo molti giorni di fame, ecco, improvvisa, s’alza la cinepresa a inquadrare una

vertiginosa parete scura di un palazzo; una vuota tavola di cemento in verticale, senza finestre o

balconi, posta minacciosamente a precipizio sulle teste del gruppo di miserabili.

Ma, sopratutto, la lunga panoramica sulla “mareggiata di cemento” che irrompe da

Centocelle verso la periferia: via Tor De’ Schiavi inquadrata dai campi antistanti: l’area dei prati

verdi attraversati da vecchi canali in mattoncini rossi, spezzata dalla masse di bianco calce dei

parallelepipedi di pietra. Non si tratta più del semplice squallore di Centocelle o della disperazione

della borgata Gordiani: qui la cinepresa non si sofferma su un soggetto urbanistico coerente, ma

coglie le tracce di una disarmonica e incontrollata stratificazione delle fasi architettoniche del

tessuto urbano. Da queste immagini nasce un sentimento di sconfitta e di inquietudine oramai

introiettati: una nuova poetica visiva qui appena al principio che presto giungerà a maturazione

nelle immagini del nuovo film di Pasolini.

Mamma Roma

Il soggetto di Mamma Roma risentì del mutato clima socioeconomico italiano a cavallo tra

gli anni Cinquanta e Sessanta. Nel giro di due anni Pasolini dovette constatare che il boom

economico aveva, di fatto, coinvolto anche le masse di derelitti delle borgate all’interno di quel

9

“circolo virtuoso” costituito da induzione al consumo attraverso la pubblicità, aumento della

produzione, assorbimento della manodopera. La trama del film è un documento esemplare di quel

generale processo di assimilazione delle masse e della cultura contadina alla civiltà consumistica

piccolo borghese, il pro-[p. 394]cesso che Pasolini, negli scritti di Empirismo eretico definirà

«genocidio», «nuovo fascismo», lanciando il suo grido d’allarme per la scomparsa improvvisa,

dopo 14.000 anni, della civiltà contadina, i cui figli si assestavano «là dove il Nuovo Capitale

vuole».

Ancora una volta Pasolini troverà negli scenari della periferia romana l’espressione a un

tempo figurativa e simbolica della sua filosofia della storia. L’immagine della città irrompe nel film

nella memorabile sequenza dell’arrivo di Mamma Roma e il figlio Ettore nell’abitazione di Casal

Bertone. I due camminano su un ampio stradone percorso da una lugubre serie di pali della luce

finché, d’improvviso, si erge davanti a loro la mastodontica facciata del condominio gigante di

epoca fascista di piazza De Cristoforis, e i protagonisti scompaiono sotto l’arco, nell’ombra della

mole colossale. La sequenza possiede una forza espressiva capace più di molti trattati di urbanistica

di rendere evidente l’assurdo architettonico dell’edilizia fascista, capace di edificare o i campi di

concentramento delle borgate o queste colossali e mostruose strutture: giganti di stanze compresse

tra bastioni di pietra, sperduti nella periferia romana, circondati da depositi di automezzi,

montagnole sventrate, mura cimiteriali.

Ma il tratto figurativo dominante del film è la celebre, ossessiva e splendida panoramica del

quartiere di Cecafumo, sulla Tuscolana, inquadrato dall’altura del “Parco degli acquedotti”.

L’immagine è ripetuta con insistenza per tutta la durata del film e viene usata dal regista all’apertura

di ogni sequenza ambientata nel quartiere sulla Tuscolana: da una parte i ruderi di un acquedotto,

«sogni di archi, ricordi di volte, briciole di arcate» nel quale «liturgia / e uso, ora profondamente

estinti, / vivono» (è qui che Ettore correrà a rifugiarsi per vivere le [p. 395] sue esperienze umane

sfuggendo anche fisicamente a quel mondo borghese che lo spingerà ai margini e lo ucciderà);

dall’altra parte i palazzoni bianchi di Cecafumo, «meno fotogenici, direi, delle catapecchie della

borgata Gordiani».

Già in Accattone iniziava a mostrarsi una nuova poetica visiva basata sulla sovrapposizione

di elementi architettonici appartenenti a periodi storici diversi: a sottolineare violenta frattura

cronologica del panorama urbanistico piuttosto che integrazione e fusione armonica dei diversi

elementi. La scoperta della panoramica di Cecafumo porta ad assoluta perfezione quella poetica

rivelando una perfetta simbiosi tra ideologia e immagine. Dal momento che il Neocapitalismo ha

imposto il suo dominio sulle terre e sulle menti tutte, l’assetto urbano è costretto a riflettere la

perdita del senso di continuità storica, perdita che è propria della cultura dominante. Le immagini

sottolineano una violenta frattura architettonica tra l’alienazione delle masse di funerei

10

parallelepipedi di cemento sovrastate dal fungo atomico della cupola di Don Bosco e la calda e

desolata dignità delle rovine romane.

Proviamo a pensare alla scena che offre il colle del Quirinale alla vista del visitatore dei Fori.

L’esedra di archi delle botteghe del Foro Traiano si fonde, nel paesaggio urbano, con la vigorosa

mole della Torre delle Milizie. E allo splendore medievale di questa risponde, a destra, la grazia

umanistica degli archi della Loggia dei Cavalieri. L’architettura del passato dimostrava nella pratica

una capacità della cultura al potere di armonizzare e riassorbire in sé la ricchezza artistica delle

epoche precedenti. Invece, adesso, «Il grande palinsesto delle epoche che si può attraversare nel

reticolo urbano di Roma, ha perso la propria figurabilità. Le opere della metropoli (quelle

meramente funzionalistiche) hanno ridotto le opere d’arte a documenti sto-[p. 396]rici, a muti

11

testimoni di un passato che è altro dal presente, con cui non dialoga». È davvero il paesaggio del

Dopostoria, della morte dell’armonia culturale del passato, dell’arrivo di una società lanciata a folle

velocità verso un consumismo assoluto che preannunzia la totale autodistruzione.

Rimane poco spazio nel film per altre immagini di Roma. Poche, brevi inquadrature ci

mostrano un caratteristico vicolo, al centro di un dedalo di stradine e di casette medievali: qui Ettore

saltella contento tra i tavoli del ristorante dove è stato assunto grazie alla furbizia materna. Una

scena ci mostra la valle di stracci e ferraglia di Porta Portese, dove il protagonista attua la sua

astuzia plautina vendendo i dischi della madre per i soldi del regalo a Bruna. Due scene ci mostrano

l’esterno di un palazzone, in cima ad una scalinata posta davanti un bar: è l’abitazione di

Biancofiore dove viene organizzata la trama boccaccesca delle prostitute ai danni del proprietario

del ristorante. Si ha l’impressione che, non appena ci si allontana dai ghetti di cemento periferici, si

ritrova uno spazio umano dove il sottoproletariato riesce a esprimere la sua alterità al modello di

vita borghese: Ettore, Biancofiore e Mamma Roma, come servi astuti della commedia di Menandro,

si insinuano negli interstizi di una civiltà borghese che sembra ancora espressione di un capitalismo

antecedente la fase del totalitarismo consumistico. La loro purezza preborghese trova realizzazione:

tra lazzi e furbizie sopravvivono senza omologarsi al codice comportamentale delle classi medie.

Ben diverso è invece il discorso per la squallida mole fascista del Sant’Eugenio, con la sua

facciata giallognola e marcia che cade a strapiombo a schiacciare Ettore e Tonino. Le poche

inquadrature spiegano bene cosa pensasse Pasolini delle misere panacee di stato sociale con le quali

il fascismo [p. 397] coprì le sue ingiustizie e si creò una specie di consenso: opere inevitabili fatte nel

modo peggiore.

Geniale infine, la soluzione cinematografica della connotazione del luogo di prostituzione

come un non-luogo, un assoluto vuoto ripieno di oscurità nel quale galleggiano deboli ovuli di luci.

Potrebbe essere uno qualsiasi dei tanti vialoni di periferia con enormi spartitraffico e grandi

marciapiedi. In Accattone l’angolo della prostituzione, una strada secondaria di scorrimento nel

punto in cui incontra delle rovine, offriva l’immagine di un angolo caratteristico dove la violenza

dello sfruttamento veniva stemperata dal paesaggio pittoresco. Qui invece, lo spettatore è portato a

soffrire insieme a Mamma Roma nel suo disperato tentativo di redenzione borghese: e dunque il

luogo del commercio del corpo assume le sembianze di un’oscurità metafisica, emblema di una

condanna eterna per il sottoproletariato a vagare nelle regioni angoscianti della violenza e dello

sfruttamento.

A celebrare il sacrificio che il sistema impone ai nuovi martiri resta, come già in Accattone,

la consacrazione del parallelo figurativo con la grande arte della tradizione: l’immagine iniziale del

pranzo di nozze (esplicita citazione dell’Ultima cena di Leonardo) e, soprattutto, la sublime e

celebre serie di inquadrature finali sul corpo di Ettore seminudo legato «come un piccolo

12

crocifisso» alla tavola di contenzione, dove il riferimento al Cristo morto del Mantegna è di palese

evidenza.

La ricotta

L’idea naturaliter christiana che solo il moderno sottoproletario potesse rappresentare il

nuovo Cristo, guadagnò compiuta evidenza plastica in La ricotta episodio del film Rogopag. Il

mediometraggio rappresenta davvero il canto del [p. 398] cigno della sacralizzazione pasoliniana della

figura del sottoproletario delle borgate romane: come ultimo bagliore dell’antica fede negli umili

delle periferie, ecco la storia di Stracci, comparsa di un film sulla passione di Cristo, destinato a

morire attraverso il martirio della povertà.

Ancora una volta lo scenario prescelto è quello della periferia romana: una collinetta

all’Acqua Santa, sotto la quale si apre una grotta: vi si accede da un avvallamento recintato da

alberi. È una di quelle strisce di verde sopravvissute come terra di nessuno alla speculazione edilizia

che tendeva a concentrarsi lungo le consolari. La città è vicina, eppure la realtà urbana di Roma

appare solo in lontananza: dalla collina del “Golgota” viene più volte inquadrata sullo sfondo la

marea montante di cemento della periferia a suggerire un senso di disagio nel contrasto con

l’ambiente naturale della collina e della valletta. L’inquadratura si pone come immagine a un tempo

oggettiva e simbolica dell’avanzata devastante del Neocapitalismo sugli ultimi terreni del sacro.

Ma l’invasione è già presente sul Golgota stesso. Gli attori sono l’avamposto dell’impero

consumistico e del suo inquinamento ideologico: estranei alla religiosità della vicenda

rappresentata, ballano dimendosi con mosse volgari al suono ingombrante e fastidioso di una

13

canzonetta. Lo stesso regista, che proclama i celebri versi di Pasolini sull’amore per la tradizione e

recita la violenta invettiva contro l’uomo medio, è comunque legato allo squallido ambiente di

attricette con la pelliccia e produttori col macchinone: si pone come intellettuale opposto al regime

e tuttavia sprofonda nella sua sediola mentre da lontano i palazzoni di periferia profetizzano con la

loro imponenza il suo futuro accerchiamento e la sua resa. E l’espressione artistica incaricata di

celebrare il suo «arcaico [p. 399] cattolicesimo» si concretizza nelle due sequenze in cui la scena è

occupata dalla riproduzione dell’Incoronazione e della Deposizione del Pontormo.

Ma in quanto espressione del pensiero di un intellettuale sostanzialmente omogeneo al sistema,

l’arte del passato decade dalla sua originaria sacralità a tracimante fluorescenza cromatica priva di

gusto e di misura, frutto degenere di una assolutizzazione dello stile. La dissacrante autocritica e

l’attacco a un ceto intellettuale incapace di riconoscere – se non a eventi conclusi – i veri drammi

della storia, travolge persino quell’arte del passato che, nei film precedenti, aveva rappresentato

proprio la sacralità ufficiale reietta dal moderno e pronta a chinarsi col crisma della consacrazione

sui vinti della storia. Ma qui non c’è più bisogno di nessuna citazione: l’immensa evidenza del sacro

è pienamente compiuta e espressa dall’oggettività presente e concreta di Stracci, vero nuovo martire

e Cristo.

Mentre il mondo del capitale, i suoi giullari e i suoi saltimbanchi celebrano l’ipocrita recita

dell’autocritica e della religiosità artistica, Stracci, affamato, s’industria per guadagnarsi i cestini-

pranzo della troupe da portare alla sua famiglia affamata: gli spazi che offrono pietoso rifugio ai

reietti della terra sono proprio gli anfratti, nascosti nel verde, dell’isola di campi assediata dallo

sviluppo edilizio. Uno «sfondo del Furioso» dominato dalla mole di una rovina, guardiana della

pace del luogo, monumento del passato capace di stabilire, nella sua distanza storica e culturale, una

corrispondenza di sensi umani con la famiglia affamata per la quale sembra difendere la valle.

14

Nell’ultima fiammata della vecchia poetica visiva pasoliniana resta, alla cultura del passato,

ripudiata nelle “riproduzioni” del Pontormo, la forza caratteristica dei monumenti [p. 400] antichi di

testimoniare gli ultimi barlumi di religiosità dell’uomo. Oltre questo limite non resta che la pura

natura degli alberi e del prato e, soprattutto, la caverna scavata nel tufo dove Stracci consuma il suo

ultimo ricchissimo pasto sfogando l’ingordigia degli affamati. Nessun luogo umano della città può

più porsi come baluardo e difesa dei valori umani e religiosi, del sacro rispetto della fame dei reietti;

solo la nuda natura della grotta scavata nelle viscere della madre terra offre l’ultimo pietoso rifugio

per il nutrimento.

15

Uccellacci e uccellini

Solo frammenti di città, rovine di strade, aborti di palazzine abusive, desolati mostri di

cemento e di piombini nudi. Il paesaggio urbano della periferia romana, nell’ultimo film di Pasolini

legato a questi ambienti, si risolve nella piena poetica figurativa della Nuova Preistoria. Non c’è più

alcun bisogno di mostrare, attraverso sfasamenti cronologici del quadro urbanistico, la sconnessione

nelle fasi della storia umana operata dal Neocapitalismo. Il crollo di un’intera civiltà realizza, di per

sé, la sua plastica evidenza nella nuda rappresentazione del paesaggio delle colline lungo un vialone

periferico. Qui lo scempio urbanistico non è più realizzato dall’alto della volontà di governi collusi

con enti finanziari e società edili; non c’è volontà politica o culturale intesa alla ghettizzazione e al

soffocamento della classe operaia. Al contrario, è quest’ultima che spontaneamente, coi trenta

denari pagati dal sistema, ha imbrattato il paesaggio creando una bidonville di palazzine in eterna

costruzione. È una non-città fatta di strade fangose, di sterrati violentati da ruspe, di scheletri di

palazzi fasciati di tubi innocenti, di recinti di pali, filo di ferro e lamiere ondulate. Uno squallore

dove però tutto puzza di una [p. 401] volontà di nuovo, di un desiderio di casetta borghese, di un

sogno di pulizia e comodità: la classe operaia, investita seppur marginalmente dal miracolo

economico, è completamente assimilata nella mentalità e nei desideri al mito consumistico della

società borghese: i suoi figli ballano il twist aspettando la corriera, Ninetto celebra la Seicento Fiat.

Inseriti in un meccanismo fatto di violenza e sfruttamento, i poveri di ieri infieriscono su i

poveri di oggi: ecco Totò esigere con disumana durezza il fitto da una famiglia sfibrata dalla

povertà, intontita dalla fame: famiglia che non casualmente abita un vecchio casolare contadino.

16

La cinepresa insegue Ninetto e Totò che vagano senza una meta precisa convinti di una

propria direzione genericamente indicata come “lì”. Viaggia in loro tutta la classe operaia.

Viandanti di una storia senza più direzione razionale, spinti ora da un bisogno fisico, ora da una

curiosità incosciente. Ultima grande intuizione figurativa del Pasolini regista di questi scenari di

periferia, ecco Ninetto e Totò percorrere lunghe e interminabili strade distese diritte nel mezzo di

campi; rettilinei di asfalto sperduti come rovine della modernità tecnologica, a segnare un cammino

spinto forsennatamente in avanti senza coscienza di scopo o di direzione. Il senso di amaro

abbandono di un ceto sociale al suo destino di perdizione lungo i sentieri della modernità è marcato

con splendidi spunti figurativi. Il cavalcavia di cemento lasciato incompleto: arco ricurvo coperto

d’asfalto che si staglia nel vuoto e conduce Ninetto e Totò verso il futuro del Nulla; la strada

asfaltata nel mezzo dei campi che passa tra un laboratorio metereologico e una tomba romana, a

sottolineare che il percorso delle nuove masse rimarrà estraneo ad ogni forma di arricchimento

culturale, condotto dal Neocapitalismo [p. 402] verso la terra del Nulla del puro consumo. E, in

ultimo, l’inquadratura finale della periferia tra Roma e Fiumicino, con Ninetto e Totò quasi

schiacciati dal gigantesco aereo di linea che, con frastuono assordante, si prepara all’atterraggio.

I film successivi

Già in Uccellacci e uccellini riappare, sullo schermo, la rappresentazione di una trama

narrativa che è espressione di quell’epos che Pasolini celebrava come ricchezza culturale della

civiltà contadina preistorica: l’apologo dei passerotti e dei falchetti. Evento esemplare, che si

configura secondo lo schema delle parabole come sequenza di azioni iscritte nel libro eterno della

17

civiltà allo scopo di ammaestrare gli uomini su verità e valori assoluti. La città moderna, con i suoi

monumenti e i suoi grattacieli, non poteva costituirne in alcun modo lo sfondo adeguato: e Pasolini

infatti, per raccontarlo, sceglie la maestà severa e sublime dei templi romanici di Tuscania arroccati

in solitaria eccellenza sullo sfondo delle vallate del Lazio settentrionale.

A una poetica figurativa basata sulla sovrapposizione di elementi architettonici appartenenti

a epoche diverse, si sostituisce la raffigurazione visiva fondata sull’opposizione per immagini

alternate di ambienti della modernità e di scenari di un passato sempre più lontano nello spazio e nel

tempo. Ed ecco allora l’Edipo re, dove immagini di una periferia di fabbriche e rifiuti concludono la

tragedia della Tebe dei tempi del mito; Teorema, dove un grande casale contadino dalla tipica

architettura tradizionale è l’unico ambiente in cui può riapparire il sacro esiliato dalla ricca casa

borghese milanese; Porcile, dove uno scenario a un tempo preistorico e medievale, fa da

contrappunto alla ricca e elegante villa tedesca settecentesca. [p. 403]

Di qua, nel presente, nella città, nella storia borghese, c’è solo la rovina finale del mondo

occidentale, che il Neocapitalismo ha lanciato verso l’autodistruzione, l’ultima meta delle terre della

Dopostoria. Di là, nel passato, tra campi e vallate del Lazio del Nord, nei casolari dell’Oltrepò

pavese, nei paesaggi primitivi dell’Etna, nella Grecia arcaica del mito, c’è la verità eterna dei riti

religiosi vissuti nella liturgia della vita, c’è un mondo ancora adeguato agli uomini perché ancora

impregnato di sacro.

La critica alla modernità, sorta da logiche osservazioni, si abbandona a una deriva

irrazionalistica sempre più estrema che si configura come rifiuto assoluto del presente storico e fuga

verso la Grecia del mito, il medievo italiano e quello inglese, l’indefinito oriente favoloso. Solo nel

mito, solo nella leggenda, solo nel passato medievale è ormai possibile ritrovare un popolo di

cultura contadina incontaminata nel quale riconoscere i tratti di una civiltà religiosa e umana da

mostrare come modello alternativo al delirio consumistico dell’occidente.

Con le ultime opere, poi, Pasolini precipitava in quel pessimismo apocalittico che determina

il codice genetico di Salò, di Petrolio e del soggetto Porno-Teo-Kolossal. E tuttavia lo stesso

Pasolini, negli Scritti corsari, aveva intravisto la possibilità di leggere il presente in un’ottica

diversa, arrivando ad ammettere che la sua «visione apocalittica del futuro è giustificabile, ma

probabilmente ingiusta».

Conclusioni

E quel futuro, infatti, è arrivato e non è stato apocalittico. Al contrario. Quando ho visto

ultimare viale Togliatti ho capito che anche questa Roma era diventata parte integrante della città. E

così, oggi, i figli e i nipoti dei deportati nelle bor-[p. 404]gate fasciste e democristiane affollano i

giganteschi ipermercati, sorti come moderne cattedrali al posto di fabbriche abbandonate e di

18

sterrati coperti di rifiuti, venendo a costituire l’ultima caratteristica edilizia del tessuto urbanistico di

queste periferie. Coperti di griffe a buon mercato, imbottiti di cellulari e di autoradio, masse di

cinquantenni e di trentenni si tuffano, infantilmente incoscienti, nell’orgia di scatole colorate e di

cibi confezionati a sfogare un’ansia di consumo che in loro desta umana comprensione, visto che

appare come il residuo sfogo della fame atavica sofferta dai progenitori.

Si avverte naturalmente l’esigenza di un pensiero critico che non vagheggi un mitico passato

sacrale, ma che elabori la strategia necessaria alla battaglia per trasformare il consumismo da

dominio del mercato sulle democrazie in strumento razionalmente impiegato dalle masse, per

l’ampliamento della coscienza critica dei consumatori e dei cittadini, per l’oggettivo miglioramento

della qualità della vita, per far sì che «anche il futuro che a noi – religiosi e umanisti – appare come

fissazione e morte» possa essere «in un modo nuovo, storia».

Questa storia verrà scritta anche dallo sviluppo urbanistico della città, e dovremo comunque

a Pasolini, se non la lezione della sua utopia, il suo modello di pensiero. La sua geniale intuizione

cinematografica di elevare le immagini della città a metafora della storia di un popolo e a visione

escatologica del mondo, ci ha insegnato a vedere nelle pietre dei palazzi i testimoni della storia di

generazioni di vittime della violenza e dello sfruttamento, della povertà e della fame, ad ascoltare la

voce di quel popolo, delle sue case, delle sue strade, delle sue piazze, in quell’arco di Roma

periferica che va da Pietralata a Ciampino.

Note Accattone. Per il brano «che non era Roma», cfr Pier Paolo Pasolini, “Diario al registratore”, in Accattone,

Milano, Garzanti, 1993, p. 30. Di seguito riportiamo la numerazione delle scene citate: «senso di benessere fisico»

(scene 16, 21, 25, 34, 44, 59, 68); «all’animale umano ferito» (5, 7, 9, 11, 30, 57, 69 e 73); «passano il giorno» (10 e

74); «da baracche miserabili» (22, 23, 36, 37); «festa del consumo» (38, 40, 41, 42); «i palazzoni di Testaccio» (78); «la

sequenza» (2, 3, 4); «greto del Tevere» (46, 47, 48); «storia di Accattone» (3); «sull’indifesa Maddalena» (14, 15);

«abbandonata dal cliente» (51, 53); «e capannoni in lamiera» (13); «lungo la consolare» (14, 15); «gruppo di

miserabili» (25); «di pietra» (43). Per l’indicazione delle scene ci riferiamo, fin dove è possibile, all’edizione della

sceneggiatura pubblicata già nel 1961 (Accattone, Edizioni FM, Roma) e recentemente riproposta (Accattone. Mamma

Roma. Ostia, Milano, Garzanti, 1993) anche se non mancano significative varianti tra testo e film: per esempio le

sequenze 31-33, che prevedevano il viaggio ad Ardea con la macchina del Cipolla per portare Stella in visita alla tomba

del padre, non furono mai realizzate; la sequenza 76, prevista al mercato dei fiori, è invece girata davanti alla terza

entrata del cimitero del Verano; non esiste la scena 39 prevista all’interno del negozio dove Pio compra a Stella un

vestito; la scena 45 non si conclude alla fermata del «mostruoso tranvetto di Centocelle»: «No, nel mio caso, se lei

leggesse la mia sceneggiatura, la troverebbe diversa, in parte, dal film che poi ho fatto» (“Incontro con P.P.P.” in

Filmcritica, XIII, 116 [1962], p. 688). Per «partecipiamo»: cfr Carlo Levi, in Accattone cit., pp. 25-26. La citazione di

«Vie Nuove» si riferisce a “Viaggio per Roma e dintorni. Il fronte della città”, in «Vie Nuove», XIII, 18 (3 maggio

1958), pp. 4-7; “Viaggio per Roma e dintorni. I campi di concentramento”, in «Vie Nuove», XIII, 19 (10 maggio 1958),

pp. 14-15; “Viaggio per Roma e dintorni. I tuguri” in «Vie Nuove», XIII, 21 (24 maggio 1958), pp. 34-37. A proposito

19

della «musica di Bach»: cfr Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, [1977], Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 234. Per:

«stesso Pasolini», cfr. “Diario al registratore”, in Accattone. Mamma Roma. Ostia, cit., p. 386. A proposito di:

«sottoproletariato romano»: a riguardo Pasolini parlò di «pastiche» (Le belle bandiere, cit., p. 233), inducendo [p. 406] alcuni a parlare di «postmodernismo pasoliniano». Senza voler entrare nella complessa questione della definizione del

postmoderno, ci preme però sottolineare la differenza che c’è tra l’operazione qui eseguita da Pasolini e il valore di

solito attribuito nel Novecento alla tecnica in questione. Associando la musica di Bach alla rissa plebea tra Accattone e

il cognato, non si mira a desemantizzare questi elementi dai loro valori connotativi (arte colta-sacralità, scontro tra

poveri-abiezione) per alludere all’inassociabilità di un dato al suo significato abituale, ma a trasferire quel significato da

un dato all’altro (scontro tra poveri-sacralità), secondo una tecnica che esige la preservazione dei significati impiegati e

non la loro distruzione. Per «destino di sconfitta»: Si tratta di scene che se da un lato risultano cariche di

un’immediatezza filmica particolarmente intensa, evidentemente giocata sulla suggestiva giustapposizione di elementi

così lontani e diversi, dall’altro lasciano un significativo margine di indeterminatezza riguardo il significato ideologico

da associare all’elemento visivo. Pasolini, infatti, non determina univocamente il significato del rapporto che si

stabilisce tra le rovine del passato e il destino dei miserabili di oggi, dal momento lo spettatore (e la critica) rimane ad

esempio con il dubbio se si debba dedurre un senso di opposizione tra la grandezza di quelle e la meschinità di questi, o

associare alla vicinanza una sorta di alleanza spirituale. Abbiamo qui suggerito quale sia il contesto teorico generale nel

quale collocare il rapporto stabilito da Pasolini tra i suoi eroi sottoproletari e i monumenti archeologici e artistici del

passato. E, tuttavia, avrebbe certamente le sue buone ragioni una lettura riduttiva che volesse sostenere nell’impiego di

quelle immagini una semplice volontà di caratterizzazione di maniera, considerandole una sorta di sfondo naturale per

un film di ambientazione romana. Bisogna riconoscere insomma che la percezione dei significati qui evidenziati non è

cogente nei confronti dello spettatore del film. Tuttavia, indubbiamente, l’analisi rivela proprio una sorta di “alleanza”

tra arte del passato e derelitti del presente in opposizione all’imperialismo del consumismo borghese, alleanza talvolta

di plastica evidenza (indiscutibile, ad esempio, nel successivo Mamma Roma, nel rapporto tra Ettore e le rovine del

“Parco degli acquedotti”). In conclusione va quindi ammesso che le valenze segniche del film non vei-[p. 407]colano in

maniera costante e univoca quei significati, i quali restano tuttavia innegabili pur nelle loro variazioni di intensità

espressiva.

Mamma Roma. Anche per Mamma Roma faremo riferimento, nei limiti del possibile, alla numerazione delle scene

secondo la sceneggiatura del film pubblicata per la prima volta nel 1962 (Rizzoli, Milano) e recentemente riproposta

nello stesso volume che contiene il testo di Accattone: «nell’abitazione di Casal Bertone» (scene 4, 5, 6, 7, 8); «casette

medievali» (33); «ferraglia di Porta Portese» (19); «Due scene» (27, 29); «mole fascista del Sant’Eugenio» (14, 38, 39,

40); «deboli ovuli di luci» (2, 25, 36); «tavola di contenzione» (43, 44, 45, 50). Anche in questo caso non mancano

sostanziali differenze tra sceneggiatura e film: per esempio la seconda scena prevedeva un dialogo tra Mamma Roma e i

contadini da lei incaricati di allevare il figlio (tale scena non esiste); più significative le differenze con il testo della

prima stesura (pubblicato in Alì dagli occhi azzurri [1965], Garzanti, Milano, 1996, pp. 363-464) dove alla fine della

sceneggiatura era prevista una lunga sequenza onirica della donna che sognava di essere tornata con il figlio nel paesino

di campagna. Per «briciole di arcate», cfr Mamma Roma (prima stesura), in Alì dagli occhi azzurri, cit., p. 386. Per

«estinti, / vivono»: “Poesie mondane. 10 giugno 1962”, in Poesia in forma di rosa, in Bestemmia, [1993], Milano,

Garzanti, 1995, vol. II, p. 636. A proposito della borgata Gordiani: Nino Ferrero “Mamma Roma ovvero, dalla

responsabilità individuale alla responsabilità collettiva. Conversazioni con P.P.P.” in «Filmcritica», XIII, 125 (1962), p.

443. Per «non dialoga»: Giommaria Monti “La forma della città nella poesia e nel cinema di P.P.P.”, in Le giovani

generazioni e il cinema di P.P.P., supplemento a «La scena e lo schermo», I, 1-2 (1988-1989), p. 22. Per «...modo

20

peggiore», cfr Scritti corsari, cit., pp. 136-37. Per «...sfruttamento», si rilegga il monologo in Mamma Roma cit., pp.

334-35. «Leonardo»: cfr Mamma Roma cit., p. 363. Si consideri, a proposito di «palese evidenza», che Pasolini era

infastidito dal riconoscimento di citazioni esplicite di quadri (Con Pier Paolo Pasolini, Roma, Bulzoni, 1977, pp. 70-

71) e contestò queste “attribuzioni” (Le belle bandiere cit., pp. 230-31). Sul primo punto è smentito dalle sue stesse note

nelle sceneggiature, mentre sulla que-[p. 408]stione del Mantegna ci preme sottolineare come la scena (che attraverso

l’allusione pittorica stabilisce l’equazione Ettore-Cristo, suggerendo un sentimento di sacrale venerazione per la

vittima) trova la sua funzionalità semantica proprio in virtù del riferimento pittorico al Mantegna, la cui opera,

universalmente nota, ha permesso a pubblico e critica di comprendere quel momento filmico che non avrebbe avuto la

stessa forza espressiva se avesse avuto come tramite quella tradizione pittorica minore alla quale Pasolini si era

probabilmente ispirato (come ha ben spiegato Francesco Galluzzi in Pasolini e la pittura, Bulzoni, Roma, 1994, pp. 91-

94).

La Ricotta. «Neocapitalismo sugli ultimi terreni del sacro» (scene 1, 2, 4, 5, 8); «del Pontormo» (2, 6); «sembra

difendere la valle» (3); «l’ingordigia degli affamati» (3, 7): per La Ricotta gli unici riferimenti testuali possono essere

fatti alla “sceneggiatura” di Alì dagli occhi azzurri (pp. 467-87) che possiede una sommaria divisione in scene con

un’articolazione molto meno agile del film. «Pontormo»: esplicita l’indicazione di Pasolini (sceneggiatura, pp. 468-69 e

p. 480) anche se in una successiva intervista («Filmcritica», XVI [1965], p. 250) indicherà in Rosso Fiorentino il

modello del primo tableau.

I film successivi. «... negli Scritti corsari»: Scritti corsari, cit., pp. 12-13.