Gli indifferenti. I sociologi, Pier Paolo Pasolini, e la modernizzazione dell'Italia

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345 STUDI CULTURALI - ANNO IX, N. 3, DICEMBRE 2012 Gli indifferenti I sociologi, Pier Paolo Pasolini e la modernizzazione dell’Italia di Matteo Bortolini SAGGI La conoscenza non deve a un certo punto cedere il passo all’azione, anche illuminata, bensì determinare l’azione […] Per far questo occorrono nuovi atteggiamenti, nuovi strumenti, nuovi metodi di ricerca, una nuova scienza: la si chiami come si vuole. Alessandro Pizzorno, 1956 Case non ancora finite e già in rovina, cresciute sul dorso di un pendio, senza radici, forsennate al cielo. Roberto Roversi, 1956 1. Introduzione Passando in rassegna i più recenti studi sociologici sulla mafia, Nando dalla Chiesa si interroga sul paradosso di una università che, pur essendo nata dalle riforme post-Sessantotto, è rimasta per lungo tempo assente e indifferente di fronte alle tensioni e ai problemi del Paese. Quando hanno cominciato a occuparsi di mafia, gli scienziati sociali accademici hanno prodotto una «letteratura dimezzata» – caren- te di schemi concettuali, dimentica del suo passato e sorda alle molte suggestioni provenienti dalla letteratura «non scientifica». Scrive dalla Chiesa (2010, 431): Solo una visione asfittica del sapere può legittimare l’idea che si possa co- struire conoscenza e immaginazione su una qualsiasi materia solo nel recinto della cosiddetta «produzione scientifica» […] Sarebbe possibile, ancora, a sociologi e antropologi analizzare il mutamento della società italiana degli anni settanta ignorando gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini? Grazie a Andrea Mubi Brighenti, Luca Carbone, Paolo Costa, Valentina Etzi, Pier Paolo Poggio, Marco Santoro e alla redazione di «Studi culturali» per i suggerimenti. Un ringraziamento speciale va a René Capovin per avermi fatto ragionare ancora una volta: molte delle idee che presento (e almeno un’intera frase) non ci sarebbero senza di lui.

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STUDI CULTURALI - ANNO IX, N. 3, DICEMBRE 2012

Gli indifferentiI sociologi, Pier Paolo Pasolini e la

modernizzazione dell’Italiadi Matteo Bortolini

saGGi

La conoscenza non deve a un certo punto cedere il passo all’azione, anche illuminata, bensì determinare l’azione […] Per far questo occorrono nuovi atteggiamenti, nuovi strumenti, nuovi metodi di ricerca, una nuova scienza: la si chiami come si vuole.

Alessandro Pizzorno, 1956

Case non ancora finitee già in rovina,cresciute sul dorso di un pendio,senza radici, forsennate al cielo.

Roberto Roversi, 1956

1. Introduzione

Passando in rassegna i più recenti studi sociologici sulla mafia, Nando dalla Chiesa si interroga sul paradosso di una università che, pur essendo nata dalle riforme post-Sessantotto, è rimasta per lungo tempo assente e indifferente di fronte alle tensioni e ai problemi del Paese. Quando hanno cominciato a occuparsi di mafia, gli scienziati sociali accademici hanno prodotto una «letteratura dimezzata» – caren-te di schemi concettuali, dimentica del suo passato e sorda alle molte suggestioni provenienti dalla letteratura «non scientifica». Scrive dalla Chiesa (2010, 431):

Solo una visione asfittica del sapere può legittimare l’idea che si possa co-struire conoscenza e immaginazione su una qualsiasi materia solo nel recinto della cosiddetta «produzione scientifica» […] Sarebbe possibile, ancora, a sociologi e antropologi analizzare il mutamento della società italiana degli anni settanta ignorando gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini?

Grazie a Andrea Mubi Brighenti, Luca Carbone, Paolo Costa, Valentina Etzi, Pier Paolo Poggio, Marco Santoro e alla redazione di «Studi culturali» per i suggerimenti. Un ringraziamento speciale va a René Capovin per avermi fatto ragionare ancora una volta: molte delle idee che presento (e almeno un’intera frase) non ci sarebbero senza di lui.

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In realtà, l’opera di Pasolini attira l’attenzione degli scienziati sociali1 da quasi vent’anni. Già nel 1994, in un articolo pubblicato sulla «Rassegna italiana di sociologia» nell’ambito di una monografia su sociologia e letteratura, Franco Sarcinelli sottolinea la lucidità di Pasolini nell’analizzare le trasformazioni della società italiana e ne riconduce gli schemi concettuali a quelli della Scuola di Francoforte. Concentrandosi su Petrolio, Sarcinelli (1994, 221) inquadra la «sin-golare forma di sociologia comprendente di tipo qualitativo» di Pasolini come un originale «ingaggio fisico, un corpo a corpo che diventa un a-priori conoscitivo ed interpretativo dei fenomeni e dei processi sociali». Due anni dopo Franco Cassano (1996, 111, 117-118) dedica allo scrittore friulano un intero capitolo del Pensiero meridiano, e attribuisce la sua capacità profetica a una esperienza «non dialettica della contraddizione» che mantiene, e anzi moltiplica, i contrasti. Nel secondo volume della sua storia della sociologia italiana, dedicato agli anni set-tanta, Filippo Barbano (2003, 107-108) riconosce la fecondità delle anticipazioni di Pasolini sull’«immaturità culturale, politica e sociale» del Paese – un giudizio condiviso da Giulio Sapelli (2005), che dedica alla lettura pasoliniana del neo-capitalismo un intero volume, e da Domenico Perrotta (2008, 131), che evoca Pasolini nell’ambito di una più ampia riconsiderazione della pratica etnografica e dei suoi ambienti extra-scientifici. Da ultimo, Luca Carbone (2011) ricostruisce dal punto di vista dell’«agire sociale come presenza auto-manifestantesi» i mol-teplici percorsi antropologici di Pasolini nell’ambito di un progetto di riscoperta delle «altre sociologie» in cui si discute, oltre che di Gabriel tarde, Karl Popper e Antonio Gramsci, anche di Edmondo De Amicis, Luigi Pirandello, Elias Canetti e Italo Calvino (toscano 2011).

L’unanime apprezzamento di cui gode Pasolini porta a chiedersi come mai i sociologi italiani abbiano tardato tanto a (ri)scoprirlo. Se è vero, come hanno osservato su altri fronti Enzo Golino (1995), Roberto Carnero (2010) e Filippo La Porta (2012), che l’opera di Pasolini è caratterizzata da una fortissima unità tematica e concettuale, già alla fine degli anni cinquanta era possibile intravedere nelle sue poesie, nei romanzi e in una inchiesta come Comizi d’amore – il documentario sulla sessualità girato nel 1963 – quella critica dello «sviluppo senza progresso» e del «Nuovo Potere» che oggi entusiasma i sociologi. Implicita negli scritti di Cas-sano e dalla Chiesa è l’idea che la riscoperta di Pasolini, così come di altri autori «non scientifici», sia resa possibile dalle molteplici svolte culturali, linguistiche ed ermeneutiche di una scienza sociale ormai compiutamente post-positivistica, per la quale la conventio ad excludendum di narrativa civile, letteratura e poe-

1 Naturalmente concentrarsi sui sociologi significa lasciare da parte la quasi totalità dell’immensa letteratura secondaria su Pasolini, tra cui segnalo solo, per vicinanza al mio tema, le note prese di posi-zione di Alfonso Berardinelli (2003; 2008) e le segnalazioni di Enzo Golino (1995) sugli usi occasionali e strumentali dell’opera dello scrittore friulano.

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sia non ha più alcuna ragion d’essere2. Il profondo mutamento delle premesse epistemologiche della scienza sociale spiega l’affollarsi sulle ceneri di Pasolini. D’altronde, ricordano Sarcinelli (1994, 219-220) e Carbone (2011), la dura critica che Franco Ferrarotti aveva rivolto allo scrittore friulano nel contesto dell’ampio dibattito sollevato dagli interventi sulla «rivoluzione antropologica» si basava su una comprensione della disciplina radicalmente diversa da quella condivisa oggi. In un articolo uscito su «Paese sera» nel giugno 1974, Ferrarotti (2008a) aveva denunciato l’abisso tra analisi scientifica e creatività artistica, rivendicando il diritto di rimanere indifferente di fronte alla «nostalgia del vissuto» di Pasolini. Semplificando, il Ferrarotti modernista, scientista e «nordista» si contrapporrebbe a una sociologia post-positivistica e acentrica, capace di combinare paradigmi ermeneutici, postcoloniali e «sudisti» e di cogliere nei saperi non scientifici qual-cosa di più di una suggestione o di un suggerimento.

In questo articolo vorrei inquadrare il rapporto tra i sociologi e Pasolini nei termini di una diversa narrazione, attenta non solo alle idee, ma anche alle loro condizioni strutturali e sistemiche. La tesi è che l’attacco di Ferrarotti allo scrittore friulano – e più in generale l’indifferenza dei sociologi nei confronti di quest’ultimo – riflettesse la più ampia configurazione di convinzioni e condizioni in cui si trovava chi, tra i sostenitori della «nuova sociologia» italiana, persegui-va una strategia di assimilazione alle élite tecnocratiche e modernizzatrici: gli accademici che criticavano o ignoravano3 Pasolini nei primi anni settanta erano quelli che da vent’anni promuovevano a gran voce la «sociologia-scienza» contro la «sociologia-letteratura» – la distinzione ordinatrice è di Alessandro Pizzorno (1956) – difendendo l’autonomia del proprio sapere contro i discorsi e i saperi degli intellettuali impegnati. Poiché le prese di posizione si intrecciano senza soluzione di continuità, e nella maggior parte dei casi senza alcuna strategia cosciente, con le posizioni di chi le enuncia4, è facile interpretare il dibattito come una discussione sulla modernizzazione e le sue conseguenze. Secondo la mia ipotesi, invece, il rifiuto di prendere Pasolini sul serio si inquadra come un episodio, in sé marginale, di un più ampio processo di delimitazione e coagu-lazione che porta la sociologia italiana a espellere tutta una serie di esperienze

2 Scrive infatti Sarcinelli (1994, 219) che «lo statuto scientifico di una scienza sociale come la sociologia è notoriamente discutibile, almeno quanto discutibile la definizione dell’espressione linguistica “statuto scientifico”». La medesima convinzione sta alla base del pensiero meridiano di Cassano (1996).

3 Le due posture potrebbero apparire antitetiche. In realtà, come vedremo, l’atteggiamento infasti-dito dei pochi critici di Pasolini è semplicemente un’estremizzazione dell’indifferenza della maggioranza degli scienziati sociali. Noto incidentalmente che dal punto di vista della sociologia degli intellettuali le premesse sarebbero perfette per un dibattito: gli oggetti sono i medesimi, l’interlocutore è celebre, il suo radicalismo lo rende un bersaglio facile, e i grandi quotidiani su cui avviene la discussione sono vetrine assai appetibili (Collins 2002).

4 Sarà evidente il mio debito teorico nei confronti della sociologia del campo della produzione cul-turale di Pierre Bourdieu, su cui si possono vedere Bourdieu (2005) e Bourdieu (1984) e, più in generale, Bourdieu (1995) e i saggi raccolti in Paolucci (2010).

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di ricerca e a costituirsi in una forma precisa. E se è vero che la storia depositata nella struttura del campo si riflette inevitabilmente sulle idee e le posizioni di chi prende la parola, è da questa forma che dovrebbero prendere le distanze i sociologi di oggi.

2. Pier Paolo Pasolini e l’Italia del neocapitalismo

Rimasti nella memoria collettiva come interventi scandalosi e profetici, gli articoli pubblicati da Pier Paolo Pasolini5 sul «Corriere della Sera» e il «tempo» tra il 1973 e il 1975, poi raccolti in Lettere luterane e Scritti corsari, sono in realtà l’ultima tappa di una lunga e spericolata riflessione sulla storia d’Italia che riprende alcuni dei temi più profondi della poetica pasoliniana (Bellocchio 1999; Siciliano 2005; Baldoni e Borgna 2010; Didi-Huberman 2010; Galli 2010). Pasolini legge i fatti del giorno sullo sfondo di una più ampia interpretazione della modernizzazione che si compendia, e si radicalizza, nell’immagine della «rivoluzione antropologica». Una cornice teorica che combina Marx e Gramsci con Freud permette a Pasolini di evidenziare lo sfasamento tra forme di vita e modelli culturali, per cui il mu-tamento strutturale precede e informa il mutamento culturale, che si attua più lentamente del primo e ne risulta trasfigurato. Il quadro prevede la successione di tre grandi fasi: il mondo contadino, uguale a se stesso per «quattordicimila anni» (Pasolini 1999 [1974], 303); l’epoca «paleoindustriale», teatro di imponenti cambiamenti economici e politici ma non culturali; l’affermarsi del Nuovo potere, che trasforma radicalmente modelli simbolici e visioni del mondo.

La tradizione contadina è per Pasolini (1999 [1974], 320-321) un tutto unico, articolato ma sempre uguale, un residuo rimasto all’interno del tempo nuovo: «L’universo contadino […] è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe tra loro)». È un mondo integrato, le cui strutture di base definiscono una vita «felice e fiera» nella sua ripetitiva immediatez-za. Nella tradizione, così come nel passaggio alla prima modernità, cattolicesimo e cultura contadina appaiono sovrapposti e indistinguibili: «Fino a oggi la Chiesa è stata la Chiesa di un universo contadino, il quale ha tolto al cristianesimo il suo solo momento originale rispetto a tutte le altre religioni, cioè Cristo» (Pasolini 1999 [1974], 359-360). Pur enorme, lo scollamento tra il piano teologico e quello istitu-zionale non impensierisce nessuno: non la Chiesa, che lo utilizza per controllare

5 Citando dall’edizione dei Saggi sulla politica e sulla società, curata da Walter Siti e Silvia De Lau-de per Mondadori, aggiungo tra parentesi quadre l’anno della pubblicazione originale degli interventi di Pasolini per orientare il lettore da un punto di vista cronologico. La raccolta mondadoriana degli scritti politici e sociali di Pasolini (1999), ancorché incompleta e discutibile (Carbone 2011), mette in evidenza la continuità della riflessione del regista già a partire dagli anni cinquanta. Rimando all’appendice di tale edizione per notizie dettagliate, anche se a tratti imprecise, sul dibattito del triennio 1973-1975.

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le masse, ma neppure il contadino, «il cui modo di essere religioso era molto al di qua di tale contraddizione» (Pasolini 1999 [1974], 302).

Al di là della sua costituitiva ipocrisia, il consenso sociale tipico dell’«Italiet-ta paleoindustriale» garantisce un ordine tutto sommato apprezzabile nella sua incapacità di modificare le forme di vita esistenti (Pasolini 1999 [1974], 293). È la continuità con il mondo precedente a spiegare l’ambivalente «nostalgia» che Pasolini (1999 [1974], 461) mostra per il periodo di passaggio fra tradizione e neocapitalismo:

Il popolo è sempre sostanzialmente libero […] Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso di essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria.

Nell’immediata felicità del cascherino, il garzone romano che consegna il pane fischiando e motteggiando, Pasolini (1999 [1974], 330-331) vede l’impertur-babilità delle classi subalterne tradizionali, garantita dalla mancanza di mobilità sociale e, quindi, di competizione con le altre classi. Lo scrittore non guarda con nostalgia all’Italietta (Pasolini 1999 [1974], 319), quanto piuttosto all’«immenso» mondo contadino che persiste sotto il manto ipocrita della prima.

E tuttavia, l’Italietta porta in sé i germi di una più profonda trasformazione, letta da Pasolini (1999 [1975], 407) come «genocidio delle classi subalterne». Lo specchio si incrina nel momento in cui i valori irriflessivi della vita contadina vengono proiettati sulla dimensione, sconosciuta alla tradizione, della nazione mobilitata (Pasolini 1999 [1975], 370-371). Ciò apre la strada a quello che Pasolini (1999 [1973], 281) chiama il Nuovo potere del capitalismo realizzato:

La Borghesia rappresentava un nuovo spirito che non è certo quello fascista: un nuovo spirito che si sarebbe dimostrato dapprima competitivo con quello religioso […] e avrebbe finito poi col prendere il suo posto nel fornire agli uomini una visione totale e unica della vita.

Mediante la produzione del superfluo, l’edonismo e una forma di sviluppo cinica e indiscriminata, il neocapitalismo si è affermato come visione del mondo capillare e comprensiva, che sta sullo stesso piano di quella visione religiosa con cui per tutto il boom economico aveva convissuto in una sorta di tregua interes-sata (Pasolini 1999 [1974], 298). Una volta affermatosi, tuttavia, il neocapitalismo ripudia la Chiesa, la cultura contadina e il decoro piccolo-borghese.

A ciò si accompagna un processo di omologazione tra le classi: borghesi e operai, contadini e sottoproletari emergono ora da una stessa matrice simbolico-segnica, agiscono nello stesso modo e vogliono le stesse cose – anzi, la loro volontà è diventata quella del volere fine a se stesso. Le vecchie distinzioni politiche subiscono un destino analogo: essere comunisti o fascisti diventa

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una scelta astratta, un atto di volontà sradicato e spesso del tutto casuale, uno «schema morto da riempire gesticolando». In una sorta di gioco tragico, la scelta politica non corrisponde più a concrete e reali aspirazioni – è per questo che, nel celebre articolo sui capelli lunghi, Pasolini (1999 [1973], 276 ss.) bolla la «ribellione giovanile» come un simulacro necessario alla piena omologazione. Si tratta di un processo brutale che ha un carattere non solo radicale e definitivo, ma anche disperante:

Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degene-rato, ridicolo, mostruoso, criminale (Pasolini 1999 [1975], 408).

Se è vero che l’Italia è stata unificata davvero solo dal neocapitalismo, e dun-que la tradizione è stata cancellata da un movimento senza precedenti, la nuova cultura resta artificiosa, strumentale, opaca. L’edonismo produce paradossalmente una diffusa e implacabile tristezza. Diversamente dal cascherino romano, i giovani degli anni settanta sono tesi e insoddisfatti, incapaci di cogliere con immediatezza la forma di vita che pure stanno vivendo:

L’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Ora che il modello sociale da realizzare non è più quello della propria classe, ma imposto dal potere, molti non sono appunto in grado di realizzarlo. E ciò li umilia orrendamente (Pasolini 1999 [1974], 330).

Edonismo e consumismo propongono ai subalterni modelli irraggiungibili che ingenerano, per la prima volta, sentimenti di vergogna e inadeguatezza. Ma anche i giovani borghesi, perso l’esempio dei padri, condividono la medesima inerzia esistenziale (Pasolini 1999 [1975], 544-545). Il cambiamento epocale ha cancellato sia i ceti medi cattolici sia il «popolo» come fenomeno dotato di una propria storia arcaica. Oggi, scrive Pasolini (1999 [1975], 547), borghesi e proletari sono ricompresi entro un unico modello di comportamento fondato sul disprezzo della povertà e della sua cultura. Nel celebre capitolo sui giovani infelici che apre le Lettere luterane, lo scrittore riassume la sua idea in una sola frase: «La nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese» (Pasolini 1999 [1975], 547).

3. Coraggio intellettuale o sfogo poetico?

La tesi della rivoluzione antropologica frutta a Pasolini le critiche di amici e nemi-ci: se Alberto Moravia rimprovera allo scrittore di non riconoscere l’importanza delle scelte ideali che distinguono fascisti e antifascisti, il dirigente comunista

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Maurizio Ferrara lo accusa di rifarsi a un «sedimento lombrosiano vagamente razziale». Lucio Colletti e Italo Calvino condannano Pasolini per la sua nostalgia dell’Italietta, mentre il giornalista Andrea Barbato definisce «penoso» il suo declino intellettuale – solo Leonardo Sciascia riconosce un qualche valore alle sue tesi (Siti e De Laude 1999, 1764 ss.; Siciliano 2005, 421 ss.). Un perfetto esempio della reazione del mondo politico e culturale che dovrebbe essergli più vicino è un articolo pubblicato da Fabio Mussi (1974) su «Rinascita» il 28 giugno 1974. Pagato a Pasolini il pegno della libertà artistica, Mussi lo accusa di «voler tradurre le sue curiosità e i suoi liberi scandagli in linguaggio direttamente politico» e ne descrive le tesi come il frutto di vere e proprie ossessioni. L’omologazione culturale e la rivoluzione antropologica paiono tutt’altro che realizzate a Mussi, che contesta la visione sistemica dello scrittore e attribuisce alla Democrazia Cristiana un ruo-lo assai più attivo nella costruzione di una società fondata su anticomunismo, interclassismo e ricerca del successo individuale. Le trasformazioni della cultura italiana derivano da processi strutturali di medio periodo – migrazioni, nuovi mezzi di comunicazione, scuola pubblica, urbanizzazione, impegno politico – e non dal macro-fenomeno del neocapitalismo. Mussi vuole sottolineare i risultati dell’azione politica del proletariato, cioè del Pci:

Se «l’Italia scomoda e rustica non c’è più» è anche perché le classi subalterne hanno lottato per superarla, e dunque nei caratteri nuovi degli italiani c’è anche il segno della loro storia e della storia degli intellettuali che hanno saputo svincolarsi dalla soggezione ai gruppi dominanti […] Pasolini non capisce che la scelta soggettiva può […] liberare dal conformismo e aiutare la ragione a vincere la nevrosi.

Lo scrittore, è la conclusione, è a tal punto affascinato dalla ricerca di una «diversità innocente e incontaminata» da scambiare la realtà con l’impasto di ideologia e scetticismo che lo ossessiona. Le sue non sono considerazioni politiche o sociologiche, ma clamorosi abbagli, i frutti di «un modo trasognato di vivere gli avvenimenti che conduce facilmente all’equivoco».

Le argomentazioni di Mussi riprendono e sviluppano alcune delle tesi presentate da Franco Ferrarotti in un articolo pubblicato qualche giorno prima su «Paese Sera». Secondo il sociologo le descrizioni e le analisi di Pasolini sulla modernizzazione, «tutte culturologiche», non sono in grado di cogliere le basi oggettive del problema italiano – gli interessi economici e le collusioni tra i vertici – e finiscono per ridursi a una «suggestione vaporosamente irrazionale», incapace di andare oltre l’invettiva personale e tutta concentrata su una descri-zione della «bassa manovalanza para-fascista» (Ferrarotti 2008a, 89). L’esito di una analisi incapace di distinguere tra Fanfani e Berlinguer è un discorso appannato, ambiguo e, in ultima istanza, pericoloso: Ferrarotti chiede polemicamente agli italiani se se la sentono di «tornare cenciosi» per soddisfare l’esigente palato di

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un artista che, individualmente, gode appieno dei benefici materiali e culturali del neocapitalismo (ivi, 91).

Ma c’e dell’altro. Ferrarotti, infatti, non si ferma alle prese di posizione dello scrittore, ma procede a criticarne gli strumenti e la mancanza di metodo. Il sociologo accusa infatti Pasolini di non avere le carte in regola: con le sue in-terpretazioni «insufficientemente analitiche», egli «trasferisce di peso esperienze biografiche e umori altamente personali sul piano dell’analisi scientifica […] Ma l’impresa è indebita e non va molto al di là della contaminazione linguistica» (ivi, 89). Quella di Pasolini, in altre parole, è una pretesa ingiustificata che va imme-diatamente smascherata per quello che è, una sorta di gioco di società in cui si nega la possibilità stessa di una comprensione razionale – controllata, metodica, scientifica – dei problemi sociali. Ciò tende paradossalmente a trasformarla nel suo contrario:

Il «coraggio intellettuale» è alleato al più, in questo caso, dello sfogo poetico. Sfiora già di per sé il rischio della rinuncia a criteri di indagine razionali, quel venire meno della distinzione fra passione e ideologia, fra ricerca e sentimento che costituisce la premessa del decisionismo, cioè del fare per fare, fascista (ivi, 89).

La critica di Ferrarotti è definitiva: l’errore di Pasolini sta tanto nel contenuto dell’analisi quanto nel tentativo di trasformare la sua poesia in sociologia-lettera-tura e, addirittura, far passare quest’ultima per sociologia-scienza. La sociologia-scienza, invece, è tutt’altro: è una sobria chiarezza teorica e descrittiva che sola permette di fronteggiare i problemi dello sviluppo del Paese (ivi, 93).

Come ho anticipato, la presa di posizione del sociologo esprime una pre-occupazione tipica degli intellettuali impegnati nel processo di «rinascita della sociologia» nel secondo dopoguerra: per Ferrarotti Pasolini non è solo il porta-bandiera di una lettura eccentrica del caso italiano, ma anche l’ennesima minaccia che rischia di mettere in pericolo il (già scarso) prestigio delle scienze sociali. Come altri prima di lui, Pasolini va circoscritto, definito, escluso.

4. Autonomia e coinvolgimento: i sociologi nel secondo dopoguerra

Seguendo una impostazione retrospettiva e semplicistica, si suole dividere il campo sociologico italiano del secondo dopoguerra in due spazi chiaramen-te delimitati: un’area metodologicamente accorta, focalizzata sullo studio del processo di modernizzazione e legata in misura crescente a un milieu inter-nazionale, e un’area assai politicizzata, che fa uso delle tecniche dell’inchiesta sociale per modificare l’impatto dell’industrializzazione sulle classi subalterne. Chi riprende in mano testi e documenti degli anni cinquanta e sessanta trova,

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in realtà, una situazione sufficientemente aperta e fluida da garantire il moltipli-carsi delle esperienze di ricerca e un intenso scambio di uomini e idee6. Al di là delle storie e delle esperienze individuali, la gran parte dei ricercatori coetanei di Pasolini – oltre a Ferrarotti e Pizzorno, penso a Achille Ardigò, Danilo Dolci, Filippo Barbano, Danilo Montaldi, Angelo Pagani, Luciano Gallino, Francesco Alberoni e Sabino Acquaviva – è accomunata dalla ricerca di un punto di equili-brio tra la rivendicazione dell’autonomia del sapere sociologico, da una parte, e il coinvolgimento politico del ricercatore, dall’altra. In questo paragrafo cercherò di mostrare come la scelta di privilegiare il primo aspetto non sia interpretabile come un’opzione unicamente intellettuale, ma piuttosto come un elemento entro una più ampia strategia finalizzata all’inclusione dei sociologi tra le élite moder-nizzatrici e alla legittimazione della sociologia in quanto disciplina accademica. Pur legati a gruppi, interessi, partiti e movimenti, questi sociologi utilizzano la retorica dell’«obiettività» e dell’irriducibilità di un sapere specialistico ed esote-rico, presentato come chiaramente distinto dalle pratiche degli intellettuali che guardano nella direzione delle classi subalterne. Se i primi creano «la sociologia italiana», i secondi vengono progressivamente ridefiniti come «non-sociologi» o, nella migliore delle ipotesi, come proponenti di una sociologia-letteratura buona per commuovere i lettori ma scientificamente inaffidabile, e dunque inadatta a risolvere i problemi del Paese.

Nel piano di lavoro dei «Quaderni di sociologia», la rivista che fonda nel 1951 con l’aiuto del filosofo Nicola Abbagnano, Ferrarotti indica nella «sociologia applicata» la vera novità per la cultura italiana, e la descrive così:

Si tratta di raccogliere dati empirici e di organizzarli intorno e in funzione di una definita ipotesi di lavoro o della soluzione di qualche problema posto dallo sviluppo strutturale, badando a non forzarne l’obiettività e quindi senza infirmarne il valore scientifico (Ferrarotti 1951, 3).

I temi privilegiati di questo discorso sociologico sono il rapporto tra città e campagna, il lavoro industriale e l’organizzazione della cultura; l’auspicata divisio-ne del lavoro tra centri di raccolta dati e il sociologo, inteso come «organizzatore metodico di dati elementari, di per sé muti ed equivoci», punta a esplicitare e attuare il potenziale «terapeutico» della giovane scienza sociale (ivi, 6). Qualche anno dopo, Ferrarotti (1955a, 56) scrive che la sociologia in Italia è «pressochè inesistente» come scienza rigorosa capace di separare lo studio empirico dei fenomeni dalla «norma precettistica».

6 Lo stato delle ricerche sulla storia della sociologia italiana è piuttosto deludente. I testi di riferimento sono Balbo et al. (1975), Barbano (1998), Siebert (1998), Barbano (2003), Rinauro (2002) e Pugliese (2008). Interessante è anche Ferrarotti (2008b), che raccoglie vecchi saggi degli anni sessanta. In questi volumi troviamo, implicita o esplicita, la rappresentazione dualistica del campo di cui dico sopra.

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Nonostante il linguaggio e i riferimenti intellettuali siano in gran parte di-versi, troviamo gli stessi toni negli scritti dei sociologi neocritici di ascendenza marxista7. In un celebre scambio pubblicato sulla rivista «Opinione» nel 1956, Roberto Guiducci e Alessandro Pizzorno discutono della possibilità di praticare forme di «conricerca» capaci di giovarsi del pieno supporto del movimento operaio e di costruire una «sociologia vivente» metodologicamente rigorosa e, al tempo stesso, aperta alla «compartecipazione attiva fra sociologo e osservato» (Guiducci 1956, 23). Pizzorno (1956, 26) auspica il definitivo superamento del populismo meridionalista di Carlo Levi e Rocco Scotellaro in favore di «metodi adottabili concordemente e coerentemente da tutto un fronte […] di ricercatori, in qualche modo organizzati o in rapporto fra di loro». Come già Ferrarotti, Pizzorno auspica e prefigura l’emergere di un campo disciplinare autonomo ma capace di entrare in contatto con settori importanti della società italiana e di «attivizzarli».

La presa di posizione circa l’equilibrio relativo tra il polo dell’autonomia del sapere sociologico e quello del coinvolgimento politico riflette le posizioni che i sociologi occupano all’intersezione tra campo politico e campo accademico e le strategie da essi attuate per accedere alle posizioni congruenti con i loro orientamenti politici e sociali di fondo. I sociologi che abbracciano il progetto di costruire un’Italia moderna e razionalizzata cercano un rapporto privilegiato con le élite politiche, economiche ed ecclesiali che qualche anno più tardi daranno vita al primo centrosinistra. Al Nord ciò significa interagire con Cisl, Acli, camere di commercio e imprenditori illuminati come Adriano Olivetti, con il coordina-mento del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale di Milano e del gruppo del Mulino, con sede a Bologna, due organizzazioni che raccolgono magistrati, professionisti e docenti universitari (Balbo et al. 1975; Franzinelli e Poggio 2004). Al Sud la Sezione sociologica della Svimez, fondata nel 1953, e il Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno, creato da Manlio Rossi-Doria a Portici nel 1959, nascono sotto gli auspici di Unesco e Ford Foundation (Boffo 2008; Marselli 1962). La Chiesa cattolica promuove una propria «sociologia religiosa», appoggiandosi all’Università del Sacro Cuore e a un folto gruppo di autodidatti, tra cui padre Agostino Gemelli e don Silvano Burgalassi8.

7 Soprattutto socialisti, in quanto per tutti gli anni cinquanta Pci e Cgil considerano la sociologia come uno strumento di «mistificazione, oppressione e corruzione ideologica» o addirittura un cumulo di «idiozie specializzate» (si veda Pizzorno 1998, 21; Balbo et al. 1975, 52). Nei primi anni sessanta il giudizio comincia a cambiare, ma ancora nel 1965 Raniero Panzieri lamenta il ritardo dei marxisti rispetto alla sociologia come «scienza limitata» (cit. in Barbano 1998, 412-413). Si veda anche il capitolo dedicato a marxismo e sociologia in Rinauro (2002) nonché, più in generale, Fofi (2005).

8 I temi delle ricerche sono tipici del processo di modernizzazione: industrializzazione, urbanizza-zione, razionalizzazione e mutamento culturale (Ferrarotti 1955b; Acquaviva 1959; Gallino 1960; Pizzorno 1960). L’impatto della riforma agraria del 1948 sullo stato di sviluppo economico, sociale e culturale delle zone più arretrate sono l’oggetto privilegiato delle cosiddette «ricerche di comunità», che propongono una serie di approfondimenti concettuali sui temi della comunità locale, del rapporto tra città e campagna e del processo di razionalizzazione (Ardigò 1958). Più avanti, i sociologi cominciano a occuparsi di migrazioni interne e nuovi consumi, con studi importanti di Gallino (1972) e Alberoni (1960; 1964), che sottolineano

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Alle élite modernizzatrici – «gli industriali, gli operatori economici dei più diversi tipi, i pubblici amministratori, gli organizzatori politici e sindacali» (tre-ves 1960, 174) – i sociologi si propongono come i latori di un sapere scientifico obiettivo e direttamente applicabile alla soluzione dei problemi dello sviluppo. Già alla fine degli anni Quaranta l’immagine è quella del tecnico capace di usare strumenti originali ed efficaci:

Una riforma agraria […] può riuscire solo se si presenta e si attua come strumento di potenziamento dell’agricoltura […] Ottenere questo, tuttavia, si può solo se la riforma agraria risulterà perfettamente adeguata alla realtà […] Ciò significa che il maggior pericolo per una riforma agraria è rappre-sentato dai giuristi e dai legislatori […] La riforma agraria, viceversa, deve essere impostata e realizzata dai tecnici, con criteri prevalentemente tecnici (Manlio Rossi-Doria, 1947, cit. in Barbano 1998, 163).

La padronanza del metodo scientifico per lo studio dei fenomeni sociali le-gittima i sociologi come elemento cruciale e necessario del processo di transizione dalla tradizione a una società in cui ethos democratico e spirito imprenditoriale possano darsi per acquisiti. Auspicando un nuovo «illuminismo di massa» dopo i fatti d’Ungheria, Giuseppe M. Bonazzi scrive su «Opinione» che

la ricerca deve essere permanentemente intesa come l’unico ambito in cui è possibile pervenire a conoscenze e formulare giudizi (descrittivi, valutativi e prescrittivi). Nulla è accettabile se non è controllato dalla ricerca, nulla è definibile se non in termini di ricerca. Il criterio stesso con cui occorre pro-seguire l’indagine non deve essere ricercato che nelle indicazioni emergenti via via dalla situazione esaminata (Bonazzi 1956-1957, 1, corsivo mio).

E ancora, Ferrarotti (1961, 5) descrive la sociologia come «scienza rigorosa e non gratuita, ossia come analisi concettualmente orientata ed empiricamente garantita di situazioni umane significative». La bilancia pende dalla parte dell’au-

le tensioni psicologiche e culturali ma anche le possibilità di integrazione delle masse di lavoratori che abbandonano le campagne del Sud per le fabbriche del Nord. L’intreccio tra persone e istituzioni e la difficoltà inerente a ogni semplificazione sono ben restituiti da questa lunga descrizione di Rinauro (2002, 683-684): «Al principio degli anni 60 i principali sociologi “di sinistra” erano già entrati da anni o si appre-stavano a farlo nelle cosiddette organizzazioni di ricerca “di terza forza” e dei “monopoli”, non foss’altro che per la scarsità di alternative quando ancora l’Università, l’amministrazione pubblica e specialmente le organizzazioni del movimento operaio non offrivano spazi istituzionali alla sociologia; Roberto Guiducci diveniva membro della Fondazione Olivetti, Franco Momigliano era capo ufficio studi economici della Olivetti S.p.a. e poi membro della Fondazione Olivetti, Alessandro Pizzorno e Antonio Carbonaro erano al Centro di ricerche della Olivetti S.p.a. sin dai primi anni 50 e Carbonaro sin dal 1952 era redattore della rivista “tecnica e organizzazione”. Luciano Gallino era capo ufficio studi e relazioni sociali della Olivetti S.p.a., Norberto Bobbio, direttore dell’Istituto di scienze politiche dell’Università di torino, per conto della Fondazione Olivetti entrava nel comitato direttivo del Cospos, il Comitato per le scienze politiche e sociali (1965) […] Con Lelio Basso, Antonio Banfi, la Rossanda, tullio Seppilli, la Massucco Costa e altri, già dagli anni 50 erano membri dei pochi centri di ricerca e rappresentanza sociologica politicamente meno schierati, il Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e l’Associazione italiana di scienze sociali».

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tonomia del metodo sociologico – e quindi del distacco necessario al costituirsi di un sapere obiettivo – ma ciò non è dovuto all’abbandono del coinvolgimento politico, né a una fede irriflessiva in una scienza wertfrei, né tantomeno a preferen-ze personali; in realtà è dovuto a tutte queste cose combinate in una complessiva strategia di posizionamento professionale che i sociologi attivano vis à vis le élite tecnocratiche della modernizzazione.

La strategia dei sociologi comprende una martellante azione di lobbying per l’istituzione di nuove cattedre universitarie9. Insieme all’utilizzo delle forme discorsive tipiche dell’accademia italiana, la rivendicazione dell’utilità pratica di un sapere autonomo e irriducibile è l’arma per eccellenza nella battaglia per l’universi-tà (Pellizzi 1956; Ferrarotti 2011). Un buon esempio di tale atteggiamento, intellet-tuale e strategico insieme10, è un celebre saggio di Ferrarotti del 1960, La sociologia come partecipazione. Ferrarotti intende traghettare la sociologia oltre la crisi delle categorie ottocentesche lasciandosi alle spalle anche le impostazioni dominanti alla fine degli anni cinquanta, cioè il funzionalismo parsonsiano e le sue critiche conflittualiste. Si tratta di sociologie che privilegiano lo schema teorico-concettuale sul dato empirico, mettendo da parte la realtà del sociale in un malcompreso «pregiudizio della totalità» che vorrebbe imitare le scienze naturali (Ferrarotti 1961, 20-21). Al fine di assicurare «la formulazione in termini scientificamente rilevanti di una situazione umana problematica concepita come una struttura sociale tota-le», la sociologia deve abbandonare sia gli schematismi teorici sia «l’espressione generalizzata di principi di preferenza personale» (ivi, 14-15), andando verso una comune «intuizione ideativa originaria», cioè una problematizzazione a un tempo «tecnica» e «umana», tra ricercatore e «ricercato» (ivi, 22). Scrive Ferrarotti:

Le categorie concettuali vanno sviluppate direttamente e senza mediazioni nel lavoro di ricerca. Si evita l’apriorismo metafisicizzante solo attraverso la compromissione necessariamente implicita nella ricerca sociologica intesa come «partecipazione». Ciò non significa alcuna concessione all’idilliaco o al filantropico (ivi, 21).

Ma cosa significa, in questo caso, partecipazione? Siamo di fronte all’abban-dono dell’autonomia a favore del coinvolgimento? Non esattamente: la sociologia comprendente proposta da Ferrarotti concede al soggetto «ricercato» di negoziare, «entro certi limiti», gli scopi della ricerca e la comprensione del dato per finalità che si presentano come intrinsecamente e unicamente scientifiche. E d’altronde i riferimenti di Ferrarotti sono tipici di una discussione del tutto interna all’accade-mia: Platone, Aristotele e tommaso e, più vicino temporalmente, il Methodenstreit

9 Fino al 1961 l’unica cattedra di sociologia presente in una università italiana è quella di Camillo Pel-lizzi a Firenze. Si veda la rappresentazione del problema data da Evangelisti (1960) e da treves (1960).

10 Il mio riferimento iniziale alla sociologia della cultura di Bourdieu dovrebbe rendere superflua qualsivoglia domanda sulla «autenticità» delle prese di posizione dei sociologi.

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di Dilthey, Windelband e Rickert, nonché le posizioni di Max Weber, che rimane il punto di partenza e insieme di arrivo dell’intero discorso.

5. Istituzionalizzazione e crisi della sociologia italiana

Nel 1961, un anno dopo il saggio di Ferrarotti sulla sociologia come partecipa-zione, i sociologi fanno il punto sulla capacità della propria «cultura positiva» – come la definirà poi Barbano (1998, 230) – di influenzare le élite della moder-nizzazione in un importante congresso dal titolo «Sociologi e centri di decisione politica e sociale». Nella relazione conclusiva, Renato treves (1962, 11) rilancia la sociologia-scienza distinguendo il «vecchio sociologo di biblioteca» dal socio-logo «nuovo», impegnato nella ricerca empirica e desideroso di vedere i risultati dei propri studi utilizzati nella progettazione e nella realizzazione delle politiche pubbliche – un concetto più volte ripetuto dagli altri partecipanti, tra cui Gilberto Marselli (1962, 179-180), secondo il quale in una società soggetta a rapide tra-sformazioni «non è più consentito affidarsi all’improvvisazione e all’intuizione; è, invece, necessario darsi un metodo e valersi di tutti quegli strumenti, che, da tempo, il progresso scientifico va mettendo a punto». Consapevoli delle difficoltà di diffondere la conoscenza sociologica e della propria scarsa incisività sugli altri gruppi professionali o di potere, i sociologi ripiegano sulla richiesta di una de-finitiva istituzionalizzazione accademica della disciplina, vista come garanzia di autonomia e possibilità di implementare attività di ricerca del tutto indipendenti. Non è un caso che il primo concorso a cattedra, già celebrato al momento del convegno (Barbano 1998, 253-261; treves 1962, 26), venga vinto da una terna che comprende Ferrarotti, Pizzorno e uno studioso del tutto allineato al progetto di modernizzazione, Giovanni Sartori.

L’entrata nell’università, tuttavia, non basta a garantire ai sociologi l’auto-revolezza necessaria a ispirare e guidare il mutamento di un Paese sempre più ripiegato su se stesso. Dieci anni più tardi, con molte ricerche e molti concorsi sulle spalle, gli scienziati sociali accademici si incontrano a torino per fare i conti con un profondo stato di crisi. Il titolo del convegno, «Ricerca sociologica e ruolo del sociologo», non riesce a nascondere i problemi di una disciplina colpita dalla sclerotizzazione accademica, dalla critica «da sinistra» del Sessantotto e dal generale crollo di progettualità di una società che si avvita in una crisi profonda (Rossi 1971, 11-12). Il sogno del sociologo riformatore che doveva farsi èlite e ispirare l’azione politica è ormai appannato e i giovani Alessandro Cavalli e Vittorio Capecchi intervengono proponendo nuovi equilibri tra autonomia e coinvolgimento. Il pen-dolo parrebbe oscillare nella direzione della ricerca partecipata. Commentando la proposta di Capecchi – che si esprime contro la formalizzazione concettuale e per un pieno coinvolgimento personale del ricercatore – Pizzorno (1971, 353)

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afferma senza contraddizione il proprio disinteresse per le «convenzioni della comunità scientifica», un’attenzione prioritaria per i soggetti collettivi «con cui si è solidali» e la necessità di essere scientificamente intransigenti (si veda anche Rositi in Aa. Vv. 2010).

Ciò non significa, tuttavia, che la partita sia chiusa. Insieme a Sartori, Alberoni e molti altri, Pizzorno partecipa di lì a poco a un complesso progetto ideato da Fabio Luca Cavazza, Stephen Graubard e Ubaldo Scassellati, al fine di rilanciare le scienze sociali autonome e professionalizzate. Il caso italiano, ponderoso volume uscito per Garzanti nel 197411, si propone di rinsaldare i rapporti degli scienziati sociali italiani con l’establishment scientifico (e politico) internazionale:

Non esiste una importante «scuola» di studi italiani contemporanei all’interno del Mercato Comune; né in altre parti del mondo […] È quindi inevitabile che gli studi sull’Italia contemporanea siano iniziative […] soprattutto italiane, una specie di monopolio nazionale […] Questo libro si presenta come primo esperimento di un dialogo transnazionale (Graubard 1974, 46-47).

Il titolo del volume restituisce icasticamente l’orientamento dei curatori: l’Italia è «un caso» tra gli altri, un caso che può essere compreso da scienze sociali rigorose nella raccolta e nella interpretazione dei dati. Parlando delle ricerche sulla geografia elettorale, Cavazza (1974, 7) ritrae l’Italia come un «sistema» da studiare attraverso la validazione di ipotesi ricavate grazie a una rigorosa traduzione della realtà in dati scientifici.

Le molte diagnosi ripetono il mantra dei modernizzatori: all’Italia manca-no razionalità, spirito democratico, alternanza politica, formazione delle classi dirigenti; mancano predisposizione al rischio, voglia di innovare, universalismo – mancano, in poche parole, le personalità e i valori necessari a realizzare pie-namente il processo di modernizzazione. Sociologi, politologi ed economisti disegnano un circolo vizioso tra «la classe politica, l’apparato burocratico e i circoli clientelari e parentali» e cercano il modo per interromperne gli effetti nefasti (ivi, 9). Il loro sguardo si sofferma sul triangolo formato da Stato, mercato e società civile, un sistema che va fatto funzionare razionalmente, risolvendo problemi tecnici che comprendono anche la costituzione del necessario ethos borghese e democratico.

11 L’elenco degli autori è una sorta di parterre de roy delle scienze sociali dei primi anni settanta: se gli stranieri sono Robert Bellah, Juan Linz, Jacques Le Goff, Suzanne Berger, Charles Kindleberger, Andrew Shonfield, Stanley Hoffman, Karl Kaiser, Gerald Holton e François Bourricaud, tra gli italiani troviamo Giorgio Galli, Gabriele De Rosa, Francesco Forte, Romano Prodi e Cesare Merlini. L’aspetto più interessante del progetto è che tra il 1972 e il 1973 alcuni degli studiosi stranieri attraversano il Paese a spese della Fondazione Agnelli incontrando imprenditori, politici, prelati e intellettuali per «farsi un’idea» dell’Italia anni Settanta, come recita il sottotitolo del volume, e scrivere un saggio a partire dal «proprio» punto di vista, cioè dal punto di vista delle scienze sociali mainstream (Graubard 1974, 47-48). Cavazza, Graubard e Scassellati sono rispettivamente editore del Mulino, direttore di «Daedalus» e direttore della Fondazione Agnelli.

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Coerenti con il loro progetto, gli scienziati sociali si rivolgono alle élite, ai tecnocrati e ai quadri della nuova Italia che però, come abbiamo visto, tengono ben chiusa la porta della stanza dei bottoni; anzi, come scrive Giovanni Bechelloni (1974, 648) recensendo il volume, «lo iato tra il momento dell’analisi e il momento della decisione politica» va addirittura accrescendosi. Cavazza (1974, 13) descrive un malessere che rispecchia la delusione di chi, per primo, aveva creduto di poter dare un contributo alla modernizzazione dell’Italia:

Vi è nel Paese, ormai da non pochi anni, una sensazione di malessere, assai diffusa, e intensamente percepita. Essa è diventata la compagna quotidiana dell’uomo di cultura che non ha perso l’uso critico dell’intelli-genza; dell’operatore economico e dell’operatore sociale che s’ostinano a conferire razionalità e senso professionale al loro mestiere; di quegli strati della classe politica, periferici e inferiori, che non credono all’ineluttabilità di dover sempre e comunque convertire in dubbie manipolazioni i loro convincimenti; e, infine, la sensazione di malessere non risparmia il comu-ne cittadino che conduce vita non impegnata ma attende ai casi suoi come meglio sa e può.

Se l’infelicità descritta da Pasolini era l’infelicità chi vorrebbe starsene in pace ma non può (più), l’infelicità descritta da Cavazza è quella di chi vorrebbe fare ma (ancora) non può. L’anno è lo stesso – il 1974 – ma le due diagnosi non potrebbero essere più diverse.

6. Difendere un confine: i sociologi e Pasolini

Alla luce della storia della sociologia italiana tra la fine della Seconda guerra mon-diale e i primi anni settanta, lo scontro tra Pasolini e Ferrarotti diventa facilmente comprensibile: lo scrittore è un pericolo tanto per le sue idee e le sue prese di posizione, quanto per la sua condizione di intellettuale pubblico che pretende di occuparsi di problemi che spettano ad altri. La domanda retorica del sociologo – «Il vecchio fascismo è per Pasolini singolarmente fotogenico; gli appare ancora legato a un’Italia agricola, pascolianamente proletaria, rustica, non consumistica, pronta al sacrificio… Ma chi glielo ha detto?» (Ferrarotti 2008a, 90, corsivo mio) – esprime perfettamente l’acredine di chi si vede scippare oggetti, interpretazioni e possibilità di influenzare l’opinione pubblica. Un editoriale dedicato ai rischi che minano l’autonomia del giudizio sociologico – pubblicato dallo stesso Ferrarotti sulla «Critica sociologica» nella primavera del 1974 – riecheggia la polemica e aggiunge forse un ulteriore elemento per comprenderla:

Per non parlare dei critici ex-ermetici o degli elzeviristi che ci passano sub specie sociologica i loro stanchi pettegolezzi. Nessun dubbio che il numero dei sociologi godrebbe di un notevole incremento; altrettanto indubbio

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però che l’autonomia e la serietà della ricerca sociologica subirebbero un corrispondente declino (C. S. 1974, 6-7).

tra tutti gli intellettuali engagé, Pasolini è pericoloso non solo per la sua visibilità o per la radicalità delle sue idee sul neocapitalismo, ma anche per via del suo complesso rapporto con le scienze sociali – che Ferrarotti bolla come sem-plice «contaminazione linguistica». Da una parte, infatti, lo scrittore non disdegna gli strumenti concettuali della sociologia, usa spesso gli aggettivi «sociologico» e «semiotico» per le proprie analisi e fa riferimento a teorici sociali più o meno celebri e rigorosi anche all’interno di opere letterarie e teatrali – oltre a Marx, Gramsci, Freud e Jung, i nomi sono quelli di Durkheim, Marcuse, Goldmann, McLuhan, Veblen, Schumpeter, Kornhauser, Von Mises, Mannheim e, addirittura, Shils (Pasolini 1999, passim). Dall’altra, da marxista e «compagno di strada» del Pci, lo scrittore parla di una sociologia «indecifrabile» e «anestetizzante» (Pasolini 1999 [1966], 137; Pasolini 1999 [1974], 352), ormai lontana dall’ispirazione ori-ginaria della «grande sociologia ottocentesca» che aveva cominciato a smontare la presunta innocenza progressista degli europei grazie al concetto di «cultura» (Carbone 2011)12. La sociologia che infastidisce Pasolini è quella che egli defi-nisce – nell’articolo Prologo: E.M. del 1973 – la «sociologia salamina», e cioè la sociologia di Ferrarotti e dei suoi coetanei – quella che ha importato in Italia il linguaggio e l’orientamento tecnocratico delle scienze sociali internazionali e ha previsto una piena razionalizzazione e tecnicizzazione dell’uomo e della società (Pasolini 1999 [1973], 247). È questa la sociologia che Pasolini sente indifferen-te, nonostante essa si impegni, da decenni, proprio nell’analisi dei problemi del Paese e nella proposta di soluzioni razionali – la sua preferenza va alle ricerche, da altri definite letterarie, di Dolci e Montaldi (si veda per esempio Pasolini 1999 [1974], 505 ss.). Ma è anche, paradossalmente, la sociologia a cui viene accostato dai commentatori, che odono nelle sue analisi gli echi di due approcci altrimenti antitetici:

[L’idea pasoliniana] di una progressiva integrazione «a progetto» della so-cietà intera […] ha avuto largo corso in Europa e negli Stati Uniti in questo dopoguerra, e potremmo collocarla tra due poli opposti: la sociologia di importazione statunitense, convinta della neutralità rispetto alle classi e alle ideologie […] [e] la teoria critica della società (Mussi 1974, 17).

C’è, insomma, un problema di confini. Il celebre e perturbante Pasolini va, più di altri, chiaramente escluso dal novero dei sociologi al fine di difendere la

12 E ancora: «Sarebbe come se gli uomini politici del Pci si attendessero delle idee sociali e politiche utili dalla nuova sociologia, che sta rispetto alla vecchia sociologia del Durkheim o del Weber, esattamente come le nuove avanguardie stanno rispetto alle avanguardie del primo Novecento» (Pasolini 1999 [1965], 1085).

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specificità e l’integrità della disciplina a fronte di una crisi profonda. Ecco allora gli attacchi di Ferrarotti, ecco le parole di chi, come Camillo Pellizzi (1974, 192), si dice simpatetico con lo scrittore eppure sottolinea l’insufficienza delle sue «notazioni sociologiche a sciabolate».

Il tono è lo stesso nell’articolo Le lucciole e i fuochi fatui13 che l’antropologo Carlo tullio-Altan affida alla «Critica sociologica» un anno dopo. Si tratta di un testo interessante perché, nonostante il titolo riveli immediatamente il bersaglio – il celebre «articolo delle lucciole» del febbraio 1975, – la critica a Pasolini arriva solo dopo un complicato itinerario sull’influenza dei valori della società conta-dina sulla crisi italiana tipico di una scrittura che vuole essere al cento per cento accademica. Prendendo le mosse dalla descrizione strutturale delle household neolitiche di Marshall Sahlins, tullio-Altan (1975, 8-9) accosta i sistemi di produ-zione primitivi a quelli della tradizione meridionale e, dopo una debole critica a Banfield e al «familismo amorale», finisce per indicare quest’ultimo come il più formidabile ostacolo alla piena modernizzazione del Paese. L’industrializzazione, limitata alle regioni settentrionali, produce squilibri a livello nazionale, accentuan-do i dislivelli di sviluppo e spingendo masse di ex-contadini meridionali verso il Nord. Diversamente da quanto è riuscito a Stati Uniti e Gran Bretagna, di fronte agli evidenti problemi della modernizzazione l’Italia non riesce a ricostruire il «tessuto connettivo» della società civile (ivi, 10-11). Il persistere di enormi sacche di particolarismo impedisce dunque ai «valori democratico-borghesi» di diffondersi, e ciò finisce per produrre «personalità arcaiche» incapaci di assolvere ai compiti tipici di una società industrializzata (ivi, 12, 15) – la vicinanza con le diagnosi del Caso italiano è evidente. Denuncia ancora l’antropologo:

Lo sviluppo economico, l’urbanesimo e la società dei consumi ha condotto in Italia ad una misura maggiore di dislocazione e disgregazione sociale che non negli altri Paesi. Ciò è dovuto al sopravvivere in larghe zone geografiche e sociali dei valori legati ai residui delle unità domestiche di produzione in una situazione storica che li rende totalmente anacronistici (ivi, 12-13).

Ma ecco la zampata contro Pasolini: scambiare tali valori disfunzionali per una eredità culturale da salvaguardare e rilanciare è un’operazione radicalmente sbagliata: le «lucciole» sono in realtà «maligni fuochi fatui sulle tombe di un cimi-tero», buoni per «una deformazione in chiave romantica e nostalgica» della realtà ma non per una presa in carico razionale dei problemi del Paese. Il recupero delle culture contadine può essere una suggestione o una consolazione temporanea, ma non un’alternativa valida ai valori borghesi: «La soluzione va cercata guardando in avanti e non indietro» (ivi, 13). Sarebbe necessaria, secondo tullio-Altan, una

13 Sul singolare rapporto tra il giovane Pasolini e tullio-Altan nel Friuli del dopo-lodo De Gasperi si veda Gaspari (2008).

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politica culturale capace di spingere l’Italia a costruire un tessuto connettivo demo-cratico e borghese, che potrebbe fondarsi su una riconsiderazione della protesta giovanile e studentesca – e questo è il compito, affatto astratto o accademico, che gli scienziati sociali potrebbero darsi per il tempo presente (ivi, 17-18).

La critica degli scienziati sociali a Pasolini è duplice e colpisce tanto la sua interpretazione della modernizzazione italiana quanto le pretese di verità avanzate dallo scrittore, la legittimità delle sue osservazioni, la praticabilità delle sue soluzioni. Al di là delle parole e dell’intento politico di Pasolini, fa problema la posizione da cui egli prende la parola, che potrebbe ingenerare una confu-sione tra la «fantasia poetica» dello scrittore e l’analisi razionale e distaccata del sociologo – ciò che fa problema è che nell’immaginario dell’opinione pubblica gli interventi di Pasolini siano davvero visti come esempi di analisi sociologica. Quando l’esangue dibattito tra Pasolini e i sociologi si interrompe per l’improvvisa morte dello scrittore il 2 novembre 1975, pur concedendogli l’onore delle armi Ferrarotti lo saluta reiterando un giudizio negativo:

Da ultimo Pasolini usava termini e toccava temi tipici della ricerca socio-logica. Istanze critiche contro il concetto riduttivo di industrializzazione o riflessioni intorno al carattere ambiguo dello sviluppo tecnico che, in bocca ai sociologi, non uscivano da ambiti specialistici ristretti, egli aveva il potere di attualizzarle, pur piegandole al proprio gusto, fino a farne materia di dibattito quotidiano anche scandalizzante, sempre sincero, presso il gran pubblico. Ci piace ricordarlo così, con la pietà che si addice a una fine tragica (Ferrarotti 1975, 170; si veda anche Ferrarotti 2008c).

7. «Fast forward»

Non sarà inutile, avviandomi a conclusione, ricordare un episodio che vede come protagonista un’altra delle «vittime» della costruzione e della difesa della sociologia-scienza, un intellettuale che Pasolini tiene in grande considerazione – Danilo Montaldi. Già alla fine degli anni cinquanta, l’accettazione dell’originario progetto della conricerca, la vicinanza con Pizzorno e Guiducci e l’auspicio di un pieno superamento del populismo meridionalista dovrebbero mettere Mon-taldi al riparo dalle critiche dei sociologi14. Il ricercatore cremonese, tuttavia, si spinge nella direzione di una radicale compartecipazione di ricercatori e soggetti

14 Si veda la sezione «Classici» del terzo fascicolo di «Studi culturali» del 2007 per una serie di lettere da cui emerge evidente la vicinanza di Montaldi agli altri sociologi (il giudizio sul populismo è nella lettera di Montaldi a Giuseppe Bartolucci pubblicata in Bertolotti e Capuzzo 2007, 444-445). Nell’introduzione di Autobiografie della leggera Montaldi (1961) cita, sia pure in maniera non accademica, libri del tutto organici alle scienze sociali internazionali (Il crisantemo e la spada di Ruth Benedict o il manuale di sociologia di Rumney e Maier che inaugura la collana di scienze sociali del Mulino); nel contributo dello stesso Montaldi a Milano, Corea (Alasia e Montaldi 1960) sono descritte le collaborazioni con sociologi accademici come Renato treves.

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della ricerca che infrange «il rapporto che è classico della sociologia borghese, [il quale] si esprime nelle diverse figure appunto di un indagatore di un oggetto (uomo) da analizzare» (Montaldi 1956, 31; si veda anche Bermani 1998, 88-89, e Mangano 1992). Si tratta di una mossa che risulta indigesta per chi sta invece puntando sull’autonomia del sapere sociologico. Invitandolo a una riunione della redazione della rivista «Passato e presente», Pizzorno15 chiede a Montaldi un intervento «realistico, non idealistico; generalizzabile, non eccezionalizzante; impietoso, non romantico; chirurgico, non magico». Insomma, la richiesta di Pizzorno è ancora una volta quella di abbandonare la sociologia-letteratura per la sociologia-scienza. D’altronde, dal punto di vista di ricercatori che puntano ad astrazioni categoriali – cittadini, lavoratori, consumatori, – interessanti in quanto variabili che agevolano o impediscono lo sviluppo del Paese, i protagonisti delle ricerche di Montaldi, così come quelli di Pasolini, sono, e non possono non essere, «testimoni inclassificabili» (Pasolini 1999 [1974], 505 ss.). Come ha scritto in altra occasione René Capovin (2008, 96),

demologo e sociologo critico si rapportano al “popolo” in maniera oggetti-vante, evitando di caricare le proprie descrizioni di intenzioni apologetiche o pedagogiche, e questo fa dell’atteggiamento non-scientifico dello studioso non rigoroso (romantico o populista) il loro nemico comune.

Montaldi non accetterà il consiglio, determinando così la propria esclu-sione dalla «storia» della sociologia italiana16. L’episodio è interessante perché mette in chiaro come i processi di definizione, delimitazione e organizzazione disciplinare nascano da dinamiche che toccano solo tangenzialmente la ricer-ca. Lo stesso vale, mutatis mutandis, per Pasolini: l’ossessione classificatrice e la continua sottolineatura delle appartenenze disciplinari sono problemi dei sociologi, non dello scrittore, come emerge nella risposta a Ferrarotti affidata all’articolo Abrogare Pasolini del 26 luglio 1974. Pasolini (1999 [1974], 345-346) riconosce tranquillamente la differenza tra le due posizioni e le relative pretese di verità. Dal suo punto di vista, il fatto che le scienze sociali facciano parte dello

15 Il quale, non dimentichiamolo, dichiara negli stessi anni di puntare a un tipo di analisi sociolo-gica che sia «dialogo al tempo stesso che ricerca, […] attivizzazione di tutte quelle zone umane con cui entri in contatto, […] aperta ad ogni osservazione, ad ogni verifica, ad ogni conclusione imprevedibile» (Pizzorno 1956, 26).

16 La citazione da una lettera di Pizzorno a Montaldi del 1958 si trova in un articolo di Costanza Bertolotti (2007, 461-462), che parla anche delle analoghe critiche rivolte da Guiducci a Montaldi e sot-tolinea come il giudizio di Pizzorno su quest’ultimo sia rimasto sostanzialmente immutato fino a oggi (in Pizzorno 2005, per esempio). Abbracciando il medesimo punto di vista, commentando Milano, Corea Ferrarotti (1962, 171) nota «l’assenza di un preciso schema di riferimento, insufficientemente surrogato da uno stimolante, ma in più di un luogo approssimativo, excursus storico-economico». Si vedano Etnografia e ricerca qualitativa (2008), Barnao (2009) e Padovan (2007) per tre tipici interventi che si richiamano ai «sociologi dimenticati» (o emarginati: Dolci, Scotellaro e, appunto, Montaldi) rivendicando una linea di continuità per una sociologia orientata etnograficamente e/o pubblicamente.

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strumentario concettuale dell’uomo di cultura del ventesimo secolo non significa che ogni intellettuale pretenda di essere un sociologo in senso professionale. Il suo gioco è, al contrario, quello di rivendicare la legittimità dello sguardo di chi vive i problemi preoccupandosene e di proporsi come intellettuale sottoposto al solo giudizio del pubblico:

Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi pro-viene paradossalmente dal non averla e dal non averla voluta; dall’essermi mosso in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca (Pasolini 1999 [1974], 356-357).

L’immagine è quella del pensatore sradicato, a tal punto libero da legami da essere in grado di rivoluzionare continuamente ruoli, lealtà e punti di vista. Ed è proprio la distanza che Pasolini percepisce tra le scienze sociali e i loro costrutti concettuali, da una parte, e la vita vissuta, dall’altra a portarlo a reinterpretare l’indifferenza che Ferrarotti aveva rivendicato nei suoi confronti come distacco verso l’oggetto delle sue riflessioni:

Si sono fatti, anzi, su questi problemi dei convegni internazionali di socio-logi? È quanto mi oppone gentilmente Ferrarotti […] per ridurmi a sua volta al silenzio e all’inesistenza. Ma proprio i nomi, proprio i nomi che tanto, e tanto piacevolmente, sembrano esaustivi a Ferrarotti, proprio i nomi (mel-ting pot!), e proprio i luoghi internazionali dove tali nomi vengono fatti dimostrano che il problema “italiano” non è stato neanche lontanamente affrontato […] Quindi del problema italiano non se ne è mai parlato. O, se lo si è fatto, non lo si è saputo. Il felice nominalismo dei sociologi pare esaurirsi dentro la loro cerchia […] Perché al sociologo e al politico di professione non importa personalmente nulla di “questo” giovane, di “questo” operaio (Pasolini 1999 [1974], 345-346, corsivi miei).

Alla virulenta critica di Ferrarotti e alla sua ostentata indifferenza Pasolini oppone il proprio pathos e la capacità di comprendere i problemi grazie a una piena partecipazione alle vite «personali» dei suoi concittadini. Dovrebbe essere ormai chiaro che quella che Pasolini interpreta come una indifferenza di carattere personale è in realtà un riflesso della posizione che i sociologi cercano di ricavare per sé all’intersezione tra il campo intellettuale e quello politico. Se al sociologo e al politico poco importa «personalmente» di «questo» o «quel» giovane è perché il loro sguardo deve essere astratto e generalizzante, o almeno questo è il modo in cui intendono il proprio contributo alla modernizzazione dell’Italia. È, dopotutto, l’idea che sta alla base dell’idea stessa di «metodo scientifico» condivisa (almeno al tempo) dalle scienze sociali internazionali: la verità emerge grazie al corretto utilizzo di procedure impersonali – si noti che questa concezione è importante anche e sopratutto per le scienze sociali che si pongono obiettivi operativi. Si tratta

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di una presa di posizione che non si impone per la forza intrinseca dei suoi argo-menti, ma che va legittimata e difesa da altre prospettive concorrenti. L’incontro mancato tra i sociologi degli anni sessanta e settanta e Pasolini è dunque dovuto alla preoccupazione dei primi per la difesa delle proprie posizioni: Ferrarotti e tullio-Altan puntano innanzitutto a porre intorno allo scrittore un cordone sa-nitario, indicandolo come un poeta che fa indebitamente leva su un linguaggio scientifico per proporre ossessioni e preoccupazioni del tutto soggettive17.

Da quanto detto in apertura, sembrerebbe che oggi i sociologi siano più aperti di un tempo alle suggestioni e ai contributi che vengono dall’esterno – la rivalutazione di Pasolini è parte di una più ampia riconsiderazione del contributo di poeti, letterati, artisti e «sociologi-letterati». L’impressione, tuttavia, è che tale recupero avvenga da una posizione di debolezza – un ripiego più che un consa-pevole attraversamento di confini. Ciò dipende naturalmente dall’evolversi del campo sociologico italiano nei quarant’anni successivi allo scontro tra Ferrarotti e Pasolini – una storia che solo ora, e faticosamente, sta cominciando a essere affrontata. Secondo dinamiche che non si lasciano ridurre a una vicenda nazionale, ma che certamente prendono una forma specifica all’interno del campo sociolo-gico italiano, la sociologia-scienza non si è mai realizzata secondo gli auspici dei rifondatori, e al tempo stesso anche la sociologia-letteratura è scomparsa, sostituita da una «sociologia-chiacchiera» che ha contribuito a costruire l’immagine del so-ciologo come lepido e conformista tuttologo che sforna a comando previsioni che nessuno si preoccuperà poi di verificare18. tra società liquida e corsivi in prima pagina, i sociologi, o meglio alcuni di loro, hanno preso il posto degli elzeviristi temuti da Ferrarotti – a sua volta non indifferente alle lusinghe dei media – op-pure hanno annunciato «conversioni» scientifiche che hanno sollevato più di una perplessità19. Sul versante accademico, i sociologi non sono stati in grado di creare una vera e propria comunità scientifica nazionale e si sono tenuti generalmente

17 Anche in una configurazione di campo profondamente cambiata, il giudizio dei sociologi della generazione del dopoguerra rimarrà più o meno lo stesso: Ferrarotti ripeterà spesso la sua critica al di-lettantismo di Pasolini (si veda per esempio Angeloni 2011 e l’introduzione a Ferrarotti 1997), mentre il primo volume della storia della sociologia di Filippo Barbano (1998) cita lo scrittore solo un paio di volte senza mai approfondirne idee e proposte. Il secondo volume, come ho già detto, è più generoso, ma non spiega perché negli anni settanta i sociologi non prendessero sul serio le tesi di Pasolini nemmeno come pretesto per entrare nel dibattito pubblico.

18 Anche in questo caso, come si suol dire, il problema è complesso e riguarda dinamiche che si presentano quasi ovunque (si veda per esempio Posner 2003). Un aneddoto recente ci ricorda però le specificità dell’Italia: commentando la fine del contratto di Francesco Alberoni con il «Corriere della Sera» (settembre 2011), molti giornalisti e bloggers hanno rilanciato la leggenda metropolitana della sostituzione di Pasolini come editorialista a favore dello stesso Alberoni alla metà degli anni settanta. Sebbene non vera, questa storia viene utilizzata per descrivere icasticamente il declino della cultura italiana e dei suoi media (tra i giudizi rilanciati sui blog spopola quello di Marco travaglio, da Beppegrillo.it: «Volete farvi quattro risate? Leggete Francesco Alberoni – sociologo del nulla, scalatore delle discese, esperto dell’ovvio – sul Corriere di oggi. Sulla prima pagina del Corriere, dove una volta scriveva Pasolini; oggi Alberoni»).

19 Si vedano, a mo’ di esempio le critiche di Dal Lago (2010) e Barnao (2009) al recente mea culpa di Marzio Barbagli sull’immigrazione (Alberti 2009).

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ai margini di quella internazionale, restando legati ad ambienti esterni al campo scientifico ma senza riuscire a incidere davvero su di essi20.

Al di là della ricostruzione storico-sociologica, allora, l’impressione è che sia cruciale recuperare, di Pasolini, non solo le idee o gli atteggiamenti ma anche, e forse soprattutto, le pratiche. Se Pasolini appare ancora troppo esotico, possiamo appoggiarci a un aforisma di uno scienziato sociale che non ha bisogno di pre-sentarsi né di legittimarsi. Scrive Clifford Geertz (2001, 36) in un saggio intitolato Il pensare come atto morale:

Poiché il pensiero è una condotta, i risultati del pensiero riflettono ine-vitabilmente la qualità del tipo di situazione umana in cui essi sono stati ottenuti.

Prendere Pasolini sul serio significa interrogarsi non solo, e non tanto, sugli strumenti concettuali ed epistemici dei sociologi e degli altri scienziati sociali, quanto piuttosto sulla loro forma di vita: sulle istituzioni, le organizzazioni e le collettività entro i quali si svolgono le pratiche intellettuali e professionali. Lo nota Pierluigi Bellocchio (1999, xxix) facendo riferimento a quel mondo intel-lettuale che ho descritto fin troppo rapidamente e che oggi pare definitivamente tramontato:

D’altronde, sarebbe pensabile un Pasolini a torino tra i «merluzzi lessi sur-gelati» di via Biancamano, secondo la beffarda qualifica del romano Raniero Panzieri? O a Milano, per esempio nel gruppo di «Ragionamenti», con Fortini e Guiducci, Momigliano e Pizzorno? Ospite assiduo della Casa della Cultura o del Club turati? Occupato nell’ufficio studi di una banca o nell’ufficio stampa di un editore? O magari a Ivrea, nello staff di Olivetti, tra sociologi, urbanisti, economisti, architetti, psicologi, copywriter, designer?

In altre parole, l’«indifferenza» rivendicata quarant’anni fa nei confronti del Pasolini pseudo-sociologo va riconvertita in critica delle condizioni sociali entro le quali viene praticata la ricerca sociale e sociologica. In questo senso, sociologia-scienza e sociologia-letteratura possono giocarsi l’una insieme all’altra – altrimenti si rischia di usare la confusione dei generi come una sorta di giustificazione per vaghezze e imprecisioni, oppure di praticare la complementarietà tra i due lati del lavoro sociologico come una costante traduzione di ciò che sta oltre i limiti della «scienza sociale» in una forma accettabile, impoverita e fintamente innovativa. Ciò, tuttavia, diventa possibile solo quando le forme di vita di chi pratica il mestiere di

20 tra i molti interventi sul tema vorrei ricordare senza alcuna pretesa di completezza quelli di Bernardi, Bortolini, Mora, Pisati, Santoro, Chiesi, Dei, La Valle, Magatti e Padovan nei primi due numeri della rivista «Sociologica» (2007); la discussione cominciata da Guido Martinotti sul sito dell’enciclopedia treccani e proseguita su quotidiani e riviste (2010); il dibattito sulla «Rassegna italiana di sociologia» con interventi di Santoro, Bagnasco, Baldassarri, Volontè, Sciarrone, de Leonardis, La Spina e Santambrogio (2011). Si vedano almeno Santoro (2007), Bortolini (2007) e Santoro (2011).

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intellettuale – fuori e dentro l’accademia, lontano o vicino alle élite o ai subalterni, al centro o alla periferia della sfera pubblica – riescono a trasformarsi di continuo senza sclerotizzarsi e, anche, a divincolarsi quando decenza e dignità richiedano un gesto di ponderata, ma anche gioiosa, intransigenza.

Post scriptum

La prima immagine è quella di una sala affollata. Un giovanissimo tecnocrate presenta il relatore: «Non ultima è questa la ragione per cui il segretariato del Secondo Simposio di Ricerca Motivazionale ha fatto cadere la sua scelta per la relazione di apertura sul nome del professor Giulio Carlo Pizzorno, che pur risiedendo da molti anni negli Stati Uniti non ha mai trascurato, anzi in questi anni ha seguito con l’attenzione più scrupolosa, la parabola di sviluppo dell’economia del nostro Paese. Laureato a Harvard e guest professor al MIT, il professor Pizzorno è uno dei più illustri collaboratori del professor Allen. In Italia egli intende aprire un Centro di Sociologia applicata al settore pubblicitario dei consumi. Tema della sua presente conferenza sarà: “Sviluppo della produzione e incremento dei consumi. Nuove prospettive offerte dalla conoscenza dell’Io segreto del consumatore”». Stacco. Rientrando a casa dopo aver firmato una montagna di cambiali per l’acquisto di un televisore nuovo, il signor Togni viene accolto sulla porta dal figlio Riky, il volto celato da un fazzoletto chiaro. Bang! Bang! «Fulminato!», scherza Togni: «Oggi chi sei? Sheppard? Sei Nembo Kid?». «No», fa il bambino con la testa. «Fammi pensare… sei l’Uomo mascherato! Sei Bufalo Bill!». «E chi è?». «E va bene», capitola Togni, «ci rinuncio». «SONO PASOLINI!», urla Riky correndo via con la pistola in pugno. È il 1963, e l’incipit del Pollo ruspante – l’episodio di Ugo Gregoretti che chiude il film Laviamoci il cervello, altrimenti noto come Ro.Go.Pa.G. – ha già detto tutto quello che c’è da dire.

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