I racconti “novecentisti” di Marcello Gallian

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Indice Introduzione 3 Primo capitolo. Marcello Gallian, le opere e i giorni 7 1.1 Dalla borghesia all'antiborghesia 7 1.2 L'avanguardia romana 8 1.3 1931-1935. Cinque anni di successo 11 1.4 La condanna del regime al «letterato squadrista» 13 1.5 Il dopoguerra 14 1.6 La collaborazione a «900» 17 Secondo capitolo. Temi e forme dei testi «novecentisti» 21 2.1 Gallian e «900»: Bontempelli, il surrealismo, l'espressionismo 21 2.2 Analisi tematica 26 2.2.1 Il tema della nascita e dell'ingresso nella vita 28 2.2.2 Il tema della violenza e della morte 37 2.2.3 Il tema del viaggio come vagabondaggio 45 2.2.4 Il tema della città e della folla 51 2.3 Analisi formale 60 2.3.1 Notazioni lessicali e sintattiche: enumerazione e paratassi 60 2.3.2 Costruzioni narrative: “paratassi diegetica” e discontinuità 67 Terzo capitolo. La fortuna di Marcello Gallian nella storia della critica 73 3.1 Gli esordi 73 3.2 Il successo dei primi anni trenta 75 3.3 Dalla metà degli anni trenta alla guerra 79 3.4 Dal dopoguerra agli anni settanta: brevi rotture di un silenzio 83 3.5 La riscoperta di Marcello Gallian dagli anni ottanta a oggi 88 Bibliografia 93

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Indice

Introduzione 3

Primo capitolo. Marcello Gallian, le opere e i giorni 7

1.1 Dalla borghesia all'antiborghesia 7

1.2 L'avanguardia romana 8

1.3 1931-1935. Cinque anni di successo 11

1.4 La condanna del regime al «letterato squadrista» 13

1.5 Il dopoguerra 14

1.6 La collaborazione a «900» 17

Secondo capitolo. Temi e forme dei testi «novecentisti» 21

2.1 Gallian e «900»: Bontempelli, il surrealismo, l'espressionismo 21

2.2 Analisi tematica 26

2.2.1 Il tema della nascita e dell'ingresso nella vita 28

2.2.2 Il tema della violenza e della morte 37

2.2.3 Il tema del viaggio come vagabondaggio 45

2.2.4 Il tema della città e della folla 51

2.3 Analisi formale 60

2.3.1 Notazioni lessicali e sintattiche: enumerazione e paratassi 60

2.3.2 Costruzioni narrative: “paratassi diegetica” e discontinuità 67

Terzo capitolo. La fortuna di Marcello Gallian nella storia della critica 73

3.1 Gli esordi 73

3.2 Il successo dei primi anni trenta 75

3.3 Dalla metà degli anni trenta alla guerra 79

3.4 Dal dopoguerra agli anni settanta: brevi rotture di un silenzio 83

3.5 La riscoperta di Marcello Gallian dagli anni ottanta a oggi 88

Bibliografia 93

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Introduzione

Sulla figura di Marcello Gallian si sono resi disponibili negli ultimi anni

diversi contributi critici, sulla scia di una rinnovata attenzione a due zone spesso

trascurate della nostra letteratura: l'avanguardia romana e la letteratura del fascismo,

come espressione artistica non banalmente propagandistica. Quando, infatti, Gallian

scrive testi creativi, a differenza di quando si dedica al giornalismo, non fa

propaganda, non abusa di retorica pubblicistica, ma tramuta la propria ideologia

retrograda, complessa, anarchica, violenta e incoerente in una visione artistica

originale. La complessità e l'ambiguità, quando sono segno di un'umanità profonda,

nel bene o nel male, consentono che si dia la possibilità di un'arte letteraria anche

accordata ad un regime totalitario.

Il giovane Marcello Gallian, dal convento in cui studia, fugge diciassettenne

per abbracciare l'impresa fiumana, al fianco di D'Annunzio, e, al ritorno a Roma, è

sansepolcrista e poi squadrista. Il suo carattere è irrequieto, così come variano la sua

cultura e le basi da cui matura le proprie convinzioni: malato di arditismo, di retorica

interventista e di patriottismo e nello stesso tempo animato da uno spirito di

cristianesimo medievale, pauperistico, contrario al denaro, alla ricchezza, alle

disparità sociali. Frequenta anarchici come Errico Malatesta, conosce artisti

comunisti come l'immaginista Vinicio Paladini, ma ama d'un amore viscerale la

figura del Mussolini della prima ora: il suo modello, per sempre, di liberatore dalla

borghesia.

Il suo paradosso è quello di non trovarsi arruolato in nessun gruppo costituito

che ne consenta una facile collocazione manualistica, artisticamente sospeso tra

fascismo e avanguardia, tra “Strapaese” e “Stracittà”, tra “contenutismo” e

“calligrafia”. È uno scrittore ai margini, convinto che il fascismo, con la sua spinta

propulsiva e rivoluzionaria produrrà una vera e propria palingenesi. La sua adesione

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al fascismo-movimento, col principale scopo di eliminare la borghesia, non verrà mai

meno, anche quando la reale identità del fascismo-regime piccolo-borghese sarà

evidente. Quando capisce che la realtà ha preso una diversa piega, la sua visione

comincia solo a farsi più pessimista, conscia del fatto che chi, come lui, ha preso

parte allo squadrismo non ha più un ruolo sociale; quel ruolo che Gallian continuerà,

coi suoi libri e i suoi articoli, a pretendere, rivolgendo la propria attenzione e le

proprie speranze verso Benito Mussolini. Il suo pensiero negativo e la sua pesante

critica non passano inosservati, tanto che la sua opera è più di una volta censurata.

Per chiarire tutto questo, il mio studio si apre con una biografia essenziale,

che rende conto dei momenti fondamentali della vicenda dell'autore, importante

anche per affrontare aspetti tematici e ideologici della sua produzione.

La conquista più sicura della critica recente, a partire da Ruggero Jacobbi, che

gli dedica una fondamentale monografia nel 1974, è quella di annoverarlo tra le voci

più originali della letteratura italiana, avvicinando i suoi esiti alle angosce espresse

dalla grande avanguardia europea. I nomi che gli sono stati accostati recentemente

sono quelli di Céline, Toller, Wedekind, dei pittori espressionisti, Grosz, Dix, e dei

maestri del surrealismo, Breton e Cendrars.

I testi che prendo in esame in questa tesi, pubblicati tra il 1927 e il 1929,

sono, a mio avviso, fondamentali nella formazione del giovane scrittore. Sono

pubblicati su «900», la rivista di Massimo Bontempelli che identifica la letteratura

con un atto di magia, che attraverso l'immaginazione esprima lo stupore di fronte al

mondo, anche al mondo delle cose più quotidiane. In questa deformazione della

realtà verso una dimensione onirica, e non certo nello stile asciutto e calcolato

proposto da Bontempelli, è da ravvisare il motivo dell'adesione di Gallian al progetto

«novecentista». Non sarà però superfluo ricordare che il progetto della rivista è

soprattutto quello di aprire l'Italia all'Europa, e viceversa, aggiornando i giovani

collaboratori italiani sui grandi autori all'avanguardia, vantando collaboratori come

Joyce, Soupault, Gomez de la Serna, Ehrenburg.

Gallian, nella palestra «novecentista», si allena a costruire quel suo modo

particolarissimo di narrare, abusando di metafore, similitudini, descrizioni,

enumerazioni infinite: tutti gli elementi che nei suoi romanzi, dagli anni trenta in poi,

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sfrutterà come strumenti di espressionistica e deformante critica sociale. Con questo

non si vuole negare che in questi racconti emergano già istanze ideologiche. Questo

studio si pone l'obiettivo di mettere in luce proprio i nuclei ideali che emergono da

queste prove, che la critica ha, invece, generalmente trascurato dal punto di vista

tematico, dedicandogli piuttosto sbrigative formule riferite alla sua scrittura

allucinata e magmatica. La mia intenzione, attraverso lo studio di questi testi

giovanili, è quella di dare dell'autore un'immagine coerente, sottolineando la

presenza di costanti che legano tutta la sua produzione: costanti che non sono solo

formali, ma che investono, come detto, fondamentali nuclei tematico-ideologici.

La prima parte dell'analisi dei testi, che si trova nel secondo capitolo, è

dedicata ai percorsi tematici dominanti, quali nascita, genitorialità, morte, violenza,

vagabondaggio, folla cittadina e paesana. Alla luce di questo studio cerco di

evidenziare come la violenza e il contrasto siano le vere istanze che muovono la

narrazione, portando Gallian ad avanzare l'ipotesi di uno stato di natura, libero, senza

regole né leggi, che trova nel dramma La casa di Lazzaro un'espressione chiarissima

e affascinante.

La seconda parte dell'analisi trascura, invece, il testo drammatico appena

citato per concentrarsi sulle strategie testuali della prosa narrativa, sulle particolarità

della costruzione sintattica e sull'uso figurato e iperbolico del linguaggio. Anche in

questo caso l'intento è quello di identificare una modalità di costruzione costante che,

in alcuni casi coinvolge la narrazione a tutti i livelli. Mi riferisco ad un procedimento

che ho definito “enumerativo”, che agisce sia come enumerazione vera e propria, sia

come legame paratattico tra proposizioni, sia come legame anaforico tra periodi e

persino come successione e iterazione di scene a livello narrativo.

L'ultimo capitolo presenta un ampio panorama della critica su Gallian, che,

partendo dalle recensioni dei contemporanei, attraversa il quasi totale silenzio degli

anni cinquanta e sessanta e, infine, si propone di evidenziare le voci più interessanti

della critica dagli anni settanta a oggi, sottolineando soprattutto come i racconti qui

presi in esame, a differenza del dramma La casa di Lazzaro, abbiano solo in anni

recenti avuto una adeguata attenzione, volta principalmente a inserirli in un contesto

di avanguardia europea.

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Primo Capitolo

Marcello Gallian, le opere e i giorni

1.1 Dalla borghesia all'antiborghesia

Le notizie biografiche su Marcello Gallian sono tutt'altro che sicure e sono

spesso legate a prefazioni, articoli e lettere dell'autore in cui difficilmente si distingue

il reale dal fantasioso1. Lo scrittore nasce a Roma il 6 aprile 19022, da Angelo

Gallian, console generale di Turchia a Roma e Maria Scalzi. Il nonno materno, come

ricordato da Gallian, fu pittore e venne esiliato a Marsiglia dall'allora Stato

Pontificio. L'ambiente dove vive la sua prima infanzia è quello alto borghese e

aristocratico di Roma, almeno fino al 1911, anno in cui il padre deve dimettersi dal

suo incarico per lo scoppio della guerra libica, andando incontro a notevoli difficoltà

economiche. Rimasto di lì a poco orfano di padre, Marcello frequenta, un collegio a

Roma e poi viene mandato a Firenze, al convento dei Vallombrosani di Santa Trinità,

dove prende i voti semplici e si dedica allo studio con grande fervore. Più che i

classici greci e latini, le sue letture preferite all'epoca sono i grandi spiriti

anticonformisti della tradizione tardomedievale e moderna: il Dante dell'Inferno,

1 Scrive Ruggero Jacobbi: «una buona parte di tale biografia è probabilmente immaginaria, data la natura esuberante della fantasia dello scrittore, la cui caratteristica principale è proprio l'amplificazione dei dati reali», Marcello Gallian, in Letteratura Italiana. I Contemporanei, Milano, Marzorati, 1974, pp. 435-458, cit. da p. 437.I dati qui presentati sono tratti, salvo fonti diverse segnalate in nota, dal dettagliato profilo di Paolo Buchignani, Marcello Gallian, La battaglia antiborghese di un fascista anarchico, Roma, Bonacci, 1984.

2 La data di nascita è riportata dallo stesso Gallian in Primo diario, Roma, Scrittori Contemporanei, 1940, p. 64 (cit. da Pietro Luxardo Franchi in L'altra faccia degli anni trenta, Padova, CLEUP, 1991, p. 114) e in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del Libro, 1960, p. 208. Scrittori Nuovi, a cura di Enrico Falqui, Elio Vittorini, Lanciano, Carabba, 1930, riporta come data di nascita il 1904 e così Ruggero Jacobbi, cit. (Jacobbi “corregge” la data in 4 marzo 1902 nell'edizione successiva del saggio, in Novecento, Milano, Marzorati, 1979, pp. 4460-4484). Enzo Frustaci scioglie ogni dubbio verificando all'anagrafe di Roma (cfr. L'avventura letteraria di Marcello Gallian: le aporie di un uomo di squadra , in «Annali FM», nn. 1-2, 1981, pp. 213-243, spec. p. 214).

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Cecco Angiolieri, Savonarola, Giordano Bruno, Tommaso Campanella. A

determinare la sua futura ideologia di fascismo cristiano e pauperistico concorrerà,

inoltre, la sua passione per le sette ereticali medievali: Dolciniani, Gioachimiti. A

queste letture seguiranno presto quelle dei poètes maudits, Baudelaire e Rimbaud, dei

romanzieri russi Dostoevskij e Gorkij e dei poeti d'avanguardia: Majakovskij,

Esenin, Blok. Letture, le sue, che certo non saranno ininfluenti sulle raffigurazioni di

vagabondi e diseredati che abbondano nelle sue opere e sul suo rapporto con il

mondo borghese.

Nel 1919, a diciassette anni, decide di lasciare il convento e di seguire

D'Annunzio a Fiume per dare sfogo alla sete di azione che condivide con chi, come

lui, non ha partecipato alla Prima Guerra Mondiale, ma ha subito il fascino della

propaganda interventista. Tornato a Roma abbraccia il fascismo fin dal discorso di

Piazza San Sepolcro, si arruola nella squadra “La Volante” e partecipa nel 1922 alla

Marcia su Roma. Vive intanto con la madre, le sorelle e una zia facoltosa, che gli

promette un incarico diplomatico. Seguendo le sue aspirazioni letterarie si laurea in

lettere moderne3, ma, insofferente verso l'ambiente borghese familiare, inizia a

frequentare gli inquieti ambienti anarchici ruotanti attorno alla figura di Errico

Malatesta e i circoli artistici d'avanguardia, formandosi una propria peculiare idea

politica di fascismo radicale e antiborghese.

1.2 L'avanguardia romana

Il mondo della cultura giovanile romana è tutt'altro che in linea con il

generale clima di «ritorno all'ordine» che caratterizza il dopoguerra, ma è, anzi,

animato da varie ed eterogenee suggestioni artistiche e culturali avanguardistiche.

Gallian, mentre cerca di mantenersi facendo i lavori più svariati, inizia a farsi

strada in modo piuttosto precoce: fonda nel 1925 il quindicinale d'avanguardia

antiborghese «Spirito nuovo»4, diretto dal terzo numero anche da Alfredo Poinelli,

3 Cfr. Paolo Buchignani, Primitivismo e antiborghesismo nella narrativa di Marcello Gallian, in «Trimestre», nn. 3-4, 1979, p. 312.

4 Il titolo è ricalcato su quello della rivista francese fondata dall'architetto Le Corbusier, «Esprit nouveau», pubblicata tra il 1920 e il 1925.

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dove esordisce come narratore. Collabora negli anni '20 con «Roma fascista» con

interventi critici, politici e racconti. Approda alla redazione di «900» già dal 1927,

quando ancora la rivista di Massimo Bontempelli è edita in francese e vi pubblica

assiduamente fino all'ultimo numero, il sesto del 1929. Attorno al fenomeno del

«novecentismo» e del «realismo magico» si formano numerose testate d'avanguardia,

tra cui «I Lupi» di Gian Gaspare Napolitano e Aldo Bizzarri, che ospita racconti e

interventi di Gallian, e «L'Interplanetario» di Libero De Libero e Luigi Diemoz, il cui

sesto numero del 1928 è occupato interamente dal suo primo romanzo, Il dramma

nella latteria, con prefazione di Bontempelli. Scrive poi anche su «A e Z»,

«L'Impero», «Oggi e domani».

Nel 1929 esce il primo numero di «2000», rivista d'avanguardia da lui fondata

e diretta insieme ad Armando Ghelardini e Alfredo Gaudenzi, a cui si lega

l'esperienza del Teatro 20005, in cui vennero rappresentati anche Re Baldoria di

Filippo Tommaso Marinetti e La guardia alla luna di Bontempelli. Il 1929 è anche

l'anno delle sue prime pubblicazioni in volume: i romanzi La donna fatale e Vita di

sconosciuto e i tre racconti, già editi su rivista, raccolti con prefazione di Bontempelli

in Nascita di un figlio ed altri scritti. Mette in scena, sempre nel 1929, al Teatro degli

Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, il dramma La casa di Lazzaro, che

rappresenta il suo primo grande successo e viene, poco dopo, pubblicato in tre

puntate su «900».

Nelle opere di questo periodo è importante notare la vicinanza di alcune

tematiche gallianiane – l'ambiente evasivo del luna park o l'eversione incendiaria, ad

esempio – a quelle trattate, nello stesso periodo, dagli artisti comunisti del gruppo

immaginista, animato da Vinicio Paladini e Umberto Barbaro. L'oltranzismo

antiborghese e la ricerca di un'arte nuova quale strumento rivoluzionario, infatti,

avvicinano intellettuali di ispirazione politica opposta, comunque artisticamente

accomunati dall'influenza spesso taciuta ma evidente del futurismo. Come scrive

Paolo Buchignani:

la spiegazione di questo fenomeno va indubbiamente ricercata nella comune

5 Cfr. Marcello Gallian, Storia del teatro 2000, in «Giornale di Genova», 10 aprile 1929, citato da Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., pp. 20; 140.

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condizione di giovani intellettuali d'avanguardia, nemici dichiarati dello Statoliberale e della sua cultura borghese e “passatista”, i quali non ritennero – e seciò può sembrare scontato per gli antifascisti lo è molto meno per i fascisti –che con l'avvento del fascismo e la conseguente distruzione dello Statoliberale fossero esaurite le ragioni della loro battaglia avanguardistica eantiborghese, come invece ritenne gran parte della nostra avanguardia, che siavviò verso una stanca celebrazione dell'ordine.6

Un aspetto interessante della sua formazione culturale è la frequentazione dei

circoli cinematografici di Alessandro Blasetti, dove approfondirà le proprie teorie sul

cinematografo, patrocinando, inoltre la nuova arte sulle colonne di «Lo Spettacolo

d'Italia» e «Il Raduno»7.

Questi fogli d'avanguardia8 hanno tutti vita molto breve, ma testimoniano

come vi sia ancora, nei primi anni del fascismo, una relativa libertà nella ricerca

artistica e come a Roma siano presenti artisti capaci di importare le suggestioni più

avanzate delle esperienze artistiche europee: espressionismo tedesco e surrealismo

francese su tutte.

Terminata questa stagione, inizia negli anni trenta il periodo di maggior

successo di Gallian, anche se, essendo uno scrittore difficilmente inquadrabile nella

politica culturale del regime, sarà un successo effimero e minato da diversi casi di

censura9. Già nel 1930, il suo dramma La scoperta della terra10, in cui una prostituta

diventa la guida di una rivolta dei minatori nella remota regione del Transvaal, viene

largamente criticato e accusato di immoralità dalla critica più intransigente, dopo la

sua messa in scena al Teatro Manzoni di Milano. A seguito di queste polemiche, la

censura impedì che la rivista «Oggi e Domani», dopo averne pubblicato il primo atto,

6 Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., p. 18.7 Un saggio delle sue idee in fatto di cinema è offerto anche su «900», nella cronaca intitolata

«Spettacolo», n. 6, 1928, pp. 273-275.8 Per la stagione dell'avanguardia romana post-futurista, animata da artisti comunisti, ma anche da

anarchici e fascisti “di sinistra” rimando a Umberto Carpi, Bolscevico immaginista, Napoli, Liguori, 1981.

9 Per quanto riguarda le opere teatrali censurate cfr. Censura teatrale e fascismo (1931-1944), a cura di Patrizia Ferrara, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale per gli Archivi, 2004, p. 446.

10 Rappresentato al Teatro Manzoni di Milano dalla Compagnia Tamberlani-Bolognesi nel 1930, il primo atto è in «Oggi e domani», 30 giugno 1930, pp. 5-6. Recentemente è stato pubblicato il testo completo, preceduto dallo scritto Rileggendo «La scoperta della terra» di Marcello Gallian nella versione integrale di Silvana Cirillo e da Una nota al testo di Achille Castaldo, in «Eurostudium3w», n. 17, 2010, pp. 170-224.

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pubblicasse anche i due seguenti.

1.3 1931-1935: Cinque anni di successo

Nelle opere narrative scritte nei primi anni trenta, Gallian abbandona

l'ispirazione onirica del novecentismo e punta a convogliare con maggiore coerenza

il suo progetto ideologico-politico all'interno della sua scrittura. La realtà sociale del

suo tempo o, più spesso, del periodo immediatamente precedente il fascismo, diventa

l'argomento principale dei suoi romanzi. I toni sempre carichi, surreali, grotteschi e

baroccheggianti, che caratterizzavano le prime prove, non scompaiono, ma sono volti

ora a descrivere la crisi sociale e valoriale che il fascismo, secondo Gallian, avrebbe

risolto necessariamente.

Con Pugilatore di paese, uscito nel 1931, Gallian si aggiudica a San Remo il

Premio Mediterraneo 1932 e ottiene alcune favorevoli recensioni, in particolare di

Arnaldo Bocelli ed Enrico Falqui; nel 1933 pubblica Una vecchia perduta e,

soprattutto, nel 1934 i racconti di Comando di tappa che gli valgono il secondo posto

al Premio Viareggio11. Quest'ultimo volume si compone principalmente di materiale

autobiografico in gran parte romanzato: dall'infanzia nella Roma borghese al

convento dei Vallombrosani, dall'avventura fiumana al ricordo delle imprese

squadriste. Grazie a questo successo, Gallian firma un contratto con l'editore

Valentino Bompiani e ottiene di collaborare con il «Corriere della Sera», sulla cui

terza pagina compariranno i suoi racconti da gennaio a giugno del 1935. Entra anche

nel comitato direttivo della rivista genovese «Circoli», insieme a Giuseppe Agnino,

Adriano Grande, Enrico Falqui e Giuseppe Ungaretti. Scrive nel frattempo anche su

«Quadrivio» e «L'Italia letteraria» e pubblica nel 1934 un altro romanzo, Tempo di

pace, prefato da Giuseppe Ungaretti.

Non va dimenticato che, sempre in questo periodo, consolida il proprio

successo e il proprio credito nei confronti del regime con i suoi volumi di apologia

del fascismo e del Duce in particolare: Mussolini nei commenti della stampa del

mondo è del 1933; il saggio Storia del fascismo, incluso nel volume firmato da

11 Cfr. Il premio Viareggio ha 25 anni, a cura di Leone Sbrana, Firenze, Luciano Landi Editore, 1955, pp. 4-5.

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Mussolini, ma redatto e curato da Gallian insieme ad Arturo Marpicati e Luigi Contu,

La dottrina del fascismo. Storia opere ed istituti, esce per le prestigiose edizioni

Hoepli nel 1935. Il suo rapporto col fascismo, però, patisce una seria ambiguità. Il

fascismo che Gallian elogia è già un miraggio di una stagione rivoluzionaria passata,

e il malcontento che lo scrittore inizia a soffrire trova sfogo in testi come il violento

pamphlet Colpo alla borghesia e l'articolo Tradimento12, pubblicato su «Quadrante»,

in cui rivendica una maggiore libertà per gli artisti d'avanguardia contro i borghesi e i

«banditori alla facilona».

Tra il 1935 e il 1936 questo periodo di discreto successo termina bruscamente

e inizia per Gallian una progressiva emarginazione. La sua intransigenza politico-

ideologica insieme alla sua delusione per l'imborghesimento del regime e per la

rivoluzione tradita trovano espressione in due romanzi: Il soldato postumo e

Bassofondo. Nel primo romanzo Gallian descrive la storia di una «generazione

speciale», cioè di coloro che hanno aderito con entusiasmo al fascismo squadrista e

hanno visto tradita la loro rivoluzione: una generazione, quindi, che ormai volge ad

una cupa disperazione. A causa della ormai esplicita polemica contro il fascismo

inteso come regime il romanzo non avrà grande successo e gli costerà la fine del

rapporto con Bompiani.

Il secondo, per la tematica scabrosa dell'amore di un giovane per una vecchia

e per la descrizione di una Roma miseranda e decadente, un «bassofondo» appunto,

viene censurato e può essere ripubblicato solo l'anno dopo con il titolo In fondo al

quartiere, mutilato dei quattro capitoli conclusivi e di alcune parti, ma mantenendo

intatte le note iniziali firmate da Ungaretti.

Il radicalismo del suo pensiero antiborghese, i suoi appelli ai proclami

mussoliniani della prima ora e allo squadrismo, il suo perenne farsi alfiere dell'«arte

del tempo nostro», rimuginando un dibattito morto prima di cominciare, dimostrano

solo una straordinaria ed ingenua fiducia nel fascismo e nella figura del Duce, visto

come l'unico uomo in grado di riscattare l'Italia dal dominio capitalista che la tiene in

scacco, ma non possono che essere invisi ad un regime che ora punta soprattutto al

mantenimento dell'ordine.

12 Marcello Gallian, Tradimento, in «Quadrante», n. 1, 1933, pp. 3-4.

12

Dopo questi due sostanziali insuccessi, dopo essere giunto al culmine della

sua parabola ascendente, inizia per Gallian un rapido declino. Cessa la

collaborazione col «Corriere della Sera» e si fa più tiepida la critica nei suoi

confronti, nonostante non manchi chi mostra di apprezzarne le qualità, come Emilio

Cecchi e Enrico Falqui. La cosa paradossale è che i critici che più lo apprezzano

sono, nell'ambito della contemporanea polemica tra “contenutisti” e “calligrafi”,

decisamente schierati per i secondi; apprezzano in Gallian la misura della prosa

d'arte, dei «brandelli di romanzo»13, mentre per Gallian il bello scrivere non ha

alcuna importanza: ciò che ha importanza è il messaggio rivoluzionario. Tra i pochi

ad apprezzare proprio questo aspetto del suo scrivere è da segnalare il giovane

Romano Bilenchi.

1.4 La condanna del regime al «letterato squadrista»

A questo punto della sua carriera, quando l'isolamento si fa sempre più forte,

la sua produzione diventa a dir poco torrenziale: si è fatta forte in lui l'illusione che

gli sia toccata la missione di creare un'arte fascista, capace di rappresentare le

tensioni antiborghesi dei giovani. Nel 1936 inizia la trilogia di cui fanno parte Tre

generazioni, Combatteva un uomo (1939) e Gente di squadra (uscito nel 1941 con

titolo voluto dalla censura al posto dell'originale Come siamo disperati..., poi

divenuto Quando siamo abbandonati), in cui i toni grotteschi e deformanti nei

confronti dei costumi e della morale comune si spingono all'eccesso e alla

ridondanza. Gallian giunge perfino, piombando nel più cupo pessimismo, a

riconoscere, in Gente di squadra, la triste realtà del fascismo, in cui a comandare

sono imprenditori e approfittatori.

Nella seconda metà degli anni trenta escono anche tre interessanti raccolte di

racconti: Racconti per la gente (1936), Quasi a metà della vita (che raccoglie anche

le pagine migliori dell'esperienza “novecentista”) e Racconti fascisti (1937). Escono

ancora Dopoguerra e Il monumento personale (1937) e la prima parte di una seconda

progettata trilogia di romanzi intitolata Nostro impero quotidiano: Tenebra solare

13 Il Tarlo [Emilio Cecchi], Gallian, in «Omnibus», 19 giugno 1937, p. 7.

13

(1939). I due testi successivi che, come segnalato nella prefazione a Tenebra solare,

avrebbero dovuto intitolarsi Matusalemme di vent'anni e Dopodomani, non saranno

mai realizzati.

La sua pubblicazione più inopportuna agli occhi del regime è, però, un

memoriale, intitolato Il Ventennale. Gli uomini delle squadre nella rivoluzione delle

camicie nere, pubblicato nel 1941 per ricordare e celebrare i vent'anni dello

squadrismo, con tanto di materiale fotografico: un anacronismo imperdonabile se è

vero che poco dopo, allorquando Gallian decide di chiedere disperato al Duce «il

posto che merito per i miei libri», il capo di gabinetto del Ministero della Cultura

Popolare, Celso Luciano, ne approfitta per ricordare a Mussolini le sovvenzioni che

Gallian aveva già fino ad allora ricevuto14. Gallian continua ancora, ostinato e

ingenuo, a considerare Mussolini come una sorta di eroe in ostaggio della borghesia

capitalista, un insostituibile modello ideologico e umano.

Nel 1943, a quarantun anni, rifiuta di aderire alla Repubblica di Salò e rimane

nella capitale con la moglie Giuseppina e la famiglia, divenuta ormai numerosa15.

Nello stesso anno esce il suo ultimo romanzo in volume, Alba senza denaro, in cui il

protagonista, Svetonio Morfiotto, insegue la disperata e primitiva utopia di un mondo

senza denaro, ispirato ad un ideale di vita francescana: un sogno da anarchico ribelle

preda dell'angoscia e della solitudine che è anche il sogno di Gallian.

Tra il 1936 e il 1940 pubblica numerosi racconti, drammi e scritti polemici su

riviste come «Quadrivio», «Ottobre», «Meridiano di Roma», «Valori primordiali»,

«Letteratura»; le rare poesie escono invece su «Poeti d'oggi», a cura di Fidia

Gambetti. Dal 1940, fino alla fine della guerra le pubblicazioni si fanno, al contrario,

piuttosto rare: diverse opere realizzate a partire da questo periodo sono tutt'ora

inedite.

1.5 Il dopoguerra

14 Non va dimenticato, infatti, che Gallian continuerà a percepire fino agli anni '40, dal Ministero della Cultura Popolare, un assegno mensile di tremila lire, oltre a varie sovvenzioni straordinarie. Cfr. Paolo Buchignani, Marcello Gallia..., cit., pp. 68-69.

15 Gallian nel 1936 aveva già quattro figli. Ne avrà in tutto sei.

14

Dopo la seconda guerra mondiale le collaborazioni a quotidiani e periodici

riprendono, ma sono sporadiche (il periodo tra l'armistizio e la fine della guerra

segna un silenzio totale), le pubblicazioni in volume si esauriscono quasi

completamente. Le rare eccezioni riguardano alcuni volumi di critica d'arte negli

anni quaranta e il dramma La casa di Lazzaro insieme con Museo da camera nel

1956, dei quali il primo era già edito, come ricordato sopra, su «900».

Gallian è costretto, perciò, ai lavori più disparati per guadagnarsi da vivere:

da scrivere sotto falso nome (anche su quotidiani di sinistra come «Paese sera»16) a

vendere sigarette davanti alla Stazione Termini di Roma. Scrive col proprio nome su

«Momento sera», «La Fiera letteraria» (che ospita il lungo racconto romanzato delle

sue vicissitudini durante e subito dopo la guerra)17 e «La Capitale».

La testata che ospita gli articoli più interessanti dell'ultimo Gallian è «Il

Pensiero nazionale», la rivista di ex-fascisti passati a posizioni radicali (contro l'MSI)

diretta da Stanis Ruinas, dove Gallian pubblica Archivio segreto. Tragedia senza

sangue della letteratura italiana18 e A proposito di letteratura19. Si tratta di alcune

lettere del proprio carteggio con Ungaretti, Montale e Falqui in virtù delle quali, i

primi sono accusati di opportunismo, per avergli chiesto di intercedere per loro in un

momento in cui la sua influenza presso il Ministero di Stampa e Propaganda e presso

il Duce era notevole, il secondo di averlo dimenticato e, soprattutto di essere stato

solo un opportunista durante il regime20.

Negli anni '50 dedica molte forze all'attività teatrale. Partecipa nel '56 al

Premio Riccione per il Teatro con due testi, Come si fa a vivere e Battesimo di un

negro, e viene segnalato dalla giuria, pur non vincendo. Tra i giurati figura il vecchio

16 Giampiero Mughini, nella sua biografia di Telesio Interlandi, dedica un capitolo a Gallian e riporta lo pseudonimo di Mario Scalzi, col quale avrebbe scritto su «Paese sera». Cfr. Giampiero Mughini, A via della Mercede c'era un razzista, Milano, Rizzoli, 1990, p. 105.

17 Marcello Gallian, La miseria, otto puntate in «La Fiera letteraria», dall'8 agosto al 10 ottobre 1946.

18 Marcello Gallian, Archivio segreto. Tragedia senza sangue della letteratura italiana, in «Il Pensiero nazionale», n. 8, 1959, pp. 22-23 e n. 9, 1959, pp. 26-27.

19 Marcello Gallian, A proposito di letteratura, in «Il Pensiero nazionale», n. 12, 1959, pp. 30-31 e n. 14, 1959, pp. 24-25.

20 L'acrimonia verso Falqui, uno tra i pochi a ricordare ancora Gallian nel dopoguerra, è forse motivata dal fatto che promise, senza poi mantenere la parola data, di pubblicare una antologia degli scritti migliori dell'autore romano. Su tutta la questione cfr. Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., pp. 109-134.

15

amico Anton Giulio Bragaglia21. Mette in scena nel 1957 Un incidente al vulcano e il

già citato Come si fa a vivere. Nel 1958 elabora il progetto della Prima Mostra

Nazionale del Teatro Italiano, che non può avere luogo per mancanza di fondi

ministeriali. Per lo stesso motivo naufraga il progetto di fondare un Autonomo Teatro

delle Caverne, annunciato in una lettera del 1962 a Fausto Coen, suo amico e

direttore di «Paese sera», contro il teatro contemporaneo, a suo avviso, burocratico e

clientelare, memore del «sotterraneo glorioso» degli Indipendenti:

Il mio teatro bandirà la luce elettrica […], le fatidiche prime teatrali di modaed eleganza soltanto, e quel sapore di mestieraccio ben retribuito che spalancala bocca della più parte degli attori correnti. [...]22

Gallian muore il 21 gennaio 1968 a Roma, dopo aver avuto come attività

artistica principale negli ultimi anni quella di pittore, realizzando anche alcune

mostre personali negli anni '6023.

Come si può notare da questa breve biografia, la sua produzione letteraria è,

almeno fino ai primi anni '40, eccezionale, e sarebbe ancora più ricca se l'ostracismo

del dopoguerra non gli avesse impedito di pubblicare le sue opere, peraltro ancora

numerose. Già colpito dalla censura fascista, a partire dal 1930, per la sua scomodità

di ribelle anarchico, di irruducibile rivoluzionario, non si libererà più dell'etichetta di

fascista, pur non avendo mai preso posizioni nostalgiche nel dopoguerra, ed anzi

essendosi avvicinato, specie negli anni cinquanta, a posizioni radicali localizzabili

nell'area dell'estrema sinistra. Non a caso chi lo aiutò in questo periodo faceva parte

di ambienti tutt'altro che di destra: tra questi ad esempio Fausto Coen, il già citato

direttore di «Paese sera», e lo scrittore comunista Felice Chilanti.

21 Cfr. il verbale della giuria riportato in Il destino della scena. La drammaturgia italiana e il premio Riccione, a cura di Sergio Colomba, Bologna, Grafis Edizioni, 1990, pp. 113-114.

22 La lettera di Gallian a Coen è riportata da Paolo Buchignani in Marcello Gallian..., cit., pp. 128-129.

23 Molte opere sono state esposte alla Biblioteca Universitaria di Pavia, in occasione della mostra documentaria Ribellione e avanguardia fra le due guerre. I libri e le carte di Marcello Gallian curata da Nicoletta Trotta, parallela al primo convegno di studi su Gallian intitolato L'avanguardia radicale di Marcello Gallian, tenutosi a Pavia il 17 e 18 dicembre 2008. Gli atti del convegno, a differenza del catalogo della mostra, non sono stati pubblicati, con l'unica eccezione dell'intervento di Silvana Cirillo, L'espressionismo tragicomico di Gallian. In fondo al quartiere, in «Reti di Dedalus», estate 2009, www.retididedalus.it.

16

1.6 La collaborazione a «900»

I racconti presi in considerazione quali argomento di questa tesi si riferiscono

alla collaborazione di Marcello Gallian alla rivista «900», fondata da Curzio

Malaparte e Massimo Bontempelli nel 1926.

Dopo l'annuncio, dato da Bontempelli, di voler creare una nuova rivista

letteraria in lingua francese e proiettata verso l'Europa, molte sono le polemiche. In

realtà, Bontempelli precisa da subito che non ha alcuna intenzione di mostrare

sudditanza nei confronti delle letterature straniere, ma propone di esportare, grazie

all'uso di una lingua più comune la nuova letteraura italiana. La proposta che avanza

è di rinnovare il panorama narrativo italiano prendendo spunto dall'architettura

razionalista, proponendo, cioè, una figura di scrittore «funzionale»: un ideatore di

storie, di miti, di personaggi che vadano a colpire l'immaginario collettivo. La

formula con cui riassume il proprio movimento è quella di «realismo magico»,

ovverossia, tramite l'immaginazione, «raccontare il sogno come se fosse realtà, e la

realtà come se fosse un sogno»24.

La prima serie della rivista è redatta completamente in francese col sottotitolo

di «Cahiers d'Italie et d'Europe», ha cadenza trimestrale e reca la dicitura «chaque

saison un cahier». Il primo numero esce nell'autunno del 1926. Il comitato di

redazione internazionale è diretto da Massimo Bontempelli ed è formato da Ramón

Gómez de la Serna, James Joyce, George Kaiser, Pierre Mac Orlan. Nella primavera

del 1927 si aggiunge Ilja Ehrenburg. A partire dal secondo numero, sono segnalati i

segretari di redazione: «À Rome, Corrado Alvaro, à Paris, Nino Frank». L'ultimo

numero a cadenza trimestrale è il «Cahier d'automne», n. 5 del 1927. Il n. 5 è anche

l'unico pubblicato in doppia edizione italiana e francese, in conseguenza dell'obbligo

dell'uso dell'italiano imposto dal regime. Poco prima dell'uscota di questo numero,

Malaparte ha abbandonato la redazione per lo scontro polemico tra “Strapaese” e

“Stracittà”, passando a scrivere sulle colonne di «Il Selvaggio». Dopo il quinto

fascicolo, «900» sospende le pubblicazioni, passa dalle Edizioni della Voce alle

edizioni Sapientia e riprende a pubblicare con cadenza mensile dal I luglio 1928, in

24 Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 19742, p. 161.

17

italiano, senza comitato internazionale e sotto la direzione del solo Bontempelli. Il

nuovo segretario di redazione è Gian Gaspare Napolitano. Ne escono sei numeri da

luglio al dicembre 1928 e sei numeri da gennaio a giugno (non più il I ma il 21 di

ogni mese) 1929, dopo i quali «900» cessa definitivamente le pubblicazioni.

Marcello Gallian comincia a collaborare a «900» nel n. 3, «Cahier de

printemps», del 1927 e continua fino all'ultimo numero, il 6 del giugno 192925. I suoi

scritti comprendono sei racconti, quattro articoli usciti nella sezione «Cronache», due

nella sezione «Carovana Immobile» e un dramma in tre parti. Do di seguito le

coordinate bibliografiche in ordine cronologico, una breve indicazione della tipologia

dello scritto e della sezione della rivista in cui compare. Segnalo inoltre eventuali

ripubblicazioni.

Reine des bambins, n. 3, «Cahier de printemps», 1927, pp. 127-133 (racconto

tradotto in francese da Emmanuele Audisio. L'originale italiano, La regina dei

pargoli della città, è in Nascita di un figlio ed altri scritti, prefazione di Massimo

Bontempelli, Roma, Atlas, 1929. Poi Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del

Grifo, 1990, pp. 27-32);

Vita del barone povero, n. 5, «Quaderno d'autunno», 1927, pp. 76-86

(racconto, uscito anche nell'edizione francese, col titolo di Vie du baron pauvre,

tradotto da Emmanuele Audisio. Ripubblicato in Antologia della rivista «900», a cura

di Enrico Falqui, Lucugnano, Edizioni dell'Albero, 1958, pp. 129-138);

Cronaca nera. Gli scomparsi, n. 1, 1 luglio 1928, pp. 42-44 (compare nella

sezione «Cronache», ma si tratta di un breve racconto);

Gli abitatori della piazza grande, n. 2, 1 agosto 1928, pp. 50-57 (racconto,

poi col titolo di Gli abitanti della piazza grande e con alcune varianti, in Nascita di

un figlio..., cit., pp. 12-25 dell'edizione Editori del Grifo, e, sempre col nuovo titolo e

le stesse varianti, in Quasi a metà della vita. Molto più che un romanzo, Firenze,

25 Il primo indice completo per autore della rivista è in appendice a Enrico Falqui, Antologia della rivista «900», Lucugnano, Edizioni dell'Albero, 1958. Più esaustivo quello in ordine cronologico che compare in appendice alla monografia di Antonio Saccone, Massimo Bontempelli: il mito del '900, Napoli, Liguori, 1979, pp. 157-167. L'indice è ora disponibile anche on-line al sito circe.lett.unitn.it.

18

Vallecchi, 1937, pp. 67-84.);

Rione San Lorenzo, n. 3, 1 settembre 1928, pp. 136-138 (compare nella

sezione «Cronache»; si tratta della descrizione di un quartiere di Roma, che ha la

struttura e i toni di un breve racconto);

La Madonna dei mercati, n. 4, 1 ottobre 1928, pp. 162-168 (racconto, poi

ripubblicato in Quasi a metà della vita..., cit., pp. 51-65);

Battesimo in famiglia, n. 5, 1 novembre 1928, pp. 229-231 (breve racconto

compreso nella sezione «Cronache»);

Spettacolo, n. 6, 1 dicembre 1928, pp. 273-275 (incluso nella sezione

«Cronache», è una cronaca teatrale dell'anno appena trascorso);

Processione, n. 1, 21 gennaio 1929, pp. 8-14 (racconto, poi ripubblicato, com

alcune varianti, in Quasi a metà della vita..., cit., pp. 85-96);

Io e la donna fatale, n. 1, 21 gennaio 1929, pp. 41-42 (nella sezione

«Cronache», dichiarazione autocritica di poetica riferita al romanzo appena

pubblicato La donna fatale, Milano, Corbaccio, 1929);

La casa di Lazzaro, n. 2, 21 febbraio 1929, pp. 42-57 (dramma in quattro

quadri; in questo numero compare il primo);

La casa di Lazzaro, n. 3, 21 marzo 1929, pp. 131-139 (secondo quadro del

dramma);

La casa di Lazzaro, n. 4, 21 aprile 1929, pp. 166-173 (terzo e quarto quadro

del dramma);

Due pezzi (Sogno di Roma. Comando tappa.), n. 4, 21 aprile 1929, pp. 175-

178 (due testi, il primo di carattere giornalistico-polemico, il secondo narrativo-

autobiografico, comparsi nella «Carovana Immobile» intitolata Novecentisti in giro

per Roma. Sogno di Roma è ripubblicato in Antologia della rivista «900», cit., pp.

229-231);

La madre stanca, n. 6, 21 giugno 1929, pp. 244-248 (racconto).

19

20

Secondo Capitolo

Temi e forme dei testi «novecentisti»

2.1 Gallian e «900»: Bontempelli, il surrealismo, l'espressionismo

Bontempelli si può considerare lo scopritore di Gallian, il primo critico e

scrittore affermato che gli dà credito e valore, chiamandolo a partecipare alla nuova

esperienza letteraria intitolata al «900», dopo averne conosciuto le primissime prove.

Nel 1926, l'interesse di Bontempelli è quello di coinvolgere i giovani scrittori in una

nuova prospettiva di creazione artistica che superi le tradizionali concezioni della

letteratura per letterati, che punti alla creazione di nuovi «miti», di nuove storie da

raccontare per un pubblico collettivo da riconquistare attraverso la poetica che egli,

su suggestione di Nino Frank, definisce «realismo magico». «Realismo magico» che

Bontempelli dichiara per la prima volta compiuto nei pittori del Quattrocento

(Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca), nella cui opera convivono «precisione

realistica e atmosfera magica», ovvero interpretazione magica di una realtà

quotidiana svolta con lucido stupore1. Nell'arte, la ragione, dunque, viene posta a

guida di un meccanismo che, attraverso la descrizione di fatti reali, quotidiani, sfocia

in una situazione magica grazie all'uso dell'immaginazione, la quale, però,

distinguendosi dalla libertà assoluta propria della fantasia, è tenuta a freno dalle

briglie della lucidità. È opportuno citare le parole di Bontempelli a proposito del

surrealismo, al quale è attentissimo, ma verso cui è decisamente critico:

Ho apprezzato le prime teoriche surrealiste (non le attuazioni) perché esse cihanno insegnato a vedere surrealisticamente anche la pittura del passato. […] E posso similmente accettare il surrealismo in quanto s'intenda che l'arte consista non nel darci il surreale puro (che non vuol dir niente) ma nello

1 Cfr. Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 19742.. Sull'arte del Quattrocento cfr. p. 21-22.

21

scoprire ed indicare il surreale nel reale.2

Sono parole del 1935, quando ormai l'avventura di «900» si è consumata, e

Bontempelli può esprimere le proprie riserve sugli aspetti meno apprezzati di quella

stessa avanguardia che certo gli è di grande ispirazione quando scrive nel 1926:

«unico strumento del nostro lavoro sarà l'immaginazione»3, memore delle prime

pagine del manifesto bretoniano del 1924. Ricordiamo che sulle colonne di «900»

scrivono esponenti di primo piano del surrealismo francese come Philippe Soupault,

Blaise Cendrars, George Ribemont–Dessaignes, anche se Breton non approva la

collaborazione dei surrealisti a una rivista dichiaratamente fascista. Bontempelli, dal

canto suo, si guarda dal pubblicare articoli espliciti sul surrealismo e sull'opera di

Breton: la sua concezione della narrativa e dell'arte è interessata alle innovative

teorie sull'immaginazione, ma è quanto mai lontana dai processi di scrittura

automatica. Soprattutto rifugge dalle teorie freudiane sulla psicanalisi, che

alimentano la poetica surrealista. Abbiamo già visto quanto scrive nel '35 sul

«surreale puro», riporto ora le sue eloquenti parole sulla psicanalisi comparse nel

fondamentale articolo Spazio e tempo del 1928:

Il freudismo […] respinge sempre più l'individuo verso gli abissi interiori, glinega ogni contatto non pure con un mondo all'infuori di lui, ma anche con lapropria coscienza, e fa dell'umanità una dispersione di larve vaganti dietro lepallide spinte di frammenti di immagini di sogni.4

Il discorso sul surrealismo cambia per quanto riguarda Gallian: osserveremo più

avanti alcuni procedimenti di costruzione narrativa improntati ad un esasperato

analogismo che sicuramente non ignorano la lezione della scrittura automatica,

seppur in una logica personale mai assimilabile del tutto all'avanguardia francese.

Al di là delle influenze europee, «900» vuole esser soprattutto un trampolino

di lancio per una nuova narrativa italiana5 che apra il nuovo secolo spazzando via i

2 Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, cit., p. 320. Corsivo d'autore.3 Ivi, p. 9.4 Ivi, p.27.5 Così si esprime Bontempelli: «Noi, nel momento stesso che ci sforziamo di essere degli europei, ci

sentiamo perdutamente romani», ivi, p. 12. Corsivo d'autore.

22

residui della letteratura ottocentesca e tardoverista. Non più psicologismo,

naturalismo, estetismo, ma una scrittura «funzionale» che impari dalla nuova

architettura razionalista a «edificare senza aggettivi, scrivere a pareti lisce»6, una

scrittura che prima di tutto sia un onesto mestiere. Bontempelli considera il banco di

prova per eccellenza della letteratura la terza pagina, la scrittura quotidiana, che deve

essere coinvolgente per un pubblico vasto, un pubblico da dirigere ed influenzare,

senza assecondarlo. In questa esaltazione del giornalismo come professione letteraria

d'eccellenza è, a mio parere, da ravvisare una forte analogia tra Gallian e

Bontempelli. Vale a dire che per entrambi la scrittura deve essere una pratica

quotidiana ed un mestiere, entrambi rifiutano l'idea del capolavoro per letterati,

puntando alla continuità di una produzione letteraria fatta per i contemporanei e non

per i posteri, che si nutra del contemporaneo e non rimugini la tradizione. Va certo

distinta la finalità: se Bontempelli mira alla diffusione della cultura del nuovo secolo,

Gallian ne fa uno strumento di rivoluzione, di potente influenza sulla realtà sociale e

politica. Se per Bontempelli la scrittura è fine a sé stessa, per Gallian l'arte è e resta

uno strumento di polemica ideologica. Questo è anche il motivo per cui l'esperienza

novecentista di Gallian e di altri giovani autori non si esaurisce con «900» ma sfocia

nelle testate d'avanguardia «I Lupi», «L'Interplanetario» e «2000»: testate che

vogliono allontanarsi dai “limiti” borghesi del loro indiscusso maestro, in direzione

della palingenesi fascista affiancata dagli artisti d'avanguardia. Questo motiva anche

differenti rapporti nei confronti dell'avanguardia italiana per eccellenza: il futurismo.

Per Bontempelli (per cui questa è soprattutto l'abiura di un'esperienza giovanile) il

futurismo è servito solo a concludere l'«epoca romantica» e a consentire di iniziare il

nuovo secolo; per Gallian – come per i “lupi” Napolitano e Bizzarri e altri giovani

orbitanti attorno al fenomeno del «novecentismo» – esso ha invece insegnato a

costruire attraverso l'arte un messaggio rivoluzionario, ma, avendo esaurito la sua

funzione appiattendosi sulla celebrazione del fascismo, deve essere sostituito da un

movimento d'avanguardia nuovo che dia voce alla richiesta di realizzare la definitiva

sconfitta della borghesia che Mussolini aveva promesso7.

6 Massimo Bontempelli, L'avventura..., cit., p. 77.7 Sul rapporto tra «novecentismo» e avanguardia vedi Giancarlo Quiriconi, Il cruciale 1927:

Aniante e dintorni fra «900» e avanguardia, in «Il Ponte», n. 2, 1983, pp. 200-212 .

23

Quanto detto apre all'interrogativo più importante riguardo alla produzione

giovanile di Gallian, cioè come sia possibile conciliare gli esperimenti

bontempelliani di narrativa lucida, di razionale magismo, di dominio sul reale

attraverso l'intelletto con la vulcanica, arruffata, visionaria scrittura del Nostro. Quali

possono essere i punti di contatto tra due esperienze dagli esiti così differenti? Una

risposta definitiva è difficile da dare. Bisogna considerare come dato di partenza la

grande apertura che Bontempelli dimostra nei confronti dei suoi giovani

collaboratori, essendo ben cosciente che le proprie teoriche restrittive sul fine e sui

mezzi della letteratura si prestano ad essere ignorate o travisate, lungi dal poter

essere prescrittive. Bontempelli ribadisce sempre con forza di non aver mai creato

una «scuola» o una «corrente», ma solo un sodalizio di voci differenti per la

letteratura del nuovo secolo8.

Pur contravvenendo alla teoria della scrittura «funzionale», della creazione di

storie senza eccessi di aggettivazione, possiamo dire che Gallian aderisce con modi

propri al cosiddetto «realismo magico»: la deviazione verso il fantastico e il

visionario avviene di preferenza, nei suoi racconti pubblicati su «900», da un dato di

partenza realistico, da una situazione plausibile. Cito in proposito le parole di

Arnaldo Bocelli, il più profondo tra i critici suoi contemporanei, che osserva tra le

sue qualità:

la sua singolare facoltà di trasportare l'osservazione minuta, realistica della vita in un'aura fiabesca e incantata, dove, venuti a mancare ogni connessione o successione logica, ogni riferimento temporale o spaziale, ogni legge diverisimiglianza, le persone e le cose assumono naturalmente valore di tipi e di simboli.9

Se la narrazione evolve grazie a meccanismi iperbolici, a descrizioni di particolari

che crescono con ipertrofia barocca fino ad occupare pagine intere, è pur vero che le

reali accensioni di tipo onirico sono circoscritte e inserite come scarto riconoscibile

in un contesto comunque realistico. Più che di fantastico o surreale vero e proprio,

parleremo più spesso di situazioni paradossali, che nei racconti meglio strutturati

8 Cfr. in proposito la polemica di Massimo Bontempelli con Giovanni Battista Angioletti, Il Novecentismo è vivo o è morto?, in «L'Italia letteraria», 16 novembre 1930, p. 3 e Riassunto, in L'avventura..., cit., pp. 348-353.

9 Arnaldo Bocelli, Romanzi di Gallian, in «L'Italia letteraria», n. 48, 29 novembre 1931, p.8.

24

nascondono, però, un'intenzione più o meno scopertamente ideologica che si

configurerà sotto forma di elementare allegoria, ovvero di messaggio intenzionale

inserito al fondo di un racconto pieno, traboccante di parole e di immagini. Se la

gratuità di certe forme lo fa sospettare – anche se spesso a ragione – di incoerenza,

dobbiamo fare nostre ancora una volta le parole di Bocelli, secondo cui «quelle

analogie improvvise» in realtà «sono l'espressione adeguata di quel mondo e di

quello stato d'animo»10.

Fermarsi alle ragioni esteriori di questo modo di scrivere significa ignorarne i

contenuti: si rende invece necessaria un'analisi che approfondisca il modo di

costruire le trame e di coniugare tematiche e stile. Certo, non si vuole negare che la

descrizione preponderi sulla narrazione e che il messaggio che pare trapelare dai

racconti sia sempre e comunque un messaggio ambiguo, né che l'esuberanza lessicale

sia il fatto letterariamente più interessante di questi racconti, ma limitarsi a compiere

un regesto di stilemi o un repertorio di figure in un autore convinto come Gallian che

la letteratura sia principalmente uno strumento di comunicazione, significa

perpetuare uno storico pregiudizio critico: quello che lo vede arricchire le fila dei

cosiddetti “calligrafi”. Seguendo una strada che, per quanto riguarda i racconti, è

stata aperta dallo studio di Pietro Luxardo Franchi11, occorre considerare i modi in

cui le costanti tematiche sostanziano le sue scelte di stile. Soprattutto cercherò di

evidenziare la continuità tra contenuto e forma, mostrando come la trasfigurazione

che le sue scelte verbali operano sia necessaria alla resa di una visione personale, non

mancando, certo, di sottolineare quando la gratuità di alcuni forzati analogismi e di

molti elenchi sterminati di oggetti è palese.

Quello che si vuole qui dimostrare è che in questi racconti, quelli di «900», il

messaggio ideologico che nei romanzi successivi sarà palese e ne appesantirà (e in

taluni casi sfalderà) la costruzione diegetica, è comunque presente, ma influenzato,

condizionato, reso ambiguo e perciò più interessante, anche se in alcuni casi nascosto

o inerte, dall'apertura alle innovative influenze acquisite dalla familiarità con

10 Arnaldo Bocelli, Romanzi..., cit., p. 8.11 Pietro Luxardo Franchi, Marcello Gallian, in «Studi novecenteschi», n. 38, 1989, pp. 207-264, poi

con titolo Novecentismo visionario nella scrittura di Marcello Gallian, in L'altra faccia degli anni trenta, Padova, CLEUP, 1991, pp. 111-171. Le citazioni sono da quest'ultima edizione.

25

l'atmosfera della rivista.

Oltre al surrealismo occorrerà citare, tra le influenze artistiche del giovane

Gallian l'esperienza europea dell'espressionismo. Dalla sua nascita in Germania

aveva già attraversato l'Italia coinvolgendo poeti come Camillo Sbarbaro, Clemente

Rebora e Dino Campana. Soprattutto in quest'ultimo, nel poeta dei Canti orfici,

possiamo riconoscere le stesse tinte forti di Gallian, uno sguardo similmente

allucinato nei confronti di una realtà sordida e degradata, gli stessi slanci visionari.

Oltre e più che all'espressionismo letterario di Döblin o di Benn, queste immagini ci

riportano all'espressionismo pittorico di George Grosz o di Otto Dix, alla loro grande

forza caricaturale e polemica nei confronti della borghesia tedesca, che si traduce in

un ingrandimento del dettaglio repellente: un gioco prospettico che costituisce una

delle cifre più significative di questa poetica e che riscontriamo anche nella prosa

dell'autore romano. Sintetizzando all'estremo e forzando forse la lettura, possiamo

ipotizzare che partendo dalla formula, di per sé vaga, di «realismo magico», la

scrittura di Gallian sia descrivibile sostituendo la parola “realismo” con

“espressionismo” e la parola “magico” con “surreale”, intendendo con

“espressionismo” proprio la sua carica realistica che si configura come ipertrofia del

particolare, più o meno macabro, e con “surreale” la trasfigurazione che, partendo dal

dato reale, lo trasporta attraverso l'analogia in una dimensione onirica.

2.2 Analisi tematica

Una lettura dei racconti di Marcello Gallian rischia, come accennato, di

limitarsi alla superficie del suo «delirio barocco»12 (Contini), senza riuscire a

superare le storiche tautologie che la critica ha prodotto in questo senso. In realtà, la

sua esuberanza verbale è parallela ad un'idea della natura e della vita come fatti

violenti, retti da logiche aggressive, in perpetua tensione, non vincolati da altre leggi

se non quella della sopravvivenza, ma non per questo intese in senso negativo. Anzi,

la violenza fisica costituisce una forma di socialità e il contrasto è una logica di

convivenza; l'anelito all'uguaglianza sociale ed al riscatto delle frange deboli della

12 Gianfranco Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Firenze, Sansoni-Accademia, 1974, p. 362.

26

società convive con la descrizione della forza come strumento di rivoluzione sociale.

Ciò che viene messo in cattiva luce è il sistema del compromesso messo in atto dalla

società borghese, ciò che si sostituisce alla forza umana e causa disparità e

disuguaglianze, contravvenendo alle leggi di natura.

La sua tendenza è quella di concentrare l'attenzione su due fronti: da una

parte si occupa delle necessità primordiali dell'uomo come animale; dall'altra della

vita cittadina in cui le fatuità borghesi (che spesso condannano i suoi eroi

all'emarginazione e al vagabondaggio) si contrappongono alla libertà dell'individuo e

della folla, la quale libertà si configura di preferenza come violenza gioiosa,

necessaria sopraffazione, allegro sadismo. Questi aspetti sono analizzati nei quattro

paragrafi seguenti che costruiscono altrettanti percorsi, nella convinzione che si

possa leggere questa narrativa «novecentista» alla luce di quattro costanti macro-

tematiche: la nascita, l'ingresso rituale nella vita e la genitorialità; la violenza e la

morte; il viaggio inteso come vagabondaggio; la natura allegra, carnevalesca e sadica

della folla paesana contrapposta alla vita borghese e cittadina.

Preliminarmente alla lettura tematica è da sottolineare che l'uso del termine

“costante tematica” non deve indurre nell'equivoco che vi sia una ideologia sempre

palese e univoca. Anzi, ogni racconto scatena ambiguità spesso irrisolte e forse

irrisolvibili. Questo accade sia perché le componenti cristiane, fasciste, anarchiche e

dannunziane del pensiero gallianiano sono tutt'altro che pacificate tra loro, sia per il

modo in cui la narrazione è costruita. Infatti, alla frequentissima sintassi paratattica,

si accosta una “paratassi diegetica”, se così si può dire, che instaura un meccanismo

di giustapposizione di scene, di inquadrature differenti il cui legame logico, che

dovrebbe reggerne la consequenzialità, è tutt'altro che forte. Ad indebolirlo concorre

certamente un singolare uso del lessico: si ha talvolta l'impressione che alcune scelte

verbali abbiano un gratuito intento ritmico, creando quello che Luxardo Franchi

definisce, appunto, «ritmo ternario nell'aggettivazione»13. Pare che il significante

preponderi sul significato rendendo le frequenti coppie o terne di aggettivi veri e

propri cortocircuiti, rompicapi semantici14. La misura breve del racconto garantisce,

13 Pietro Luxardo Franchi, Novecentismo visionario..., cit., p. 153.14 Cfr. Carlo D'Alessio: «Gallian […] si serve di una scrittura fosforica e allucinata, in cui, e questo è

27

in ogni caso, una maggiore unità e coerenza nella narrazione rispetto a quanto

avviene nei romanzi, dove la dispersione che nasce dalla sequenza di scene, episodi e

digressioni è massima.

2.2.1 Il tema della nascita e dell'ingresso nella vita

Moltissime pagine di Gallian, anche oltre i pochi testi qui presi in

considerazione, sono ispirate dalla riproduzione, dall'atto della nascita, che si

configura come momento magico di ingresso nella vita. L'aspetto che la nascita

assume è generalmente quello di un rituale, di un momento estatico in cui il tempo si

ferma e lo sguardo si fa meravigliato di fronte al prodigio o al pensiero del parto. Il

caso più frequente è che ci vengano presentate coppie in procinto di avere un

bambino nelle quali i personaggi maschili sono animati da un insopprimibile

desiderio di paternità. Addirittura il rapporto tra l'uomo e la donna appare immotivato

al di fuori delle ragioni della riproduzione e, inoltre, lo sguardo rivolto alla donna

mostra sempre l'invidia verso colei che può compiere il prodigio di creare un

«Uomo».

Questa concezione si rivela una costante di Gallian: uno dei suoi racconti più

equilibrati, risalente al 1929 e intitolato emblematicamente Nascita di un figlio15,

descrive le sensazioni allucinate e le paure di un padre nel momento della nascita del

proprio figlio; la stessa immobilità allucinata e stupita tornerà nel racconto più tardo

– entrambi sono raccolti in Quasi a metà della vita, del 1937 – Ricordi: mutato in

cavallo16, in cui il protagonista, trasformato in un cavallo, appunto, assiste alla

nascita del figlio. A proposito di questa sorta di ossessione della paternità e della

riproduzione non sarà superfluo ricordare che Gallian, autore per il quale la distanza

tra lo scrittore e l'uomo tende ad annullarsi, ebbe sei figli dalla moglie Giuseppina e

il suo pregio e il suo limite, il barocchismo stilistico, specie nei racconti, prende il sopravvento, facendo esplodere dall'interno il meccanismo letterario». Da Marcello Gallian: un espressionista in nero, in «Critica letteraria», n. 2, 1994, pp. 377-390, cit. da p. 379.

15 Marcello Gallian, Nascita di un figlio, in «A e Z», 10 gennaio 1929, p. 3, poi in Nascita di un figlio ed altri scritti, Roma, Atlas, 1929. Ora in Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del Grifo, 1990. Incluso anche in Quasi a metà della vita. Molto più che un romanzo, Firenze, Vallecchi, 1937.

16 Marcello Gallian, Ricordi: mutato in cavallo, in Quasi a metà della vita..., cit.

28

già nella parzialmente autobiografica prefazione al citato Quasi a metà della vita

dichiara «da tanto tempo desidero cento figli, tutti nati da mia moglie […]. Cento

figli, da portare a passeggio uno dietro l'altro»17. A riprova di ciò segnalo che lo

stesso Nascita di un figlio viene scritto proprio in occasione della nascita del suo

primogenito. Non va dimenticata, infine, la sua profonda e viscerale adesione ad un

cristianesimo primitivo, evangelico, inteso all'osservanza dell'ordine naturale.

Il tema della nascita e del rapporto tra genitori e figli compare già nel primo

racconto pubblicato su «900», che s'intitola, in francese, Reine des bambins18, ma il

cui titolo originale è La regina dei pargoli della città. Sono qui narrati i primi mesi di

vita di una neonata «enorme», nata da due anziani genitori «bassi, indecisi e

trasparenti».

L'incipit ci cala immediatamente nella dimensione iperbolica della narrativa

di Gallian:

La figlia enorme aveva ridotto in povertà le mammelle più celebri delle balie del tempo, le quali passeggiavano tutto il giorno, dopo l'avvenimento, sotto i colonnati di San Pietro, decadute, secche e polverose.

Quella che notiamo è una fisicità esasperata la cui resa iperbolica serve a

circoscrivere il dato reale: il barocchismo del particolare qui sottostà ancora a

un'istanza realistica. Nel racconto non si parla in modo esteso di un parto prodigioso,

come nei casi sopra citati, anzi, il momento della nascita è espresso da una semplice

didascalia:

Un bel giorno i due vecchi fecero la figlia enorme.Avvenne così.

La narrazione è condotta in terza persona da un narratore esterno che mai rende noti

nomi dei protagonisti e si concentra – ed è quello che qui ci interessa – sul giorno del

17 Marcello Gallian, Quasi a metà della vita. Molto più che un romanzo, Firenze, Vallecchi, 1937, p. 28.

18 Marcello Gallian, Reine des bambins, in «900», n. 3, 1927, poi come La regina dei pargoli della città, in Nascita di un figlio ed altri scritti, Roma, Atlas, 1927. Ora in Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del Grifo, 1990, pp. 27-32. Le citazioni seguenti sono da quest'ultima edizione.

29

concepimento. Questo viene descritto come una sorta di rapimento magico: l'uomo,

dopo aver mangiato e bevuto in abbondanza in un giorno estivo, si sente male e

vorrebbe abbandonarsi ad un liberatorio bagno in una fontana. L'immaginario onirico

e fantastico, che osserveremo più avanti, comincia a farsi strada, ma ancora si tratta

di un uso metaforico piuttosto generico:

[…] si sarebbe voluto spogliare ed avrebbe voluto navigare nelle fontane cittadine, insieme alle sirene di marmo.

Nel fondo erano i consumati vestiti delle sirene: leggerissimi porticati di fili d'erba si partivano da un lato all'altro, attraverso l'acqua.

Era perfettamente vivo. Soltanto una voglia spaventosa di sentirsi l'acqua indosso.

Non appena uno schizzo d'acqua colpisce l'uomo e gli inonda il petto, egli sente il

desiderio di correre a casa per amare la sua donna, pensando «agli scultori che

riparano le statue». Il rapporto tra i due vecchi, consumato mentre l'uomo ancora

soffre dolori «allo stomaco, al naso, alla gola», viene descritto, appunto, come un

lavoro di scultura, il corpo vecchio della donna come un'opera da riplasmare. Da

questo rapporto si genera una figlia enorme: un parto sproporzionato che acquista

immediatamente i connotati di una vendetta. La grandezza della bambina la rende

superiore ai genitori e alle balie, che non possono fare altro che servirla. La sua

esuberanza fisica le consente di dominare sui suoi ridicoli genitori, cui è dato

l'aspetto di una grottesca coppia di clown:

andavano insieme da tempo immemorabile, come un numero da circo […].Lei con un cappellino patito ed un paralume da sole, tutto merletti e fronzoli,l'altro, sempre vestito di nero, le scarpe ammusonite. Con il cappellino, ilparalume e le scarpe si sarebbero potuti far giuochi diversi, sulle pubblichepiazze.

Il contrasto tra la vecchia generazione e la nuova si risolve a tutto favore della

seconda che con la sua esuberanza e violenza può esprimere anche tutta la propria

insoddisfazione attraverso un pianto liberatorio:

30

nella notte, si lamentava così forte che tutti i neonati delle case lontane lerispondevano.

tanto che nel finale del racconto il pianto sopraffa tutti i tentativi dei genitori di

divertire la «figlia enorme», che inesorabilmente resta indifferente ai «giuochi

infantili» del padre, elencati in una sequenza iterativa e anaforica dal tono

favolistico:

Il vecchio aveva veleggiato veleggiato tanto, su in alto, fino a trovare in unangolo del cielo tutti i palloncini fuggiti dalle mani dei bimbi […]: avevanavigato tutti i mari per far provvista di conchiglie […]; si era ridotto a pescare, melanconicamente, nelle vasche dei giardini pubblici, i pesciolini rossi […].

[Il vecchio] aveva affondato transatlantici carichi di passeggeri ed altri aveva portato a salvamento […].

Aveva fatto costruire peraltro montagne di terra […].19

Lo sviluppo del racconto è paradigmatico: muovendo da un'istanza realistica,

descrittiva, che si connota immediatamente di una coloritura che definirei

espressionista, devia in seguito verso procedimenti costruttivi analogici, iterativi e

anaforici, che non sarà eccessivo avvicinare alle contemporanee teorie surrealiste.

Forse è eccessivo leggere in questo racconto un abbozzo dell'allegoria che

guida il romanzo successivo Una vecchia perduta, ma ci sono possibili analogie. In

questo romanzo, del 1933, il giovane e vitale Giovanni ingravida la vecchia Caterina,

che partorisce un bambino e viene abbandonata in fin di vita. Questo parto vuol

significare la nascita del nuovo stato fascista dalla vecchia Italia liberale, fecondata

dalla nuova generazione degli squadristi. In qualche modo la bambina enorme del

racconto appena osservato rappresenta una prima affermazione della forza della

nuova generazione a cui quella vecchia deve essere asservita. Vedremo che tra

genitori e figli il rapporto non è mai paritario o pacifico, ma sempre attraversato da

contrapposizioni.

L'idea di una nuova generazione libera, forte, ma questa volta spensierata,

19 Corsivi miei.

31

ricorre nel racconto Gli abitatori della piazza grande20. Qui un giovane, protagonista

e narratore, porta a vivere con sé una donna, che abbandona la casa dei genitori,

situata in un quartiere povero descritto come un teatro di marionette, portandosi

appresso l'arredo per una nuova casa. Dopo un viaggio in carrozza lungo la città, i

due, abbandonati dal cocchiere e dal cavallo, si ritrovano soli, senza una casa, nel

mezzo di una piazza. La donna, con forte spirito di iniziativa, inizia ad utilizzare la

piazza come un'abitazione. Il suo istinto materno la spinge a desiderare un figlio e

perciò convince il suo uomo a conservare la carrozza che li ha trasportati per donarla

al bambino. I desideri genitoriali dei due toccano l'apice nel finale, discordando

notevolmente: la madre aspira ad un bambino come ad una creatura indifesa da

accudire e nutrire:

Io vorrei avere tutti i bambini che dormono così, e che vanno a scuola col canestro pieno di dolci, e di bottiglie di vino del Reno, e di foie-gras fattocon le mie mani. Col costume di un marinaio gli farei il vestito, e mi darei almigliore calzolaio della città per fargli le scarpe lucide, che scricchiolano. Setu non vorrai farlo, un bambino, ne troverò io, uno, un giorno, appena mi saràpossibile uscire vestita con una stoffa di velluto nero e il cappello ornato di tre lunghe penne di struzzo.21

Mentre il padre si lascia prendere da «vaghi pensieri di conquistatore», dal desiderio

di creare un mondo «favoloso» per un uomo capace di dominare e di superare

persino il dolore della morte, ma esprimendo insieme la sua paura di esserne

incapace:

Potevo far nascere io in una piazza, nel cuore della grande città, dauna donna qualunque uno sconosciuto che mai forse avrei più visto, durantela mia vita terrena? Allora vaghi pensieri di conquistatore mi balenavano nelcervello e vaghi propositi nel cuore mi facevano preparare un camminoimmaginario, favoloso per i piedi teneri di mio figlio: volevo un figlio ebete,rossiccio, con grandi occhi e mani da pugilatore, amante dei troni e delledonne più costose, possessore di terre e di palazzi, che parlasse poco e ridessemolto, per un nonnulla, per una mosca che vola, per un cavallo che cade, perun uomo che muore.

20 Marcello Gallian, Gli abitatori della piazza grande, in «900», n. 2, 1928, pp. 50-57, poi con titolo Gli abitanti della piazza grande in Nascita di un figlio ed altri scritti, Roma, Atlas, 1927. Ora in Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del Grifo, 1990, pp. 12-25. Le citazioni seguenti sono da «900». Tra l'edizione in rivista e quelle in volume ci sono alcune varianti.

21 Le edizioni in volume riportano la variante «Io vorrei avere uno di quei bambini».

32

Avrei potuto prepararlo io il regno per il bambino che sarebbe nato?

L'incapacità di essere padre, accompagnata al tema dell'ingresso nella vita,

ricompare nel testo Battesimo in famiglia22, mentre il desiderio di essere padre di un

figlio che si configura come «Uomo» vivo e forte è al centro di La madre stanca23,

l'ultimo dei racconti su «900».

Il primo viene inserito nella sezione «Cronache» e nelle prime battute si

presenta come il resoconto di una cerimonia provinciale di battesimo in una casa in

campagna. La veste ben poco giornalistica del narratore non lascia dubbi sulla reale

fisionomia narrativa e creativa del brano, specie quando il punto di vista del narratore

in terza persona si sposta all'interno e si identifica con quello tragico del padre. Alla

descrizione della parata festosa degli invitati verso la villa di campagna dove si terrà

la cerimonia, segue quella del banchetto e del battesimo.

Leggiamo la presentazione della famiglia:

Ed ecco si presenta il padre, la madre e il neonato in fasce; unneonato che mostra la faccia appena abbozzata.

Il padre è mingherlino e segaligno, quasi cieco: per veder megliogonfia il petto e spalanca la bocca e gesticola con le mani rosee, quasispellate, e allora quelle sue ciglia si tiran su, ancora, in alto, e le pupille esconfuori dalle orbite e gli toccano gli occhiali spessi, facendoli opachi: èmansueto e dolce infatti come i ciechi e parla poco e forte come i sordi: ilneonato non sembra suo, ma tutto della madre, ragazza poderosa e dura, allaquale anche il marito sembra figlio […]. Dietro al terzetto tragico un canerabbioso e protervo, di pochi anni, figlio anch'esso (si vede), della grossaragazza e paura e tirannia dell'uomo, che impallidisce a ogni latrato.24

Il padre ne esce come una figura impotente, che assume in sé difetti di debolezza

fisica che si traducono in debolezza morale. Al contrario, la moglie è forte, robusta e

sostiene da sola il peso di tutta la famiglia, tanto da apparire come figura materna

non solo del figlio, ma persino del marito e del cane. Si noti poi come il cane,

dominato dalla donna, sia in grado di terrorizzare l'uomo.

Il quadro, già reso inquieto dalla deformazione caricaturale che permea la

22 Marcello Gallian, Battesimo in famiglia, in «900», n. 5, 1928, pp. 229-231. 23 Idem, La madre stanca, In «900», n. 6, 1929, pp. 244-248. 24 Corsivi miei.

33

descrizione della parata, si fa addirittura grottesco quando si giunge al vero e proprio

battesimo. Il pianto del bambino genera il sorriso vendicativo del padre, ammutolito

subito da uno sguardo della moglie:

il marito […] sorride quando il sale amaro entra nella bocca delbambino […] sorride di vendetta e di vergogna. La ragazza lo guarda: egliarrossisce e sbianca: ha capito quel che gli spetta: si rincantuccia in un angolodella camera e attende che torni la donna e non tocca cibo.

Il sorriso di vendetta per la sofferenza del figlio è ambiguo: essendo

contemporaneamente sorriso di vergogna, pare che il motivo di questa vergogna sia

la propria incapacità di sostenere la paternità. La sua sofferenza risulta, poi, acuita

dalla presenza di una intera città, fatta di ricchi e grassi borghesi, tracciati con

un'attenzione al dettaglio fisico che ancora una volta ci ricorda la lezione

dell'espressionismo di Grosz.

Nell'ambiguo finale, la sua necessaria presa di posizione sociale come padre

di famiglia, ma sottomesso ad una donna che gli è più madre che moglie, viene

sancita da un ulteriore battesimo che lo accomuna al figlio, a cui è simile soprattutto

per la debolezza:

Sopraggiunge la ragazza. Lo prendono tutti: chi con le mani, chi conle pance gradasse lo mura, chi con la bocca gonfia di risate e di cibo losoffoca: egli vuol veder meglio e allora spalanca la bocca e gli danno sullelabbra il sale amaro che ha fatto piangere suo figlio: lo battezzano novamentementre egli maledice Iddio e gli versano sui capelli acqua corrente e vino.

Poi la donna lo prende per la mano e lo conduce a letto proprio vicinoal neonato: gli rassomiglia.

Vengono dalla camera lontano risate e schiamazzi in onore di quei dueche ormai sono entrati nella vita.25

L'ambiguità di questo racconto sta tutta nel conflittuale rapporto tra l'uomo e i suoi

doveri. La personalità del protagonista è divisa tra il suo essere padre e individuo di

una società: due necessità che scatenano una reazione regressiva, configurantesi in

un ideale ritorno all'alveo materno che la dominante figura femminile riesce a

costituire. Intanto sullo sfondo restano le risate del resto della città con cui al

25 Corsivi miei.

34

risveglio dovrà fare i conti, e quel neonato che, accanto a lui, gli è discendente e

nemico allo stesso tempo.

Una figura maschile completamente opposta è tra i protagonisti del secondo

racconto sopra citato: La madre stanca. Questa volta la contrapposizione è tra la

moglie, Marianna, incinta e terrorizzata dall'idea del parto, e il marito, senza nome,

che è «pazzo d'amore per il suo Uomo» e ne invoca la nascita come una benedizione

per tutto il paese:

tutti attendono il mio uomo che porterà tanto bene, che farà tanti miracoli per tutti e li getterà senza lesinare, da gran signore.

Il marito è un uomo forte, che ha lavorato e sofferto molto ed ora prova il «bisogno

naturale» di un figlio, ma non riesce a coinvolgere nel suo entusiasmo la moglie che

per paura e vergogna rifiuta l'idea della propria gravidanza. Nel passo che segue la

madre sfoga il suo terrore per l'aspetto che il bambino potrà avere:

Io non so perché. Non lo voglio. Forse perché potrebbe venir fuori un nanocolla testa grossa o un mostro con muso di toro e mani piccole, come germi dimano. Brutto e triste, ecco.

In questo caso troviamo affiancati due modi contrastanti di pensare: da un

lato il fantasticare su di una progenie miracolosa; dall'altro la cruda immaginazione

che assume i toni di un espressionistico realismo nella descrizione di malattia e

deformità. Questi terribili pensieri sfociano in una nascita prematura che avvera i

presagi terribili che la paura aveva dettato alla donna:

Marianna non aveva urlato e il figlio sembrava fosse venuto alla luceper una leggera malattia della donna: senza strepito, senza quella festa deldolore che il marito aveva tanto desiderato. E non guardava nessuno, quelfiglio bruno come un arabo, con grandi occhi e bocca piccola; dormiva e poisi svegliava per prendere il latte. Ma sembrava «una prova» d'uomo, esembrava che a diventarlo avrebbe messo un secolo; o fosse cresciuto,magari, così, con quelle unghie, con quella specie di viso quella specie dimani, come se tutti gli uomini fossero sbagliati e lui soltanto vero egiusto.26

26 Corsivi miei.

35

Il marito accusa Marianna di questo parto senza dolore, senza volontà di maternità e,

poco dopo, al termine di quello che sarebbe stato il nono mese di gravidanza, il

piccolo, che ricorda da vicino il nonato dipinto da Otto Dix:muore. Il paese è ancora

ignaro e continua ad attendere la grande festa per la nascita, ma cominciano a

circolare strane voci su Marianna, sulla sua paura e sulla vergogna di essere madre.

Quando sopraggiungono i becchini con una «piccola cassa di legno da imballaggio»

a portare via il bambino, Marianna realizza davvero quanto è accaduto e crolla nella

più assoluta disperazione, tanto che arriva a minacciare di gettarsi dalla finestra, se

non le viene reso il piccolo corpicino. Nel descrivere il suo sfogo Gallian mostra

come le grida e la posa del suo corpo alludano e mimino il parto ed il dolore che ella

non ha provato. Il punto di vista assunto dal narratore è ora quello della vecchia

levatrice Concetta, secondo la quale solo adesso che ha sofferto davvero, Marianna

ha meritato il figlio, ma è troppo tardi:

Se l'è guadagnato ora – diceva Comare Concetta – Ha urlato, e spingeva con le ginocchia il ventre, nella finestra, come se avesse voluto darlo al mondo un'altra volta.

Purtroppo la morte del figlio è irreparabile e Marianna, che ora, superate le paure,

pare aver effettivamente compreso la necessità dell'istinto materno, deve arrendersi

all'ineluttabile destino e pregare il «bifolco» becchino di portare via quei poveri resti.

Questa figura di madre che veglia sul corpo morto del figlio ricorre anche nel

dramma La casa di Lazzaro, dove il dolore sopraffà la ragione e impedisce di

accettare il corso degli eventi. Mentre nel Lazzaro la madre ottiene di rivedere il

figlio risorto, Marianna può solo costringersi a guardarlo putrefarsi e inevitabilmente

arrendersi alla tremenda realtà. Questa è la macabra conclusione del racconto:

Marianna vegliò, una notte e un giorno, e il neonato cominciava adisfarsi. Come preso da una muffa lenta, si ingrossava e perdeva ognifisionomia umana. Si muoveva e scompariva.

Alla sera la madre discese nella piazza e pregò il bifolco:– Portatemelo via!

Sui racconti appena analizzati possiamo fare alcune osservazioni generali. La

36

rigidità nel considerare la riproduzione come un imperativo etico proprio di ogni

essere umano pare essere indiscutibile, e fa parte di quella componente di irriducibile

cristianesimo primitivo dello scrittore romano. Ciononostante, Gallian prova, con

risultati alterni ma in alcuni casi efficaci, a descrivere le ansie e le preoccupazioni

che l'essere genitore porta con sé. Egli ci mostra coppie di genitori percorse dal

conflitto tra volontà di potenza e autoaffermazione mediante la riproduzione e il

terrore di questo peso morale. Anche in La regina dei pargoli della città, dove a

dominare è il contrasto tra genitori e figlia, i due anziani, benché uniti, non sono

affatto in pace e, anzi, il desiderio di paternità si connota come desiderio di plasmare

e dominare esercitato nei confronti della madre. Non ci sono dunque rapporti

pacifici, ma sempre una lotta che tende a manifestarsi sul piano fisico. Solo in Gli

abitatori della piazza grande, sorta di favola urbana, non ci sono accenni violenti nel

rapporto di coppia, ma questo non esclude che ci siano contrasti ideali come quello

che abbiamo osservato, generato dall'insofferenza dell'uomo per la protervia con cui

la donna tende ad adattare ad abitazione borghese persino la piazza che li ospita.

Un fatto proprio di questi racconti, comunque inquadrabile nell'ideologia

gallianiana, è che tutti i rapporti di coppia si configurano come rapporti coniugali, a

differenza di quanto avviene in molti romanzi. Questo avvalora quanto scritto a

premessa di questa analisi, ovvero che siamo ben lungi dal poter individuare

un'ideologia univoca: da una parte abbiamo l'unione coniugale; dall'altra il rapporto

libero e la riproduzione come autoaffermazione; da una parte la famiglia e la casa;

dall'altra la strada e la piazza. Basti ad esempio quanto appena scritto sul contrasto

ideale in Gli abitatori della piazza grande oppure il quadro della cerimonia di

Battesimo in famiglia, piuttosto grottesco, che sembra essere motivato dalla

ripugnanza di Gallian per le cerimonie intese come formalità sociali ma si inquadra

coerentemente, senza forzature, nello sguardo del protagonista, il cui punto di vista il

narratore assume.

2.2.2 Il tema della violenza e della morte

L'attenzione di Gallian, abbiamo detto, si rivolge ai fatti principali della vita

dell'uomo in quanto essere vivente. L'evento della morte, dopo quello della nascita,

37

rappresenta dunque un secondo forte motivo di ispirazione. In alcuni casi vale quanto

osservato per la nascita, cioè la morte si configura come rituale, ovvero la si

riconosce in quanto evocata da macabre figure di becchini o si risolve in

carnevaleschi funerali. Altre volte si configura come punto di partenza, dopo una

tragica presa di coscienza, per la vita di chi sopravvive. Un ulteriore aspetto basilare

nella narrativa di Gallian, che tratterò in questo paragrafo, è il frequente riferimento

alla violenza, all'uso della forza, alla sopraffazione. Un confronto anche superficiale

tra il testo autobiografico Comando tappa e un racconto esuberante come

Processione, mostra come la violenza espressa in entrambi i casi sia, in verità, la

conseguenza di un forte senso di insofferenza e di insoddisfazione che permea i suoi

personaggi. Questi, trovatisi insieme in Processione, raggiungono uno sfogo

momentaneo ed effimero per la loro vitalità soltanto in una insensata crudeltà, la

stessa crudeltà inspiegabile che coglie il giovane Marcello squadrista, rievocato in

Comando tappa. La violenza risulta essere, dunque, nell'intricato immaginario di

Gallian un dato ineliminabile della natura umana, che nel fascismo ha assunto il

valore di risposta storica alle inquietudini dei giovani nel primo dopoguerra.

Ritorniamo al racconto La madre stanca, dove la morte di un neonato collega

tragicamente i due poli sin qui osservati dell'ispirazione gallianiana. Nella penultima

pagina viene scritto semplicemente che «un giorno, il figlio, al termine del nono

mese, morì e il villaggio era ancora sotto l'incubo di una festa trascurata». Il figlio,

nato al settimo mese all'insaputa del paese che lo attende, è debole e non sopravvive,

mentre nell'attesa la trepidazione per l'imminente festa si consuma. Nel villaggio si

comincia a intuire che qualcosa non va e una vecchia arriva con tono oracolare a

sentenziare:

Figlio che non si sente, figlio che non dà spasimo, figlio che non si vuole,nasce male […] indeciso, con lontane apparenze d'occhi e di bocca. Un abortovivente.

Poco dopo arrivano sulla scena i becchini, chiamati a portare via il piccolo cadavere:

tutto il villaggio è curioso ma pudico, scruta dalle finestre, sente «come un disagio o

38

una disillusione vergognosa». Tutta l'ansia per la festa che attendeva il nuovo nato, si

stempera e crolla. Il corpo del piccolo viene descritto con un disincanto e una

durezza che mettono di fronte l'attesa e la grandezza della nascita di fronte all'evento

tragico e irreparabile della morte: mette in contatto le due soglie che circoscrivono la

vita dell'uomo.

Dentro una piccola cassa di legno da imballaggio, il figlio; in una parete

interna era ancora l'etichetta di una Ditta di foraggio. I becchini salmodiando

trasportarono la cassa nel carro ed era così leggera che quasi pareva loro di

non portare un morto ma chissà che cosa, da lasciare o da dimenticare

facilmente.

[…] la bara era sperduta nella piazza grande di quel carro […].27

Quello che colpisce i becchini è la leggerezza della bara (bara improvvisata, ricavata

fortunosamente da una cassa di foraggio): quella leggerezza non è solo il sentimento

della vita che si riduce al semplice peso del corpo, di un corpo di due mesi, ma il

simbolo della reale essenza della morte, della sua capacità di cancellare in un attimo

la vita, le sue attese, le sue aspettative, qui simboleggiate dalla festa del villaggio. La

madre, Marianna, capisce che ciò che è accaduto è irreparabile soltanto quando la

morte assume la fisionomia dei becchini e perciò ogni traccia di quella piccola vita,

compreso il suo corpo, deve essere abbandonata, dimenticata. Disperata, costringe i

becchini a renderle la piccola cassa e, «mentre tutti fuggivano per lo spavento», la

apre per vegliare sul figlio, ma il corpo, dopo un giorno e una notte di veglia,

comincia a putrefarsi e la madre si convince ad abbandonarlo e a farlo seppellire.

Come ricordato nel paragrafo precedente, lo stesso attaccamento alle spoglie

terrene del figlio morto compare nel dramma La casa di Lazzaro, dove con gli stessi

accenni crudi alla «carne» è descritto il corpo steso di Lazzaro: anche qui la madre

non sostiene la vista dei becchini, li caccia e li maledice, continua a vegliare sul

figlio giungendo, in delirio, a immaginare di conservarne il corpo con unguenti e

bende per poterlo ancora vedere. Nello scambio di battute che riporto di seguito

27 Corsivi miei.

39

troviamo espresso tutto l'attaccamento fisico della madre al figlio, nonché della

donna che sembra realizzarsi solo nella maternità:

SCONOSCIUTO – Che t'importa della carne di tuo figlio?MADRE – M'importa, m'importa. L'ho fatta io da questo grembo... (urlando come prima) Quella carne ho fatto e non altro...28

Lo stesso avviene in La Madonna dei mercati29, dove il narratore protagonista dice

della madre il cui figlio è da poco morto suicida:

Mi parve che ella non avrebbe saputo liberarsi mai più di quel corpoammutolito ed estraneo; non avrebbe potuto né cacciarlo di casa, né farlomovere, né sarebbe riuscita a far parlare quella bocca inutile e pensosa.

Lazzaro, dopo essere risorto, vive una sorta di seconda nascita, con l'innocenza di un

bambino sfoga i suoi bisogni. Prova fame, sete, brama di donne, desiderio di giocare,

sudare, urlare, vive con l'urgenza di una vita ulteriore e senza regole: nonostante

abbia dimenticato di essere già morto sente un potente, istintivo richiamo. Dopo che

Lazzaro ha reso nota l'inconsistenza di una vita convenzionale e misurata, tutto il suo

villaggio si accinge ad avviarsi verso il divino, un divino artificiale che si identifica

in un mondo libero dalle regole, in una parata distruttiva e carnevalesca. Molti passi

dell'ultimo quadro di questo dramma, che è considerato il capolavoro del primo

Gallian, sono ripresi puntualmente da un racconto, Processione30, uscito poco prima

su «900», che ne costituisce in qualche misura un'anticipazione e nello stesso tempo

se ne distingue per una visione più cupa. Osserverò oltre, nel paragrafo dedicato al

tema della folla, le riprese puntuali tra questo racconto e il dramma. Per ora

concentriamo l'analisi sul momento finale del racconto, dove una grande folla in

processione giunge a sfogare la propria violenza martirizzando un «pover'uomo»:

una figura cristologica che viene crocifissa quasi per gioco. Mentre la città è in

corteo, tra il fragore delle campane e lo scoppio di mortaretti gli uomini cominciano

28 Marcello Gallian, La casa di Lazzaro. Quadro primo, in «900», n. 2, 1929, pp. 52-57.29 Idem, La Madonna dei mercati, in «900», n. 4, 1928, pp. 162-168. Poi in Quasi a metà della vita...,

cit., pp. 51-65. 30 Idem, Processione, in «900», n. 1, 1929, pp. 8-14. Poi in Quasi a metà della vita..., cit., pp. 85-96.

Le citazioni sono dalla prima redazione. Poiché l'edizione in volume presenta alcune interessanti varianti, ne do conto nel corso dell'analisi.

40

a sentire un indefinito e repentino richiamo: scoppiano risse e violenze, tra la folla

esausta per l'arsura si inizia ad invocare la morte, ad un tratto «tutti vogliono qualche

cosa ma non sanno, non riescono a capire»31. Un pover'uomo, Nazzareno32, che

cammina seminudo, viene afferrato e “travestito” da Cristo. In questo costume

spicca, come di consueto in questi racconti, il particolare pacchiano, visibilmente

falso: è un costume teatrale da poco prezzo, che non serve a nascondere la farsa ma

ad accentuarla:

Hanno afferrato un pover'uomo che si trascina nudo sotto una croce enorme,nudo dentro un paio di scarpe grosse e deforme, i fianchi protetti da unacamicia legata con le maniche: gli hanno appuntato sulla carne un giglio dicelluloide, sorretto da una spilla, come decorazione intorno alla testa unacorona di legno, falsa, con spine di cuoio, false;33

Anche gli uomini che decidono di afferrarlo per inscenare una crocifissione sono

coperti dai resti di un travestimento da angeli, marcati dai segni del falso:

vestiti erano da angeli ed ora non hanno indosso che la polverina d'oro delle ali e qualche brandello di tela e una frangia di penne di gallina.34

Il travestimento non nasconde più la finzione del rituale e svela lo sfogo insensato

della violenza che si annida nella folla, che tenta di mantenere ancora la propria

copertura di rappresentazione religiosa. Tutta la città si raduna per vedere cosa

succede, e individuato il capro espiatorio nella figura debole e deforme di Nazzareno,

si dà alla ricerca dei chiodi per issarlo sulla croce. Un nano si incarica di inchiodarlo

alla croce e nella foga quasi lo spoglia. La crocifissione profana si realizza nella sua

definitiva essenza terrena, violenta e sacrilega quando il povero issato sulla croce,

anziché il perdono di Cristo inizia a bestemmiare tra le risate degli astanti, mentre

Maddalena, la vergine che ha progressivamente assunto il ruolo di una Madonna

profana, invoca «peste e dannazione»35 per gli assassini, che si allontanano al sorgere

31 Corsivi miei.32 Il nome dell'uomo viene eliminato dall'edizione in volume (vedi sopra, nota 30), probabilmente per

sottolineare l'essenza archetipica della sua identità di capro espiatorio.33 Corsivi miei.34 Corsivi miei.35 Nella prima redazione questa battuta è di ambigua paternità, potrebbe essere pronunciata sia

dall'uomo, sia da Maddalena, anche se la seconda ipotesi è più coerente. Nell'edizione in volume,

41

del sole. Una morte inutile, assurda, nata dalla degenerazione dei sentimenti di

insoddisfazione del paese che trova sfogo unicamente nella violenza gratuita e

festosa. Al fondo restano solo i resti della festa e un ubriaco travolto dal passaggio

del corteo.

Veniamo ora ad uno dei testi più controversi: la cronaca di rievocazione

squadrista Comando tappa36. È un testo breve incluso in una rassegna intitolata

Novecentisti in giro per Roma37, in cui Gallian inserisce oltre a questo anche una

brano che descrive il traffico della capitale e la folla dei “ministeriali” intitolato

Sogno di Roma38. Comando tappa racconta una rappresaglia fascista compiuta dalla

squadra “La Volante”, di cui Gallian è caporione, e guidata dal barbiere Alfredo. Non

sappiamo in che misura la vicenda ricordata sia attendibile – dato anche il tono

fantasioso degli interventi degli altri «novecentisti» – ed è per questo che è

opportuno analizzarla qui, dal momento che i modi di questa rievocazione sono

spesso vicini ai modi ricorrenti nei racconti, nonostante il protagonista si identifichi

con il giovane Marcello.

Il brano rievoca l'incontro notturno di quattro ragazzi, sul cui conto il

protagonista non ricorda più nulla, e di Alfredo per recarsi nella casa di Tito, un

militante comunista definito «bastonatore della propria madre, sfruttatore di donne e

ladro senza pari». Una volta giunti nella casa, armati di rivoltella e scudiscio di nervo

di bue, trovano la porta spalancata e il protagonista prova un senso di paura per

l'intimità altrui violata e per le conseguenze degli spari che ci saranno. Su di un letto

trovano la vecchia madre di Tito che dorme, rimasta «con le vesti tirate per

distrazione fin quasi alla sommità delle gambe». A questa vista il protagonista

inorridisce, viene preso dai più vari pensieri: che la nudità della vecchia madre sia

civetteria, che sia stata svestita dal figlio o violentata da un «uomo qualunque». Una

volta arresosi all'idea che si sia trattato solo di una distrazione non riesce, tuttavia, a

in luogo dell'originario «grida a squarciagola», abbiamo «grida a squarciagola la donna», che chiarisce ogni dubbio sul soggetto.

36 Marcello Gallian, Comando tappa, in «900», n. 4, 1929, pp. 176-178. 37 Ivi, pp. 174-192. Con interventi di Massimo Bontempelli, Marcello Gallian, Corrado Alvaro, Paola

Masino, Giulio Santangelo, Edoardo Bizzarri, Gian Gaspare Napolitano. 38 Marcello Gallian, Sogno di Roma, ivi, pp. 175-176.

42

levarsi dalla mente l'idea che Tito batta la madre. Esce dalla casa alla ricerca di

quell'uomo e, trovatolo, lo frusta sul viso con foga, facendolo sanguinare tra gli

sguardi attoniti dei presenti. Ma questa violenza si traduce immediatamente in una

violenza antica, inspiegabile:

Così avrei staffilato tutta la carne degli uomini sino alla fine dei secoli. E non so perché.

Il brano è al crocevia tra una pagina di diario, un racconto e un articolo di

propaganda politica. Al suo interno si riscontrano inquietanti richiami

all'attaccamento morboso tra madre e figlio, alla gerontofilia, alla gratuità e

inconsapevolezza della violenza di cui abbiamo parlato, ma anche accenni di pesante

retorica polemica contro gli avversari politici e contro le ipocrisie dei vecchi

squadristi che rinnegano il loro passato: questo è il motivo per cui non ricorda il

nome dei partecipanti alla spedizione punitiva oltre il vecchio Alfredo.

Il racconto La Madonna dei mercati39 narra di ciò che accade dopo il suicidio

di un amico. Il narratore-protagonista telefona alla madre dell'amico e riceve in

risposta un «urlo rauco». Si reca, dunque, dalla madre che gli mostra la stanza del

figlio. Michele Stamo, questo il nome dell'amico, è «seduto sopra una poltrona,

attento a qualche cosa di indefinibile, distratto; si lasciava modellare il viso da un

rigo di sangue che gli colava dalla tempia». Anche in questo caso, si può notare come

lo sguardo di Gallian per il corpo del defunto sia morboso, totalmente mancante di

qualsiasi rispetto religioso dinnanzi alla morte e, anzi, capace di vedere il corpo

dell'uomo nella sua essenza materiale, come se la morte fosse un momento

privilegiato per questo tipo di osservazioni, ovvero principalmente un prodigio

estetico, come era stato per la morte “in maschera” di Nazzareno:

La posa di quell'uomo era coreografica: la messinscena della sua persona era di una naturalezza impressionante.

E ancora:

39 La Madonna dei mercati, cit.

43

Il cibo doveva essere ancora sano e intero nel ventre di Michele Stamo, come nel collo di uno struzzo.

In seguito a questa morte la madre ed il protagonista iniziano un viaggio attraverso la

città a cui si uniranno i più svariati personaggi, come vedremo più avanti, nel

paragrafo dedicato al tema della folla.

Concludiamo questa rassegna analizzando il brano intitolato Cronaca nera e

sottotitolato Gli scomparsi40, una sorta di fiaba macabra che inizia ancora una volta

con un suicidio. Il narratore e protagonista racconta un episodio di quando era «Re di

un lontano paese, che non ha nome»: una donna si uccide con un colpo di pistola

mentre egli sta passando in carrozza, ma nessuno in città sembra accorgersene,

quando solitamente «la morte consacra […] lancia pel mondo, per sempre, […]

persone e cose, che la vita ha tenuto celate gelosamente». Il corpo di questa donna

viene custodito gelosamente dal guardiano di una palazzina bianca, nella ghiacciaia,

coperto da un lenzuolo e facendogli scorrere sulla fronte acqua «di battesimo». La

parte centrale del breve racconto è occupata dal discorso che il guardiano della

palazzina tiene di fronte al Re, in cui esprime la propria passione per la vita dei

«misconosciuti». Tutto il monologo sviluppa il contrasto tra il regno del Re, alla cui

corte convengono i personaggi noti, amati od odiati dalla folla, mentre nel suo regno

sotterraneo, sono solo i corpi perfettamente conservati di quegli uomini misteriosi, la

cui morte è una scomparsa, dimenticati senza lasciare tracce né legami o figli. Il

vecchio guardiano convince, poi, il Re che è per amor suo che quella donna si è

suicidata. Compaiono prove di questo amore celato e la cronaca nera, curiosa e

invadente, inizia a ossessionare il Re, il quale giunge alla conclusione di far officiare

al guardiano della palazzina le proprie nozze con quella donna per dare al paese una

Regina.

Ancora una volta assistiamo alla volontà gelosa di conservare il corpo di chi

muore, in questo caso in una prospettiva di tardivo riscatto sociale. L'intento del

misterioso vecchio è di svelare il mistero dei diseredati, dei «condannati al silenzio e

alla morte» di coloro che stanno «nei sotterranei della vita» per contrapporli alla

40 Marcello Gallian, Cronaca nera. Gli scomparsi, in «900», n. 1, 1928, pp. 42-44.

44

gloria e alla fama di chi vive alla corte del Re. Al di là del tono fiabesco e

dell'ambientazione macabra e onirica, il messaggio del vecchio espresso nel

monologo costituisce un chiaro appello ideologico a restituire ai poveri, agli

oppressi, ai dimenticati una prospettiva di rivalsa. Proprio all'inizio si situa inoltre

una digressione in cui il narratore si intromette per spiegare quanto potente sia la

morte come mezzo per consacrare e far ricordare, e come però, il ricordo si leghi di

solito a piccole cose, a reliquie, ad oggetti materiali e non a lasciti spirituali, anche

per chi ha avuto popolarità e fama.

Cronaca nera è, più che un racconto, una sorta di prosa morale, che offre

poco oltre la trovata paradossale dal gusto orrorifico della palazzina, anche se lo

sviluppo della premessa riesce in qualche misura interessante nella conclusione. La

soluzione che pare offrire lo scioglimento è ambigua: il riscatto della solitudine della

donna avviene solo dopo la morte, e soprattutto solo grazie all'intervento del Re,

rimanendo dunque fondamentalmente un appello senza risposta. Inoltre il

personaggio del guardiano, che si fa portavoce dei dimenticati, vive con un morboso

compiacimento il proprio ruolo di custode di corpi umani, cerca di dare in sposa la

donna al Re quasi fosse una figlia, una cosa propria, si impossessa di una causa persa

con una passione folle. In fondo, non riesce a fare molto di più che mettere insieme

una collezione di reliquie.

2.2.3 Il tema del viaggio come vagabondaggio

Gallian ha espresso in un articolo programmatico comparso su «2000» la

necessità di mutare l'arte dello scrittore fascista in arte del viaggiatore41. Fuori dal

senso figurato di queste affermazioni non si può negare che la rappresentazione di

viaggi, spesso senza meta e senza scopo, eserciti su di lui un grande fascino. Il

motivo del viaggio rispecchia l'anelito alla libertà che caratterizza il pensiero

anarchico del giovane autore. L'idea di vagare per scoprire il mondo, che nell'uomo

Gallian significa esportare l'ideologia fascista, nel Gallian scrittore nasce come

conseguenza dello smarrimento causato dalla mancanza di reali convinzioni

41 Marcello Gallian, Viaggiare, in «2000», n. 4, 1929, p. 3.

45

ideologiche che spinge all'azione – o meglio che trascina vorticosamente nell'azione

– la maggior parte dei suoi personaggi. Il desiderio di spostamento convive e si

scontra spesso con spinte opposte, intese alla sedentarietà, al vivere sereno e quieto

come nei due racconti qui analizzati. Il primo descrive la vita vagabonda di un

orfano: un modo di vivere senza meta, uno spostamento per mancanza di radici,

anche se mosso contemporaneamente da un ambiguo bisogno di stabilità, che causa

contrasti e sofferenze. Il secondo narra una fuga d'amore che, però, svela i

contrapposti desideri dei due amanti.

Il primo racconto s'intitola Vita del barone povero42. Si tratta di una breve

biografia per episodi del barone Grisou, orfano, che passa da un lavoro all'altro, da

un luogo all'altro studiando tutti i mezzi per sopravvivere alla fame, alla povertà e al

freddo. Il racconto, come spesso accade, inizia con una didascalia: «l'infanzia di

Grisou fu questa», cui segue una similitudine che col consueto gusto iperbolico

mostra apertamente i desideri terreni e fisici del ragazzino: invece di «respirare il

fresco sulle alture», respira «il vento aromatico che emana dal ventre dei capretti

ripieni». La sua infanzia la vive in strada e ci si sente a suo agio: «tutta la città era

per lui una casa, di cui conosceva le stanze corredate di mezzi busti celebri e i

corridoi smaltati di quadri di finestre». Vivere per soddisfare i bisogna primari fa sì

che la sua visione sia profondamente materialistica: i limiti della sua immaginazione

coincidono con i confini del suo sguardo. Inizia a frequentare a tredici anni i teatri e i

caffè notturni per rubare oggetti misteriosi dalle tasche dei cappotti. Anche quando

inizia a farsi sentire la solitudine di orfano, Grisou deve inventarsi molti mestieri

fantasiosi per vivere, elencati da Gallian in un caleidoscopio immaginoso di sfrenato

analogismo, con qualche ascendente surreale:

Grisou si era dato con passione ai mestieri inutili dell'infanzia: amava glioperai notturni che assalivano le costruzioni sotto la luna, armati di martelli edi scale.[…] si tuffava nella pioggia spessa per nuotare e per cogliere a volo i mozzoniaccesi che gli operai lanciavano nello spazio: egli poi fumava quei mozzoni

42 Marcello Gallian, Vita del barone povero, in «900», n. 5, 1927, pp. 76-86. Pubblicato in entrambe le edizione del quinto numero di «900», francese e italiana. L'edizione francese, Vie du baron pauvre, è tradotta da Emmanuele Audisio.

46

con la stessa intensità con cui i martiri sperduti nelle catacombe curanol'ultimo pezzo di candela. Possedeva colline di sigarette spente, che nonriusciva a vendere; ma in compenso affittava ai poveri della notte i ballatoi dilegno delle case in costruzione e ne ricavava qualche soldo […].Si diede allora al commercio dei capelli: tremila operai portavano a Grisou icapelli delle spose delle figliuole e degli amici […].[…] si dette alla raccolta degli abiti vecchi di 3000 operai […].

Dopo questa lunga parentesi, Grisou inizia ad andare in cerca di avventure, ma

ottiene solo di soffrire fame e freddo. Vorrebbe vivere d'elemosina ma non ci riesce,

poiché le offerte gli vengono sempre sottratte da qualcun altro più veloce o furbo di

lui: «quell'altro trovava sempre gli involti e i pezzi di pane dimenticati». Una sera

arriva in un'osteria «avvinazzata», dove il vino cola dalle pareti e tutti ridono ed

urlano, mentre «una bambina, sotto un tavolo, rideva, per proprio conto, immersa in

un triste lago d'orina». Grisou viene accolto calorosamente da uno stuolo di ubriachi

pronti a festeggiarlo e osannarlo: tutti gli offrono cibo e vino, tutti giocano per lui,

qualcuno lo riconosce e qualcun'altro, sentendolo chiamare “barone”, finge di

riconoscerlo. Solo un uomo, seduto dietro una bottiglia di acqua fresca e limpida,

non festeggia e attraversa con il gelido sguardo la sala. Finita la festa Grisou, dopo

aver suonato un sassofono e aver danzato con la bambina, afferra gli ubriachi

addormentati e li scaraventa in mezzo alla piazza. Tornato all'osteria l'uomo

sconosciuto si alza e gli si presenta e pronuncia queste enigmatiche parole, che lo

rivelano misterioso alter-ego del protagonista:

Io vivo di rifiuti dimenticati: so che vi ho tolto il pane. Ma ho una ferita alcuore: quando gli occhi non servono più per piangere, e non c'è una viad'uscita per il dolore, il cuore si spacca ed io faccio sangue dal naso.

Lo sconosciuto inizia quindi a sanguinare, Grisou sorride, lo chiude dentro l'osteria e

scappa «a casaccio».

Passano cinque anni ed ancora Grisou ripensa a quella notte all'osteria. Riesce

a trovare una stanza per dormire, ma d'improvviso viene assalito da tutti i desideri di

tenerezza, di serenità che egli ha soppresso nella sua gioventù errabonda: il suo cuore

comincia a battere e cercare passioni nuove, senza che lui se ne renda pienamente

conto:

47

Appena sul letto, tutto si spegneva all'intorno e la fantasia volava via e il cuore continuava a battere, come una sveglia nella camera accanto […].Nel corso del sonno il cervello continuava a fantasticare, il cuore a completare e a dare inizio a nuove passioni.

Riesce ancora ad arrabattarsi gestendo «alberghi di quart'ordine», dove si consumano

fugaci rapporti sessuali, ed un giorno si innamora, non corrisposto.

D'un tratto, dopo un altro inspiegato salto temporale di parecchi anni, Grisou

riconosce di possedere «un cuoricino da neonato in un petto da gigante» e che «quel

regno lacrimoso che era in lui esigeva il suo sfogo». Capisce finalmente le parole

dello sconosciuto nell'osteria, il suo cuore non essendosi espresso liberamente è

ormai in putrefazione, come gli diagnosticano i suoi dottori. La sua vita si consuma,

dunque, tristemente, tra gli sguardi curiosi dei vicini e quello nauseato di una donna

che ora ha accanto. Ha vissuto sempre in perpetuo movimento, alla ricerca di mezzi

stravaganti per vivere e quando ha iniziato a sognare tenerezze nuove ha ignorato una

sorta di richiamo interno alla serenità: questo cuore ignorato lo ha trascinato nella

sofferenza, nell'insoddisfazione e infine alla morte.

È interessante come questa conclusione contrasti palesemente col mito

dell'arditismo, della fierezza e forza del vero fascista, come una vita di avventura e di

movimento si risolva in un definitivo fallimento. Il tono favoloso e grottesco degli

episodi sembra invitarci ad una lettura in chiave allegorica di questa parabola

biografica, poiché difficilmente si riesce a sciogliere il senso e, soprattutto il nesso

tra i vari episodi, al di fuori di questo contrasto tra vita sbandata e bisogno di

stabilità. Una lettura di questo tipo è confortata anche dalla costruzione del racconto

per episodi contrastanti.

Questo racconto suggerisce un'analogia interessante, utile per inquadrare un

episodio della fortuna di Gallian. La scena dell'osteria43 contiene, infatti, alcune

strette somiglianze con la analoga descrizione che Elio Vittorini dà dell'osteria di

Colombo, nei capitoli XXXVIII e XXXIX di Conversazione in Sicilia44. Innanzitutto,

43 Marcello Gallian, Vita del barone..., cit., pp. 79-83.44 Le citazioni che seguono sono dalla prima redazione dei capitoli in questione, comparsa in

48

in entrambe le scene l'ambiente è letteralmente dominato dal vino: «dalle pareti

gocciolava il vino», «due rigagnoli giallastri che rasentavano il muro e si perdevano

nelle cantine» (Gallian); «dal suolo, dai muri, dall'oscura volta sgorgava odore di

vino» (Vittorini). Compare, poi, una chiara contrapposizione tra il vino e l'acqua: «un

uomo che sedeva lontano, dietro una grossa bottiglia di acqua limpida e ghiaccia […]

l'unico uomo che si tenesse a galla con l'aiuto della bottiglia bianca» (Gallian);

«occorre acqua viva», «[Porfirio] negava che il vino fosse acqua viva» (Vittorini). In

tutti e due gli episodi la narrazione è interrotta dalla voce di ubriachi che cantano.

Infine vi sono alcune riprese lessicali, come il termine «braciere», che compare in

entrambi, o la frase seguente: «doveva apparire alto due metri» (Gallian); «apparve

alto due metri» (Vittorini).

Certo, lo sfrenato barocchismo di Gallian non è paragonabile alla precisa ed

affascinante costruzione allegorica del capolavoro vittoriniano, ciononostante mi

pare che gli elementi da me elencati identifichino nel racconto di Gallian un

precedente, quantomeno presente alla memoria di Vittorini, nel momento della

stesura di quei capitoli.

Ricordo, per inquadrare possibili legami tra i due autori che confortino la mia

ipotesi, che Vittorini cura nel '30 insieme a Falqui l'antologia Scrittori nuovi45, in cui

figura anche Gallian, che quindi Vittorini sicuramente conosce, e che lo scrittore

romano è apprezzato, come vedremo, da Bilenchi e Pratolini, amici e compagni di

battaglie politiche e letterarie del Vittorini degli anni di «Il Bargello». Inoltre nel

1937 – mentre Vittorini ha appena cominciato a scrivere Conversazione in Sicilia –

Vallecchi, proprio a Firenze, pubblica una raccolta di racconti di Gallian.

Il fatto che Vittorini, in questo primo importante romanzo antifascista,

richiami uno scrittore come Gallian apre interessanti prospettive critiche, non solo

sui precedenti del romanzo dello scrittore siciliano, ma anche per lo studio della

continuità della nostra letteratura tra fascismo e antifascismo. Un confronto

approfondito tra queste due personalità, l'una animata da un inquieto spirito

antiborghese, l'altra approdata al comunismo attraverso la militanza in quello che è

stato definito fascismo “di sinistra”, è senz'altro auspicabile e potrebbe offrire ottimi

«Letteratura», n. 1, 1939, pp. 51-54.45 Scrittori nuovi, a cura di Enrico Falqui, Elio Vittorini, Lanciano, Carabba, 1930.

49

spunti critici46.

Il secondo racconto «novecentista» dove si narra di un viaggio è il già citato

Gli abitatori della piazza grande. Anche qui, come abbiamo sottolineato sopra,

compare l'opposizione tra vita libera ed errabonda, quella desiderata dall'uomo, e

stabilità, qui rappresentata dalla figura femminile. Il viaggio è, in realtà, una

brevissima fuga d'amore, che si conclude molto prima del previsto. Tutto inizia

quando il protagonista arriva a casa della fidanzata, Maria, per portarla a vivere con

sé. I preparativi del viaggio sono descritti ampiamente: dalla casa scendono «una

cassa verde, poi un'altra, una valigia barocca, intarsiata in argento, tre fagotti di carta

velina, un baule vuoto: un materasso infine, avvoltolato dentro una coperta». L'uomo

comincia a preoccuparsi per ciò che significa vivere tutta la vita insieme, riempire

una vita intera insieme a questa donna che si è portata appresso la casa intera. Una

volta partiti si ricordano di non avere una meta e di avere solo pochi soldi con sé. Ad

un tratto, il vetturino abbandona la carrozza e lascia andare il cavallo dove preferisce.

Esso comincia ad inseguire i fanali che vede davanti a sé e giunge in prossimità di

una piazza, dopodiché dà uno strappo alle stanghe della berlina e scappa da solo.

L'uomo è indeciso, mentre la donna è determinatissima ad adattare la piazza, dove

ora si trovano, a casa, usando tutto quel poco che possiedono. Dopo essersi

addormentato «senza ordine», l'uomo si sveglia ed incontra Maria intenta a

spolverare «al modo delle massaie». Il viaggio si è dunque repentinamente concluso,

trascinato dagli eventi, da un misterioso destino che obbedisce al desiderio di Maria

di avere una casa, una famiglia.

Viaggio ed arrivo, movimento e immobilità sono i due poli in contrasto che

qui si incarnano l'uno in un uomo senza nome e l'altro in una donna il cui nome

evoca immagini di maternità e familiarità, che la portano ad essere più un archetipo

che non un reale personaggio. Questo è forse il vizio e il fascino di quasi tutti questi

racconti: il tramutarsi immediato dei personaggi in tipi, in personalità che non si

46 Segnalo in proposito l'articolo di Roberto Gigliucci, Giovinezza, squadrismo e formazione fallimentare (Piazzesi, Gallian, Vittorini), in «Critica leteraria», n. 4, 2006, pp. 657-690, che avvicina i due autori, indagando da un punto di vista ideologico e letterario il legame tra giovinezza, fascismo e violenza.

50

risolvono in sé stesse e nella propria complessità, ma che dipanano il complesso di

sentimenti umani contrapposti attraverso episodi favolosi che, all'opposto di quanto il

primo contatto con le iperboliche ed ipertrofiche sequenze descrittive farebbe

pensare, consentono di semplificare il discorso: non appena si approfondisce l'analisi

oltre il livello strettamente linguistico e retorico finiamo per imbatterci in sostanze

primordiali, elementari segni di umanità, sentimenti e passioni semplicissimi. Questo

ci consente di leggere, come abbiamo fatto finora, ogni racconto come sviluppo

narrativo di una contrapposizione binaria elementare, ora interna ai personaggi, come

in Vita del barone povero, ora esteriore e tra agenti diversi, come in Gli abitatori

della piazza grande.

2.2.4 Il tema della città e della folla

Ci accingiamo ora ad osservare due macro-tematiche, la folla e la città, che si

compenetrano attraversando trasversalmente quasi tutti i testi analizzati. Il gusto

dell'accumulazione, che porta naturalmente Gallian a fare di ogni particolare una

selva di dettagli sempre più grandi, lo conduce ad interessarsi degli agglomerati

urbani e delle grandi concentrazioni di persone. Questo è certo l'esempio più calzante

di come un fattore stilistico in senso lato si traduce in una scelta tematica, una scelta

estetica trascina con sé e travalica le premesse narrative. In diversi casi osserveremo

come l'accumulo di personaggi e comparse offra la possibilità di vedute d'insieme

crudamente caricaturali, vigorosamente polemiche nei confronti dei vizi dell'uomo.

Particolarmente significativi i casi in cui viene mostrata una folla via via crescente di

comparse, macchiette, figuranti che ingrossano e spettacolarizzano episodi i quali

impediscono di sviluppare vere e proprie trame, convertendo i racconti in grottesche

o carnevalesche scene d'ambiente. Sempre in questa ottica si possono, poi, analizzare

le pagine relative alle cerimonie paesane, con i loro vasti campionari umani e quelle

non propriamente narrative, sospese tra satira di costume e bozzetto, con cui viene

tracciata la vita di Roma.

Comincio proprio da queste ultime pagine e, precisamente, dal brano di

51

«Cronache» Rione San Lorenzo47, in cui sono descritti l'omonimo quartiere romano e

i suoi abitanti. Appena varcato l'arco antico ricoperto di ghirlande d'edera

incontriamo i dominatori del rione: «le avanguardie dell'esercito di ragazzi», belli

della bellezza data loro dalla «salute piena» e dalla «carne», che «costruiscono navi

ed aeroplani di legno e di tela, portano il casco degli aviatori o il berretto azzurro

dell'aeronautica militare»: sono, cioè, ben addestrati al verbo fascista. Sono divisi in

due partiti, Marrucini e Pretoriani, che lottano tra di loro per la supremazia, usando la

forza e l'astuzia. In inverno, a scuola, anche se sembrano sottostare alle regole,

vivono con «certo senso rivoluzionario di romper le righe, di far schiera e

combattere», tanto da mettere paura ai propri stessi genitori, ponendoci, ancora una

volta, di fronte al consueto contrasto tra generazioni. Repentinamente la descrizione

si rivolge alle madri di questi ragazzi, «massaie larghe di spalle», vigorose e vitali,

«combattive» e «gelose». Le donne del rione San Lorenzo urlano, ridono e piangono

fragorosamente, depredano i mercati per sfamare «le tribù dei figli», vivono per la

famiglia e tanto amano i cibi forti e il vino, che persino nel deserto «trasportano la

casa intorno alle vesti, il santuario e la caserma». Dagli abitanti lo sguardo si sposta,

poi, ai venditori ambulanti: il primo quadretto è quello grottesco di un organetto a

manovella, «tirato da una giovane vecchia al comando di un uomo barbuto», che

ormai sono legati indissolubilmente a questo ridicolo strumento, che per loro è

divenuto «carro, casa, tenda, mobile». Dal paesaggio malinconico evocato dalla

musica si passa attraverso un gioco di associazioni di idee al paesaggio mediterraneo

creato dai venditori di cocomeri. «Cocomeri gradassi, colorati a salve, messi su a

piramide come le palle di cannoni», che sono la consolazione degli operai che

ammirano «quelle enormi teste recise che ridono dai denti neri». Dopo il passaggio

dei venditori di cocomeri la piazza sembra un campo di battaglia, «bombardata» di

polpa rossa e scaglie verdi.

Quello che ci viene mostrato è un quadro festoso, vitale, solare, è la vita di un

quartiere di ragazzi, massaie e operai, che vivono lottando allegramente in un angolo

di Roma che assume connotati mitici da paesino di campagna, libero, primitivo, non

soggetto a logiche sociali diverse da quelle della famiglia, del lavoro, del cibo. I

47 Marcello Gallian, Rione San Lorenzo, in «900», n. 3, 1928, pp. 136-138.

52

suonatori di organetto lo attraversano senza farne parte, sono una macchietta, una

bizzarria malinconica e passeggera. È lo stesso paese straripante di vita che troviamo

in La madre stanca, intento a festeggiamenti sfrenati, balli e bevute, in una sorta di

rituale pagano e propiziatorio in onore del nascituro figlio di Marianna, oppure in

Processione e nella conclusione vitalistico-metafisica di La casa di Lazzaro48, dove

la folla paesana sfoga i propri istinti violenti e sviluppa una forma primordiale di

socialità.

Questo quadro è completamente all'opposto di quello metropolitano che

Gallian offre in Sogno di Roma49. In questo articolo polemico viene proposta

l'immagine di una Roma che soffoca sotto il peso del proprio traffico, rendendosi

inaccessibile ai pedoni. La polemica di Gallian si appunta contro i numerosi

impiegati ministeriali, contro il loro comportamento borghesemente attaccato allo

stipendio, all'orario fisso, alle abitudini casalinghe e omologanti. In particolare, le

donne che affollano tram e autobus sono pesantemente criticate per il loro modo di

vestire all'americana. Gallian sfoga il suo sconforto immaginando una Roma nuova,

«imperiale», con piazze enormi che le consentano finalmente di respirare, in cui

scompaiano le automobili e ritornino le vetture a cavalli.

Questi brani non narrativi sono utili al nostro studio, poiché aiutano a mettere

in luce un modo di pensare decisamente arretrato, viziato dalla pesante incapacità di

accettare la modernità, la quale, per Gallian, assume il significato di borghesia e

capitalismo. Questi fattori lo avvicinerebbero al contemporaneo movimento di

“Strapaese”, organo ideologico di un fascismo rurale, mettendo in mostra il

cortocircuito di un «novecentismo» peculiare. Non mancano in questi brani, dove la

retorica si placa, tratti tipici di «900», come le immagini stravaganti e l'abbondanza

di metafore, ma dal punto di vista ideale sono lontani tanto da “Stracittà”, appellativo

polemico dato da Malaparte al movimento «novecentista», quanto da “Strapaese”:

anche laddove si esalta la vitalità dei quartieri popolari e dei villaggi, manca una

rappresentazione realmente positiva, ed anzi, questa vitalità, come al solito, si

configura come combattimento per la vita, ma anche come contrasto. La sua idea di

48 Marcello Gallian, La casa di Lazzaro. Quadro quarto, in «900», n. 4, 1929, pp. 171-172. 49 Marcello Gallian, Sogno di Roma, cit.

53

vita libera e violenta si risolve in una forma di nichilismo. Non esiste, dunque, una

realtà pacifica, poiché dove sembra esserci pace, per Gallian c'è solo abitudine la

quale è, a suo avviso, un imperdonabile vizio. È in una sorta di stato di natura, senza

convenzioni, che questa ideologia trova uno sfogo, ma sempre senza risposte. Il

nichilismo di Gallian non ha radici filosofiche, è una reazione irrazionale che nasce

dall'insofferenza per le convenzioni. Il testimone migliore di questo modo di pensare

è sempre il suo Lazzaro, il quale può insegnare al mondo che le regole non valgono

solo improvvisando un racconto dell'Aldilà senza premi né punizioni, pur non

ricordando ciò che ha visto dopo la morte, solo sentendo dentro di sé un richiamo

istintivo ad una libertà che è anarchia.

Ancora di città come specchio del falso possiamo parlare riguardo a Gli

abitatori della piazza grande, dove troviamo l'interessante quadro del quartiere di

Maria. Si tratta di un quartiere di nobili decaduti, vecchi e matrone che vivono in

case ammassate e colorate come baracconi da fiera. Tutto il quartiere assume

l'aspetto di un circo, è cosparso dai segni di una finzione triste: lungo le fondamenta i

palazzi sono coperti da «zinali fermati con chiodi», dietro i quali sembra che dei

burattinai nascosti muovano le sagome degli inquilini alle finestre; gli oggetti che

cadono sulla strada dai balconi hanno l'aspetto di oggetti di scena di una farsa

teatrale. I rari passanti di notturni sono avvolti da un'aura misteriosa, antica e insieme

assurda: una vecchia malandata venduta a un robivecchi, due donne vestite di nero

seguite perennemente da un carro funebre. Pian piano la magia e la finzione che

sembrano regnare sulla città crescono: rimane il sapore malinconico della partenza

dei due amanti, ma l'ambiente è sospeso tra fantasia e allucinazione: compaiono

folletti che alzano i tetti e gnomi che arrotolano le cartacce e i rifiuti per farne enormi

palle da far esplodere nuovamente. Ancora, all'arrivo dei protagonisti in una piazza,

le statue di animali di pietra divengono «una triste fiera leggendaria», i fili elettrici

con le lampadine spente sono «grandi collane barocche». Quest'aura magica perdura

finché i protagonisti non giungono ad adibire la piazza ad abitazione, quando si perde

l'aura fantastico-magica e rimane solo il senso sofferto e paradossale della loro

condizione.

54

Il teatro ed il circo, come abbiamo visto in questo esempio, suggestionano in

modo fortissimo Gallian. Egli trova, in questi ambienti, materiale utile all'espressione

del suo spirito antiborghese: il teatro è finzione, come la vita della maggior parte del

mondo; il circo è spettacolo luminoso e malinconico, specie se chi si trova a fare la

parte del pagliaccio o del burattino non se ne rende conto, come i due anziani

genitori di La regina dei pargoli della città. Questa idea del falso, del contraffatto,

guida, per esempio, la descrizione dei numerosi partecipanti alla cerimonia di

Battesimo in famiglia. In questo breve racconto, tutti cercano di mostrarsi migliori

grazie all'abito della festa:

figli vestiti alla marinara o nelle più strane fogge importate da contradelontane: ragazzi vestiti da cow boys, da spagnoli, da toreri, da mandarini, daturchi con ciabatte di tela e suole di cuoio duro. Gli uomini vestono gli abitimigliori e portano sulle pance angosciose catene d'oro pesanti come gomeneabbandonate […]. Le donne in abito bianco e merletti grezzi, reggono grosse borse di cuoio chesembrano sporte, gonfie di ogni cosa trovata a portata di mano […].

Dopo un ricco inventario del contenuto di queste borse, vediamo che tutti portano

con sé grandi mazzi di fiori. Alcuni di questi fiori sono emblematicamente «in

agonia», «odorano di concime o di cadavere e le mani dei portatori sono imbrattate

dello sterco di quei fiori». Insomma l'eleganza dell'occasione festosa si rivela il

momento migliore per colpire con le armi della deformazione e dell'ingrandimento

del particolare, con la consueta attenzione morbosa all'osceno e all'immondo, la

ridicola messinscena della borghesia in parata. Una borghesia che non è sinonimo di

ricchezza, ma di meschinità, grettezza e vizio. Gallian, nel descrivere gli sguardi

golosi dei presenti, di fronte a un banchetto che diventa una sorta di cerimonia di

comunione pagana, giunge fino a mostrarne la scoperta attitudine al furto:

A guardare i visi attenti, devoti e trasognati, c'è da pensare che il pane e ilvino e le frutta e i dolci si tramutino e in carne e in sangue […]. La golositàspingerebbe quella gente a delitti terribili, a propositi inimmaginabili; unagolosità furtiva che si estende […]; il desiderio di rubare è in tutti.

Una cerimonia paesana è anche l'argomento di Processione, racconto che

55

sintetizza in maniera esemplare le diverse ispirazioni del Gallian «novecentista». È

sottotitolato «(pezzo di romanzo)», ed effettivamente un semplice confronto lo

conferma come un “pezzo”, non di un romanzo, bensì del dramma La casa di

Lazzaro. Sembra essere – e calchi puntuali lo confermano – la descrizione della

«festa» il cui passaggio è descritto nel quarto e ultimo quadro del dramma, come

vedremo in seguito. Nel racconto si descrive una processione a cui partecipa tutto il

paese, meticolosamente censito dai suoi abitanti più comuni ai personaggi più

stravaganti. Ognuno ha, all'interno della rappresentazione il suo ruolo, ed ovviamente

il suo vistoso travestimento. Come al solito, questo costume non inganna, ma mostra

la propria essenza artificiosa, spingendo il sacro progressivamente a sprofondare nel

profano, la cerimonia religiosa nello spettacolo circense. Così «l'Angelo del

Giudizio» è il figlio del portiere, le «verginelle appena nate» portano «corone d'oro

falso» e «fiori di carta colorata» come «comparse in un'opera musicale». La

processione continua da tre giorni e, a seguire il baldacchino della Madonna e la

gigantesca orchestra, c'è tutto il borgo, comprese le case, le osterie, i negozi, sradicati

dalle fondamenta e trasportati su grandi carri. Da queste brevi note vediamo

chiaramente come il consueto gusto iperbolico di Gallian trovi qui ampissimo spazio.

Sembra che ad essere in parata sia tutto il suo immaginario, la più varia umanità: uno

storpio, un cieco accanto al gruppo dei crociferi, ai quali «il tronco entra quasi nei

petti e nei ventri, s'è fatto come umano»; «un San Giuseppe» dalla barba grigia

accanto al gruppo dei sacristi in camice. In questo «inferno» di corpi umani, dove «la

marea» travolge chi si ferma per adorare la Madonna, si distinguono due figure

femminili: comare Sora e la vergine Maddalena. Quest'ultima fa innamorare di sé

tutti gli uomini che le passano accanto, non solo i crociferi, ma persino il sacrista

Matteo, che prega rivolto verso di lei chiamandola «Rosa mistica! Vergine santa!».

Maddalena addirittura rivendica per sé, «vergine e immacolata», l'aureola della

Madonna, aureola che in questo caso non è certo simbolo di santità, ma ancora una

volta è parte di un travestimento, un oggetto di bellezza, un vezzo da «inchiodare

nella carne, dietro il collo». Le due donne riescono, poi, a raggiungere, nella

confusione, il marito di Sora, padre di dieci figli, ennesima figura maschile

ossessionata dalla paternità.

56

In questa caotica parata scoppia improvviso il desiderio di rivoluzione che,

spiega il narratore in una digressione:

nasce dalle parole che generano le urla, dai pugni che generano le battaglie,dall'arsura che fa nascere un solleone in prima notte e la sete, una seteinappagabile che proviene dalle urla, dal sapore dei vestiti e della carta, dallacenere dei mortaretti dispersa nelle gole, dal continuo stropiccio dei corpi l'uno contro l'altro, dai fantocci portati in processione, da personaggi veri di una mitologia antica[...].

La rivoluzione è una sorta di richiamo spontaneo, si sente ma non si riesce a

spiegare. Questo istinto violento e repentino si impossessa di tutti e genera la ferocia

che abbiamo descritto sopra: una vera crocifissione, “spettacolarizzata” dal

travestimento di un falso Cristo che non redime dai peccati, non è un capro

espiatorio, ma la vittima di un desiderio macabro che sfocia in una sorta di numero

da circo. Conclusa questa grottesca e sadica parata, questo rito che tiene del

paganesimo e del cristianesimo paesano, la folla si disperde.

Abbiamo ragione di ritenere, come segnalato sopra, che questo brano descriva

quella che al termine di La casa di Lazzaro, viene indicata come «festa». Il terzo

quadro50 si conclude con il suicidio di mastro Giovanni, il falegname, che non

sopporta l'idea che il Paradiso e l'Inferno non esistano. All'inizio del quarto quadro

viene descritta la città dopo la partenza di una processione che dura, come nel

racconto, da tre giorni: gli abitanti sono partiti per la libertà, per costruirsi un

Paradiso senza regole e viverlo in terra. In città sono rimasti solo Lazzaro e un bazar,

che vende gli stessi oggetti che ritroviamo nelle grida dei venditori ambulanti di

Processione, nonché i medesimi strumenti che nel racconto sono suonati dalla grande

orchestra. Se questa ipotesi fosse confermata, allora il racconto appena visto

acquisterebbe maggiore coerenza. Infatti, laddove la violenza era istinto immotivato,

frenetico e sadico, ora potremmo, trovando una spiegazione nel fatto che la parola di

Lazzaro ha cancellato il Bene e il Male, motivarla come conseguenza della libertà

dalle leggi e dalle convenzioni. Le due cose non sono in realtà così distanti, se

pensiamo che Lazzaro ha inventato tutto, non ricordando esattamente quello che

aveva visto nell'Aldilà, e perciò le sue parole liberano istinti che non sono nuovi, ma

50 Marcello Gallian, La casa di Lazzaro. Quadro terzo, in «900», n. 4, 1929, pp. 166-169.

57

che già erano presenti negli abitanti del suo villaggio in quanto uomini. Nell'ottica

ideologica di Gallian, una parola divina o un istinto interiore e potente – il che è

quasi lo stesso – una volta liberato il mondo da ogni imposizione, legge o contratto,

rende possibile agli uomini di esprimersi liberamente, ma l'espressione libera, per lo

scrittore romano, è sempre violenza, contrasto, lotta e sopraffazione.

L'ultimo racconto che qui prendiamo in esame è La Madonna dei mercati.

Una volta usciti di casa, dopo il suicidio di Michele Stamo, la madre e il narratore

iniziano una passeggiata attraverso le vie della città. La madre, infatti, non trovando

giustificazioni al gesto del figlio, credendolo, anzi, un errore, non trova consolazione

ed esce di casa, con l'intenzione di fare compere. A poco a poco, a questa passeggiata

senza un vero scopo si aggiungono numerosi passanti, fino a formare una «piccola

folla». Incontrano, poco dopo, un «crocchio» di persone che cantano e numerosi

passanti che stanno in ascolto, quasi di nascosto, con «pudore vile». Entrano, poi, in

un negozio di nastri, dove la madre acquista alcune cose pagando al mellifluo

commesso «merce e sorrisi», «toccando il denaro con un piacere sensuale». Il

commesso decide di seguirli in un negozio di fiori, dove la madre acquista fiori finti

di ogni foggia e materiale, prima di restare incantata alla vista di alcuni fiori vivi. I

fiori finti sono oggetti che ricorrono spesso nell'immaginario di Gallian, come una

sorta di mostruoso tentativo di contraffazione della natura, sempre descritto in modo

minuzioso e paradossale. Il fiorista impedisce alla donna l'acquisto di questi fiori, i

soli fiori vivi del suo negozio, e questo rifiuto acquista il valore di un simbolico

richiamo alla morte. I tre escono e vengono seguiti da un carretto, «tirato da un servo

in livrea». Il gruppo si accresce ulteriormente: il giovane commesso convince un

gruppo di «ragazzi, balie e fanciulle» a seguire questa processione improvvisata fin

dentro una piazza, dove non sono altri che loro, il carretto, il gruppo di persone che

cantano, una vecchia e un venditore di angurie e meloni. La madre invita tutti a

vestirsi a lutto, offre al narratore e al commesso una rossa fetta di anguria,

invogliando tutti a partecipare a questa sorta di comunione: l'anguria appare

«sanguinosa» come carne. L'aspetto della madre, agli occhi dei presenti, è ora quello

di una «Madonna senza Bambino, lugubre e splendente». D'un tratto, la processione

58

si muove seguendo la donna e incontra un plotone di soldati a cavallo e di fanti, tristi

e solitari. Tutti si fermano meravigliati a seguirne il malinconico passaggio fino a che

non dimenticano il motivo per cui erano partiti. Il narratore, la madre e il commesso

concludono il loro viaggio sedendosi in un caffè sconosciuto, lasciando fuori la folla

che avevano radunato. Il caffè è affollato e devono separarsi, aggregarsi ognuno ad

un tavolo diverso, seguendo i propri pensieri fino a dimenticarsi a vicenda e ad

addormentarsi.

«Il suo eroe – scrive Massimo Bontempelli riguardo a Gallian – parte solo

per l'avventura e quando arriva è diventato una folla»51: difficilmente troveremmo

parole più calzanti per cominciare a descrivere questo racconto. Il narratore segue

con occhi meravigliati questa madre che non riesce a spiegare il suicidio del figlio, la

studia, ne osserva i gesti e i modi. Lei, intanto, parte alla ricerca di vaghe

consolazioni materiali, ma finisce per vedere nella vita dei fiori la stessa vita

conclusa del figlio. Nel suo dolore riesce, però, a fare di sé stessa una figura di santa:

ancora una volta, come in Processione, si forma un gruppo, una folla che si ritrova a

compiere, quasi naturalmente, una sorta di rito pagano. Altrettanto inspiegabilmente

di come si è radunato strada facendo, questo gruppo si dissolve. A segnare la fine del

racconto c'è il fumo delle sigarette che oscura il caffè, dove l'oblio, almeno

momentaneo, di sé stessi pare l'unica soluzione.

Questo racconto assume particolare rilievo all'interno di questo corpo di testi,

poiché qui non compare come logica dominante il contrasto: a guidare la narrazione

è la patetica «gioia di comprare» che la madre si impone per superare il dolore, ma la

finzione borghese di questa copertura non è oggetto di polemica, viene descritta,

anzi, in maniera commossa e nello stesso tempo affascinata. Quello che domina è un

senso cupo di malinconia, dove la costruzione di un gruppo umano non conduce alla

soluzione violenta a cui siamo abituati, bensì ad un nichilismo diverso, rassegnato.

Le tristi figure che i tre incontrano all'interno del caffè sono l'immagine più eloquente

di questa rassegnazione grottesca:

Cinque persone: padre, madre e tre donne, camuffate da vecchie, cherassomigliavano stranamente al padre e alla madre, per un vizio di abitudine e

51 Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 1938, p. 522.

59

di contatto. Pezzi di gelato erano sparsi ancora sul tavolo, ognuno dei quali portava segni di bocca e di labbra, come la neve ai margini delle strade orme dei piedi.Essi non si sapevano difendere da quel gelo colorato e dolciastro, con le loro mani e coi loro visi rigati, così come i bambini poveri, laceri e scalzi, nonsanno difendersi dal freddo dell'inverno. Le labbra del padre erano spaccatecome d'uso e qualche goccia di sangue cadeva sul mantecato di limone checedeva ad un lieve foro rosso; altre gocce di quel piacere invernale colavanodalle bocche smunte sulle mani delle donne, e quelle mani le sostenevanodure e incartapecorite, con rassegnazione e con pietà.52

2.3 Analisi formale

Le strategie formali attraverso le quali Gallian costruisce e rappresenta

l'immaginario che abbiamo fin qui osservato sono state accennate solo brevemente.

Nei successivi paragrafi approfondisco l'analisi degli aspetti stilistici e formali, allo

scopo di mettere in rilievo la loro continuità rispetto agli aspetti tematici di questi

testi sperimentali. La mia analisi si concentra sui rapporti che intercorrono tra le

scelte lessicali, le costruzioni sintattiche e le impalcature narrative, al fine di

mostrare come l'uso di procedimenti iterativi ed elencativi, che costituiscono la cifra

più peculiare di Gallian, si esprima su più livelli, progredendo da porzioni ridotte di

testo alla costruzione dell'intero racconto. Cerco, laddove possibile, di mostrare il

legame tra contenuto e forma.

2.3.1 Notazioni lessicali e sintattiche: enumerazione e paratassi

Le osservazioni contenute in questo paragrafo spaziano dagli aspetti lessicali

e dall'uso figurato del linguaggio di Gallian a quelli propriamente sintattici.

Un'analisi di questo tipo permette di osservare da vicino le cause di quella sensazione

di spaesamento e confusione che inevitabilmente si prova al primo contatto con

questi racconti. Anche se sarebbe opportuno uno studio più approfondito sulle scelte

strettamente lessicali e sui campi semantici privilegiati in questi testi, in questa tesi

seguirò l'indicazione di Carlo D'Alessio secondo cui, «più che il riferimento a singole

52 Marcello Gallian, La Madonna dei mercati, cit.

60

opzioni lessicali o aggettivali», è opportuno, «per un discorso che voglia insistere di

più sulla consapevolezza delle strategie stilistiche, porre attenzione all'uso che

Gallian fa di alcune figurae verborum»53.

Comincio osservando una caratteristica peculiare di Gallian, nella quale molti

critici hanno individuato gran parte della sua originalità: l'uso dell'aggettivazione. Gli

aggettivi vengono utilizzati spesso in modo non del tutto proprio, secondo intenzioni

ora metaforiche ora iperboliche; specialmente quando utilizzati in coppia o in terna

(talvolta in rari casi sono addirittura quattro) danno la sensazione di voler

circoscrivere un'immagine o una sensazione inafferrabile, con esiti, non sempre

felici, di carattere non solo iperbolico ma anche ossimorico o sinestetico. Osserviamo

alcuni esempi: «un'antica donna»; «Casa […] dipinta al modo chiassoso e triste dei

baracconi da fiera»; «una triste fiera leggendaria»54; «[le] balie […] passeggiavano

[…] decadute, secche e polverose»; «le guardiane […], le più sode e nerborate»; «i

due vecchi genitori erano bassi, indecisi e trasparenti»55; «Grisou doveva apparire

alto due metri, pallido e mingherlino»56; «Sono vecchio, sano, alto e rubicondo»57;

«una giovane vecchia»58; «bocca inutile e pensosa»; «bocciuoli d'argento,

inverosimili, assurdi, inventati»59; «soggezione misteriosa, forte e intima»60.

Questo elenco di esempi serve a dare un'idea delle ampie possibilità

espressive di questo uso. L'aggettivo singolo si trova spesso a istituire un rapporto

ossimorico o paradossale col proprio sostantivo, mentre gli aggettivi raggruppati a

due, tre o quattro non sempre sono in accordo logico e consequenziale tra di loro:

quando non siamo in presenza di un ossimoro, almeno uno, di norma, si trova ad

avere un significato metaforico che carica di senso deformante anche gli altri

aggettivi o, nei casi peggiori, ha una funzione gratuitamente altisonante. Più rari, ma

non infrequenti, i casi di serie di sinonimi che sembrano come ruotare attorno

53 Carlo D'Alessio, Marcello Gallian: un espressionista in nero, in «Critica letteraria», n. 2, 1994, pp. 377-390. Cit. da pp. 383-384.

54 Marcello Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit. In questo, come in tutti i casi successivi, i corsivi sono miei.

55 Idem, La regina dei pargoli della città, cit.56 Idem, Vita del barone povero, cit.57 Idem, Cronaca nera..., cit.58 Idem, Rione San Lorenzo, cit.59 Idem, La Madonna dei mercati, cit.60 Idem, La madre stanca, cit.

61

all'oggetto, creando quello che abbiamo già citato come «ritmo ternario

nell'aggettivazione» (Luxardo Franchi). È da notare come alla logica oppositiva, che

domina a livello tematico, si affianchino scelte lessicali che sfruttano ampiamente il

contrasto, sia pure solo verbale; alla violenza narrata, corrisponde altrettanta violenza

nei rapporti tra i vocaboli.

Abbiamo parlato dei casi di ossimoro. Vorrei evitare di realizzare un arido

elenco di metafore, similitudini e altre figure utilizzate da Gallian, per sintetizzare

invece il discorso in alcune linee generali. Possiamo dire che il linguaggio figurato

volge naturalmente in direzione dell'iperbole, figura che permea sostanzialmente

tutta la narrazione, improntata all'amplificazione del dato di realtà. Annoto

solamente, per la sua frequenza rispetto ad altri, quel particolare tipo di metafora in

cui si ha il metaforizzato come complemento di specificazione e il termine

metaforizzante come sostantivo. Questo tropo concorre efficacemente, assieme alle

armi dell'elenco e dell'enumerazione, a creare un effetto di realismo e nello stesso

tempo di esagerata amplificazione. Ad esempio:

golfi grigi delle finestre;porticati di fili d'erba;

armatura dei busti e degli spilloni61;reggimenti numerosi di abiti appesi;una sommossa di visi rossi e fumanti;piramidi e castelli di parole;un braciere di fiati pestilenti62;[la] piazza grande di quel carro63;

Si noti come in questi casi la metafora sia spesso presa dal campo semantico della

guerra e della rivolta, con l'intento di esprimere una realtà confusionaria ed

esuberante, anche quando ci si riferisce ad oggetti comuni come spille o vestiti, quasi

che la violenza si annidi in ogni aspetto del reale.

Una ulteriore annotazione meritano quei casi in cui l'uso iperbolico crea un

61 Marcello Gallian, La regina dei pargoli della città, cit.62 Idem, Vita del barone povero, cit.63 Idem, La madre stanca, cit.

62

singolare cortocircuito tra significato letterale e figurato. Dopo scene condotte con

gli stilemi amplificatori fin qui elencati, vengono mostrate, talvolta, le conseguenze

catastrofiche o imprevedibili di quanto narrato. Quando queste conseguenze non

sono messe in rilievo come ipotesi, ma come eventi reali, l'iperbole precedente si

rivela ambigua, al confine tra figura retorica e esperimento di realismo esasperato,

dal momento che gli effetti di quanto descritto con evidente eccesso vengono

mostrati come effettivamente realizzati. Ad esempio, in Gli abitatori della piazza

grande, dopo che Gallian ha enumerato tutti gli oggetti di inusitata mole che Maria

ha portato con sé, informa che «ella aveva strappato tutto a quella stanza,

defraudando i poveri, le suore e i robivecchi», confermando come reale l'espressione

utilizzata per esprimere il timore del protagonista, cioè che Maria «è una di quelle

donne […] che non possono vivere, se non hanno la casa appresso»64, la quale a

prima vista era parsa evidentemente paradossale. Questo uso si inscrive in un

particolare gusto di Gallian, il quale si volge sempre a guardare alle conseguenze

delle creazioni della propria esuberante fantasia come possibilità di sviluppo

narrativo, istintivamente scatena la guerra per poter rovistare nel campo di battaglia.

Inoltre, egli indaga le possibilità espressive date dal paradosso di intendere alla

lettera il linguaggio proverbiale o figurato. Come esempio di questo secondo caso si

può citare Vita del barone povero:

Secondo i proverbi, c'è sempre uno nella vita che mangia i rifiuti gettati da un altro.

Ma se anche avesse voluto Grisou non li avrebbe trovati, per laragione che se li mangiava quell'altro. E quell'altro trovava sempre gli involti e i pezzi di pane dimenticati, prima di Grisou65.

Riprendiamo ora il discorso cominciato sopra relativamente alle sequenze di

aggettivi. Possiamo allargare la prospettiva sottolineando che difficilmente, in questi

racconti, si trovano sostantivi privi di una qualunque specificazione, sia essa un

attributo, un'apposizione, un complemento di qualità o di specificazione, una

successione di proposizioni relative che lo identificano. Questo rientra nel

procedimento tipico di costruzione del periodo di Gallian: un procedimento per

64 Marcello Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit.65 Idem, Vita del barone povero, cit.

63

aggiunzione, dove ogni proposizione può allargarsi a diventare periodo, grazie all'uso

di una sintassi paratattica, condotta attraverso processi asindetici, caratterizzati da un

ampio e personalissimo uso della punteggiatura. Il tentativo di possesso che Gallian

attua verso la propria materia si realizza, spesso, con l'uso di frequenti e lunghissime

sequenze enumerative: da ogni pensiero scaturisce una sorta di delirio immaginativo

che si traduce in lunghi e paradossali elenchi. Ogni ambiente viene indagato

minuziosamente con un ampio inventario degli oggetti, dai più comuni ai più

improbabili, che troviamo al suo interno. Vediamo due esempi, il primo da Gli

abitatori della piazza grande, il secondo da Battesimo in famiglia:

Pensai che nella camera deserta erano rimasti uno scheletro d'armadio, unletto che mostrava i ferri, un cassettone con i cassetti spalancati, un comodino aperto con dentro alcuni tovaglioli di carta, sulle pareti grandi orme di quadrie di immagini, il soffitto devastato dei suoi grandi fioroni rosa […].

[…] grosse borse di cuoio […] gonfie di ogni cosa trovata a portata di mano;sveglie, specchi, spazzole, spighe profumate, ninnoli di bronzo di quelli chefigurano sui mobili di casa, cucchiai, fazzoletti grossi che servirebbero comefodere di cuscini, e uccelletti variopinti di quelli che girano per casa eimbrattano i tavolini e le madonne appese ai muri.

Di ogni particolare si analizza minuziosamente ogni dettaglio, in modo da farlo

crescere e fargli acquistare una fittizia parvenza di centralità, prima di superarlo col

particolare successivo, che tira con sé un'ulteriore serie di dettagli. Questo periodare

si costruisce, per così dire, a “vortici” successivi, vortici in cui, non di rado, la

narrazione si disperde. Analizziamo, poiché esemplare, il lungo periodo seguente,

tratto da Rione San Lorenzo:

Quando vanno a scuola d'inverno sembrano modesti e distratti alfianco del padre o della nonna, e quasi in borghese: portano la cartella o i libri legati come i soldati le tende e lo zaino: in fila, calpestano il fango che riluce,a testa bassa, le mani nelle saccocce, con certo senso rivoluzionario di romper le righe, di fare schiera e di combattere, che metterebbe timore al più baffutogenitore e alla più maestosa massaia del quartiere: quelle massaie larghe dispalle prolifiche per orgoglio e per amore di sé stesse, che arrivano daimercati cariche di sporte e di masserizie, infronzolate di erbe e di cipolle,predatrici di carne nuova che sanguina per le bocche armate di denti.

64

È un periodo lungo, reso poco complesso dalla paratassi, sintomatico di un modo

tipico della prosa gallianiana di passare da un argomento all'altro tramite salti logici e

ripetizioni. Le proposizioni che descrivono il comportamento e l'aspetto dei ragazzi

sono poste in successione e inquadrano ciascuna un dettaglio diverso, utilizzando i

due punti come legame sintattico. Una volta descritta la loro attitudine violenta, si

introduce con una relativa il contrasto con i genitori; l'ultimo complemento di

termine («alla più maestosa massaia») serve a fornire un nuovo soggetto per il

periodo successivo, coordinato per asindeto, il quale comincia ripetendo in

anadiplosi il termine «massaie». Grazie a questo salto logico, si fa seguire alla

descrizione dei ragazzi quella della vita di queste «massaie». Nei casi in cui questo

processo non disperde l'attenzione, si ottiene l'effetto di uno sguardo che si ferma via

via su immagini diverse. Laddove, invece, il legame dello sguardo si sgretola si ha

l'impressione che la materia sfugga al controllo del narratore, le continue addizioni

indeboliscono il già labile legame logico, come in questo esempio, ancora da Rione

San Lorenzo:

Pauroso pianoforte nella notte dei rioni che passa nei sogni deicarcerati alla Lungara sopra una nuvola barocca fra un cuore trafitto, unacolomba che reca una lettera nel becco e una canzone triste stampata sullavelina gialla fra i paesaggi delle spalle degli uomini dove son vergate parolecol sangue delle spille avvelenate d'inchiostro; così diverso dal paesaggioestivo e clamoroso delle cataste di cocomeri verdi e rossi sopra stuoie e sopratele nell'angolo della piazza Tiburtina […].

Il primo esempio mostra come in Gallian la punteggiatura sia un elemento

fondamentale nella costruzione frastica. In particolare, i due punti – scambiati

frequentemente e quasi senza distinzioni con il punto e virgola – sono l'espediente

privilegiato per affiancare una proposizione all'altra, focalizzando, come abbiamo

visto, l'attenzione su particolari diversi. La sua originalità sta nello sfruttare i due

punti per evitare l'uso delle congiunzioni e delle determinazioni temporali, tra

proposizioni dove il rapporto è logicamente consecutivo o causale, ma diviene

sintatticamente coordinativo. Il risultato, nei casi migliori, è una successione

brachilogica efficacissima. Ad esempio:

65

La ragazza lo guarda: egli arrossisce e sbianca: ha capito quel che gli spetta:si rincantuccia in un angolo della camera e attende che torni la donna e nontocca cibo.

Cinque proposizioni con valore differente (principale, consecutiva, causale, due

consecutive coordinate tra loro) sono affiancate paratatticamente creando un efficace

effetto di rappresentazione psicologica immediata: il rapporto logico è evidente, ma è

reso suggestivo dalla simultaneità.

Altro strumento chiave della costruzione sintattica di Gallian è l'anafora,

come efficacemente messo in luce da Carlo D'Alessio e, dopo di lui, da Barbara

Stagnitti. D'Alessio, in particolare, ha sottolineato come il suo uso frequente serva a

«dare solidità ad una sintassi altrimenti desultoria». Ecco due brani in cui espedienti

anaforici obbediscono allo scopo di un «rassodamento sintattico»66:

Allora Grisou afferrò un saxofonoAllora […] tutti gli uomini si alzaronoAllora Grisou fece una retata67;

C'è un grammofono appollaiato sopra un mobile che si sgola a cantare, c'èuna bambina che suona le scale sul pianoforte […]. C'è un tenore che canta isolfeggi […]68.

Nel primo caso, tre azioni differenti e slegate logicamente tra di loro, sono unite dalla

presenza del protagonista e dal suo punto di vista, trovando nell'anafora un legame

retorico che, oltre a rendere evidente questo sguardo in movimento, istituisce una

sorta di debole legame sintattico. Nel secondo caso, pur essendo legate logicamente,

le tre proposizioni trovano nell'anafora l'espressione dell'elemento unificante dello

sguardo, dando la sensazione che le tre figure si presentino una dopo l'altra in rapida

successione. Questo stratagemma testuale consente di mantenere il controllo su scene

ed episodi che pongono il fuoco progressivamente su particolari diversi, che si

susseguirebbero altrimenti senza soluzione di continuità, attenuando la sensazione di

dispersione che un tale confuso incedere della narrazione inevitabilmente provoca. In

66 Carlo D'Alessio, Marcello Gallian..., cit., p. 384.67 Marcello Gallian, Vita del barone povero, cit.68 Idem, Battesimo in famiglia, cit.

66

realtà più che una sensazione di spaesamento, quello che Gallian cerca

continuamente di provocare è una sensazione di assolutezza: vuole slegare la propria

narrazione dalla contingenza spaziale e temporale: luoghi, tempi e personaggi

devono assumere un rilievo mitico, e direi, in alcuni casi, addirittura biblico. Il suo

immaginario caotico e violento cerca sempre un modo fantastico di esprimersi. Uno

degli stilemi caratteristici usati a questo scopo è l'uso frequente di espressioni vaghe,

che indicano un disordine spaziale, temporale e modale. Locuzioni del tipo: «di qua e

di là», «a casaccio», «dopo un tempo indeterminato», «un giorno», «non so perché»,

«chissà poi perché», «di quando in quando», «chissà dove», «dopo parecchi anni»,

«un lontano paese, che non ha nome», ricorrono frequentissimamente nei racconti

qui analizzati e fanno parte di questo intento di idealizzazione e astrazione del

messaggio.

Le due strategie testuali esposte sopra, uso dei due punti paratattici e anafora,

possono essere visti anche come l'equivalente sintattico dell'enumerazione. Questo

passaggio dalla sintassi di frase alla sintassi del periodo, apre alla successiva analisi,

che svolgerò nel prossimo paragrafo, di quella che ho definito “paratassi diegetica”,

ovvero dell'accostamento di episodi e scene in successione, non motivati da

continuità logiche. Con questo si intende enucleare un principio compositivo della

prosa di Gallian, che definirei, appunto, enumerativo, che può agire ad ogni livello

del testo.

2.3.2 Costruzioni narrative: “paratassi diegetica” e discontinuità

I racconti «novecentisti» di Marcello Gallian, anche se simili, come abbiamo

visto, dal punto di vista tematico, lessicale e sintattico, hanno esiti decisamente

differenti tra di loro per quanto riguarda la coerenza interna, l'equilibrio costruttivo e

diegetico. Ho parlato di “paratassi diegetica” riferendomi ad una modalità di scrittura

sempre presente, in qualche misura, in questi testi, che si caratterizza come

costruzione a blocchi successivi di narrazione, interrotti da tirate descrittive, lunghi

elenchi, similitudini: qualcosa di analogo a quello che per la macrosintassi ho

67

definito periodare a “vortici” successivi. Non di rado gli stilemi iperbolici, l'uso di un

periodare esuberante e il predominare della descrizione sulla narrazione fanno sì che

questi racconti deflagrino in una giustapposizione di brani, il cui legame, fornito

dall'intreccio, si rivela malsicuro. Questo è un difetto sul quale ha sollevato, a

ragione, l'attenzione la maggior parte dei suoi critici per quanto riguarda i romanzi,

ma che, nei casi meno riusciti, si riscontra anche nella misura breve. Anche se

indubbiamente la piccola mole di questi testi garantisce una discreta coerenza,

accade che la narrazione si sfaldi in una serie di quadri staccati, che non trovano

giustificazione logica, se non nello sguardo unificante di un protagonista e nella loro

successione cronologica. Questo modo di costruire può, quindi, rivelarsi come difetto

strutturale e destabilizzante, come nei casi di La regina dei pargoli della città e Vita

del barone povero, due primi esperimenti di «realismo magico», sostanzialmente

falliti. In questi due racconti ogni sequenza sembra far riferimento solo a sé stessa, il

punto di vista assunto dal narratore esterno cambia spesso, specialmente nel primo. Il

pensiero dei personaggi, reso in genere col discorso indiretto libero, ma anche in

modo diretto o con brevi monologhi interiori, si sovrappone al giudizio del narratore,

non sempre in modo coerente. Gallian si fa, talvolta, sopraffare dal proprio gusto

descrittivo ed è costretto, per far progredire la narrazione, a ricorrere a notazioni

didascaliche che introducono la nuova scena. Ad esempio, in La regina dei pargoli

della città:

Un bel giorno i due vecchi fecero la figlia enormeAvvenne così

Un ripiegamento sulla frase breve e lapidaria è, addirittura, anche l'incipit di Vita del

barone povero, che sembra scritto per vincere l'horror vacui della pagina bianca:

L'infanzia di Grisou fu questa.

In realtà, come abbiamo osservato in sede di critica tematica, in entrambi i racconti è

presente un messaggio di fondo, una possibile lettura ideologica, ma questo modo di

costruire il racconto lo rende ambiguo (se non inerte), non sappiamo quanto

intenzionalmente da parte dell'autore.

68

Un esempio, al contrario, di racconto ben costruito è Gli abitatori della

piazza grande. A donare coerenza alla narrazione è senz'altro il ricorso al

protagonista come voce narrante. In questo modo i frequenti giudizi, le immagini

varie e ricche, il monologo interiore, non appaiono come in altri casi ingiustificati e

ridondanti, ma si giustificano in quanto nati dallo sguardo angosciato del

protagonista, i cui pensieri spaziano dall'immaginario al reale in modo affascinante.

La logica del contrasto tra uomo e donna che regge il racconto è espressa tutta dal

punto di vista dell'uomo, che dà degli avvenimenti e dei comportamenti di Maria una

propria interpretazione. Non dimentichiamo che l'idea di letteratura che Gallian ha, è

quella di uno strumento di comunicazione, di un veicolo per il proprio messaggio

rivoluzionario. È per questo che, sia dove la narrazione è condotta in prima persona,

sia dove lo è in terza persona, sono sempre presenti parole di commento, giudizi e

valutazioni. Tenuto conto di questo, non sarà difficile comprendere che laddove

narratore e protagonista si identificano e, perciò, i giudizi si giustificano in un ottica

che è tutta interna alla narrazione, la presenza ingombrante di una morale o di una

ideologia, sia pure confuse, non appesantiscono il risultato artistico. Dove, invece, la

narrazione è in terza persona, come nel racconto La madre stanca, il lettore è

infastidito dalle costanti parentesi che Gallian inserisce per esprimere i propri

pensieri sulla paternità a commento di questa inquietante «storia vera», come la

definisce. Lo stesso discorso vale, a maggior ragione, per i Due pezzi, Sogno di

Roma e Comando tappa, nei quali il taglio è giornalistico nell'uno e autobiografico

nell'altro: annullandosi la distanza tra l'uomo e il personaggio, la retorica e

l'egocentrismo moralistico ne fanno delle prove assolutamente trascurabili dal punto

di vista artistico. Simile a questi due testi, ma discontinuo, è, invece, il “bozzetto”

Rione San Lorenzo. Si compone di due parti separate da un bianco tipografico,

ciascuna composta da due descrizioni successive. I primi due quadri descrivono i

ragazzi e le madri del rione e non sono che ridondanti rappresentazioni di una sorta

di umanità idealizzata, secondo i canoni a cui Gallian ci ha abituato: violenza,

esuberanza, fecondità. La seconda parte è più interessante poiché mostra due figure

più caratteristiche e, certo, molto meno ideali, ovvero i suonatori di organetto e il

venditore di cocomeri.

69

Nonostante quanto appena detto, non si escludono casi di narrazione in terza

persona che sanno essere molto suggestivi, come Battesimo in famiglia e

Processione. Nel primo, Gallian riesce a calare la propria critica alla borghesia nella

deformazione, riuscendo a renderla implicita nel taglio che dà alla sua descrizione.

Anzi, nella sequenza finale, adotta coerentemente il punto di vista del marito e rende

così, efficacemente, l'atmosfera grottesca e asfissiante della cerimonia. Nel secondo,

il punto di vista esterno del narratore riesce a calarsi progressivamente all'interno

della folla, seguendo i vari momenti della processione, fino alla catastrofe finale. Il

narratore si identifica con lo spirito violento, che attraversa tutti spingendoli alla

rivolta. Con l'uso di un discorso indiretto libero e di un discorso diretto che si fanno

espressioni corali, Gallian giunge ad una coerente forma espressiva per la propria

idea di violenza connaturata all'uomo, che diviene la violenza insita nei propri furiosi

personaggi.

Prima di concludere questa analisi della tenuta strutturale di queste giovanili

prove di «novecentismo», riassumiamo quanto detto fin qui. Appurata l'originalità

del linguaggio e delle soluzioni espressive di Gallian, i difetti formali che causano un

effetto di spaesamento nel lettore di questi racconti sono essenzialmente due. Il

primo è la mancanza di coerenza e necessità consequenziale nello sviluppo

dell'intreccio; il secondo è l'insistenza delle intrusioni d'autore non giustificate da

motivi interni alla logica del racconto. Concludo, dunque, questo capitolo, rileggendo

due racconti la cui tenuta si sfalda a causa dell'eccesso, rispettivamente dell'uno e

dell'altro, dei difetti qui riassunti: La Madonna dei mercati e Cronaca nera.

La Madonna dei mercati evita il secondo dei due rischi che abbiamo

osservato: il punto di vista del narratore e protagonista è, infatti, unitario e coerente,

la narrazione in prima persona evita dispersive intrusioni. Al contrario, la costruzione

dell'intreccio è tutt'altro che consequenziale. Il racconto si basa sostanzialmente su

una successione di incontri con gruppi di persone via via crescenti, fino allo

scioglimento finale. Sembra che vi sia un intento allegorico nella processione che,

progressivamente, si raccoglie attorno alla figura materna, ma non si riesce a

svelarne il significato. La tensione si risolve in un evento simbolico, in un rituale, che

70

porta poi ad un rapido scioglimento. Il gruppo creatosi spontaneamente si disperde

così come era nato: l'impressione di allegoria resta irrisolta. È questo un caso

esemplare di come il meccanismo enumerativo agisca a tutti i livelli: dalle vere e

proprie enumerazioni nominali, alla sintassi paratattica, all'anafora che sostiene i

periodi, all'iterazione della scena dell'incontro che guida la costruzione dell'intreccio

di gran parte di questo testo.

Cronaca nera è, invece, una sorta di favola morale, divisa in sequenze di

taglio diversissimo l'una rispetto all'altra. L'incipit è indubbiamente fiabesco, ma

l'evento macabro del suicidio in piazza della donna introduce un aspetto inquietante.

La tensione, così creata, si stempera parzialmente a causa della serie di

considerazioni sulla morte posta subito dopo. Segue, poi, una lunga descrizione della

palazzina e del suo guardiano, che costituiscono due trovate molto interessanti, ma,

immediatamente dopo, il racconto vero e proprio si interrompe bruscamente, per far

spazio al monologo del guardiano, introdotto da una di quelle espressioni lapidarie e

didascaliche che abbiamo osservato: «Un giorno egli venne in mia presenza e mi

tenne questo strano discorso». Le sue parole occupano circa metà del testo, il quale,

poi, volge repentinamente, attraverso una scena granguignolesca, verso l'explicit,

nuovamente fiabesco. L'inquietante atmosfera mortuaria della palazzina perde ogni

reale tensione, a causa di un grande squilibrio di tono, di registro, nel rapporto tra

narrazione e descrizione, tra mimesi e diegesi. Soprattutto, a consumare le ampie

possibilità delle premesse narrative interviene la solita urgenza comunicativa: a

prendere il sopravvento è quella sorta di comizio, di rivendicazione sociale, che è il

monologo del vecchio guardiano: certo, interessante per il suo tono paradossale, ma

sproporzionato rispetto alla brevità del racconto.

71

72

Terzo Capitolo

La fortuna di Marcello Gallian nella storia della critica

3.1 Gli esordi: il gruppo «novecentista»

Come i suoi esordi letterari, così i primi apprezzamenti critici riguardo

all'opera di Marcello Gallian sono legati all'esperienza artistica sorta intorno a «900».

Già un primo segno di approvazione, da parte del “maestro” Massimo Bontempelli,

è, evidentemente, l'inclusione tra le fila dei «Novecentieri». Bontempelli è un lettore

precoce e attento di questo allora giovanissimo autore, e scrive nel 1928 una

lusinghiera introduzione al suo primo racconto lungo, Il dramma nella latteria,

comparso su «L'Interplanetario»1. Qui, Bontempelli esalta l'originalità di questa

fosforica scrittura, sottolineando come «la sua immaturità raggiunge gli effetti della

sapienza». Scrive ancora:

Lo svolgimento delle trame narrative vive come un vagabondaggio stupefatto: tutto ciò che gli occhi del vagabondo toccano, diviene una meraviglia dafiera; le cose si animano e palpitano, sùbito piene di sangue; le persones'irrigidiscono in oggetti. […] l'aggettivo ha la consegna e l'incarico dilanciare nel meraviglioso, qualche volta nel mostruoso, gli atti e le forme piùnormali. Lo stile è perpetuamente inquieto: si sente sospeso sopra un vortice,s'agita per non essere inghiottito. […] un volgere di strada o lo scoppio di unverbo inaspettato generano mutazioni e sviluppi che riempiono in un anno lavita di un decennio.

Questa lunga citazione evidenzia come i pregi e i difetti di questo stile fossero già

ben presenti a Bontempelli, che ne esalta come punti di forza soprattutto le scelte

lessicali. Contemporaneamente, però, lo definisce ancora uno stile immaturo e a

rischio di essere «inghiottito» nel vortice da lui stesso creato. Bontempelli, dopo aver

1 Marcello Gallian, Il dramma nella latteria, introduzione di Massimo Bontempelli, in «L'Interplanetario», n. 6, 1928, pp. 1-4.

73

arrichito di una breve giunta l'introduzione citata, riproponendola nel 1929, in

apertura del volumetto Nascita di un figlio ed altri scritti2, torna poco dopo a parlare

di Gallian. Il 16 novembre 1930 pubblica, infatti, su «L'Italia letteraria» una lettera

polemica3, diretta a Giovanni Battista Angioletti, in difesa del sodalizio formato da

«900», citando Gallian e Alvaro come scrittori «paesani», scatendando la risposta

polemica di Angioletti («paesano Gallian?»).

Il decennio si chiude molto positivamente. Nel 1929 Gallian pubblica i primi

due romanzi, La donna fatale e Vita di sconosciuto, e i tre racconti del citato Nascita

di un figlio ed altri scritti, tre volumi che gli valgono l'attenzione di alcuni critici,

sintetizzata dalla cauta posizione assunta da Camillo Pellizzi, il primo a scrivere, a

caldo, nel 1929, un panorama critico dei giovani autori di «900», che lo definisce

«uno dei più promettenti del gruppo», ma anche «uno dei meno formati»4.

Il primo vero successo negli anni d'esordio arriva con la rappresentazione di

La casa di Lazzaro, al Teatro degli Indipendenti, il 28 febbraio del 1929. Le cronache

lo salutano come un successo per il teatro di Anton Giulio Bragaglia, anche se molte

sono le accuse di blasfemia e antireligiosità che gli vengono mosse. Nel dibattito che

ne scaturisce interviene in difesa del dramma anche il filosofo Adriano Tilgher5. Il

maggiore apprezzamento viene, però, sempre dal gruppo «novecentista». Armando

Ghelardini, dalle colonne di «2000», parla di un Gallian che «ha affrontato, con

un'ardita vicenda scenica, l'arduo soggetto; e ha superato ogni difficoltà»,

raggiungendo un «successo pieno, caldo, spontaneo»6.

Ancora polemiche scatena Scoperta della terra, l'opera teatrale debuttante al

Teatro Manzoni di Milano il 27 giugno 1930, che il direttore di «Oggi e domani»,

Mario Carli, decide di pubblicare sulla sua rivista. Colpito dalla censura dopo la

pubblicazione del primo atto7, avvenuta il 30 giugno dello stesso anno, il settimanale

2 Marcello Gallian, Nascita di un figlio ed altri scritti, cit.3 Massimo Bontempelli, Giovanni Battista Angioletti, Il Novecentismo è vivo o è morto?, in «L'Italia

letteraria», 16 novembre 1930, pp. 3-4. 4 Camillo Pellizzi, Le lettere italiane del nostro secolo, Milano, 1929, p. 393.5 Sulla questione cfr. Paolo Buchignani, Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista

anarchico, Roma, Bonacci, 1984, pp. 20-21.6 Armando Ghelardini, Il successo de «La casa di Lazzaro» di Gallian al Teatro degli Indipendenti

di Roma, in «2000», nn. 2-3, 1929, p. 4. Ricordo, a proposito di Ghelardini, che il già citato Nascita di un figlio ed altri scritti, inaugura la collana «Sintesi» della casa editrice Atlas, da lui diretta.

7 Marcello Gallian, Scoperta della terra, in «Oggi e domani», 30 giugno 1930, pp. 5-6.

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deve rinunciare a pubblicare i due seguenti, ma si avvarrà, comunque, di altre

collaborazioni di Galllian. Ancora nel 1930, Gallian viene incluso nell'importante

antologia Scrittori nuovi8, curata da Enrico Falqui ed Elio Vittorini.

3.2 Il successo dei primi anni trenta

Siamo ancora nel 1930 quando Mario Carli, che pure l'anno successivo

esclude Gallian dalla sua Antologia degli scrittori fascisti, lo annovera «tra gli

scrittori d'avanguardia che al contenuto fascista delle loro concezioni, scaturito da

una mentalità nativamente intonata ai tempi, hanno applicato uno stile adeguato, vale

a dire moderno e italiano insieme, intenso, veloce, dinamico, geometrico,

scarnificatore, con violenta impronta passionale e polemica, e spiccate facoltà

artistiche»9. Con la pubblicazione dei primi romanzi l'attenzione della critica nei suoi

confronti cresce notevolmente. Arnaldo Bocelli è il primo a scriverne

approfonditamente, in una recensione del 193110. Il critico ne esalta la capacità di

giungere naturalmente a un'atmosfera «tra fiabesca e incantata», senza la mediazione

di un modello letterario «futurista o avanguardista», ma grazie a una «originaria

sensualità», che gli suggerisce «analogie improvvise […] comparazioni scattanti […]

girandole d'immagini e d'aggettivi». Il meglio di questa prosa, come Bocelli ribadirà

per i romanzi successivi, è nelle «scene d'insieme», «nei vasti affreschi animati “in

azione” dove uomini e cose sembrano d'una medesima essenza», mentre la mancanza

di una costruzione ben architettata è, a suo avviso, il difetto più grande.

Pugilatore di paese, vincitore al Premio Mediterraneo 1932, riceve ancora

una buona recensione da Arnaldo Bocelli11. Rinnovando quanto scritto l'anno prima,

cioè che grazie al suo «temperamento sensuale» Gallian realizza una prova di

«realismo magico» per una sorta di «necessità naturale», il critico saluta questa volta

il romanzo come un «esito assai felice», anche dal punto di vista costruttivo. Un

parere positivo è espresso anche da Enrico Falqui12, mentre una vera e propria

8 Scrittori nuovi, a cura di Enrico Falqui, Elio Vittorini, Lanciano, Carabba, 1930.9 Mario Carli, Censimento degli scrittori fascisti, in «Oggi e domani», 23 giugno 1930, p. 1. 10 Arnaldo Bocelli, Romanzi di Gallian, in «L'Italia letteraria», 29 novembre 1930, p. 8.11 Idem, Pugilatore di paese, in «Nuova Antologia», n. 6, 1932, pp. 421-423.12 Cfr. Pietro Luxardo Franchi, L'altra faccia degli anni trenta, Padova, CLEUP, 1991, p. 120.

75

stroncatura è, invece, l'articolo di Silvio Guarnieri, che lo recensisce dalle colonne di

«Solaria»13. Il romanzo, secondo Guarnieri, «appare ingiustificato non solo di fronte

ad un giudizio estetico, ma, ancor di più, assolutamente arbitrario nella sua

impostazione […]», manca di logica, di coerenza, è composto con «artificioso

barocchismo». Il critico cerca poi di identificare i modelli letterari di Gallian,

vedendo nel suo stile un'esasperazione di D'Annnunzio, del futurismo e di «900»,

senza un'identità o un'ideologia personali.

Il romanzo successivo, Una vecchia perduta del 1933, è un vero e proprio

fallimento, criticato sia dal solito Arnaldo Bocelli, sia da Guido Piovene. Il primo14

lamenta la falsità dell'allegoria «truculenta e muscolosa, di gusto strapaesano» su cui

il racconto si costruisce, che egli definisce «pseudo-dramma di quattro fantocci». Lo

stile, che egli aveva apprezzato si riduce a una «discorsività tutta esteriore […]

faticosamente ottenuta con i fuochi del Bengala degli aggettivi a capriccio». Guido

Piovene15 accusa Gallian di «intimità scarsa, scarsa maturazione e inadeguato

possesso della propria arte» e, con questa recensione, intende criticare tutto il

fenomeno del novecentismo che «ha cercato di giustificare questa mancanza di

intimità con dottrine capziose sull'arte come fantasia e magia, che sono poi scuse

d'un vizio». Conclude poi sottolineando, certo a maggior danno dei “minori”, che tra

i novecentisti «il Gallian si distingue per un maggiore ingegno».

Una vecchia perduta rappresenta il primo ingenuo tentativo di Gallian di

calare nei modi esuberanti della sua scrittura una tematica contemporanea e sociale.

Il romanzo, come è stato giustamente scritto, vuole essere un'allegoria della nuova

Italia fascista, che nasce dalla morte dell'Italia liberale, resa feconda dalla gioventù

squadrista. Dopo questo passo falso, Gallian raggiunge un buon risultato nel 1934,

con Comando di tappa. In questa raccolta di prose emergono decisi i motivi di

polemica antiborghese che domineranno anche nei romanzi successivi, nonché un

forte desiderio di riprendere l'azione squadrista, motivi ben evidenziato dalla

prefazione dell'autore. Luigi Chiarini, su «Quadrivio», nella recensione intitolata Il

13 Silvio Guarnieri, Pugilatore di paese, in «Solaria», n.12, 1932, pp. 53-54.14 Arnaldo Bocelli, Una vecchia perduta, in «Nuova Antologia», n.12, 1933, pp. 468-469.15 Guido Piovene, Una vecchia perduta, in «Pan», n. 1, 1934, pp. 304-305.

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romanzo dello squadrismo16, lo descrive come il romanzo di un «desiderio smisurato

di agire, come di una necessità che li liberasse [i fascisti della generazione di Gallian]

dal grigiore della vita quotidiana, dalla pesante e ferma aria borghese respirata nelle

rispettive “oneste” famiglie». Saranno state probabilmente proprio le pagine di

rievocazione squadrista, apprezzate anche da un fascista giovane e inquieto come

Romano Bilenchi, a valergli il secondo posto al Premio Viareggio del 1934. Rispetto

alle parole di Chiarini, l'ideologia di Gallian si spinge ancora più a fondo. Fernando

Capecchi ha visto giustamente come «i personaggi di Gallian […] fanno pensare a

un'umanità nuova, vergine, a un'umanità vichiana che esprima […] l'impeto di

rinnovamento e di progresso nascosto […] nelle profondità intatte dell'uomo»17. Ad

accoglierlo come «il libro più fedele al temperamento estroso, incostante

dell'autore»18 è ancora una volta Bocelli, proprio per la composizione varia di questo

volume. Il critico ne mostra gli immancabili squilibri interni, ma ne trasceglie alcuni

momenti di «creatività felice», in particolare in Incendio.

Sempre nel 1934 Gallian pubblica Tempo di pace. La prefazione porta la

firma di Giuseppe Ungaretti che presenta il libro come «esaltazione dello

Squadrista»19. Della qualità di scrittore di Gallian egli scrive, con qualche

ridondanza:

La prima sorpresa in uno scrittore di tanta facilità è la proprietà dei vocaboli,la puntualità delle frasi nel giro del discorso, la novità costante della fantasiae […] l'eleganza nel procedere d'una narrazione non solo di modo inconsueto,ma d'un modo che sembra avanzare, e di furia, moltiplicandosi i pericoli.

Il romanzo è recensito su «Pan» dall'amico Enrico Falqui20. In realtà, più che di una

recensione, si tratta di un accorato sfoggio delle proprie idee in merito alla scrittura

di Gallian, autore in cui «difetti e pregi […] si accavallano». Ribadisce spesso, in

16 Luigi Chiarini, Il romanzo dello squadrismo, in «Quadrivio», 23 giugno 1935, citato da Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., p. 90.

17 Fernando Capecchi, Comando di tappa, in «L'Italia letteraria», 11 agosto 1934, citato da Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit, p. 80.

18 Arnaldo Bocelli, Comando di tappa, in «Nuova Antologia», n. 10, 1934, pp. 475-477.19 Giuseppe Ungaretti, prefazione a Marcello Gallian, Tempo di pace, Roma, Edizioni di Circoli,

1934, pp. 8-12.20 Enrico Falqui, Tempo di pace, in «Pan», n. 3, 1935, pp. 460-463. Ora in Il Novecento letterario

italiano. Serie terza, Firenze, Vallecchi, 1969-71, pp. 278-283.

77

questo articolo, che Gallian è uno scrittore istintivo, che offre esiti altalenanti e pieni

di difetti, ma nonostante tutto pieno di grandi qualità. Per quanto riguarda lo stile

annota giustamente il «preponderare e gonfiarsi dei particolari fino a raggiungere

momentaneamente un'importanza capitale, forse nociva in rapporto a quella che

dovrebb'essere l'architettura e l'economia dell'opera ma, pezzo per pezzo, piena di

spicco». Sottolinea ancora: «scrive avventando colore su colore: non ha il tempo di

scegliere, ordinare, abbellire: gli occorrono due tre quattro aggettivi per accostarsi a

quella che è la sua visionaria realtà e sopraffarla». L'intento di Falqui, qui ancora

velato ma che emergerà in seguito, è quello di raccogliere e antologizzare quanto di

meglio lo scrittore romano ha prodotto, sfruttando le sue innate doti di fantasia, ma

eliminando le parti ridondanti e peggio riuscite. In conclusione di questo articolo lo

invita, infatti, a smettere di dedicarsi al romanzo, per abbracciare definitivamente la

misura breve, ma sa benissimo che a queste critiche Gallian è sordo.

La posizione di Ungaretti e Falqui va inquadrata nel dibattito critico che

occupa la nostra letteratura negli anni trenta, volto a stabilire una distinzione – e una

supremazia – tra scrittori “contenutisti” e “calligrafi”. Gallian, acceso fautore dei

primi, si trova nella situazione particolare espressa da Falqui: «la vocazione al

“barocco” se l'è sempre spassosamente ritrovata nel sangue»21. Egli stesso rivendica

per sé il ruolo di scrittore fascista, di rivelatore e cantore della nuova generazione, e

usa toni molto polemici nei confronti della «letteratura da tavolino», poiché la sua

aspirazione è quella di dare coerente espressione alla nuova ideologia rivoluzionaria.

Malgrado le proprie convinzioni, che lo portano naturalmente a ripudiare la «prosa

d'arte» in favore di un'arte concreta, egli si trova apprezzato principalmente dagli

illustri critici del fronte opposto, soprattutto Giuseppe Ravegnani e Emilio Cecchi, e,

invece, scarsamente considerato dai “contenutisti”, primo fra tutti il capofila Eurialo

De Michelis.

Come abbiamo scritto nel primo capitolo, i due romanzi pubblicati nel 1935,

Bassofondo e Il soldato postumo, segnano la fine di questo periodo di buon successo.

21 Enrico Falqui, Tempo di pace, cit.

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Mentre il primo viene censurato per l'argomento scabroso e non può essere letto,

prima della sua ripubblicazione epurata, il secondo riesce ad uscire, ma non

raggiunge buoni risultati. Si tratta di un romanzo malcostruito dove si esplicita

l'accusa al regime di aver abbandonato la generazione degli squadristi: i protagonisti

sono disperati e inquieti di fronte al dominio dell'odiata borghesia e al sostanziale

fallimento della rivoluzione. Non sarà un caso se un'interessante recensione positiva

viene da un giovane scrittore fascista, irrequieto e polemico, destinato a ben altri esiti

politici: Romano Bilenchi. Il suo articolo esce su «Il Popolo d'Italia»22 ed è

lucidissimo nel leggere dietro i «mille episodi che appaiono a prima vista

insignificanti, inutili e talvolta dannosi ad un logico svolgimento dell'azione» quel

«mondo reale su cui l'autore ha sovrapposto i suoi personaggi e le loro gesta». La

chiave di lettura che egli dà dimostra che egli ha capito quali sono le reali intenzioni

di Marcello Gallian, la portata politica della sua militanza letteraria:

[…] i libri di Gallian […] prima di essere arte sono documenti; documentiimpetuosi e disordinati, forti e umani perché tale è la materia che vi si èvoluta rappresentare. […] Un documento su di un periodo rivoluzionario noncreduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata,ma attesterà solo aspirazioni insoddisfatte o represse […] amore, odio eattesa. […] Bisogna insistere in questo: ricominciar da capo a indagarenell'opera dello scrittore che molte volte non è stato capito. Prima di ognialtra cosa apprezzarla come documento, altrimenti si rischierà di non capirel'arte.

Bilenchi conclude insistendo sulla necessità di capire le rivendicazioni della

generazione di Gallian per poter costruire, attraverso questi «documenti», legami con

le generazioni nuove, compresa la propria23.

3.3 Dalla metà degli anni trenta alla guerra

In fondo al quartiere è il titolo definitivo con cui esce, nel 1936, il censurato

Bassofondo. Questa pubblicazione desta un discreto interesse, ma la recensione in

assoluto più interessante è quella di Vasco Pratolini, allora giovane fascista “di

22 Romano Bilenchi, Il soldato postumo, in «Il Popolo d'Italia», 20 agosto 1935. 23 Bilenchi è nato nel 1909, sette anni dopo Gallian.

79

sinistra” e futuro intellettuale comunista, pubblicata su «Il Bargello»24. Qui Pratolini,

dopo aver deplorato la «smania di abbozzare e di buttar via» dell'autore, istituisce un

confronto tra il romanzo di Gallian e Le sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi,

romanzi per certi versi simili, specie per la rappresentazione dei personaggi

femminili. A differenza di Palazzeschi, scrive Pratolini, «Gallian si posa più sulla

pedana dell'avvenimento, sulle ossa dei personaggi nel raccontare, e di essi

personaggi porta alla luce i sentimenti traverso la materia invece che sottilizzare

questa dalle reazioni psichiche e spirituali, ma il fondamento – l'umanità, l'ironia, il

paradosso, l'istinto irrazionale e la riflessione borghese eccetera, eccetera – è intatto».

Anche Ruggero Jacobbi accenna, ma solo brevemente a In fondo al quartiere

nell'articolo Tutto Gallian25, pubblicato su «Quadrivio» nel 1937. Jacobbi, l'anno

precedente, pubblica, sulla stessa testata, anche una recensione a Racconti per la

gente26. Ricordo, infatti, che nel 1936 escono, dopo In fondo al quartiere, anche

Racconti per la gente e Tre generazioni; nel 1937, Quasi a metà della vita,

Dopoguerra, Il monumento personale e Racconti fascisti. Jacobbi ha il merito di

essere il più abile, in questo biennio di produzione torrenziale, a sapersi districare e a

cercare di mettere ordine in questa selva di pubblicazioni. Nell'articolo del 1936, egli

saluta la raccolta di racconti come «il meglio di questa originale, dinamica,

vivacissima figura di scrittore» anche se divisa tra «vivezza icastica» da una parte,

«trascuratezze e sciatterie» dall'altra. Il critico individua molto chiaramente tra queste

pagine quelle caratterizzate da «una narrativa meno estrosa della sua consueta, ma

più stringata e aderente ai fatti», mentre deve inevitabilmente concludere che «troppo

spesso la sua sensibilità e la sua fantasia si tramutano in cifra, che troppo spesso le

sue pagine sono scorrette e ineguali». Più positivo l'intervento del 1937, dove

sottolinea l'approccio fantastico che Gallian utilizza per mettere a nudo «l'essenza

cruda e violenta» della realtà, «il senso vivo del concreto». A proposito di Tre

generazioni apprezza in particolare la descrizione centrale del terremoto, mentre

descrive positivamente «il restringersi voluto dell'ambiente» gretto e borghese che

offre In fondo al quartiere. Le note più positive vengono dall'analisi di un'altra

24 Vasco Pratolini, Come esempio, in «Il Bargello», 28 febbraio 1937.25 Ruggero Jacobbi, Tutto Gallian, in «Quadrivio», 21 febbraio 1937, p. 8. 26 Idem, Racconti di Gallian, in «Quadrivio», 27 dicembre 1936, p. 8.

80

raccolta di racconti: Quasi a metà della vita, volume, secondo Jacobbi, vario,

coerente e adatto come nessun altro a mettere in luce, con pregi e difetti, «tutto

Gallian», compreso quello degli esordi novecentisti.

Nello stesso anno, Luigi Fallacara offre la propria lettura di Tre generazioni in

una recensione su «Il Frontespizio»27. Come già Falqui, anche Fallacara sottolinea lo

sperpero che Gallian fa del particolare, che lo scrittore «butta nella successione come

una cosa disusata, inutile, da cui lo sguardo e l'animo si sono già allontanati»: «la sua

aspirazione al caos è una tendenza che si risolve nell'elenco». Con una buona

intuizione, scrive ancora che la volontà di Gallian, scrittore che non può «pensare che

per cataclismi», è senza meta, si consuma con violenza e a vuoto senza giungere al

«nichilismo assoluto», ma anzi esaltandosi come «gioco della fantasia», «individuale

arbitraria visione del mondo» su un piano «essenzialmente e uniformemente

fantastico». È in virtù di questa dimensione fantastica che Fallacara istituisce un

paragone tra il romanzo di Gallian e Il rabdomante di Riccardo Bacchelli, a suo

avviso egualmente «gioco di fantasia», sia pure ironico e piacevole.

Dalle colonne di «Letteratura», anche Alfonso Gatto richiama Gallian, al

termine di una positiva recensione28 a Un filo di brezza di Gianna Manzini. La sua

posizione nei confronti dello scrittore è negativa, e il paragone con la scrittrice, per

certi versi simile per l'ampio uso di un linguaggio figurato e di «una circolare rapidità

di episodi e di momenti di vita suscitati brevi, accentuati», serve a dare maggior

risalto all'opera recensita. Lo squilibrio di Gallian è così espresso: «la crisi del

particolare nelle mani di un Gallian diventa ad esempio un'addizione di casi

immaginativi e di sudore polemico».

È del 1937 anche l'importante articolo di Emilio Cecchi, pubblicato su

«Omnibus» con lo pseudonimo di Il Tarlo29. Cecchi ribadisce una posizione già presa

da Falqui, cioè che Gallian sia uno scrittore che sperpera naturalmente le proprie doti

e non si cura dei propri difetti, e ciononostante riesce a produrre veri e propri pezzi di

bravura. Scrive Cecchi:

27 Luigi Fallacara, Gallian e Bacchelli, in «Il Frontespizio», n. 1, 1937, pp. 65-67. 28 Alfonso Gatto, Gianna Manzini, in «Letteratura», n. 2, 1937. 29 Il tarlo [Emilio Cecchi], Gallian, in «Omnibus», 19 giugno 1937.

81

Lo so anch'io che Marcello Gallian farà sempre di tutto per essertrattato così da cane. Quel suo non poter transitare che pestando i calli deglialtri. Quella sua aria (letterariamente parlando) di mendicante ricattatore.Ostentatamente egli offende tutte le leggi della buona convivenza. Caccia ipiedi nel piatto. La gente, i critici, fingono di sorridere dal visin tirato. Ma nelsorriso verdognolo si vedono spuntare i denti. […]. I suoi «romanzi» sarannoun po' romanzi a brandelli, o brandelli di romanzo […]. Ma quali brandelli!

Cecchi rivendica per lo scrittore romano la massima libertà, ma avverte che se non

dosa i propri difetti la sua vicenda finirà per essere «una delle più penose tragedie

della nostra letteratura».

Massimo Bontempelli pubblica, nel 1938, il già citato volume di saggi

L'avventura novecentista. In appendice a quest'opera scrive un profilo degli autori

«Novecentieri», cioè dei collaboratori assidui di «900», tra i quali, naturalmente,

figura anche il Nostro30. Bontempelli si limita, in realtà, a ripubblicare quasi identica

quella prefazione a Nascita di un figlio ed altri scritti che abbiamo citato,

interpolando il testo con alcune osservazioni inedite. Le sue opinioni in merito allo

scrittore non sono mutate «dopo tanti più libri che Marcello ha scritti», poiché «il suo

scrivere è quello sempre». Termina però con una nota eccezionalmente positiva che

riporto per intero:

Così senza tregua, traverso venti o trenta volumi s'è in dieci anniingrossata la folla; e il torrente di sangue allegro al margine della strada s'èfatto un gran fiume, e nel cielo di Gallian si son messi a rotare falchi pieni difame. Questa folla ricca di tragedie e di ossessioni, tutt'insieme fa, nel climadella nostra poesia d'oggi, la sola grande macchia di gioia.

In realtà, Bontempelli resta uno dei pochi ad apprezzarlo ancora. I frettolosi e

numerosi volumi degli ultimi anni trenta trovano pochi lettori e pochi critici pronti ad

accoglierli. La sua ritrosia di fronte al successo gli impedisce di correggere quei

difetti che da sempre gli vengono rimproverati. Inoltre, la sua ideologia anarchica,

violenta, sovversiva e rivoluzionaria, la sua vena ascetica e visionaria lo hanno reso

un personaggio scomodo, rendendo precaria la sua posizione di intellettuale. Il

regime lo considera poco meno che un pazzo, un agitatore pericoloso. Il solo a non

vedere il paradosso di continuare a rievocare i proclami del Mussolini della prima ora

30 Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 1938, pp. 518-524.

82

e della rivoluzione è lui, il «letterato squadrista». Irriducibile come artista, come

uomo, come intellettuale, continua a sperperare la propria scrittura in volumi sempre

meno curati, sempre più visionari. L'ultimo romanzo pubblicato in volume da Gallian

è Alba senza denaro, del 1943, anno in cui la guerra aggiunge un ulteriore motivo

affinché il libro non abbia alcuna risposta critica. La condanna definitiva da parte del

regime ha già preso la forma della stroncatura anni prima, con Primo diario,

romanzo del 1940. L'autore è Alfonso Silipo, dalle colonne della presitigiosa rivista

«Primato»31 diretta da Giuseppe Bottai. Le accuse mosse da Silipo sono di aver

tradito la promesse che sembravano destinarlo a grandi successi, dopo le prime

buone prove di «900» e del Teatro degli Indipendenti, e di aver ceduto ad un vizio di

«dilettantismo e improvvisazione».

Primo diario è recensito anche da Enrico Falqui sulla «Gazzetta del

Popolo»32. In questo articolo finalmente trova esplicita espressione il sogno di Falqui

su Gallian: realizzare «un volume antologico» che metta «le cose a posto». Falqui,

ormai definitivamente persuaso che lo si debba «prendere o lasciare»33, osserva

giustamente che «per Gallian la letteratura è un mezzo, non un fine» ed egli segue

nello scrivere un proprio istinto, una fede profonda. Ma anche se egli non bada

all'estetica, per Falqui, sempre di letteratura si tratta: pur rinunciando a ricorrere a

una prosa più studiata, Gallian «riesce pur sempre con mezzi propri» a esprimersi

«con diversa fortuna» nei propri «subitanei modi». Vedremo come negli anni

settanta, la posizione di Falqui sarà fatta propria anche da Ruggero Jacobbi, autore di

un primo fondamentale profilo completo dell'autore in cui si prospetta la possibilità

della scelta antologica.

3.4 Dal dopoguerra agli anni settanta: brevi rotture di un silenzio

Abbiamo visto come le ultime prove di Gallian, dopo il 1937, siano state

considerate generalmente fallimentari, laddove non sono state semplicemente colpite

31 Alfonso Silipo, Primo diario, in «Primato», 15 gennaio 1941, p. 15. 32 Enrico Falqui, Primo diario, in «Gazzetta del Popolo», 26 novembre 1940. Ora in Il Novecento

letterario italiano. Serie terza, Firenze, Vallecchi, 1969-71, pp. 283-286.33 Prendere o lasciare è anche l'emblematico titolo di un articolo di Enrico Falqui relativo al Gallian

di Bassofondo e Il soldato postumo, comparso in «Quadrivio», 7 giugno 1936, p. 5.

83

dal più totale silenzio. La fine della guerra e il crollo del fascismo decretano la quasi

definitiva cessazione di questa carriera letteraria. I motivi sono certo da riscontrare

principalmente nei limiti di una scrittura che l'autore non ha saputo migliorare per

sanare i propri difetti, e che, anzi, ha difeso con orgoglio e caparbietà. A rendere

ancora più assoluto l'oblio concorre il mutato clima politico dell'Italia postbellica.

Gallian, pur non assumendo posizioni nostalgiche, non rinnega mai il suo passato di

fervente fascista, a differenza di altri che, sollevando più di qualche dubbio sulle loro

reali motivazioni, hanno obliterato un passato che ha garantito loro di raggiungere

una buona posizione sociale. Per usare queste parole di Gallian del 1959: «hanno

paura della mia ombra e forse un po' anche del loro passato»34. Le poche voci che si

sono levate per recuperare la memoria dello scrittore romano lo hanno fatto, prima

ancora della sua morte, avvenuta nel 1968, rievocandolo come ricordo di una

stagione passata, ignorando completamente la sua produzione contemporanea,

almeno quella minima parte che riesce a essere pubblicata su rivista, limitandosi, nel

migliore dei casi, a denunciare le sue misere condizioni di vita35.

Il primo, in ordine cronologico, a menzionare nuovamente Gallian dopo la

fine della guerra è, sorprendentemente, Luigi Russo36, che intervenendo su

«Belfagor» nella polemica tra politica e cultura in corso su «Il Politecnico»,

rimprovera a Falqui e Vittorini l'inclusione di Marcello Gallian e Telesio Interlandi

nella loro antologia degli Scrittori nuovi. Falqui risponde su «La Fiera Letteraria»

difendendo le proprie scelte di allora, in particolare:

In quanto al Gallian e al concetto artistico in cui teniamo alcune pagine dellasua produzione letteraria, non abbiamo nulla da modificare a quanto già dettoe ripetuto altre volte. Semmai lamentiamo che orrende condizioni di vita […]lo allontanino sempre di più dalla pratica dello scrivere e lo isteriliscano.37

Enrico Falqui, di cui abbiamo già avuto modo di esporre la posizione critica

34 Intervistato da Alfredo Orecchio, Un fascista alla fame, in «Paese sera», 23-24 gennaio 1960. 35 Di questo tenore sono l'articolo di Elio Talarico, Uno scrittore muore di fame, in «Momento sera»,

25 novembre 1947 e quello di Alfredo Orecchio, Un fascista alla fame, cit.36 Luigi Russo, Politica e cultura, in «Belfagor», n. 6, 1947, pp. 746-750. 37 Riportato in Enrico Falqui, La letteratura del ventennio nero, Roma, Edizioni della Bussola, 1948,

p. 340.

84

“antologista”, è il critico più deciso a difendere l'opera di Gallian, menzionandolo

spesso nelle proprie opere degli anni cinquanta. Nel 1950 ripubblica in volume le sue

recensioni a Tempo di pace e Primo diario e poi, nuovamente nel 1961, nella terza

serie dei suoi studi dedicati al Novecento letterario. È del 1953, invece, la sua

relazione radiofonica, poi pubblicata, intitolata Il Futurismo; il Novecentismo, in cui

ricorda Gallian con queste parole:

Gallian: chi era costui?: vi domanderanno i più, e se voi non sapretegià che si tratta di uno dei nostri scrittori più vocati e più originali, estroso evisionario all'estremo, ben poco troverete da apprenderne nelle varie storie.38

In realtà Falqui non terrà mai fede alla promessa di realizzare l'antologia di racconti

che desidera, e questa è probabilmente la causa del deterioramento dei rapporti tra i

due a partire dagli anni cinquanta.

Tolti gli interventi di Falqui, negli anni cinquanta e sessanta la critica su

Gallian tace. A rompere il silenzio sono solo alcune sparute menzioni. Luigi Russo lo

include nell'edizione del 1951 del suo I Narratori39; Emilio Cecchi, nel 1954, lo cita

brevemente nel capitolo intitolato Scrittori al lampo di magnesio del volume Di

giorno in giorno40, lamentando il fatto che lo scrittore non abbia ancora dato una

prova coerente e ben costruita della sua scrittura magmatica; Silvio Guarnieri, nel

1955, scrive in Cinquant'anni di narrativa in Italia: «Restava ancora taluno, come

Gallian, cui era parola consueta quella di rivoluzione, ma così ottenebrata di

fumisticherie e di misticismi equivoci, così sperduta in vani conati di eccessi

avventurosi, da essere riguardato come un fenomeno di eccezione più che come un

possibile pericolo; ed in ogni modo le ripetute dediche a Ciano garantivano da ogni

possibile troppo decisa esigenza»41; Vittorio Vettori traccia un breve profilo di

“Stracittà” e del novecentismo nel suo volume Riviste italiane del Novecento42 del

38 Enrico Falqui, Il Futurismo; il Novecentismo, Torino, Edizioni della Radio Italiana, 1953, citato da Paolo Buchignani, Gallian: chi era costui?, in «Linea d'ombra», n. 33, 1988, pp. 92-93.

39 Luigi Russo, I Narratori (1850-1950), Milano, Principato, 1951, p. 321. La breve voce bio-bibliografica sarà espunta nell'edizione successiva, del 1958.

40 Emilio Cecchi, Di giorno in giorno, Milano, Garzanti, 1954, pp. 26-27.41 Silvio Guarnieri, Cinquant'anni di narrativa in italia, Firenze, Parenti, 1955.42 Vittorio Vettori, Riviste italiane del Novecento, Roma, Gismondi, 1958, pp. 48-49; 59; 71; 86; 97-

98.

85

1958, ma si limita semplicemente a citare il nome di Gallian. Domenico Triggiani43

nel 1958 e Elio Filippo Accrocca44 nel 1960 gli offrono un breve spazio nelle proprie

rispettive inchieste per parlare della propria vita e delle proprie idee in fatto d'arte. Di

qualche interesse è anche la breve voce a lui dedicata del Dizionario Universale

della Letteratura Contemporanea45, edito nel 1960 da Mondadori, che lo definisce

«scrittore sensuale e insieme romantico» e ne riassume efficacemente lo stile come

«estroso in maniera forzata, eccessiva, cadendo in un esasperato barocchismo o in un

violento verismo mescolato a forme intellettualistiche». Nel 1962 Eurialo De

Michelis46, tornando su un confronto già proposto da Gatto, menziona Gallian che a

paragone di Gianna Manzini è definito «aritmico», lamentando in lui, a differenza

che nella scrittrice, un uso «gratuito» del linguaggio. Fidia Gambetti ricorda Gallian

nelle memorie della propria giovinezza fascista, Gli anni che scottano47, del 1967.

Marcello Gallian muore nel 1968, ma occorre attendere la metà degli anni

settanta per avere un primo saggio completo sulla sua figura di narratore. In questo

periodo anche Gianfranco Contini ha occasione di ricordarlo brevemente: nel suo

volume La letteratura italiana. Otto-Novecento ne menziona vagamente il «delirio

barocco»48, mentre nella voce Espressionismo (letterario)49 che redige per

l'Enciclopedia del Novecento scrive: «quando sorge Gadda, gli scrittori più abnormi

sono dei certo stimabili barocchi come Antonio Aniante, Marcello Gallian,

Beniamino Joppolo, che si riannodano alla poetica surrealista e alla calligrafia pur

agitata di Barilli e della stessa Manzini».

Il primo importante saggio monografico sull'autore, firmato da Ruggero

Jacobbi50, compare nel volume I Contemporanei della Letteratura italiana, edita da

43 Inchiesta sul teatro, a cura di Domenico Triggiani, Bari, Polemica Editrice, 1958, pp. 67-72.44 Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del libro,

1960, pp. 208-209.45 Marcello Gallian, voce, in Dizionario Universale della Letteratura Contemporanea, Milano,

Mondadori, 1960.46 Eurialo De Michelis, Narratori al quadrato, Pisa, Nistri-Lischi, 1962, p. 184.47 Fidia Gambetti, Gli anni che scottano, a cura di Ruggero Zangrandi, Mursia, 1962.48 Gianfranco Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Firenze, Sansoni-Accademia, 1974,

p. 362.49 Idem, Espressionismo letterario, voce di Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto per

l'Enciclopedia, 1977, poi in Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1988.50 Ruggero Jacobbi, Marcello Gallian, in Letteratura italiana. I Contemporanei, Milano, Marzorati,

86

Marzorati, in una serie di monografie dedicata alle «vie italiane al surrealismo».

Jacobbi, in apertura, indica nella «vergogna degli anziani» e nella «repugnanza dei

giovani» le ragioni della dimenticanza dell'opera di questo autore e ribadisce una

posizione già espressa nelle sue recensioni, ovvero che l'analisi dei racconti brevi

possa offrire i migliori risultati. Ciononostante, imposta la sua analisi principalmente

sul teatro e sui romanzi, cercando di indagare più l'uomo che la sua arte. Secondo

Jacobbi con La casa di Lazzaro Gallian si dimostra «autentico drammaturgo», capace

di creare dialoghi ben «dinamizzati», sospesi tra modi colloquiali e lirici, adatti ad

esprimere la «volontà di potenza» di Lazzaro, che è libera da connotazioni politiche.

Delle migliori prove narrative vengono fornite dettagliatamente le trame e il critico

ha anche il merito di tentare di inquadrare coerentemente queste opere di Gallian in

un contesto europeo: Breton e il surrealismo, soprattutto, sono considerati riferimenti

imprescindibili. Per quanto riguarda i romanzi, Jacobbi mostra di essere molto

attento all'ideologia che Gallian veicola attraverso le sue trame, e ritiene malriuscito

il romanzo più scopertamente allegorico Una vecchia perduta, dove l'ideologia

prende il sopravvento sulla narrazione. Egli analizza attentamente i nuclei tematici

fondamentali che muovono la narrazione: «l'odio per il danaro, lo sgomento davanti

all'alienazione moderna che mette al bando la natura, il disprezzo per la civiltà dei

costumi». Considera molto positivamente le sue scelte stilistiche, la straordinaria

creatività e inventiva, anche se non può fare a meno di lamentare la tendenza a

dilatare fino all'eccesso il particolare. Da un punto di vista morale, Jacobbi sembra

giustificare, motivandolo come estrema ingenuità, il fatto che al proprio

antiborghesismo esasperato Gallian non abbia mai smesso di dare la paternità

fascista. Addirittura egli sostiene che il millantato passato squadrista dello scrittore

sia in realtà una posa letteraria, e adduce come prova il fatto che la rievocazione

squadrista emerga solo dagli anni trenta, mentre prima la materia era molto meno

storicizzata, anzi spesso paradossale e surreale. Conclude raccomandando i migliori

racconti brevi «a una antologia della nostra prosa più visceralmente moderna»,

poiché «non c'è neoavanguardia che possa disconoscere questo sicuro predecessore».

1974, pp. 435-458. In realtà Jacobbi già da qualche anno lamentava il silenzio sullo scrittore romano. Cfr., ad esempio, Antonio Pizzuto, Firenze, La Nuova Italia, 1971, p. 9, dove Jacobbi ricorda un colloquio in cui l'autore siciliano gli ha chiesto notizia proprio di Gallian.

87

3.5 La riscoperta di Marcello Gallian dagli anni ottanta a oggi

Dalla fine degli anni settanta si assiste a una progressiva riscoperta dell'opera

di Marcello Gallian. La critica si libera progressivamente di pudori e ipoteche

ideologiche, per dedicarsi a una ricognizione priva di pregiudizi del valore letterario

e della modernità della sua opera. Soprattutto comincia a farsi strada l'interesse per il

Gallian della narrativa breve come esempio di scrittore moderno, ben informato delle

grandi avanguardie europee. Ciononostante sono pochi a dedicarsi, anche solo

sommariamente, ai racconti novecentisti oggetto della mia analisi.

Dato il discreto numero di interventi critici recenti, la rassegna che segue non

ha pretese di completezza, ma solo di informazione sulle analisi più approfondite e

interessanti in riferimento all'argomento di questa tesi.

Nel 1984 esce Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista

anarchico51 dello storico Paolo Buchignani, il primo volume monografico completo,

corredato di un'ampia bibliografia. Questo saggio biografico e critico, ricco di

materiale documentario – anticipato da un articolo di Buchignani comparso nel 1979

su «Trimestre»52 – si propone di fare chiarezza sulla vicenda umana di Marcello

Gallian, dedicando un capitolo anche alle vicende dei suoi tormentati ultimi anni.

Nella prefazione, Umberto Carpi insiste nel sottolineare l'originalità di Gallian nel

contesto europeo e lo definisce «il più forte scrittore dell'area bontempelliana e

“novecentista”, l'unico capace di autentiche accensiosi e suggestioni surrealiste»53.

La lettura di Buchignani è principalmente tematico-ideologica. Egli osserva come la

visione di Gallian sia improntata alla deformazione grottesca del mondo negativo

della società borghese e alla restaurazione dei valori positivi della natura. In questa

ottica, identifica come fondamentale la matrice cristiana, pauperistica della sua

cultura, che si sovrappone al gusto per l'innocenza primitiva che lo spinge a scegliere

come suoi eroi disperati, sottoproletari e vagabondi. Il rapporto natura-società, come

51 Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit.52 Paolo Buchignani, Primitivismo e antiborghesismo nella narrativa di Marcello Gallian, in

«Trimestre», nn. 3-4, 1979, pp. 311-346. 53 Umberto Carpi, Prefazione a Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., p. 11.

88

si evidenzia, sfocia inevitabilmente nella lotta. Allo stesso modo i rapporti umani,

anche tra uomo e donna, non si danno se non come contrasto. Sulle opere di fine anni

venti, scrive ancora Buchignani, nonostante muovano dall'odio antiborghese del

fascismo squadrista, è forte l'influenza stilistica dell'avanguardia romana. Temi come

il luna park, il circo, l'incendio sono per Buchignani direttamente influenzati dal

movimento immaginista. Nelle opere successive al 1931, invece, la critica alla

borghesia come categoria «ontologica» cerca una via per storicizzarsi: Gallian mostra

il mondo borghese negativo in contrapposizione a quello che potrebbe essere grazie

alla rivoluzione fascista. Quando comincia a disilludersi riguardo all'effettivo

successo della rivoluzione, produce alcune opere caratterizzate da una visione

particolarmente pessimista, che segnando l'inizio del suo declino, gli costano critiche

e censure da parte del regime.

Il primo intervento dedicato al Gallian novecentista è pubblicato su

«Alfabeta»54 nel 1986. L'autrice, Claudia Salaris, traccia un rapidissimo profilo

dell'avanguardia romana per poi dedicarsi a una breve ricognizione dei motivi di

distanza tra Bontempelli e Gallian: allo «sguardo lucido e razionale» del primo,

contrappone l'«itinerario tormentato, al limite dell'allucinato» del secondo, alla linea

«retta», la «curva barocca». All'articolo segue una ristampa dei racconti Nascita di

un figlio e La regina dei pargoli della città.

Più interessata ai romanzi è la posizione che Cesare De Michelis espone nella

postfazione alla ristampa di Marsilio di Il soldato postumo, del 1988. De Michelis

propone di indagare i motivi ideologici di questo autore e, nella sua nota, invita a una

rilettura di Gallian «per quello che è stato, il facinoroso protagonista di una stagione

invano rimossa»55, ricordando come, al contrario, egli è sempre stato letto

principalmente dai critici «calligrafi», attenti all'uso «sfavillante» del suo

linguagggio. Il doloroso messaggio che scaturisce da Il soldato postumo è, secondo

De Michelis, il giusto punto di partenza per comprendere il significato che la

delusione per l'imborghesimento del regime fascista ha provocato nei giovani di

quella generazione.

54 Claudia Salaris, Gallian e «900», in «Alfabeta», n. 90, 1986, p. 19. 55 Cesare De Michelis, Il tradimento della rivoluzione, in Marcello Gallian, Il soldato postumo,

Venezia, Marsilio, 1988, pp. 227- 251.

89

Nel 1989 esce su «Studi novecenteschi»56 il profilo di Pietro Luxardo Franchi,

a cui mi sono spesso richiamato nella mia analisi. Luxardo Franchi sottolinea la

distanza tra Gallian e gli scrittori di regime, indaga sul suo antiborghesismo

ideologico, ma soprattutto si dedica a una ricognizione dei temi e delle forme dei

suoi racconti brevi, specie di quelli contenuti in Quasi a metà della vita, da lui

individuati come il risultato migliore di Gallian. La sua scelta è motivata dalla

convinzione che l'incoerenza nell'intreccio e l'ipertrofia del particolare abbiano

impedito a Gallian di raggiungere validi risultati in campo romanzesco, mentre la

misura breve consente di contenere la forza centrifuga di questa narrazione. Come

Buchignani, anche lui divide la produzione di Gallian tra esordi novecentisti e

romanzi improntati al «realismo sociale», anche se sottolinea come gli stilemi

novecentisti permangano sempre nella sua narrazione, dove a prevalere è «una

dimensione di carnalità stralunata e surreale». Egli si dedica, quindi, brevemente

anche ai racconti comparsi su «900», in cui rintraccia la frequenza di «interni

proletari o piccolo borghesi in occasione di ritualità sociali canoniche quali

matrimoni, funerali e battesimi», descritti «con un tremendo espressionismo di marca

grosziana». Gli stilemi del novecentismo vengono individuati in «iperboli

sinestetiche, intemperanze descrittive, abuso dell'anafora, ritmo ternario

nell'aggettivazione, tendenza all'enumerazione smodata». Nei racconti successivi,

individua come motivi di ispirazione principali il sottoproletariato, l'amore fisico, la

maternità, i quartieri poveri e periferici, sempre narrati in modo che «il reticolo

sensoriale» prevarichi «sull'elaborazione razionale», secondo una cifra che non di

rado è «fantastico-espressionista». Le ultime pagine sono dedicate, completando il

ritratto della fisionomia intellettuale dell'autore, ai temi chiave degli ultimi romanzi,

dove si accentuano «la tematica politica» e «la visionarietà allegorica antisociale».

Nel 1994 Carlo D'Alessio, su «Critica letteraria»57, pubblica il primo articolo

incentrato sui procedimenti stilistici di Gallian, influenzati, a suo avviso, da

surrealismo ed espressionismo. D'Alessio rileva nella sua «visceralità espressiva,

che ricorda […] un autore come Céline» la principale differenza con Bontempelli. Il

56 Pietro Luxardo Franchi, Marcello Gallian, in «Studi novecenteschi», n. 38, 1989, pp. 207-264.57 Carlo D'Alessio, Marcello Gallian: un espressionista in nero, in «Critica letteraria», n. 2, 1994, pp.

377-390.

90

secondo nome che gli affianca, per quanto riguarda la deformazione caricaturale del

mondo borghese, è quello di George Grosz. L'analisi di D'Alessio vuole essere

complessiva e rendere conto dei procedimenti enumerativi di Gallian come cifra di

tutta la sua narrativa. Le tecniche costruttive che Gallian usa per «accerchiare

l'evento o lo stato d'animo […] per focalizzarlo meglio nella sua fisicità» sono,

pertanto, sintetizzate in «giustapposizione di quadri staccati» ed «enumerazione

oggettuale».

Gli ultimi due articoli di cui mi occupo in questa rassegna critica sono uno del

2002, l'altro del 2005. Il primo intervento è L'espressionismo drammatico di

Marcello Gallian58 di Silvana Cirillo. In questo breve saggio Cirillo mette in luce

come nella narrativa di Gallian «l'estetizzazione delle situazioni» sia talvolta

«manierata», ma, generalmente il suo taglio d'avanguardia sia assimilabile a quello di

artisti come Toller, Wedekind, Brecht, Grosz, «voci insostituibili del dissenso», artisti

«intenti a premere sulla realtà, fino a straziarla e a deformarla». Sottolinea,

giustamente, come «Gallian in ogni cosa vedeva […] uno squarcio potenziale di

teatro», e come il teatro e il circo fossero per lui fondamentali motivi di ispirazione.

Cirillo offre anche una lettura del racconto novecentista Gli abitatori della piazza

grande come rappresentazione di un «palcoscenico itinerante», lettura che mi pare

interessante, anche se non sottolinea adeguatamente l'angoscia del protagonista, sia

rispetto alla donna, sia rispetto agli eventi che precipitano. L'autrice, infatti, sintetizza

la trama scrivendo soltanto che «due amanti decidono di fuggire insieme

abbandonando il loro povero quartiere e di fare della città intera la loro casa».

Il secondo articolo è di Barbara Stagnitti, ed è il più approfondito intervento

dedicato a Marcello Gallian tra le pagine di «900»59, anche perché tiene conto,

sintetizzandole, anche delle letture di Luxardo Franchi e di D'Alessio. Muovendo

dalla proposta di «900» di sprovincializzazione della cultura, Stagnitti identifica

Gallian come vero scrittore d'avanguardia, dallo stile «espressionista e surreale»,

ricco di «stilemi iperbolici e analogismi esasperati». I procedimenti linguistici di

58 Silvana Cirillo, L'espressionismo drammatico di Marcello Gallian, in «Sincronie», n. 12, 2002, pp. 121-130. Ora in Nei dintorni del surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 2006, pp. 71-85.

59 Barbara Stagnitti, Marcello Gallian tra le pagine di «900», in «Rivista della Letteratura italiana», nn. 1-2, 2005, pp. 423-426.

91

questi racconti sono detti «per aggiunzione»: anafora, «sequenze iterative»,

«accumulazione enumerativa». Per inquadrare correttamente Gallian nella

prospettiva di «900», Stagnitti sottolinea come la sua narrativa sia in linea con

l'«atmosfera di modernità della rivista» e con «il senso profondo della sua poetica»,

ovvero saper guardare con meraviglia alle cose comuni, vivendo l'arte come

un'operazione magica.

.

92

Bibliografia

Opere di Marcello Gallian

Cito esclusivamente le opere comparse in volume. Per un'ampia bibliografia delle

pubblicazioni di Marcello Gallian su riviste e periodici e per le antologie in cui è

compreso, rimando a quella fornita da Paolo Buchignani, Marcello Gallian. La

battaglia antiborghese di un fascista anarchico, Roma, Bonacci, 1984.

Narrativa

La donna fatale, Milano, Corbaccio, 1929

Vita di sconosciuto, Roma, Tiber, 1929

Nascita di un figlio ed altri scritti. Prefazione di Massimo Bontempelli, Roma, Atlas, 1929. Poi con titolo Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del Grifo, 1990

Pugilatore di paese, Lanciano, Carabba, 1931

Una vecchia perduta, Roma, Le Edizioni d'Italia, 1933

Comando di tappa, Roma, Cabala, 1934

Tempo di pace. Prefazione di Giuseppe Ungaretti, Roma, Edizioni di Circoli, 1934

Il soldato postumo, Milano, Bompiani, 1935. Poi, con nota di Cesare De Michelis, Venezia, Marsilio, 1988

Bassofondo. Nota di Giuseppe Ungaretti, Milano, Panorama, 1936

In fondo al quartiere. Nota di Giuseppe Ungaretti, Milano, Panorama, 1936

Tre generazioni, Milano, Panorama, 1936

Racconti per la gente, Cassino, Le Fonti, 1936

Quasi a metà della vita. Molto più che un romanzo, Firenze, Vallecchi, 1937

Dopoguerra, Cassino, Le Fonti, 1937

Il monumento personale, Roma, Edizioni di Critica e d'Arte, 1937

Racconti fascisti, Milano, Panorama, 1937

93

Combatteva un uomo, Firenze, Vallecchi, 1939

Nostro Impero Quotidiano: I. Tenebra solare, Catania, Editrice Jonica, 1939

Primo diario, Roma, Scrittori Contemporanei, 1940

Gente di squadra, Firenze, Vallecchi, 1941

Alba senza denaro, Roma, Azione letteraria italiana, 1943

America, Roma, Stampa Alternativa, 1989. Poi Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007

Villa con albergo. Nota di Sandro Bortone, Valeggio sul Mincio, Ampersand, 1995

Argante, Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007

Giornata di donne, Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007

Il viaggio impossibile, Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007

Licenza dal figlio, Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007

Teatro

La casa di Lazzaro. Seguito da Museo da camera, Roma, L'Angioliere, 1956

Pubblicistica, saggistica, critica d'arte

I segreti di Umberto Nobile, Roma, Pinciana, 1928

Sport fascista, Roma, Pinciana, 1928

Arpinati politico e uomo di sport. Prefazione di Nazareno Mezzetti, Roma, Pinciana, 1928

Avventura terrestre di Krimer, Tivoli, Mantero, 1938

Letteratura vitale fascista, Catania, Prigiotti, 1939

Guidonia, Torino, Azione – Rotocalco Dagnino, 1940

Il Ventannale. Gli uomini delle squadre nella rivoluzione delle camicie nere, Roma, Azione Letteraria Italiana, 1941

Arte, Roma, G. Menaglia – Arti grafiche, 1942

Carlo Vittorio Testi. Profilo, Roma, Novissina, 1946

Curatele

94

Benito Mussolini, La dottrina del fascismo. Storia, opere ed istituti, a cura di Luigi Contu, Marcello Gallian, Arturo Marpicati. Con il saggio di Marcello Gallian, Storia del fascismo, Milano, Hoepli, 1935

A Domenico Lettieri, a cura di Marcello Gallian, Roma, Tipografica Editrice, 1935

Eduardo Gordigiani, Eduardo Gordigiani. Introduzione di Concetto Marchesi e presentazione di Marcello Gallian, Firenze-Empoli, Stet, 1948

Pericle Fazzini, Disegni originali di Pericle Fazzini, Firenze-Empoli, Stet, 1948

Lucenti Vuattolo, Lucenti Vuattolo, Roma, Il Pincio, 1952.

Luigi Santroni, Antenna, Roma, Conchiglia, 1953

Pier Demetrio Ferrero, Pier Demetrio Ferrero. Catalogo della mostra personale alla Galleria «Il Camino», Roma, Galleria Il Camino, 1953

Critica su Marcello Gallian

Massimo Bontempelli, Introduzione a Marcello Gallian, Il dramma nella latteria, in «L'Interplanetario, n. 6, 1928

Massimo Bontempelli, Prefazione a Marcello Gallian, Nascita di un figlio ed altri scritti, Roma, Atlas, 1929

Camillo Pellizzi, Le lettere italiane del nostro secolo, Milano, Libreria d'Italia, 1929

Armando Ghelardini, Il successo de «La casa di Lazzaro» di Gallian al Teatro degli Indipendenti di Roma, in «2000», n. 2-3, 1929

Riccardo Marchi, Una lettera, in «2000», n. 4, 1929

Scrittori nuovi, a cura di Enrico Falqui, Elio Vittorini. Prefazione di Giovanni Battista Angioletti, Lanciano, Carabba, 1930

Mario Carli, Censimento degli scrittori fascisti, in «Oggi e domani», 23 giugno 1930

Il Parrucchiere, Barbe di barbari, in «Oggi e domani», 30 giugno 1930. Ora in «Eurostudium3w», n. 17, 2010

Massimo Bontempelli, Giovanni Battista Angioletti, Il Novecentismo è vivo o è morto?, in «L'Italia letteraria», 3 novembre 1930

Arnaldo Bocelli, Romanzi di Gallian, in «L'Italia letteraria», 29 novembre 1931

Arnaldo Bocelli, Pugilatore di paese, in «Nuova Antologia», n. 1445, 1932

Enrico Emanuelli, Il Premio Mediterraneo è stato vinto da Marcello Gallian, in «L'Italia letteraria», 8 maggio 1932

Silvio Guarnieri, Pugilatore di paese, in «Solaria», n. 12, 1932

Arnaldo Bocelli, Una vecchia perduta, in «Nuova Antologia», n. 1481, 1933

95

Giuseppe Ungaretti, Prefazione a Marcello Gallian, Tempo di pace, Roma, Edizioni di Circoli, 1934

Luigi Chiarini, Il romanzo dello squadrismo, in «Quadrivio», 15 luglio 1934

Romano Bilenchi, Comando di tappa, in «Roma fascista», 22 luglio 1934

Fernando Capecchi, Comando di tappa, in «L'Italia letteraria», 11 agosto 1934

Guido Piovene, Una vecchia perduta, in «Pan», n. 11, 1934

Arnaldo Bocelli, Comando di tappa, in «Nuova Antologia», n. 1501, 1934

Enrico Falqui, Tempo di pace, in «Pan», n. 3, 1935. Poi in Prosatori e narratori del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1950. Poi in Il Novecento letterario. Serie terza, Firenze, Vallecchi, 1961. Ora in Il Novecento letterario italiano, Firenze, Vallecchi, 1969-71

Romano Bilenchi, Il soldato postumo, in «Il Popolo d'Italia», 20 agosto 1935

Ruggero Jacobbi, Racconti di Gallian, in «Quadrivio», 27 dicembre 1936

Luigi Fallacara, Gallian e Bacchelli, in «Il Frontespizio», n. 1, 1937

Alfonso Gatto, Gianna Manzini. «Un filo di brezza», in «Letteratura», n. 2, 1937

Ruggero Jacobbi, Tutto Gallian, in «Quadrivio», 21 febbraio 1937

Vasco Pratolini, Come esempio, in «Il Bargello», 28 febbraio 1937

Il Tarlo [Emilio Cecchi], Gallian, in «Omnibus», 19 giugno 1937

Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 1938

Enrico Falqui, Primo diario, in «Gazzetta del popolo», 26 novembre 1940, poi in Prosatori e narratori del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1950. Poi in Novecento letterario. Serie terza, Firenze, Vallecchi, 1961. Ora in Il Novecento letterario italiano, Firenze, Vallecchi, 1969-71

Alfonso Silipo, Primo diario, in «Primato», n. 2, 1941

Luigi Russo, Politica e cultura, in «Belfagor», n. 6, 1947

Elio Talarico, Uno scrittore muore di fame, in «Momento sera», 25 novembre 1947

Enrico Falqui, La letteratura del ventennio nero, Roma, Edizioni della Bussola, 1948

Luigi Russo, I narratori (1850-1950), Milano-Messina, Principato, 1951

Enrico Falqui, Il Futurismo; il Novecentismo, Edizioni della Radio Italiana, 1953

Emilio Cecchi, Di giorno in giorno, Milano, Garzanti, 1954

Silvio Guarnieri, Cinquant'anni di narrativa in Italia, Firenze, Parenti, 1955

Il premio Viareggio ha 25 anni, a cura di Leone Sbrana, Firenze, Luciano Landi Editore, 1955

Inchiesta sul teatro, a cura di Domenico Triggiani, Bari, Polemica, 1958

96

Antologia della rivista «900», a cura di Enrico Falqui, Lucugnano, Edizioni dell'Albero, 1958

Vittorio Vettori, Riviste italiane del Novecento, Roma, Gismondi, 1958

Alfredo Orecchio, Un fascista alla fame, in «Paese sera», 23-24 gennaio 1960

Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del Libro, 1960

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Eurialo De Michelis, Narratori al quadrato, Pisa, Nistri-Lischi, 1962

Fidia Gambetti, Gli anni che scottano, a cura di Ruggero Zangrandi, Mursia, 1967

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Altre opere consultate

Hermann Grosser, Narrativa, Milano, Principato, 1985

Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli, 19713

Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, a cura di Ruggero Jacobbi, Firenze, Vallecchi, 19742

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Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 200811

99