Io, lui (il medium) e l'Altro. L'identità come artificio

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Ivano Mistretta Io, lui (il medium) e l’Altro. L’identità come artifcio Stiamo osservando niente meno che un esodo di massa verso i mondi virtuali e le esperienze di gioco on-line. Edward Castronova, economista Oggetti che guardano, macchine che parlano Paul Klee diceva che gli oggetti ci guardano. Qualcun altro – Lewis Carroll presumibilmente – sosteneva che occorre prendere in considera- zione il punto di vista del bottone del panciotto (di un coniglio bianco, immaginiamo). Mario Perniola scrive di un sex-appeal inorganico, di una sensibilità che ci apparenta al sentire delle cose: corpi come cose che sentono. Vederci come corpi tra gli altri, entità nel mondo, ha condotto la nostra natura a dialogare con quella degli oggetti, ha trasferito l’immagi- nario dell’alterità dagli oggetti a noi stessi. Il mondo delle cose, territo- rio dell’alterità radicale, da sempre naturalmente separato da quello de- gli uomini, si è gradualmente animato per via culturale: facendo espe- rienza del Mondo attraverso le tecnologia, questa mediazione – per noi sempre più signifcativa – ha trasformato la nostra sensibilità e il nostro immaginario. Quella che prima era la risonanza interna di artisti e visio- 27

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Ivano Mistretta

Io, lui (il medium) e l’Altro.L’identità come artifcio

Stiamo osservando niente meno che unesodo di massa verso i mondi virtuali e leesperienze di gioco on-line.

Edward Castronova, economista

Oggetti che guardano, macchine che parlanoPaul Klee diceva che gli oggetti ci guardano. Qualcun altro – Lewis

Carroll presumibilmente – sosteneva che occorre prendere in considera-zione il punto di vista del bottone del panciotto (di un coniglio bianco,immaginiamo). Mario Perniola scrive di un sex-appeal inorganico, diuna sensibilità che ci apparenta al sentire delle cose: corpi come cose chesentono.

Vederci come corpi tra gli altri, entità nel mondo, ha condotto lanostra natura a dialogare con quella degli oggetti, ha trasferito l’immagi-nario dell’alterità dagli oggetti a noi stessi. Il mondo delle cose, territo-rio dell’alterità radicale, da sempre naturalmente separato da quello de-gli uomini, si è gradualmente animato per via culturale: facendo espe-rienza del Mondo attraverso le tecnologia, questa mediazione – per noisempre più signifcativa – ha trasformato la nostra sensibilità e il nostroimmaginario. Quella che prima era la risonanza interna di artisti e visio-

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nari, ora diventa disposizione comune e difusa. Ma non si tratta di allu-cinazioni. È una diversa disposizione all’esperienza, data appunto dalmodo in cui ap-prendiamo cognitivamente il mondo: se sono costante-mente gettato in un ambiente in cui oggetti sempre più complessi sonofrutto di un design attento a metterli in relazione efcace con me, ciòvuol dire che si cerca di instaurare un dialogo tra me e gli oggetti cheuso. E questo dialogo è via via più necessario al complicarsi delle tecno-logie che usiamo. Le interfacce servono proprio a questo: a “gettare pon-ti” tra le tecnologie e i nostri modi di apprendimento, comprensione euso, che si tratti della forma più opportuna da dare a un utensile o dellaGUI1 del sistema operativo di un personal computer. Quindi, più chedi uso, ormai è opportuno parlare di interazione: ci troviamo in relazio-ne con qualcosa che reagisce pertinentemente alle nostre sollecitazioni,secondo una logica comunicativa strutturata e articolata ma altrettanto“trasparente” e “naturale” perché, in realtà, deve nascondere una crescen-te complicazione delle logiche interne di costruzione e funzionamentodei dispositivi con i quali dialoghiamo.

Ma allora, se ieri gli oggetti ci guardavano, oggi le macchine ci par -lano?

Facciamo una doverosa distinzione – che vale anche ai fni del me-todo d’analisi che seguiremo – tra macchine di diverso tipo. Possiamoinfatti parlare, da una parte, di rapporti con dispositivi tecnologici chesempre più paventano una forma di intelligenza (o quanto meno unacompetenza comunicativa) artifciale: dagli elettrodomestici di ultima

1 Acronimo di Graphic User Interface (Interfaccia Grafca Utente), ovvero ciò checonsente all’utente di «interagire con il computer manipolando grafcamente de-gli oggetti, svincolandolo dall’obbligo di imparare una serie di comandi da im-partire da tastiera sulla cosiddetta riga di comando della shell di sistema, come in-vece avviene nelle più tradizionali interfacce testuali CLI (Command Line Inter-face). È lo strato di un’applicazione software che si occupa del dialogo con l’uten-te del sistema utilizzando un ambiente grafco» (tratto dalla voce Interfacciagrafca, in Wikipedia. L’enciclopedia libera, consultata il 23 aprile 2011).

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generazione al Tamagotchi, fno ad Asimo, il robot antropomorfo dellaHonda, in un cammino che sembra anticipare la realizzazione delle pro-fezie asimoviane un tempo fantascientifche. Gli interrogativi sono al-trettanto spinosi quando, dall’altra parte, non c’è una macchina che par-la da sé ma qualcuno che parla (cioè che interagisce con noi) attraversouna macchina2.

E quindi, con chi crediamo di parlare? Che immagine ci facciamodel nostro interlocutore quando la nostra relazione con lui è frutto diuna mediazione così forte? Ovvero: questa mediazione implica il modoparticolare in cui mi relaziono all’altro, certamente, ma anche il modoin cui lo percepisco, gli conferisco una identità e dei caratteri? L’altro,insomma, è per me il risultato di una relazione che non è più diretta, visà vis, ma fortemente artifciale, improntata da una tecnica che noi stessiabbiamo messo in campo per comunicare e che modifca la natura diquesta stessa relazione. È come se, per certi versi, insieme alle tecnologiedi comunicazione avessimo inventato anche l’interlocutore. Ecco ilgrande inganno all’orizzonte della comunicazione ipertecnologicizzata:l’altro non è più (non solo, non tanto) qualcuno all’orizzonte del nostrosguardo, dei nostri scopi, dei nostri desideri, ma diviene l’artifcio (ilfatto-ad-arte) della mediazione.

Il cinema, grande serbatoio dell’immaginario contemporaneo, puòaiutarci a rivelare alcune istanze e temi che aforano difusamente nellasua produzione recente e che, più o meno direttamente, riguardano lequestioni che abbiamo appena accennato. Si tratterà quindi di interro-gare alcuni flm per vedere come abbiano afrontato il tema di questa al-terità radicale e come l’abbiano rappresentata. Una rapida incursione inalcune tra le ultime realizzazioni del videogame, territorio di grande spe-rimentazione narrativa e esperienziale, servirà a fornire ulteriori contri-buti alla nostra indagine.

2 Certo, occorrerebbe considerare quelle macchine che, parlando da sé, iniziano aparlare di sé. Ma questo è un altro discorso...

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S-oggettiL’immaginario del cinema di animazione, soprattutto in tempi re-

centi, si è misurato diverse volte con soggetti non-umani, entità che,dalla loro natura di cosa, diventano qualcos’altro dotato di vita. Il cine-ma di animazione si fa “animista”, scopre questa sua vocazione del “sen-tire” la vita delle cose, non più limitandosi semplicemente a instillarlanella nostra percezione tramite la rapida riproduzione in sequenza deifotogrammi. Tuttavia ci sono alcune notevoli diferenze tra i soggetti delcinema di animazione “classico” e quelli della produzione recente, ovve-ro – semplifcando – tra quelli dell’universo disneyano e gli altri delmondo Pixar. Se pensiamo a Topolino e ai suoi simili, vediamo che egliè la manifestazione di una tendenza ben più antica, presente già nelle fa-vole di Esopo – ove gli animali parlano – e che negli anni è stata piùvolte ripresa e sfruttata con esiti fortunati. Tuttavia Topolino possiededue caratteristiche che oggi non sembrano più essenziali: è un topo, ov-vero un essere vivente che subisce (deve subire) un processo di antropo-morfzzazione per poter entrare in comunicazione con il mondo degliuomini (anche se solo a un livello immaginario), ed è un personaggiooriginale, ovvero nasce come Topolino proprio sotto la penna di WaltDisney. Prima non esisteva nessun altro come lui: Topolino è Topolinoda sempre, nessuno lo precede nella genesi del suo personaggio.

Se prendiamo una serie come quella di Toy Story3 vediamo che il di-scorso subisce delle variazioni interessanti e, per certi versi, radicali: isuoi personaggi sono dei giocattoli, ovvero lo erano già prima di diven-tare i personaggi di Toy Story. Sono delle entità preesistenti che vengonodal mondo reale, come nel caso di Mr. Potato, di Barbie, dei soldatini edi buona parte degli altri: giocattoli prodotti in serie e commercializzati

3 La serie, ad oggi, si compone di tre lungometraggi prodotti dalla Pixar, casa diproduzione statunitense specializzata in animazione computerizzata: Toy Story(1995, regìa di John Lasseter), Toy Story 2 (1999, regìa di John Lasseter, AshBrannon, Lee Unkrich) e Toy Story 3 (2010, regìa di Lee Unkrich).

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negli USA e nel resto del mondo prima che esistesse il flm in cui recita-no la parte di loro stessi. E, anche nel caso dei personaggi creati apposi -tamente per il flm, come Woody o Buzz Lightyear, sappiamo che sitratta pur tuttavia di giocattoli, personaggi con un destino afne a quel -lo dei loro simili che rimangono negli scafali dei negozi di giocattoli enelle camerette dei bambini del mondo reale. Quindi, sia in un caso chenell’altro, sono dei personaggi la cui originalità è stata defnita prima ealtrove. Hanno un carattere4 che, potenzialmente, è già espresso e previ-sto nella loro vita di giocattoli. I bambini che giocano con loro lo sannobenissimo. Tant’è che scelgono quel giocattolo, piuttosto che quell’altro,proprio perché vi riconoscono un’identità che diventa motivo di prefe-renza. E noi, spettatori del flm, veniamo a conoscenza di questi caratte-ri guardando il modo in cui i bambini di Toy Story giocano con i lorogiocattoli. Ancor di più, in modo sorprendente e argutamente ironico, igiocattoli stessi vivono la loro vita avendo aspettative e ponendosi pro-blemi... da giocattoli! Woody e gli altri guardano il mondo dal loro pun-to di vista che, è bene notare, non è quello di Topolino, che si pone pro-blemi da uomini pur avendo sembianze da topo. Da questo punto di vi -sta Toy story è un flm realista, nel senso in cui Brecht intendeva il reali-smo: un interrogativo su come la realtà è veramente, non su come è ve-ramente la realtà; le opere con Topolino e di tutta la tradizionale produ-zione Disney5 sono invece flm in costume, esercizio di travestimento.

In Toy Story 3 c’è una scena molto simpatica in cui i nostri amatipersonaggi, afranti perché destinati alla softta dall’ormai adolescenteloro proprietario, si ritrovano invece in un asilo, tra altri giocattoli chedanno loro il benvenuto: giocattoli/personaggi a noi estranei (fanno laloro prima comparsa nella saga di Toy Story in questo preciso momento)

4 E qui è interessante rilevare ad hoc il termine inglese character per indicare il ruo-lo dell’attore.

5 Con l’eccezione di opere come Fantasia, per quanto qui si sostiene.

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ma, pur tuttavia, della stessa specie dei nostri Woody & Co. [fg. 1]. I“padroni di casa” li rassicurano sul loro futuro dicendo qualcosa come:«non vi preoccupate, qui siete al sicuro, qui ci sono un sacco di bambiniche aspettano di giocare con voi». Come dire: «se prima eravate destinatiall’oblio dentro un baule in softta o all’annichilimento fsico in una di-scarica, qui continuerete a esistere perché sarete “vissuti”». Una dichiara-zione del genere mostra un intrigante intreccio tra passato e futuro, tramemoria e prospettiva: Woody e gli altri vivranno perché sono statiqualcosa per qualcuno e perché lo saranno (ancora? nuovamente?) peraltri bambini [fg. 2]. Anche, e ancor prima, una dichiarazione del gene-re sottolinea una forte relazione tra identità e uso6. I giocattoli, entitàper noi inanimate, per noi che non ci giochiamo, ricevono vita dai bam-bini, da coloro che entrano in relazione con loro giocandoci. Questo èinteressante perché mette in campo il senso dell’identità come risultatodella relazione tra gli uni e gli altri, come valore negoziale, non assolutoma (legato a una pratica) di scambio. Siamo cioè di fronte a delle entitàintermediarie, tra gli oggetti e dei veri e propri soggetti. Figure che en-trano in relazione con noi in un doppio modo: sia con la loro identità digiocattoli che hanno una loro personalità e una loro vita autonoma (dicui però i bambini non sanno nulla perché, quando li prendono inmano per giocarci, quelli si rendono inanimati), sia con l’identità che ibambini danno loro nel momento in cui li fanno intervenire nei lorogiochi e nelle storie fantastiche che creano nel momento in cui li “usa-no”. Rivelatrice, a tale proposito, la scena fnale del flm in cui Andy, or-mai ragazzino, cede Woody a Bonnie, la bambina alla quale regala tutti isuoi giocattoli [fg. 3]. Ci troviamo di fronte alla cessione di un oggetto,certamente, ma anche a un gesto simbolico: come in un rito di passag-gio, qui Woody è il testimone materiale di un cambiamento, il feticcioche sancisce il rito. Tale passaggio signifca (segna, vàlida) un cambia-mento di stato del donatore, che da bambino diventa ragazzo e quindi

6 Cfr. L.J. Prieto, Saggi di semiotica, vol. I: sulla conoscenza, Pratiche, Parma 1989.

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non ha più bisogno dei giocattoli (che così può donare a un’altra bambi-na). Atto che può ben vedersi come una sorta di donazione conseguentealla “morte” del bambino Andy che ora rinasce “altro”, diventando ra-gazzo. Bonnie, la bambina, eredita così un oggetto e riceve un’investitu-ra, viene riconosciuta nella sua “bambinità”: quella di soggetto compe-tente e legittimato al gioco, all’animazione del fantastico. Questo stessorito di passaggio, oltre che Andy, riguarda il cambiamento di stato diWoody, che ora sarà agìto da un’altra persona ed entrerà in un’altra sferad’azione, un altro modo/mondo di gioco e di giocattoli: il nostro Woo-dy, l’eroe che abbiamo seguito nei tre flm della saga di Toy Story, sempreal fanco di Andy, ora rinascerà a nuova vita, seppure sotto le stesse spo-glie di sempre, quelle del giocattolo Woody; tuttavia, nelle mani di Bon-nie, in un’altra e nuova storia, Woody non sarà più lo stesso di primaperché sarà il soggetto di un nuovo rapporto di scambio.

È utile ricordare una scena del flm in cui siamo costretti a usciredal mondo magico dei giocattoli animati e personifcati e veniamo cata -pultati improvvisamente dinanzi alla manifestazione dell’alterità.L’orsacchiotto Lots’o, specializzato in abbracci (come lui stesso afermaqualche scena prima), viene abbandonato dalla sua padroncina. Questoè ciò che egli crede perché, in realtà, è stato semplicemente smarrito du-rante una gita all’aperto. Incredulo e palpitante, l’orsacchiotto riesce aritrovare la strada per casa e si incammina per far ritorno tra gli afettidelle mura domestiche. Giunto alla soglia (anzi alla fnestra) di casa, visi afaccia e vede che la sua padroncina sta coccolando e stringendo unaltro orsacchiotto, a lui identico! [fg. 4]. Improvvisamente avvertiamoil senso di una dissociazione, come di un’immagine rifessa allo specchioche non obbedisce più al suo referente. Chi è, dunque, quello? Un altroo lo stesso? Un altro, diremmo, perché abbiamo vissuto insieme a Lots’ole sue vicende durante il flm, fno a questo momento; lo abbiamo se-guito nel suo percorso di individuazione e maturazione (narrativa) comepersonaggio e, quindi, gli diamo un nome e una identità tramite i quali

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lo ri-conosciamo come Lots’o e lo distinguiamo dal suo simile (per noianonimo)7. Ma potremmo anche dire che è lo stesso, perché sappiamoche di Lots’o ce ne sono tanti, orsacchiotti di peluche prodotti in serie,gli uni uguali agli altri, tutti con lo stesso nome, Lots’o appunto, che è iltrade mark di un prodotto seriale di fabbrica, il “nome proprio” di unacosa cui si vuole dare una personalità giusto per sollevarla dal suo statoafettivamente “refrattario” di oggetto. Però, a questo punto, chi decidese Lots’o è quello alla fnestra o quello tra le braccia della bambina? Nonè forse il nostro punto di vista, quello degli spettatori implicati nellanarrazione del flm, a farci propendere per l’uno piuttosto che perl’altro? Tant’è che, e questo mi sembra un dettaglio signifcativo, l’altroorsacchiotto – il doppio, l’anonimo, la copia – è sì in tutto e per tuttosimile al nostro Lots’o (anzi, penserà il vero Lots’o, veste i suoi stessipanni per spacciarsi al suo posto e sostituirlo...), ma gli diferisce peruna qualità sostanziale, essenziale anzi: giace inanimato tra le bracciadella bambina. Così noi lo vediamo “cosa”. Ecco lo Straniero, marchiatodal sigillo della sua estraneità: il morto tra i vivi, quello senz’anima nésentimenti, senza Storia né memoria, colui che porta scompiglio nellacomunità, nell’ordine dell’Animato (il Creato dei giocattoli...).

Così siamo presi in questa trama che è narrativa e afettiva, in cui ilracconto “fa il suo lavoro”, cioè defnisce i personaggi e i loro rapporti,in un gioco in cui le identità vengono defnite attraverso un processo direlazioni in cui siamo a nostra volta coinvolti, parte in causa proprio peril fatto che partecipiamo al racconto stesso, più o meno direttamente,ora come spettatori, come nel caso di un flm, altre volte interagendo inprima persona, come nei videogame. Appassionati, letteralmente com-mossi, siamo presi e condotti tra gli altri, ora spettatori ora artefci dellastoria. Certo, resta una notevole diferenza tra un ruolo “prefssato”,come quello del lettore nella lettura di un romanzo, e un ruolo “agìto”,

7 Non è casuale che il “doppio” non venga nominato e, così, rimanga senza nome,nel limbo delle cose. Nomen omen...

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quale quello in una relazione in cui siamo parte (inter)agente che può –seppure all’interno di possibili limiti e condizionamenti – modifcare siala propria posizione che quella dell’altro e, con esse, lo svolgimento dellastoria in cui si è coinvolti.

Ma ora torniamo indietro e, per un attimo, poniamoci nei pannidella bambina. Per lei chi è Lots’o? Diciamo che il nostro orsacchiottodi peluche è un personaggio con una certa identità, piuttosto generica,come nel caso di tutti i giocattoli: una sorta di contenitore semi-vuoto einerte fatto per essere riempito e animato ad hoc. E, proprio per questecaratteristiche, Lots’o è l’oggetto dei desideri e degli afetti della bambi-na, ciò su cui lei proietta se stessa e si rappresenta all’interno di un mon-do in cui Lots’o è l’altro in cui lei si rifette come fosse anch’essa altro.Ossia: la bambina attraverso Lots’o diventa altro da sé, riconoscendosiallo stesso tempo in se stessa e nelle veci (nella voce, quando parla perLots’o) dell’altro. Questa capacità di scoprirsi altro da sé nel gioco deltravestimento (trans-vestimento: passaggio da un abito a un altro abito,cioè da un modo d’Essere all’altro) è una delle pratiche più antiche edifuse nella cultura umana8. E ciò che vi è di interessante è che in talegioco le parti sono intercambiabili, le identità sono ruoli; ed è tanto piùintrigante giocare quanto più intercambiabili sono i ruoli. Certo, sap-piamo di parlare di un gioco, di un modo di giocare anzi, che è mimi-cry9. A questo punto, però, se consideriamo che da una parte entriamoin relazione con soggetti e oggetti che manifestano già di per sé una na-tura che è transitante e, dall’altra, giochiamo attraverso una forte media-zione delle tecnologie, forse possiamo intuire come operare in questocontesto contribuisca a modifcare il senso stesso delle identità coinvol-te, quella nostra e degli altri.

8 Pratica che, oltre a improntare molti giochi, ritroviamo nelle arti come il teatro eil cinema, nei rituali pagani o nella sfera erotica.

9 Cfr. R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine , Bompiani, Mila-no 2000.

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Entrare nella realtà attraverso lo specchio della fnzionenarrativaToy Story è il sintomo di un cambiamento in atto, un cambiamento

che l’immagine di sintesi rende possibile, giustifca e, anzi, promuove: ildivenire soggetto dei simulacri, il loro passaggio da cosa a personaggio aindividuo. Evidentemente la questione si pone sia perché il gioco delleparti è tale che possa esserci una forma di transito tra il modo d’esseredell’oggetto e il suo porsi come soggetto, come abbiamo visto, sia perchél’immagine di sintesi ci si propone sempre più come simulazione verosi-mile della realtà, fno a poter diventare suo sostituto.

Nessuno, di fronte a un dipinto, si sognerebbe di pensare che ciòche vede è reale, perché intuisce che si tratta di qualcosa che ha giustoun rapporto di somiglianza con la realtà che vuole rappresentare, sia essaattuale o potenziale, cioè immaginaria. Così come nessuno, di fronte auna fotografa o un flmato, metterebbe in dubbio l’esistenza reale di ciòche è stato fotografato o ripreso, appunto perché sa che quell’immagineriproduce qualcosa di efettivamente esistente. E nel caso di una immagi-ne di sintesi? Escludendo, a ragion veduta, le immagini di sintesi chehanno rapporto con entità ideali e astratte, come ad esempio le belle im-magini dei frattali che sono espressione visiva delle equazioni di Man-delbrot, qui ci riferiamo a quelle immagini che sono espressione verosi-mile di realtà sia fantastiche (come nel caso di Toy Story) sia, soprattutto,di fnzione mimetica. Per meglio dire: nel caso delle simpatiche peripe-zie di Buzz, Woody e compagnia, sappiamo di trovarci di fronte a deipersonaggi di fantasia e in un mondo fantastico già per il fatto che ve -diamo dinanzi a noi delle immagini che sono di natura iconica, immagi-ni che, cioè, somigliano a quel qualcosa che per noi è la realtà. Toy Storyè infatti quello che noi comunemente chiamiamo cartone animato. Esappiamo che i cartoni animati, anche quelli disegnati e animati in ma-niera iperrealistica, sono pur tuttavia rappresentazioni di una realtà difantasia.

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Le cose si complicano non poco quando ci mettiamo di fronte aun’opera come Avatar10, il flm di James Cameron che ha furoreggiatonelle sale di tutto il mondo e per il quale si è parlato di svolta epocalenella storia del cinema. A cosa stiamo assistendo quando vediamo iNa’vi e i marines su Pandora? Non si tratta né di un flm né di un carto-ne animato ma di un prodotto ibrido che, grazie alle possibilità oferteda una ormai avanzatissima tecnologia di ri-creazione visiva, ha integra-to i sistemi ottici di ripresa e quelli di sintesi dell’immagine, producendorisultati che appaiono estremamente realistici, ossia verosimili, per cui anoi non resta che credere a ciò che vediamo, abbassando sempre più lanostra soglia di incredulità di fronte a personaggi e mondi che altrimen-ti reputeremmo fantastici. Il fantastico si avvicina sempre più alla fnzio-ne, si apparenta sempre più al mondo del possibile11.

L’interrogativo che Avatar ci pone non è quindi: quanto crediamoche i Na’vi, personaggi di sintesi, siano veri? Ma piuttosto: per quantotempo ancora potremo credere che i marines, gli scienziati e tutti gli al-tri terrestri sono attori in carne e ossa? In un contesto in cui l’efcaciadella simulazione si spinge ad abbattere le frontiere della distinzione traciò che è reale e ciò che è simulato, con-fondendo le cose in un tuttoche diviene visibilmente omogeneo e credibile, è legittimo pensare chetra qualche anno i marines potranno sembrare “veri” giusto per farci cre-dere che si tratta di uomini che provengono dal pianeta Terra, cioè perrendere credibili i loro personaggi come fgure appartenenti a un mondo(il nostro) che sappiamo essere quello vero. Una questione relativa alladefnizione di riferimenti su ciò che è (per noi) reale e ciò che non lo è,utile all’articolazione della narrazione e al nostro orientamento al suo in-terno [fg. 5].

10 Avatar di James Cameron, USA/UK, 2009.11 A questo stadio dell’evoluzione della simulazione visiva, è anche la natura del

contratto fnzionale tra opera e fruitore a essere messa in discussione e a dover es-sere ricontrattata sulla base di nuove condizioni.

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Raggiunto questo stadio di perfezionamento della mimesis, il pro-blema di cosa deve sembrarci vero e cosa non lo deve, non appartienepiù all’ordine del rapporto tra originale (reale) e sua copia (simulacro) esi sposta in un ambito che non è più quello dell’immagine – visto cheormai la verosimiglianza del simulato alla realtà è compiuta – ma inquello della sceneggiatura: se tutto è visibilmente realistico, allora nonresta che credere a ciò che ci viene raccontato, e tanto meglio sarà rac-contato, tanto più sarà credibile.

La verosimiglianza della simulazione è più che altro una questionedi coerenza tra questi due aspetti – la sostanza della narrazione e l’efca-cia comunicativa del testo ‒ in rapporto al nostro senso della realtà. Delresto, quando si è superato il limite di distinguibilità tra ciò che è reale eciò che ne è la sua simulazione, si entra nel gioco della perfetta permuta-bilità, dove la trasparenza è assoluta e le parti sono interscambiabili.

Avatar ci indica una via in cui la realtà diventa la fnzione della si-mulazione.

La visualizzazione in 3D è un aspetto di Avatar che molti hanno in-terpretato come puro elemento di intrattenimento spettacolare. Al con-trario crediamo che un giudizio del genere poggi su una “svista”, proprioperché riposa su una concezione spettacolare dell’intrattenimento di na-tura cinematografca. Avatar è un punto di svolta nel senso che mostra ilraggiungimento di un limite: quello di un medium, il cinema, che è co-stretto a renderci spettatori passivi, percipienti immobili la cui possibili -tà di movimento è unicamente oculare e la cui possibilità di interazioneè unicamente immaginativa. In Avatar il 3D è intrattenimento, certo,ma nel puro senso letterale, senza aggettivi aggiunti: è ciò che ci “tienedentro” il flm. La scena di apertura, per il nostro discorso, assume lafunzione di una sorta di dichiarazione d’intenti: all’interno di una sta -zione orbitante, Jake Sully galleggia senza gravità sullo sfondo di un am-biente dalla profondità vertiginosa, in una prospettiva otticamente in-

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credibile, anaerobica12, come fosse in un acquario13 [fg. 6]. È più cor-retto dire che egli galleggia non sullo sfondo ma entro un ambiente checi viene incontro, uno spazio che ci include lì dove avviene l’azione.

Quindi il 3D di Avatar ci “tiene dentro” non entro lo spettacolo delflm (il che presuppone uno spettatore) ma entro il suo spazio, che nonè semplicemente lo spazio reale che conosciamo e pratichiamo quotidia-namente, ma uno spazio flmico, il risultato della fusione tra lo spazioreale e le possibilità di collocarvisi e percorrerlo attraverso le potenzialitàdel medium cinematografco; uno spazio in cui io posso assumere le po-sizioni che la macchina da presa, da una parte, e il racconto, dall’altra,mi consentono, potendo guardare la scena in soggettiva o in oggettiva,percorrendo lo spazio e il tempo in modi che sarebbero altrimenti im-possibili14. Questa possibilità di essere entro lo spettacolo del mondo, giàinsita nel linguaggio cinematografco, in Avatar compie un passo avantie ci trasforma in qualcosa di diverso che semplici spettatori, ponendocinei panni di qualcuno che abita la scena e che è prossimo ad agirvi.Tant’è che, a diferenza di flm come Lo Squalo 315, dove il 3D è usato

12 Ci consentiamo qui un riferimento, seppur “negato”, alla prospettiva aerea dei pit-tori rinascimentali, quella in cui, come nella lezione leonardesca, l’atmosfera cau-sa un efetto di sfocatura e variazione tonale di ciò che è posto lontano dall’osser -vatore. La rappresentazione di quest’efetto garantiva un senso di progressione deipiani che si stagliavano tra l’osservatore e la realtà e una realistica rappresentazio-ne delle distanze.

13 Crediamo che le esperienze maturate nella realizzazione di un flm come Abyss eper le riprese subacquee sul relitto del Titanic, abbiano condizionato lo sguardodi Cameron, il suo “inconscio ottico” (Benjamin), fno a permeare il suo sensovisivo dello spazio.

14 Stiamo quindi parlando sia di posizioni fsiche che proposizionali. A tal proposi-to si veda F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il flm e il suo spettatore , Bompiani, Mila-no 1986. È opportuno ricordare che anche il montaggio contribuisce a defnire lequalità dello spazio flmico.

15 Lo squalo 3 (Jaws 3-D) di Joe Alves, USA, 1983. È il terzo remake del fortunatoflm di Spielberg del 1975.

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in alcuni momenti topici (l’assalto dello squalo, ad esempio) come efet-to speciale, con lo scopo di raggiungerci nella nostra posizione (fsica enarrativa) di spettatori, Cameron usa il 3D come protesi architettonicadello spazio flmico, proponendoci di condividere, lungo tutto il flm, lospazio di quel mondo che si dipana davanti ai nostri occhi e che ora(quasi) ci circonda toccandoci.

Se Jake Sully discende nel mondo dei Na’vi incarnadosi nel corpodi uno di loro, noi discendiamo in Avatar grazie al “ponte” che il 3D ciofre.

GiocAttoriL’avatar, nell’induismo, è l’incarnazione di una divinità, il suo di-

scendere tra gli uomini per ristabilire un ordine perduto. Si tratta di unafgura funzionale allo svolgimento di un compito che viene espletato at-traverso una serie di azioni obbedienti a un disegno prestabilito, un fato.Il protagonista del flm di Cameron, il marine infermo Jake Sully, di-scende tra gli alieni (i Na’vi) incarnandosi nel corpo di uno di loro. Noi,per tutto il flm, in realtà assistiamo a un’esperienza di possessione o, perlo meno, di trasmigrazione dello spirito di qualcuno nel soma di qual-cun altro. Posta in questi termini, la lettura di Avatar prenderebbe unapiega teo(tecno)logica. Fuor di metafora, vogliamo puntare l’attenzionesul fatto che (e sul modo in cui) oggi le strategie dell’entertainment, at-traverso le tecnologie e i linguaggi della rappresentazione audiovisiva,cercano di immergere il soggetto fruitore nel contesto dell’azione, spin-gendolo a interagire con gli altri attori in campo. Il soggetto che entra eagisce in un tale contesto ha bisogno di incarnarsi in qualcuno che, fattodella stessa carne immateriale di quel mondo, ne divenga la sua protesi.Avatar è la rappresentazione cinematografca e didascalica di questo pro-cesso che, comunemente, esperiamo in maniera diretta attraverso i vi-deogame, sia quando interagiamo in terza persona e ci vediamo in sce-

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na, impersonati nel nostro avatar, sia quando siamo totalmente immersinell’interazione in prima persona e vediamo in soggettiva attraverso losguardo del nostro avatar, come nel caso dei cosiddetti “sparatutto” (ofrst person shooter)16.

Prendiamo ora tre titoli che mettono in evidenza, in maniera esem-plare ma non esclusiva, alcune delle direzioni di sviluppo più avanzatedel mondo del videogame e che ci consentono di ragionare seguendo ilflo del discorso che qui si sta svolgendo, comprendendo il rapporto trastrategie e tattiche dell’intrattenimento, da una parte, e implicazioni perl’esperienza vissuta dal fruitore, dall’altra.

Una delle considerazioni fondamentali che occorre fare riguarda ilmodo in cui noi prendiamo posto nel gioco, ovvero bisogna indagare iltipo di interfaccia tra noi e lo spazio in cui interveniamo con le nostreazioni. Si tratta di considerazioni che quindi riguardano il modo in cuisiamo rappresentati nel gioco e il modo in cui il gioco si presenta allanostra percezione e ci consente di agire, diventando un certo tipo diesperienza.

In molti titoli il giocatore è obbligato a un unico punto di vista, so-litamente riconducibile allo sguardo “in oggettiva” che inquadra l’avatardel giocatore e l’ambiente nel quale si muove e agisce. In altri titoli,quando si vuole creare maggior tensione e immedesimazione, come ne-gli “sparatutto”, lo sguardo del giocatore si situa tra la soggettiva e lasemi-soggetiva17. Si tratta di scelte fatte a monte, durante la progettazio-

16 Spesso ci troviamo anche di fronte a semi-soggettive, oggettive irreali e interpella-zioni, secondo una pluralità di confgurazioni del punto di vista che, di fatto, ar -ricchiscono l’esperienza di gioco del fruitore. Per una dettagliata trattazione delleconfgurazioni assunte dallo sguardo nel cinema (ma il discorso vale per qualsiasimedium visivo, specie se usato narrativamente), cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo,cit.

17 Posizione, quest’ultima, che certamente consente un maggior controllo del cam-po d’azione, grazie al fatto di comprendere noi stessi entro il nostro campo visi -

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ne del videogame, strategie che riguardano la “testualizzazione” del gio-co, ovvero la sua “messa in scena”, potremmo dire, e che risultano tantoefcaci ed espressive quanto vincolanti.

In Heavy rain18, titolo per Play Station 3 basato su una fsica19 estre-mamente avanzata e una resa visiva molto realistica, è stata invece perfe-zionata una modalità di visione che integra diferenti punti di vista, siadel soggetto, sia esterni a esso. Il punto di vista può essere oggettivo, ri-ferendosi così a un osservatore esterno ma implicato, consentendoci dicontestualizzare l’azione in cui siamo coinvolti entro un sistema di riferi-menti utili a orientare la nostra esperienza di gioco; ma può anche esseresoggettivo o semi-soggettivo, per consentirci di assumere delle posizioni“intriganti” che ci introducono patemicamente nell’intreccio della nar-razione, rendendoci osservatori partecipi [fg. 7a-b-c-d-]. Il punto di vi-sta, ancora, può essere la soggettiva di qualcun altro, nostro coadiuvan-te, antagonista o nemico, inserendo nel racconto, in tal modo, soggetti -vità altre rispetto alla nostra. Quest’ultimo aspetto, contrariamente a ciòche avviene nei titoli giocabili unicamente in soggettiva o in semi-sog-gettiva, trasforma il nostro avatar (e, con esso, la nostra esperienza digioco di soggetti agenti della narrazione) in qualcuno che può essere an-che l’oggetto di uno sguardo altrui, appunto quello di un altro perso-naggio che mi guarda e che ofre a me fruitore il suo punto di vista perrendermi consapevole della sua presenza come altro agente della narra-zione. Così io divento qualcuno per qualcun altro [fg. 8a-b-c-d]. Non

vo, come se il nostro punto di vista fosse posto al nostro fanco, appena distacca -to da noi. Questo consente di mostrare il nostro avatar come personaggio incampo, sotto la nostra direzione.

18 Heavy Rain di David Cage, Quantic Dream, Francia, 2010.19 Utilizziamo il termine secondo l’accezione corrente nel gergo dei videogame, per

cui ci riferiamo a ciò che riguarda la simulazione del comportamento fsico –quello relativo alle leggi della meccanica, con le implicazioni derivanti da fattoricome massa, gravità, velocità, accelerazione, inerzia, attrito, fuidità, ecc. – ri-guardanti persone e oggetti.

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sono più il solo protagonista e, anche se solo per gli istanti in cui vengoguardato, sono deprivato della mia centralità e ricondotto all’interno diun sistema di fgure in cui io, come gli altri personaggi, rivesto un ruolo,ora soggetto, ora assoggettato agli altri, essendo tutti attori agenti di unanarrazione che ci comprende. Ma, a guardare le cose secondo una pro-spettiva più ampia, il nostro rapporto con la narrazione è che da essa sia-mo anche agìti. I personaggi guardano, ma in realtà è la narrazione cheli inquadra, che guida i loro sguardi così come le loro possibili avventu-re.

Il punto di vista dipende quindi, da una parte, da come ci muovia-mo entro lo spazio del gioco e dalle nostre azioni e, dall’altra, dal sensoche queste rivestono come orditura di una trama, come elementi di unasceneggiatura che si va facendo man mano che ci addentriamo nel gio-co. Se è vero che Heavy rain, come ogni gioco, presenta degli elementidi sceneggiatura predeterminati, se ne deduce anche che il modo in cui“facciamo” la storia del gioco produce una serie di possibilità di sviluppodella storia stessa, contrariamente a quanto succederebbe con un flm ocon qualsiasi altro “testo” basato su una narrazione lineare. In questocaso siamo, infatti, nell’ambito di una narrazione dagli esiti plurali, incui procediamo passando per numerosi snodi narrativi che, a secondadei casi, ci porteranno a degli sviluppi piuttosto che ad altri. Non è uncaso che i personaggi principali siano ben quattro – e che quindi cam-bieremo quattro volte i nostri panni di protagonisti del gioco – e cheesistano 17 fnali possibili20.

20 Cfr. Heavy rain:«Il gioco in cui le tue azioni determinano lo svolgersi della storia[...]. Nel gioco le tue azioni e le tue scelte avranno un impatto concreto sul desti-no dei personaggi e sullo sviluppo degli eventi. Ogni tua decisione potrebbe rive-larsi cruciale e avere conseguenze impreviste, rendendo l’esperienza di gioco in-tensa e avvincente. Ecco un esempio estremo: se uno dei quattro personaggimuore in seguito alle tue scelte, non sarà game over. Invece, la trama continuerà ilsuo corso con un altro personaggio, e la morte del precedente diverrà parte dellastoria, infuenzando i comportamenti degli altri e le scelte da intraprendere per

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C’è quindi questa commistione, assai efcace e coinvolgente per ilgiocatore, fatta di personaggi estremamente credibili21, ben caratterizza-ti, inseriti in una sceneggiatura ben articolata, accattivante, con un accu-rato dosaggio tra parti “pre-scritte” e parti “giocabili”. Ma, ingredientealtrettanto fondamentale è quello che poco più sopra chiamavamo inter-faccia: il modo in cui il gioco si svolge dinanzi ai nostri occhi e, quindi,in che modo ci si (rap)presenta e che tipo di fruitore costruisce. Per ren-dere immediatamente l’idea diciamo che l’impressione che abbiamoquando giochiamo a Heavy rain è quella di trovarci dentro un flm. Aquesto punto del nostro discorso non diciamo più “di fronte” a un flmperché, per quanto abbiamo detto, sappiamo che il videogame richiedela nostra interazione e ci implica nello spazio simulato del gioco. Ma,nel caso di Heavy rain, il nostro modo di intendere il “dentro” tieneconto di un ulteriore livello di complessità e, in efetti, di adeguamentoal linguaggio cinematografco. Stiamo parlando infatti di un gioco che sipresenta al fruitore secondo la confgurazione tipica di un flm, ovverosecondo la messa in sequenza di inquadrature diferenti e, quindi, se-condo un montaggio narrativo che si fa in diretta e a seconda di come cimuoviamo nello spazio e delle azioni che compiamo. Un gioco visto eagìto attraverso uno sguardo cinematografco. E la qualità dell’esperien-za di gioco di Heavy rain è dovuta fortemente a questo utilizzo strategi-co del linguaggio flmico: un linguaggio talmente connaturato alla no-stra esperienza di fruizione visiva di una narrazione che ci risulta essere ilmodo più immediato per entrare in gioco.

giungere alla fne» (consultato il 23 aprile 2011). Per dovere di cronaca precisia-mo che Heavy rain non è certo il primo gioco a prevedere diversi fnali. Al con-trario, si tratta di una pratica ormai consolidata e molto difusa nel game design.

21 La cura evidente nella resa dei capelli fuenti, del labiale, dei movimenti del cor-po e – in maniera ben più signifcativa per il conferimento di un aspetto umanoai personaggi sintetici – dello sguardo e dell’espressione del volto sono il frutto diun’avanzata simulazione derivata da un altrettanto avanzato procedimento di mo-tion capture, modellazione e texturing.

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Quando io, facciamo il caso, sono la bella Madison che si truccanel bagno della discoteca per cercare di sedurre Paco ed estorcergli delleinformazioni, sono talmente coinvolto nella vicenda per il modo in cuila vivo che entro come in uno stato di trance, divento Madison e mi re-laziono a Paco come fosse un mio pari. Divento un personaggio del gio-co/flm tra gli altri. E, occorre sottolineare, non si tratta di un’estasiadrenalinica come quella delle azioni tipiche degli sparatutto in cui, vo-lendo banalizzare, il giocatore si trasforma in un cane pavloviano che ri-sponde allo stimolo-nemico sparando in maniera irrifessa e condiziona-ta. Qui la fruizione non è una reazione nervosa ma un processo (razio-nale quanto patèmico) basato sulla competenza narrativa del giocatore; el’azione si fonda sulla sua cultura di fruitore audiovisivo 22 e non sullasua natura di animale reattivo.

Se la logica del 3D di Avatar cercava di in-trattenerci nello spazioflmico, pur lasciandoci nella nostra posizione di spettatori, quella diHeavy rain sfrutta il linguaggio cinematografco per introdurci comeagenti entro un immaginario fortemente codifcato nel quale sappiamogià muoverci come spettatori. Il cinema è il nostro imprinting, il modo

22 Un background che potremmo defnire come stratifcazione di codici che si sonosedimentati nell’immaginario comune grazie alla enorme quantità di comunicatie testi audiovisivi che fruiamo continuamente. La forma espressiva della nostrainfosfera audiovisiva, a livello generale, si basa su un linguaggio che, nel cinema,ha trovato la sua matrice più feconda ed efcace, producendo negli anni varieforme ed espressioni. Per cui, i teorici del cinema, nel recente dibattito sulla“morte del cinema”, concordano nel ritenere che sia morto il flm (la pellicola, ladistribuzione in sala, il lungometraggio come formato testuale, la narrazione li -neare...) ma non il cinema (il linguaggio, le sue strategie narrative...). Per una in-teressante ricognizione, cfr. F. Casetti, J. Gaines, V. Re (a cura di), Dall’inizioalla fne. Teorie del cinema in prospettiva, XVI Congresso internazionale di studisul cinema, Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali, Dams/Gorizia,Università degli Studi di Udine, Forum ed., Udine 2010; altra utile lettura, foca-lizzata sul rapporto tra cinema e videogame, è: M. Bittanti (a cura di), Schermiinterattivi. Il cinema nei videogiochi, Meltemi, Roma 2008.

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in cui siamo abituati a fruire visivamente una narrazione, ed è il trampo-lino attraverso il quale possiamo spiccare il volo nel mondo interattivodel videogame. In Heavy rain l’esperienza di gioco non è quindi più re-legata alla posizione prefssata del fruitore – come fossimo degli spetta-tori con limitate possibilità di movimento (e di sguardo), seppure inte-ragenti – ma è la maturazione del cinema nella direzione dell’inclusionedi un soggetto agente.

In Heavy rain, nel segno del linguaggio cinematografco, l’in-tratte-nimento si compie nell’inter-azione, suggerendo possibili forme di pro-duzione all’incrocio tra arte, ludus e spettacolo, in cui il soggetto rivesteun ruolo determinante nello sviluppo della narrazione ed è partecipe divicende che si producono sotto i suoi occhi e in base al suo comporta-mento.

Quando il gioco si fa duro, i duri “emergono”Red Dead Redemption23 è l’ultimo titolo prodotto dalla Rockstar ga-

mes, la stessa casa della serie Grand Teft Auto che ha contribuito a in-novare l’esperienza ludica del videogame.

In termini di design concept, Red Dead Redemption rientra tra i freeroam, ovvero quei videogame che consentono al giocatore di aggirarsi li-beramente per il mondo simulato del gioco, interagendo con personaggie oggetti in una maniera che non ricalca uno schema e dei percorsi pre-stabiliti, come invece succede nella maggior parte dei videogame. Que-sto vuol dire che io posso scegliere di svolgere un’azione piuttosto cheun’altra, decidendo il momento in cui farlo. È pur tuttavia vero che allalogica del free roam è associato un canovaccio narrativo, seppur in termi-ni generici o, potremmo forse dire in maniera suggestiva, di “genere”.Ciò vuol dire che Red Dead Redemption, ambientato nel West, non hauna vera e propria sceneggiatura, come succederebbe se fossimo di fron-

23 Red Dead Redemption, Rockstar San Diego, USA, 2010.

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te a un flm western, ma una serie di personaggi, ruoli, modelli di com-portamento e aspettative (del fruitore/giocatore) che rientrano nei cano-ni del western, appunto per il fatto che questo è un “genere”24. La logicaè, quindi, quella della libertà di movimento e d’azione massima, in uncontesto che, visivamente, risulta essere molto realistico. La resa visivadei personaggi, degli animali, dei loro movimenti, come degli oggetti edel paesaggio, senza escludere i sorprendenti efetti atmosferici e d’illu-minazione, contribuiscono notevolmente a rendere suggestiva l’esperien-za di gioco25 [fg. 9a-b].

Oltre che su un’esperienza visiva assai realistica, gli sviluppatori del-la Rockstar hanno scommesso parecchio sulla creazione di un’esperienzarelazionale assai intrigante. Alla logica del free roam è stata associata, in-fatti, quella del multiplayer: grazie alla possibilità di connettersi via inter-net allo stesso “mondo” di gioco, ci si può trovare a giocare a fanco dialtri cowboys, scerif, indiani e brutti cef, tutti avatar di altri giocatorireali sparsi per il mondo [fg. 10a-b]. Il gioco diventa una sorta di gamelobby26. Ci si aggrega come una banda per perseguire un determinato

24 Per cui ci immaginiamo che un cowboy abbia una pistola che serve a sparare aqualcun altro; che ci siano più farabutti infdi che persone oneste; che pupe e pe-pite facciano il paio; che entrando in un saloon potremmo giocare a poker conun pugno di bari, e così via.

25 Il limite di una resa che ancora non è fotorealistica è solo da imputare a una tec -nologia che, sulle console come la Xbox 360 o la Play Station 3, non è ancora ingrado di supportare la potenza di calcolo necessaria a un rendering fotorealisticoin tempo reale. Questione di tempo...

26 «Il giocatore può cavalcare per le pianure, scontrarsi nei rifugi delle gang, oppureunirsi a partite e sfde organizzate. I giocatori possono rimanere solitari oppureunirsi ad altri e formare delle bande. La tua banda, formata da un massimo diotto persone, può esplorare il mondo in gruppo, fare fuori altre bande, combatte-re i criminali o la legge, partecipare in ogni momento ad attività collettive –come il tradizionale death match ‒ o semplicemente andare a caccia. Sparse pertutta la mappa si possono trovare le aree di caccia dove gruppi di animali attac-cheranno te e la tua banda. In alternativa potrai esplorare tutto il mondo in cerca

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obiettivo, si solidarizza, si sviluppa il senso del branco, della difdenza edell’opportunità, sapendo che chi hai intorno può esserti fedele o nemi-co, a seconda dei casi, a seconda del carattere e della sua morale, comenella vita reale. È ciò che succede normalmente in un MMORPG(Massively Multiplayer On-line Role-Playing Game, ovvero: ‘gioco di ruo-lo online multigiocatore di massa’) dove

accadono cose apparentemente fuori dal comune. Dalle rivolte allemanifestazioni, passando per i matrimoni, i funerali, i party, i furti ei rapimenti. E i gruppi di giocatori riescono a dar vita a organizzazio-ni di ogni tipo capaci di emulare volta per volta i grandi oligopolicommerciali, la malavita, gli ordini religiosi dediti al proselitismo.Del resto, essendo frequentati da persone in carne e ossa, mondi delgenere sono degli specchi della nostra società27.

Si pensi a quello che può succedere in realtà come quelle di EVEOnline, cui possono essere collegati oltre 60 mila giocatori contempora-neamente28.

di animali rari. Quando il leader crea una banda può defnire dei way point, inmodo che tutta la gang li possa seguire. Se una parte del gruppo fnisce in unasparatoria, il resto del gruppo potrà aggregarsi velocemente. Più gruppi, fno a unmassimo di 16 giocatori, possono combattere tra di loro come e dove preferisco-no. Durante il free roam i gruppi possono anche prendere parte alle sfde in team,attaccando i nascondigli delle gang; oppure possono diventare fuorilegge e sfug-gire alle forze dell’ordine», trascrizione del video promozionale Red DeadRedemption Gameplay video ‒ Multiplayer Free Roam Italiano, visionabile nel ca-nale ufciale italiano della Rockstar Games di YouTube (consultato il 23 aprile2011).

27 J. D’Alessandro, Vuoi capire il terrorismo? Studia World of Warcraft, «la Repubbli-ca», 25 marzo 2008.

28 Nel luglio del 2009, un giocatore australiano, sotto lo pseudonimo Ricdic, im-personava «il CEO di una corporazione (la EBank) che efettuava servizi bancariall’interno del gioco: depositi contro interessi, prestiti, ecc. per oltre 6.000 gioca-tori. Un giorno Ricdic ha prelevato l’8% della valuta depositata nella cassa di

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I l multiplayer di Red Dead Redemption comporta un aspetto assaiinteressante e signifcativo per il portato immaginario che reca con sé.Contrariamente a quella che è la nostra comune esperienza di gioco coni videogame, quello che io vedo qui è unico e determinato dal miomodo di giocare, in un accezione tuttavia diferente rispetto a quantoavevamo detto per Heavy rain: lì, attraverso il modo in cui ci muoveva-mo nello spazio del mondo di gioco, determinavamo un montaggio intempo reale che era la rappresentazione visiva della nostra personaleesperienza di gioco. Potremmo dire che in Heavy rain “ogni giocatorevede il suo flm” o, per meglio dire, “vive il suo flm”. In Red Dead Re-demption, invece, siamo immersi in un mondo di gioco in cui ci muo-viamo liberamente (open word). Questo vuol dire che nel mio paesaggiosaranno compresi coloro che mi stanno intorno e che io vedo; e quelloche vede lo scerifo, o il messicano accanto a me, sarà determinato dalsuo agire in un mondo che comprende anche me e le mie azioni. Larappresentazione del mio gioco, cioè della mia storia, comprenderà leazioni degli altri che si trovano con me a condividere quello stesso am-biente. E gli altri condizioneranno la mia storia e ne saranno anche spet-tatori, ma in un modo che sarà il loro punto di vista sulla mia storia, apartire dalla loro storia personale. Io, oltre a essere il protagonista della

corporazione (circa 200 miliardi di ISK, la valuta di EVE Online), rivendendolanel mondo reale online e ricavando oltre 5.100 dollari US di valuta reale. Conse -guenza del suo gesto è stato solo il ban defnitivo dal gioco, poiché questo tipo dicompravendite (valuta virtuale contro valuta reale) contravvengono ai terminiprevisti dalla licenza d’uso. Se Ricdic si fosse limitato al furto in-game, non sareb-be accaduto nulla, poiché i furti fanno parte della realtà del gioco. Il problema ènato non appena ha iniziato a vendere il denaro virtuale nel mondo reale. Nessu-na conseguenza, invece, sotto il proflo giudiziario del mondo reale, in quantoquesto tipo di trufa non è contemplata dalle leggi vigenti. L’interessato ha di -chiarato di non essere orgoglioso di quanto fatto, ma che se avesse potuto ripete -re il gesto lo avrebbe fatto. Sembrerebbe che, con i soldi realizzati, abbia pagatoalcune spese mediche e regolarizzato un mutuo», in EVE Online, in Wikipedia.L’enciclopedia libera (consultata il 23 aprile 2011).

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mia storia, sono anche un “altro” per qualcuno. Ci troviamo in intera-zione reciproca, insieme ad altri, immersi in un mondo simulato chefunziona come quello reale, in cui ognuno fa le proprie esperienze. Percui potremmo dire che “ognuno vive il suo mondo” (di gioco) che, allostesso tempo (reale), è il mondo in cui agiscono anche gli altri. Il gioco èlo stesso, ma ognuno lo vive a suo modo, ognuno con il suo gameplay29.

Ciò che a nostro avviso vi è di straordinario nel multiplayer di RedDead Redemption è il suo essere una piattaforma per lo sviluppo parteci-pato di un immaginario che si nutre dell’esperienza dei singoli. Però,dove vanno a fnire tutte queste esperienze? Cosa produce questo poten-ziale, come si esprime e su cosa si applica?

Consideriamo le singole esperienze di gioco come un intreccio va-riabile, imponderabile e indefnibile di storie. A questo punto possiamointuire che la storia non è scritta una volta per tutte: il giocatore intera-gisce insieme ad altri e tutti insieme vivono una storia che ognuno con-tribuisce a costruire attraverso le proprie azioni. E se è vero che esistonodei momenti e degli schemi prefssati, è altrettanto vero che esistono in-defnite possibilità di sviluppo. Più che il fnale conta il percorso, il pro-cesso di gioco con le sue varie performance. Del resto, la singolaritàdell’intervento di ogni giocatore può determinare svolte imprevedibiliper gli altri giocatori o, addirittura, non previste dal game designer du-rante la progettazione del gioco stesso. Tale modalità di gioco va sotto ladenominazione di emergent gameplay, proprio perché situazioni com-plesse e impreviste “emergono” dall’interazione dell’utente con meccani-che di gioco previste, cioè programmate, ma semplici e basilari30.

29 Questo è anche ciò che succede normalmente in MMORPG come il già citatoEVE Online o Word of Warcraft, in cui, però, l’esperienza di gioco defcita di unaspetto che qui ci sembra di fondamentale rilievo per l’immaginario dell’utente:l’esperienza “para-flmica” del gameplay.

30 «videogiochi che permettono al giocatore di giocare potenzialmente in un modoche non era stato progettato o previsto dallo sviluppatore, e che nondimeno fun-ziona. L’emergenza (emergence) nel gioco si presenta quando il giocatore è in gra-

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La realtà simulata nel gioco inizia a diventare una sorta di materiaplasmabile, una realtà in feri che si trasforma sulla base dell’interventodell’utente, in un processo di negoziazione dello sviluppo del gioco chevede, da una parte, il mondo simulato e programmato in fase di designcome materia data ma pronta a trasformarsi e, dall’altra, l’esplorazionedi possibilità ulteriori efettuate dall’utente, aprendo così lo spazio allacreazione di nuove istanze narrative31.

do di utilizzare gli elementi fondamentali che sono stati forniti dallo sviluppatoreper creare nuove meccaniche di gioco (gameplay), come storie o strategie. L’emer-genza nei giochi è resa possibile defnendo regole, comportamenti e proprietàsemplici per gli oggetti del gioco e la loro interazione nel mondo di gioco e con ilgiocatore. L’emergent gameplay permette al mondo di gioco di essere maggior-mente interattivo e reattivo, creando un più ampio raggio di possibilità per azio-ni, strategie e meccaniche di gioco. L’emergent gameplay “locale” si presenta quan-do una sezione del gioco permette un nuovo comportamento che non crea efettideterminanti sul resto del gioco. L’emergent gameplay “globale” si presenta quan-do regole e proprietà semplici e di basso livello degli oggetti del gioco interagisco-no per creare meccaniche di gioco nuove e di alto livello che modifcano il modoin cui il gioco può essere giocato». Il testo di Penny Sweetser, autrice di Emergen-ce in games (Charles River Media, 2007) è tratto dall’home page del suo sito web(consultato il 23 aprile 2011).

31 Assistendo a una sessione di prova di Fable, Peter Molineux riporta di aver visto«un giocatore di 15 anni approcciare una donna che era la fglia del Sindaco. Luile comprò regali e fori, le parlò tutto il tempo, cominciò a baciarla e abbracciar-la... e alla fne si sposarono e andarono a vivere insieme. Quindi il giocatore andòa parlare con il Sindaco e gli chiese di seguirlo. Lo portò nel bosco, poi dietro unalbero... e lo uccise!». Quando Molineux chiese al giocatore perché lo avesse fat-to, quello gli rispose che «immaginava che il Sindaco fosse ricco e che la sua uni-ca fglia avrebbe ereditato tutte le sue ricchezze». Molineux quindi notò che, «cer-tamente, la fglia del Sindaco era ora molto ricca, ma che, sicuramente, nonavrebbe voluto condividere i suoi beni con lui. Il giocatore, a quel punto, ucciseanche la fglia. E prese possesso della casa del Sindaco!», trascrizione di un’inter-vista a Peter Molineux, in Dave Kosak, Te Future of Games from a DesignPerspective, Gamespy, 7 marzo 2004, (consultata il 23 aprile 2011).

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Il gioco somiglia sempre di più alla vita, non solo per come appare,ma per come lo viviamo. Non è più il dominio dell’illusione visiva maquello della verità di un’esperienza totale e imprevedibile.

Un piccolo inciso.Nel caso di titoli come Te Sims32, che potremmo defnire ‘gioco di

strategia basato sulla simulazione della vita (quotidiana) reale ’, si parlapiù propriamente di emergent narrative in quanto non è prevista (o qua-si) alcuna forma di narrazione e ciò che succede è unicamente il risultatodell’interazione tra i soggetti “in campo” e tra questi e l’ambiente in cuiagiscono. Per cui i giocatori non interagiscono con una sceneggiaturama la creano; e questa si fa e procede unicamente (e in maniera singola-re) a seconda del carattere dei giocatori, degli oggetti con i quali essi in-teragiscono e degli eventi che essi determinano come variabili per gli al-tri giocatori e, infne, delle azioni che gli altri giocatori compiono. Tut-tavia l’esperienza di gioco di Te Sims non segue un percorso narrativoperché non si crea una vera e propria sceneggiatura ma una disarticolatasequenza di fatti; e proprio per il fatto di essere così banalmente “vicinaalla vita reale”, risulta essere meno accattivante di altri games“emergenti” ma strutturati secondo forme narrative in qualche modovincolanti, più o meno lineari. Inoltre la resa visiva dei personaggi e de -gli ambienti non è realistica ma “giocattolosa”, come fossimo nella casadi Barbie33.

32 Te Sims, prodotto dalla Electronic Arts, è il videogame più venduto di tutti itempi (100 milioni di copie, senza contare le versioni pirata) e vanta una comu-nità di utenti enorme che, ancora oggi, dà vita ai personaggi e si scambia onlineabiti, accessori e oggetti creati appositamente per questi e il loro mondo. Allastessa categoria, quella dei MMORPG, appartiene un altro enorme successocommerciale come Word of Warcraft, che conta una comunità online di 12 milio-ni di giocatori.

33 Probabilmente uno dei motivi del successo di Te Sims presso l’utenza femmini-le.

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Ancor più rilevante, il punto di vista oferto al fruitore è assoluta-mente straniante: un fusso visivo in cui lo sguardo si muove, senza solu-zione di continuità, spostandosi sui diversi personaggi e i vari luoghi,sempre secondo una modalità oggettiva, a tratti simile alla visione iso-nometrica della progettazione tecnica: una visione che implica un osser-vatore esterno, ideale, onnisciente e onnipotente (del resto si tratta pursempre di un gioco di strategia...)34 [fg. 11].

Il giocatore di Te Sims è un osservatore che manipola burattinipiuttosto che immedesimarsi in essi come suoi avatar; e che governaambienti, piuttosto che abitarli.

Milo, il bambino con la testa nella nuvolaL’ultimo videogame che vogliamo trattare, a chiusura di questa bre-

ve carrellata, è Milo. In realtà non si tratta di un vero e proprio titoloperché non è stato messo in commercio e, al momento, pare che non losarà mai. La Microsoft si è infatti rifutata di completarne la realizzazio-ne, preferendo servirsene come prodotto sperimentale per lo sviluppo dialtri giochi. Vedremo perché.

Milo nasce dalla mente creativa di Peter Molineux, game designer trai più innovativi, con alle spalle titoli che hanno rivoluzionato il modo digiocare, non tanto per la qualità della simulazione visiva dei personaggie degli ambienti, quanto per quella del gameplay introdotto, della logicadi gioco. Molineux è uno dei sostenitori e fautori dell’emergent gameplaydi cui si parlava più sopra, tanto da credere che sarà proprio questo ilterreno sul quale la creatività e il mercato si dirigeranno nei prossimianni, grazie alla disponibilità di tecnologie ormai mature e largamenteaccessibili.

Milo viene sviluppato all’interno del Project Natal, grande incuba-tore tecnologico della Microsoft che ha defnito un diferente approccio

34 Lo stesso discorso vale anche per Word of Warcraft.

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a l game design e nuove tecnologie (software e hardware) per renderloconcretamente fruibile. Nel 2009, durante la presentazione pubblica deiprimi prototipi realizzati per il Project Natal, Steven Spielberg ha afer-mato di sentirsi «di fronte a una svolta epocale, un momento tanto si-gnifcativo quanto quello della trasformazione dallo schermo quadratoal Cinemascope e all’Imax, [vedendo] un nuovo modo di personalizzarel’esperienza di gioco che rende possibile anche il cambiamento dei para-digmi della narrazione e delle relazioni sociali. Quello che la Microsoftsta facendo non è reinventare la ruota, ma levarla di torno»35. La ruotacui si riferisce Spielberg è, oltre l’ovvia metafora, anche qualcosa di reale:l’interfaccia fsica del controller, il gamepad, ovvero il dispositivo fsicocon il quale l’utente si muove e agisce nel mondo simulato del gioco.Spielberg sostiene inoltre che «l’unico modo per portare l’intrattenimen-to interattivo alla portata di tutti è rendere invisibile la tecnologia. Aquesto punto la domanda sarà: come porre l’attenzione sull’utente e farein modo che si diverta con una tecnologia che non riconosca solo i suoipollici e polsi [come nell’interazione tramite il gamepad] ma il suo interoessere?»36. Alla domanda risponde la Microsoft: «You are the controller[...] Te only experience you need is life experience»37. Il Project Natal,poi ribattezzato Kinect, si è concretizzato infatti nella realizzazione di undispositivo di controllo che consente all’utente di interagire unicamenteattraverso la voce e i movimenti del corpo. Grazie a un avanzato sistemadi riconoscimento gestuale e del linguaggio verbale, l’utente si muove eagisce entro il mondo simulato del gioco giusto con il cenno di unamano o un comando vocale, realizzando quella che, fno a non moltotempo fa, era la visione di un futuro remoto immaginata da Philip K.Dick nelle pagine di Minority Report; visione resa poi famosa dall’omo-

35 Steven Spielberg discusses Project Natal, in YouTube (consultato il 23 aprile 2011).36 Ibidem.37 Project Natal ‒ Te Innovation Journey, in YouTube (consultato il 23 aprile 2011):

«Il controller sei tu [...] L’unica esperienza necessaria è la tua esperienza di vita».

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nimo flm di Spielberg (guarda caso) in cui Tom Cruise interagisce condei dati, letteralmente “manipolando” le loro rappresentazioni virtuali eparlando con il terminale.

Ripensando allo slogan della Microsoft sopra citato, si comprendeche gioco e vita, corpo reale ed esistenza simulata, si avvicinano semprepiù confondendosi gli uni con gli altri. È per noi interessante notare cheMolineux abbia aperto una importante conferenza di presentazione diMilo sostenendo che fnalmente, grazie alla tecnologia Kinect, gli «sareb-be stato possibile dedicarsi a quel particolare problema della narrazione:creare un personaggio che sembri vivo, che mi noti, che mi guardi negliocchi e sembri reale, e costruire una storia su questa relazione»38. PerMolineux la “trasparenza” di un’interazione personale che si fondasull’esperienza comune dell’utente è la conditio sine qua non per raggiun-gere la veridicità della simulazione e l’efcacia della narrazione, aspettiindiscernibili di uno stesso processo. Il realismo, qui, è un efetto delracconto, è il portato di una strategia testuale.

Ma come funziona Milo? Grazie alla tecnologia Kinect, il giocatoreusa le sue mani per manipolare e intervenire sul mondo simulato delgioco, aferrando, premendo, spingendo, tirando e così via, come fossecon le mani “in pasta” nel gioco, in presa diretta sulle cose; e usa i movi -menti del suo corpo per muoversi entro il mondo del gioco o per muo-vere il suo sguardo, per cui se ruoterà la testa a sinistra o inclinerà il bu -sto in avanti, il suo sguardo si muoverà concordemente e di conseguen-za. L’efetto di continuità tra il mondo reale e quello simulato è, così, diestrema efcacia. Del resto questo è il principio alla base della VirtualReality, la “realtà virtuale immersiva” nata negli anni Ottanta nell’ambi-to della simulazione tattica militare. E l’immersività è forse la qualitàchiave per descrivere quest’esperienza: è come se lo schermo diventasse

38 Peter Molyneux demos Milo, the virtual boy, documentazione della presentazioned i Milo alla TED Global Conference del luglio 2010 (consultata il 23 aprile2011).

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la maschera di un subacqueo, aperta su un mondo straordinario ma pos-sibile, in cui ci muoviamo e comportiamo sulla base della nostra espe-rienza comune39.

A parte il potenziale immersivo legato al movimento nostro e delnostro sguardo, ricordiamo che abbiamo anche la possibilità di interagi-re usando la voce. Il che vuol dire che possiamo usare sia dei comandivocali, sia – cosa assai più rilevante e innovativa – il linguaggio naturale,così come faremmo nel mondo reale.

A questo punto del discorso sveliamo l’aspetto più signifcativo:Milo è un virtual-friend simulator. Il gioco prende il nome dal suo prota-gonista, Milo, un ragazzino di undici anni con cui l’utente interagiscecontinuamente. È nota solo la situazione di partenza: Milo ha appenatraslocato e si trova in una nuova casa, in un luogo che non conosce edove non ha amici; i suoi genitori, d’altronde, non hanno tempo per oc-cuparsi di lui. Il giocatore parla con Milo come se si trovasse di fronte aun ragazzino vero e Milo gli risponde coerentemente, sulla base del suoemotion engine, come lo chiama la Microsoft [fg. 12]. Il comportamen-to di Milo è governato dalla AI (Artifcial Intelligence) che controlla an-che i suoi movimenti, l’espressione del volto, i rossori, l’infessione dellavoce, il tutto coerentemente alla situazione in cui si trova e al modo incui ci relazioniamo con lui. «Il bello è che ciò che facciamo modifcacontinuamente la mente di Milo. In altre parole, giocatori diversi avran-

39 Occorre però precisare che, al contrario della VR, ove il mondo simulato si trovatutt’attorno l’utente, nel caso di tecnologie semi-immersive come Kinect lo spaziosimulato si trova confnato entro la “fnestra” dello schermo nel quale lo guardia -mo e attraverso il quale ci viene proposta una simulazione immersiva. Del resto,nella VR, l’immersione visiva nel mondo simulato avviene facendo indossareall’utente un casco o degli occhiali tramite i quali il suo campo visivo è totalmen-te occupato dal mondo simulato, non più rinchiuso all’interno dei limiti di unafnestra-schermo posta all’interno del suo mondo reale. Tornando alla metaforadella maschera subacquea, potremmo quindi dire che la VR ci fa muovere e agiredentro il mare, mentre Kinect ci ofre uno sguardo su un acquario in camera no-stra, permettendo però di metterci virtualmente le mani dentro.

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no Milo diversi. È come se si stesse plasmando un essere umano»40.Milo è un gioco educativo, ma in un senso diferente rispetto a ciò chesiamo abituati a pensare: gli educatori siamo noi e l’oggetto delle nostrecure è un ragazzino virtuale. Milo, in efetti, è il vecchio gioco dellebambole fattosi videogame, con la diferenza che qui la bambola-Milodialoga con noi, non limitandosi semplicemente a piangere o a “farselanel pannolino”; e ci troviamo di fronte (insieme?) a un entità che, ver-rebbe da dire, cresce realmente, con un carattere che reca l’improntadell’educazione che gli abbiamo impartito.

Ma c’è di più. Milo non è solo il nostro amichetto, il fglio adotti -vo, il frutto delle nostre cure e della nostra copula virtuale con l’immagi-nario realizzato. «Mentre interagiamo, possiamo inserire nuovi elementinel suo mondo ed egli riconoscerà gli oggetti. La sua mente è basata suuna “nuvola”. Vuol dire che la mente di Milo, grazie all’utilizzo di milio-ni di persone, diventerà più brillante e acuta. Riconoscerà più oggetti ecapirà più parole»41.

Milo è il bambino del mondo, il fglio di un’intelligenza collettiva,una realizzazione di quel progetto in cui Pierre Levy vede la nascita di«un nuovo umanesimo che include e amplia il “conosci te stesso” in di-rezione di un “impariamo a conoscerci per pensare insieme” e generaliz-za il “penso dunque sono” in un “noi formiamo un’intelligenza colletti -va, dunque esistiamo come comunità signifcativa”. Si passa dal cogitocartesiano al cogitamus»42. Ma se Levy si riferisce all’intelligenza colletti-

40 Peter Molyneux demos, cit.41 Ibidem. Per ‘nuvola’ (cloud) si intende una risorsa, un processo di calcolo o dei

dati che non risiedono fsicamente in un posto ma si trovano online, distribuiti edistribuibili tra gli utenti connessi alla rete. È il concetto alla base del fle sharingo del Grid computing.

42 P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per una antropologia del cyberspazio, Feltrinelli,Milano 1996, p. 37: «Lungi dal fondere le intelligenze individuali in una sorta dimagma indistinto, l’intelligenza collettiva è un processo di crescita, di diferenzia-zione e di mutuo rilancio delle specifcità. L’immagine dinamica che emerge dalle

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va vedendola come processo che forma una nuova e diversamente fon-data cultura, determinando le condizioni per una nuova antropologiaculturale, è altrettanto importante notare che, nel caso di Milo, ci trovia-mo di fronte a una realizzazione di questo processo che non ne è sempli-cemente il risultato – come potrebbe essere un software open-source, adesempio – ma un’entità intermedia, essendo qualcosa che assume lesembianze di un’intelligenza ulteriore, qualcosa che inizia a diventareessa stessa un essere autonomo (quantunque sappiamo ancora non esser-lo).

Viene in mente quella scena di Ghost in the Shell43 in cui il Signoredei Pupazzi44 – entità ancora non ben defnita che sembra essere un ro-bot dotato di intelligenza artifciale – si rivela agli uomini in una sortadi epifania del nuovo essere-nel-mondo. Riportiamo una parte del dialo-go tra questi e i due dirigenti delle sezioni speciali del Ministero degliInterni che lo hanno appena catturato:

Signore dei Pupazzi: La vita è diventata più complessa nell’immen-so mare dell’informazione. E la vita, quando si organizza in specie, fadei suoi geni il suo sistema mnemonico. Quindi un uomo è un indi-viduo in virtù della sua intangibile memoria. La memoria non puòessere defnita, eppure defnisce il genere umano. L’avvento del com-puter e il conseguente accumulo di innumerevoli informazioni, hadato vita a un nuovo sistema di memorie e pensiero parallelo al vo-stro. L’umanità ha sottovalutato le conseguenze della informatizza-

sue competenze, dai suoi progetti e dalle relazioni che i suoi membri intrattengo-no all’interno dello Spazio del sapere, costituisce per un collettivo una nuova mo-dalità di identifcazione, aperta, viva e positiva».

43 Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, Giappone, 1995.44 Personaggio chiave del flm, ha corpo di donna, seppure dalle sembianze androgi-

ne. È curioso notare che nella versione italiana il personaggio prenda un nomemaschile – Signore dei Pupazzi, appunto ‒ e parli con una voce maschile, mentrenella versione originale ha un nome neutro ‒ Puppet Master ‒ e parla con vocefemminile.

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zione...Nakamura: Sciocchezze! Tutto questo bel discorso non prova afattoche tu sia un essere vivente e pensante.Signore dei Pupazzi: E tu, mi puoi dare prova della tua esistenza?Come puoi farlo se né la scienza moderna né la flosofa sanno spie-gare che cosa è la vita?Aramaki: Ma che cos’è? Un’Intellligenza Artifciale?Signore dei Pupazzi: Errato! Non sono un’Intelligenza Artifciale. Ilmio nome in codice è Progetto 2501. Io sono un’entità vivente e pen-sante che è stata generata dal mare dell’informazione.

Essere in giocoeXistenZ45, flm scritto e diretto da David Cronenberg, mette in

luce diversi aspetti sui quali ci stiamo qui interrogando. Vi si mostral’esperienza di gioco oferta da un multiplayer di ultima generazione (dalquale il flm prende il nome) che, attraverso delle particolari interfacce,permette una totale immersione dei giocatori nel gioco, fno alla confu-sione tra ciò che appartiene a quel mondo e ciò che fa parte della realtà.

eXistenZ mette in evidenza un interessante cortocircuito tra perce-zione, rappresentazione ed esperienza, reso possibile dall’evoluzione tec-nologica dei sistemi di simulazione multisensoriale della realtà e ogginon più così improbabile. Nel flm, i giocatori utilizzano un’interfaccia(pod) tecnologicamente ibrida, una sorta di organismo vivente biotecno-logicamente innestato con l’elettronica; questa, tramite un cavo (umbi-cord), si inserisce nelle “bio-porte” direttamente sul midollo spinale deigiocatori e si connette, quindi, non a una console, come succederebbenormalmente, ma direttamente al sistema nervoso dei giocatori stessi,ovvero al loro sistema percettivo e cognitivo [fg. 13a-b].

45 eXistenZ di David Cronenberg, Canada/UK, 1999.

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Ciò che potrebbe sembrare una limitazione della simulazionedell’esperienza di gioco per lo spettatore, data dalla fruizione passiva cuinoi spettatori siamo costretti davanti a un flm quale eXistenZ è, in realtàsi rivela ben presto una tattica efcace al servizio di una strategia chenon mira al coinvolgimento dello spettatore nel gioco (come se fosseuno dei personaggi, che è ciò a cui tende Avatar), ma alla confusione trai livelli di realtà, o meglio tra realtà e sua simulazione. In eXistenZ il di-spositivo ottico del cinema, fedele riproduttore della realtà, serve a ren-dere indistinguibile ciò che riteniamo reale da ciò che riteniamo essere lasimulazione della realtà nel gioco. Questo, nel flm, viene legittimato daltipo di tecnologia sulla quale si basa il gioco eXistenZ. Come dice Alle-gra Geller, che nel flm ne è la game designer, «eXistenZ non è un gioco,ma un sistema totalmente nuovo», riferendosi ambivalentemente siaall’insieme dei dispositivi tecnici del gioco, sia all’insieme di connessionioccorrenti per giocare, come se si trattasse di un nuovo sistema sensoria-le, non più umano né individuale, al servizio di un altrettanto nuovo si-stema di rappresentazione. Infatti, se i giocatori sono essi stessi la console,o comunque una parte del sistema di elaborazione del gioco, allora vuoldire che ognuno di essi è allo stesso tempo agente e agìto, nella misurain cui sarà sia un personaggio in grado di contribuire allo sviluppo dellastoria del gioco, potendone modifcare il corso (si pensi a quanto dettoper l’emergent gameplay), sia sottoposto alle regole del gioco che gli altrigiocatori agenti metteranno in campo attraverso le loro azioni. E i gio-catori non sono solo la console, sono anche lo schermo: in eXistenZ nonci sono schermi davanti ai giocatori perché questi percepiscono diretta-mente il gioco attraverso il nuovo “sistema”, diventano i monitor di sestessi e vedono (come se stessero vedendo) attraverso i loro stessi occhi.Non guardano una simulazione allo schermo, perché sono nella simula-zione, come in una trance sognante. Il loro sguardo non coincide conquello del loro avatar, semplicemente perché non esiste più alcun ava-tar: i giocatori sono i loro stessi avatar. Sono in campo anima e corpo,

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diremmo; fanno esperienza interagendo entro uno spazio in cui sonoloro stessi, sapendo (fno a un certo punto...) di essere entro un gioco.

eXistenZ ci ofre la rappresentazione di un’esperienza assimilabile aun’allucinazione consensuale e collettiva46 che, tuttavia, pone al centrodella nostra rifessione non tanto (e non solo) il contenuto dell’allucina-zione ma il modo in cui se ne ha esperienza e lo status di realtà che gli siattribuisce.

Il flm di Cronenberg, inquietante quanto afascinante promessa diun gioco che si pone nei termini di una eterotopia47, ci ricorda che at-traverso i media, che sono dispositivi tecnici da considerarsi come esten-sioni sensoriali, i processi di rappresentazione vengono introiettati comeprocessi di percezione. L’elaborazione cosciente avviene ora sempre piùal di fuori dei nostri corpi. Questo vuol dire che i media non sono solodelle protesi sensoriali – la televisione come occhio dislocato in un altro-ve a noi inaccessibile, lontano... – ma cognitive. I media sono diventatidelle estensioni che rielaborano per noi la realtà che fruiamo, indicando-ci il modo in cui comprenderla. Da percettori diventiamo fruitori o, nelpeggiore dei casi, spettatori di un mondo che è sempre più ridotto al

46 Il che ricorda molto da vicino l’invasamento e le estasi collettive delle orge ritualie dei riti religiosi. Tuttavia qui il tutto è ricondotto alla luce di un’esperienza luci-da in cui il soggetto mantiene il controllo delle proprie azioni e si comporta sullabase di valutazioni razionali del contesto in cui si trova ad agire.

47 M. Foucault, Eterotopia. Luoghi e non-luoghi metropolitani, Mimesis, Milano1994, p. 7: «L’eterotopia è un’anti-utopia. Infatti, se l’utopia è una speranza senzaluogo, l’eterotopia costituisce un’eccedenza di realizzazione. Eterotopici sonoquei luoghi che non necessitano di riferimenti geografci, sono i luoghi dell’attra-verso, spazi di crisi e di condensazione di esperienza. Sono eterotopici non solo iluoghi delle istituzioni totali – prigioni, manicomi, ricoveri per anziani ecc. – maanche quelle istanze che coinvolgono completamente i soggetti, come ad esempioil viaggio di nozze tradizionale, i drive-in e le navi, realtà che si fondono solo suse stesse».

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suo spettacolo48, un mondo in cui l’immaginario si sostituisce semprepiù all’esperienza “di prima mano”. La formazione di una visione delmondo dipende sempre più dai dispositivi tecnici che utilizziamo e, ov-viamente, dalle politiche istituzionali del loro uso come veicolo di infor-mazione (ovvero: ciò che è in grado di dare forma al nostro pensiero). Equesto è vero certamente per tutti i media che ci obbligano a un rappor-to di fruizione passivo. Se pensiamo alla televisione, al cinema, alla radioo anche alla carta stampata, comprendiamo che il modo in cui conoscia-mo ciò che ci viene rappresentato, cioè “posto innanzi” come immaginedel mondo49, assume la forma di qualcosa che non abbiamo esperito di-rettamente attraverso i nostri sensi ma attraverso la mediazione di un di-spositivo tecnico che ha in qualche modo (e in modi diferenti a secon-da del medium particolare utilizzato) interpretato per noi e prima di noiquel dato dell’esperienza.

Questo potere “formante” della mediazione è decisamente più inci-sivo – in un modo che ancora non riusciamo bene a comprendere per lasua recente instaurazione – in quei media che ci mettono in rapportocon il mondo rappresentato facendoci interagire in prima persona, ovve-ro facendoci percepire una relazione di causalità diretta tra le azioni checompiamo e gli efetti che queste producono nel mondo in cui ci trovia -mo immersi. Pensiamo all’esperienza che viviamo con un videogame,nei termini che abbiamo più sopra esposto: se siamo entro lo spettacolo,entro il gioco, siamo parte della storia, siamo nell’intreccio come perso-naggi che vivono una storia che si svolge intorno e grazie a essi.

A questo punto occorre, però, porsi un interrogativo: chi sono ionel momento in cui sono in un mondo simulato? E chi sono gli altri in-

48 Ci riferiamo ai concetti di spettacolo “difuso” e “integrato” e a quanto difusa-mente esposto da Guy Debord nella Società dello spettacolo e nei Commentari sul-la società dello spettacolo, ora raccolti in unico volume dall’editore Baldini Castol-di Dalai (Milano 2004).

49 Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, LaNuova Italia, Firenze 1984.

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torno a me, quelli con i quali mi relaziono? Se i modi di relazione di-pendono fortemente dalle caratteristiche del medium che utilizziamo,come detto, allora il mio modo di conoscere l’altro sarà altrettanto forte-mente condizionato, fno a poter pensare che l’altro sia il risultato di unartifcio mediatico: il punto di incontro tra le mie intenzioni, le caratte-ristiche particolari del medium e le strategie testuali che questo mette incampo, con le sue potenzialità e i suoi limiti.

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Fig. 12

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Fig. 13a-b

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