Marino Berengo storico della città europea

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Marino Berengo storico della città europea * Marco Folin Intervenendo a Lucca al primo convegno di «storiografia urbanistica», nel 1975, Cesare de Seta notava come gli studiosi allora più spesso citati nelle prime rassegne di storia urbana (Italo Insolera, Leonardo Benevolo, lui stesso) fossero di fatto degli outsiders, per lo meno in parte estranei alla «tradizione della cultura accademica italiana», finiti a insegnare all’uni- versità per «puro accidente», e sostanzialmente irriducibili a una qualche ‘scuola’ consolidata 1 . Era un modo per affermare la novità di un filone di studi che in quegli anni in Italia non poteva vantare tradizioni illustri, ma anche per denunciare le resistenze con cui i rispettivi ambiti di provenienza consideravano le curiosità interdisciplinari dei primi cultori di storia della città. È un aspetto, questo, che a distanza di trent’anni non sembra aver perduto tutta la sua attualità. Di Marino Berengo, uno degli storici più autorevoli della sua genera- zione, non si potrebbe certo dire che sia divenuto professore per caso. Vero è però che nel panorama italiano il suo tragitto culturale si è sempre distinto in quanto assolutamente «originale e indipendente, alieno da scuole e scuolette o sette e chiesuole»: così preconizzava Delio Cantimori già nel 1956, in un suo famoso intervento su «Movimento Operaio», re- plicando ad Alberto Caracciolo che poco prima aveva recensito su «l’Unità» il primo lavoro berenghiano – La società veneta alla fine del Set- tecento – in termini eminentemente marxisti 2 . Ben altro ravvisava Canti- mori nel suo più giovane allievo: Il Berengo ci ha dato il lavoro che più si avvicina al mio ideale di lavoro storico, scientificamente serio, dalla tematica complessa, autonomo nella im- postazione dei problemi, dall’orizzonte ampio (storia della cultura e storia economica; questioni politiche e strutture giuridico-amministrative ecc.; e non per sentito dire, ma per documenti d’archivio letti e intesi nel quadro gene- rale; critica della storiografia calata nel lavoro stesso, non estrinseca e polemica ecc.), condotto per reale intelligenza storica 3 .

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Marino Berengo storico della città europea*

Marco Folin

Intervenendo a Lucca al primo convegno di «storiografia urbanistica»,nel 1975, Cesare de Seta notava come gli studiosi allora più spesso citatinelle prime rassegne di storia urbana (Italo Insolera, Leonardo Benevolo,lui stesso) fossero di fatto degli outsiders, per lo meno in parte estranei alla«tradizione della cultura accademica italiana», finiti a insegnare all’uni-versità per «puro accidente», e sostanzialmente irriducibili a una qualche‘scuola’ consolidata1. Era un modo per affermare la novità di un filone distudi che in quegli anni in Italia non poteva vantare tradizioni illustri, maanche per denunciare le resistenze con cui i rispettivi ambiti di provenienzaconsideravano le curiosità interdisciplinari dei primi cultori di storia dellacittà. È un aspetto, questo, che a distanza di trent’anni non sembra averperduto tutta la sua attualità.

Di Marino Berengo, uno degli storici più autorevoli della sua genera-zione, non si potrebbe certo dire che sia divenuto professore per caso.Vero è però che nel panorama italiano il suo tragitto culturale si è sempredistinto in quanto assolutamente «originale e indipendente, alieno dascuole e scuolette o sette e chiesuole»: così preconizzava Delio Cantimorigià nel 1956, in un suo famoso intervento su «Movimento Operaio», re-plicando ad Alberto Caracciolo che poco prima aveva recensito su«l’Unità» il primo lavoro berenghiano – La società veneta alla fine del Set-tecento – in termini eminentemente marxisti2. Ben altro ravvisava Canti-mori nel suo più giovane allievo:

Il Berengo ci ha dato il lavoro che più si avvicina al mio ideale di lavorostorico, scientificamente serio, dalla tematica complessa, autonomo nella im-postazione dei problemi, dall’orizzonte ampio (storia della cultura e storiaeconomica; questioni politiche e strutture giuridico-amministrative ecc.; e nonper sentito dire, ma per documenti d’archivio letti e intesi nel quadro gene-rale; critica della storiografia calata nel lavoro stesso, non estrinseca e polemicaecc.), condotto per reale intelligenza storica3.

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Era una vera e propria investitura, cui presto avrebbe fatto eco un ul-teriore intervento di Pasquale Villani, che si allineava piuttosto sulle posi-zioni di Caracciolo4. Ma non è tanto per rievocare i termini di unacontroversia ormai lontana che si ricordano le discussioni suscitate dallaSocietà veneta nella storiografia italiana alla fine degli anni ’50, quanto perrilevare un apparente paradosso: sulla scia del giudizio di Cantimori, indiversi ambiti (la storia dell’editoria, per esempio, o quella dell’agricol-tura) l’«orizzonte ampio» dei lavori di Berengo ha fatto presto riconoscerein lui un capostipite di nuovi orientamenti di ricerca, se non di vere e pro-prie aperture disciplinari. Al contrario, nel campo della storia urbana –quello cui Berengo si dedicò forse più che a qualsiasi altro nei suoi ultimitrent’anni di vita – la medesima ‘eterodossia’ già segnalata da Cantimori siè in realtà tradotta in una condizione di sostanziale isolamento: tant’è cheanche recentemente la sua impostazione di ricerca è stata di volta in voltadefinita «inattuale», «controcorrente», addirittura «antiquata»5. È un fattoche i suoi studi abbiano avuto un’eco assai scarsa fra gli storici della città;e pure il suo ultimo grande libro su L’Europa delle città (1999) – vero eproprio Lebenswerk, è stato definito6 – non sembra aver suscitato moltointeresse al di fuori della cerchia di amici e colleghi, nonostante le varie re-censioni e i molti ricordi pubblicati all’indomani della morte del suo au-tore, nell’agosto 20007.

I saggi che qui ora si ripropongono sono praticamente tutti quelli de-dicati da Berengo a questioni di storia urbana fra il 1967 e il 1994: rileg-gerli ora, a distanza di tempo, non significa solo confrontarsi con unitinerario di ricerca fra i più significativi del secolo appena trascorso, maanche interrogarsi sulle ragioni per cui questo itinerario sia rimasto fon-damentalmente estraneo alla stagione di rinnovamento conosciuta negliultimi anni dagli studi di storia della città in Italia e in Europa. Certo, sipossono citare anche ragioni contingenti (la scrittura non facile, la scarsapropensione a parlare lingue straniere – celebre l’«only venetian» con cuiscoraggiava i possibili interlocutori anglofoni alla British Library, che delresto era uno dei suoi rifugi prediletti8), ma non per questo meno radicatein profonde divergenze di metodo e interessi: capire in quale misura que-ste divergenze siano in parte conciliabili o meno, è uno degli obiettivi dellepagine che seguono.

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1. Venezia, Firenze, Milano, ancora VeneziaNato nel 1928 da padre veneziano e madre ebrea ferrarese (e a questa

duplice origine sarebbe sempre rimasto legatissimo), Marino Berengovinse a diciott’anni il concorso per entrare alla Scuola Normale Superiore,facendosi subito notare da Delio Cantimori, che – si è visto – l’avrebbepresto riconosciuto apertamente come uno dei suoi allievi più brillanti epromettenti9. Ma durante il suo primo viaggio di ritorno da Pisa – mi rac-contò un giorno – si era ritrovato a sputar sangue alla stazione di Firenze:tubercolosi, in tempi in cui la diagnosi equivaleva a una condanna. Treanni in sanatorio – li rievocava sempre come anni di furiose, onnivore, let-ture – poi l’iscrizione all’Università di Padova (scelta obbligata, a quelpunto, per quanto i suoi rapporti con l’ambiente patavino fossero tutt’al-tro che buoni10) e in seguito il trasferimento a Firenze per dare la tesi conil maestro d’elezione, con cui i rapporti non s’erano mai del tutto interrotti.Si laureò nel 1953, di fronte a una commissione che oggi suona quasi leg-gendaria: insieme a Cantimori, relatore, ne facevano parte anche EugenioGarin ed Ernesto Ragionieri, oltre – come corelatori – a Gaetano Salveminied Ernesto Sestan11. Poi l’anno di perfezionamento a Pisa, con l’appen-dice di una borsa di scambio a Zurigo; un ulteriore periodo di studio aNapoli, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici diretto da FedericoChabod; e infine il concorso per la carriera direttiva negli Archivi di Stato,brillantemente vinto nel 1958, che lo riportò a Venezia all’Archivio deiFrari (in cui a quel tempo lavoravano pure a vario titolo, fra gli altri, UgoTucci, Alberto Tenenti, Ruggiero Romano e Gaetano Cozzi)12.

Ad ogni fase della sua vita nuovi interessi, a ogni nuova linea di ricercauna monografia destinata a diventare ben presto un ‘classico’, o comunqueun punto di riferimento per la sua generazione e le successive. Già si è ac-cennato al libro su La società veneta alla fine del Settecento, in origine natocome tesi di laurea, che inaugurava un indirizzo di ricerca a quei tempisostanzialmente inesplorato – la costituzione politica dello stato veneto diTerraferma, nei suoi risvolti sociali e culturali –, offrendo un modello percerti versi insuperato nella storiografia veneta13.

La tesi di perfezionamento l’avrebbe invece dedicata alla Lucca cin-quecentesca, e dalla relativa rielaborazione di lì a qualche anno avrebbeavuto origine il suo libro forse più fortunato, Nobili e mercanti nella Luccadel Cinquecento (1965). Nell’introduzione alla terza edizione del volume

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(1999), era lui stesso a rivisitarne i presupposti, ricordando il proprio in-tento di «ricostruire la storia sociale della città, del suo contado e delle suevicarie» attraverso lo studio delle diverse componenti della società luc-chese: non solo le «classi dirigenti» aristocratiche e/o mercantili, ma anchel’ambiente delle professioni e quello dei mestieri, sin giù fino ai gradinipiù bassi dell’universo urbano, intrecciando l’analisi delle strutture politi-che, economiche e sociali cittadine con lo studio dei riflessi culturali e re-ligiosi della «crisi di libertà» percepita ovunque nella Penisola dalle Guerred’Italia in poi14.

A Zurigo, pur ritoccando i suoi studi precedenti per la pubblicazione,avrebbe scritto un lungo saggio sulla cosiddetta «Via dei Grigioni», ov-vero quell’area del Canton Ticino – di importanza nevralgica nel sistemadi comunicazioni austriaco – che intorno alla metà del Settecento fu unodei principali banchi di prova (non senza suscitare molteplici tensioni)della politica riformatrice di Kaunitz e Maria Teresa15.

Tornato a Venezia come archivista, avrebbe proseguito le ricerche sullasocietà veneta fra Sette e Ottocento, sviluppandoli in due direzioni appa-rentemente divergenti, in realtà profondamente apparentate dal suo for-tissimo interesse per le dinamiche politiche colte nelle loro matrici socialie nei loro riflessi culturali: eccolo allora da una parte rivolgersi al mondodei giornali e delle gazzette, con l’antologia dei Giornali veneziani del Set-tecento (1962)16; dall’altra approfondire lo studio della proprietà nobiliaree del rinnovamento delle tecniche agricole nelle campagne venete del-l’Ottocento, con il volume sull’Agricoltura veneta dalla caduta della Re-pubblica all’Unità (1963), uscito nella prestigiosa collana della BancaCommerciale Italiana di Raffaele Mattioli17.

Nel 1963, non ancora trentacinquenne ma con alle spalle un curricu-lum di tutto rispetto, Marino Berengo vince il concorso a cattedra e vienechiamato a insegnare Storia moderna all’Università Statale di Milano, doveper un decennio sarebbe stato uno dei docenti di punta della Facoltà diLettere e Filosofia, e non solo sul piano strettamente scientifico: negli annidella contestazione – lui pur notoriamente esigentissimo agli esami – fuun punto di riferimento riconosciuto dello schieramento dei docenti pro-gressisti, nonché uno degli interlocutori privilegiati del movimento stu-dentesco18. In questo periodo, nonostante l’enorme carico didattico (nelcorso dei dieci anni milanesi diresse oltre 150 tesi di laurea), Berengo mette

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in cantiere due nuovi progetti: in primo luogo quello dell’Atlante storicoitaliano, insieme a Lucio Gambi – uno dei suoi pochi fallimenti dichia-rati19. In secondo luogo il lavoro sull’editoria ottocentesca e il mondo in-tellettuale della Restaurazione, su cui avrebbe scritto una serie di saggi(oggi in parte raccolti in un volume curato da Roberto Pertici20) e la mo-nografia su Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione (1980),definita ancora recentemente come il «contributo italiano più importantenel campo della storia dell’editoria e dei mestieri del libro», tappa «fon-damentale per il rinnovamento della storiografia della cultura in Italia»21.

Nel 1974, infine, il ritorno a Venezia, chiamato da Gaetano Cozzi afondare e costruire insieme con lui il Corso di Laurea in Storia di Ca’ Fo-scari (e in seguito il dottorato in Storia sociale europea), di cui fu la guidae l’anima per oltre vent’anni. È proprio in quest’ultimo periodo che si andòprecisando il suo interesse per la storia della città europea, che divenneben presto il tema di ricerca preponderante dell’ultima fase della sua vita.Già nel 1984 era in grado di anticiparne quasi tutti i principali argomentidi fondo nella sua Intervista sulla città medievale, scritta con Roberto Sa-batino Lopez: una sorta di dialogo a due voci – ma il risultato è incredi-bilmente unitario – con uno dei maestri della generazione immediatamenteprecedente alla sua (i quali in fondo rimasero sempre i suoi interlocutoriprediletti, come si evince chiaramente dagli appassionati profili da lui de-dicati a Cantimori, Luzzatto, Sestan, Salvemini… e appunto Lopez)22.

Finalmente, dopo 30 anni di gestazione – gli ultimi accidentati da ma-lattie varie che ne avevano ormai piegato il fragile corpo, ma non la vo-lontà di concludere l’opera di una vita –, sarebbe uscito il suo ultimo, percerti versi monumentale, libro su L’Europa delle città23.

2. Da Lucca (e Ferrara) a L’Europa delle cittàÈ stato detto e ripetuto che l’interesse di Marino Berengo per la sto-

ria della città si può inizialmente far risalire alle sue ricerche lucchesi: «daquesto libro» – scriveva lui stesso nell’introduzione alla terza edizione diNobili e mercanti (1999) – «ne è nato un altro, tuttora inedito, ma cui la-voro dall’ormai remoto 1974, sulla civiltà cittadina nell’Europa di anticoregime, dalla formazione cioè dei comuni sino alla guerra dei Trent’anni»24.È sempre Berengo ad ammettere apertamente la genesi non scontata, quasiimprevista di quei primi studi che poi avrebbero in qualche modo condi-

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zionato buona parte dei suoi orientamenti successivi: a suo dire, infatti, lascelta di dedicare a Lucca la tesi di perfezionamento poi rielaborata nellibro einaudiano sarebbe nata «da un duplice ed incerto impulso: geo-grafico il primo, sorto a Pisa […]; e religioso il secondo, legato al mioben amato maestro Delio Cantimori», particolarmente interessato alladiaspora riformata lucchese25. Il giovane e irrequieto perfezionando, tut-tavia, avrebbe subito reinterpretato a suo modo quei primi spunti decli-nandoli in chiave politico-sociale: «il quesito su chi detenesse il potere esulle forme di governo mi ha indotto a studiare specificatamente la classedirigente, cioè quella patrizia e nobile»26. Per far questo, però, era la fi-sionomia di tutta la società cittadina nel suo complesso che andava rico-struita, sia nella sua articolazione interna (le strutture familiari, le divisionifazionarie, le basi economiche e gli orientamenti culturali dei vari ceti, ilpeso delle istituzioni ecclesiastiche ecc.), sia nelle relative proiezioni ex-traurbane, nel contado come nel contesto più ampio della Penisola e deitanti fronti di tensione allora aperti. Ben presto, Berengo dovette accor-gersi che la ricerca gli si andava trasformando fra le mani: «l’interesse perla storia sociale ha preso subito il sopravvento su ogni altro tema», sì chealla fine il suo obiettivo principale divenne quello di «studiare una cittàitaliana del pieno e medio Cinquecento in tutti i suoi aspetti», scrivendonon una «storia dei nobili e dei mercanti […], ma proprio della vita cit-tadina nel suo complesso»27.

In molti hanno rilevato come in apparenza questo approccio costi-tuisse un «brusco mutamento d’orizzonti» rispetto agli indirizzi delleprime ricerche berenghiane, sia dal punto di vista cronologico che daquello tematico: e lui stesso, rievocando a distanza di quarant’anni queisuoi primi studi sul Cinquecento lucchese, ricordava lo «sforzo moltoduro» che gli erano costati28. In effetti, sino ad allora Berengo si era dedi-cato prevalentemente a problemi di storia sette-ottocentesca, con una spic-cata attenzione verso la storia della cultura (i giacobini, le gazzette, ilriformismo settecentesco…); e quando gli era capitato di occuparsi di sto-ria in senso lato sociale29, aveva mostrato curiosità soprattutto per argo-menti che si caratterizzavano per esulare dall’orizzonte specificamentecittadino, interessandosi piuttosto di questioni che avevano a che fare conil governo del territorio, l’organizzazione delle campagne e la distribuzionedel possesso fondiario: mirando, in una parola, a ricostruire le basi eco-

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nomiche, essenzialmente rurali, su cui si era fondato il potere dei ceti di-rigenti italiani nel corso dell’età moderna. Si trattava, del resto, di un orien-tamento (una generica «sensibilità in linea con quello che una volta si erachiamato “materialismo storico”», l’ha definita Mario Mirri30) che Berengocondivideva con molti storici della sua generazione, formatisi come lui nel-l’immediato dopoguerra, vivendone fino in fondo i dibattiti, le speranze,le delusioni.

In realtà, però, c’era già stata un’esperienza di cui Marino Berengoavrebbe parlato con enfasi a chi scrive: dopo la laurea Bruno Zevi gli avevacommissionato le ricerche d’archivio per il suo Biagio Rossetti architettoferrarese (1960), di cui rimane traccia nell’appendice documentaria al vo-lume, per quegli anni assolutamente esemplare31. Pur nella sua totale di-vergenza di prospettive rispetto a Zevi, Berengo rimase sempreparticolarmente affezionato a quelle sue prime ricerche di ‘storia dell’ur-banistica’, non solo per il peculiare rapporto che lo legava alla città di Fer-rara (di cui, si è detto, era originaria la madre), ma anche perché esse gliavevano dato modo di toccare con mano tutte le straordinarie potenzialitàdi un archivio così ricco come quello estense, che consentiva – data la scalain fondo modesta della città – uno studio a tutto tondo di un microcosmosociale ricostruibile nelle sue molteplici sfaccettature economiche, politi-che e culturali32. Un giorno mi disse che al momento di decidere a cosa de-dicare la tesi di perfezionamento era stato in dubbio se lavorare su Ferrarao su Lucca – realtà analoghe da molti punti di vista –, scegliendo poi la se-conda per una serie di motivi essenzialmente contingenti: appunto la vici-nanza a Pisa e gli auspici di Cantimori. Non so quanto questa confidenzacostituisse una reinterpretazione a posteriori, ma su una questione mi sem-bra non possano esserci dubbi: e cioè che la scelta di studiare una città diseconda grandezza per restituirne la vita in tutta la sua complessità nonsia nata quasi per caso, a contatto con l’eccezionale ricchezza delle fonticonservate all’Archivio di Stato di Lucca (come lascerebbe intendere concerto qual understatement l’introduzione alla terza edizione di Nobili emercanti), ma che al contrario sia stato proprio questo obiettivo progam-matico, per quanto inizialmente ancora confuso, a determinare in Berengola scelta dell’argomento di tesi33.

Del resto, gli spunti in tale direzione non dovevano essergli mancati,in quegli anni. Spunti di vario genere: in primo luogo, va detto che il tema

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della città – intesa come città-stato comunale, repubblicana, di sismon-diana e cattaneana memoria – era uno degli argomenti di studio predilettida molti degli esponenti di quella ‘scuola economico-giuridica’ con cuiBerengo si sentiva (e sempre più nel corso degli anni si sarebbe sentito) inprofonda sintonia34. Lo sottolineava lui stesso nel 1964, alla morte di GinoLuzzatto (altro suo maestro putativo, accanto se non forse prima ancoradi Cantimori, e ben più di lui affine all’allievo sul piano della sensibilità sto-rica e dei concreti interessi di ricerca), nel dedicargli un lungo e bellissimoprofilo sulle pagine della «Rivista Storica Italiana»: uno di quei ritratti chepossono essere letti quasi come autoritratti, tanto i lineamenti del soggettosi confondono con quelli dell’autore35. Ed è proprio in queste pagine ap-passionate che Berengo fa ruotare tutti gli studi più maturi del propriomaestro intorno alla questione del ruolo storico della città italiana nel pro-gresso economico, sociale, politico del paese: «scopo fondamentale di Luz-zatto» – scriveva Berengo – era quello di «cogliere la funzione economicae sociale della città, ciò che il mercato, le attività manifatturiere, i diritti ci-vili offerti e garantiti entro le sue mura significano per la campagna che sudi essa gravita», e per converso «come la rendita fondiaria ritorni nellacittà e vi sostenga un determinato equilibrio sociale»36. Di qui – prose-guiva Berengo – l’importanza cruciale attribuita dal padre della storia eco-nomica italiana al «rapporto tra città e campagna, e quindi [al] concettostesso di centro urbano, che è uno dei problemi più sentiti da Luzzatto eche proprio in quegli stessi anni doveva ispirare ad Antonio Anzilotti le sueprime e geniali ricerche di storia toscana»; di qui il rilievo da lui accordatoall’«elemento mercantile» come protagonista del mondo comunale; di qui,ancora, la valutazione positiva – intrisa di «spirito salveminiano» – dataalle «lotte civili, intese come conflitti di classe», che avevano sì minatol’azione dei Comuni portando alla loro dissoluzione, ma che erano statepur sempre la «manifestazione di una società libera e nel pieno della suaespansione»37. In seguito le ricerche di Berengo si sarebbero orientate se-condo le medesime direttrici di fondo, che evidentemente intorno allametà degli anni ’60 dovevano già apparirgli in tutta la loro organicità.

Tuttavia, non è solo all’influenza dei vecchi maestri della scuola eco-nomico-giuridica che possiamo far risalire il progressivo lievitare, negli in-teressi berenghiani, del tema della città; in effetti in quel periodo – gli annidella Ricostruzione, e poi del Boom e della speculazione edilizia… – la

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città storica italiana si avviava a essere al centro di un dibattito che trava-licava ampiamente i confini fra le discipline. Sono gli anni in cui sulle pa-gine di «Urbanistica» compaiono una serie di profili dedicati alla storiadelle maggiori città italiane nel corso dell’ultimo secolo destinati a farescuola38; in cui vengono tradotte in italiano le opere di Mumford ed esconoi primi, dibattuti, libri di Benevolo39; in cui le denunce di Antonio Cedernasuscitano un’eco vastissima e d’altro canto una serie di architetti e urbanisti– Egle Trincanato, Saverio Muratori, Giuseppe Samonà… qualche tempodopo Aldo Rossi e Carlo Aymonino – prendono a teorizzare la necessità diun nesso diretto fra progettazione architettonica e analisi storico-urbana,introducendo i loro saggi (o accompagnando i loro piani e progetti) conlunghe premesse storiche animate da un’esplicita tensione operativa40. Duedei libri più significativi di quella stagione, sul duplice versante storico estorico-urbanistico, furono indubbiamente Roma capitale di Alberto Ca-racciolo (1956) e Roma moderna di Italo Insolera (1962)41. Berengo ne co-nosceva personalmente gli autori – come molte altre figure di primo pianodi quegli anni, da Bruno Zevi a Lucio Gambi, con cui poi avrebbe condi-viso il progetto dell’Atlante Storico Italiano –, e non poteva certo essereindifferente allo spettro dei problemi e degli interessi che quelle opere sol-levavano, non foss’altro che per la militanza civile e politica che lo acco-munava a molti dei rispettivi autori42.

Certo, Berengo non poteva fare gran stima dell’approccio spesso astrat-tamente formale alla storia cittadina, assai debole sul piano documentario,che caratterizzava molti di quegli studi di matrice architettonico-urbani-stica; e non perdeva occasione di prenderne apertamente le distanze,quando gliene capitava l’opportunità. Tuttavia, non mancano le tracce diqualche cauta apertura di credito o comunque della volontà di non chiu-dere completamente le porte al dialogo: non può certo essere un caso, adesempio, che per presentare il suo progetto di ricerca sulla città europea diantico regime, nel 1973, Berengo abbia scelto proprio il convegno orga-nizzato dalla rivista «Quaderni Storici» a Sorrento, in cui forse per la primavolta in Italia storici, architetti, urbanisti e geografi convenivano a con-frontarsi su questioni di storia urbana43. Né va dimenticato che anche inseguito altre significative anticipazioni dell’Europa delle città avrebberovisto la luce in sedi editoriali afferenti all’ambito architettonico-urbanistico,assai più che storico: come il volume su Le città capitali curato da Cesare de

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Seta o la rivista «Storia della Città» diretta da Enrico Guidoni44.Sta di fatto che dopo aver licenziato il suo libro su Lucca nel 1965 –

pur senza mai smettere di coltivare paralleli interessi di ricerca – Berengoiniziò gradualmente a fare della città europea il suo prevalente oggetto distudio. E per quanto nel suo lungo percorso non siano mancati scarti ecambiamenti di rotta, va detto che una fortissima continuità sembra le-gare i suoi primi lavori degli anni ’60-’70 all’ultimo libro uscito nel 1999,come del tutto coerente appare l’itinerario che lo portò ad allargare la vi-suale da Lucca al resto d’Europa. Il modo migliore per rendersene contoè seguire il filo dei saggi che vengono qui ora ripubblicati.

3. Il tema del declino della città italiana nel CinquecentoIl primo testo in cui gli interessi di Marino Berengo per la storia delle

società cittadine in sé e per sé iniziano a prender corpo in modo esplicito,per quanto ancora solo embrionale, è anche uno dei suoi interventi piùnoti, letti e citati: ovvero il suo bilancio dei risultati conseguiti nel dopo-guerra dalla storiografia italiana sul Cinquecento, presentato nel 1967 alconvegno di Perugia su La storiografia italiana degli ultimi vent’anni45.

Filo conduttore dell’intervento era l’idea che l’Italia del Cinquecento siastata teatro di un’epocale «crisi di libertà», tale da segnare ovunque unaprofonda frattura nella storia del nostro paese e l’inizio di un plurisecolareperiodo di «declino»: il declino di quella «civiltà urbana» che si era svi-luppata nell’età dei comuni, dando vita a originali forme di governo distampo repubblicano, salvo poi essere completamente travolta nel giro dipochi decenni nel primo secolo dell’età moderna, segnando il collasso diuna «fisionomia sociale che si era venuta costituendo attraverso un secolareprocesso»46. La tesi, di per sé, non era particolarmente originale, a queitempi: anzi, per certi versi non faceva che allinearsi all’interpretazione al-lora canonica del significato della storia rinascimentale italiana, già soste-nuta da oltre un secolo da Sismondi e Cattaneo sul versante della storiapolitica, da De Sanctis e Carducci su quello della storia letteraria, per esserepoi ulterioremente confortata nel Novecento da tutta una serie di analisi fracui, nei rispettivi ambiti, spiccavano quelle di Chabod e Dionisotti47.

Inserendosi consapevolmente in questa tradizione di studi che ben co-nosceva, Berengo non mancava tuttavia di prendere posizione, avanzandodue opzioni di metodo di carattere generale: in primo luogo, egli esortava

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a evitare di far riferimento a «troppo rigide delimitazioni cronologiche»,che trovavano scarsa rispondenza nella complessità dei processi storici48.«Le strutture sociali maturano con lentezza le loro trasformazioni», infatti,e «le categorie classificatorie male si adegu[a]no all’esigenza di abbracciareglobalmente tutti gli aspetti della realtà storica»: nella fattispecie – prose-guiva Berengo – sarebbe vano cercare di cogliere i caratteri più propri diquel «momento di rottura e di trapasso» che fu il Cinquecento senza ri-cercarne le origini assai più addietro nel tempo, nel pieno medioevo.Un’idea, questa, che avrebbe poi accompagnato lo storico veneziano (madi formazione fiorentina, come egli stesso amava definirsi) per tutta la vita49.

In secondo luogo, Berengo (citando Chabod) prendeva le distanze dallatendenza dilagante a condurre ricerche sempre più specialistiche, portandoi diversi indirizzi disciplinari – e in particolare i «due principali tipi di sto-ria: la politica e la culturale» – a procedere per compartimenti stagni, rin-chiudendosi «in sfera propria e autonoma, a cui nessuno assai fioco raggiodi luce perviene dalla vicina»50. Di contro alla frammentazione delle pro-spettive particolari, Berengo individuava proprio nel tentativo di ancoraresul lungo periodo la storia della cultura a quella della politica, ed entrambealla storia sociale, la via più fertile per indagare il contenuto della «crisi» ita-liana e in ultima istanza le ragioni della sua specificità nel quadro europeo:

se vorremo veramente andare al fondo di questa crisi della libertà, o diciamopure decadenza che il paese attraversò allora, dovremo vincere quella falsa spe-cializzazione che Chabod denunciava e cercare all’interno stesso della societàitaliana le linee della sua trasformazione51.

All’interno della società italiana: i motivi della decadenza non andavanocercati nell’oppressione straniera; e neppure tanto in quel processo di in-voluzione economica (la cosiddetta «rifeudalizzazione», vessillo di quei «pa-ladini» della storiografia francese in Italia che erano allora RuggieroRomano e Alberto Tenenti, con cui Berengo non avrebbe mai perso occa-sione di polemizzare52) che certo ne costituiva un aspetto non secondario,ma che in alcun modo poteva esserne considerato il motore esclusivo. Alcontrario, il netto trapasso ai nuovi equilibri politici su cui si sarebbe poiretta la storia della Penisola sino all’età delle Riforme si esprimeva anche esoprattutto nei «nuovi ideali di vita» che si andavano diffondendo nel Cin-quecento, e in cui aveva modo di riflettersi la peculiare fisionomia della so-

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cietà cittadina italiana. Non erano molti gli studi che nel dopoguerra aves-sero raccolto l’invito di Chabod a superare i particolarismi disciplinari perindagare a fondo su questi temi: si potevano citare il Nicolò Contarini diGaetano Cozzi, Nobiltà e popolo di Angelo Ventura, gli studi di Grendi suGenova e di Berengo stesso su Lucca53. Pur partendo da diverse e a voltedivergenti prospettive, tuttavia, queste ricerche erano assolutamente con-cordi nel registrare, nei rispettivi casi di studio, una tendenziale chiusura deiceti dirigenti cittadini, sfociata quasi ovunque in dinamiche di tipo oligar-chico, accompagnate dal progressivo abbandono di quello spirito di par-tecipazione alla cosa pubblica che era stato uno dei fattori fondamentalidella vitalità del mondo comunale italiano. La «crisi di libertà» così soventeavvertita dagli uomini che vivevano nel XVI secolo, insomma, non era chela diretta conseguenza del «declino delle vecchie forme della vita politicaitaliana e di una in particolare: la cittadina repubblicana». Da questo puntodi vista, la crisi del Cinquecento poteva essere considerata come la «bruscasconfitta» di una «civiltà»: una sconfitta senza appello,

che non ebbe per contropartita la formazione di stati solidi nelle loro strut-ture amministrative e giudiziarie, ma si espresse nel trionfante particolarismodei corpi, nella pigra custodia di privilegi nuovi e antichi, in un’egemonia no-biliare condannata ad un precoce invecchiamento dal cessare d’ogni compe-tizione e d’ogni alternativa di ricambio, apre[ndo] quella che fu la più certae la più lunga età di decadenza nella storia dell’Italia moderna.

Già Nobili e mercanti si reggeva fondamentalmente sull’idea che ildeclino politico della Lucca cinquecentesca non fosse che l’altra facciadell’aristocratizzazione delle vecchie élites comunali e del loro conse-guente arroccamento su posizioni di difesa dei privilegi acquisiti: ora,però, il medesimo argomento veniva declinato in termini molto più ge-nerali, stabilendo un nesso cruciale fra il tema dell’eclissi degli ordina-menti comunali (e dei costumi su cui questi si erano retti) e la questionedella crisi del Cinquecento dall’altra. Berengo si guardava bene dal citareCederna o Benevolo, ma è lecito pensare che le letture e i dibattiti di que-gli anni non fossero del tutto estranei a questa originale rivisitazione delvecchio problema risorgimentale-gramsciano della decadenza italiana nel-l’età moderna, riportato al nodo dello scarso spirito civico dei ceti diri-genti cittadini54.

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Nel chiudere il discorso, Berengo aggiungeva quasi en passant unasorta di postilla sull’esito peculiare di questo processo nel nostro paese,dove non si verificò mai quel totale declino della civiltà urbana che carat-terizzò invece altri stati europei: dal Tevere alle Alpi, infatti, a differenzache per esempio in Germania, «il gusto maturato nell’età comunale diesercitare un’attiva parte nelle vicende e nelle scelte della propria patria cit-tadina non si sarebbe mai potuto interamente cancellare». In nota, Be-rengo osservava che il primo spunto per questo paragone gli era venutodalla lettura de La nascita dell’Europa di Lopez, uscita l’anno precedente,e dal confronto che vi veniva accennato fra città anseatiche e città italiane:«e a me pare» – commentava a mo’ di conclusione – «che la risposta alproblema da lui così utilmente formulato sia in gran parte da ricercarenella diversa formazione delle classi dirigenti»55. Il lessico è ancora quellotradizionale; ma del tutto nuova è la prospettiva adottata, di impianto emi-nentemente comparativo: incontriamo qui il primo, aurorale, accenno alprogramma di ricerca sui caratteri della società urbana europea cheavrebbe presto catalizzato gli interessi berenghiani. Tant’è che già nel-l’aprile 1968 – secondo la testimonianza di Corrado Vivanti – Berengo po-teva partecipare a un convegno sull’assolutismo, a Mosca, presentandouna relazione tutta imperniata sull’opportunità di distinguere le varieforme di nobiltà urbana e rurale e sul confronto fra la città italiana e quellatedesca lungo l’età moderna, indicate come «le maggiori nemiche del feu-dalesimo prima, dell’assolutismo più tardi»: molti dei suoi studi succes-sivi non avrebbero fatto che articolare queste prime intuizioni56.

4. La città europea come programma di ricercaL’inciso che si trovava ancora confinato in nota nel 1967 diventa uno

degli assi portanti dell’intervento presentato al convegno di Sorrento del1973, i cui atti uscirono dapprima su «Quaderni Storici» l’anno successivoe poi in un volume a sé curato da Alberto Caracciolo nel 197557. Va subitodetto che una fortissima continuità lega il contributo del 1973 e la relazionedi sei anni prima, a partire dall’origine fondamentalmente medievistica delventaglio dei problemi da cui Berengo prendeva le mosse: «per tracciare unprofilo della città di antico regime» – esordiva infatti a Sorrento – «con-viene anzitutto stabilire quale nesso sussista fra le tradizioni urbane dellastagione comunale e quelle che si affermano tra Quattro e Seicento, quando

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la città è sempre meno sinonimo di stato»58. Se è vero infatti che le vicendedella città europea a partire dall’età del Rinascimento si possono riassu-mere nella storia della sua progressiva emarginazione politica e del suo de-clino rispetto alle antiche tradizioni di indipendenza del passato comunale,allora uno dei problemi cruciali della storia moderna sarà quello di indagarele conseguenze profonde – in termini politici, sociali, culturali – di questafase di declino. Con ciò, le differenze di grado e di tono non mancano, fraun paese e l’altro; e da questo punto di vista

non è certo inutile chiedersi se l’arco di questo declino sia stato percorso datutte le nazioni; se la decadenza delle città allo schiudersi dell’era moderna sisia accompagnata o meno alla decadenza o all’espansione economica e poli-tica dello stato di cui erano parte; se il ricambio e l’irridigimento dei gruppisociali abbiano deciso in modo durevole e incancellabile nella storia di que-sto o quel popolo.

Da una parte il logorìo delle tradizioni comunali e i relativi riflessi sullosviluppo del paese; dall’altra la dinamica della società urbana (e in parti-colare la fisionomia dei ceti dirigenti cittadini) come chiave di lettura deidestini collettivi di un popolo. A ben vedere, sono le medesime questionisottese alla relazione di Perugia, che ora vengono però ad assumere un re-spiro assai più vasto: sia perché l’ottica non è più limitata all’area italiana,ma si è allargata comparativamente a un orizzonte europeo («dobbiamotornare a chiederci come e perché la tradizione urbana sia insopprimibilee animatrice in alcune civiltà, mutevole e non caratterizzante in altre»); siaperché è l’idea stessa della città – intesa come luogo di decantazione delleenergie espresse da un intero paese – a farsi qui più articolata e pregnanteche in passato, in base a un’idea che avrebbe poi trovato aperta formula-zione ne L’Europa delle città59.

Come già a Perugia aveva contestato l’uso di partizioni cronologichee disciplinari troppo rigide, e in definitiva astratte, anche in questo casoBerengo evitava di fare riferimento a «formule onnicomprensive» per cir-coscrivere il proprio campo di ricerca, sbrigando il problema della defi-nizione del concetto di città con un ulteriore rinvio a Lopez, il quale daparte sua lo aveva già icasticamente liquidato qualche anno prima («in-somma, una città è una città»)60. Alcuni anni dopo sarebbero ritornati en-trambi sull’argomento, scegliendo di dedicare il primo capitolo della loroIntervista sulla città medievale proprio al tema della «città come stato

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d’animo»: un richiamo esplicito ai famosi versi di Alceo («non le case daibei tetti, non le pietre di mura ben costruite, non i canali né le banchinefanno la città, ma gli uomini capaci di sfruttare l’occasione»), a sottoli-neare come secondo loro l’unico vero discrimine dell’‘urbanità’ o menodi un dato insediamento non potesse essere che l’autocoscienza dei rela-tivi abitanti61. Nel 1973 Alceo non viene ancora citato, ma l’assunto erasostanzialmente lo stesso. Del resto, l’idea della «consapevolezza politica»dei contemporanei come fondamento dell’identità cittadina di antico re-gime era perfettamente funzionale al discorso di Berengo: gli permettevadi porre l’accento sulla varietà e sulla relatività delle categorie coeve, piut-tosto che su anacronistici concetti universali; e al tempo stesso gli con-sentiva di riproporre in chiave europea quell’«endiadi città-libertà» cheda Lucca in poi gli si andava profilando come un nodo problematico diassoluto rilievo62.

Gli interrogativi con cui si apre così energicamente l’intervento di Sor-rento rimangono sostanzialmente inevasi nel prosieguo del testo. In sinto-nia con Momigliano e con la sua massima secondo cui per lo storico èsoprattutto importante «porre delle domande intelligenti», piuttosto che«produrre delle risposte plausibili», per il momento Berengo non sembrasentire l’esigenza di dare risposta ai quesiti da lui stesso sollevati, quanto so-prattutto di illustrare una serie di linee di ricerca potenzialmente feconde63.Sono le stesse su cui poi avrebbe lavorato nel ventennio successivo, e in-torno a cui si sarebbe venuta costruendo l’armatura dell’Europa delle città:

Dobbiamo ora chiederci perché, nell’animo dei contemporanei, questolegame tra libertà e città fosse così difficile da dissolvere; se ovunque avessela medesima forza e tenacia; chi ne beneficiava e chi, entro le mura e nel con-testo della vita urbana ne era partecipe o escluso; qual era, infine, il potere chela città e chi in essa viveva, irradiava o subiva64.

In altre parole, che fisionomia avevano i ‘ceti dirigenti’ cittadini – dadove traevano il proprio potere, in che forme lo esercitavano, come riusci-vano a tramandarlo? Cosa voleva dire appartenere alla società urbana e allesue élites, o viceversa essere relegati ai margini del corpo sociale cittadino?Né si poteva cercare di rispondere a queste domande senza riconsiderarepreventivamente una serie di «concetti non scontati» – come quelli di cor-porazione, patriziato, nobiltà, consortato, ma anche minoranza ed emargi-nazione –, ripercorrendone la mutevole evoluzione nei vari periodi storici

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e nelle diverse aree europee. Così, ecco Berengo porre a confronto il patri-ziato italiano da una parte e le élites urbane tedesche dall’altra: due ceti di-rigenti di analoga estrazione mercantile, ma che nel corso dell’età modernavenirono acquisendo una fisionomia molto diversa. Nella Penisola, fraQuattro e Cinquecento, l’aristocrazia cittadina maturò quasi ovunque unaforte identità nobiliare, abdicando alle proprie origini – che affondavanospesso nel mondo dei traffici – e rivolgendosi piuttosto alle rendite fondia-rie, con il risultato di provocare quel declino economico delle città che coin-cise con il declino delle sorti italiane tout court («occorre per noi tornare,con forza, a Cattaneo: la città è il “viscere vitale” della storia d’Italia.Quando la città decadde, era decaduta con lei tutta la società italiana»65).

A nord delle Alpi questo processo non si verificò: le élites urbane nonriuscirono mai a sostituirsi alla nobiltà territoriale come classe egemone aivertici della società tedesca, continuando a mantenere un profilo e costumimolto più duttili, meno marcati. Così, in Germania le città e i relativi cetidirigenti – pur economicamente molto più vivaci che nella Penisola – ri-masero politicamente assai più deboli dei loro corrispettivi italiani nei con-fronti della nobiltà feudale e dei Principi territoriali. Ed è proprio aldifferente peso dell’elemento mercantile sui due versanti delle Alpi che sipuò ricondurre un altro fattore di distinzione fra la società urbana tedescae quella italiana: ossia il ruolo differente giocato nei due casi dalle corpo-razioni. In Germania queste sarebbero rimaste per tutta l’età moderna unadelle strutture portanti dei patriziati cittadini; viceversa, nel nostro paeseesse avrebbero progressivamente perso smalto e importanza, sostituite daaltre forme «dichiaratamente politiche» di aggregazione nobiliare, come iconsortati o consorzi, i monti, gli alberghi ecc.

Sono divergenze di fondo, tali da render conto del diverso destinodelle città italiane e tedesche. Tuttavia, queste distinzioni impallidisconoove la comparazione sia spinta alle città islamiche, caratterizzate da unastruttura sociale del tutto differente, e in particolare dall’assenza di unqualsiasi senso di appartenenza municipale: in esse, infatti

il credente non si sente cittadino dell’una o dell’altra comunità ove vive, o ènato, o da molte generazioni risiedono i suoi padri; la sua sola e vera, irri-nunciabile appartenenza è quella all’Islam. Mutare residenza non significaper lui rescindere legami profondi o antichi, andare in esilio, come per un fio-rentino, un bolognese o un fiammingo66.

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Di qui l’assenza di patriziati nel mondo mussulmano; di qui la man-canza di quella «competizione politica a livello municipale» che invece erastata il cardine delle dinamiche (e in fondo della grandezza) delle città co-munali italiane; di qui insomma – sulle rive meridionali del Mediterraneo– un’idea radicalmente diversa di cittadinanza, e quindi di libertà.

All’estremità opposta della scala sociale, non meno significative risul-tavano le varie caratterizzazioni assunte nelle diverse aree europee dal con-cetto di minoranza, ovunque sentito assai fortemente sin dal medioevo.Certo, dalla Sicilia al Mare del Nord si potevano incontrare delle presenzericorrenti: gli ebrei, i mercanti, tutte quelle «colonie» di stranieri che nellamaggior parte delle città europee costituivano uno dei «massimi principiorganizzativi della vita urbana»67. Anche su questo piano, tuttavia, il ven-taglio delle variabili possibili non era inferiore a quello delle analogie:v’erano città, ad esempio, in cui una minoranza in senso demografico sitrovava a godere di una posizione di predominio sulle popolazioni di altraetnia che risiedevano nell’hinterland (così fu per molti secoli sulle spondedel Baltico, o nella Dalmazia veneta). In altri casi invece incontriamo unaconcezione (e anche un regime giuridico) della minoranza completamentediversi: nella fattispecie nei paesi islamici, dove in assenza di patriziati – edunque dell’idea di appartenenza municipale – le minoranze avevano ge-neralmente modo di integrarsi nella vita cittadina molto più agevolmenteche sull’altra sponda del Mediterraneo, a tal punto da poter coltivare laprospettiva di ascendere, in determinati casi, ai vertici della società. Ab-biamo dunque a che fare con equilibri sociali assai diversificati; da cui de-rivavano assetti di potere del tutto peculiari, e in una parola «civiltàurbane» completamente differenti le une dalle altre.

Il secondo grande alveo di ricerca indicato da Berengo nella relazionedi Sorrento erano i rapporti fra la città e il territorio circostante: quelloche in Italia era detto «contado», e che quasi ovunque in Europa rappre-sentava uno dei parametri più sensibili per cogliere la natura dei ceti diri-genti e la consistenza effettiva del loro potere. Come per Braudel –secondo cui ogni città per essere tale «il faut qu’elle domine un empire, fùt-il minuscule»68 – anche per Berengo questi rapporti erano contrassegnatida uno squilibrio di fondo a favore delle città: una disparità strutturale, chenon si reggeva solo su una serie di fattori istituzionali e normativi (primodei quali la sperequazione fiscale), ma anche e soprattutto sul controllo

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della proprietà fondiaria nelle campagne, destinato a farsi sempre più saldoe pervasivo nel corso dell’età moderna. Se ne ha una conferma quanto maipregnante nel caso di quei centri rurali di dimensioni rilevanti («quasicittà» le avrebbe poi definite Giorgio Chittolini69) cui a un certo puntodella loro storia capitò di essere innalzati – per decreto – al rango di città,e dunque di venir dotati per l’appunto di un contado: ma si trattava diun’operazione artificiosa, e che rischiava di rimanere meramente sulla cartaove non si accompagnasse a un’effettiva penetrazione del capitale citta-dino nelle campagne («l’esercizio della giurisdizione è infatti elemento diestrema importanza, ma che riduce il suo significato se non si innesta sudi un determinato regime fondiario; se, in altri termini, i cittadini non sonogià in larga misura proprietari fondiari nel contado»)70.

Secondo Berengo, tuttavia, Braudel – nel risolvere tutta la sua analisisul piano del mercato – aveva finito per semplificare e generalizzaretroppo un panorama che in realtà era molto più variegato e duttile diquanto non sembrasse a un primo sguardo71. Negli stati territoriali emersinel corso del Cinquecento, infatti, le città venivano ad assumere un ruoloeconomico ben diverso da quello rivestito ai tempi d’oro dell’indipen-denza comunale: in passato l’«imperialismo» urbano era stato anche e so-prattutto una forma di predominio di carattere mercantile, e in qualchemisura produttivo; viceversa ora, con il consolidarsi di un patto di ferrofra il sovrano e le oligarchie cittadine, anche i valori e le logiche econo-miche di queste ultime – nonché la natura della loro supremazia – cam-biavano di segno, venendosi sempre più a identificare con l’esercizio dellecariche municipali:

negare che la città post-comunale si giustifichi e alimenti come mercato delsuo contado sarebbe, ovviamente, errato. Ma questo elemento non è più in-dispensabile e non riesce, di per sé, caratterizzante: da quando lo stato ha am-pliato i suoi confini, e si è rassodato, la città è soprattutto un capoluogoamministrativo o […] un centro di consumo della rendita fondiaria72.

Bisognava poi distinguere nettamente i casi in cui la città era l’unico eincontestato dominus del proprio contado, da quelli in cui essa costituivainvece un corpo sostanzialmente estraneo al territorio circostante, se nonaddirittura una presenza antagonistica, che si contrapponeva frontalmenteal mondo rurale alimentando conflitti non privi di tratti violenti. L’esem-

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pio classico della prima tipologia erano le città-stato italiane dell’età co-munale, che tuttavia anche in seguito (per lo meno sino ai primi del XVIIIsecolo, aveva sostenuto a suo tempo Anzilotti73) non persero mai del tuttole proprie prerogative sul distretto di cui si trovavano al centro. Esempidella seconda tipologia si possono invece incontrare in tutte quelle areedove tradizionalmente forti erano i poteri feudali, e in cui di riflesso le cittàsi trovavano a esercitare una scarsa influenza sulle campagne: così in Ca-stiglia, per esempio, o – per restare in Italia – nel Regno di Napoli o nei do-mini del duca di Savoia, dove l’aristocrazia tendeva a fondare la propriaidentità non tanto sul monopolio delle istituzioni cittadine, quanto su unrapporto privilegiato con il sovrano e/o sul possesso di titoli signorili.

La fisionomia specifica dei ceti dirigenti e i rapporti peculiari fra cittàe campagna davano dunque vita a evoluzioni urbane di segno assai diverso.E questa diversificazione appare particolarmente esplicita nel caso di quellecittà capitali che nel corso dell’età moderna si andarono imponendo sullascena europea, incarnando agli occhi degli stessi contemporanei la quin-tessenza del fenomeno urbano. Spesso, ricorda Berengo, erano città chegià prima dell’acquisizione formale del titolo di caput di un vasto dominioterritoriale costituivano grossi centri di produzione e di scambio. Ciò non-dimeno, dopo l’ascesa al rango di capitale esse manifestarono immancabil-mente la tendenza a farsi protagoniste di un impetuoso processo di crescitademografica, del tutto singolare rispetto ai parametri del tempo: si trattavacioè di altra cosa rispetto allo sviluppo «tutto artigiano e mercantile» co-nosciuto dai comuni italiani e fiamminghi fra Due e Trecento, caratteriz-zandosi invece in questo caso come incremento «in parte burocratico, inparte (in quanto cioè collegato allo sviluppo di una corte) nobiliare»74.

Quali erano le ragioni profonde di questa crescita – che non si esau-riva in un semplice aumento quantitativo della popolazione, ma coinvol-geva ogni aspetto della vita urbana –, e quali ne erano le conseguenze sullafisionomia della società cittadina? Anche questa volta per cercare rispostaai propri interrogativi Berengo imboccava risolutamente la via compara-tiva. Vediamo così messi a confronto – e illuminarsi reciprocamente – icasi per molti versi opposti di Venezia e di Valladolid: la prima, dove puregiungeva e si consumava gran parte del reddito nazionale (sotto forma direndite fondiarie ed ecclesiastiche, nonché di introiti legati all’esercizio

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delle cariche amministrative, riservate ai cittadini veneziani), non avrebbemai perso del tutto il proprio carattere di città mercantile, nodo di scambia livello internazionale; la seconda, viceversa, assurta dopo gli studi di Ben-nassar a modello per eccellenza della metropoli burocratica moderna,avrebbe finito per drenare tutte le risorse fiscali e fondiarie del regno senzaalcuna contropartita economica per il dominio periferico75. Né questierano gli unici modelli possibili: Roma, per esempio – «grande albergo co-smopolita che ruota[va] intorno alla curia» – rappresentava un tipo di ca-pitale completamente diverso dai due appena ricordati; per non dire diIstambul, centro produttivo di primaria grandezza nel mondo ottomano,dove però l’assenza di un’aristocrazia municipale per i motivi già evocaticomportava vivacissimi ritmi di ricambio ai vertici della società locale e indefinitiva la mancanza di uno stabile ceto di governo76.

C’è dunque capitale e capitale, proprio perché c’è società e società, e c’èquindi stato e stato. Una determinata struttura sociale conferisce volto e ritmodi capitale anche a centri urbani ove non risiedono una corte sovrana e ungoverno. […] Ed è appunto muovendo dall’interno di ogni singolo paese,delle sue tradizioni, delle sue classi sociali, insomma della sua storia, che ci ap-pare quale contributo la città abbia dato al suo sviluppo, e che punto di ri-porto abbia costituito.

5. Il tema della nobiltàA due anni di distanza dal convegno di Sorrento, recensendo un libro

di Giorgio Borelli sui patrimoni nobiliari veronesi fra Sei e Settecento, Ma-rino Berengo ne approfittava per illustrare una distinzione concettuale chepresto gli sarebbe divenuta cara: quella – di uso corrente nella storiogra-fia fiamminga, ma inconsueta nella tradizione del nostro paese – fra ‘pa-triziato’ e ‘nobiltà’. Nel far questo, non si richiamava esplicitamente alprogramma di lavoro tracciato due anni prima; ma il profilo europeo deisuoi orizzonti e la coerenza dell’impostazione rispetto alle coordinate pro-poste nel 1973 non sono meno evidenti77.

Nel corso dell’età moderna – esordiva Berengo – «in tutta l’Europa oc-cidentale le città rette a repubblica non hanno saputo resistere alla spintadegli stati signorili che presto o tardi le hanno sottomesse; o, al più, una re-pubblica (è il caso di Firenze) ha ridotto a soggezione le più deboli vicine».

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In questo panorama relativamente omogeneo, però, si conta un’eccezionemacroscopica: quella della Terraferma veneta, in cui abbiamo a che farecon un ceto di origini mercantili (il patriziato veneziano), fiero del propriopassato commerciale-marittimo eppure capace di abbattere i governi si-gnorili dell’entroterra, soggiogandone le città e le relative oligarchie. Que-ste ultime vantavano matrici culturali e materiali del tutto differenti – amaggior ragione in una città come Verona, dove la nobiltà aveva «serratole fila» e «tenuto fede al suo antico volto cavalleresco» forse più che inqualsiasi altro centro soggetto alla Serenissima –, mantenendo nei con-fronti dei conquistatori lagunari un senso di altiero dispregio: avevano,cioè, lo stesso atteggiamento dei Signori feudali fiamminghi e tedeschiverso i patrizi di quelle città, per quanto in questo caso i rispettivi rapportidi forza fossero appunto sostanzialmente capovolti.

L’approccio di Berengo rimaneva dunque fondamentalmente com-parativo; ma il suo obiettivo non era tanto quello di costruire tipi o mo-delli ricorrenti, cercando analogie e affinità fra i suoi casi di studio, quantoquello di ampliare lo spettro dei confronti possibili per far risaltarel’estrema variabilità delle situazioni specifiche, contestando l’uso di cate-gorie astratte, e nella fattispecie invitando a riconsiderare i concetti di«aristocratizzazione» e «rifeudalizzazione», allora in gran voga78. Nono-stante (o forse proprio per) la loro fortuna – scriveva Berengo – questiultimi finivano spesso per rimanere superficiali, e «nel constatare la chiu-sura di classe dei gruppi dirigenti, e il monopolio ereditario del potereche essi si ven[ivano] assicurando» capitava spesso di provare «un sensodi astrattezza»:

sulle famiglie nobili, sulle loro tradizioni, la loro cultura, il loro patrimonioe infine sulla natura stessa del loro peso nella vita pubblica, sappiamo an-cora poco (più o meno quanto genealogisti e eruditi sei e settecenteschi ciavevano già detto)79.

La documentazione censuaria raccolta e spogliata da Borelli fornivaappunto una ricchissima messe di notizie fattuali che consentivano di veri-ficare l’effettiva pregnanza delle categorie consolidate, nonché di sondarela possibilità di introdurne di nuove, capaci di rispecchiare in modo piùpreciso e articolato le variegate sfumature dell’universo sociale di antico re-gime. Con un’avvertenza preliminare, però: e cioè che le fonti fiscali – su cui

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si fondava sostanzialmente il libro di Borelli – risultavano non del tutto af-fidabili e in fondo povere di informazioni ove non fossero affiancate ad altridocumenti capaci di integrarne e in parte correggerne i dati. Di qui, nellarecensione di Berengo, l’intreccio sapiente delle polizze d’estimo con trat-tati nobiliari, genealogie familiari e documenti privati (carteggi, libri con-tabili, contratti, istruzioni per i coloni…), mirando ancora una volta – comegià aveva fatto a Lucca – a superare ogni artificioso steccato disciplinarefra la storia della cultura e quella sociale ed economica, al fine di ricostruireun quadro a tutto tondo di un ceto dirigente cittadino colto in un periododi grandi trasformazioni, in questo caso il tramonto dell’antico regime e iltrapasso all’età della Restaurazione. È proprio l’ampio ventaglio delle fontiutilizzate da Berengo a far emergere un’immagine straordinariamente sfac-cettata delle basi economiche, materiali, del potere nobiliare in città e so-prattutto nelle campagne: spiccatamente agricola, infatti, e non priva di unacerta qual impronta feudale (posto il ruolo tutt’altro che simbolico che vigiocavano ancora in pieno Settecento le rendite signorili), era la fisionomiadei patrimoni presi in considerazione da Borelli e poi dal suo recensore. Suquesta solida base si innestavano poi tutta una serie di cespiti e capitali dientità variabile, ma a volte molto cospicua, a partire dal «palazzo di città»,che con la terra avita costituiva «non solo l’investimento economicamentepiù ovvio e sicuro, ma anche l’indispensabile corredo al decoro della fami-glia nobile e alla sua stessa permanenza nella vita pubblica»80. Un’altra im-portante fonte di reddito, per la nobiltà locale, era poi il mercato creditiziocittadino: per quanto nella maggior parte dei casi ci sfugga la reale consi-stenza del relativo giro d’affari, stante l’ambiguità delle fonti in proposito,il dato è comunuqe significativo, perché attesta una certa intraprendenza dicarattere speculativo da parte di alcuni casati e/o individui. Sono tutti tas-selli che ci permettono di misurare la portata della «presa egemonica» chela nobiltà veronese esercitava in città, e che andava ben al di là della «larvadi potere pubblico» che i consigli municipali erano stati lasciati a recitarealla fine del Settecento: piuttosto, un fattore che con il tempo avrebbe ac-quisito sempre maggior rilevanza era la notevole vivacità economica di ca-rattere quasi imprenditoriale messa in mostra dagli esponenti più attivi delceto dirigente locale.

In effetti, in un quadro generalmente contrassegnato da forti elementidi tradizionalismo – il carattere fondamentalmente agricolo degli investi-

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menti nobiliari, la sopravvivenza di consuetudini signorili nel contado,l’orientamento sostanzialmente conservatore di buona parte dell’aristo-crazia – a Verona la nobiltà cittadina appare tutt’altro che chiusa alle no-vità e aliena da sperimentazioni anche spregiudicate sul piano economico:tali in particolare la bonifica delle Valli, l’impianto di risaie a vicenda e inmarcita, l’apertura di strade nei Monti Lessini, e ancora l’introduzione diinedite tipologie contrattuali a definire i nuovi rapporti fra proprietari e co-loni… tutte innovazioni per altro animatamente discusse in seno alla localeaccademia d’agraria, istituita nel 1768, una delle più vivaci di tutta la Ter-raferma. Attraverso i documenti passati in rassegna da Berengo vediamocosì scorrere sotto i nostri occhi e a poco a poco mutare tutto il paesaggioagrario della pianura irrigua (e in parte della zona collinare), dove l’affit-tanza cede progressivamente il passo alla conduzione in economia, i fitta-voli si trasformano in braccianti e in sintesi nel giro di pochi anni si schiudela via all’avvento della grande azienda capitalistica e alla progressiva in-dustrializzazione delle campagne.

È appunto questa notevole modernità di prospettive economiche, fon-data su un’ottima preparazione agronomica, che permette di render contodi un apparente paradosso: e cioè il fatto che la nobiltà veronese, arroccatosu posizioni di marca decisamente reazionaria sul piano sociale, dal puntodi vista politico avesse invece profondamente introiettato il verbo del pa-triottismo liberale, tanto da dare i natali a una schiera di martiri e patriotipronti a immolarsi sull’altare della causa anti-austriaca nei primi decennidell’Ottocento. In tal modo, risalendo dalle polizze d’estimo alla compo-sizione dei patrimoni nobiliari, e da questi alle logiche economiche e ai va-lori ideologico-culturali che animavano l’aristocrazia cittadina, Berengoriesce a tratteggiare un ritratto di singolare vivacità dei ceti dirigenti vero-nesi al tramonto dell’antico regime, raccordandone le vicende al contestocomplessivo della storia d’Italia nell’età della Restaurazione.

La recensione al libro di Borelli, poi ripubblicata nel 1978 in una for-tunata antologia curata da Elena Fasano Guarini, ha dato luogo a un im-portante dibattito sui caratteri dell’aristocrazia veronese e più in generalesull’effettiva rispondenza dei distinguo berenghiani al panorama italiano81.E non è mancato chi si è proposto di confutarne gli assunti di fondo, sot-tolineando le origini in realtà mercantili – assai più che signorili – di moltedi quelle famiglie nobili che poi alla fine del Settecento si sarebbero dedi-

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cate prevalentemente alla cura delle proprie terre82. Alla luce di questaobiezione, il caso veronese dimostrerebbe proprio il contrario di quelloche Berengo sosteneva: nella Penisola, o per lo meno sulle rive dell’Adige,patriziato e nobiltà non sarebbero state due categorie contrapposte, bensìle due facce di una medesima, confusa, realtà. Senza ora entrare nel me-rito delle diverse interpretazioni della fisionomia specifica dell’aristocraziaveronese, va detto che l’impostazione generale data al problema e il me-todo proposto nella recensione del 1975 non sembrano avere minima-mente perso smalto a trent’anni di distanza; e lo stesso Berengo dovevaavvertire come cruciali le questioni sollevate allora, tanto da tornarci su apiù riprese. Già nell’Intervista sulla città medievale a Roberto S. Lopez ladistinzione fra i due concetti di patriziato (urbano) e nobiltà (titolata, ten-denzialmente rurale) costituiva uno dei nodi su cui la discussione – e ledivergenze – fra i due storici si facevano particolarmente accese: Lopez sene dichiarava poco convinto e citava come auctoritas Lucien Febvre; Be-rengo riproponeva «ostinatamente» le proprie tesi sulla scorta del «me-morabile dibattito» fra Georges Espinas e l’abate Lestocquoy83.

Di lì a pochi anni, Berengo avrebbe trovato nell’epistolario foscolianoun’ulteriore freccia da aggiungere al proprio arco (Claudio Donati ricor-dava ancora recentemente «l’entusiasmo contagioso» con cui Berengo neparlava agli amici84): ovvero una lettera inviata da Ugo Foscolo a GiovanBattista Giovio nel 1808, in cui il poeta dei Sepolcri rielaborava il temadelle proprie origini contrapponendo da un lato l’immagine in buona partemitizzata del patriziato veneziano, classe di governo industriosa e intra-prendente; e dall’altro un ritratto sprezzante della nobiltà titolata, fonda-mentalmente cortigiana e parassitaria:

Quantunque da più e più anni la mia famiglia non abbia di nobile e di pa-trizio che il nudo nome, io stimo i patrizi e disprezzo i nobili. Ed è per me veropatrizio d’una città chi ha terre da far fruttare, sepolcri domestici da vene-rare, lari da difendere ed antenati da imitare, i quali, per lungo ordine d’anni,abbiano o arricchita la loro patria con l’industria, o celebrata con le virtù e conl’ingegno, o protetta col sangue. Ma i titoli, i feudi e gli stemmi che ogni Prin-cipe può dare e può tôrre, e che ogni soldato straniero o mercatante fortunato,o letterato cortigiano può assumere ne’ paesi conquistati o usurpati, e chepuò tramandare a’ suoi nepoti, sono a’ miei sguardi ricami sopra sucida tela85.

La lettera a Giovio offriva a Berengo una conferma inaspettata (e tanto

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più rilevante in quanto assai tarda) che la distinzione avanzata qualcheanno prima nel saggio sulla nobiltà veronese – pur non essendo entrata afar parte a pieno titolo della cultura politica italiana di antico regime – rin-viasse comunque a una serie di ‘sfumature’ reali, consapevoli, non prive indeterminati periodi di riscontri anche concreti, avvertiti così profonda-mente per lo meno in certi ambienti da proiettare la propria ombra sinoall’età della Restaurazione. Al tempo stesso, la figura di Foscolo gli con-sentiva di dimostrare ancora una volta tutte le potenzialità di un approc-cio storiografico capace di intrecciare le grandi questioni della storiapolitica e sociale con i principali filoni della storia della cultura, accettandodi misurarsi – nella fattispecie – con uno dei caposaldi della letteratura ita-liana: Le ultime lettere di Iacopo Ortis, di cui Berengo poneva a confrontole varie versioni con grande finezza, mettendone in luce i risvolti ideolo-gici e rapportando questi ultimi al progressivo maturare del pensiero po-litico-civile foscoliano86.

Sul binomio patriziato/nobiltà Berengo sarebbe poi ulteriormente tor-nato in seguito, contribuendo a una miscellanea di studi in onore di Pa-squale Villani (Ancora su patriziato e nobiltà, 199487). A vent’anni didistanza dalla recensione del libro di Borelli, Berengo non stentava a ri-conoscere che alcune delle ipotesi da lui proposte a suo tempo – e in par-ticolare quella del profilo nobiliare-cavalleresco del nucleo più compattoe antico dell’oligarchia veronese – erano state sostanzialmente confutatedal progresso degli studi (in buona parte stimolati proprio da quei suoiprimi spunti di ricerca). Ciò non gli impediva però di ribadire con forza la«fecondità storiografica» di quel distinguo già caro a Foscolo, ripercor-rendone la genesi nella Germania del Seicento sul filo delle pagine dedi-cate all’argomento in quel «volume sulla città in via di lenta e incertagestazione» cui stava stava lavorando da tempo, e che avrebbe finalmentevisto la luce cinque anni dopo. Qui l’impianto non cambia, rispetto agliscritti precedenti: quel che è nuovo, semmai, è l’orizzonte del discorso, di-latatosi ormai su una scala decisamente europea, in cui il caso italiano sitrova ridimensionato a uno dei tanti fattori in gioco in una comparazioneche procede senza soluzioni di continuità dalla Bretagna al Brandeburgo,dall’Andalusia al Mare del Nord.

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6. Il tema dei rapporti fra città e contadoPer intendere la vera natura di un ceto dirigente e le radici profonde

delle sue connotazioni identitarie non possiamo quindi circoscrivere l’at-tenzione all’arena cittadina, ma dobbiamo lanciare lo sguardo anche al dilà delle mura, a considerare la consistenza dei rapporti economici che dalleporte della città si irradiavano nelle campagne: ossia la principale fonte diproventi, potere, prestigio per gran parte delle élites urbane europee diantico regime. Ritroviamo qui l’altro grande indirizzo di ricerca impostatoda Berengo sin dalla relazione di Sorrento, e poi oggetto in particolare ditre lavori usciti nella prima metà degli anni ’80. Nel primo di essi – Cittàitaliana e città europea (1982) – le ragioni del peculiare radicamento del fe-nomeno urbano nel nostro paese (o meglio nell’Italia centro-settentrio-nale, dato che da questo punto di vista la Savoia e il Regno meridionaleconobbero vicende del tutto peculiari) sono ricondotte essenzialmente alladuratura impronta dell’eredità comunale, mai davvero cancellata neppurenei secoli della dominazione straniera, quando «le antiche città-repubblica[avevano] mutato volto, istituzioni, forme di vita», ma continuavano a es-sere «le capitali indiscusse dei loro territori»88.

In effetti, a differenza che nel resto d’Europa (salvo che per certi versiin Svizzera, ma con una forte differenza di scala), dal Tevere alle Alpi lecittà mantennero sempre, anche quando non potevano più dirsi sovrane,un ruolo privilegiato e predominante sul territorio che gravitava intorno aloro: si concepivano insomma come altrettante città-stato, o meglio an-cora – per citare Sismondi e Cattaneo – come altrettante ‘città-Repub-blica’. Su questa antica aspirazione di dominio coltivata dalla città italianaper gran parte della sua storia si innestavano una serie di fattori, se non deltutto eccezionali, certo peculiari nel panorama europeo, e in primo luogoappunto il rapporto strettissimo che ogni città italiana intratteneva con ilproprio contado: ovvero quel distretto rurale – a volte molto esteso – chesi era andato aggregando intorno al capoluogo urbano già in età comu-nale, mantenendo spesso inalterati i suoi confini nei secoli successivi e an-dando poi a coincidere con un dipartimento napoleonico e, dopo il 1860,con una provincia dello stato unitario. È una dimensione, questa, che nontrova equivalenti al di là delle Alpi, e non solo da un punto di vista quan-titativo (i contadi italiani sono mediamente molto più estesi che in qualsiasialtro paese europeo), ma anche e soprattutto sul piano qualitativo: in Ita-

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lia le città esercitavano infatti sul proprio distretto un potere capillare, chesi manifestava sul piano fiscale come su quello corporativo, sul piano eco-nomico come su quello sociale, fondandosi in ultima istanza su una con-quista militare o una dedizione più o meno spontanea la cui memoria siperdeva nella notte dei tempi. Completamente diverso il panorama offertodalle città imperiali tedesche (pur per altri versi assai affini alle repubbli-che cittadine italiane), che «non riuscirono mai a circondare le propriemura con una così larga e compatta cinta rurale»89. Nella stessa Strasburgo,capoluogo di uno dei distretti rurali più estesi d’Europa, il controllo delterritorio da parte delle élites cittadine non si fondava sul diritto di guerra,bensì su una secolare politica di acquisizione fondiaria messa in atto dasoggetti pubblici e privati: e i rapporti di forza che ne derivavano – in ter-mini materiali, giuridici, culturali – erano totalmente diversi da quelli chesi erano andati sedimentando nella Penisola90.

Era proprio questa tradizione di predominio urbano sulle campagneche sorreggeva e legittimava la cultura nobiliare dei patriziati italiani, cosìdistante dalle tradizioni diffuse per esempio in Germania (ma anche in In-ghilterra, o in buona parte della Francia), dove la nobiltà non perdette maile sue connotazioni spiccatamente extraurbane. Per altri versi, non menoinassimilabile al panorama italiano era la realtà castigliana, in cui – speciedopo la sconfitta dei comuneros – di patriziati in senso stretto non ce n’eraneppure l’ombra, e viceversa in città abitava un’alta percentuale di conta-dini urbanizzati (fenomeno del tutto inesistente a sud delle Alpi). Ancorauna volta, insomma, la via prediletta da Berengo era quella della storiacomparata: la quale «ha i suoi rischi; ma è anche un’inesaurbile consiglieraper chi si trova spesso a interrogare fragili e discontinue testimonianze do-cumentarie»91.

Nel saggio su Città e contado in Italia dal XV al XVIII secolo (1985)Berengo tornava sui medesimi temi, approfondendo e articolando il di-scorso sulla sovranità territoriale delle città dell’Italia centro-settentrio-nale, di cui passava in rassegna i fattori più salienti, in parte già incontrati:dall’organizzazione annonaria al regime monopolistico che le corpora-zioni urbane imponevano alle attività manifatturiere in campagna, dalladislocazione delle istituzioni scolastiche all’assetto giurisdizionale del ter-ritorio, riserva di cariche per i patrizi cittadini secondo una logica cheanche la Rivoluzione francese avrebbe faticato a scalfire92. E poi, forse so-

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prattutto, la gestione del prelievo fiscale, fondato su una congenita e cre-scente sperequazione fra l’estimo cittadino e quello rurale (distinti inbase alla residenza dei proprietari, e non alla dislocazione dei rispettivipossessi fondiari): una forbice, questa, che nel corso dell’età moderna co-stituì uno dei principali vettori dell’indebitamento sempre più gravosoda parte delle comunità rurali nei confronti dei capitali cittadini, por-tando infine a una vera e propria ‘proletarizzazione’ del contado.

Questo modello di matrice tutta comunale, ribadiva Berengo sullascorta di Anzilotti e prima ancora di Cattaneo, entrò davvero in crisi solonel Settecento, sotto la spinta riformistica dei sovrani illuminati93. Da que-sto punto di vista, particolare importanza ebbero la soppressione del re-gime corporativo (non a caso, fu solo con la crisi di quest’ultimo che inmolte città italiane si posero le basi per la progressiva industrializzazionedella cintura dei borghi) e l’istituzione dei primi catasti particellari, cheaffermavano il principio della tassazione in base alla collocazione dell’im-mobile, minando alla base i fondamenti della fiscalità di antico regime.Furono questi i principali snodi istituzionali che resero possibile la gra-duale crescita economica del contado – ma anche un incipiente ricambioai vertici della società tardo-settecentesca – che non mancarono di riflet-tersi pure nel campo culturale: perché se è vero che sino all’età napoleo-nica scuole e stamperie restarono sempre un fenomeno essenzialmenteurbano, va detto però che nel corso del Settecento si registrano innume-revoli indizi di un sensibile allargamento dei circuiti di produzione e frui-zione della cultura scritta nel contado (lo indicano per esempio i cataloghidi biblioteche sparse nei centri minori, la ragnatela disegnata dalle reti epi-stolari delle corrispondenze erudite, o ancora la diffusione extra-cittadinadi giornali, gazzette e testi di agronomia).

7. Il tema dei rapporti fra città e statoIl tema dell’insopprimibile vocazione sovrana della città italiana di

antico regime come tratto distintivo e differenziale rispetto alle tradizionidiffuse in qualsiasi altro paese europeo torna in filigrana nel saggio su Lacapitale di Antico regime (1985)94. In tutti gli stati dell’Europa – scrivevainfatti Berengo – il corso dell’età moderna fu segnato dall’ascesa di unagrande capitale nazionale. Un fenomeno ricorrente, e che conobbeun’unica, cospicua, eccezione: quella del nostro paese, dove l’unificazione

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del territorio non ebbe mai come protagonista una dinastia monarchica(salvo nel Regno di Napoli e, dopo Cateau-Cambrésis, nel ducato di Sa-voia), ma appunto le città-repubbliche di ascendenza comunale.

Dal Tevere alle Alpi, l’Italia di antico regime non era terra di capitali,bensì di dominanti: città, cioè, che avevano aggregato intorno a sé un do-minio territoriale più o meno vasto, ma senza mai cancellarne del tuttol’ordinamento originariamente composito, e senza mai rompere davverol’orizzonte essenzialmente municipale dei vecchi equilibri politico-sociali95.Radicalmente diversa le fenomenologia delle grandi capitali dinastiche, dicui possiamo trovare innumerevoli esempi al di là delle Alpi, dove

la forza unificatrice muoveva da istanze diverse da quelle che avevano sospintoun comune cittadino verso la formazione di un suo contado, e poi alla con-quista delle città-stato contermini e rivali: ma soprattutto diverso rimase per se-coli, o addirittura si pose come definitivo, l’esito cui i due processi davan capo.

È vero, anche «lo stato monarchico generava una struttura centraledestinata, presto o tardi, a trovare un suo cardine urbano»; ma – contra-riamente a quel che accadde nella Penisola – la crescita della capitale nonfu mai in grado di conferire, di per sé sola, un volto cittadino alla Corona:«lo stato repubblicano si rivelava geneticamente diverso da quello mo-narchico; la città-stato, per quanto fosse riuscita ad ampliare l’ambito deisuoi domini, seguiva un ritmo di vita diverso da quella nata signorile o pre-sto divenuta tale. E solo nella seconda, non nella prima, si tendeva a rico-noscere una capitale»96. Ecco, in sintesi, uno dei fattori macroscopici cheresero la storia di Venezia, Genova o anche Firenze e Milano, così diversada quella di Madrid, Londra o Parigi: sui due versanti delle Alpi i rapportiche legavano reciprocamente l’autorità sovrana, il territorio soggetto e il ca-poluogo urbano in cui avevano sede le magistrature centrali dello statodavano adito a costellazioni di rapporti del tutto disparate fra loro.

In definitiva, quello di ‘capitale’ si rivela essere un concetto «poco ade-guato» a render conto dell’estrema varietà dei casi possibili sulla scena eu-ropea per lo meno sino alla Rivoluzione francese: in particolare, ove nonsi riferisca a una città che si trovava alla testa di una monarchia nazionale,per essere usato con una certa pregnanza esso richiede una serie di «deli-mitazioni e specificazioni» preliminari. Per esempio, sarebbe opportunodistinguere accuratamente la categoria di ‘capitale’ non solo da quella di‘dominante’, così diffusa in Italia, ma anche da quella di ‘città residenza’

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(Residenzstadt): ossia la città che si trovava a capo di un territorio non inquanto sede stabile e continuativa della burocrazia centrale dello stato, in-dipendentemente dal variare delle vicende dinastiche, bensì unicamenteperché eletta dal sovrano a luogo di abitazione cortigiana (condizione, que-sta, per definizione transitoria per buona parte della storia medievale emoderna). Emblematica da questo punto di vista l’area tedesca: qui al-meno sino alla fine della guerra dei trent’Anni di capitali a propriamenteparlare non se ne incontrano (con l’eccezione di Vienna), perché la «per-durante frantumazione dello stato» e l’estrema mobilità delle dinastie lo-cali si traducevano in una «debole o del tutto inesistente vita politica dellecittà signorili»97.

Il «rapporto città-signore» da un lato, le «istituzioni e la struttura am-ministrativa dello stato» dall’altro diventano così due preziose chiavi dilettura per cogliere il ruolo di volta in volta diverso giocato dalla città ca-pitale nei vari stati europei: in certi casi fulcro del potere regio, in altriacerrima antagonista di quest’ultimo; sempre e comunque, però, baricen-tro di una crescita demografica e urbana destinata a farsi vieppiù inarre-stabile dal Settecento in poi, ma che già nei secoli precedenti aveva postoai poteri sovrani di tutta Europa una serie di problemi politici e annonari,economici e sociali, tali da metterne a dura prova le capacità di governo.

Diciotto anni dopo il primo intervento di Perugia, lo spettro dei casipresi in considerazione da Berengo si era decisamente arricchito, e questoprogressivo sconfinamento gli aveva senza dubbio consentito di affinare leproprie categorie: lo stesso concetto di ‘dominante’, considerato nevralgiconel saggio del 1985, in realtà non era stato messo a fuoco che pochi anniaddietro, e ancora negli scritti usciti nei primi anni ’80 non se ne faceva pa-rola98. Tuttavia, il fulcro delle riflessioni berenghiane – l’«endiadi città-li-bertà» che scandisce sottotraccia tutti i testi appena rievocati e la questionedella duratura eredità civile dell’esperienza comunale – non sembra esseremolto mutato nell’arco di un ventennio. Se ne ha una riprova nell’ultimoarticolo qui ripubblicato, ossia l’intervento alla tavola rotonda conclusivadel convegno di Chicago su Le origini dello Stato moderno (1994), in cuiil vecchio maestro tornava a ribadire – in esplicita polemica con tutta unatradizione di studi sulla formazione dello stato moderno che si richiamavapiù o meno legittimamente alla lezione di Chabod – la propria interpreta-zione dei primi secoli dell’età moderna come «fase di lunga e profonda

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decadenza»99. E non tanto da un punto di vista economico, sociale o de-mografico, quanto appunto essenzialmente sul piano politico, avendo cioècome principale parametro di riferimento la partecipazione più o menoampia dei cittadini alla vita pubblica, identificata come tratto distintivodelle città comunali del basso medioevo e in seguito prima «vittima sacri-ficale» dei processi di accentramento statale tipici dell’età moderna:

Non si tratta di negare i limiti impliciti al sistema del «governo largo» ela sua forte inclinazione a schiudere il varco verso soluzioni oligarchicheprima, signorili poi; ma sino a quando esso è riu scito a conservarsi, ha assi-curato la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica in una misura cosìlarga e continuata quale è impossibile riscon trare altrove100.

Sotto i colpi inferti dai sovrani nella prima età moderna questo «pa-trimonio civile» fu «intenzionalmente disperso» nel corso del Cinque-cento; e quando due secoli dopo «le riforme illuminate si sforzeranno diimprimere un volto più moderno alla società italiana, non ne rimarrà piùtraccia, ma solo un lontano ricordo». I danni si sarebbero fatti sentire benoltre l’età napoleonica: «due secoli di totale assenteismo politico avevanoatrofizzato quasi tutti gli strati della società italiana e, in modo più dure-vole, quelli che non beneficiavano di una cultura d’élite». Non sono citatiGramsci o Gobetti (pur ben presenti a Berengo101), ma viene esplicita-mente criticata la tendenza a impoverire il pensiero di Cattaneo riducen-dolo a un «semplice federalismo regio nale»: al contrario, «lo stato cui egliguarda respira libertà e partecipazione civile da tutti i suoi pori» – quellastessa «consapevolezza politica», quella «circolazione dei succhi vitali»,che costituivano la «vera forza di un popolo» e che in Italia coinciserosempre con la presenza di vivaci autonomie cittadine102.

8. Storia dell’urbanistica e Urban HistoryA questo punto, c’è un dato che non si può fare a meno di rilevare:

mentre Marino Berengo veniva enucleando gli assi portanti delle ricerchepoi sfociate ne L’Europa delle città, nel nostro paese si stava sedimentandoun ampio schieramento d’interesse nei confronti della storia urbana intesacome ambito di studi specifico e riconoscibile; ma fra chi a vario titolo nefaceva parte e lo storico veneziano le divergenze non potevano essere piùmarcate. Non era un dato scontato, all’inizio: quando, nel 1973, AlbertoCaracciolo e Pasquale Villani in qualità di direttori della rivista «Quaderni

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Storici» organizzarono a Sorrento il convegno su La formazione della cittàindustriale proponendosi di «favorire l’incontro tra cultori di diverse di-scipline interessate allo studio della città», uno dei primi a essere invitatoa parlare fu proprio Berengo103. A confrontare la sua relazione con quelledegli altri partecipanti al convegno, tuttavia, la diversità dei rispettivi puntidi riferimento sono assolutamente appariscenti: se la maggior parte dei re-latori si richiamava alla lezione di Harold Dyos e della sua scuola, lui ci-tava Pirenne e Luzzatto polemizzando con Braudel; se i suoi interlocutorisi rifacevano alla nuova urban history inglese e americana, lui rispondevariproponendo il «memorabile profilo» dedicato da Fritz Rörig alla cittàmedievale europea nel 1932, o tutt’al più gli studi dell’abate Lestocquoy104.E la distonia, per non dire estraneità, fra l’uno e gli altri doveva essere pa-tente se nell’introduzione agli atti lo stesso Caracciolo – pur riconoscendoil rilievo dell’«ampio saggio di Marino Berengo sulla topografia dell’orga-nizzazione cittadina» – finiva di fatto per ridimensionarne l’originalità neldefinirlo caratterizzato da «un taglio, un discorso, un appoggio bibliogra-fico che potremmo dire “classici”»105. Era un giudizio sostanzialmente li-mitativo; ed è significativo che per stemperarlo Caracciolo non trovassedi meglio che sottolineare l’attenzione manifestata da Berengo per «lo stu-dio della demografia e della forma urbana»: aspetti che venivano sì citaticome degni di considerazione nel saggio del 1973, ma che chiaramentenon furono mai in cima agli interessi del suo autore106.

Non che mancassero punti di tangenza fra Berengo da una parte e gliorganizzatori del convegno di Sorrento dall’altra (i quali già vent’anniprima, si ricorderà, avevano avuto modo di confrontarsi all’ombra di Can-timori, sulle pagine di «Movimento Operaio»): tali, per esempio, eranocerto la predilezione manifestata per una prospettiva di carattere compa-rativo o l’insofferenza di fronte all’angustia delle partizioni disciplinari dimatrice accademica107; oppure ancora l’idea di «rompere l’isolamento, avolte orgogliosamente splendido a volte ingenuamente inconsapevole, incui talvolta si svolge la ricerca storica in Italia», avvertita – pur con decli-nazioni assai diverse – sia dall’uno che dagli altri108. Per Berengo, però, losi è visto, queste opzioni significavano in primo luogo intrecciare un dialogoserrato con i grandi maestri delle generazioni precedenti, da Sismondi aLopez; viceversa Caracciolo (che nel 1976 sarebbe divenuto corrispondentedello «Urban History Yearbook» di Dyos) guardava in tutt’altra direzione,

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mirando ad avere come interlocutori privilegiati «gli urbanisti, ma anche idemografi, i sociologi ed anche gli storici dell’arte e dell’economia, i geo-grafi ed altri ancora»109. Emblematica, a questo proposito, la polemica cheentrambi conducevano contro l’enfasi a loro dire eccessiva attribuita nellamodernistica del tempo alla dimensione statuale: ma dove Berengo sentivala necessità di tornare a Cattaneo, a partire dall’idea della lunga vitalità po-litica delle autonomie locali, Caracciolo si proponeva invece di dare piùpeso alla «storia del territorio», in nome di un confronto a tutto campo conle discipline che avevano messo lo spazio al centro dei loro interessi (ossiain primo luogo la geografia umana, l’antropologia e l’urbanistica)110.

A due anni di distanza, il dibattito avviato dal gruppo di «QuaderniStorici» nel 1973 avrebbe avuto modo di essere ripreso a Lucca, in occa-sione del già citato Primo convegno internazionale di storia urbanistica pro-mosso da Piero Pierotti con l’obiettivo dichiarato di superare i limiti diuna «settorialità ostinata e spesso sterile», facendo incontrare e dialogarefra loro specialisti di diversi ambiti culturali e geografici, così da creareuna «base interdisciplinare» comune per la storia della città111. La rispo-sta all’appello fu straordinariamente ampia e variegata, e gli atti del con-vegno testimoniano della vivacità di un confronto che vide comeprotagonisti non solo una serie di oratori italiani e stranieri di grande pre-stigio – fra gli altri Dyos e Roncayolo, Piccinato e Schmiedt, Gina Fasoli,David Herlihy, Wolfgang Braunfels… –, ma anche una folta schiera di udi-tori che parteciparono attivamente al dibattito e fra cui incontriamo di-versi nomi che avrebbero contribuito in maniera decisiva agli studi di storiaurbana nel trentennio successivo, sia sul versante storico (Giorgio Chitto-lini), sia su quello storico-architettonico (Cesare de Seta, Vittorio Fran-chetti Pardo, Ennio Poleggi e Vera Comoli).

Presente a Sorrento, a Lucca Berengo non c’è, né viene praticamentecitato (salvo en passant, per la sua collaborazione al libro di Zevi112): e ildato non può certo stupire, se in uno degli interventi cardinali del conve-gno Piero Pierotti liquidava in poche parole la «storiografia di ispirazioneetico-politica […], pur legata a temi di tutto rispetto come quelli delle li-bertà individuali o collettive o delle lotte di religione», in quanto pococompatibile con una prospettiva d’analisi di matrice marxista113. Che il ri-ferimento fosse diretto proprio a Berengo o meno, il divorzio non avrebbepotuto essere più esplicito, e non si trattava solo di un divorzio personale:

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dagli atti del convegno emerge infatti la relativa difficoltà con cui gli sto-rici riuscivano a inserirsi in un dibattito nato e cresciuto in ambiti da lorotradizionalmente non frequentati. Fra tutti, erano soprattutto i moderni-sti a recitare la parte del convitato di pietra (nonostante la presenza di Ca-racciolo, che tuttavia qui a Lucca pare aver avuto un ruolo nettamentedefilato114): molto più dei medievisti, di cui Gina Fasoli rivendicava con or-goglio l’antica e illustre tradizione di studi sulla città del medioevo115; moltopiù dei contemporaneisti, per cui le conseguenze urbane dell’industrializ-zazione otto-novecentesca costituivano da tempo un filone di studi am-piamente riconosciuto; molto più degli storici economici, cherappresentavano un interlocutore privilegiato per qualsiasi studioso diorientamento ‘materialista’, come a quel tempo in molti si professavano116.

Questa latitanza si fa ancora più esplicita a scorrere le prime annatedella rivista «Storia Urbana», nata nel 1977 per iniziativa di alcuni urba-nisti che ruotavano intorno al Laboratorio di Analisi Urbana dello IUAV,mossi principalmente – scrivevano nell’editoriale di apertura – da un forteinteresse per «le trasformazioni urbane e territoriali verificatesi a seguitodel processo di industrializzazione», in un arco di tempo che spaziava«dagli anni attorno all’unificazione nazionale sino ai giorni nostri»117. Laprospettiva, attenta prevalentemente agli «aspetti fisico-insediativi ed eco-nomico-sociali», dettava l’inventario dei temi principali che avrebbero tro-vato ospitalità nella rivista: «piani urbanistici ed edilizi, trasformazioninell’uso dei suoli urbani, processi di localizzazione di attività nel contestodella città, crescita demografica, politiche delle amministrazioni locali, rap-porti fra città e campagne, fenomeni migratori». Ne usciva condizionatoanche l’elenco degli interlocutori di cui la rivista intendeva ospitare le«nuove metodologie»: ossia chiunque si proponesse di «comprendere cri-ticamente i fenomeni del mondo contemporaneo» e di analizzarne i pro-cessi di sviluppo con gli strumenti propri della «geografia umana,dell’economia, della demografia, dell’urbanistica, della sociologia urbanae rurale»118. Indicativamente assente, da questa lista, la storia; e non tantoperché si avesse una qualche forma di preclusione verso la disciplina in sée per sé (rappresentata nel comitato scientifico della rivista dalle personedi Caracciolo, Franco Della Peruta e Ercole Sori), quanto evidentementeperché la si identificava con una pratica di ricerca allora scarsamente in-novativa, se non francamente di retrovia. Lo conferma fra l’altro la rasse-

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gna bibliografica pubblicata sempre nel primo numero di «Storia Urbana»,in cui troviamo citati lavori di architetti come Aymonino o Rossi, di geo-grafi come Gambi, di urbanisti come Dodi e Reggiori, ma in cui di operestoriche – salvo l’onnipresente Roma capitale di Caracciolo – non c’è nem-meno l’ombra119.

L’impressione, insomma, è che intorno alla metà degli anni ’70 stessematurando in Italia un’idea della ‘storia dell’urbanistica’ (come allora sidiceva) come campo disciplinare dai confini indubbiamente incerti, apertoai contributi più vari, ma animato soprattutto da un interesse prioritarioper i processi caratteristici del mondo industrializzato, e perciò legato daoggettivi rapporti di convergenza alle discipline contemporaneistiche ealle scienze sociali, di cui tendeva a mutuare lessici, metodi e prospettive.Non si trattava di un’impostazione solo italiana, del resto: in Inghilterra lostesso Dyos non sosteneva altro nel momento in cui distingueva netta-mente l’ambito della «urban history» in senso stretto – definita sostan-zialmente come lo studio dei processi di urbanizzazione – da quello chepoteva essere chiamato più genericamente lo «urban aspect of local hi-story»120. I cultori del primo genere di storia non potevano esimersi dalconsiderare «larger historical processes and explanations» che trascende-vano lo specifico locale, legati com’erano al «macrocosm of an urbanisingworld»; al contrario, gli studiosi di «local history» – basandosi per defini-zione sull’assunto che le vicende di una data comunità coincidessero conla storia del suo insediamento fisico – si condannavano a condurre ricer-che puramente idiografiche, dovendo accettare il fatto che «the basic unitof [their] study, the module for [their] discipline, is the locality»121. Maun approccio di questo tipo poteva applicarsi solo al mondo di antico re-gime, prima che i processi di urbanizzazione e di globalizzazione degli ul-timi due secoli producessero un paesaggio profondamente de-localizzatoquale quello contemporaneo. Ecco sancita, nelle parole di uno dei numitutelari della storia urbana degli anni ’70, una radicale contrapposizione frale tradizionali ricerche di local history, prevalentemente incentrate sullostudio di singole comunità di antico regime (urbane o meno che fossero);e le nuove prospettive della urban history, tesa originalmente a confrontarsicon le dinamiche di trasformazione tipiche del mondo contemporaneo.

In realtà, intervenendo su questi temi, Dyos non faceva che ripren-dere opinioni largamente diffuse in Europa (e prima ancora negli Stati

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Uniti); in Inghilterra, però, come in Francia o in Germania, a occuparsi dilocal come di urban history erano in gran parte storici di formazione, equesto faceva sì che la distinzione fra i due ambiti fosse tutto sommatosfumata, nella pratica, e che gli scambi fra l’uno e l’altro fossero frequenti.Si pensi per esempio al ruolo propulsore giocato in questo campo da Brau-del in Francia (dove non a caso un’opera come l’Histoire de la France Ur-baine ha potuto essere concepita come prodotto squisitamentestoriografico), o alle ricerche di molti dei componenti del gruppo di Lei-cester in Inghilterra122. Nel nostro paese, invece, contraddistinto come siè accennato da una relativa latitanza dei modernisti dal terreno degli studi‘urbanistici’, i due indirizzi individuati da Dyos sembrano delineare duesfere nettamente distinte e raramente intercomunicanti.

9. Storia come critica: l’eredità idealisticaNon che in quegli anni in Italia si registrasse una scarsa attenzione al

passato anche remoto dei centri storici, anzi. Ma quando si aveva a chefare con la dimensione di antico regime, gli schemi interpretativi a cui sitendeva fare riferimento erano completamente diversi da quelli appena ri-cordati: non troviamo più, in questo caso, appelli al «rinnovamento dellemetodologie» contro l’angustia dei vecchi settori disciplinari, bensì pro-fessioni di fede nei canoni tradizionali della storia dell’architettura, o piùpropriamente della critica d’arte. Come se occuparsi delle dinamiche di ur-banizzazione contemporanea obbligasse a fare i conti e in definitiva a re-cepire concetti e linguaggi d’uso corrente nelle scienze sociali; mentre perchi si dedicava allo studio dei centri antichi fossero lo stesso «valore arti-stico» e la «varia bellezza» dei propri argomenti di ricerca a precluderel’uso di categorie che non fossero di natura eminentemente estetica123.

Lo si teorizzava apertamente, del resto: così, fra gli altri, faceva CarloLudovico Ragghianti in un suo breve ma denso intervento del 1956, pro-ponendosi di distinguere concettualmente la sfera dell’«urbanistica» edella «pianificazione» (ossia rispettivamente «la realizzazione dei piani» e«il rilevamento di una situazione storica data al fine di operarne la tra-sformazione»: attività che di per sé non avevano niente a che fare conl’arte), da quelle specifiche e ben più rare «determinazioni urbanistiche»che si caratterizzavano invece, crocianamente, per manifestare impressio-nanti «segni di personalità» (così, per esempio, i progetti di Le Corbusier

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e Frank Lloyd Wright)124. La prima dimensione, di fatto sprovvista di qual-siasi implicazione «artistica», non era in alcun modo «assoggettabile a giu-dizio estetico»; la seconda, al contrario, era il risultato di un processoessenzialmente creativo, e di conseguenza non poteva essere compresa e in-terpretata che con gli strumenti tradizionali dell’«architettura», a cui «unamillenaria tradizione storica ha mantenuto il carattere di espressione arti-stica». Il distinguo serviva a Ragghianti per proporre un’articolazione dellecompetenze che era anche una gerarchia disciplinare: l’«urbanistica» e la«pianificazione» – che in fondo avevano come «primo oggetto» la società– potevano ben essere praticate da cultori di studi economici-sociologici(anzi, «un’urbanistica seria non è concepibile fuori di questi termini, cioèse non ha come premessa e fondamento un piano sociale-economico»);viceversa lo studio dei grandi piani urbanistici, inteso come analisi delle re-lative «forme artistiche» (in quanto espressioni di una ‘poetica’, dunque in-dividuali, inscindibilmente legate alla personalità di un ‘Autore’) andavachiaramente riservato agli storici dell’arte e dell’architettura, o per megliodire non era che una branca della loro disciplina.

Ragghianti non faceva qui che ricapitolare convinzioni radicate nel no-stro paese, e che ricordano da vicino – anche nell’uso dei termini – i prin-cipi formulati da Gustavo Giovannoni o Luigi Piccinato nelle loro famosevoci redatte per l’Enciclopedia Italiana (1937), e poi variamente ribaditi dalsecondo nel dopoguerra: «la sintesi espressa dal piano» – affermava peresempio Piccinato aprendo il I Convegno Nazionale di Urbanistica pro-mosso dall’INU nel 1951 – «appartiene più alla sfera dell’Arte (in sensovasto) che a quella della scienza», e in quanto tale era monopolio dell’ar-chitetto-urbanista, capace di «operare questa sintesi in termini di espres-sione (in senso estetico)»125. Il discorso porterebbe lontano, chiamando incausa quella concezione degli studi urbanistici come ramo minore, e percerti versi ancillare, dell’Architettura – disciplina regina in virtù appuntodel suo contenuto eminentemente artistico –, ampiamente diffusa in senoalla cultura accademica italiana dagli anni ’30 del Novecento in poi. È unfatto ben noto: per una serie di ragioni (i pregiudizi crociano-gentiliani con-tro le «scienze sperimentali», la posizione di prestigio acquisita dagli studistorico-artistici ai primi del secolo…) in Italia la grande ‘contesa’ sulla cittàcome oggetto di studio specialistico si risolse nel Ventennio con la piena vit-toria della neonata corporazione degli architetti126. In palio, però, non

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c’erano solo questioni corporative e professionali: quella che si è andata af-fermando nel nostro paese, all’ombra della formula dell’«architetto inte-grale», è stata una vera e propria egemonia culturale, che non ha investitosolo la pratica operativa e la critica militante, ma anche la ricerca storica.

Di qui gli assunti enunciati da Ragghianti nel suo testo, che per altro –notava Pierotti a vent’anni di distanza – non faceva che «fotografare unasituazione di fatto»: ancora nel secondo dopoguerra, gli studi sulla cittàstorica italiana continuavano a essere catalizzati da questioni prettamentemorfologiche, formali, mentre gli aspetti sociali ed economici, o i rapporticittà-territorio, rimanevano del tutto trascurati ai margini del discorso127.La città di cui si discettava allora era immancabilmente una ‘città d’autore’:un centro urbano plasmato dalla pianificazione attiva e consapevole di unarchitetto-urbanista – protagonista assoluto sulla scena della storia – chegrazie alla propria sensibilità artistica, e per mezzo degli strumenti tipici delsuo mestiere (il progetto, il piano), riusciva a interpretare con lungimiranza(spesso con preveggenza) lo spirito dei tempi. Si scorra la non abbondantebibliografia in materia: dal volume miscellaneo su L’urbanistica dall’anti-chità ad oggi (1943) ai primi manuali degli anni ’60 (il Sommario di Zocca,l’Atlante di Morini, per arrivare alle sintesi di Coppa e ancora di Sica), loschema concettuale che regge la narrazione è sempre il medesimo128. Sono«storie di monumenti e spazi costruiti, non spazi abitati», concatenati fraloro in base a una logica evolutiva di marca sostanzialmente teleologica:compito dello storico era essenzialmente quello di decifrarne l’intima coe-renza formale e di individuarne le peculiarità sintattiche e lessicali, sì da po-terne attribuire la paternità a questo o a quell’artista sovrano dei proprimezzi. In questo contesto le nozioni di architetto, autore, progetto, piano,assurgevano alla dimensione di categorie universali, passibili di essere usateper leggere qualsiasi processo storico, indipendentemente dalla scala e/odall’altezza cronologica dei fenomeni considerati; mentre l’appiattimentodel passato sul presente serviva a legittimare petizioni di principio e pro-poste progettuali tese a inserirsi incisivamente nel dibattito contempora-neo, secondo i precetti della critica operativa129. La grande fortuna riscossain quegli anni dal tema della ‘città ideale’ traeva alimento proprio all’in-terno di questo orizzonte culturale130.

Certo, con il ’68 qualche aria di rinnovamento sarebbe spirata anche inItalia: si pensi ai libri di Benevolo, o ai lavori dedicati da Cervellati e dal suo

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gruppo al centro storico di Bologna, che avrebbero segnato un oggettivorinnovamento di metodi e interrogativi storiografici131. Tuttavia, come rile-vava Pierotti ancora nel 1976, nel loro complesso le Facoltà d’Architettura– esemplate sul modello delle vecchie Accademie, poggiando su schemiculturali «assai più arretrati rispetto alle stesse dottrine idealistiche e stori-cistiche»132 – erano tutt’altro che inclini a recepire le novità. Lo stesso Pie-rotti, del resto, nel prendere le distanze dalla tradizione di cui si è detto, noncriticava tanto l’impostazione crociana di un Ragghianti o di uno Zevi, néera disposto a revocare in dubbio la nozione di ‘città d’autore’ che ne de-rivava per alcun motivo intrinseco che non fosse d’ordine «quantitativo»:

Il limite della ricerca sulla città d’autore non è qualitativo, ma quantita-tivo. Sul piano qualitativo, il Biagio Rossetti [riferimento d’obbligo al libro diZevi] è una di quelle opere che fanno scuola […], ma l’Addizione Erculea, nelsuo genere, è un unicum, o comunque sono assai pochi i casi in cui la fonda-zione o la rifondazione di una città sia riconducibile in maniera così strin-gente e alla «natura creativa di un autore»133.

Pur muovendo da radici culturali profondamente diverse, sostanzial-mente concorde su questo punto era anche l’approccio di Enrico Gui-doni, allievo di Argan, il quale con la sua rivista «Storia della Città»(1976-1993) si faceva propugnatore di una prospettiva di lettura essen-zialmente morfologico-formale degli spazi urbani, intesi come pure formedisincarnate, frutto più o meno consapevole di «poetiche» individuali ocollettive134. Ne discendeva un questionario del tutto distinto rispetto aquello evocato nei convegni di Sorrento e di Lucca: nessuna o scarsa at-tenzione per le dinamiche sociali e politiche, istituzionali ed economiche,nessuna curiosità interdisciplinare (anzi la tendenza ad assoggettare qual-siasi discorso al primato della ‘critica’), la città ridotta a una sorta di albumda disegno su cui gli architetti del passato inveravano ‘piani’ e progettidando libero corso alla propria creatività artistica. Lo studio storico si fa-ceva ermeneutica figurativa, iconografica, addirittura simbolica; quantoalle fonti, erano quelle cartografiche a fare la parte del leone, mentre aidocumenti scritti non era riservato altro ruolo che offrire riscontri estrin-seci a ipotesi che trovavano in se stesse il proprio fondamento135.

Certo, non sono mancate le critiche agli eccessi di questa imposta-zione: se già Piccinato a Lucca lamentava l’eccessivo formalismo degli studidi «storia dell’urbanistica» in Italia, era sin 1968 che Manfredo Tafuri

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aveva messo in guardia contro le derive ideologiche della prospettiva ope-rativa di cui Zevi, tanto per fare un esempio, si era fatto programmatica-mente campione136. Appelli autorevoli, a cui tuttavia non è semprecorrisposto un adeguato rinnovamento delle categorie interpretative: lostesso percorso seguito da Guidoni, con i suoi parossismi formalistici degliultimi anni, lo dimostra ad abundantiam137.

Da una parte dunque la storia della città come successione di forme,progetti, monumenti, attribuiti a singoli autori, monopolio degli storicidell’architettura con il loro armamentario critico, concettuale e metodo-logico, di matrice ancora fondamentalmente idealistica; dall’altra l’analisidei processi di urbanizzazione successivi alla rivoluzione industriale, in undialogo serrato con le scienze sociali, patrimonio di urbanisti e specialistidell’epoca contemporanea. Non si potrebbe certo ridurre la variegata pro-duzione storiografica degli anni ’70 a questi due unici estremi (per altronon esenti da reciproche contaminazioni): vero è però che a questi due fi-loni principali si potrebbero ricondurre la maggior parte dei lavori uscitiallora e, forse, non pochi di quelli che continuano a uscire ancora oggi.

10. Problemi apertiDa quei «magici anni Settanta»138 è ormai passato oltre un trentennio

– l’arco di una generazione – e il panorama complessivo della storiografiaitaliana sulla città si è enormemente arricchito: se nelle prime rassegne diBenevolo e Pierotti gli incunaboli di storia urbana si contavano sulle ditadi una mano, ormai la bibliografia degli scritti che ogni anno escono inquest’ambito potrebbe riempire gli scaffali di una biblioteca; dopo ilgrande successo delle prime collane laterziane degli anni ’70-’80 («Storiadell’Urbanistica», «Le città nella storia d’Italia»), altre le hanno seguite enel corso del tempo sono nate due nuove riviste specializzate («Storia del-l’Urbanistica» dal 1981, «Città e Storia» dal 2006). Nel 2001, in sintoniacon la European Association for Urban History e con analoghe consorellesorte in Francia, Germania e Grecia, si è formata l’Associazione Italiana diStoria Urbana, che nel giro di pochi anni è rapidamente cresciuta sino adannoverare circa 300 membri di varia estrazione disciplinare, organizzandofra l’altro una serie di convegni di ampio richiamo139.

Anche sul fronte accademico gli storici della città possono guardarsialle spalle con soddisfazione: dall’istituzione di un primo, isolato, corso

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universitario di ‘Storia dell’urbanistica’, nel 1969-1970 (affidato a MarioCoppa, a Venezia), e dalla successiva attivazione della prima cattedra conla medesima titolatura, nel 1975 (a Palermo, vinta da Enrico Guidoni) sem-bra davvero passata molta acqua sotto i ponti, se oggi la storia urbana nellesue varie declinazioni – ‘Storia della città e del territorio’, ‘Storia dell’ur-banistica’, ‘Storia delle strutture urbane e territoriali’… – costituisce ma-teria d’insegnamento in tutte le Facoltà di Architettura e in non pocheFacoltà di Lettere e Beni culturali. Recentemente, un paio di censimentihanno registrato fra la cinquantina e la settinatina di corsi, in alcuni casi ob-bligatori; la cifra, però, è decisamente inferiore al reale: proprio perchéprivi di una tradizione disciplinare in senso stretto, infatti, i cultori di sto-ria della città si trovano in pratica a insegnare uno spettro molto ampio dimaterie, di varia (e non sempre esplicitamente ‘urbanistica’) titolatura140.Proporzionalmente, anche la produzione manualistica non è solo cresciutain consistenza e qualità, ma soprattutto si è venuta impostando su basi ra-dicalmente diverse rispetto al passato: la storia urbana, nei testi più recenti,sembra essersi ormai sostanzialmente emancipata dalle sue sorelle mag-giori (l’urbanistica, la storia dell’architettura…), proponendosi come am-bito di studi – se non ancora pienamente autonomo – certo però del tuttoscevro dalle funzioni ancillari che ne avevano caratterizzato l’infanzia141.

Con tutto ciò, va detto che molti dei problemi che erano stati lucida-mente posti sul tappeto nelle prime discussioni degli anni ’70 sembranooggi ben lungi dall’essere superati. «Il tema ‘città’ è per sua natura unifi-cante» – scriveva Alberto Caracciolo nell’introduzione agli atti del conve-gno di Sorrento –

tuttavia gli studi contemporanei, piuttosto che cogliere questi elementi unifi-canti, sembrano molto spesso finire per accostarsi al fatto urbano secondoproprie tecniche e specializzazioni via via più raffinate, anche se col rischio diperdere la multidimensionalità del fenomeno, l’intreccio di problemi che locaratterizzano142.

Qualche anno dopo da Lucca gli facevano eco Roberta Martinelli eLucia Nuti, sottolineando che per molti lo studio della città non era altroche «un momento di ulteriore specializzazione della propria disciplina,sottomettendolo così completamente ad un deteminato settore scientificoe condizionandolo esclusivamente alle proprie competenze»: per questo,molte delle potenzialità connesse al rinnovamento degli studi si smorza-

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vano in un «generico poliedrismo problematico» che non oltrepassava i li-miti di una «settorialità ostinata e spesso sterile»143. In definitiva, l’unicobilancio che si poteva trarre dalle accese discussioni intrecciate al conve-gno del 1975 era una «certezza negativa»: data la disparità di tradizioni,terminologie, competenze degli uni e degli altri, allo stato dei fatti «nonesist[evano] in assoluto strutture specifiche per la storiografia urbanisticache po[tessero] essere usate indifferentemente per le diverse epoche sto-riche e per i diversi paesi»144.

Nessuno auspicava la nascita di una nuova disciplina (una prospettivaanzi da molti rifiutata esplicitamente145); tutti i commentatori più avvertitierano però concordi nel denunciare i limiti di un approccio che si volevainterdisciplinare, ma che poi finiva per fondarsi esclusivamente sulla sem-plice comunanza degli oggetti di studio – le città, materia di per sé quantomai indefinita e proteica –, senza mai giungere a una effettiva sintesi deipunti di vista, delle categorie, dei linguaggi in uso nelle varie aree culturalicoinvolte. Così, i redattori di «Storia Urbana» non potevano che prendereatto, nel presentare il primo numero della loro rivista, del «tenace divariofra studi di ispirazione ‘storica’ […] e quelli di ispirazione ‘urbanistico-architettonica’», che aveva come corollario il «persistente isolamento deiricercatori» e quasi per reazione «un’affannosa rincorsa verso modelli distoriografia urbana importati o sommariamente mutuati dall’estero»146. Ilrischio era quello di disperdere il discorso in una molteplicità di analisisettoriali, che procedevano ognuna per proprio conto senza alcun valoreaggiunto rispetto al proprio ambito di provenienza, smarrendo viceversail senso complessivo, unitario, dei fenomeni urbani, che poteva cogliersisolo nell’intreccio delle prospettive particolari.

Possiamo dire oggi che questo rischio sia davvero scongiurato? Proba-bilmente non sarebbero in molti a metterci una mano sul fuoco; certo è chenon sono pochi quelli che rimangono convinti della scarsa integrazione – senon addirittura della vera e propria «sordità reciproca» – che per certi versicontinua ancora a caratterizzare i rapporti fra le diverse anime della storiaurbana147. Beninteso, il problema non è solo italiano, ed è un po’ ovunque(e in qualsiasi campo del sapere) che l’attuale rincorsa a coltivare forme dispecialismo sempre più sfrenato finisce per isterilire le possibilità di dialogofra le discipline. È per esempio significativo che, nell’introduzione a un re-cente volumetto sull’insegnamento della storia urbana in Europa, Richard

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Rodgers e Denis Menjot segnalino come leit motiv nei più diversi panoraminazionali proprio il contrasto strutturale fra le aspirazioni interdisciplinari,assai diffuse fra chi si occupa di città, e l’assetto compartimentato delle isti-tuzioni accademiche europee, che obbliga ovunque gli storici urbani a es-sere «pieni di immaginazione» per superare le innumerevoli «rigiditàamministrative» che si frappongono alla loro buona volontà148.

In questo contesto generale il caso italiano si contraddistingue tutta-via per alcuni fattori specifici, il primo dei quali – lo si è già accennato – èla relativa egemonia esercitata dagli storici dell’architettura, che nel no-stro paese hanno saputo indubbiamente dare un indirizzo originale aglistudi di storia della città – declinata più che altrove come storia del «co-struito» e dello «spazio fisico»149 –, ma di fatto sono stati raramente ingrado di interloquire con altre tradizioni storiografiche, rimanendo spessoarroccati nella difesa a oltranza della propria purezza (a voler rimaneretroppo pur sang gli storici rischiano di far inaridire le loro domande, so-steneva Dyos150). Da questo punto di vista, stiamo ancora scontando l’ere-dità mai del tutto superata della tradizione idealistica con le suepreclusioni, oltre che il ritardo – rispetto ad altri paesi europei – con cuiin Italia la storia urbana è arrivata a ritagliarsi un proprio ambito di rico-noscibilità. Tuttavia, non mancano i segnali che su questo piano la situa-zione italiana, lungi dal migliorare, stia attraversando una fase di riflusso.È sintomatico, per esempio, che nel 1994, al momento dell’introduzionenell’ordinamento universitario del nostro paese del sistema dei settoriscientifico-disciplinari (per altro assai criticato per molte e buone ra-gioni151), l’insegnamento di Storia urbana nelle sue innumerevoli variantionomastiche fosse formalmente riconosciuto come materia di studio tra-sversale e comune a vari raggruppamenti disciplinari fra loro disparati,dalla Storia dell’architettura alla Archeologia medievale, dalla Topografiaantica alle Storie (medievale, moderna, contemporanea)152. Al contrario,nelle riforme successive questa originaria polivalenza è stata progressiva-mente erosa sino a sopprimerla del tutto nel 2000, quando, con l’emana-zione dei nuovi settori, le possibili afferenze della storia urbana sono statedrasticamente ridotte, e inquadrate esclusivamente nel settore ICAR/18(Storia dell’Architettura) – nella cui descrizione declaratoria, per altro, iltermine «città» non viene menzionato se non en passant, fra i tanti fattori‘ambientali’ in cui viene a iscriversi l’attività edilizia153.

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Né è del tutto chiaro cosa succederà con il possibile compattamentodei settori scientifico-disciplinari fortemente voluto dal Ministero del-l’Università e della Ricerca nella scorsa legislatura: all’orizzonte pare pro-filarsi l’ipotesi di un accorpamento delle materie ‘architettoniche’ in tregrandi macroaree, una delle quali composta dalle varie discipline in qual-che modo connesse alla dimensione del progetto nelle sue diverse sfaccet-tature154. La Storia dell’architettura (con gli insegnamenti ad essa afferenti)verrebbe così unita al Restauro, ma anche al Disegno, alla Composizione,alla Tecnologia dell’architettura e al Disegno industriale, secondo un di-segno sostanzialmente improvvisato, ma non per questo meno rispondentea uno schema ben radicato nella cultura architettonica italiana dai tempidi Giovannoni in poi. Quale sarebbe il ruolo della storia in quest’aggre-gazione così poco omogenea, se non un ennesimo revival della critica ope-rativa, fondato per altro su una semplicistica (e spesso anacronistica)riduzione delle dinamiche costruttive a progetti d’autore?

Si dirà che si tratta solo di nominalismi burocratici, di scarsa rilevanzareale: non sembra del tutto vero. Se confermata, questa sostanziale bana-lizzazione delle dinamiche storiche – la città ridotta a mero ‘contesto’, otutt’al più scomposta nei suoi monumenti, l’analisi storica di fatto abbas-sata a strumento propedeutico per la formazione di architetti criticamenteconsapevoli – non sarà certo priva di conseguenze: si rifletterà immedia-tamente sui dottorati e sui concorsi universitari, condizionando di fattol’orientamento degli studi nei prossimi anni (come in parte sta già avve-nendo, per altro).

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11. La continuità della cultura storicaIn questo scenario non privo di ombre, la lezione di Marino Berengo rie-

sce particolarmente stimolante. Nelle pagine che seguono non si troverannodiscorsi ‘metodologici’ (a cui Berengo era notoriamente allergico, ritenendolifini a se stessi); ma dal tipo di domande da lui poste alle fonti, e dal tagliodelle sue risposte mai disgiunte dalla concreta pratica di ricerca, emergonoalcune opzioni di fondo che meritano qualche ulteriore considerazione.

«Quella che è emersa dalle mie letture è più una storia dei cittadini chenon delle città» – scriveva Berengo nell’introduzione a L’Europa delle città155:era un modo per evitare di invischiarsi in astratte definizioni preliminari,ma anche per affermare il principio che qualsiasi ricerca di argomento sto-rico-urbano non potesse prescindere da uno studio serio e approfonditodella società cittadina. Le forme della città di pietra come le curve dei prezzidel grano, i flussi demografici della popolazione urbana come l’organi-gramma degli apparati istituzionali, costituivano per lui dati scarsamentesignificativi ove considerati in sé e per sé, senza essere messi in rapportocon le dinamiche dei gruppi sociali, i conflitti politici, le costellazioni cul-turali che in ogni periodo storico e nei diversi paesi contribuivano a pla-smare gli spazi e i modi della convivenza civile, ammantandoli di significatisempre specifici. Né avrebbe potuto essere altrimenti, senza che si perdessedi vista quell’inestricabile intreccio di fattori eterogenei fra loro, ma al tempostesso organicamente coordinati, che rappresentava il sale della storia, o permeglio dire – parafrasando quanto Berengo stesso scriveva del suo maestroGino Luzzatto – di «quella storia che egli sentiva come l’unica meritevoledi essere studiata» (quella che riguardava «l’opera dell’uomo, l’animarsi deitraffici, delle città, delle idee, delle forme del potere politico»)156.

Berengo non era certo un cultore dell’interdisciplinarietà a oltranza,consapevole che ogni tradizione disciplinare si regge sull’uso di strumentispecifici, sul ricorso a determinate fattispecie di fonti, sull’impiego di me-todi e linguaggi non impunemente generalizzabili. Ma ciò non gli impedivadi essere convinto che «l’esasperato e scellerato spirito di specializzazionesettoriale» oggi tanto diffuso fosse uno dei peccati capitali per chiunquecoltivasse studi di carattere storico:

la cultura storica è continuità, la storia va studiata unitariamente, dalla fine delmondo antico a oggi, e anche quello dello storico è un mestiere unitario. Glistorici contemporanei devono saper leggere un atto notarile del passato, gli

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storici medievali, che spesso strappati dalle loro pergamene non capisconopiù nulla, devono cercare di sapere che cosa è stato il nazismo157.

Da parte sua, eccolo passare dalla storia comunale e signorile (di cuiaveva sempre sentito il fascino158) agli anni della Restaurazione, dalle fontinotarili a quelle fiscali, e da queste alle cronache e ai testi letterari. Questavolontà di confrontarsi con le più varie sfaccettature della ricerca storicasi fondava su una petizione di principio, che era anche una delimitazionedi campo: gli studi storici non potevano fondarsi che su un rapporto ser-rato (nel suo caso quasi viscerale) con le fonti, che per lui erano essenzial-mente fonti scritte, e in primo luogo archivistiche.

«Tu ti convincerai di essere al mondo solo quando troverai il tuo attodi nascita in archivio», pare gli avesse detto un giorno Cantimori stigma-tizzando questo suo chiodo fisso159, per quanto poi con l’andar degli anniBerengo avrebbe preso a ricorrere sempre più spesso anche a testimo-nianze di carattere narrativo, letterario, nonché a qualsiasi notizia che l’eru-dizione ottocentesca potesse mettere a disposizione della sua curiositàonnivora, e che non temeva di definirsi «compilativa»160. Da lui sostan-zialmente trascurate, invece, sono sempre state le fonti iconografiche e car-tografiche (senza parlare di quelle architettonico-edilizie), rispetto a cuirimane palpabile il suo disagio: «so che desideri includere nel nostro dia-logo» – interloquiva con Lopez nella loro Intervista sulla città medievale –

qualche domanda sul modo nel quale le forze politiche, economiche e socialidi cui ci siamo occupati finora possano aver influito sul tessuto urbanistico,plasmando cioè via via la loro città, non senza essere state a loro volta in-fluenzate dalla forma urbis da loro creata. Uso questo tono esitante perchénon mi sono mai ben convinto che un’esigenza ineccepibile di ‘interdiscipli-narietà’ imponga alla stessa mano che ha spogliato fonti documentarie di in-terpretare questo tipo di testimonianze161.

È appunto a questo stesso disagio che credo si possa ricondurre la suadiffidenza verso gli studi che lui definiva «urbanistici»: la sua non era certoindifferenza nei confronti della forma fisica del tessuto urbano – rispettoa cui viceversa si trovano numerosi riferimenti disseminati nei suoi lavori162

–, ma un’innata avversione verso il costume (allora assai diffuso fra gli sto-rici di matrice architettonica) a studiare spazi ed edifici isolandoli dal lorocontesto, come pure forme disincarnate dagli usi sociali che di generazionein generazione li trasformavano incessantemente. Qui per Berengo cor-

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reva una perentoria linea di discrimine, rispetto a cui si misurava la ten-denziale incomunicabilità fra gli storici tout court, usi a ricondurre ogniforma urbana a fattori di ordine sociale e politico; e gli storici della cittàdi pietra, troppo spesso avvezzi a focalizzarsi esclusivamente su analisi ditipo morfologico, trascurando i dati offerti dalla documentazione scritta.

Certo, questa scarsa attitudine a mettere a frutto la ricchezza di infor-mazioni di cui le fonti visive e le evidenze materiali sono prodighe a chiabbia la pazienza di interrogarle – e quindi la tendenza a ignorare il ruolotalvolta fondamentale giocato nelle dinamiche urbane da progettualitàconsapevoli, di carattere anche formale – costituisce uno dei limiti princi-pali, forse il maggiore, dei lavori di Berengo. Lo portò fra l’altro a trascu-rare i risultati di ricerche oggettivamente importanti sulle strategie urbanee il tessuto edilizio-architettonico delle città rinascimentali, come quelledi Ennio Poleggi, Manfredo Tafuri o Ennio Concina163. Ma il suo appelloa non perdere di vista la complessità dei processi storici, autocondannan-dosi alla miopia di un approccio piattamente monotematico, rimane fon-damentale. Gli stessi studi raccolti in questo volume offrono più d’unaconferma di quanto un’attenzione non superficiale alla complessità delledinamiche urbane possa evitare i travisamenti in cui facilmente incorreun’analisi meramente morfologica. Un solo esempio: nella Verona del Set-tecento – nota Berengo – si trovano palazzi nobiliari disseminati in ognicontrada della città, e chi consideri questo semplice dato topografico in sée per sé, senza interrogare altre fonti documentarie, potrebbe interpre-tarlo come un segno del venir meno, nel corso dell’età moderna, di quellesolidarietà parentali su cui per secoli si era fondata la compattezza del cetodirigente locale164. Allargando però la visuale anche ad altri scenari (la di-slocazione dei possessi extraurbani, la rotazione nei consigli cittadini, lestrategie matrimoniali…), ci si accorge che le cose stavano ben diversa-mente: «anche se non sente più il bisogno di vivere asserragliato tra le viee le mura che parlano delle glorie degli avi», infatti, il nobile veronese«conserva un forte senso dell’unità del casato». Indipendentemente dadove abitassero, i rami degli antichi casati nobiliari mantenevano quasisempre unito il vecchio patrimonio avito e si «incontra[vano] immanca-bilmente alla stagione dei raccolti o in villa», lì dove si concentravano iloro possedimenti fondiari, secondo una logica non distante da quella clas-sica delle grandi aristocrazie dell’Europa continentale («i beni apparten-

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go no alla Casa, ne costituiscono la premessa alla sopravvivenza e al pre-stigio, e non è lecito disperderli e smembrarli»). Il forte frazionamento re-sidenziale dei fuochi nobiliari non aveva dunque minimamente impeditoche questi ultimi rimanessero strettamente legati fra loro da una fitta retedi cointeressenze d’ordine patrimoniale, che non sarebbe stata intaccatasino alla fine dell’antico regime.

12. L’importanza della comparazione«Mettere assieme le cose sta diventando un’attività che non è pru-

dente praticare» – osservava Berengo nell’introduzione a L’Europa dellecittà, deprecando il «discredito» in cui versava il concetto di compilazionepresso gli storici (ma le cose non sembrano cambiate, in questi ultimianni), con il risultato di far cadere in disuso anche «un altro genere di la-voro, più specifico ma non del tutto estraneo al primo: quello della sto-ria comparata»165.

Lo si è rimarcato più volte, il metodo comparativo costituiva uno deicaposaldi su cui si reggeva l’approccio di Berengo alla storia urbana166. Eraun approccio di cui erano in molti a essersi fatti convinti assertori, neglianni ’70: eppure lo storico veneziano lo declinava in modo assai diverso dacome veniva allora generalmente inteso. Da Max Weber in poi, l’idea dellacomparazione presupponeva la costruzione di un modello semplificatodell’oggetto di studio, tale appunto da agevolarne il confronto con altre re-altà più o meno affini, o comunque paragonabili: così, in fondo, aveva fattoBraudel nella sua grande opera sullo sviluppo economico europeo nell’etàmoderna167; così, su scala minore, ci si era dati a sperimentare in numerosicasi di studio, magari appoggiandosi su analisi ‘ubicazioniste’ quali quelledi Felix Auerbach o Josiah Russell (come per esempio David Herlihy nelsuo intervento al convegno di Lucca)168; così Pietro Rossi suggeriva di fareancora alla fine degli anni ’80, sostenendo che l’individuazione dei diversi«modelli storici di città» fosse il «compito fondamentale di una qualsiasianalisi storico-sociologica sul fenomeno della, anzi delle città»169. Berengoappare lontanissimo da queste proposte, e non a caso nei suoi scritti si cer-cano invano accenni all’opera di Weber, o anche solo alle trattazioni diEdith Ennen e Paul Bairoch, Hohenberg-Lees e De Vries, o Benevolo: frale principali opere di sintesi di argomento urbano in circolazione nell’ul-timo trentennio, unicamente i lavori di Braudel vengono citati qua e là,

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ma solo e puntualmente per prenderne le distanze in quanto troppo «ri-gidi», «astratti», «schematici» a confronto di quei «fatti singoli e reali» cheil suo maestro Gino Luzzatto gli aveva insegnato a «porre alla base dellasua attività di ricercatore»170.

In effetti costante, in Berengo, era la polemica contro le generalizza-zioni, le semplificazioni che intorbidivano la realtà molto più di quantonon la chiarissero: come quando osservava che ogni tentativo di «inca-sellare» la popolazione cittadina nella «griglia fissa dei mestieri» non po-teva che produrre «un’immagine impoverita e schematica della vitaurbana», dal momento che in realtà ogni abitante della città era solito in-tegrare il bilancio familiare con «altri proventi e altre iniziative» che fini-vano per modificarne profondamente l’identità171; o quando rilevava che«nessuna formula e nessuna specifica qualifica serve a tracciare con manosicura una linea di confine» fra l’artigiano e il mercante (solo «l’ampiezzadegli affari gestiti e il contegno sociale» potevano di volta in volta aiutarea distinguerli)172; o ancora quando prendeva le distanze dalle tesi di Jac-ques Le Goff sull’insediamento urbano degli ordini mendicanti, direttecom’erano a individuare «parametri uniformi, o comunque istituzionali eoggettivi, idonei a definire il concetto di città» (ossia «una delle imprese,tentazioni e seduzioni cui raramente gli storici urbani resistono; e di frontealla quale l’autore di queste pagine ha preventivamente dichiarato di ab-bassare le armi»173).

Poste queste premesse, il genere di comparazione coltivato da Berengonon aveva nulla a che fare con la costruzione di modelli teorici, astrattidall’«immediatezza» e dalle «oscillazioni» delle concrete dinamiche stori-che, ma mirava soprattutto a fare l’inventario dell’«infinita gamma» deimodi in cui la quotidiana frequentazione degli uomini nelle città delle varieepoche e nazioni avesse prodotto diverse forme di convivenza – del resto,non era forse vero che «è proprio nel cogliere le sfumature di un concettoche vuole delimitare una realtà, nel rilevarne le confluenze e le osmosi dacui è collegato con un altro, che risiede una delle più forti suggestioni dellaricerca storica»174? Così, per esempio, in uno dei saggi compresi in questaraccolta si propone un confronto fra le grandi capitali europee di antico re-gime tutto imperniato sulle rispettive differenze, ben più che sulle analo-gie che pure le apparentavano. Certo, nella prima età moderna tutte lecittà erte a capitale di uno stato nazionale erano state teatro di un forte in-

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cremento demografico, tradottosi in una marcata espansione edilizia;certo, tutte erano venute a configurarsi come caput politico ed economicodel regno, rapportandosi ad esso in termini ‘imperialistici’, e gli squilibriche ne erano derivati costituivano la prima ragion d’essere della loro cre-scita175. Ma poi ogni situazione specifica rappresentava un caso a sé: losviluppo irruento di Londra, per esempio – in parte condizionato dagli in-teressi degli aldermen, l’oligarchia commerciale-finanziaria legata stretta-mente alla Corona, per lo meno sino agli anni della Rivoluzione –, erastato del tutto diverso dall’espansione di Madrid, dovuta non tanto a unaqualche forma di sviluppo economico, bensì all’afflusso costante in cittàdi officiali e cortigiani diffusamente percepiti come parassiti del paese176.E sono proprio questi fattori distintivi a spiegare i lineamenti specifici as-sunti da ogni singola capitale nel corso dei secoli: come per esempio iquartieri madrileni di casas de malicia (edifici a un solo piano, per elu-dere le norme che obbligavano i proprietari ad affittare agli officiali regii piani superiori a canone ridotto); oppure il tessuto caotico della Londraseicentesca, «immagine stessa dell’ingovernabilità» della metropoli mo-derna; o ancora il macroscopico squilibrio demografico che marcava irapporti fra Napoli e il suo entroterra, alimentando una serie di problemiannonari e di ordine pubblico di fronte a cui i vicerè spagnoli si scopri-rono del tutto impotenti.

I dati materiali, demografici, economici, anche spaziali ed edilizi, nonsono dunque ignorati da Berengo, anzi spesso costituiscono il punto d’av-vio delle sue analisi. Ma queste non si limitano mai alla dimensione pura-mente fisica, statistica o comunque quantificabile dei fenomeni urbani,nell’implicita convinzione che per lo storico tutto il baricentro dell’inte-resse si trovi al di là dei nudi numeri o delle semplici forme (pur spesso ri-specchiandosi in questi e in quelle). La percentuale della popolazionecontadina residente in città, per esempio, costituisce un parametro di ri-ferimento importante per giudicare dell’effettiva consistenza del tasso diurbanizzazione nei vari paesi e nei diversi periodi storici: ma poi quest’in-dice va commisurato al contesto specifico cui si riferisce, e bisogna co-glierne il significato concreto in termini di rapporti sociali, nella vitaquotidiana di un determinato insediamento. Sono aspetti di carattere in-trinsecamente qualitativo, ben difficilmente ricostruibili senza uno studioapprofondito delle fonti scritte.

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Si rilegga la bellissima pagina dedicata al diverso carattere dei rapporticittà-contado in Italia e in Castiglia: per evocare le rispettive specificità edifferenze, Berengo non si affidava tanto a rilevazioni demografiche, chepur esistevano e avrebbero potuto fornire un primo inquadramento dimassima della questione, quanto a un caso particolare, quello della citta-dina di Soria, sul Duero. Qui,

a 1115 metri sul livello del mare è stato edificato tra XI e XII secolo un im-ponente castello, al riparo del quale si è subito costituita un’aldea, un villag-gio popolato dai cavalieri che sorvegliano le fortificazioni; un centinaio dimetri più in basso ne è poco dopo sorta un’altra, dove vivono ortolani e viti-coltori, al limite della zona coltivabile; e una terza, di barcaioli e pescatori, siè formata a 1105 metri, sul corso del fiume. Questi, e altri insediamenti mi-nori su di un’area di 100 ettari, vengono racchiusi da una poderosa cinta mu-raria alla fine del XII secolo. La città è nata da questa coesione; e ancora neltardo Settecento i suoi abitanti si dividono in someros, i nobili che stanno nellaparte alta, e hondoneros, i popolani, ma soprattutto contadini, ortolani e pa-stori, che stanno giù, verso il Duero.

Questo insediamento, in cui entro la medesima cinta di mura convi-vevano «una società contadina» e «un ceto cavalleresco rimasto legato allesue tradizioni militari», sarebbe stato inimmaginabile in Italia, nelle cuicittà si potevano sì intravedere «filari di viti, alberi, campi arati e, ovvia-mente, orti»; ma in cui mai, anche nei momenti più critici della loro sto-ria, si è registrato il caso di una presenza contadina men che occasionale:

per secoli, in Italia, l’uomo di campagna è passato di primo mattino attraversouna porta che si apriva nelle mura sulla strada che conduceva al suo terziere,al suo villaggio, alla sua valle; è andato al mercato, al tribunale, al palazzo delsignore per pagare un canone o un censo; da un notaio; o – più lietamente eassieme alla moglie – al battistero. Ma la sera era già tornato a casa sua.

Come tradurre in «sicuri rapporti numerici», in formule astratte e on-nicomprensive, queste «impressioni», suscitate viceversa con straordina-ria vivacità dalle fonti narrative, dalle cronache, dai testamenti, dalle cartepubbliche in genere? Come intendere appieno le vicende dei centri storiciitaliani di antico regime senza tener conto del nuovo clima che si andavarespirando un po’ ovunque nella Penisola fra Cinque e Seicento, con l’ari-stocratizzazione dei vecchi patriziati cittadini, arroccati nella difesa deiloro privilegi di ceto in misura molto maggiore che nei secoli precedenti177?

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Come trascurare aspetti quali il fatto che «sino all’Ottocento, agli ingressicarrai di molti palazzi gentilizi urbani di Firenze, di Lucca, di Brescia, maanche di Venezia, si [sia] continuato a vendere vino, olio, talvolta grano,formaggio, carni lavorate»? Questi «commerci signorili» non erano solouna delle pochissime licenze al ferreo regime protezionistico imposto dallecorporazioni cittadine ai traffici che si svolgevano all’interno della cerchiadi mura («un uomo del contado non ha mai potuto venire in città per ven-dere liberamente un panno o un paio di scarpe, ma neppure una falce ouna botte fabbricata da lui»), ma anche uno dei segni più tangibili della«presa egemonica» esercitata in città dai ceti aristocratici, nonché delle so-lide basi fondiarie della loro ricchezza178. Solo in età napoleonica questopredominio si sarebbe incrinato, e ancora una volta le testimonianze let-terarie – il carteggio foscoliano, le diverse redazioni dell’Ortis – si rivelanoinsostituibili per riempire di vita il quadro per altro assai ricco offerto dalladocumentazione fiscale e amministrativo-contabile179.

13. Per una storia generale e comparata della cittàIl fatto è che le forme urbane non sono separabili dalle pratiche sociali

che contribuiscono a determinarle, o in altre parole che città e società sonoconcetti opachi ove non si specchino l’uno nell’altro. Nella storiografia ita-liana, del resto, la questione era già stata lucidamente posta sul tappeto daGino Luzzatto sin dagli anni ’30, sulle pagine della «Rivista di Storia Eco-nomica» (allora neonata, nel nostro paese, in quanto disciplina accade-mica). Dibattendo con Luigi Einaudi sul carattere distintivo della storiaeconomica – ma le loro considerazioni toccavano nodi che travalicavanoampiamente lo specifico disciplinare, investendo questioni di validità benpiù generale –, Luzzatto scriveva infatti che «isolare un determinato fe-nomeno o un determinato istituto economico» studiandolo in sé e per sé

è un metodo che presenta indubbiamento dei vantaggi notevoli, per la possibi-lità di un maggiore approfondimento del lato tecnico del problema e di con-fronti utilissimi fra paese e paese, che permettono di mettere in luce come, anchein epoche di estremo frazionamento politico e di economie quasi completa-mente chiuse, esistano tuttavia delle necessità comuni che determinano gli stessieffetti. Ma di fronte a questi vantaggi quel metodo presenta il danno molto piùgrave di isolare quel determinato fenomeno dall’ambiente in cui esso si è ma-nifestato, da tutti gli altri fenomeni di carattere fisico, politico, giuridico e anche

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economico coi quali esso si trova in rapporti di mutua dipendenza, e di ren-dere perciò impossibile un’esatta valutazione di molte trasformazioni che deri-vano appunto dall’una o dall’altra di queste azioni concomitanti180.

«Si potrà obiettare» – proseguiva Luzzatto – «che secondo un taleconcetto non sarebbe logicamente possibile scrivere una ‘storia econo-mica’, ma che vi è soltanto una ‘storia’»: una storia dai confini così dilatatida richiedere, per essere scritta a dovere, uno di quei rari «intelletti so-vrani» in grado di padroneggiare svariate discipline e al tempo stesso dipossedere le «doti artistiche rarissime, che permettono di fondere questemanifestazioni varie in una unità armonica qual è quella che si presentanella vita reale». Erano qualità non comuni, che di fatto rendevano im-prescindibile anche nel campo degli studi storici un certo grado di «divi-sione del lavoro», o meglio di collaborazione fra diverse competenze(anche se per la sua stessa natura la «vera ricerca storica» non poteva cheessere «strettamente individuale»): questa collaborazione, però, andavaattuata «nel modo che d[esse] affidamento della maggiore approssima-zione alla realtà», ovvero mirando a estendere il più possibile il raggio d’os-servazione a tutte le manifestazioni della vita economica181. «Per oraoccorre soprattutto lavorare» – concludeva Luzzatto –

e il lavoro per essere fecondo deve essere fatto in comune, non nel senso chesia sempre utile o necessaria una collaborazione diretta fra storico ed econo-mista, ma piuttosto nel senso che le fatiche degli studiosi di storia invece didisperdersi per vie staccate, divergenti e spesso accidentali e inconcludenti,siano indirizzate verso fini ben determinati, secondo un piano organico182.

«A quasi un trentennio di distanza» – scriveva ormai già quarant’annifa Berengo – «l’articolo [di Luzzatto] sembra scritto ieri: e credo che moltidi noi lo vedrebbero volentieri affisso alla porta degli istituti in cui inse-gnano e lavorano»183. Era un modo per sottolineare una questione che,pur rimanendo sempre implicita nelle sue pagine, sembra aver rivestitoun’importanza cruciale anche nei saggi raccolti in questo volume: in re-altà, per Berengo la storia urbana non aveva alcun bisogno di precisare ilproprio oggetto (anzi lui dal canto suo ne eludeva sistematicamente qual-siasi definizione); né poteva configurarsi – secondo una tesi invece assaidiffusa negli anni Settanta – come una sorta di mosaico composto da tantetessere quanti erano gli approcci settoriali che ne illuminavano le varie

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facce. Al contrario, il suo interesse per la città muoveva dall’idea luzzat-tiana che le vicende storiche potessero essere colte solo in quanto processicompositi, frutto di dinamiche magari disparate, ma leggibili nel momentoin cui venivano interrogate in modo unitario, facendone vedere le reci-proche interconnessioni. Insomma, non era affastellando eterogenei puntid’osservazione che si potevano intendere i fenomeni urbani in tutta la lorocaleidoscopica complessità, bensì assumendo una prospettiva interpreta-tiva sufficientemente ampia da abbracciare le diverse nervature della realtàstorica. Di qui, in Berengo, la costante polemica contro il lavoro di équipe(già condivisa da Luzzatto, come si è visto, e dallo stesso Einaudi184), chenon prendeva di mira tanto l’eventualità che diverse competenze potesserocollaborare fra loro, quanto la pretesa per lui vana di impostare una ri-cerca storica sezionandone i problemi e gli obiettivi secondo percorsi pa-ralleli, in funzione degli eterogenei interessi dei singoli ricercatori.

Quella di Berengo intendeva dunque essere una storia generale dellacittà, o «globale» come talvolta gli veniva fatto di dire, pur nella consape-volezza di dover cercare un’integrazione con altri, più specifici, approcci almondo urbano185. Tutto sommato, non era una prospettiva così lontana daquella recentemente illustrata da Jean-Luc Pinol nella sua introduzione aun’importante opera di sintesi a più mani sull’Histoire de l’Europe urbaine,dove si afferma che l’essenza della città è quella di essere un «phénomènetotal», in cui l’economia e la società, la politica e la cultura, il mondo dellatecnica e quello dell’immaginazione si intrecciano inestricabilmente, co-sicché qualsiasi approccio alle dinamiche urbane che privilegi un soloaspetto a spese degli altri non può che risultare parziale, manchevole, in-completo186. Piuttosto, secondo Pinol è solo in virtù di un esercizio di sin-tesi – in quanto «histoire générale et comparée», secondo la vecchiaformula coniata da Georges Espinas più o meno negli stessi anni in cuiLuzzatto rifletteva sulla natura della storia economica187 – che la storia ur-bana può oggi riuscire davvero a passare dallo studio della città «commecadre» a quello della città «comme objet et sujet», grazie a una sorta di«bricolage unificateur» contrario a ogni tipo di «histoire en miettes» e atutte quelle forme di specialismo deteriore di chi «ne connaît que sa villeet ignore toutes les autres» («les murs de sa cité lui ferment l’horizon»)188.

Per Berengo questo «bricolage» si fondava dichiaratamente su un inte-resse preponderante per la dimensione politica della città189. Per lui inda-

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gare l’universo urbano significava in primo luogo studiare quello che persecoli era stato il «campo privilegiato della convivenza pubblica»: un grandeteatro di posa in cui individui e gruppi usavano mettere in scena conflitti peril potere, rapporti di forza, tentativi egemonici che poi finivano fisiologica-mente per assestarsi in compromessi di governo, modus vivendi, forme diconvivenza più o meno equilibrate. Su certi palcoscenici più che su altrierano risuonate forti le ragioni della libertà, della cittadinanza, di una par-tecipazione ampia alla gestione della cosa pubblica; altrove i ceti dirigentierano precocemente riusciti a imporre la propria supremazia, riducendo oaddirittura soffocando le possibilità di ricambio ai vertici della società.Ovunque, in ogni caso, questi contrasti erano venuti a sedimentarsi in isti-tuzioni, costumi, sistemi di pensiero, cristallizzandosi in forme di utilizza-zione collettiva degli spazi e finendo spesso (ma non sempre) per rendere lecittà il «polo di animazione e identità» di un’intera nazione. In definitiva, alfondo della prospettiva storiografica di Berengo c’era (come per molti altridella sua generazione) una fortissima ispirazione di carattere civile: comeha scritto James Amelang, quella dell’allievo di Luzzatto e Cantimori non erasolo una storia della città europea, ma era anche «una storia cittadina, e cioèscritta dalla prospettiva della cittadinanza, intensa nel senso di un cittadinoche accetta la responsabilità della partecipazione allo spazio pubblico»190.

Si può (con una punta di malinconia) discutere se e in quale misura que-sta prospettiva sia ancora attuale o meno, sino a che punto quell’«endiadicittà-libertà» che tanto significato aveva avuto per la tradizione liberale eu-ropea possa avere un senso ancora oggi, in un mondo com- pletamente di-verso da quello in cui si era formato Marino Berengo. Per molti,probabilmente, la risposta sarebbe negativa. C’è però una questione su cuipare non possano esserci dubbi: sinché le varie anime che convivono sottol’ombrello della storia urbana non inizieranno a mettere in comune – oltreal proprio oggetto – anche i loro interrogativi, le loro categorie, le loro pro-spettive spesso tutt’ora profondamente divergenti, le incongruenze chehanno accompagnato i primi passi degli storici della città sembrano destinatea non trovare facile soluzione. Diceva Goethe in uno dei suoi aforismi chele discipline possono autodistruggersi in due modi: «per l’ampiezza a cuipretendono di estendersi, o per le profondità in cui s’inabissano»191. Oggi lastoria urbana, orfana di grandi quesiti come quelli che avevano animato lericerche di Marino Berengo, sembra correre soprattutto il secondo rischio.

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Note* Ringrazio per i loro consigli Donatella Calabi, Elena Fasano Guarini, Alberto Groh-

mann, Elena Svalduz e Guido Zucconi; grazie anche a Maria Francesca Tiepolo per la cor-tesia con cui ha messo a disposizione l’articolo: La devoluzione di Ferrara nelle fonti veneziane,in origine a lei dedicato. Un ringraziamento speciale devo poi a Renata Segre Berengo, sem-pre disponibilissima e prodiga di informazioni.

1. C. de Seta, in La storiografia urbanistica, Atti del 1° Convegno Internazionale di Sto-ria Urbanistica (Lucca, 24-28 settembre 1975), a cura di R. Martinelli, L. Nuti, CISCU,Lucca 1976, p. 136.

2. «Del resto, per ora mi basta ricordare al Caracciolo che il lavoro del Berengo è fon-dato proprio su quelle ricerche particolarissime, minute, pedanti che s’insinua io voglia con-siderare esclusive e preclusive di ogni altro tipo di lavoro storiografico; e se c’è fra i trentenniuno studioso originale e indipendente, alieno da scuole e scuolette o sette e chiesuole, alie-nissimo da teorizzazioni, tutto calato nelle cose, come si diceva una volta, è proprio il Be-rengo»; D. Cantimori [Lettera a A. Saitta nella rubrica Pro e Contra], in «MovimentoOperaio», VIII (1956), nn. 1-3, p. 325. Sul famoso intervento di Cantimori e il dibattito incui esso si inseriva, cfr. fra l’altro P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale,Le Lettere, Firenze 2001, pp. 77-126; e da ultimo R. Pertici, Introduzione: Marino Berengostorico della cultura ottocentesca, in M. Berengo, Cultura e istituzioni nell’Ottocento italiano,a cura di R. Pertici, il Mulino, Bologna 2004, pp. 10-12 e 20.

3. Cantimori, Pro e Contra, cit., p. 325. 4. Cfr. P. Villani, in «Movimento Operaio», VIII (1956), n. 4, p. 584.5. Così in particolare James S. Amelang («Lo scopo dello studio di Berengo è evidente-

mente quello di navigare controcorrente. […] Berengo era molto antiquato, e lo era inten-zionalmente»: J. Amelang, L’Europa delle città di Marino Berengo, in «Rivista StoricaItaliana», CXIII [2001], n. 3, pp. 754-763); Claudio Donati, da parte sua, sottolineava gli«spiccati aspetti di inattualità» che caratterizzavano L’Europa delle città (C. Donati, Nobiltàe patriziati nell’itinerario di ricerca di Marino Berengo, in Tra Venezia e l’Europa. Gli itine-rari di uno storico del Novecento: Marino Berengo, Atti delle Giornate di studio su MarinoBerengo storico [Venezia, 17-18 gennaio 2002], a cura di G. Del Torre, Poligrafo, Padova2003, p. 54), mentre Donatella Calabi parla di «un certo suo grado di isolamento rispettoai molti che in Europa si definiscono ‘storici urbani’» (D. Calabi, Marino Berengo storicodella città, in «Contemporanea», IV [2001], n. 2, p. 326); sulla stessa lunghezza d’onda pureGiorgio Chittolini, Il tema della città, in Tra Venezia e l’Europa, cit., pp. 80-85.

6. Id., «L’Europa delle città» secondo Marino Berengo, in «Storica», 14 (1999), p. 124.7. Cfr. in particolare C. Vivanti, Ricordo di Marino Berengo, in «Studi Storici», XLI

(2000), n. 3, pp. 593-604; G. Ricuperati, Per Marino Berengo, in «Rivista Storica Italiana»,CXIII (2001), n. 3, pp. 746-753; Marino Berengo, storico del nostro tempo (con interventi diF. Traniello, D. Calabi, E. Brambilla, E. Di Rienzo, A. Ventura), in «Contemporanea», IV(2001), n. 2, pp. 323-352; M. Infelise, In ricordo di Marino Berengo, in «Archivio veneto»,s. V, CLIX (2002), pp. 205-208; G. Miccoli, Clero, istituzioni ecclesiastiche e vita civile nel-l’opera di Marino Berengo, in «Passato e Presente», LVI (2002); e A. Ventura, Ricordo di

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Marino Berengo, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CLX (2001-2002),pp. 121-133 (per un quadro generale dei ricordi usciti sulla stampa all’indomani della mortedi Berengo, si veda il sito venus.unive.it/riccdst/sdv/storici/berengo/bibliografia.htm.

8. G. Ricuperati, Per Marino Berengo, cit., p. 750.9. Sui rapporti fra Berengo e Cantimori (oltre al carteggio conservato in parte presso

l’archivio della Scuola Normale Superiore e in parte nel «Fondo Marino Berengo-RenataSegre», prossimamente consultabile nella Biblioteca Classense di Ravenna), cfr. soprattuttoM. Berengo, La ricerca storica di Delio Cantimori, in «Rivista storica italiana», LXXIX(1967), pp. 902-943.

10. Sui rapporti fra Berengo e l’ambiente padovano, in particolare con Roberto Cessi (au-tore di una stroncatura famosa quanto infelice del medesimo libro tanto elogiato da Canti-mori), cfr. Ventura, Ricordo di Marino Berengo, cit., p. 348.

11. Cfr. C. Vivanti, Gli ebrei veneti nell’età dell’emancipazione, in Tra Venezia e l’Europa,cit., p. 141. A Gaetano Salvemini e a Ernesto Sestan, in particolare, Berengo sarebbe sem-pre rimasto molto legato, dedicando a entrambi un profilo appassionato: cfr. rispettiva-mente Salvemini storico e la reazione del ’98, in Atti del convegno su Gaetano Salvemini(Firenze, 8-10 novembre 1975), a cura di E. Sestan, Saggiatore, Milano 1977, pp. 69-86; el’Introduzione a E. Sestan, Scritti vari, II, Italia comunale e signorile, Le Lettere, Firenze1989, pp. VII-XIX.

12. Su Berengo archivista, cfr. C. Salmini, Marino Berengo archivista, in Tra Venezia el’Europa, cit., pp. 201-222.

13. Cfr. J. Grubb, When Myths lose Power. Four Decades of Venetian Historiography, in«The Journal of Modern History», LVIII (1986), n. 1, pp. 73-76; G. Ricuperati, Marino Be-rengo e il Settecento, in Tra Venezia e l’Europa, cit., pp. 28-33; e G. Del Torre, Marino Be-rengo e la storia veneta, ibid., pp. 171-176. Per una bibliografia completa degli scritti diBerengo, vedi ibid., pp. 233-245.

14. M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Einaudi, Torino 19993,pp. 1-5; sul libro e sulla sua eco nella storiografia italiana, cfr. Per i trent’anni di «Nobili emercanti nella Lucca del Cinquecento», Atti della Giornata di Studi in onore di Marino Be-rengo (Lucca, 21 ottobre 1995), Comune di Lucca, Lucca 1998.

15. M. Berengo, La «via dei Grigioni» e la politica riformatrice austriaca, in «ArchivioStorico Lombardo», s. VIII, VIII (1958), pp. 5-111.

16. Giornali veneziani del Settecento, a cura di Id., Feltrinelli, Milano 1962. All’argomentoBerengo aveva già dedicato varie pagine ne La società veneta, oltre a un articolo qualche annoprima: Id., La crisi dell’arte della stampa veneziana: fine sec. XVIII, in Studi in onore di Ar-mando Sapori, Cisalpino, Milano 1957, II, pp. 1319-1338. Questi primi studi sull’editoria ve-neta nel Settecento ne avrebbero poi ispirato molti altri, fra cui in particolare M. Infelise, IRemondini di Bassano. Stampa e industria nel Veneto nel Settecento, Tassotti, Bassano delGrappa 1980; e Id., L’editoria veneziana nel Settecento, FrancoAngeli, Milano 1989.

17. Su questioni di storia dell’agricoltura, e in particolare sui nessi talvolta molto strettifra certe tecniche agronomiche e determinati equilibri politico-sociali, Berengo sarebbe poiritornato anche in seguito: cfr. soprattutto C. Tarello, Ricordo di agricoltura, a cura di M. Be-

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rengo, Einaudi, Torino, 1975; e più in generale M. Ambrosoli, Campagne, agricoltura e agro-nomia negli studi di Marino Berengo, in Tra Venezia e l’Europa, cit., pp. 109-126.

18. Sugli ‘anni milanesi’ di Berengo, cfr. C. Capra, Marino Berengo professore: gli annimilanesi, in Tra Venezia e l’Europa, cit., pp. 191-200; e E. Brambilla, Marino Berengo e l’im-pegno dello storico, in «Contemporanea», IV (2001), n. 2, pp. 333-334.

19. Sul grande progetto dell’Atlante Storico Italiano, cfr. Problemi e ricerche per l’AtlanteStorico Italiano dell’età moderna, Atti del Convegno di Gargnano (27-29 settembre 1968),a cura di M. Berengo, Sansoni, Firenze 1971; E. Fasano Guarini, A. Massafra, L’Atlante sto-rico che non si fece, ma…, in Per un Atlante storico del Mezzogiorno e della Sicilia in età mo-derna. Omaggio a Bernard Lepetit, a cura di E. Iachello, B. Salvemini, Liguori, Napoli 1998,pp. 123-139; L. Gambi, Per un atlante storico d’Italia, in Id., Una geografia per la storia, Ei-naudi, Torino 1973, pp. 175-196; Id., Un atlante da 7 milardi, in «Quaderni Storici», XIII,1978, pp. 732-747; A. Caracciolo, Il grande atlante storico che non si fece mai, ivi, XXX,1995, pp. 257-259; per un inquadramento del progetto nel contesto più generale della pro-duzione storico-cartografica italiana ed europea, cfr. ora A. Gardi, Costruire il territorio:l’amministrazione della legazione pontificia di Ferrara nel XVII e XVIII secolo, in Ist. Stor.Italiano per l’Età moderna e contemporanea, Roma, in corso di stampa.

20. Berengo, Cultura e istituzioni, cit.21. M. Infelise, Intellettuali, editori, libri, in Tra Venezia e l’Europa, cit., p. 155; e Ricu-

perati, Marino Berengo e il Settecento, ibid., pp. 37-38; su Intellettuali e librai, cfr. anchePertici, Introduzione, cit.

22. Sui suoi rapporti con Lopez, Berengo sarebbe tornato qualche anno dopo in Lopeze la storia della città, in Il Medioevo degli orizzonti aperti: atti della Giornata di studio per Ro-berto S. Lopez (Genova, 9 giugno 1987), Comune di Genova, Genova 1989, pp. 69-74. Pergli altri profili citati nel testo, oltre ai riferimenti citati supra, nota 11, cfr. Berengo, La ricercastorica di Delio Cantimori, cit.; e Id., Profilo di Gino Luzzatto, «Rivista Storica Italiana»,LXXVI (1964), pp. 879-925.

23. Id., L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra medioevo ed età mo-derna, Einaudi, Torino 1999. Sul libro, uscito pochi mesi prima della morte di Berengo, cfr.soprattutto Chittolini, «L’Europa delle città», cit., pp. 105-127; Id., Il tema della città, cit.,pp. 80-89; E. Fasano Guarini, «L’Europa delle città» di Marino Berengo: l’opera e lo storico,in «Società e Storia», 92 (2001), pp. 313-326; A. Pastore, Le «minoranze» e il «controllo so-ciale»: due nodi di storia sociale della città, ibid., pp. 327-337; P. Lanaro, «L’Europa dellecittà»: una riflessione, ibid., pp. 333-337; E. Brambilla, La città e i chierici, ibid., pp. 339-343;G. De Sandre Gasparini, Istituzioni e vita religiosa: considerazioni di un medievista, ibid., pp.345-351; e Amelang, L’Europa delle città, cit.

24. Berengo, Nobili e mercanti, cit., p. 3. 25. Ibid.26. Ibid.27. Ibid., pp. 4-5: «a me cioè premeva studiare sul piano europeo come si fosse vissuti

nella cerchia delle mura o di un loro sostituto (mare, fiume o rilievo naturale che fosse),comprendere perché dalle campagne l’inurbamento non si fosse mai fermato, e queste città

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abbiano chiuso costantemente i loro bilanci demografici in positivo».28. Cfr. Fasano Guarini, «L’Europa delle città», cit., pp. 313-315; e Chittolini, Il tema

della città, cit., pp. 57-64.29. Sul significato della locuzione per la generazione di Berengo, vedi ibid., pp. 59-64; e

A. Ventura, Marino Berengo: classi dirigenti e storia sociale, in «Contemporanea», IV (2001),n. 2, pp. 346-351.

30. Cfr. M. Mirri, La storiografia italiana nel secondo dopoguerra fra revisionismo e no, inFra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macry, A. Massafra,il Mulino, Bologna 1994, pp. 32-33 e 96-97; e più in generale Id., Dalla storia dei «lumi» edelle «riforme» alla storia degli «antichi stati italiani», primi appunti, in Pompeo Neri, Attidel colloquio di studi di Castelfiorentino (6-7 maggio 1988), a cura di A. Fratoianni, M.Verga, Soc. Storica della Valdelsa, Castelfiorentino 1992, pp. 401-540. Quanto alla fortunadel Settecento nel dibattito storiografico del dopoguerra, cfr. A. De Francesco, L’ombra diBuonarroti. Giacobinismo e Rivoluzione francese nella storiografia italiana del dopoguerra,in «Storica», 1999, n. 15, pp. 1-67; Vivanti, Gli ebrei veneti, cit., pp. 141-143; e G. Ricupe-rati, Marino Berengo e il Settecento, in Tra Venezia e l’Europa, cit., pp. 19-36.

31. Cfr. B. Zevi, Biagio Rossetti architetto ferrarese. Il primo urbanista moderno europeo,Einaudi, Torino 1960, pp. 557-687(poi ripubblicato senza appendice con il titolo Saper ve-dere l’urbanistica. Ferrara di Biagio Rossetti, la prima città moderna europea, Einaudi, Torino1971). Il contributo di Berengo è menzionato da Zevi stesso nei «Riconoscimenti» finali (p.727), dove ricorda l’invito del sindaco di Ferrara a allestire una mostra in occasione del 440°anniversario della morte di Biagio Rossetti, nel 1955: «dedicai il mio corso al maestro fer-rarese, mentre gli allievi del primo anno rilevarono vari monumenti, e quelli del secondo,con la guida del mio assistente dott. Giuseppe Mazzariol, svolsero indagini documentate inuna serie di tesine. Contemporanemente, con l’ausilio del dott. Marino Berengo, furonoiniziate le ricerche d’archivio nella Biblioteca Estense di Modena».

32. Nell’ultimo periodo della sua vita Berengo avrebbe espresso più volte il desiderio ditornare a occuparsi di storia ferrarese: di questi suoi interessi rimane traccia nel suo ultimoe incompiuto lavoro sulla Devoluzione di Ferrara (1598), destinato a una miscellanea distudi in onore di Maria Francesca Tiepolo e pubblicato ora per la prima volta in appendicea questo volume.

33. Sulla scelta di studiare Lucca, cfr. anche Chittolini, Il tema della città, cit., pp. 64-67.34. Sulla fortuna del tema della città e dei relativi ceti dirigenti nella storiografia italiana

a cavallo fra Otto e Novecento, cfr. M. Vallerani, La città e le sue istituzioni. Ceti dirigenti,oligarchia e politica nella medievistica italiana del Novecento, in «Annali dell’Istituto StoricoItalo-Germanico in Trento», XX (1994), pp. 165-230.

35. Sugli echi autobiografici del Profilo di Gino Luzzato, cfr. Chittolini, Il tema della città,pp. 68-69; e Pertici, Introduzione, cit., p. 20. Sulla figura di Gino Luzzatto, cfr. ora Gino Luz-zatto storico dell’economia, tra impegno civile e rigore scientifico, Atti del Convegno di Studi(Venezia, 5-6 novembre 2004), a cura di P. Lanaro, «Ateneo Veneto», s. III, CXCII, 4/1(2005); e Ead., Luzzatto, Gino, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Roma 2006,LXIV, pp. 735-740.

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36. M. Berengo, Profilo di Gino Luzzatto, «Rivista Storica Italiana», LXXVI (1964), pp. 888.37. Ibid., pp. 887-895. Per il riferimento ad Anzilotti, se ne vedano gli studi raccolti in

Movimenti e contrasti per l’unità italiana, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1964.38. Cfr. «Urbanistica», XXIII (1954), n. 12 (numero monografico dedicato a Firenze);

«Urbanistica», XXIII (1954), n. 14 (numero monografico dedicato a Venezia); «Urbani-stica», XXV (1956), nn. 18-19 (numero monografico dedicato a Milano); e «Urbanistica»,XXVIII (1959), n. 27 (numero monografico dedicato a Roma).

39. Cfr. in particolare L. Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna, Laterza, Bari 1963;e Id., L’architettura delle città nell’Italia contemporanea, Laterza, Bari 1968; quanto a Mum-ford, la traduzione di The City in History. Its Origins, its Transformations and its Prospects(Harcourt, Brace and World, New York 1961) risale al 1963 (La città nella storia, Edizionidi Comunità); mentre The Culture of Cities (Harcourt, Brace and Company, San Diego, NewYork-London 1938) viene tradotto da Enrica e Mario Labò nel 1953 (La cultura delle città,Edizioni di Comunità, Milano 1953; 19992 con un’introduzione di M. Rosso e P. Scrivano,cui si rinvia per un bilancio della ricezione dell’opera nella cultura italiana degli anni ’50-’60 [pp. XXXVII-XVLI], e per i contatti fra Salvemini e Mumford negli Stati Uniti [p. XXXIX]).

40. Si fa qui principalmente riferimento a E. Trincanato, Venezia minore, Il Milione, Ve-nezia 1948; A. Cederna, I vandali in casa, Laterza, Bari 1956; S. Muratori, Studi per un’ope-rante storia urbana di Venezia, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma 1960 (ma già uscito l’annoprecedente in «Palladio», III-IV); G. Samonà, L’urbanistica e l’avvenire delle città negli statieuropei, Laterza, Bari 1959; C. Aymonino, Origini e sviluppo della città moderna, Marsilio,Padova 1965; A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966; e C. Aymonino etalii, La città di Padova; saggio di analisi urbana, Officina, Roma 1967.

41. Cfr. A. Caracciolo, Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale, Edi-tori Riuniti, Roma 1956 (sulla cui influenza si veda cfr. A. Grohmann, Un’opera di fonda-zione, in Alberto Caracciolo. Uno storico europeo, a cura di G. Nenci, Il Mulino, Bologna2005, pp. 109-123); e I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Einaudi, To-rino 1962.

42. Sull’impegno civile di Berengo, che per dieci anni fu anche consigliere comunale aVenezia fra il 1985 e il 1995 (eletto come indipendente nelle liste del PCI), cfr. Brambilla,Marino Berengo, cit.; Chittolini, Il tema della città, cit., pp. 59-64; e Ventura, Ricordo di Ma-rino Berengo, cit.

43. Vedi infra, pp. 00.44. Cfr. M. Berengo, Città e contado in Italia dal XV al XVIII secolo, in «Storia della

città», X (1985), n. 36, pp. 107-112 (infra, pp. 00-00); e Id., La capitale nell’Europa di An-tico Regime, in Le città capitali, a cura di C. de Seta, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 3-15(infra, pp. 00-00).

45. Il Cinquecento, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, Atti del I Congressonazionale di Scienze storiche (Perugia, 9-13 ottobre 1967), Marzorati, Milano 1970, pp.485-501 (qui, pp. 00-00); su questo intervento, cfr. E. Fasano Guarini, Introduzione, in Po-tere e società negli stati regionali italiani del ’500 e ’600, a cura di Ead., Il Mulino, Bologna1978, pp. 9-12; Ead., Centro e periferia, accentramento e particolarismi: dicotomia o sostanza

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degli stati in età moderna?, in Origini dello Stato, processi di formazione statale in Italia framedioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Mohlo, P. Schiera, Il Mulino, Bologna1995, pp. 148-153; e da ultimo Chittolini, Il tema della città, cit., pp. 72-75.

46. Vedi infra, pp. 00-00 (in proposito, si vedano anche le osservazioni di Chittolini, Iltema della città, cit., pp. 72-75; e di E. Fasano Guarini, «Nobili e mercanti nella Lucca delCinquecento» trent’anni dopo, in Per i trent’anni di «Nobili e mercanti», cit., pp. 17-18).

47. Cfr. F. Chabod, Studi di storia del Rinascimento, in Id., Scritti sul Rinascimento, Ei-naudi, Torino 1967, pp. 146-219 (su cui cfr. G. Sasso, Profilo di Federico Chabod, Laterza,Bari 1961, pp. 67-81); e C. Dionisotti, Chierici e laici nella letteratura italiana del primo Cin-quecento, in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Antenore, Padova 1960 (poianche in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967, pp. 55-88).

48. Vedi infra, pp. 00-00.49. Cfr. Berengo, Nobili e mercanti, cit., p. 7.50. Chabod, Studi di storia del Rinascimento, cit., p. 148.51. Vedi infra, pp. 00-00.52. La definizione di Tenenti e Romano come «paladini» della storiografia francese (e so-

prattutto di Braudel) in Italia è di Gaetano Cozzi: cfr. La storia come esperienza umana. Gae-tano Cozzi: sei conversazioni, una lezione inedita, la bibliografia, a cura di M. Folin, A.Zannini, Fondazione Benetton Studi Ricerche/Canova, Treviso 2006, p. 110; sulla tesi della«rifeudalizzazione» come reinterpretazione ‘post-braudeliana’ (per quanto di stretta osser-vanza marxista) della precedente tesi della «decadenza», di matrice gramsciana, cfr. Mirri,La storiografia italiana del secondo dopoguerra, cit., pp. 37-49 e 97. Quanto poi all’insoffe-renza di Berengo nei confronti di «quella che un po’ genericamente chiamava la storiogra-fia delle “Annales”, da lui sentita lontana da ricerche precise, specifiche, legata alla grandetradizione erudita», cfr. anche Vivanti, Ricordo di Marino Berengo, cit., p. 599; oltre allostesso M. Berengo, Italian Historical Scholarship since the Fascist Era, in «Daedalus», C(1971), n. 2, pp. 476-477 (infra, pp. 00).

53. Cfr. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi delSeicento, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma 1958 (poi ripubblicato in Id.,Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Cardo, Venezia1995, pp. 1-245); A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta fra ’400 e ’500, Laterza, Bari1964 (Unicopli, Milano 19932); E. Grendi, Morfologia e dinamica della vita associativa urbana.Le confraternite a Genova fra i secoli XVI e XVIII, in «Atti della Società ligure di storia pa-tria», n.s., V (1965), pp. 239-311; e Id., Un esempio di arcaismo politico: le conventicole nobi-liari a Genova e la riforma del 1528, in «Rivista storica italiana», LXXVIII (1966), pp. 948-968.

54. Sulle matrici risorgimentali – ancor più che gramsciane – della declinazione beren-ghiana del vecchio tema della decadenza italiana nell’età del Rinascimento, cfr. Fasano Gua-rini, Introduzione, cit., p. 16.

55. Vedi infra, pp. 00-00 (con riferimento a R.S. Lopez, La nascita dell’Europa. Secoli V-XIV, Einaudi, Torino 1966, pp. 328-329).

56. Cfr. Vivanti, Ricordo di Marino Berengo, cit., p. 598. 57. M. Berengo, La città di Antico Regime, in «Quaderni storici», IX (1974), n. 27, pp.

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661-692; poi anche in Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, a cura di A. Carac-ciolo, il Mulino, Bologna 1975, pp. 25-54 (infra, pp. 00-00).

58. Vedi infra, pp. 00-00.59. Id., L’Europa delle città, cit., pp. XII-XIII («dagli inizi del XII secolo sino alla guerra

dei Trent’anni» gli spazi urbani furono «il campo privilegiato della convivenza pubblica»,i «poli di animazione e di identità […], in cui la quotidiana frequentazione tra gli uomini èstata più intensa e dove si sono necessariamente costituite le forme organizzative di una vitacollettiva»).

60. Vedi infra, pp. 00-00 (citando R.S. Lopez, The Crossroads Within the Walls, in TheHistorian and the City, a cura di O. Handlin, J. Burchard, MIT Press, Cambridge (Mass.)-London 1963, p. 32).

61. Lopez, Intervista sulla città medievale, cit., pp. 3-23. La formula risaliva a Id., Le cittàdell’Europa post-carolingia, in I problemi comuni dell’Europa post-Carolingia, Spoleto, Cen-tro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1955, pp. 547-548 («la città […] divenne per gradiuno stato d’animo, un fatto di coscienza»), per quanto la si ritrovi già nella letteratura so-ciologica degli anni ’20 (cfr. R.E. Park - E.W. Burgess - R.W. McKenzie, The City, ChicagoUniv. Press, Chicago 1925, p. 1: «the city is a state of mind, a body of customs and tradi-tions, and of unorganized attitudes and sentiments tha inhere in those customs and are tran-smitted whith this tradition»). Sull’argomento, si veda successivamente anche R. Bordone,Uno stato d’animo. Memoria del tempo e comportamenti urbani nel mondo comunale ita-liano, Firenze Univ. Press, Firenze 1992.

62. «Se, all’inizio abbiamo rinunziato a ricercare una definizione complessiva in questoe quello Stato e società del concetto di città, per inseguire sul filo del distinguo cosa la ren-deva tale e le dava forza e significato, sulla constatazione della consapevolezza politica deicontemporanei ci possiamo, come unica conclusione generale, arrestare» (infra, pp. 00).L’idea, dunque, precorre l’Intervista a Lopez di una decina d’anni, a differenza di come poiavrebbe ricordato lo stesso Berengo nell’Introduzione a L’Europa delle città («alcuni anni orsono ebbi modo di fare un’intervista sulla città medievale a Roberto Sabatino Lopez […] erimasi a tutta prima sconcertato dal suo convincimento che è l’autocoscienza dei suoi abi-tanti a rendere tale una città. Eccepire su questa, come su tutte le definizioni, era facile; enon mancai di farlo. Ma debbo riconoscere che questa mi appare oggi come una linea giu-sta, la migliore da seguire»: p. XIII).

63. Cfr. A. Momigliano, Studi biblici e studi classici, in La storiografia greca, Einaudi, To-rino 1982, p. 338 (poi anche in Pagine ebraiche, a cura di S. Berti, Einaudi, Torino 1987,pp. 6-7).

64. Infra, pp. 00-00.65. Il riferimento era a C. Cattaneo, Ricerche sul progetto di una strada di ferro da Milano

a Venezia (1836), ora in Scritti economici, a cura di A. Bertolino, Le Monnier, Firenze 1956, I,p. 117.

66. Infra, p. 00-00.67. Infra, pp. 00-00.68. F. Braudel, Civilisation matérielle, economie et capitalisme, XVe-XVIIIe siècle, I, Les

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structures du quotidien, A. Colin, Paris 1979 (1967), pp. 423-424.69. Cfr. G. Chittolini, «Quasi-città». Borghi e terre in area lombarda nel tardo medioevo,

in «Società e Storia», XIII (1990), n. 47, pp. 3-26 (poi anche in Id., Città, comunità e feudinell’Italia centro-settentrionale [secoli XIV-XVI], Unicopli, Milano 1996, pp. 85-104).

70. Vedi infra, pp. 00-00.71. Sulla polemica con Braudel, ricorrente già in Nobili e mercanti (cfr. per esempio p.

356, sul banditismo), vedi supra, nota 52.72. Infra, pp. 00-00.73. Cfr. A. Anzilotti, Il tramonto dello Stato cittadino, in Movimenti e contrasti per l'unità

italiana, a cura di A. Caracciolo, Giuffré, Milano 1964, pp. 33-67. 74. Infra, pp. 00-00.75. Infra, pp. 00-00 (con riferimento a B. Bennassar, Valladolid au siècle d’or. Une ville

de Castille et sa campagne au XVI siecle, Mouton, Paris-La Haye 1967).76. Vedi infra, pp. 00-00.77. M. Berengo, Patriziato e nobiltà: il caso veronese, in «Rivista Storica Italiana»,

LXXXVII (1975), pp. 493-517 (poi anche in Potere e società, cit., pp. 191-213; e infra, pp.00-00). Il libro recensito da Berengo era G. Borelli, Un patriziato della terraferma veneta traXVII e XVIII secolo. Ricerche sulla nobiltà veronese, Giuffré, Milano 1974 (Biblioteca dellarivista «Economia e Storia», s. II, n. 6).

78. Sull’uso di queste categorie da parte di Berengo, cfr. C. Donati, Nobiltà e coscienzanobiliare nell’Italia del Cinquecento, in Per i trent’anni di Nobili e mercanti, cit., pp. 55-58;vedi anche supra, nota 52.

79. Infra, pp. 00-00.80. Infra, pp. 00-00.81. Cfr. fra l’altro Fasano Guarini, Introduzione, cit., pp. 31-32; C. Donati, Scipione Maf-

fei e la Scienza chiamata cavalleresca. Saggio sull’ideologia nobiliare al principio del Settecento,in «Rivista Storica Italiana», XC (1978), n. 1, pp. 30-71; Patriziati e aristocrazie nobiliari, acura di C. Mozzarelli, P.A. Schiera, Il Mulino, Trento 1978; Signori, patrizi, cavalieri in Ita-lia centro-meridionale nell’età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Laterza, Roma-Bari 1992;A.A. Smith, II successo sociale e culturale di una famiglia veronese del Cinquecento, in Den-tro lo «Stado italico». Venezia e la Terraferma fra Quattro e Seicento, a cura di G. Cracco, M.Knapton, Gruppo culturale Civis-Biblioteca Cappuccini, Trento, 1984, pp. 139-157; E.Stumpo, I ceti dirigenti in Italia nell’età moderna. Due modelli diversi: nobiltà piemontese epatriziato toscano, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di A. Ta-gliaferri, Del Bianco, Udine 1984, pp. 153-155; G. Borelli, Il patrizio e la villa, in Villa Pin-demonte a Isola della Scala, a cura di B. Chiappa, A. Sandrini, Banca Agricola Popolare,Cerea 1987, pp. 13-19; P. Lanaro Sartori, Un’oligarchia urbana nel Cinquecento veneto: isti-tuzioni, economia, società, Giappichelli, Torino 1992, pp. 21-31, 210-217. Più in generale,sulla scia delle intuzioni berenghiane, cfr. soprattutto C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia,secoli XIV-XVIII, Laterza, Roma-Bari 1988.

82. Lanaro Sartori, Un’oligarchia urbana, cit., pp. 21-31, 193-200 e 210-217.83. Cfr. Lopez, Intervista sulla città medievale, cit., pp. 63-72: «a me» – scriveva Berengo

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– «serve molto il concetto di patriziato, e mi è tanto familiare che scriverlo con la minuscolanon lo sminuisce ma mi semplifica le cose. E perché mi serve? Perché nelle città comunalie tardo comunali si ricorreva a designazioni locali diversissime di un ceto dirigente fattosiaristocratico ed ereditario […]; ‘patriziato’ mi risparmia una faticosa ricerca di una parolaunica e corrente che serva da definizione comune. I cittadini tedeschi del Quattro e del Cin-quecento sapevano del resto molto bene, erano certi di non sbagliare, quando distinguevanoun nobile mediato o un nobile territoriale da un patrizio urbano. E questi cittadini dellaclasse dirigente molte volte, e anche con secolare insistenza, ricorrendo a istanze giudizia-rie e alla mediazione imperiale, chiedevano il riconoscimento di titoli nobiliari. Ma i nobilinon volevano sedere accanto a loro; sapevan benissimo che cosa li distinguesse; non eran di-sposti a cancellare dalla loro memoria quanto diversa fosse la loro origine» (p. 66).

84. Donati, Nobiltà e patriziati, cit., p. 52.85. M. Berengo, Foscolo e il mito del patriziato, in Lezioni sul Foscolo, La Nuova Italia,

Firenze 1981, pp. 11-20 (infra, pp. 00-00). La lettera a Giovio si trova in U. Foscolo, Epi-stolario, II, Luglio 1804-dicembre 1808, a cura di P. Carli, Le Monnier, Firenze 1952 (Edi-zione Nazionale delle opere di Ugo Foscolo, 15), p. 476.

86. Vedi infra, pp. 00-00.87. In Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a c. di P. Macry, A.

Massafra, il Mulino, Bologna 1994, pp. 517-528; infra, pp. 00-00.88. Infra, pp. 00-00.89. Infra, pp. 00-00.90. Infra, pp. 00-00.91. Infra, pp. 00-00.92. M. Berengo, Città e contado in Italia dal XV al XVIII secolo, in «Storia della città»,

X (1985), n. 36, pp. 107-112 (infra, pp. 00-00).93. Infra, pp. 00-00 (il riferimento è ad Anzilotti, Il tramonto dello Stato cittadino, cit.; e

a C. Cattaneo, Sulla legge comunale e provinciale, in Id., Scritti politici, a cura di M. Bone-schi, Le Monnier, Firenze 1965, IV, pp. 414-440).

94. Pubblicato in Le città capitali, a cura di C. de Seta, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 3-15 (infra, pp. 00-00).

95. Questi spunti hanno poi aperto un intero filone di ricerca sulle matrici cittadine, co-munali, degli assetti territoriali italiani: in una ricchissima bibliografia, cfr. in particolare G.Chittolini, Organizzazione del territorio e distretti urbani nell’Italia del tardo Medioevo, inL’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII-XIV, a cura di Id., D. Willo-weit, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 7-26; Fasano Guarini, Centro e periferia, cit.; e G.M. Va-ranini, Governi principeschi e modello cittadino di organizzazione del territorio nell’Italia delQuattrocento, in Principi e città alla fine del Medioevo, a cura di S. Gensini, Pacini, Pisa1996, pp. 95-127; da ultimo, mi sia consentito rinviare anche a M. Folin, Rinascimentoestense. Politica, cultura, istituzioni di un antico Stato italiano, Laterza, Roma-Bari 2001.

96. Infra, pp. 00-00.97. Infra, pp. 00-00.98. Apparentemente, la prima ricorrenza del distinguo ‘capitale’/‘dominante’ appare

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nell’Intervista sulla città medievale e sembra imputabile a Lopez: «in nessun paese quest[apersistenza della struttura e della natura originaria di una città divenuta capitale] si avvertecome nell’Italia centro settentrionale dove, a eccezione del Piemonte, gli stati territoriali sisono formati coll’espansione di un comune fattosi egemone e dominante su quelli conter-mini e più deboli. Venezia e Firenze divengono capitali in un modo del tutto particolare, oquanto meno affatto diverso dal modello delle monarchie occidentali: sono, come formal-mente le denominano i loro cancellieri, città dominanti e signorie. E governano i loro staticon la logica del governo urbano» (pp. 99-100).

99. Infra, pp. 00-00.100. Infra, pp. 00-00.101. Si fa qui riferimento a A. Gramsci, Il Risorgimento (1949), Einaudi, Torino 1974,

pp. 9-10; e a P. Gobetti, La Rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Europa (1924),a cura di E. Alessandrone Perona, Einaudi, Torino 1995, pp. 10-31. Sull’influenza di Gram-sci nella storiografia del dopoguerra, specie in rapporto alla questione della ‘decadenza ita-liana’ nell’età moderna, cfr. Mirri, La storiografia italiana del secondo dopoguerra, cit., pp.37-49; e, con particolare riguardo alla generazione di normalisti di cui faceva parte Berengo,Id., Fra Vicenza e Pisa: esperienze morali, intellettuali e politiche di giovani negli anni ’40, inIl contributo dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore alla lotta antifascista edalla guerra di Liberazione, Atti del Convegno (24-25 aprile 1985), a cura di F. Frassati, Giar-dini, Pisa 1989, pp. 371-396. Sul peso dei Quaderni del carcere per Berengo (che ne sotto-lineava l’importanza per la propria generazione in Italian Historical Scholarship, cit., pp.474-475; infra, pp. 00-00), cfr. Brambilla, Marino Berengo, cit., pp. 332-334; Chittolini, Iltema della città, cit., pp. 60-63; e Ventura, Marino Berengo, cit.

102. Infra, pp. 00-00.103. Gli atti del convegno sono stati pubblicati dapprima su «Quaderni Storici», IX

(settembre-dicembre 1974), n. 27; e poi ristampati con poche varianti (ma con una nuovaintroduzione), con il titolo Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, cit.

104. Vedi infra, pp. 00-00. Quanto al ruolo fondamentale svolto da Harold Dyos neldibattito internazionale di quegli anni, cfr. A Conversation with H.J. Dyos: Urban Historyin Great Britain, in «Journal of Urban History», V (1979), pp. 469-500; e S.J. Mandel-baum, H.J. Dyos and British Urban History, in «The Economic History Review», n.s.,XXXVIII (1985), n. 3, pp. 437-447, con la bibliografia ivi citata. Lo stesso convegno diSorrento nasceva dichiaratamente sulla scia del successo ottenuto da un analogo incon-tro promosso qualche anno prima da Dyos a Leicester, nel 1967 (cfr. The Study of UrbanHistory, a cura di H.J. Dyos, Arnold, London 1968), definito da Lando Bortolotti comeil vero e proprio «atto di fondazione della storiografia urbanistica a livello internazio-nale» (Architetti, urbanisti e storia urbana: qualche riflessione, in «Storia Urbana», VIII[1984], n. 26, p. 122).

105. Caracciolo, Introduzione, in Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, cit.,p. 19 (corsivo mio). Sul ruolo ‘fondatore’ di Caracciolo per lo sviluppo della storia urbanain Italia, cfr. Grohmann, Un’opera di fondazione, cit.

106. «Circola già qui, e forse con speciale evidenza nelle pagine di Berengo, un approc-

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cio metodologico caratteristico: quello che dallo studio della demografia e della forma ur-bana procede continuamente verso l’analisi delle differenziazioni di classe, delle stratifica-zioni sociali, delle espressioni istituzionali derivanti da determinati rapporti sociali»(Caracciolo, Introduzione, cit., p. 19).

107. Leit motives entrambi, sin da allora, nei discorsi dei cultori di storia urbana di qual-siasi latitudine: cfr. per esempio Editorial, in «Urban History Yearbook», I (1974), pp. 7-8;e A. Caracciolo, Urban history e progresso delle ricerche su Roma capitale, premessa alla se-conda edizione di Roma capitale, cit.

108. La citazione è tratta da P. Villani, Un convegno di lavoro sulla storia della città, in«Quaderni Storici», IX (settembre-dicembre 1974), n. 27, pp. 657-658.

109. Caracciolo, Introduzione, cit., p. 10.110. Ibid., pp. 11-13 («è nostra precisa impressione che il dominio, in tempi recenti,

della sfera e della categoria di stato […] abbia contribuito a far perdere di vista sempre più,nell’analisi del passato, quei caratteri che allora più contribuivano a dar senso e unità a unterritorio, cioè a una società strutturata in un certo ambito piuttosto che in un altro. […]Tutta la mentalità, la prassi moderna, nata dall’affermazione del razionalimsmo e dalla di-visione del momento statuale da quello sociale, si muove in questa direzione, che è di rela-tiva ‘indifferenza’ nel sezionamento territoriale»).

111. Cfr. R. Martinelli, L. Nuti, [Introduzione], in La storiografia urbanistica, cit., pp. 6-8. 112. Cfr. P. Pierotti, Gli studi di Storia urbanistica nell’ambito delle discipline storico-ar-

chitettoniche e storico-artistiche in Italia durante il secondo dopoguerra, ivi, p. 110.113. Ibid., p. 121 («la storiografia liberale, che pone la propria attenzione soprattutto

sulle motivazioni economiche e sociali, è utile per un’analisi marxistica che si ponga il pro-blema dei rapporti di produzione […], ma la storiografia di ispirazione etico-politica e diideologia cattolico-mazziniana, pur legata a temi di tutto rispetto come quelli delle libertàindividuali e collettive o delle lotte di religione, non potrà essere usata sullo stesso piano»).

114. Al di là dei «gravi motivi» che avevano impedito a Caracciolo di essere personal-mente presente al convegno, il tema stesso della sua relazione, letta in absentia, sembra quasiscelto apposta per rimarcare la fisiologica arretratezza del panorama italiano di fronte allesfide metodologiche poste dalle tendenze più avanzate della storiografia internazionale (A.Caracciolo, La storia delle città italiane in epoca moderna attraverso le grandi opere colletta-nee, in La storiografia urbanistica, cit., pp. 195-199).

115. Cfr. G. Fasoli, Storia urbanistica e discipline medievistiche, ivi, pp. 155-165; sul temadei rapporti fra la medievistica italiana e la storia urbana europea, cfr. anche R. Bordone, Sto-ria urbana e città medievale: prospettive di ricerca, in La storiografia contemporanea. Indirizzie problemi, a cura di P. Rossi, Saggiatore, Milano 1987, pp. 303-321.

116. Per una rassegna dei rapporti fra storia economica e storia urbana – che in queglianni ebbero un importante punto di snodo nel convegno Investimenti e civiltà urbana. SecoliXIII-XVIII, Atti della IX Settimana di studi dell’Istituto Internazionale di Storia Economica«F. Datini» (Prato, 22-28 aprile 1977), a cura di A. Guarducci, Le Monnier, Firenze 1989) –,cfr. ora A. Grohmann, L’edilizia e la città. Storiografia e fonti, in L’edilizia prima della Rivolu-zione industriale, secoli XIII-XVIII, Atti della XXXVI Settimana di Studi dell’Istituto Inter-

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nazionale di Storia Economica «F. Datini» (Prato, 26-30 aprile 2004), a cura di S. Cavacioc-chi, Le Monnier, Firenze 2005, pp. 109-136; e più in generale Id., La storiografia economicarelativa all’età medievale in Italia, in Due storiografie economiche a confronto: Italia e Spagnadagli anni ’60 agli anni ’80, Atti della Tavola rotonda di Torino (17-18 novembre 1989), a curadi Id., Giuffrè, Milano 1991, pp. 74-125; Spazio urbano e organizzazione economica nell'Europamedievale: atti della session C23, Eleventh International economic history congress (Milano, 12-16 settembre 1994), a cura di Id., ESI, Napoli 1994; e Id., Potere e spazio urbano nell’Italia delRinascimento, in Il governo della città. Modelli e pratiche (secoli XIII-XVIII), a cura di A. Bar-toli Langeli, V.I. Comparato, R. Sauzet, ESI, Napoli 2005, pp. 171-203.

117. Perché una rivista di storia urbana, in «Storia Urbana», I (1977), n. 1, p. 5 (cfr. anchep. 45: «oggetto degli studi che proponiamo è la crescita urbana nel nostro paese nell’età in-dustriale»).

118. Ibid., p. 3.119. Cfr. C. Carozzi et alii, Gli studi sulle città italiane ed i problemi aperti di storiografia

urbana, in «Storia Urbana», I (1977), n. 1, pp. 33-58. Nella rassegna si citano fra l’altro: F.Reggiori, Milano 188-1943, itinerario urbanistico-edilizio, Edizioni del Milione, Milano 1947;L. Dodi, Urbanistica milanese dal 1860 al 1945, in «Urbanistica», marzo 1956, nn. 18-19; In-solera, Roma moderna, cit; Aymonino et alii, La città di Padova, cit.; L. Bortolotti, Livornodal 1748 al 1958: profilo storico-urbanistico, Olschki, Firenze 1970; L. Gambi, Da città adarea metropolitana, in Storia d’Italia, V, Documenti, Einaudi, Torino 1973, pp. 370-424; e I.Insolera, L’urbanistica, ivi, pp. 426-486; C. Carozzi, A. Mioni, R. Rozzi, Processo di crescitaurbana in un gruppo di città padane (1880-1970), in Dalla città preindustriale alla città del ca-pitalismo, cit., pp. 199-220.

120. H.J. Dyos, The Task of the Urban Historian, in La storiografia urbanistica, cit., pp.27-44 (in particolare p. 36: «the all embracing historical process that we have to understandis that of urbanization itself»); ma cfr. già Editorial, in «Urban History Yearbook», I (1974),pp. 5-7; e H.J. Dyos, Agenda for Urban Historians, in The Study of Urban History, cit., p. 7:«The study of urban history must mean not merely the study of individual communities,fixed more or less in time and space – what micht be called the urban aspect of local history;but the investigation of altogether broader historical process and trends that completelytranscend the life cycle and range of experience of particular communities. I am not sug-gesting that among the agenda for urban historians may be the need to abandon ‘the histo-rical method’ though we could profitably be less precious about it sometimes». Più ingenerale, sulla «local history» inglese e la sua fortuna, cfr. E. Grendi, Storia locale e storiadelle comunità, in Fra storia e storiografia, cit., pp. 321-336.

121. Dyos, The Task of the Urban Historian, cit., pp. 27-44.122. Sulla produzione dello Urban History Group di Leicester, si vedano principalmente

le varie annate dello «Urban History Yearbook», pubblicato dal 1974 sotto la direzione diDyos; per un bilancio sintetico, cfr. P. Burke, Gli studi sulle città in Inghilterra nei secoliXVIII-XIX, in «Quaderni Storici», IX (settembre-dicembre 1974), n. 27, pp. 816-826; eB.M. Stave, Urban History in Britain. A Conversation with Anthony R. Sutcliffe, in «Jour-nal of Urban History», VII (1981), n. 3, pp. 335-379. Quanto alla storiografia urbana in

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Francia negli anniSessanta e Settanta, cfr. F. Bedarida, The Growth of Urban History inFrance. Some Methodological Trends, in The Study of Urban History, cit., pp. 47-60; L. Ber-geron, M. Roncayolo, «De la ville préindustrielle à la ville industrielle». Essai sur l’historio-graphie française, in «Quaderni Storici», IX (settembre-dicembre 1974), n. 27, pp. 827-876;e D. Roche, Urban History in France, in «Urban History Yearbook», VII (1980), pp. 12-22.L’Histoire de la France urbaine è uscita in cinque volumi sotto la direzione generale di Ge-orges Duby (Seuil, Paris 1980-1985).

123. Per i passi citati nel testo, cfr. M. Salmi, J. Mazzei, Premessa, in L’urbanistica dal-l’antichità ad oggi, Sansoni, Firenze 1943, p. VII.

124. C.L. Ragghianti, Pianificazione, urbanistica, architettura, in Il pungolo dell’arte, NeriPozza, Venezia 1956, pp. 274-281.

125. L. Piccinato, La figura dell’urbanista, in Atti del I Convegno nazionale sull’insegna-mento dell’urbanistica, Siena 25-25 novembre 1951, a cura dell’INU, SATET, Roma 1952(«Urbanistica», n. 9 [1952], pp. 64-65; poi anche in Id., Scritti vari: 1925-1974, 1975-1977,s.e., Roma 1977, III, pp. 895-901). Sulla medesima lunghezza d’onda, fra gli altri, è parti-colarmente esplicito Id., Urbanistica: ambiti e prospettive della progettazione, in Enciclope-dia della scienza e della tecnica, Mondadori, Milano 1977, p. 258; poi anche in Id., Scritti vari,cit., III, pp. 1526-1540). Sulla figura di Piccinato, cfr. C. Merlini, Luigi Piccinato. Una pro-fessione per la città e la società, in Urbanisti italiani. Piccinato, Marconi, Samonà, Quaroni,De Carlo, Astengo, Campos Venuti, a cura di P. Di Biagi, P. Gabellini, Laterza, Roma-Bari1992, pp. 23-96. Quanto al ruolo di Giovannoni nel codificare il profilo dell’architetto-ur-banista largamente predominante nella cultura architettonica italiana del Novecento, cfr.G. Zucconi, «Dal capitello alla città». Il profilo dell’architetto totale, in G. Giovannoni, Dalcapitello alla città, a cura di G. Zucconi, Jaca Book, Milano 1997, pp. 9-68.

126. Cfr. Id., La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885-1942), JacaBook, Milano 1989, in particolare pp. 13-16.

127. Pierotti, Gli studi di storia urbanistica, cit., pp. 110-112 e 116-117 («l’Urbanistica èvista in funzione dell’architettura, cioè come organizzazione distributiva degli spazi entro cuisistemare la progettazione edilizia»).

128. Cfr. L’urbanistica dall’antichità ad oggi, cit.; M. Zocca, Sommario di storia urbanisticadelle città italiane, dalle origini al 1860, Liguori, Napoli 1961; M. Morini, Atlante di storiadell’urbanistica (dalla preistoria all’inizio del secolo XX), Hoepli, Milano 1963; P.M. Lugli,Storia e cultura della città italiana, Laterza, Bari 1967; M. Coppa, Storia dell’urbanistica.Dalle origini all’ellenismo, Einaudi, Torino 1968; e P. Sica, L’immagine della città da Spartaa Las Vegas, Laterza, Roma-Bari 1970.

129. Fra gli altri, cfr. M. Pallottini, Introduzione all’urbanistica, Bulzoni, Roma 1963, I,pp. 8-9 («è una notevole conquista recente la presa di coscienza dell’unità degli svolgimentistorici e della necessità di una diretta sistemazione nei medesimi di tutte le discipline […].Storicizzazione dunque dell’urbanistica che per le nostre finalità non può essere intesa senon in termini di ricerca operativa»); Zocca, Sommario di storia urbanistica, cit., pp. 3-7;Morini, Atlante di storia dell’urbanistica, cit. («un invito alla storia, soprattutto per i giovaniche si accingono ad operare l’urbanistica, non sarà lanciato senza frutto se dalla storia si

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vorranno trarre, in campo realizzativo, quegli insegnamenti dei quali anche una creazionenuova non può non tener conto»).

130. Cfr. per esempio P. Marconi et alii, La città come forma simbolica. Studi sulla teoriadell’architettura nel Rinascimento, Bulzoni, Roma 1973.

131. Cfr. Bologna centro storico. Catalogo per la mostra, Bologna 1970; e Interventi neicentri storici. Bologna. Politica e metodologia del restauro, a cura di P.L. Cervellati, R. Scan-navini, il Mulino, Bologna 1973.

132. Pierotti, Gli studi di storia urbanistica, cit., p. 105.133. Ibid., p. 112.134. Cfr. in particolare E. Guidoni, Il Campo di Siena, in «Quaderni dell’Istituto di Sto-

ria dell’Architettura dell’Università di Roma», LXX-LXXII (1965-1966); e Id., Arte e ur-banistica in Toscana, 1000-1315, Bulzoni, Roma 1970.

135. Lo osservava già Gina Fasoli nel suo intervento al convegno lucchese del 1976, sotto-lineando che «gli storici lavorano con un metodo ben preciso: fondano le loro indagini sulla do-cumentazione scritta», astenendosi da «quelle vaste panoramiche diacroniche che affascinanogli urbanisti» (Fasoli, Storia urbanistica e discipline medievistiche, cit., pp. 156-157).

136. «In Italia, come del resto in altri paesi, la storia dell’urbanistica è stata condottafino a ieri guardando alla città sotto un unico aspetto: quello fallace della forma […]. Nél’urbanistica può essere identificata con l’architettura, tout-court: è questa un’altra defor-mazione del pensiero che indugia sul solo aspetto spaziale (Argan, Zevi ed altri) che, puressendo importantissimo, non può concludersi nel fare urbanistico»» (L. Piccinato, Le ori-gini degli studi di storia urbanistica in Italia, in La storiografia urbanistica, cit., pp. 97 e103). Quanto a Tafuri, cfr. soprattutto Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari 1968,pp. 165-197.

137. Tanto per fare un esempio fra i molti possibili, cfr. E. Guidoni, Leonardo da Vincie le prospettive di città. Le vedute quattrocentesche di Firenze, Roma, Napoli, Genova, Milanoe Venezia, Kappa, Roma 2002, con una serie di ipotesi attributive quanto meno azzardate.

138. G. Zucconi, Gli architetti e la storia della città: il contributo italiano, relazione pre-sentata al VII Seminario de Historia da Cidade e do Urbanismo (Salvador, 15-18 ottobre2002), pubblicato in forma digitale all’indirizzo www.storiaurbana.it.

139. In particolare, sinora sono stati organizzati tre grandi convegni con cadenza bien-nale: La città e i suoi limiti (Lecce, ottobre 2004); Patrimoni e trasformazioni urbane (Roma,giugno 2004); La città e le regole (Torino, giugno 2006). Un quarto convegno si terrà a Mi-lano nel febbraio 2009 sul tema La città e le reti.

140. Cfr. soprattutto P. Lanaro, G. Favero, Italy, in Teaching Urban History in Europe.L’enseignement de l’histoire urbaine en Europe, a cura di R. Rodger, D. Menjot, Centre forUrban History, Leicester 2006, pp. 79-86; sul sito www.storiadellacittà.it sono stati censitiuna cinquantina di corsi, due terzi dei quali impartiti in Facoltà di Architettura (35 su 50),i restanti in Facoltà di Lettere e Beni culturali (i dati sono aggiornati al 2002-2003).

141. «A chi e a che cosa può servire fare storia della città e del territorio?» – si poteva chie-dere Lando Bortolotti nel 1979, introducendo il proprio manuale, che pure rappresenta unodei prodotti migliori di quella stagione; e si rispondeva: «Anzitutto agli architetti, agli inge-

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gneri ed urbanisti, ed esperti di scienze ambientali, che nel redigere i piani urbanistici o d’al-tro tipo devono essere in grado di capire come sono sorti i problemi di fronte ai quali oggici troviamo; e più banalmente devono essere in grado di fare i capitoli storici delle relazionidei piani» (L. Bortolotti, Storia, città e territorio, FrancoAngeli, Milano 2002 [1979], p. 8).Completamente diverso l’approccio alla storia urbana che emerge nella manualistica recente:D. Calabi, Storia della città moderna, Marsilio, Venezia 2001; Ead., Storia della città contem-poranea, Marsilio, Venezia 2005; Ead., Storia dell’urbanistica europea. Questioni, strumenti,casi esemplari, BrunoMondandori, Milano 20042; F. Bocchi, M. Ghizzoni, R. Smurra, Storiadelle città italiane. Dal tardoantico al primo Rinascimento, UTET, Torino 2002; cui si puòaggiungere, sul fronte dell’archeologia medievale, G.P. Brogiolo, S. Gelichi, La città nell’altomedioevo italiano, Laterza, Roma-Bari 2003. Esplicite valenze didattiche ha pure la collanadiretta da D. Calabi per Laterza, di cui sono attualmente usciti i volumi seguenti: D. Calabi,La città del primo Rinascimento, 2001; G. Zucconi, La città dell’Ottocento, 2001; E. Con-cina, La città bizantina, 2003; A. Grohmann, La città medievale, 2003; P. Morachiello, Lacittà greca, 2003; C. Conforti, La città del secondo Rinascimento, 2005; B. Secchi, La città delventesimo secolo, 2005; G. Curcio, La città del Settecento, 2008.

142. Caracciolo, Introduzione, cit., p. 10.143. R. Martinelli, L. Nuti, [Introduzione], in La storiografia urbanistica, cit., pp. 5-8.144. Ibid., p. 8.145. Villani, Un convegno di lavoro sulla storia della città, cit., pp. 657-659 («non biso-

gna però tacere gli equivoci cui può dar luogo l’affermarsi come disciplina autonoma, anchese aperta alla interdisciplinarietà, della ‘storia urbana’. Il rischio maggiore è quello di co-struire una specie di storia su misura, in cui il fenomeno urbano viene quasi isolato e stu-diato per se stesso, senza relazione col mutare delle condizioni generali dello sviluppo storicoe con le varie formazioni economico-sociali»); sulla stessa lunghezza d’onda anche Carac-ciolo, che nella Prefazione a Roma capitale scriveva che «la storia delle città appare difficil-mente isolabile da quella di più ampi contesti territoriali, economici, politici, restandopiuttosto un’empirica ripartizione, utile alla delimitazione delle indagini, che non un’au-tentica categoria storiografica» (p. 34).

146. Perché una rivista di storia urbana, cit., p. 3.147. Solo a titolo d’esempio, fra i molti riferimenti possibili, cfr. S. Adorno, Les villes ita-

lienns à l’époque contemporaine. Parcours de lecture à travers les thèmes de l’historiographierécente, in «Urban History Review/Revue d’histoire urbaine», XXXII (2003), n. 1, pp. 15-27; e F. Grandizio, Più spazio alla storia. Una proposta di lettura della città, in «Quaderni Sto-rici», XL (2005), n. 118, pp. 169-202 (nei fatti resta una sensazione di reciproca sordità,che sfocia in ricerche che magari hanno in comune lo stesso oggetto, ma lo studiano dapunti di vista diversi, senza tentare di incrociare i rispettivi risultati»).

148. R. Rodger, D. Menjot, Introduction: Studying an Urban World, in Teaching UrbanHistory, cit., pp. 3-4 («in many contries the study of urban history is still in its infancy [and]disciplinary diversity – history, economics, geography, architecture, sociology, urban plan-ning, art and landscape studies, computing and ecology, to name a few that appear in theauthors’ texts – is still regarded by teachers of urban history a strenght, bringing comple-

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mentary perspectives to bear on the ‘urban variable’. As a cautionary point, however, the in-stitutional structures of universitites determine patterns of delivery in terms of teaching.Consequently, teachers of urban history need to be imaginative in overcoming administra-tive rigidities»).

149. D. Calabi, La storia urbana in Italia, pubblicato in forma digitale sul sito www.sto-riaurbana.it.

150. Dyos, Agenda for Urban Historians, cit., p. 7 («the urban historian cannot remainan historian pur sang for long without running the danger of deserting the problem in frontof him»).

151. Cfr. fra l’altro C. Costantini, Sulla riorganizzazione dei settori scientifico-disciplinari,in «Quaderni Storici», XXX (1995), n. 90, pp. 857-867.

152. Nella fattispecie, il settore Storia dell’architettura (H12X) comprendeva al propriointerno gli insegnamenti di ‘Storia dell’urbanistica’, ‘Storia dell’urbanistica antica e me-dioevale’, ‘Storia dell’urbanistica moderna e contemporanea’, ‘Storia della città e del terri-torio’; ma le medesime materie – pur sotto diciture leggermente diverse – venivanoespressamente nominate anche nei settori di Archeologia medievale (L03D: ‘Storia degliinsediamenti tardoantichi e medievali’); Topografia antica (L04X: ‘Urbanistica del mondoclassico’); Storia medievale (M01X: ‘Storia delle città’); Storia moderna (M02A: ‘Storia dellecittà’); e Storia contemporanea (M04X: ‘Storia della città e del territorio’): in proposito, siveda il DPR del 12 aprile 1994 (ai sensi della Legge del 19 novembre 1990, n. 341: Riformadegli ordinamenti didattici universitari).

153. «I contenuti scientifico-disciplinari riguardano la storia delle attività edilizie e dialtre attinenti alla formazione e trasformazione dell’ambiente (giardini, parchi, paesaggio,città, territorio), in rapporto al quadro politico, economico, sociale, culturale delle varieepoche; gli argomenti storici concernenti aspetti specifici di tali attività, dalla rappresenta-zione dello spazio architettonico alle tecniche edilizie; la storia del pensiero e delle teorie sul-l’architettura; lo studio critico dell’opera architettonica, esaminata nel suo contesto conriferimento alle cause, ai programmi ed all’uso, nelle sue modalità linguistiche e tecniche,nella sua realtà costruita, nei suoi significati» (DM del 4 ottobre 2000; ma cfr. già i DM del26 febbraio 1999 e del 23 dicembre 1999). Qualsiasi riferimento alla città sparisce dalle de-claratorie dei settori M-STO/01, 02, 03 (Storia medievale, moderna e contemporanea), men-tre qualche accenno rimane in Archeologia cristiana e medievale (L-ANT/08: «[…] sioccupa altresì dello studio delle epigrafi cristiane e medievali, nonché degli insediamenti edella topografia medievale»); e in Topografia antica (L-ANT/09: «comprende gli studi sullaorganizzazione antropica degli spazi in età antica con particolare riferimento al mondo clas-sico e ai suoi insediamenti urbani, rurali e viari, anche sommersi, indagati con il sussidio distrumenti e sistemi cartografici antichi e moderni, di fonti letterarie, epigrafiche, iconogra-fiche, archeologiche e monumentali»).

154. Questa, per lo meno, l’ultima proposta elaborata dal CUN (cfr. Parere CUN del6 giugno 2007, «Aggregazioni dei settori disciplinari») e leggibile online all’indirizzo:www.cun.it/Documenti/Delibere/2007/pa_2007_06_06_003.pdf.

155. Berengo, L’Europa delle città, cit., p. XIII.

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156. Id., Profilo di Gino Luzzatto, cit., p. 925.157. Cfr. C. Stajano, La macchina che porta dentro la storia [intervista a M. Berengo], in

«Corriere della Sera», 12 febbraio 1989). 158. «Negli anni ’50 e ’60 si stava introducendo nelle università italiane, e si è poi subito

irrigidita, una netta separazione disciplinare tra Storia medievale e Storia moderna, assaimeno flessibile di quella che nella cultura storica angloamericana delimita la early modernhistory. Le opportunità accademiche – che al termine di una lunga carriera non comportafatica confessare di aver rispettato nella giovinezza – e poi le concrete esigenze didattichemi tennero allora lontano dalla storia comunale e signorile; il cui fascino però mi ha sem-pre vivamente accompagnato. Ad alimentarlo, si è associato in me un certo senso di insod-disfazione di fronte all’intensificarsi nella produzione storica italiana di un sempre piùmarcato specialismo, sia tematico che cronologico» (Berengo, L’Europa delle città, cit., p. XI).

159. «Proprio perché tra le filze d’archivio non si sentiva del tutto a suo agio, Cantimori[…] in archivio spediva i suoi allievi: io fui tra questi, e che ci trovassi tanto gusto da pren-dere poi sin troppo sul serio il suo primo invito, Cantimori non smise poi più di deprecare»,prorompendo un giorno «con scherzosa esasperazione» nella frase riportata nel testo, «dopoun seminario in cui dispacci, processi e catasti erano straripati con prepotenza» (La ricercastorica di Delio Cantimori, cit., p. 942).

160. Sul particolare significato che la categoria di «compilazione» veniva ad assumerenella pratica di ricerca di Berengo, cfr. Brambilla, La città e i chierici, cit., pp. 339-340.

161. Cfr. Lopez, Intervista sulla città medievale, cit., p. 125. Sulla stessa lunghezza d’ondal’introduzione a L’Europa delle città: «riprendendo l’osservazione che la società europea èstata il soggetto primario di questo lavoro, si motiva anche l’assenza di un capitolo “urba-nistico”. La forma urbis, che si è disegnata e viva via trasformata nelle varie nazioni, rimanefuori dal mio quadro: i tempi della “interdisciplinarietà”, tanto invocati in questi anni, nonsono ancora maturi per me. Altri potrà, meglio di me, scrivere questa così rilevante parte»(p. XIV).

162. Solo a titolo d’esempio, si veda ibid., pp. 173-176 e 626 (sui palazzi comunali e i re-lativi connotati identitari), 822-829 (sull’insediamento urbano degli ordini regolari), 718-720(sui quartieri capitolari), 576-582 (sui quartieri universitari), 488-493 (sui lavoratori edili),400-401, 463, 471-472, 481 e 495 (sulla distribuzione dei diversi gruppi di mestiere nella to-pografia urbana).

163. Si fa qui riferimento soprattutto a E. Poleggi, Strada nuova. Una lottizzazione delCinquecento a Genova, Sagep, Genova 1968; Id., L. Grossi Bianchi, Una città portuale delMedioevo: Genova nei secoli X-XVI, Sagep, Genova 1979; M. Tafuri, Ricerca del Rinasci-mento. Principi, città, architetti, Einaudi, Torino 1992; e E. Concina, Venezia nell’età mo-derna. Struttura e funzioni, Marsilio, Venezia 1989.

164. Vedi infra, pp. 00-00.165. Ibid., pp. XI-XII.166. Cfr. Fasano Guarini, «L’Europa delle città», cit., pp. 317-323.167. Cfr. Braudel, Civilisation matérielle, economie et capitalisme, cit., pp. 453-462.168. D. Herlihy, Società e spazio nella città italiana del medioevo, in La storiografia urba-

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nistica, cit., pp. 174-190 (con riferimento a J.C. Russell, Medieval Regions and their Cities,Indiana Univ. Press, Bloomington 1972).

169. Cfr. P. Rossi, Premessa, in Modelli di città. Strutture e funzioni politiche, a cura di Id.,Einaudi, Torino 1987 (Edizioni di Comunità, Torino 20012, pp. XVIII-XIX); e, più in gene-rale, La storia comparata. Approcci e prospettive, a cura di Id., Saggiatore, Milano 1990.

170. Cfr. Berengo, Profilo di Gino Luzzatto, cit., p. 903; quanto alle opere menzionate neltesto, ci si riferisce a E. Ennen, Fruhgeschichte der europäischen Stadt, Rohrscheid, Bonn1953; Ead., Die europäische Stadt des Mittelalters, Vandenhoeck-Ruprecht, Göttingen 1972(tr. it. Laterza, Roma-Bari 1975); L. Benevolo, Storia della città, Laterza, Roma-Bari 1975;P. Bairoch, Taille de villes, conditions de vie et développement économique, EHESS, Parisl977; Id., De Jéricho à Mexico. Villes et économies dans l’histoire, Gallimard, Paris 1985 (tr.it. Il fenomeno urbano nel terzo mondo, Harmattan, Torino 1997); J. de Vries, European Ur-banization, 1500-1800, Harvard Univ. Press, Cambridge-London 1984; P.M. Hohenberg,L.H. Lees, The making of Urban Europe, 1100-1950, Harvard Univ. Press, Cambridge-Lon-don 1985 (tr. it. La città europea dal Medioevo ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1987).

171. Berengo, L’Europa delle città, cit., p. 340 (e più estesamente in Id., A proposito diproprietà fondiaria, in «Rivista Storica Italiana, LXXXII [1970], pp. 121-147; e in Id., Aproposito di distribuzione catastale, ibid., pp. 374-386). Sulla diffidenza berenghiana nei con-fronti del «piano inclinato delle definizioni», cfr. anche Chittolini, «L’Europa delle città», cit.,pp. 125-127.

172. Berengo, L’Europa delle città, cit., p. 409. 173. Ibid., p. 772 (con riferimento a J. Le Goff, Apostolat mendiant et fait urbain dans la

France médiévale: l’implantation géographique des ordres mendiants. Programme-question-naire pour une enquête, in «Annales E.S.C.», XXIII [1968], pp. 335-348; e Id., Implantationdes ordres mendiants et fait urbain dans la France médiévale, ibid., XXIV [1969], pp. 833-839).

174. Vedi ibid., p. XII; e infra, pp. 00-00. Quanto al riferimento alle «oscillazioni», sitrova in Id., La ricerca storica di Delio Cantimori, cit., pp. 34-35 («la netta impressione di con-tradditorietà e di incertezza che si ricava studiando il pensiero politico di quasi tutti i mag-giori “giacobini”, nasce proprio da questa nostra tendenza a riportare una pubblicisticaricca d’immediatezza e d’oscillazioni entro troppo nitidi schemi teorici»).

175. Vedi infra, pp. 00-00.176. Vedi infra, pp. 00-00.177. Sul mutare del «clima» cittadino nell’Italia del tardo Cinquecento, cfr. Berengo,

Nobili e mercanti, cit., p. 454; con il relativo commento di Donati, Nobiltà e coscienza no-biliare, cit., pp. 51-55.

178. Vedi infra, pp. 00-00.179. Vedi infra, pp. 00-00.180. G. Luzzatto, Per un programma di lavoro, in «Rivista di Storia Economica», I

(1936), p. 184. 181. Ibid., p. 185 («appunto perché quei voli d’aquila non sono permessi che a pochi pri-

vilegiati, perché anche nel campo degli studi storici la divisione del lavoro si presenta comeuna necessità imprescindibile, lo sforzo dev’essere quello di attuarla nel modo che dia affi-

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Marco
Font monospazio

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damento della maggiore approssimazione possibile alla realtà. Questa approssimazione sipuò forse raggiungere nel modo migliore limitando il campo di osservazione nel tempo enello spazio ed estendendola invece a tutte le manifestazioni della vita economica»).

182. Ibid., p. 198.183. Berengo, Profilo di Gino Luzzatto, cit., pp. 915-916.184. Cfr. Id., Italian Historical Scholarship, cit., p. 477 (infra, pp. 00-00), echeggiando

Luzzatto, Per un programma di lavoro, cit., pp. 195-196: «io ho molti dubbi sulla possibilitàdi estendere alla ricerca storica il metodo del lavoro collettivo, adottato con fortuna in al-cune scienze sperimentali e nelle indagini statistiche e propugnato nella solita forma sug-gestiva dal Febvre in un recente articolo della “Révue de Synthèse” […]. Un tale metodo,che può essere utile per indagini di carattere sociologico, in cui si ricercano più le somi-glianze che le diversità, male si adatterebbe alla vera ricerca storica, che dev’essere stretta-mente individuale». Quanto a Luigi Einaudi, se ne veda la replica a Luzzatto sullo stessonumero della «Rivista di Storia Economica», I (1936), pp. 199-200.

185. In proposito, cfr. Chittolini, «L’Europa delle città», cit., pp. 110-115; e Fasano Gua-rini, «L’Europa delle città», cit., pp. 315-316.

186. «La ville est un phénomène total, où se condensent l’économique et le social, le po-litique et le culturel, le technique et l’imaginaire, et, partant, toute approche fracionnée quiprivilégierait un domaine unique aux dépens des autres manquerait de pertinence» (J.L.Pinol, Introduction générale, in Histoire de l’Europe urbaine, a cura di Id., I, De l’Antiquitéau XVIIIe siècle. Genèse des villes européennes, Seuil, Paris 2003, pp. 7-8).

187. G. Espinas, De l’horreur du général: une déviation de la méthode érudite, in «An-nales. ESC», VI (1934), n. 4, pp. 365-368.

188. Pinol, Introduction générale, cit., p. 12 (rinviando fra le righe a B. Lepetit, La ville:cadre, objet, sujet. Vingt ans de recherches françaises en histoire urbaine, in «Enquête, an-thropologie, histoire, sociologie», IV [1996], pp. 11-34).

189. «Non appena ci accostiamo a una città per respirarne il clima e distinguere le formedella vita che vi si svolge, siamo colti da una folla di quesiti; e il primo cui sentiamo di doverfornire una risposta è di natura politico-istituzionale. Chi la governa, o meglio e più speci-ficamente, come vi viene esercitato il potere?» (Berengo, L’Europa delle città, cit., p. 3; sucui cfr. Chittolini, «L’Europa delle città», cit., pp. 113-114).

190. Amelang, L’Europa delle città, cit., p. 759 (corsivo mio). Sul tema della forte passionecivile di Berengo, ben presente a chiunque l’abbia conosciuto, si vedano fra l’altro i riferi-menti citati supra, nota 42.

191. J.W. Goethe, Massime e riflessioni, TEA, Milano 1988, p. 222.

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NOTA AL TESTO

Si ringraziano le riviste e le case editrici che hanno autorizzato la pubblicazione dei saggicontenuti in questo volume.

I. ASSETTI POLITICI

1. La città di Antico Regime: originariamente uscito in «Quaderni storici», IX (1974), n.27, pp. 661-692; poi anche in Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, a cura di A.Caracciolo, Il Mulino, Bologna 1975, pp. 25-54.

2. Città italiana e città europea: spunti comparativi: originariamente uscito in La demo-grafia storica delle città italiane, Atti del Convegno (Assisi, 27-29 ottobre 1980), Clueb, Bo-logna 1982, pp. 3-19.

3. Città e contado in Italia dal XV al XVIII secolo: originariamente uscito in «Storia dellacittà», X (1985), n. 36, pp. 107-112.

4. La capitale nell’Europa di Antico Regime: originariamente uscito in Le città capitali, acura di C. de Seta, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 3-15.

II. PATRIZIATI E NOBILTÀ

5. Patriziato e nobiltà: il caso veronese: originariamente uscito in «Rivista Storica Italiana»,LXXXVII (1975), pp. 493-517; poi anche in Potere e società negli stati regionali italiani del ’500e ’600, a cura di E. Fasano Guarini, Il Mulino, Bologna 1978 (19952), pp. 191-213.

6. Foscolo e il mito del patriziato: originariamente uscito in Lezioni sul Foscolo, La NuovaItalia, Firenze 1981, pp. 11-20.

7. Ancora a proposito di patriziato e nobiltà: originariamente uscito in Fra storia e storio-grafia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macry,A. Massafra, il Mulino, Bolo-gna 1994, pp. 517-528.

III. LA ‘DECADENZA’ DELLA CITTÀ

8. Il Cinquecento nella storiografia italiana del Dopoguerra: tratto da Il Cinquecento, in Lastoriografia italiana negli ultimi vent’anni, Atti del I Congresso nazionale di Scienze stori-che (Perugia, 9-13 ottobre 1967), Marzorati, Milano 1970, pp. 485-501.

9. Stato moderno e corpi intermedi: originariamente uscito negli atti della tavola rotondaconclusiva del seminario su Le origini dello Stato moderno in Italia, secoli XIV-XVI (Chicago,26-29 aprile 1993), in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XX, 1994, pp.233-237; e poi in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra Medioevo ed Etàmoderna, a cura di G. Chittolini, T. Molho, P. Schiera, Il Mulino, Bologna 19972, pp. 633-638.

IV. APPENDICE: UN TESTO RARO E UN INEDITO

10. Italian Historical Scholarship since the Fascist Era: originariamente uscito in «Dae-dalus», C (1971), n. 2, pp. 469-484.

11. La devoluzione di Ferrara nelle fonti veneziane: destinato a un volume in onore diMaria Francesca Tiepolo, scritto nel corso del 1999.

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Marino Berengo nei primi anni Ottanta.

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