IN TEMA DI ACCETTAZIONE DI ADEMPIMENTO PARZIALE CON RISERVA DI SALDO
I racconti “novecentisti” di Marcello Gallian
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Indice
Introduzione 3
Primo capitolo. Marcello Gallian, le opere e i giorni 7
1.1 Dalla borghesia all'antiborghesia 7
1.2 L'avanguardia romana 8
1.3 1931-1935. Cinque anni di successo 11
1.4 La condanna del regime al «letterato squadrista» 13
1.5 Il dopoguerra 14
1.6 La collaborazione a «900» 17
Secondo capitolo. Temi e forme dei testi «novecentisti» 21
2.1 Gallian e «900»: Bontempelli, il surrealismo, l'espressionismo 21
2.2 Analisi tematica 26
2.2.1 Il tema della nascita e dell'ingresso nella vita 28
2.2.2 Il tema della violenza e della morte 37
2.2.3 Il tema del viaggio come vagabondaggio 45
2.2.4 Il tema della città e della folla 51
2.3 Analisi formale 60
2.3.1 Notazioni lessicali e sintattiche: enumerazione e paratassi 60
2.3.2 Costruzioni narrative: “paratassi diegetica” e discontinuità 67
Terzo capitolo. La fortuna di Marcello Gallian nella storia della critica 73
3.1 Gli esordi 73
3.2 Il successo dei primi anni trenta 75
3.3 Dalla metà degli anni trenta alla guerra 79
3.4 Dal dopoguerra agli anni settanta: brevi rotture di un silenzio 83
3.5 La riscoperta di Marcello Gallian dagli anni ottanta a oggi 88
Bibliografia 93
Introduzione
Sulla figura di Marcello Gallian si sono resi disponibili negli ultimi anni
diversi contributi critici, sulla scia di una rinnovata attenzione a due zone spesso
trascurate della nostra letteratura: l'avanguardia romana e la letteratura del fascismo,
come espressione artistica non banalmente propagandistica. Quando, infatti, Gallian
scrive testi creativi, a differenza di quando si dedica al giornalismo, non fa
propaganda, non abusa di retorica pubblicistica, ma tramuta la propria ideologia
retrograda, complessa, anarchica, violenta e incoerente in una visione artistica
originale. La complessità e l'ambiguità, quando sono segno di un'umanità profonda,
nel bene o nel male, consentono che si dia la possibilità di un'arte letteraria anche
accordata ad un regime totalitario.
Il giovane Marcello Gallian, dal convento in cui studia, fugge diciassettenne
per abbracciare l'impresa fiumana, al fianco di D'Annunzio, e, al ritorno a Roma, è
sansepolcrista e poi squadrista. Il suo carattere è irrequieto, così come variano la sua
cultura e le basi da cui matura le proprie convinzioni: malato di arditismo, di retorica
interventista e di patriottismo e nello stesso tempo animato da uno spirito di
cristianesimo medievale, pauperistico, contrario al denaro, alla ricchezza, alle
disparità sociali. Frequenta anarchici come Errico Malatesta, conosce artisti
comunisti come l'immaginista Vinicio Paladini, ma ama d'un amore viscerale la
figura del Mussolini della prima ora: il suo modello, per sempre, di liberatore dalla
borghesia.
Il suo paradosso è quello di non trovarsi arruolato in nessun gruppo costituito
che ne consenta una facile collocazione manualistica, artisticamente sospeso tra
fascismo e avanguardia, tra “Strapaese” e “Stracittà”, tra “contenutismo” e
“calligrafia”. È uno scrittore ai margini, convinto che il fascismo, con la sua spinta
propulsiva e rivoluzionaria produrrà una vera e propria palingenesi. La sua adesione
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al fascismo-movimento, col principale scopo di eliminare la borghesia, non verrà mai
meno, anche quando la reale identità del fascismo-regime piccolo-borghese sarà
evidente. Quando capisce che la realtà ha preso una diversa piega, la sua visione
comincia solo a farsi più pessimista, conscia del fatto che chi, come lui, ha preso
parte allo squadrismo non ha più un ruolo sociale; quel ruolo che Gallian continuerà,
coi suoi libri e i suoi articoli, a pretendere, rivolgendo la propria attenzione e le
proprie speranze verso Benito Mussolini. Il suo pensiero negativo e la sua pesante
critica non passano inosservati, tanto che la sua opera è più di una volta censurata.
Per chiarire tutto questo, il mio studio si apre con una biografia essenziale,
che rende conto dei momenti fondamentali della vicenda dell'autore, importante
anche per affrontare aspetti tematici e ideologici della sua produzione.
La conquista più sicura della critica recente, a partire da Ruggero Jacobbi, che
gli dedica una fondamentale monografia nel 1974, è quella di annoverarlo tra le voci
più originali della letteratura italiana, avvicinando i suoi esiti alle angosce espresse
dalla grande avanguardia europea. I nomi che gli sono stati accostati recentemente
sono quelli di Céline, Toller, Wedekind, dei pittori espressionisti, Grosz, Dix, e dei
maestri del surrealismo, Breton e Cendrars.
I testi che prendo in esame in questa tesi, pubblicati tra il 1927 e il 1929,
sono, a mio avviso, fondamentali nella formazione del giovane scrittore. Sono
pubblicati su «900», la rivista di Massimo Bontempelli che identifica la letteratura
con un atto di magia, che attraverso l'immaginazione esprima lo stupore di fronte al
mondo, anche al mondo delle cose più quotidiane. In questa deformazione della
realtà verso una dimensione onirica, e non certo nello stile asciutto e calcolato
proposto da Bontempelli, è da ravvisare il motivo dell'adesione di Gallian al progetto
«novecentista». Non sarà però superfluo ricordare che il progetto della rivista è
soprattutto quello di aprire l'Italia all'Europa, e viceversa, aggiornando i giovani
collaboratori italiani sui grandi autori all'avanguardia, vantando collaboratori come
Joyce, Soupault, Gomez de la Serna, Ehrenburg.
Gallian, nella palestra «novecentista», si allena a costruire quel suo modo
particolarissimo di narrare, abusando di metafore, similitudini, descrizioni,
enumerazioni infinite: tutti gli elementi che nei suoi romanzi, dagli anni trenta in poi,
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sfrutterà come strumenti di espressionistica e deformante critica sociale. Con questo
non si vuole negare che in questi racconti emergano già istanze ideologiche. Questo
studio si pone l'obiettivo di mettere in luce proprio i nuclei ideali che emergono da
queste prove, che la critica ha, invece, generalmente trascurato dal punto di vista
tematico, dedicandogli piuttosto sbrigative formule riferite alla sua scrittura
allucinata e magmatica. La mia intenzione, attraverso lo studio di questi testi
giovanili, è quella di dare dell'autore un'immagine coerente, sottolineando la
presenza di costanti che legano tutta la sua produzione: costanti che non sono solo
formali, ma che investono, come detto, fondamentali nuclei tematico-ideologici.
La prima parte dell'analisi dei testi, che si trova nel secondo capitolo, è
dedicata ai percorsi tematici dominanti, quali nascita, genitorialità, morte, violenza,
vagabondaggio, folla cittadina e paesana. Alla luce di questo studio cerco di
evidenziare come la violenza e il contrasto siano le vere istanze che muovono la
narrazione, portando Gallian ad avanzare l'ipotesi di uno stato di natura, libero, senza
regole né leggi, che trova nel dramma La casa di Lazzaro un'espressione chiarissima
e affascinante.
La seconda parte dell'analisi trascura, invece, il testo drammatico appena
citato per concentrarsi sulle strategie testuali della prosa narrativa, sulle particolarità
della costruzione sintattica e sull'uso figurato e iperbolico del linguaggio. Anche in
questo caso l'intento è quello di identificare una modalità di costruzione costante che,
in alcuni casi coinvolge la narrazione a tutti i livelli. Mi riferisco ad un procedimento
che ho definito “enumerativo”, che agisce sia come enumerazione vera e propria, sia
come legame paratattico tra proposizioni, sia come legame anaforico tra periodi e
persino come successione e iterazione di scene a livello narrativo.
L'ultimo capitolo presenta un ampio panorama della critica su Gallian, che,
partendo dalle recensioni dei contemporanei, attraversa il quasi totale silenzio degli
anni cinquanta e sessanta e, infine, si propone di evidenziare le voci più interessanti
della critica dagli anni settanta a oggi, sottolineando soprattutto come i racconti qui
presi in esame, a differenza del dramma La casa di Lazzaro, abbiano solo in anni
recenti avuto una adeguata attenzione, volta principalmente a inserirli in un contesto
di avanguardia europea.
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Primo Capitolo
Marcello Gallian, le opere e i giorni
1.1 Dalla borghesia all'antiborghesia
Le notizie biografiche su Marcello Gallian sono tutt'altro che sicure e sono
spesso legate a prefazioni, articoli e lettere dell'autore in cui difficilmente si distingue
il reale dal fantasioso1. Lo scrittore nasce a Roma il 6 aprile 19022, da Angelo
Gallian, console generale di Turchia a Roma e Maria Scalzi. Il nonno materno, come
ricordato da Gallian, fu pittore e venne esiliato a Marsiglia dall'allora Stato
Pontificio. L'ambiente dove vive la sua prima infanzia è quello alto borghese e
aristocratico di Roma, almeno fino al 1911, anno in cui il padre deve dimettersi dal
suo incarico per lo scoppio della guerra libica, andando incontro a notevoli difficoltà
economiche. Rimasto di lì a poco orfano di padre, Marcello frequenta, un collegio a
Roma e poi viene mandato a Firenze, al convento dei Vallombrosani di Santa Trinità,
dove prende i voti semplici e si dedica allo studio con grande fervore. Più che i
classici greci e latini, le sue letture preferite all'epoca sono i grandi spiriti
anticonformisti della tradizione tardomedievale e moderna: il Dante dell'Inferno,
1 Scrive Ruggero Jacobbi: «una buona parte di tale biografia è probabilmente immaginaria, data la natura esuberante della fantasia dello scrittore, la cui caratteristica principale è proprio l'amplificazione dei dati reali», Marcello Gallian, in Letteratura Italiana. I Contemporanei, Milano, Marzorati, 1974, pp. 435-458, cit. da p. 437.I dati qui presentati sono tratti, salvo fonti diverse segnalate in nota, dal dettagliato profilo di Paolo Buchignani, Marcello Gallian, La battaglia antiborghese di un fascista anarchico, Roma, Bonacci, 1984.
2 La data di nascita è riportata dallo stesso Gallian in Primo diario, Roma, Scrittori Contemporanei, 1940, p. 64 (cit. da Pietro Luxardo Franchi in L'altra faccia degli anni trenta, Padova, CLEUP, 1991, p. 114) e in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del Libro, 1960, p. 208. Scrittori Nuovi, a cura di Enrico Falqui, Elio Vittorini, Lanciano, Carabba, 1930, riporta come data di nascita il 1904 e così Ruggero Jacobbi, cit. (Jacobbi “corregge” la data in 4 marzo 1902 nell'edizione successiva del saggio, in Novecento, Milano, Marzorati, 1979, pp. 4460-4484). Enzo Frustaci scioglie ogni dubbio verificando all'anagrafe di Roma (cfr. L'avventura letteraria di Marcello Gallian: le aporie di un uomo di squadra , in «Annali FM», nn. 1-2, 1981, pp. 213-243, spec. p. 214).
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Cecco Angiolieri, Savonarola, Giordano Bruno, Tommaso Campanella. A
determinare la sua futura ideologia di fascismo cristiano e pauperistico concorrerà,
inoltre, la sua passione per le sette ereticali medievali: Dolciniani, Gioachimiti. A
queste letture seguiranno presto quelle dei poètes maudits, Baudelaire e Rimbaud, dei
romanzieri russi Dostoevskij e Gorkij e dei poeti d'avanguardia: Majakovskij,
Esenin, Blok. Letture, le sue, che certo non saranno ininfluenti sulle raffigurazioni di
vagabondi e diseredati che abbondano nelle sue opere e sul suo rapporto con il
mondo borghese.
Nel 1919, a diciassette anni, decide di lasciare il convento e di seguire
D'Annunzio a Fiume per dare sfogo alla sete di azione che condivide con chi, come
lui, non ha partecipato alla Prima Guerra Mondiale, ma ha subito il fascino della
propaganda interventista. Tornato a Roma abbraccia il fascismo fin dal discorso di
Piazza San Sepolcro, si arruola nella squadra “La Volante” e partecipa nel 1922 alla
Marcia su Roma. Vive intanto con la madre, le sorelle e una zia facoltosa, che gli
promette un incarico diplomatico. Seguendo le sue aspirazioni letterarie si laurea in
lettere moderne3, ma, insofferente verso l'ambiente borghese familiare, inizia a
frequentare gli inquieti ambienti anarchici ruotanti attorno alla figura di Errico
Malatesta e i circoli artistici d'avanguardia, formandosi una propria peculiare idea
politica di fascismo radicale e antiborghese.
1.2 L'avanguardia romana
Il mondo della cultura giovanile romana è tutt'altro che in linea con il
generale clima di «ritorno all'ordine» che caratterizza il dopoguerra, ma è, anzi,
animato da varie ed eterogenee suggestioni artistiche e culturali avanguardistiche.
Gallian, mentre cerca di mantenersi facendo i lavori più svariati, inizia a farsi
strada in modo piuttosto precoce: fonda nel 1925 il quindicinale d'avanguardia
antiborghese «Spirito nuovo»4, diretto dal terzo numero anche da Alfredo Poinelli,
3 Cfr. Paolo Buchignani, Primitivismo e antiborghesismo nella narrativa di Marcello Gallian, in «Trimestre», nn. 3-4, 1979, p. 312.
4 Il titolo è ricalcato su quello della rivista francese fondata dall'architetto Le Corbusier, «Esprit nouveau», pubblicata tra il 1920 e il 1925.
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dove esordisce come narratore. Collabora negli anni '20 con «Roma fascista» con
interventi critici, politici e racconti. Approda alla redazione di «900» già dal 1927,
quando ancora la rivista di Massimo Bontempelli è edita in francese e vi pubblica
assiduamente fino all'ultimo numero, il sesto del 1929. Attorno al fenomeno del
«novecentismo» e del «realismo magico» si formano numerose testate d'avanguardia,
tra cui «I Lupi» di Gian Gaspare Napolitano e Aldo Bizzarri, che ospita racconti e
interventi di Gallian, e «L'Interplanetario» di Libero De Libero e Luigi Diemoz, il cui
sesto numero del 1928 è occupato interamente dal suo primo romanzo, Il dramma
nella latteria, con prefazione di Bontempelli. Scrive poi anche su «A e Z»,
«L'Impero», «Oggi e domani».
Nel 1929 esce il primo numero di «2000», rivista d'avanguardia da lui fondata
e diretta insieme ad Armando Ghelardini e Alfredo Gaudenzi, a cui si lega
l'esperienza del Teatro 20005, in cui vennero rappresentati anche Re Baldoria di
Filippo Tommaso Marinetti e La guardia alla luna di Bontempelli. Il 1929 è anche
l'anno delle sue prime pubblicazioni in volume: i romanzi La donna fatale e Vita di
sconosciuto e i tre racconti, già editi su rivista, raccolti con prefazione di Bontempelli
in Nascita di un figlio ed altri scritti. Mette in scena, sempre nel 1929, al Teatro degli
Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, il dramma La casa di Lazzaro, che
rappresenta il suo primo grande successo e viene, poco dopo, pubblicato in tre
puntate su «900».
Nelle opere di questo periodo è importante notare la vicinanza di alcune
tematiche gallianiane – l'ambiente evasivo del luna park o l'eversione incendiaria, ad
esempio – a quelle trattate, nello stesso periodo, dagli artisti comunisti del gruppo
immaginista, animato da Vinicio Paladini e Umberto Barbaro. L'oltranzismo
antiborghese e la ricerca di un'arte nuova quale strumento rivoluzionario, infatti,
avvicinano intellettuali di ispirazione politica opposta, comunque artisticamente
accomunati dall'influenza spesso taciuta ma evidente del futurismo. Come scrive
Paolo Buchignani:
la spiegazione di questo fenomeno va indubbiamente ricercata nella comune
5 Cfr. Marcello Gallian, Storia del teatro 2000, in «Giornale di Genova», 10 aprile 1929, citato da Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., pp. 20; 140.
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condizione di giovani intellettuali d'avanguardia, nemici dichiarati dello Statoliberale e della sua cultura borghese e “passatista”, i quali non ritennero – e seciò può sembrare scontato per gli antifascisti lo è molto meno per i fascisti –che con l'avvento del fascismo e la conseguente distruzione dello Statoliberale fossero esaurite le ragioni della loro battaglia avanguardistica eantiborghese, come invece ritenne gran parte della nostra avanguardia, che siavviò verso una stanca celebrazione dell'ordine.6
Un aspetto interessante della sua formazione culturale è la frequentazione dei
circoli cinematografici di Alessandro Blasetti, dove approfondirà le proprie teorie sul
cinematografo, patrocinando, inoltre la nuova arte sulle colonne di «Lo Spettacolo
d'Italia» e «Il Raduno»7.
Questi fogli d'avanguardia8 hanno tutti vita molto breve, ma testimoniano
come vi sia ancora, nei primi anni del fascismo, una relativa libertà nella ricerca
artistica e come a Roma siano presenti artisti capaci di importare le suggestioni più
avanzate delle esperienze artistiche europee: espressionismo tedesco e surrealismo
francese su tutte.
Terminata questa stagione, inizia negli anni trenta il periodo di maggior
successo di Gallian, anche se, essendo uno scrittore difficilmente inquadrabile nella
politica culturale del regime, sarà un successo effimero e minato da diversi casi di
censura9. Già nel 1930, il suo dramma La scoperta della terra10, in cui una prostituta
diventa la guida di una rivolta dei minatori nella remota regione del Transvaal, viene
largamente criticato e accusato di immoralità dalla critica più intransigente, dopo la
sua messa in scena al Teatro Manzoni di Milano. A seguito di queste polemiche, la
censura impedì che la rivista «Oggi e Domani», dopo averne pubblicato il primo atto,
6 Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., p. 18.7 Un saggio delle sue idee in fatto di cinema è offerto anche su «900», nella cronaca intitolata
«Spettacolo», n. 6, 1928, pp. 273-275.8 Per la stagione dell'avanguardia romana post-futurista, animata da artisti comunisti, ma anche da
anarchici e fascisti “di sinistra” rimando a Umberto Carpi, Bolscevico immaginista, Napoli, Liguori, 1981.
9 Per quanto riguarda le opere teatrali censurate cfr. Censura teatrale e fascismo (1931-1944), a cura di Patrizia Ferrara, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale per gli Archivi, 2004, p. 446.
10 Rappresentato al Teatro Manzoni di Milano dalla Compagnia Tamberlani-Bolognesi nel 1930, il primo atto è in «Oggi e domani», 30 giugno 1930, pp. 5-6. Recentemente è stato pubblicato il testo completo, preceduto dallo scritto Rileggendo «La scoperta della terra» di Marcello Gallian nella versione integrale di Silvana Cirillo e da Una nota al testo di Achille Castaldo, in «Eurostudium3w», n. 17, 2010, pp. 170-224.
10
pubblicasse anche i due seguenti.
1.3 1931-1935: Cinque anni di successo
Nelle opere narrative scritte nei primi anni trenta, Gallian abbandona
l'ispirazione onirica del novecentismo e punta a convogliare con maggiore coerenza
il suo progetto ideologico-politico all'interno della sua scrittura. La realtà sociale del
suo tempo o, più spesso, del periodo immediatamente precedente il fascismo, diventa
l'argomento principale dei suoi romanzi. I toni sempre carichi, surreali, grotteschi e
baroccheggianti, che caratterizzavano le prime prove, non scompaiono, ma sono volti
ora a descrivere la crisi sociale e valoriale che il fascismo, secondo Gallian, avrebbe
risolto necessariamente.
Con Pugilatore di paese, uscito nel 1931, Gallian si aggiudica a San Remo il
Premio Mediterraneo 1932 e ottiene alcune favorevoli recensioni, in particolare di
Arnaldo Bocelli ed Enrico Falqui; nel 1933 pubblica Una vecchia perduta e,
soprattutto, nel 1934 i racconti di Comando di tappa che gli valgono il secondo posto
al Premio Viareggio11. Quest'ultimo volume si compone principalmente di materiale
autobiografico in gran parte romanzato: dall'infanzia nella Roma borghese al
convento dei Vallombrosani, dall'avventura fiumana al ricordo delle imprese
squadriste. Grazie a questo successo, Gallian firma un contratto con l'editore
Valentino Bompiani e ottiene di collaborare con il «Corriere della Sera», sulla cui
terza pagina compariranno i suoi racconti da gennaio a giugno del 1935. Entra anche
nel comitato direttivo della rivista genovese «Circoli», insieme a Giuseppe Agnino,
Adriano Grande, Enrico Falqui e Giuseppe Ungaretti. Scrive nel frattempo anche su
«Quadrivio» e «L'Italia letteraria» e pubblica nel 1934 un altro romanzo, Tempo di
pace, prefato da Giuseppe Ungaretti.
Non va dimenticato che, sempre in questo periodo, consolida il proprio
successo e il proprio credito nei confronti del regime con i suoi volumi di apologia
del fascismo e del Duce in particolare: Mussolini nei commenti della stampa del
mondo è del 1933; il saggio Storia del fascismo, incluso nel volume firmato da
11 Cfr. Il premio Viareggio ha 25 anni, a cura di Leone Sbrana, Firenze, Luciano Landi Editore, 1955, pp. 4-5.
11
Mussolini, ma redatto e curato da Gallian insieme ad Arturo Marpicati e Luigi Contu,
La dottrina del fascismo. Storia opere ed istituti, esce per le prestigiose edizioni
Hoepli nel 1935. Il suo rapporto col fascismo, però, patisce una seria ambiguità. Il
fascismo che Gallian elogia è già un miraggio di una stagione rivoluzionaria passata,
e il malcontento che lo scrittore inizia a soffrire trova sfogo in testi come il violento
pamphlet Colpo alla borghesia e l'articolo Tradimento12, pubblicato su «Quadrante»,
in cui rivendica una maggiore libertà per gli artisti d'avanguardia contro i borghesi e i
«banditori alla facilona».
Tra il 1935 e il 1936 questo periodo di discreto successo termina bruscamente
e inizia per Gallian una progressiva emarginazione. La sua intransigenza politico-
ideologica insieme alla sua delusione per l'imborghesimento del regime e per la
rivoluzione tradita trovano espressione in due romanzi: Il soldato postumo e
Bassofondo. Nel primo romanzo Gallian descrive la storia di una «generazione
speciale», cioè di coloro che hanno aderito con entusiasmo al fascismo squadrista e
hanno visto tradita la loro rivoluzione: una generazione, quindi, che ormai volge ad
una cupa disperazione. A causa della ormai esplicita polemica contro il fascismo
inteso come regime il romanzo non avrà grande successo e gli costerà la fine del
rapporto con Bompiani.
Il secondo, per la tematica scabrosa dell'amore di un giovane per una vecchia
e per la descrizione di una Roma miseranda e decadente, un «bassofondo» appunto,
viene censurato e può essere ripubblicato solo l'anno dopo con il titolo In fondo al
quartiere, mutilato dei quattro capitoli conclusivi e di alcune parti, ma mantenendo
intatte le note iniziali firmate da Ungaretti.
Il radicalismo del suo pensiero antiborghese, i suoi appelli ai proclami
mussoliniani della prima ora e allo squadrismo, il suo perenne farsi alfiere dell'«arte
del tempo nostro», rimuginando un dibattito morto prima di cominciare, dimostrano
solo una straordinaria ed ingenua fiducia nel fascismo e nella figura del Duce, visto
come l'unico uomo in grado di riscattare l'Italia dal dominio capitalista che la tiene in
scacco, ma non possono che essere invisi ad un regime che ora punta soprattutto al
mantenimento dell'ordine.
12 Marcello Gallian, Tradimento, in «Quadrante», n. 1, 1933, pp. 3-4.
12
Dopo questi due sostanziali insuccessi, dopo essere giunto al culmine della
sua parabola ascendente, inizia per Gallian un rapido declino. Cessa la
collaborazione col «Corriere della Sera» e si fa più tiepida la critica nei suoi
confronti, nonostante non manchi chi mostra di apprezzarne le qualità, come Emilio
Cecchi e Enrico Falqui. La cosa paradossale è che i critici che più lo apprezzano
sono, nell'ambito della contemporanea polemica tra “contenutisti” e “calligrafi”,
decisamente schierati per i secondi; apprezzano in Gallian la misura della prosa
d'arte, dei «brandelli di romanzo»13, mentre per Gallian il bello scrivere non ha
alcuna importanza: ciò che ha importanza è il messaggio rivoluzionario. Tra i pochi
ad apprezzare proprio questo aspetto del suo scrivere è da segnalare il giovane
Romano Bilenchi.
1.4 La condanna del regime al «letterato squadrista»
A questo punto della sua carriera, quando l'isolamento si fa sempre più forte,
la sua produzione diventa a dir poco torrenziale: si è fatta forte in lui l'illusione che
gli sia toccata la missione di creare un'arte fascista, capace di rappresentare le
tensioni antiborghesi dei giovani. Nel 1936 inizia la trilogia di cui fanno parte Tre
generazioni, Combatteva un uomo (1939) e Gente di squadra (uscito nel 1941 con
titolo voluto dalla censura al posto dell'originale Come siamo disperati..., poi
divenuto Quando siamo abbandonati), in cui i toni grotteschi e deformanti nei
confronti dei costumi e della morale comune si spingono all'eccesso e alla
ridondanza. Gallian giunge perfino, piombando nel più cupo pessimismo, a
riconoscere, in Gente di squadra, la triste realtà del fascismo, in cui a comandare
sono imprenditori e approfittatori.
Nella seconda metà degli anni trenta escono anche tre interessanti raccolte di
racconti: Racconti per la gente (1936), Quasi a metà della vita (che raccoglie anche
le pagine migliori dell'esperienza “novecentista”) e Racconti fascisti (1937). Escono
ancora Dopoguerra e Il monumento personale (1937) e la prima parte di una seconda
progettata trilogia di romanzi intitolata Nostro impero quotidiano: Tenebra solare
13 Il Tarlo [Emilio Cecchi], Gallian, in «Omnibus», 19 giugno 1937, p. 7.
13
(1939). I due testi successivi che, come segnalato nella prefazione a Tenebra solare,
avrebbero dovuto intitolarsi Matusalemme di vent'anni e Dopodomani, non saranno
mai realizzati.
La sua pubblicazione più inopportuna agli occhi del regime è, però, un
memoriale, intitolato Il Ventennale. Gli uomini delle squadre nella rivoluzione delle
camicie nere, pubblicato nel 1941 per ricordare e celebrare i vent'anni dello
squadrismo, con tanto di materiale fotografico: un anacronismo imperdonabile se è
vero che poco dopo, allorquando Gallian decide di chiedere disperato al Duce «il
posto che merito per i miei libri», il capo di gabinetto del Ministero della Cultura
Popolare, Celso Luciano, ne approfitta per ricordare a Mussolini le sovvenzioni che
Gallian aveva già fino ad allora ricevuto14. Gallian continua ancora, ostinato e
ingenuo, a considerare Mussolini come una sorta di eroe in ostaggio della borghesia
capitalista, un insostituibile modello ideologico e umano.
Nel 1943, a quarantun anni, rifiuta di aderire alla Repubblica di Salò e rimane
nella capitale con la moglie Giuseppina e la famiglia, divenuta ormai numerosa15.
Nello stesso anno esce il suo ultimo romanzo in volume, Alba senza denaro, in cui il
protagonista, Svetonio Morfiotto, insegue la disperata e primitiva utopia di un mondo
senza denaro, ispirato ad un ideale di vita francescana: un sogno da anarchico ribelle
preda dell'angoscia e della solitudine che è anche il sogno di Gallian.
Tra il 1936 e il 1940 pubblica numerosi racconti, drammi e scritti polemici su
riviste come «Quadrivio», «Ottobre», «Meridiano di Roma», «Valori primordiali»,
«Letteratura»; le rare poesie escono invece su «Poeti d'oggi», a cura di Fidia
Gambetti. Dal 1940, fino alla fine della guerra le pubblicazioni si fanno, al contrario,
piuttosto rare: diverse opere realizzate a partire da questo periodo sono tutt'ora
inedite.
1.5 Il dopoguerra
14 Non va dimenticato, infatti, che Gallian continuerà a percepire fino agli anni '40, dal Ministero della Cultura Popolare, un assegno mensile di tremila lire, oltre a varie sovvenzioni straordinarie. Cfr. Paolo Buchignani, Marcello Gallia..., cit., pp. 68-69.
15 Gallian nel 1936 aveva già quattro figli. Ne avrà in tutto sei.
14
Dopo la seconda guerra mondiale le collaborazioni a quotidiani e periodici
riprendono, ma sono sporadiche (il periodo tra l'armistizio e la fine della guerra
segna un silenzio totale), le pubblicazioni in volume si esauriscono quasi
completamente. Le rare eccezioni riguardano alcuni volumi di critica d'arte negli
anni quaranta e il dramma La casa di Lazzaro insieme con Museo da camera nel
1956, dei quali il primo era già edito, come ricordato sopra, su «900».
Gallian è costretto, perciò, ai lavori più disparati per guadagnarsi da vivere:
da scrivere sotto falso nome (anche su quotidiani di sinistra come «Paese sera»16) a
vendere sigarette davanti alla Stazione Termini di Roma. Scrive col proprio nome su
«Momento sera», «La Fiera letteraria» (che ospita il lungo racconto romanzato delle
sue vicissitudini durante e subito dopo la guerra)17 e «La Capitale».
La testata che ospita gli articoli più interessanti dell'ultimo Gallian è «Il
Pensiero nazionale», la rivista di ex-fascisti passati a posizioni radicali (contro l'MSI)
diretta da Stanis Ruinas, dove Gallian pubblica Archivio segreto. Tragedia senza
sangue della letteratura italiana18 e A proposito di letteratura19. Si tratta di alcune
lettere del proprio carteggio con Ungaretti, Montale e Falqui in virtù delle quali, i
primi sono accusati di opportunismo, per avergli chiesto di intercedere per loro in un
momento in cui la sua influenza presso il Ministero di Stampa e Propaganda e presso
il Duce era notevole, il secondo di averlo dimenticato e, soprattutto di essere stato
solo un opportunista durante il regime20.
Negli anni '50 dedica molte forze all'attività teatrale. Partecipa nel '56 al
Premio Riccione per il Teatro con due testi, Come si fa a vivere e Battesimo di un
negro, e viene segnalato dalla giuria, pur non vincendo. Tra i giurati figura il vecchio
16 Giampiero Mughini, nella sua biografia di Telesio Interlandi, dedica un capitolo a Gallian e riporta lo pseudonimo di Mario Scalzi, col quale avrebbe scritto su «Paese sera». Cfr. Giampiero Mughini, A via della Mercede c'era un razzista, Milano, Rizzoli, 1990, p. 105.
17 Marcello Gallian, La miseria, otto puntate in «La Fiera letteraria», dall'8 agosto al 10 ottobre 1946.
18 Marcello Gallian, Archivio segreto. Tragedia senza sangue della letteratura italiana, in «Il Pensiero nazionale», n. 8, 1959, pp. 22-23 e n. 9, 1959, pp. 26-27.
19 Marcello Gallian, A proposito di letteratura, in «Il Pensiero nazionale», n. 12, 1959, pp. 30-31 e n. 14, 1959, pp. 24-25.
20 L'acrimonia verso Falqui, uno tra i pochi a ricordare ancora Gallian nel dopoguerra, è forse motivata dal fatto che promise, senza poi mantenere la parola data, di pubblicare una antologia degli scritti migliori dell'autore romano. Su tutta la questione cfr. Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., pp. 109-134.
15
amico Anton Giulio Bragaglia21. Mette in scena nel 1957 Un incidente al vulcano e il
già citato Come si fa a vivere. Nel 1958 elabora il progetto della Prima Mostra
Nazionale del Teatro Italiano, che non può avere luogo per mancanza di fondi
ministeriali. Per lo stesso motivo naufraga il progetto di fondare un Autonomo Teatro
delle Caverne, annunciato in una lettera del 1962 a Fausto Coen, suo amico e
direttore di «Paese sera», contro il teatro contemporaneo, a suo avviso, burocratico e
clientelare, memore del «sotterraneo glorioso» degli Indipendenti:
Il mio teatro bandirà la luce elettrica […], le fatidiche prime teatrali di modaed eleganza soltanto, e quel sapore di mestieraccio ben retribuito che spalancala bocca della più parte degli attori correnti. [...]22
Gallian muore il 21 gennaio 1968 a Roma, dopo aver avuto come attività
artistica principale negli ultimi anni quella di pittore, realizzando anche alcune
mostre personali negli anni '6023.
Come si può notare da questa breve biografia, la sua produzione letteraria è,
almeno fino ai primi anni '40, eccezionale, e sarebbe ancora più ricca se l'ostracismo
del dopoguerra non gli avesse impedito di pubblicare le sue opere, peraltro ancora
numerose. Già colpito dalla censura fascista, a partire dal 1930, per la sua scomodità
di ribelle anarchico, di irruducibile rivoluzionario, non si libererà più dell'etichetta di
fascista, pur non avendo mai preso posizioni nostalgiche nel dopoguerra, ed anzi
essendosi avvicinato, specie negli anni cinquanta, a posizioni radicali localizzabili
nell'area dell'estrema sinistra. Non a caso chi lo aiutò in questo periodo faceva parte
di ambienti tutt'altro che di destra: tra questi ad esempio Fausto Coen, il già citato
direttore di «Paese sera», e lo scrittore comunista Felice Chilanti.
21 Cfr. il verbale della giuria riportato in Il destino della scena. La drammaturgia italiana e il premio Riccione, a cura di Sergio Colomba, Bologna, Grafis Edizioni, 1990, pp. 113-114.
22 La lettera di Gallian a Coen è riportata da Paolo Buchignani in Marcello Gallian..., cit., pp. 128-129.
23 Molte opere sono state esposte alla Biblioteca Universitaria di Pavia, in occasione della mostra documentaria Ribellione e avanguardia fra le due guerre. I libri e le carte di Marcello Gallian curata da Nicoletta Trotta, parallela al primo convegno di studi su Gallian intitolato L'avanguardia radicale di Marcello Gallian, tenutosi a Pavia il 17 e 18 dicembre 2008. Gli atti del convegno, a differenza del catalogo della mostra, non sono stati pubblicati, con l'unica eccezione dell'intervento di Silvana Cirillo, L'espressionismo tragicomico di Gallian. In fondo al quartiere, in «Reti di Dedalus», estate 2009, www.retididedalus.it.
16
1.6 La collaborazione a «900»
I racconti presi in considerazione quali argomento di questa tesi si riferiscono
alla collaborazione di Marcello Gallian alla rivista «900», fondata da Curzio
Malaparte e Massimo Bontempelli nel 1926.
Dopo l'annuncio, dato da Bontempelli, di voler creare una nuova rivista
letteraria in lingua francese e proiettata verso l'Europa, molte sono le polemiche. In
realtà, Bontempelli precisa da subito che non ha alcuna intenzione di mostrare
sudditanza nei confronti delle letterature straniere, ma propone di esportare, grazie
all'uso di una lingua più comune la nuova letteraura italiana. La proposta che avanza
è di rinnovare il panorama narrativo italiano prendendo spunto dall'architettura
razionalista, proponendo, cioè, una figura di scrittore «funzionale»: un ideatore di
storie, di miti, di personaggi che vadano a colpire l'immaginario collettivo. La
formula con cui riassume il proprio movimento è quella di «realismo magico»,
ovverossia, tramite l'immaginazione, «raccontare il sogno come se fosse realtà, e la
realtà come se fosse un sogno»24.
La prima serie della rivista è redatta completamente in francese col sottotitolo
di «Cahiers d'Italie et d'Europe», ha cadenza trimestrale e reca la dicitura «chaque
saison un cahier». Il primo numero esce nell'autunno del 1926. Il comitato di
redazione internazionale è diretto da Massimo Bontempelli ed è formato da Ramón
Gómez de la Serna, James Joyce, George Kaiser, Pierre Mac Orlan. Nella primavera
del 1927 si aggiunge Ilja Ehrenburg. A partire dal secondo numero, sono segnalati i
segretari di redazione: «À Rome, Corrado Alvaro, à Paris, Nino Frank». L'ultimo
numero a cadenza trimestrale è il «Cahier d'automne», n. 5 del 1927. Il n. 5 è anche
l'unico pubblicato in doppia edizione italiana e francese, in conseguenza dell'obbligo
dell'uso dell'italiano imposto dal regime. Poco prima dell'uscota di questo numero,
Malaparte ha abbandonato la redazione per lo scontro polemico tra “Strapaese” e
“Stracittà”, passando a scrivere sulle colonne di «Il Selvaggio». Dopo il quinto
fascicolo, «900» sospende le pubblicazioni, passa dalle Edizioni della Voce alle
edizioni Sapientia e riprende a pubblicare con cadenza mensile dal I luglio 1928, in
24 Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 19742, p. 161.
17
italiano, senza comitato internazionale e sotto la direzione del solo Bontempelli. Il
nuovo segretario di redazione è Gian Gaspare Napolitano. Ne escono sei numeri da
luglio al dicembre 1928 e sei numeri da gennaio a giugno (non più il I ma il 21 di
ogni mese) 1929, dopo i quali «900» cessa definitivamente le pubblicazioni.
Marcello Gallian comincia a collaborare a «900» nel n. 3, «Cahier de
printemps», del 1927 e continua fino all'ultimo numero, il 6 del giugno 192925. I suoi
scritti comprendono sei racconti, quattro articoli usciti nella sezione «Cronache», due
nella sezione «Carovana Immobile» e un dramma in tre parti. Do di seguito le
coordinate bibliografiche in ordine cronologico, una breve indicazione della tipologia
dello scritto e della sezione della rivista in cui compare. Segnalo inoltre eventuali
ripubblicazioni.
Reine des bambins, n. 3, «Cahier de printemps», 1927, pp. 127-133 (racconto
tradotto in francese da Emmanuele Audisio. L'originale italiano, La regina dei
pargoli della città, è in Nascita di un figlio ed altri scritti, prefazione di Massimo
Bontempelli, Roma, Atlas, 1929. Poi Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del
Grifo, 1990, pp. 27-32);
Vita del barone povero, n. 5, «Quaderno d'autunno», 1927, pp. 76-86
(racconto, uscito anche nell'edizione francese, col titolo di Vie du baron pauvre,
tradotto da Emmanuele Audisio. Ripubblicato in Antologia della rivista «900», a cura
di Enrico Falqui, Lucugnano, Edizioni dell'Albero, 1958, pp. 129-138);
Cronaca nera. Gli scomparsi, n. 1, 1 luglio 1928, pp. 42-44 (compare nella
sezione «Cronache», ma si tratta di un breve racconto);
Gli abitatori della piazza grande, n. 2, 1 agosto 1928, pp. 50-57 (racconto,
poi col titolo di Gli abitanti della piazza grande e con alcune varianti, in Nascita di
un figlio..., cit., pp. 12-25 dell'edizione Editori del Grifo, e, sempre col nuovo titolo e
le stesse varianti, in Quasi a metà della vita. Molto più che un romanzo, Firenze,
25 Il primo indice completo per autore della rivista è in appendice a Enrico Falqui, Antologia della rivista «900», Lucugnano, Edizioni dell'Albero, 1958. Più esaustivo quello in ordine cronologico che compare in appendice alla monografia di Antonio Saccone, Massimo Bontempelli: il mito del '900, Napoli, Liguori, 1979, pp. 157-167. L'indice è ora disponibile anche on-line al sito circe.lett.unitn.it.
18
Vallecchi, 1937, pp. 67-84.);
Rione San Lorenzo, n. 3, 1 settembre 1928, pp. 136-138 (compare nella
sezione «Cronache»; si tratta della descrizione di un quartiere di Roma, che ha la
struttura e i toni di un breve racconto);
La Madonna dei mercati, n. 4, 1 ottobre 1928, pp. 162-168 (racconto, poi
ripubblicato in Quasi a metà della vita..., cit., pp. 51-65);
Battesimo in famiglia, n. 5, 1 novembre 1928, pp. 229-231 (breve racconto
compreso nella sezione «Cronache»);
Spettacolo, n. 6, 1 dicembre 1928, pp. 273-275 (incluso nella sezione
«Cronache», è una cronaca teatrale dell'anno appena trascorso);
Processione, n. 1, 21 gennaio 1929, pp. 8-14 (racconto, poi ripubblicato, com
alcune varianti, in Quasi a metà della vita..., cit., pp. 85-96);
Io e la donna fatale, n. 1, 21 gennaio 1929, pp. 41-42 (nella sezione
«Cronache», dichiarazione autocritica di poetica riferita al romanzo appena
pubblicato La donna fatale, Milano, Corbaccio, 1929);
La casa di Lazzaro, n. 2, 21 febbraio 1929, pp. 42-57 (dramma in quattro
quadri; in questo numero compare il primo);
La casa di Lazzaro, n. 3, 21 marzo 1929, pp. 131-139 (secondo quadro del
dramma);
La casa di Lazzaro, n. 4, 21 aprile 1929, pp. 166-173 (terzo e quarto quadro
del dramma);
Due pezzi (Sogno di Roma. Comando tappa.), n. 4, 21 aprile 1929, pp. 175-
178 (due testi, il primo di carattere giornalistico-polemico, il secondo narrativo-
autobiografico, comparsi nella «Carovana Immobile» intitolata Novecentisti in giro
per Roma. Sogno di Roma è ripubblicato in Antologia della rivista «900», cit., pp.
229-231);
La madre stanca, n. 6, 21 giugno 1929, pp. 244-248 (racconto).
19
Secondo Capitolo
Temi e forme dei testi «novecentisti»
2.1 Gallian e «900»: Bontempelli, il surrealismo, l'espressionismo
Bontempelli si può considerare lo scopritore di Gallian, il primo critico e
scrittore affermato che gli dà credito e valore, chiamandolo a partecipare alla nuova
esperienza letteraria intitolata al «900», dopo averne conosciuto le primissime prove.
Nel 1926, l'interesse di Bontempelli è quello di coinvolgere i giovani scrittori in una
nuova prospettiva di creazione artistica che superi le tradizionali concezioni della
letteratura per letterati, che punti alla creazione di nuovi «miti», di nuove storie da
raccontare per un pubblico collettivo da riconquistare attraverso la poetica che egli,
su suggestione di Nino Frank, definisce «realismo magico». «Realismo magico» che
Bontempelli dichiara per la prima volta compiuto nei pittori del Quattrocento
(Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca), nella cui opera convivono «precisione
realistica e atmosfera magica», ovvero interpretazione magica di una realtà
quotidiana svolta con lucido stupore1. Nell'arte, la ragione, dunque, viene posta a
guida di un meccanismo che, attraverso la descrizione di fatti reali, quotidiani, sfocia
in una situazione magica grazie all'uso dell'immaginazione, la quale, però,
distinguendosi dalla libertà assoluta propria della fantasia, è tenuta a freno dalle
briglie della lucidità. È opportuno citare le parole di Bontempelli a proposito del
surrealismo, al quale è attentissimo, ma verso cui è decisamente critico:
Ho apprezzato le prime teoriche surrealiste (non le attuazioni) perché esse cihanno insegnato a vedere surrealisticamente anche la pittura del passato. […] E posso similmente accettare il surrealismo in quanto s'intenda che l'arte consista non nel darci il surreale puro (che non vuol dir niente) ma nello
1 Cfr. Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 19742.. Sull'arte del Quattrocento cfr. p. 21-22.
21
scoprire ed indicare il surreale nel reale.2
Sono parole del 1935, quando ormai l'avventura di «900» si è consumata, e
Bontempelli può esprimere le proprie riserve sugli aspetti meno apprezzati di quella
stessa avanguardia che certo gli è di grande ispirazione quando scrive nel 1926:
«unico strumento del nostro lavoro sarà l'immaginazione»3, memore delle prime
pagine del manifesto bretoniano del 1924. Ricordiamo che sulle colonne di «900»
scrivono esponenti di primo piano del surrealismo francese come Philippe Soupault,
Blaise Cendrars, George Ribemont–Dessaignes, anche se Breton non approva la
collaborazione dei surrealisti a una rivista dichiaratamente fascista. Bontempelli, dal
canto suo, si guarda dal pubblicare articoli espliciti sul surrealismo e sull'opera di
Breton: la sua concezione della narrativa e dell'arte è interessata alle innovative
teorie sull'immaginazione, ma è quanto mai lontana dai processi di scrittura
automatica. Soprattutto rifugge dalle teorie freudiane sulla psicanalisi, che
alimentano la poetica surrealista. Abbiamo già visto quanto scrive nel '35 sul
«surreale puro», riporto ora le sue eloquenti parole sulla psicanalisi comparse nel
fondamentale articolo Spazio e tempo del 1928:
Il freudismo […] respinge sempre più l'individuo verso gli abissi interiori, glinega ogni contatto non pure con un mondo all'infuori di lui, ma anche con lapropria coscienza, e fa dell'umanità una dispersione di larve vaganti dietro lepallide spinte di frammenti di immagini di sogni.4
Il discorso sul surrealismo cambia per quanto riguarda Gallian: osserveremo più
avanti alcuni procedimenti di costruzione narrativa improntati ad un esasperato
analogismo che sicuramente non ignorano la lezione della scrittura automatica,
seppur in una logica personale mai assimilabile del tutto all'avanguardia francese.
Al di là delle influenze europee, «900» vuole esser soprattutto un trampolino
di lancio per una nuova narrativa italiana5 che apra il nuovo secolo spazzando via i
2 Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, cit., p. 320. Corsivo d'autore.3 Ivi, p. 9.4 Ivi, p.27.5 Così si esprime Bontempelli: «Noi, nel momento stesso che ci sforziamo di essere degli europei, ci
sentiamo perdutamente romani», ivi, p. 12. Corsivo d'autore.
22
residui della letteratura ottocentesca e tardoverista. Non più psicologismo,
naturalismo, estetismo, ma una scrittura «funzionale» che impari dalla nuova
architettura razionalista a «edificare senza aggettivi, scrivere a pareti lisce»6, una
scrittura che prima di tutto sia un onesto mestiere. Bontempelli considera il banco di
prova per eccellenza della letteratura la terza pagina, la scrittura quotidiana, che deve
essere coinvolgente per un pubblico vasto, un pubblico da dirigere ed influenzare,
senza assecondarlo. In questa esaltazione del giornalismo come professione letteraria
d'eccellenza è, a mio parere, da ravvisare una forte analogia tra Gallian e
Bontempelli. Vale a dire che per entrambi la scrittura deve essere una pratica
quotidiana ed un mestiere, entrambi rifiutano l'idea del capolavoro per letterati,
puntando alla continuità di una produzione letteraria fatta per i contemporanei e non
per i posteri, che si nutra del contemporaneo e non rimugini la tradizione. Va certo
distinta la finalità: se Bontempelli mira alla diffusione della cultura del nuovo secolo,
Gallian ne fa uno strumento di rivoluzione, di potente influenza sulla realtà sociale e
politica. Se per Bontempelli la scrittura è fine a sé stessa, per Gallian l'arte è e resta
uno strumento di polemica ideologica. Questo è anche il motivo per cui l'esperienza
novecentista di Gallian e di altri giovani autori non si esaurisce con «900» ma sfocia
nelle testate d'avanguardia «I Lupi», «L'Interplanetario» e «2000»: testate che
vogliono allontanarsi dai “limiti” borghesi del loro indiscusso maestro, in direzione
della palingenesi fascista affiancata dagli artisti d'avanguardia. Questo motiva anche
differenti rapporti nei confronti dell'avanguardia italiana per eccellenza: il futurismo.
Per Bontempelli (per cui questa è soprattutto l'abiura di un'esperienza giovanile) il
futurismo è servito solo a concludere l'«epoca romantica» e a consentire di iniziare il
nuovo secolo; per Gallian – come per i “lupi” Napolitano e Bizzarri e altri giovani
orbitanti attorno al fenomeno del «novecentismo» – esso ha invece insegnato a
costruire attraverso l'arte un messaggio rivoluzionario, ma, avendo esaurito la sua
funzione appiattendosi sulla celebrazione del fascismo, deve essere sostituito da un
movimento d'avanguardia nuovo che dia voce alla richiesta di realizzare la definitiva
sconfitta della borghesia che Mussolini aveva promesso7.
6 Massimo Bontempelli, L'avventura..., cit., p. 77.7 Sul rapporto tra «novecentismo» e avanguardia vedi Giancarlo Quiriconi, Il cruciale 1927:
Aniante e dintorni fra «900» e avanguardia, in «Il Ponte», n. 2, 1983, pp. 200-212 .
23
Quanto detto apre all'interrogativo più importante riguardo alla produzione
giovanile di Gallian, cioè come sia possibile conciliare gli esperimenti
bontempelliani di narrativa lucida, di razionale magismo, di dominio sul reale
attraverso l'intelletto con la vulcanica, arruffata, visionaria scrittura del Nostro. Quali
possono essere i punti di contatto tra due esperienze dagli esiti così differenti? Una
risposta definitiva è difficile da dare. Bisogna considerare come dato di partenza la
grande apertura che Bontempelli dimostra nei confronti dei suoi giovani
collaboratori, essendo ben cosciente che le proprie teoriche restrittive sul fine e sui
mezzi della letteratura si prestano ad essere ignorate o travisate, lungi dal poter
essere prescrittive. Bontempelli ribadisce sempre con forza di non aver mai creato
una «scuola» o una «corrente», ma solo un sodalizio di voci differenti per la
letteratura del nuovo secolo8.
Pur contravvenendo alla teoria della scrittura «funzionale», della creazione di
storie senza eccessi di aggettivazione, possiamo dire che Gallian aderisce con modi
propri al cosiddetto «realismo magico»: la deviazione verso il fantastico e il
visionario avviene di preferenza, nei suoi racconti pubblicati su «900», da un dato di
partenza realistico, da una situazione plausibile. Cito in proposito le parole di
Arnaldo Bocelli, il più profondo tra i critici suoi contemporanei, che osserva tra le
sue qualità:
la sua singolare facoltà di trasportare l'osservazione minuta, realistica della vita in un'aura fiabesca e incantata, dove, venuti a mancare ogni connessione o successione logica, ogni riferimento temporale o spaziale, ogni legge diverisimiglianza, le persone e le cose assumono naturalmente valore di tipi e di simboli.9
Se la narrazione evolve grazie a meccanismi iperbolici, a descrizioni di particolari
che crescono con ipertrofia barocca fino ad occupare pagine intere, è pur vero che le
reali accensioni di tipo onirico sono circoscritte e inserite come scarto riconoscibile
in un contesto comunque realistico. Più che di fantastico o surreale vero e proprio,
parleremo più spesso di situazioni paradossali, che nei racconti meglio strutturati
8 Cfr. in proposito la polemica di Massimo Bontempelli con Giovanni Battista Angioletti, Il Novecentismo è vivo o è morto?, in «L'Italia letteraria», 16 novembre 1930, p. 3 e Riassunto, in L'avventura..., cit., pp. 348-353.
9 Arnaldo Bocelli, Romanzi di Gallian, in «L'Italia letteraria», n. 48, 29 novembre 1931, p.8.
24
nascondono, però, un'intenzione più o meno scopertamente ideologica che si
configurerà sotto forma di elementare allegoria, ovvero di messaggio intenzionale
inserito al fondo di un racconto pieno, traboccante di parole e di immagini. Se la
gratuità di certe forme lo fa sospettare – anche se spesso a ragione – di incoerenza,
dobbiamo fare nostre ancora una volta le parole di Bocelli, secondo cui «quelle
analogie improvvise» in realtà «sono l'espressione adeguata di quel mondo e di
quello stato d'animo»10.
Fermarsi alle ragioni esteriori di questo modo di scrivere significa ignorarne i
contenuti: si rende invece necessaria un'analisi che approfondisca il modo di
costruire le trame e di coniugare tematiche e stile. Certo, non si vuole negare che la
descrizione preponderi sulla narrazione e che il messaggio che pare trapelare dai
racconti sia sempre e comunque un messaggio ambiguo, né che l'esuberanza lessicale
sia il fatto letterariamente più interessante di questi racconti, ma limitarsi a compiere
un regesto di stilemi o un repertorio di figure in un autore convinto come Gallian che
la letteratura sia principalmente uno strumento di comunicazione, significa
perpetuare uno storico pregiudizio critico: quello che lo vede arricchire le fila dei
cosiddetti “calligrafi”. Seguendo una strada che, per quanto riguarda i racconti, è
stata aperta dallo studio di Pietro Luxardo Franchi11, occorre considerare i modi in
cui le costanti tematiche sostanziano le sue scelte di stile. Soprattutto cercherò di
evidenziare la continuità tra contenuto e forma, mostrando come la trasfigurazione
che le sue scelte verbali operano sia necessaria alla resa di una visione personale, non
mancando, certo, di sottolineare quando la gratuità di alcuni forzati analogismi e di
molti elenchi sterminati di oggetti è palese.
Quello che si vuole qui dimostrare è che in questi racconti, quelli di «900», il
messaggio ideologico che nei romanzi successivi sarà palese e ne appesantirà (e in
taluni casi sfalderà) la costruzione diegetica, è comunque presente, ma influenzato,
condizionato, reso ambiguo e perciò più interessante, anche se in alcuni casi nascosto
o inerte, dall'apertura alle innovative influenze acquisite dalla familiarità con
10 Arnaldo Bocelli, Romanzi..., cit., p. 8.11 Pietro Luxardo Franchi, Marcello Gallian, in «Studi novecenteschi», n. 38, 1989, pp. 207-264, poi
con titolo Novecentismo visionario nella scrittura di Marcello Gallian, in L'altra faccia degli anni trenta, Padova, CLEUP, 1991, pp. 111-171. Le citazioni sono da quest'ultima edizione.
25
l'atmosfera della rivista.
Oltre al surrealismo occorrerà citare, tra le influenze artistiche del giovane
Gallian l'esperienza europea dell'espressionismo. Dalla sua nascita in Germania
aveva già attraversato l'Italia coinvolgendo poeti come Camillo Sbarbaro, Clemente
Rebora e Dino Campana. Soprattutto in quest'ultimo, nel poeta dei Canti orfici,
possiamo riconoscere le stesse tinte forti di Gallian, uno sguardo similmente
allucinato nei confronti di una realtà sordida e degradata, gli stessi slanci visionari.
Oltre e più che all'espressionismo letterario di Döblin o di Benn, queste immagini ci
riportano all'espressionismo pittorico di George Grosz o di Otto Dix, alla loro grande
forza caricaturale e polemica nei confronti della borghesia tedesca, che si traduce in
un ingrandimento del dettaglio repellente: un gioco prospettico che costituisce una
delle cifre più significative di questa poetica e che riscontriamo anche nella prosa
dell'autore romano. Sintetizzando all'estremo e forzando forse la lettura, possiamo
ipotizzare che partendo dalla formula, di per sé vaga, di «realismo magico», la
scrittura di Gallian sia descrivibile sostituendo la parola “realismo” con
“espressionismo” e la parola “magico” con “surreale”, intendendo con
“espressionismo” proprio la sua carica realistica che si configura come ipertrofia del
particolare, più o meno macabro, e con “surreale” la trasfigurazione che, partendo dal
dato reale, lo trasporta attraverso l'analogia in una dimensione onirica.
2.2 Analisi tematica
Una lettura dei racconti di Marcello Gallian rischia, come accennato, di
limitarsi alla superficie del suo «delirio barocco»12 (Contini), senza riuscire a
superare le storiche tautologie che la critica ha prodotto in questo senso. In realtà, la
sua esuberanza verbale è parallela ad un'idea della natura e della vita come fatti
violenti, retti da logiche aggressive, in perpetua tensione, non vincolati da altre leggi
se non quella della sopravvivenza, ma non per questo intese in senso negativo. Anzi,
la violenza fisica costituisce una forma di socialità e il contrasto è una logica di
convivenza; l'anelito all'uguaglianza sociale ed al riscatto delle frange deboli della
12 Gianfranco Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Firenze, Sansoni-Accademia, 1974, p. 362.
26
società convive con la descrizione della forza come strumento di rivoluzione sociale.
Ciò che viene messo in cattiva luce è il sistema del compromesso messo in atto dalla
società borghese, ciò che si sostituisce alla forza umana e causa disparità e
disuguaglianze, contravvenendo alle leggi di natura.
La sua tendenza è quella di concentrare l'attenzione su due fronti: da una
parte si occupa delle necessità primordiali dell'uomo come animale; dall'altra della
vita cittadina in cui le fatuità borghesi (che spesso condannano i suoi eroi
all'emarginazione e al vagabondaggio) si contrappongono alla libertà dell'individuo e
della folla, la quale libertà si configura di preferenza come violenza gioiosa,
necessaria sopraffazione, allegro sadismo. Questi aspetti sono analizzati nei quattro
paragrafi seguenti che costruiscono altrettanti percorsi, nella convinzione che si
possa leggere questa narrativa «novecentista» alla luce di quattro costanti macro-
tematiche: la nascita, l'ingresso rituale nella vita e la genitorialità; la violenza e la
morte; il viaggio inteso come vagabondaggio; la natura allegra, carnevalesca e sadica
della folla paesana contrapposta alla vita borghese e cittadina.
Preliminarmente alla lettura tematica è da sottolineare che l'uso del termine
“costante tematica” non deve indurre nell'equivoco che vi sia una ideologia sempre
palese e univoca. Anzi, ogni racconto scatena ambiguità spesso irrisolte e forse
irrisolvibili. Questo accade sia perché le componenti cristiane, fasciste, anarchiche e
dannunziane del pensiero gallianiano sono tutt'altro che pacificate tra loro, sia per il
modo in cui la narrazione è costruita. Infatti, alla frequentissima sintassi paratattica,
si accosta una “paratassi diegetica”, se così si può dire, che instaura un meccanismo
di giustapposizione di scene, di inquadrature differenti il cui legame logico, che
dovrebbe reggerne la consequenzialità, è tutt'altro che forte. Ad indebolirlo concorre
certamente un singolare uso del lessico: si ha talvolta l'impressione che alcune scelte
verbali abbiano un gratuito intento ritmico, creando quello che Luxardo Franchi
definisce, appunto, «ritmo ternario nell'aggettivazione»13. Pare che il significante
preponderi sul significato rendendo le frequenti coppie o terne di aggettivi veri e
propri cortocircuiti, rompicapi semantici14. La misura breve del racconto garantisce,
13 Pietro Luxardo Franchi, Novecentismo visionario..., cit., p. 153.14 Cfr. Carlo D'Alessio: «Gallian […] si serve di una scrittura fosforica e allucinata, in cui, e questo è
27
in ogni caso, una maggiore unità e coerenza nella narrazione rispetto a quanto
avviene nei romanzi, dove la dispersione che nasce dalla sequenza di scene, episodi e
digressioni è massima.
2.2.1 Il tema della nascita e dell'ingresso nella vita
Moltissime pagine di Gallian, anche oltre i pochi testi qui presi in
considerazione, sono ispirate dalla riproduzione, dall'atto della nascita, che si
configura come momento magico di ingresso nella vita. L'aspetto che la nascita
assume è generalmente quello di un rituale, di un momento estatico in cui il tempo si
ferma e lo sguardo si fa meravigliato di fronte al prodigio o al pensiero del parto. Il
caso più frequente è che ci vengano presentate coppie in procinto di avere un
bambino nelle quali i personaggi maschili sono animati da un insopprimibile
desiderio di paternità. Addirittura il rapporto tra l'uomo e la donna appare immotivato
al di fuori delle ragioni della riproduzione e, inoltre, lo sguardo rivolto alla donna
mostra sempre l'invidia verso colei che può compiere il prodigio di creare un
«Uomo».
Questa concezione si rivela una costante di Gallian: uno dei suoi racconti più
equilibrati, risalente al 1929 e intitolato emblematicamente Nascita di un figlio15,
descrive le sensazioni allucinate e le paure di un padre nel momento della nascita del
proprio figlio; la stessa immobilità allucinata e stupita tornerà nel racconto più tardo
– entrambi sono raccolti in Quasi a metà della vita, del 1937 – Ricordi: mutato in
cavallo16, in cui il protagonista, trasformato in un cavallo, appunto, assiste alla
nascita del figlio. A proposito di questa sorta di ossessione della paternità e della
riproduzione non sarà superfluo ricordare che Gallian, autore per il quale la distanza
tra lo scrittore e l'uomo tende ad annullarsi, ebbe sei figli dalla moglie Giuseppina e
il suo pregio e il suo limite, il barocchismo stilistico, specie nei racconti, prende il sopravvento, facendo esplodere dall'interno il meccanismo letterario». Da Marcello Gallian: un espressionista in nero, in «Critica letteraria», n. 2, 1994, pp. 377-390, cit. da p. 379.
15 Marcello Gallian, Nascita di un figlio, in «A e Z», 10 gennaio 1929, p. 3, poi in Nascita di un figlio ed altri scritti, Roma, Atlas, 1929. Ora in Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del Grifo, 1990. Incluso anche in Quasi a metà della vita. Molto più che un romanzo, Firenze, Vallecchi, 1937.
16 Marcello Gallian, Ricordi: mutato in cavallo, in Quasi a metà della vita..., cit.
28
già nella parzialmente autobiografica prefazione al citato Quasi a metà della vita
dichiara «da tanto tempo desidero cento figli, tutti nati da mia moglie […]. Cento
figli, da portare a passeggio uno dietro l'altro»17. A riprova di ciò segnalo che lo
stesso Nascita di un figlio viene scritto proprio in occasione della nascita del suo
primogenito. Non va dimenticata, infine, la sua profonda e viscerale adesione ad un
cristianesimo primitivo, evangelico, inteso all'osservanza dell'ordine naturale.
Il tema della nascita e del rapporto tra genitori e figli compare già nel primo
racconto pubblicato su «900», che s'intitola, in francese, Reine des bambins18, ma il
cui titolo originale è La regina dei pargoli della città. Sono qui narrati i primi mesi di
vita di una neonata «enorme», nata da due anziani genitori «bassi, indecisi e
trasparenti».
L'incipit ci cala immediatamente nella dimensione iperbolica della narrativa
di Gallian:
La figlia enorme aveva ridotto in povertà le mammelle più celebri delle balie del tempo, le quali passeggiavano tutto il giorno, dopo l'avvenimento, sotto i colonnati di San Pietro, decadute, secche e polverose.
Quella che notiamo è una fisicità esasperata la cui resa iperbolica serve a
circoscrivere il dato reale: il barocchismo del particolare qui sottostà ancora a
un'istanza realistica. Nel racconto non si parla in modo esteso di un parto prodigioso,
come nei casi sopra citati, anzi, il momento della nascita è espresso da una semplice
didascalia:
Un bel giorno i due vecchi fecero la figlia enorme.Avvenne così.
La narrazione è condotta in terza persona da un narratore esterno che mai rende noti
nomi dei protagonisti e si concentra – ed è quello che qui ci interessa – sul giorno del
17 Marcello Gallian, Quasi a metà della vita. Molto più che un romanzo, Firenze, Vallecchi, 1937, p. 28.
18 Marcello Gallian, Reine des bambins, in «900», n. 3, 1927, poi come La regina dei pargoli della città, in Nascita di un figlio ed altri scritti, Roma, Atlas, 1927. Ora in Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del Grifo, 1990, pp. 27-32. Le citazioni seguenti sono da quest'ultima edizione.
29
concepimento. Questo viene descritto come una sorta di rapimento magico: l'uomo,
dopo aver mangiato e bevuto in abbondanza in un giorno estivo, si sente male e
vorrebbe abbandonarsi ad un liberatorio bagno in una fontana. L'immaginario onirico
e fantastico, che osserveremo più avanti, comincia a farsi strada, ma ancora si tratta
di un uso metaforico piuttosto generico:
[…] si sarebbe voluto spogliare ed avrebbe voluto navigare nelle fontane cittadine, insieme alle sirene di marmo.
Nel fondo erano i consumati vestiti delle sirene: leggerissimi porticati di fili d'erba si partivano da un lato all'altro, attraverso l'acqua.
Era perfettamente vivo. Soltanto una voglia spaventosa di sentirsi l'acqua indosso.
Non appena uno schizzo d'acqua colpisce l'uomo e gli inonda il petto, egli sente il
desiderio di correre a casa per amare la sua donna, pensando «agli scultori che
riparano le statue». Il rapporto tra i due vecchi, consumato mentre l'uomo ancora
soffre dolori «allo stomaco, al naso, alla gola», viene descritto, appunto, come un
lavoro di scultura, il corpo vecchio della donna come un'opera da riplasmare. Da
questo rapporto si genera una figlia enorme: un parto sproporzionato che acquista
immediatamente i connotati di una vendetta. La grandezza della bambina la rende
superiore ai genitori e alle balie, che non possono fare altro che servirla. La sua
esuberanza fisica le consente di dominare sui suoi ridicoli genitori, cui è dato
l'aspetto di una grottesca coppia di clown:
andavano insieme da tempo immemorabile, come un numero da circo […].Lei con un cappellino patito ed un paralume da sole, tutto merletti e fronzoli,l'altro, sempre vestito di nero, le scarpe ammusonite. Con il cappellino, ilparalume e le scarpe si sarebbero potuti far giuochi diversi, sulle pubblichepiazze.
Il contrasto tra la vecchia generazione e la nuova si risolve a tutto favore della
seconda che con la sua esuberanza e violenza può esprimere anche tutta la propria
insoddisfazione attraverso un pianto liberatorio:
30
nella notte, si lamentava così forte che tutti i neonati delle case lontane lerispondevano.
tanto che nel finale del racconto il pianto sopraffa tutti i tentativi dei genitori di
divertire la «figlia enorme», che inesorabilmente resta indifferente ai «giuochi
infantili» del padre, elencati in una sequenza iterativa e anaforica dal tono
favolistico:
Il vecchio aveva veleggiato veleggiato tanto, su in alto, fino a trovare in unangolo del cielo tutti i palloncini fuggiti dalle mani dei bimbi […]: avevanavigato tutti i mari per far provvista di conchiglie […]; si era ridotto a pescare, melanconicamente, nelle vasche dei giardini pubblici, i pesciolini rossi […].
[Il vecchio] aveva affondato transatlantici carichi di passeggeri ed altri aveva portato a salvamento […].
Aveva fatto costruire peraltro montagne di terra […].19
Lo sviluppo del racconto è paradigmatico: muovendo da un'istanza realistica,
descrittiva, che si connota immediatamente di una coloritura che definirei
espressionista, devia in seguito verso procedimenti costruttivi analogici, iterativi e
anaforici, che non sarà eccessivo avvicinare alle contemporanee teorie surrealiste.
Forse è eccessivo leggere in questo racconto un abbozzo dell'allegoria che
guida il romanzo successivo Una vecchia perduta, ma ci sono possibili analogie. In
questo romanzo, del 1933, il giovane e vitale Giovanni ingravida la vecchia Caterina,
che partorisce un bambino e viene abbandonata in fin di vita. Questo parto vuol
significare la nascita del nuovo stato fascista dalla vecchia Italia liberale, fecondata
dalla nuova generazione degli squadristi. In qualche modo la bambina enorme del
racconto appena osservato rappresenta una prima affermazione della forza della
nuova generazione a cui quella vecchia deve essere asservita. Vedremo che tra
genitori e figli il rapporto non è mai paritario o pacifico, ma sempre attraversato da
contrapposizioni.
L'idea di una nuova generazione libera, forte, ma questa volta spensierata,
19 Corsivi miei.
31
ricorre nel racconto Gli abitatori della piazza grande20. Qui un giovane, protagonista
e narratore, porta a vivere con sé una donna, che abbandona la casa dei genitori,
situata in un quartiere povero descritto come un teatro di marionette, portandosi
appresso l'arredo per una nuova casa. Dopo un viaggio in carrozza lungo la città, i
due, abbandonati dal cocchiere e dal cavallo, si ritrovano soli, senza una casa, nel
mezzo di una piazza. La donna, con forte spirito di iniziativa, inizia ad utilizzare la
piazza come un'abitazione. Il suo istinto materno la spinge a desiderare un figlio e
perciò convince il suo uomo a conservare la carrozza che li ha trasportati per donarla
al bambino. I desideri genitoriali dei due toccano l'apice nel finale, discordando
notevolmente: la madre aspira ad un bambino come ad una creatura indifesa da
accudire e nutrire:
Io vorrei avere tutti i bambini che dormono così, e che vanno a scuola col canestro pieno di dolci, e di bottiglie di vino del Reno, e di foie-gras fattocon le mie mani. Col costume di un marinaio gli farei il vestito, e mi darei almigliore calzolaio della città per fargli le scarpe lucide, che scricchiolano. Setu non vorrai farlo, un bambino, ne troverò io, uno, un giorno, appena mi saràpossibile uscire vestita con una stoffa di velluto nero e il cappello ornato di tre lunghe penne di struzzo.21
Mentre il padre si lascia prendere da «vaghi pensieri di conquistatore», dal desiderio
di creare un mondo «favoloso» per un uomo capace di dominare e di superare
persino il dolore della morte, ma esprimendo insieme la sua paura di esserne
incapace:
Potevo far nascere io in una piazza, nel cuore della grande città, dauna donna qualunque uno sconosciuto che mai forse avrei più visto, durantela mia vita terrena? Allora vaghi pensieri di conquistatore mi balenavano nelcervello e vaghi propositi nel cuore mi facevano preparare un camminoimmaginario, favoloso per i piedi teneri di mio figlio: volevo un figlio ebete,rossiccio, con grandi occhi e mani da pugilatore, amante dei troni e delledonne più costose, possessore di terre e di palazzi, che parlasse poco e ridessemolto, per un nonnulla, per una mosca che vola, per un cavallo che cade, perun uomo che muore.
20 Marcello Gallian, Gli abitatori della piazza grande, in «900», n. 2, 1928, pp. 50-57, poi con titolo Gli abitanti della piazza grande in Nascita di un figlio ed altri scritti, Roma, Atlas, 1927. Ora in Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del Grifo, 1990, pp. 12-25. Le citazioni seguenti sono da «900». Tra l'edizione in rivista e quelle in volume ci sono alcune varianti.
21 Le edizioni in volume riportano la variante «Io vorrei avere uno di quei bambini».
32
Avrei potuto prepararlo io il regno per il bambino che sarebbe nato?
L'incapacità di essere padre, accompagnata al tema dell'ingresso nella vita,
ricompare nel testo Battesimo in famiglia22, mentre il desiderio di essere padre di un
figlio che si configura come «Uomo» vivo e forte è al centro di La madre stanca23,
l'ultimo dei racconti su «900».
Il primo viene inserito nella sezione «Cronache» e nelle prime battute si
presenta come il resoconto di una cerimonia provinciale di battesimo in una casa in
campagna. La veste ben poco giornalistica del narratore non lascia dubbi sulla reale
fisionomia narrativa e creativa del brano, specie quando il punto di vista del narratore
in terza persona si sposta all'interno e si identifica con quello tragico del padre. Alla
descrizione della parata festosa degli invitati verso la villa di campagna dove si terrà
la cerimonia, segue quella del banchetto e del battesimo.
Leggiamo la presentazione della famiglia:
Ed ecco si presenta il padre, la madre e il neonato in fasce; unneonato che mostra la faccia appena abbozzata.
Il padre è mingherlino e segaligno, quasi cieco: per veder megliogonfia il petto e spalanca la bocca e gesticola con le mani rosee, quasispellate, e allora quelle sue ciglia si tiran su, ancora, in alto, e le pupille esconfuori dalle orbite e gli toccano gli occhiali spessi, facendoli opachi: èmansueto e dolce infatti come i ciechi e parla poco e forte come i sordi: ilneonato non sembra suo, ma tutto della madre, ragazza poderosa e dura, allaquale anche il marito sembra figlio […]. Dietro al terzetto tragico un canerabbioso e protervo, di pochi anni, figlio anch'esso (si vede), della grossaragazza e paura e tirannia dell'uomo, che impallidisce a ogni latrato.24
Il padre ne esce come una figura impotente, che assume in sé difetti di debolezza
fisica che si traducono in debolezza morale. Al contrario, la moglie è forte, robusta e
sostiene da sola il peso di tutta la famiglia, tanto da apparire come figura materna
non solo del figlio, ma persino del marito e del cane. Si noti poi come il cane,
dominato dalla donna, sia in grado di terrorizzare l'uomo.
Il quadro, già reso inquieto dalla deformazione caricaturale che permea la
22 Marcello Gallian, Battesimo in famiglia, in «900», n. 5, 1928, pp. 229-231. 23 Idem, La madre stanca, In «900», n. 6, 1929, pp. 244-248. 24 Corsivi miei.
33
descrizione della parata, si fa addirittura grottesco quando si giunge al vero e proprio
battesimo. Il pianto del bambino genera il sorriso vendicativo del padre, ammutolito
subito da uno sguardo della moglie:
il marito […] sorride quando il sale amaro entra nella bocca delbambino […] sorride di vendetta e di vergogna. La ragazza lo guarda: egliarrossisce e sbianca: ha capito quel che gli spetta: si rincantuccia in un angolodella camera e attende che torni la donna e non tocca cibo.
Il sorriso di vendetta per la sofferenza del figlio è ambiguo: essendo
contemporaneamente sorriso di vergogna, pare che il motivo di questa vergogna sia
la propria incapacità di sostenere la paternità. La sua sofferenza risulta, poi, acuita
dalla presenza di una intera città, fatta di ricchi e grassi borghesi, tracciati con
un'attenzione al dettaglio fisico che ancora una volta ci ricorda la lezione
dell'espressionismo di Grosz.
Nell'ambiguo finale, la sua necessaria presa di posizione sociale come padre
di famiglia, ma sottomesso ad una donna che gli è più madre che moglie, viene
sancita da un ulteriore battesimo che lo accomuna al figlio, a cui è simile soprattutto
per la debolezza:
Sopraggiunge la ragazza. Lo prendono tutti: chi con le mani, chi conle pance gradasse lo mura, chi con la bocca gonfia di risate e di cibo losoffoca: egli vuol veder meglio e allora spalanca la bocca e gli danno sullelabbra il sale amaro che ha fatto piangere suo figlio: lo battezzano novamentementre egli maledice Iddio e gli versano sui capelli acqua corrente e vino.
Poi la donna lo prende per la mano e lo conduce a letto proprio vicinoal neonato: gli rassomiglia.
Vengono dalla camera lontano risate e schiamazzi in onore di quei dueche ormai sono entrati nella vita.25
L'ambiguità di questo racconto sta tutta nel conflittuale rapporto tra l'uomo e i suoi
doveri. La personalità del protagonista è divisa tra il suo essere padre e individuo di
una società: due necessità che scatenano una reazione regressiva, configurantesi in
un ideale ritorno all'alveo materno che la dominante figura femminile riesce a
costituire. Intanto sullo sfondo restano le risate del resto della città con cui al
25 Corsivi miei.
34
risveglio dovrà fare i conti, e quel neonato che, accanto a lui, gli è discendente e
nemico allo stesso tempo.
Una figura maschile completamente opposta è tra i protagonisti del secondo
racconto sopra citato: La madre stanca. Questa volta la contrapposizione è tra la
moglie, Marianna, incinta e terrorizzata dall'idea del parto, e il marito, senza nome,
che è «pazzo d'amore per il suo Uomo» e ne invoca la nascita come una benedizione
per tutto il paese:
tutti attendono il mio uomo che porterà tanto bene, che farà tanti miracoli per tutti e li getterà senza lesinare, da gran signore.
Il marito è un uomo forte, che ha lavorato e sofferto molto ed ora prova il «bisogno
naturale» di un figlio, ma non riesce a coinvolgere nel suo entusiasmo la moglie che
per paura e vergogna rifiuta l'idea della propria gravidanza. Nel passo che segue la
madre sfoga il suo terrore per l'aspetto che il bambino potrà avere:
Io non so perché. Non lo voglio. Forse perché potrebbe venir fuori un nanocolla testa grossa o un mostro con muso di toro e mani piccole, come germi dimano. Brutto e triste, ecco.
In questo caso troviamo affiancati due modi contrastanti di pensare: da un
lato il fantasticare su di una progenie miracolosa; dall'altro la cruda immaginazione
che assume i toni di un espressionistico realismo nella descrizione di malattia e
deformità. Questi terribili pensieri sfociano in una nascita prematura che avvera i
presagi terribili che la paura aveva dettato alla donna:
Marianna non aveva urlato e il figlio sembrava fosse venuto alla luceper una leggera malattia della donna: senza strepito, senza quella festa deldolore che il marito aveva tanto desiderato. E non guardava nessuno, quelfiglio bruno come un arabo, con grandi occhi e bocca piccola; dormiva e poisi svegliava per prendere il latte. Ma sembrava «una prova» d'uomo, esembrava che a diventarlo avrebbe messo un secolo; o fosse cresciuto,magari, così, con quelle unghie, con quella specie di viso quella specie dimani, come se tutti gli uomini fossero sbagliati e lui soltanto vero egiusto.26
26 Corsivi miei.
35
Il marito accusa Marianna di questo parto senza dolore, senza volontà di maternità e,
poco dopo, al termine di quello che sarebbe stato il nono mese di gravidanza, il
piccolo, che ricorda da vicino il nonato dipinto da Otto Dix:muore. Il paese è ancora
ignaro e continua ad attendere la grande festa per la nascita, ma cominciano a
circolare strane voci su Marianna, sulla sua paura e sulla vergogna di essere madre.
Quando sopraggiungono i becchini con una «piccola cassa di legno da imballaggio»
a portare via il bambino, Marianna realizza davvero quanto è accaduto e crolla nella
più assoluta disperazione, tanto che arriva a minacciare di gettarsi dalla finestra, se
non le viene reso il piccolo corpicino. Nel descrivere il suo sfogo Gallian mostra
come le grida e la posa del suo corpo alludano e mimino il parto ed il dolore che ella
non ha provato. Il punto di vista assunto dal narratore è ora quello della vecchia
levatrice Concetta, secondo la quale solo adesso che ha sofferto davvero, Marianna
ha meritato il figlio, ma è troppo tardi:
Se l'è guadagnato ora – diceva Comare Concetta – Ha urlato, e spingeva con le ginocchia il ventre, nella finestra, come se avesse voluto darlo al mondo un'altra volta.
Purtroppo la morte del figlio è irreparabile e Marianna, che ora, superate le paure,
pare aver effettivamente compreso la necessità dell'istinto materno, deve arrendersi
all'ineluttabile destino e pregare il «bifolco» becchino di portare via quei poveri resti.
Questa figura di madre che veglia sul corpo morto del figlio ricorre anche nel
dramma La casa di Lazzaro, dove il dolore sopraffà la ragione e impedisce di
accettare il corso degli eventi. Mentre nel Lazzaro la madre ottiene di rivedere il
figlio risorto, Marianna può solo costringersi a guardarlo putrefarsi e inevitabilmente
arrendersi alla tremenda realtà. Questa è la macabra conclusione del racconto:
Marianna vegliò, una notte e un giorno, e il neonato cominciava adisfarsi. Come preso da una muffa lenta, si ingrossava e perdeva ognifisionomia umana. Si muoveva e scompariva.
Alla sera la madre discese nella piazza e pregò il bifolco:– Portatemelo via!
Sui racconti appena analizzati possiamo fare alcune osservazioni generali. La
36
rigidità nel considerare la riproduzione come un imperativo etico proprio di ogni
essere umano pare essere indiscutibile, e fa parte di quella componente di irriducibile
cristianesimo primitivo dello scrittore romano. Ciononostante, Gallian prova, con
risultati alterni ma in alcuni casi efficaci, a descrivere le ansie e le preoccupazioni
che l'essere genitore porta con sé. Egli ci mostra coppie di genitori percorse dal
conflitto tra volontà di potenza e autoaffermazione mediante la riproduzione e il
terrore di questo peso morale. Anche in La regina dei pargoli della città, dove a
dominare è il contrasto tra genitori e figlia, i due anziani, benché uniti, non sono
affatto in pace e, anzi, il desiderio di paternità si connota come desiderio di plasmare
e dominare esercitato nei confronti della madre. Non ci sono dunque rapporti
pacifici, ma sempre una lotta che tende a manifestarsi sul piano fisico. Solo in Gli
abitatori della piazza grande, sorta di favola urbana, non ci sono accenni violenti nel
rapporto di coppia, ma questo non esclude che ci siano contrasti ideali come quello
che abbiamo osservato, generato dall'insofferenza dell'uomo per la protervia con cui
la donna tende ad adattare ad abitazione borghese persino la piazza che li ospita.
Un fatto proprio di questi racconti, comunque inquadrabile nell'ideologia
gallianiana, è che tutti i rapporti di coppia si configurano come rapporti coniugali, a
differenza di quanto avviene in molti romanzi. Questo avvalora quanto scritto a
premessa di questa analisi, ovvero che siamo ben lungi dal poter individuare
un'ideologia univoca: da una parte abbiamo l'unione coniugale; dall'altra il rapporto
libero e la riproduzione come autoaffermazione; da una parte la famiglia e la casa;
dall'altra la strada e la piazza. Basti ad esempio quanto appena scritto sul contrasto
ideale in Gli abitatori della piazza grande oppure il quadro della cerimonia di
Battesimo in famiglia, piuttosto grottesco, che sembra essere motivato dalla
ripugnanza di Gallian per le cerimonie intese come formalità sociali ma si inquadra
coerentemente, senza forzature, nello sguardo del protagonista, il cui punto di vista il
narratore assume.
2.2.2 Il tema della violenza e della morte
L'attenzione di Gallian, abbiamo detto, si rivolge ai fatti principali della vita
dell'uomo in quanto essere vivente. L'evento della morte, dopo quello della nascita,
37
rappresenta dunque un secondo forte motivo di ispirazione. In alcuni casi vale quanto
osservato per la nascita, cioè la morte si configura come rituale, ovvero la si
riconosce in quanto evocata da macabre figure di becchini o si risolve in
carnevaleschi funerali. Altre volte si configura come punto di partenza, dopo una
tragica presa di coscienza, per la vita di chi sopravvive. Un ulteriore aspetto basilare
nella narrativa di Gallian, che tratterò in questo paragrafo, è il frequente riferimento
alla violenza, all'uso della forza, alla sopraffazione. Un confronto anche superficiale
tra il testo autobiografico Comando tappa e un racconto esuberante come
Processione, mostra come la violenza espressa in entrambi i casi sia, in verità, la
conseguenza di un forte senso di insofferenza e di insoddisfazione che permea i suoi
personaggi. Questi, trovatisi insieme in Processione, raggiungono uno sfogo
momentaneo ed effimero per la loro vitalità soltanto in una insensata crudeltà, la
stessa crudeltà inspiegabile che coglie il giovane Marcello squadrista, rievocato in
Comando tappa. La violenza risulta essere, dunque, nell'intricato immaginario di
Gallian un dato ineliminabile della natura umana, che nel fascismo ha assunto il
valore di risposta storica alle inquietudini dei giovani nel primo dopoguerra.
Ritorniamo al racconto La madre stanca, dove la morte di un neonato collega
tragicamente i due poli sin qui osservati dell'ispirazione gallianiana. Nella penultima
pagina viene scritto semplicemente che «un giorno, il figlio, al termine del nono
mese, morì e il villaggio era ancora sotto l'incubo di una festa trascurata». Il figlio,
nato al settimo mese all'insaputa del paese che lo attende, è debole e non sopravvive,
mentre nell'attesa la trepidazione per l'imminente festa si consuma. Nel villaggio si
comincia a intuire che qualcosa non va e una vecchia arriva con tono oracolare a
sentenziare:
Figlio che non si sente, figlio che non dà spasimo, figlio che non si vuole,nasce male […] indeciso, con lontane apparenze d'occhi e di bocca. Un abortovivente.
Poco dopo arrivano sulla scena i becchini, chiamati a portare via il piccolo cadavere:
tutto il villaggio è curioso ma pudico, scruta dalle finestre, sente «come un disagio o
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una disillusione vergognosa». Tutta l'ansia per la festa che attendeva il nuovo nato, si
stempera e crolla. Il corpo del piccolo viene descritto con un disincanto e una
durezza che mettono di fronte l'attesa e la grandezza della nascita di fronte all'evento
tragico e irreparabile della morte: mette in contatto le due soglie che circoscrivono la
vita dell'uomo.
Dentro una piccola cassa di legno da imballaggio, il figlio; in una parete
interna era ancora l'etichetta di una Ditta di foraggio. I becchini salmodiando
trasportarono la cassa nel carro ed era così leggera che quasi pareva loro di
non portare un morto ma chissà che cosa, da lasciare o da dimenticare
facilmente.
[…] la bara era sperduta nella piazza grande di quel carro […].27
Quello che colpisce i becchini è la leggerezza della bara (bara improvvisata, ricavata
fortunosamente da una cassa di foraggio): quella leggerezza non è solo il sentimento
della vita che si riduce al semplice peso del corpo, di un corpo di due mesi, ma il
simbolo della reale essenza della morte, della sua capacità di cancellare in un attimo
la vita, le sue attese, le sue aspettative, qui simboleggiate dalla festa del villaggio. La
madre, Marianna, capisce che ciò che è accaduto è irreparabile soltanto quando la
morte assume la fisionomia dei becchini e perciò ogni traccia di quella piccola vita,
compreso il suo corpo, deve essere abbandonata, dimenticata. Disperata, costringe i
becchini a renderle la piccola cassa e, «mentre tutti fuggivano per lo spavento», la
apre per vegliare sul figlio, ma il corpo, dopo un giorno e una notte di veglia,
comincia a putrefarsi e la madre si convince ad abbandonarlo e a farlo seppellire.
Come ricordato nel paragrafo precedente, lo stesso attaccamento alle spoglie
terrene del figlio morto compare nel dramma La casa di Lazzaro, dove con gli stessi
accenni crudi alla «carne» è descritto il corpo steso di Lazzaro: anche qui la madre
non sostiene la vista dei becchini, li caccia e li maledice, continua a vegliare sul
figlio giungendo, in delirio, a immaginare di conservarne il corpo con unguenti e
bende per poterlo ancora vedere. Nello scambio di battute che riporto di seguito
27 Corsivi miei.
39
troviamo espresso tutto l'attaccamento fisico della madre al figlio, nonché della
donna che sembra realizzarsi solo nella maternità:
SCONOSCIUTO – Che t'importa della carne di tuo figlio?MADRE – M'importa, m'importa. L'ho fatta io da questo grembo... (urlando come prima) Quella carne ho fatto e non altro...28
Lo stesso avviene in La Madonna dei mercati29, dove il narratore protagonista dice
della madre il cui figlio è da poco morto suicida:
Mi parve che ella non avrebbe saputo liberarsi mai più di quel corpoammutolito ed estraneo; non avrebbe potuto né cacciarlo di casa, né farlomovere, né sarebbe riuscita a far parlare quella bocca inutile e pensosa.
Lazzaro, dopo essere risorto, vive una sorta di seconda nascita, con l'innocenza di un
bambino sfoga i suoi bisogni. Prova fame, sete, brama di donne, desiderio di giocare,
sudare, urlare, vive con l'urgenza di una vita ulteriore e senza regole: nonostante
abbia dimenticato di essere già morto sente un potente, istintivo richiamo. Dopo che
Lazzaro ha reso nota l'inconsistenza di una vita convenzionale e misurata, tutto il suo
villaggio si accinge ad avviarsi verso il divino, un divino artificiale che si identifica
in un mondo libero dalle regole, in una parata distruttiva e carnevalesca. Molti passi
dell'ultimo quadro di questo dramma, che è considerato il capolavoro del primo
Gallian, sono ripresi puntualmente da un racconto, Processione30, uscito poco prima
su «900», che ne costituisce in qualche misura un'anticipazione e nello stesso tempo
se ne distingue per una visione più cupa. Osserverò oltre, nel paragrafo dedicato al
tema della folla, le riprese puntuali tra questo racconto e il dramma. Per ora
concentriamo l'analisi sul momento finale del racconto, dove una grande folla in
processione giunge a sfogare la propria violenza martirizzando un «pover'uomo»:
una figura cristologica che viene crocifissa quasi per gioco. Mentre la città è in
corteo, tra il fragore delle campane e lo scoppio di mortaretti gli uomini cominciano
28 Marcello Gallian, La casa di Lazzaro. Quadro primo, in «900», n. 2, 1929, pp. 52-57.29 Idem, La Madonna dei mercati, in «900», n. 4, 1928, pp. 162-168. Poi in Quasi a metà della vita...,
cit., pp. 51-65. 30 Idem, Processione, in «900», n. 1, 1929, pp. 8-14. Poi in Quasi a metà della vita..., cit., pp. 85-96.
Le citazioni sono dalla prima redazione. Poiché l'edizione in volume presenta alcune interessanti varianti, ne do conto nel corso dell'analisi.
40
a sentire un indefinito e repentino richiamo: scoppiano risse e violenze, tra la folla
esausta per l'arsura si inizia ad invocare la morte, ad un tratto «tutti vogliono qualche
cosa ma non sanno, non riescono a capire»31. Un pover'uomo, Nazzareno32, che
cammina seminudo, viene afferrato e “travestito” da Cristo. In questo costume
spicca, come di consueto in questi racconti, il particolare pacchiano, visibilmente
falso: è un costume teatrale da poco prezzo, che non serve a nascondere la farsa ma
ad accentuarla:
Hanno afferrato un pover'uomo che si trascina nudo sotto una croce enorme,nudo dentro un paio di scarpe grosse e deforme, i fianchi protetti da unacamicia legata con le maniche: gli hanno appuntato sulla carne un giglio dicelluloide, sorretto da una spilla, come decorazione intorno alla testa unacorona di legno, falsa, con spine di cuoio, false;33
Anche gli uomini che decidono di afferrarlo per inscenare una crocifissione sono
coperti dai resti di un travestimento da angeli, marcati dai segni del falso:
vestiti erano da angeli ed ora non hanno indosso che la polverina d'oro delle ali e qualche brandello di tela e una frangia di penne di gallina.34
Il travestimento non nasconde più la finzione del rituale e svela lo sfogo insensato
della violenza che si annida nella folla, che tenta di mantenere ancora la propria
copertura di rappresentazione religiosa. Tutta la città si raduna per vedere cosa
succede, e individuato il capro espiatorio nella figura debole e deforme di Nazzareno,
si dà alla ricerca dei chiodi per issarlo sulla croce. Un nano si incarica di inchiodarlo
alla croce e nella foga quasi lo spoglia. La crocifissione profana si realizza nella sua
definitiva essenza terrena, violenta e sacrilega quando il povero issato sulla croce,
anziché il perdono di Cristo inizia a bestemmiare tra le risate degli astanti, mentre
Maddalena, la vergine che ha progressivamente assunto il ruolo di una Madonna
profana, invoca «peste e dannazione»35 per gli assassini, che si allontanano al sorgere
31 Corsivi miei.32 Il nome dell'uomo viene eliminato dall'edizione in volume (vedi sopra, nota 30), probabilmente per
sottolineare l'essenza archetipica della sua identità di capro espiatorio.33 Corsivi miei.34 Corsivi miei.35 Nella prima redazione questa battuta è di ambigua paternità, potrebbe essere pronunciata sia
dall'uomo, sia da Maddalena, anche se la seconda ipotesi è più coerente. Nell'edizione in volume,
41
del sole. Una morte inutile, assurda, nata dalla degenerazione dei sentimenti di
insoddisfazione del paese che trova sfogo unicamente nella violenza gratuita e
festosa. Al fondo restano solo i resti della festa e un ubriaco travolto dal passaggio
del corteo.
Veniamo ora ad uno dei testi più controversi: la cronaca di rievocazione
squadrista Comando tappa36. È un testo breve incluso in una rassegna intitolata
Novecentisti in giro per Roma37, in cui Gallian inserisce oltre a questo anche una
brano che descrive il traffico della capitale e la folla dei “ministeriali” intitolato
Sogno di Roma38. Comando tappa racconta una rappresaglia fascista compiuta dalla
squadra “La Volante”, di cui Gallian è caporione, e guidata dal barbiere Alfredo. Non
sappiamo in che misura la vicenda ricordata sia attendibile – dato anche il tono
fantasioso degli interventi degli altri «novecentisti» – ed è per questo che è
opportuno analizzarla qui, dal momento che i modi di questa rievocazione sono
spesso vicini ai modi ricorrenti nei racconti, nonostante il protagonista si identifichi
con il giovane Marcello.
Il brano rievoca l'incontro notturno di quattro ragazzi, sul cui conto il
protagonista non ricorda più nulla, e di Alfredo per recarsi nella casa di Tito, un
militante comunista definito «bastonatore della propria madre, sfruttatore di donne e
ladro senza pari». Una volta giunti nella casa, armati di rivoltella e scudiscio di nervo
di bue, trovano la porta spalancata e il protagonista prova un senso di paura per
l'intimità altrui violata e per le conseguenze degli spari che ci saranno. Su di un letto
trovano la vecchia madre di Tito che dorme, rimasta «con le vesti tirate per
distrazione fin quasi alla sommità delle gambe». A questa vista il protagonista
inorridisce, viene preso dai più vari pensieri: che la nudità della vecchia madre sia
civetteria, che sia stata svestita dal figlio o violentata da un «uomo qualunque». Una
volta arresosi all'idea che si sia trattato solo di una distrazione non riesce, tuttavia, a
in luogo dell'originario «grida a squarciagola», abbiamo «grida a squarciagola la donna», che chiarisce ogni dubbio sul soggetto.
36 Marcello Gallian, Comando tappa, in «900», n. 4, 1929, pp. 176-178. 37 Ivi, pp. 174-192. Con interventi di Massimo Bontempelli, Marcello Gallian, Corrado Alvaro, Paola
Masino, Giulio Santangelo, Edoardo Bizzarri, Gian Gaspare Napolitano. 38 Marcello Gallian, Sogno di Roma, ivi, pp. 175-176.
42
levarsi dalla mente l'idea che Tito batta la madre. Esce dalla casa alla ricerca di
quell'uomo e, trovatolo, lo frusta sul viso con foga, facendolo sanguinare tra gli
sguardi attoniti dei presenti. Ma questa violenza si traduce immediatamente in una
violenza antica, inspiegabile:
Così avrei staffilato tutta la carne degli uomini sino alla fine dei secoli. E non so perché.
Il brano è al crocevia tra una pagina di diario, un racconto e un articolo di
propaganda politica. Al suo interno si riscontrano inquietanti richiami
all'attaccamento morboso tra madre e figlio, alla gerontofilia, alla gratuità e
inconsapevolezza della violenza di cui abbiamo parlato, ma anche accenni di pesante
retorica polemica contro gli avversari politici e contro le ipocrisie dei vecchi
squadristi che rinnegano il loro passato: questo è il motivo per cui non ricorda il
nome dei partecipanti alla spedizione punitiva oltre il vecchio Alfredo.
Il racconto La Madonna dei mercati39 narra di ciò che accade dopo il suicidio
di un amico. Il narratore-protagonista telefona alla madre dell'amico e riceve in
risposta un «urlo rauco». Si reca, dunque, dalla madre che gli mostra la stanza del
figlio. Michele Stamo, questo il nome dell'amico, è «seduto sopra una poltrona,
attento a qualche cosa di indefinibile, distratto; si lasciava modellare il viso da un
rigo di sangue che gli colava dalla tempia». Anche in questo caso, si può notare come
lo sguardo di Gallian per il corpo del defunto sia morboso, totalmente mancante di
qualsiasi rispetto religioso dinnanzi alla morte e, anzi, capace di vedere il corpo
dell'uomo nella sua essenza materiale, come se la morte fosse un momento
privilegiato per questo tipo di osservazioni, ovvero principalmente un prodigio
estetico, come era stato per la morte “in maschera” di Nazzareno:
La posa di quell'uomo era coreografica: la messinscena della sua persona era di una naturalezza impressionante.
E ancora:
39 La Madonna dei mercati, cit.
43
Il cibo doveva essere ancora sano e intero nel ventre di Michele Stamo, come nel collo di uno struzzo.
In seguito a questa morte la madre ed il protagonista iniziano un viaggio attraverso la
città a cui si uniranno i più svariati personaggi, come vedremo più avanti, nel
paragrafo dedicato al tema della folla.
Concludiamo questa rassegna analizzando il brano intitolato Cronaca nera e
sottotitolato Gli scomparsi40, una sorta di fiaba macabra che inizia ancora una volta
con un suicidio. Il narratore e protagonista racconta un episodio di quando era «Re di
un lontano paese, che non ha nome»: una donna si uccide con un colpo di pistola
mentre egli sta passando in carrozza, ma nessuno in città sembra accorgersene,
quando solitamente «la morte consacra […] lancia pel mondo, per sempre, […]
persone e cose, che la vita ha tenuto celate gelosamente». Il corpo di questa donna
viene custodito gelosamente dal guardiano di una palazzina bianca, nella ghiacciaia,
coperto da un lenzuolo e facendogli scorrere sulla fronte acqua «di battesimo». La
parte centrale del breve racconto è occupata dal discorso che il guardiano della
palazzina tiene di fronte al Re, in cui esprime la propria passione per la vita dei
«misconosciuti». Tutto il monologo sviluppa il contrasto tra il regno del Re, alla cui
corte convengono i personaggi noti, amati od odiati dalla folla, mentre nel suo regno
sotterraneo, sono solo i corpi perfettamente conservati di quegli uomini misteriosi, la
cui morte è una scomparsa, dimenticati senza lasciare tracce né legami o figli. Il
vecchio guardiano convince, poi, il Re che è per amor suo che quella donna si è
suicidata. Compaiono prove di questo amore celato e la cronaca nera, curiosa e
invadente, inizia a ossessionare il Re, il quale giunge alla conclusione di far officiare
al guardiano della palazzina le proprie nozze con quella donna per dare al paese una
Regina.
Ancora una volta assistiamo alla volontà gelosa di conservare il corpo di chi
muore, in questo caso in una prospettiva di tardivo riscatto sociale. L'intento del
misterioso vecchio è di svelare il mistero dei diseredati, dei «condannati al silenzio e
alla morte» di coloro che stanno «nei sotterranei della vita» per contrapporli alla
40 Marcello Gallian, Cronaca nera. Gli scomparsi, in «900», n. 1, 1928, pp. 42-44.
44
gloria e alla fama di chi vive alla corte del Re. Al di là del tono fiabesco e
dell'ambientazione macabra e onirica, il messaggio del vecchio espresso nel
monologo costituisce un chiaro appello ideologico a restituire ai poveri, agli
oppressi, ai dimenticati una prospettiva di rivalsa. Proprio all'inizio si situa inoltre
una digressione in cui il narratore si intromette per spiegare quanto potente sia la
morte come mezzo per consacrare e far ricordare, e come però, il ricordo si leghi di
solito a piccole cose, a reliquie, ad oggetti materiali e non a lasciti spirituali, anche
per chi ha avuto popolarità e fama.
Cronaca nera è, più che un racconto, una sorta di prosa morale, che offre
poco oltre la trovata paradossale dal gusto orrorifico della palazzina, anche se lo
sviluppo della premessa riesce in qualche misura interessante nella conclusione. La
soluzione che pare offrire lo scioglimento è ambigua: il riscatto della solitudine della
donna avviene solo dopo la morte, e soprattutto solo grazie all'intervento del Re,
rimanendo dunque fondamentalmente un appello senza risposta. Inoltre il
personaggio del guardiano, che si fa portavoce dei dimenticati, vive con un morboso
compiacimento il proprio ruolo di custode di corpi umani, cerca di dare in sposa la
donna al Re quasi fosse una figlia, una cosa propria, si impossessa di una causa persa
con una passione folle. In fondo, non riesce a fare molto di più che mettere insieme
una collezione di reliquie.
2.2.3 Il tema del viaggio come vagabondaggio
Gallian ha espresso in un articolo programmatico comparso su «2000» la
necessità di mutare l'arte dello scrittore fascista in arte del viaggiatore41. Fuori dal
senso figurato di queste affermazioni non si può negare che la rappresentazione di
viaggi, spesso senza meta e senza scopo, eserciti su di lui un grande fascino. Il
motivo del viaggio rispecchia l'anelito alla libertà che caratterizza il pensiero
anarchico del giovane autore. L'idea di vagare per scoprire il mondo, che nell'uomo
Gallian significa esportare l'ideologia fascista, nel Gallian scrittore nasce come
conseguenza dello smarrimento causato dalla mancanza di reali convinzioni
41 Marcello Gallian, Viaggiare, in «2000», n. 4, 1929, p. 3.
45
ideologiche che spinge all'azione – o meglio che trascina vorticosamente nell'azione
– la maggior parte dei suoi personaggi. Il desiderio di spostamento convive e si
scontra spesso con spinte opposte, intese alla sedentarietà, al vivere sereno e quieto
come nei due racconti qui analizzati. Il primo descrive la vita vagabonda di un
orfano: un modo di vivere senza meta, uno spostamento per mancanza di radici,
anche se mosso contemporaneamente da un ambiguo bisogno di stabilità, che causa
contrasti e sofferenze. Il secondo narra una fuga d'amore che, però, svela i
contrapposti desideri dei due amanti.
Il primo racconto s'intitola Vita del barone povero42. Si tratta di una breve
biografia per episodi del barone Grisou, orfano, che passa da un lavoro all'altro, da
un luogo all'altro studiando tutti i mezzi per sopravvivere alla fame, alla povertà e al
freddo. Il racconto, come spesso accade, inizia con una didascalia: «l'infanzia di
Grisou fu questa», cui segue una similitudine che col consueto gusto iperbolico
mostra apertamente i desideri terreni e fisici del ragazzino: invece di «respirare il
fresco sulle alture», respira «il vento aromatico che emana dal ventre dei capretti
ripieni». La sua infanzia la vive in strada e ci si sente a suo agio: «tutta la città era
per lui una casa, di cui conosceva le stanze corredate di mezzi busti celebri e i
corridoi smaltati di quadri di finestre». Vivere per soddisfare i bisogna primari fa sì
che la sua visione sia profondamente materialistica: i limiti della sua immaginazione
coincidono con i confini del suo sguardo. Inizia a frequentare a tredici anni i teatri e i
caffè notturni per rubare oggetti misteriosi dalle tasche dei cappotti. Anche quando
inizia a farsi sentire la solitudine di orfano, Grisou deve inventarsi molti mestieri
fantasiosi per vivere, elencati da Gallian in un caleidoscopio immaginoso di sfrenato
analogismo, con qualche ascendente surreale:
Grisou si era dato con passione ai mestieri inutili dell'infanzia: amava glioperai notturni che assalivano le costruzioni sotto la luna, armati di martelli edi scale.[…] si tuffava nella pioggia spessa per nuotare e per cogliere a volo i mozzoniaccesi che gli operai lanciavano nello spazio: egli poi fumava quei mozzoni
42 Marcello Gallian, Vita del barone povero, in «900», n. 5, 1927, pp. 76-86. Pubblicato in entrambe le edizione del quinto numero di «900», francese e italiana. L'edizione francese, Vie du baron pauvre, è tradotta da Emmanuele Audisio.
46
con la stessa intensità con cui i martiri sperduti nelle catacombe curanol'ultimo pezzo di candela. Possedeva colline di sigarette spente, che nonriusciva a vendere; ma in compenso affittava ai poveri della notte i ballatoi dilegno delle case in costruzione e ne ricavava qualche soldo […].Si diede allora al commercio dei capelli: tremila operai portavano a Grisou icapelli delle spose delle figliuole e degli amici […].[…] si dette alla raccolta degli abiti vecchi di 3000 operai […].
Dopo questa lunga parentesi, Grisou inizia ad andare in cerca di avventure, ma
ottiene solo di soffrire fame e freddo. Vorrebbe vivere d'elemosina ma non ci riesce,
poiché le offerte gli vengono sempre sottratte da qualcun altro più veloce o furbo di
lui: «quell'altro trovava sempre gli involti e i pezzi di pane dimenticati». Una sera
arriva in un'osteria «avvinazzata», dove il vino cola dalle pareti e tutti ridono ed
urlano, mentre «una bambina, sotto un tavolo, rideva, per proprio conto, immersa in
un triste lago d'orina». Grisou viene accolto calorosamente da uno stuolo di ubriachi
pronti a festeggiarlo e osannarlo: tutti gli offrono cibo e vino, tutti giocano per lui,
qualcuno lo riconosce e qualcun'altro, sentendolo chiamare “barone”, finge di
riconoscerlo. Solo un uomo, seduto dietro una bottiglia di acqua fresca e limpida,
non festeggia e attraversa con il gelido sguardo la sala. Finita la festa Grisou, dopo
aver suonato un sassofono e aver danzato con la bambina, afferra gli ubriachi
addormentati e li scaraventa in mezzo alla piazza. Tornato all'osteria l'uomo
sconosciuto si alza e gli si presenta e pronuncia queste enigmatiche parole, che lo
rivelano misterioso alter-ego del protagonista:
Io vivo di rifiuti dimenticati: so che vi ho tolto il pane. Ma ho una ferita alcuore: quando gli occhi non servono più per piangere, e non c'è una viad'uscita per il dolore, il cuore si spacca ed io faccio sangue dal naso.
Lo sconosciuto inizia quindi a sanguinare, Grisou sorride, lo chiude dentro l'osteria e
scappa «a casaccio».
Passano cinque anni ed ancora Grisou ripensa a quella notte all'osteria. Riesce
a trovare una stanza per dormire, ma d'improvviso viene assalito da tutti i desideri di
tenerezza, di serenità che egli ha soppresso nella sua gioventù errabonda: il suo cuore
comincia a battere e cercare passioni nuove, senza che lui se ne renda pienamente
conto:
47
Appena sul letto, tutto si spegneva all'intorno e la fantasia volava via e il cuore continuava a battere, come una sveglia nella camera accanto […].Nel corso del sonno il cervello continuava a fantasticare, il cuore a completare e a dare inizio a nuove passioni.
Riesce ancora ad arrabattarsi gestendo «alberghi di quart'ordine», dove si consumano
fugaci rapporti sessuali, ed un giorno si innamora, non corrisposto.
D'un tratto, dopo un altro inspiegato salto temporale di parecchi anni, Grisou
riconosce di possedere «un cuoricino da neonato in un petto da gigante» e che «quel
regno lacrimoso che era in lui esigeva il suo sfogo». Capisce finalmente le parole
dello sconosciuto nell'osteria, il suo cuore non essendosi espresso liberamente è
ormai in putrefazione, come gli diagnosticano i suoi dottori. La sua vita si consuma,
dunque, tristemente, tra gli sguardi curiosi dei vicini e quello nauseato di una donna
che ora ha accanto. Ha vissuto sempre in perpetuo movimento, alla ricerca di mezzi
stravaganti per vivere e quando ha iniziato a sognare tenerezze nuove ha ignorato una
sorta di richiamo interno alla serenità: questo cuore ignorato lo ha trascinato nella
sofferenza, nell'insoddisfazione e infine alla morte.
È interessante come questa conclusione contrasti palesemente col mito
dell'arditismo, della fierezza e forza del vero fascista, come una vita di avventura e di
movimento si risolva in un definitivo fallimento. Il tono favoloso e grottesco degli
episodi sembra invitarci ad una lettura in chiave allegorica di questa parabola
biografica, poiché difficilmente si riesce a sciogliere il senso e, soprattutto il nesso
tra i vari episodi, al di fuori di questo contrasto tra vita sbandata e bisogno di
stabilità. Una lettura di questo tipo è confortata anche dalla costruzione del racconto
per episodi contrastanti.
Questo racconto suggerisce un'analogia interessante, utile per inquadrare un
episodio della fortuna di Gallian. La scena dell'osteria43 contiene, infatti, alcune
strette somiglianze con la analoga descrizione che Elio Vittorini dà dell'osteria di
Colombo, nei capitoli XXXVIII e XXXIX di Conversazione in Sicilia44. Innanzitutto,
43 Marcello Gallian, Vita del barone..., cit., pp. 79-83.44 Le citazioni che seguono sono dalla prima redazione dei capitoli in questione, comparsa in
48
in entrambe le scene l'ambiente è letteralmente dominato dal vino: «dalle pareti
gocciolava il vino», «due rigagnoli giallastri che rasentavano il muro e si perdevano
nelle cantine» (Gallian); «dal suolo, dai muri, dall'oscura volta sgorgava odore di
vino» (Vittorini). Compare, poi, una chiara contrapposizione tra il vino e l'acqua: «un
uomo che sedeva lontano, dietro una grossa bottiglia di acqua limpida e ghiaccia […]
l'unico uomo che si tenesse a galla con l'aiuto della bottiglia bianca» (Gallian);
«occorre acqua viva», «[Porfirio] negava che il vino fosse acqua viva» (Vittorini). In
tutti e due gli episodi la narrazione è interrotta dalla voce di ubriachi che cantano.
Infine vi sono alcune riprese lessicali, come il termine «braciere», che compare in
entrambi, o la frase seguente: «doveva apparire alto due metri» (Gallian); «apparve
alto due metri» (Vittorini).
Certo, lo sfrenato barocchismo di Gallian non è paragonabile alla precisa ed
affascinante costruzione allegorica del capolavoro vittoriniano, ciononostante mi
pare che gli elementi da me elencati identifichino nel racconto di Gallian un
precedente, quantomeno presente alla memoria di Vittorini, nel momento della
stesura di quei capitoli.
Ricordo, per inquadrare possibili legami tra i due autori che confortino la mia
ipotesi, che Vittorini cura nel '30 insieme a Falqui l'antologia Scrittori nuovi45, in cui
figura anche Gallian, che quindi Vittorini sicuramente conosce, e che lo scrittore
romano è apprezzato, come vedremo, da Bilenchi e Pratolini, amici e compagni di
battaglie politiche e letterarie del Vittorini degli anni di «Il Bargello». Inoltre nel
1937 – mentre Vittorini ha appena cominciato a scrivere Conversazione in Sicilia –
Vallecchi, proprio a Firenze, pubblica una raccolta di racconti di Gallian.
Il fatto che Vittorini, in questo primo importante romanzo antifascista,
richiami uno scrittore come Gallian apre interessanti prospettive critiche, non solo
sui precedenti del romanzo dello scrittore siciliano, ma anche per lo studio della
continuità della nostra letteratura tra fascismo e antifascismo. Un confronto
approfondito tra queste due personalità, l'una animata da un inquieto spirito
antiborghese, l'altra approdata al comunismo attraverso la militanza in quello che è
stato definito fascismo “di sinistra”, è senz'altro auspicabile e potrebbe offrire ottimi
«Letteratura», n. 1, 1939, pp. 51-54.45 Scrittori nuovi, a cura di Enrico Falqui, Elio Vittorini, Lanciano, Carabba, 1930.
49
spunti critici46.
Il secondo racconto «novecentista» dove si narra di un viaggio è il già citato
Gli abitatori della piazza grande. Anche qui, come abbiamo sottolineato sopra,
compare l'opposizione tra vita libera ed errabonda, quella desiderata dall'uomo, e
stabilità, qui rappresentata dalla figura femminile. Il viaggio è, in realtà, una
brevissima fuga d'amore, che si conclude molto prima del previsto. Tutto inizia
quando il protagonista arriva a casa della fidanzata, Maria, per portarla a vivere con
sé. I preparativi del viaggio sono descritti ampiamente: dalla casa scendono «una
cassa verde, poi un'altra, una valigia barocca, intarsiata in argento, tre fagotti di carta
velina, un baule vuoto: un materasso infine, avvoltolato dentro una coperta». L'uomo
comincia a preoccuparsi per ciò che significa vivere tutta la vita insieme, riempire
una vita intera insieme a questa donna che si è portata appresso la casa intera. Una
volta partiti si ricordano di non avere una meta e di avere solo pochi soldi con sé. Ad
un tratto, il vetturino abbandona la carrozza e lascia andare il cavallo dove preferisce.
Esso comincia ad inseguire i fanali che vede davanti a sé e giunge in prossimità di
una piazza, dopodiché dà uno strappo alle stanghe della berlina e scappa da solo.
L'uomo è indeciso, mentre la donna è determinatissima ad adattare la piazza, dove
ora si trovano, a casa, usando tutto quel poco che possiedono. Dopo essersi
addormentato «senza ordine», l'uomo si sveglia ed incontra Maria intenta a
spolverare «al modo delle massaie». Il viaggio si è dunque repentinamente concluso,
trascinato dagli eventi, da un misterioso destino che obbedisce al desiderio di Maria
di avere una casa, una famiglia.
Viaggio ed arrivo, movimento e immobilità sono i due poli in contrasto che
qui si incarnano l'uno in un uomo senza nome e l'altro in una donna il cui nome
evoca immagini di maternità e familiarità, che la portano ad essere più un archetipo
che non un reale personaggio. Questo è forse il vizio e il fascino di quasi tutti questi
racconti: il tramutarsi immediato dei personaggi in tipi, in personalità che non si
46 Segnalo in proposito l'articolo di Roberto Gigliucci, Giovinezza, squadrismo e formazione fallimentare (Piazzesi, Gallian, Vittorini), in «Critica leteraria», n. 4, 2006, pp. 657-690, che avvicina i due autori, indagando da un punto di vista ideologico e letterario il legame tra giovinezza, fascismo e violenza.
50
risolvono in sé stesse e nella propria complessità, ma che dipanano il complesso di
sentimenti umani contrapposti attraverso episodi favolosi che, all'opposto di quanto il
primo contatto con le iperboliche ed ipertrofiche sequenze descrittive farebbe
pensare, consentono di semplificare il discorso: non appena si approfondisce l'analisi
oltre il livello strettamente linguistico e retorico finiamo per imbatterci in sostanze
primordiali, elementari segni di umanità, sentimenti e passioni semplicissimi. Questo
ci consente di leggere, come abbiamo fatto finora, ogni racconto come sviluppo
narrativo di una contrapposizione binaria elementare, ora interna ai personaggi, come
in Vita del barone povero, ora esteriore e tra agenti diversi, come in Gli abitatori
della piazza grande.
2.2.4 Il tema della città e della folla
Ci accingiamo ora ad osservare due macro-tematiche, la folla e la città, che si
compenetrano attraversando trasversalmente quasi tutti i testi analizzati. Il gusto
dell'accumulazione, che porta naturalmente Gallian a fare di ogni particolare una
selva di dettagli sempre più grandi, lo conduce ad interessarsi degli agglomerati
urbani e delle grandi concentrazioni di persone. Questo è certo l'esempio più calzante
di come un fattore stilistico in senso lato si traduce in una scelta tematica, una scelta
estetica trascina con sé e travalica le premesse narrative. In diversi casi osserveremo
come l'accumulo di personaggi e comparse offra la possibilità di vedute d'insieme
crudamente caricaturali, vigorosamente polemiche nei confronti dei vizi dell'uomo.
Particolarmente significativi i casi in cui viene mostrata una folla via via crescente di
comparse, macchiette, figuranti che ingrossano e spettacolarizzano episodi i quali
impediscono di sviluppare vere e proprie trame, convertendo i racconti in grottesche
o carnevalesche scene d'ambiente. Sempre in questa ottica si possono, poi, analizzare
le pagine relative alle cerimonie paesane, con i loro vasti campionari umani e quelle
non propriamente narrative, sospese tra satira di costume e bozzetto, con cui viene
tracciata la vita di Roma.
Comincio proprio da queste ultime pagine e, precisamente, dal brano di
51
«Cronache» Rione San Lorenzo47, in cui sono descritti l'omonimo quartiere romano e
i suoi abitanti. Appena varcato l'arco antico ricoperto di ghirlande d'edera
incontriamo i dominatori del rione: «le avanguardie dell'esercito di ragazzi», belli
della bellezza data loro dalla «salute piena» e dalla «carne», che «costruiscono navi
ed aeroplani di legno e di tela, portano il casco degli aviatori o il berretto azzurro
dell'aeronautica militare»: sono, cioè, ben addestrati al verbo fascista. Sono divisi in
due partiti, Marrucini e Pretoriani, che lottano tra di loro per la supremazia, usando la
forza e l'astuzia. In inverno, a scuola, anche se sembrano sottostare alle regole,
vivono con «certo senso rivoluzionario di romper le righe, di far schiera e
combattere», tanto da mettere paura ai propri stessi genitori, ponendoci, ancora una
volta, di fronte al consueto contrasto tra generazioni. Repentinamente la descrizione
si rivolge alle madri di questi ragazzi, «massaie larghe di spalle», vigorose e vitali,
«combattive» e «gelose». Le donne del rione San Lorenzo urlano, ridono e piangono
fragorosamente, depredano i mercati per sfamare «le tribù dei figli», vivono per la
famiglia e tanto amano i cibi forti e il vino, che persino nel deserto «trasportano la
casa intorno alle vesti, il santuario e la caserma». Dagli abitanti lo sguardo si sposta,
poi, ai venditori ambulanti: il primo quadretto è quello grottesco di un organetto a
manovella, «tirato da una giovane vecchia al comando di un uomo barbuto», che
ormai sono legati indissolubilmente a questo ridicolo strumento, che per loro è
divenuto «carro, casa, tenda, mobile». Dal paesaggio malinconico evocato dalla
musica si passa attraverso un gioco di associazioni di idee al paesaggio mediterraneo
creato dai venditori di cocomeri. «Cocomeri gradassi, colorati a salve, messi su a
piramide come le palle di cannoni», che sono la consolazione degli operai che
ammirano «quelle enormi teste recise che ridono dai denti neri». Dopo il passaggio
dei venditori di cocomeri la piazza sembra un campo di battaglia, «bombardata» di
polpa rossa e scaglie verdi.
Quello che ci viene mostrato è un quadro festoso, vitale, solare, è la vita di un
quartiere di ragazzi, massaie e operai, che vivono lottando allegramente in un angolo
di Roma che assume connotati mitici da paesino di campagna, libero, primitivo, non
soggetto a logiche sociali diverse da quelle della famiglia, del lavoro, del cibo. I
47 Marcello Gallian, Rione San Lorenzo, in «900», n. 3, 1928, pp. 136-138.
52
suonatori di organetto lo attraversano senza farne parte, sono una macchietta, una
bizzarria malinconica e passeggera. È lo stesso paese straripante di vita che troviamo
in La madre stanca, intento a festeggiamenti sfrenati, balli e bevute, in una sorta di
rituale pagano e propiziatorio in onore del nascituro figlio di Marianna, oppure in
Processione e nella conclusione vitalistico-metafisica di La casa di Lazzaro48, dove
la folla paesana sfoga i propri istinti violenti e sviluppa una forma primordiale di
socialità.
Questo quadro è completamente all'opposto di quello metropolitano che
Gallian offre in Sogno di Roma49. In questo articolo polemico viene proposta
l'immagine di una Roma che soffoca sotto il peso del proprio traffico, rendendosi
inaccessibile ai pedoni. La polemica di Gallian si appunta contro i numerosi
impiegati ministeriali, contro il loro comportamento borghesemente attaccato allo
stipendio, all'orario fisso, alle abitudini casalinghe e omologanti. In particolare, le
donne che affollano tram e autobus sono pesantemente criticate per il loro modo di
vestire all'americana. Gallian sfoga il suo sconforto immaginando una Roma nuova,
«imperiale», con piazze enormi che le consentano finalmente di respirare, in cui
scompaiano le automobili e ritornino le vetture a cavalli.
Questi brani non narrativi sono utili al nostro studio, poiché aiutano a mettere
in luce un modo di pensare decisamente arretrato, viziato dalla pesante incapacità di
accettare la modernità, la quale, per Gallian, assume il significato di borghesia e
capitalismo. Questi fattori lo avvicinerebbero al contemporaneo movimento di
“Strapaese”, organo ideologico di un fascismo rurale, mettendo in mostra il
cortocircuito di un «novecentismo» peculiare. Non mancano in questi brani, dove la
retorica si placa, tratti tipici di «900», come le immagini stravaganti e l'abbondanza
di metafore, ma dal punto di vista ideale sono lontani tanto da “Stracittà”, appellativo
polemico dato da Malaparte al movimento «novecentista», quanto da “Strapaese”:
anche laddove si esalta la vitalità dei quartieri popolari e dei villaggi, manca una
rappresentazione realmente positiva, ed anzi, questa vitalità, come al solito, si
configura come combattimento per la vita, ma anche come contrasto. La sua idea di
48 Marcello Gallian, La casa di Lazzaro. Quadro quarto, in «900», n. 4, 1929, pp. 171-172. 49 Marcello Gallian, Sogno di Roma, cit.
53
vita libera e violenta si risolve in una forma di nichilismo. Non esiste, dunque, una
realtà pacifica, poiché dove sembra esserci pace, per Gallian c'è solo abitudine la
quale è, a suo avviso, un imperdonabile vizio. È in una sorta di stato di natura, senza
convenzioni, che questa ideologia trova uno sfogo, ma sempre senza risposte. Il
nichilismo di Gallian non ha radici filosofiche, è una reazione irrazionale che nasce
dall'insofferenza per le convenzioni. Il testimone migliore di questo modo di pensare
è sempre il suo Lazzaro, il quale può insegnare al mondo che le regole non valgono
solo improvvisando un racconto dell'Aldilà senza premi né punizioni, pur non
ricordando ciò che ha visto dopo la morte, solo sentendo dentro di sé un richiamo
istintivo ad una libertà che è anarchia.
Ancora di città come specchio del falso possiamo parlare riguardo a Gli
abitatori della piazza grande, dove troviamo l'interessante quadro del quartiere di
Maria. Si tratta di un quartiere di nobili decaduti, vecchi e matrone che vivono in
case ammassate e colorate come baracconi da fiera. Tutto il quartiere assume
l'aspetto di un circo, è cosparso dai segni di una finzione triste: lungo le fondamenta i
palazzi sono coperti da «zinali fermati con chiodi», dietro i quali sembra che dei
burattinai nascosti muovano le sagome degli inquilini alle finestre; gli oggetti che
cadono sulla strada dai balconi hanno l'aspetto di oggetti di scena di una farsa
teatrale. I rari passanti di notturni sono avvolti da un'aura misteriosa, antica e insieme
assurda: una vecchia malandata venduta a un robivecchi, due donne vestite di nero
seguite perennemente da un carro funebre. Pian piano la magia e la finzione che
sembrano regnare sulla città crescono: rimane il sapore malinconico della partenza
dei due amanti, ma l'ambiente è sospeso tra fantasia e allucinazione: compaiono
folletti che alzano i tetti e gnomi che arrotolano le cartacce e i rifiuti per farne enormi
palle da far esplodere nuovamente. Ancora, all'arrivo dei protagonisti in una piazza,
le statue di animali di pietra divengono «una triste fiera leggendaria», i fili elettrici
con le lampadine spente sono «grandi collane barocche». Quest'aura magica perdura
finché i protagonisti non giungono ad adibire la piazza ad abitazione, quando si perde
l'aura fantastico-magica e rimane solo il senso sofferto e paradossale della loro
condizione.
54
Il teatro ed il circo, come abbiamo visto in questo esempio, suggestionano in
modo fortissimo Gallian. Egli trova, in questi ambienti, materiale utile all'espressione
del suo spirito antiborghese: il teatro è finzione, come la vita della maggior parte del
mondo; il circo è spettacolo luminoso e malinconico, specie se chi si trova a fare la
parte del pagliaccio o del burattino non se ne rende conto, come i due anziani
genitori di La regina dei pargoli della città. Questa idea del falso, del contraffatto,
guida, per esempio, la descrizione dei numerosi partecipanti alla cerimonia di
Battesimo in famiglia. In questo breve racconto, tutti cercano di mostrarsi migliori
grazie all'abito della festa:
figli vestiti alla marinara o nelle più strane fogge importate da contradelontane: ragazzi vestiti da cow boys, da spagnoli, da toreri, da mandarini, daturchi con ciabatte di tela e suole di cuoio duro. Gli uomini vestono gli abitimigliori e portano sulle pance angosciose catene d'oro pesanti come gomeneabbandonate […]. Le donne in abito bianco e merletti grezzi, reggono grosse borse di cuoio chesembrano sporte, gonfie di ogni cosa trovata a portata di mano […].
Dopo un ricco inventario del contenuto di queste borse, vediamo che tutti portano
con sé grandi mazzi di fiori. Alcuni di questi fiori sono emblematicamente «in
agonia», «odorano di concime o di cadavere e le mani dei portatori sono imbrattate
dello sterco di quei fiori». Insomma l'eleganza dell'occasione festosa si rivela il
momento migliore per colpire con le armi della deformazione e dell'ingrandimento
del particolare, con la consueta attenzione morbosa all'osceno e all'immondo, la
ridicola messinscena della borghesia in parata. Una borghesia che non è sinonimo di
ricchezza, ma di meschinità, grettezza e vizio. Gallian, nel descrivere gli sguardi
golosi dei presenti, di fronte a un banchetto che diventa una sorta di cerimonia di
comunione pagana, giunge fino a mostrarne la scoperta attitudine al furto:
A guardare i visi attenti, devoti e trasognati, c'è da pensare che il pane e ilvino e le frutta e i dolci si tramutino e in carne e in sangue […]. La golositàspingerebbe quella gente a delitti terribili, a propositi inimmaginabili; unagolosità furtiva che si estende […]; il desiderio di rubare è in tutti.
Una cerimonia paesana è anche l'argomento di Processione, racconto che
55
sintetizza in maniera esemplare le diverse ispirazioni del Gallian «novecentista». È
sottotitolato «(pezzo di romanzo)», ed effettivamente un semplice confronto lo
conferma come un “pezzo”, non di un romanzo, bensì del dramma La casa di
Lazzaro. Sembra essere – e calchi puntuali lo confermano – la descrizione della
«festa» il cui passaggio è descritto nel quarto e ultimo quadro del dramma, come
vedremo in seguito. Nel racconto si descrive una processione a cui partecipa tutto il
paese, meticolosamente censito dai suoi abitanti più comuni ai personaggi più
stravaganti. Ognuno ha, all'interno della rappresentazione il suo ruolo, ed ovviamente
il suo vistoso travestimento. Come al solito, questo costume non inganna, ma mostra
la propria essenza artificiosa, spingendo il sacro progressivamente a sprofondare nel
profano, la cerimonia religiosa nello spettacolo circense. Così «l'Angelo del
Giudizio» è il figlio del portiere, le «verginelle appena nate» portano «corone d'oro
falso» e «fiori di carta colorata» come «comparse in un'opera musicale». La
processione continua da tre giorni e, a seguire il baldacchino della Madonna e la
gigantesca orchestra, c'è tutto il borgo, comprese le case, le osterie, i negozi, sradicati
dalle fondamenta e trasportati su grandi carri. Da queste brevi note vediamo
chiaramente come il consueto gusto iperbolico di Gallian trovi qui ampissimo spazio.
Sembra che ad essere in parata sia tutto il suo immaginario, la più varia umanità: uno
storpio, un cieco accanto al gruppo dei crociferi, ai quali «il tronco entra quasi nei
petti e nei ventri, s'è fatto come umano»; «un San Giuseppe» dalla barba grigia
accanto al gruppo dei sacristi in camice. In questo «inferno» di corpi umani, dove «la
marea» travolge chi si ferma per adorare la Madonna, si distinguono due figure
femminili: comare Sora e la vergine Maddalena. Quest'ultima fa innamorare di sé
tutti gli uomini che le passano accanto, non solo i crociferi, ma persino il sacrista
Matteo, che prega rivolto verso di lei chiamandola «Rosa mistica! Vergine santa!».
Maddalena addirittura rivendica per sé, «vergine e immacolata», l'aureola della
Madonna, aureola che in questo caso non è certo simbolo di santità, ma ancora una
volta è parte di un travestimento, un oggetto di bellezza, un vezzo da «inchiodare
nella carne, dietro il collo». Le due donne riescono, poi, a raggiungere, nella
confusione, il marito di Sora, padre di dieci figli, ennesima figura maschile
ossessionata dalla paternità.
56
In questa caotica parata scoppia improvviso il desiderio di rivoluzione che,
spiega il narratore in una digressione:
nasce dalle parole che generano le urla, dai pugni che generano le battaglie,dall'arsura che fa nascere un solleone in prima notte e la sete, una seteinappagabile che proviene dalle urla, dal sapore dei vestiti e della carta, dallacenere dei mortaretti dispersa nelle gole, dal continuo stropiccio dei corpi l'uno contro l'altro, dai fantocci portati in processione, da personaggi veri di una mitologia antica[...].
La rivoluzione è una sorta di richiamo spontaneo, si sente ma non si riesce a
spiegare. Questo istinto violento e repentino si impossessa di tutti e genera la ferocia
che abbiamo descritto sopra: una vera crocifissione, “spettacolarizzata” dal
travestimento di un falso Cristo che non redime dai peccati, non è un capro
espiatorio, ma la vittima di un desiderio macabro che sfocia in una sorta di numero
da circo. Conclusa questa grottesca e sadica parata, questo rito che tiene del
paganesimo e del cristianesimo paesano, la folla si disperde.
Abbiamo ragione di ritenere, come segnalato sopra, che questo brano descriva
quella che al termine di La casa di Lazzaro, viene indicata come «festa». Il terzo
quadro50 si conclude con il suicidio di mastro Giovanni, il falegname, che non
sopporta l'idea che il Paradiso e l'Inferno non esistano. All'inizio del quarto quadro
viene descritta la città dopo la partenza di una processione che dura, come nel
racconto, da tre giorni: gli abitanti sono partiti per la libertà, per costruirsi un
Paradiso senza regole e viverlo in terra. In città sono rimasti solo Lazzaro e un bazar,
che vende gli stessi oggetti che ritroviamo nelle grida dei venditori ambulanti di
Processione, nonché i medesimi strumenti che nel racconto sono suonati dalla grande
orchestra. Se questa ipotesi fosse confermata, allora il racconto appena visto
acquisterebbe maggiore coerenza. Infatti, laddove la violenza era istinto immotivato,
frenetico e sadico, ora potremmo, trovando una spiegazione nel fatto che la parola di
Lazzaro ha cancellato il Bene e il Male, motivarla come conseguenza della libertà
dalle leggi e dalle convenzioni. Le due cose non sono in realtà così distanti, se
pensiamo che Lazzaro ha inventato tutto, non ricordando esattamente quello che
aveva visto nell'Aldilà, e perciò le sue parole liberano istinti che non sono nuovi, ma
50 Marcello Gallian, La casa di Lazzaro. Quadro terzo, in «900», n. 4, 1929, pp. 166-169.
57
che già erano presenti negli abitanti del suo villaggio in quanto uomini. Nell'ottica
ideologica di Gallian, una parola divina o un istinto interiore e potente – il che è
quasi lo stesso – una volta liberato il mondo da ogni imposizione, legge o contratto,
rende possibile agli uomini di esprimersi liberamente, ma l'espressione libera, per lo
scrittore romano, è sempre violenza, contrasto, lotta e sopraffazione.
L'ultimo racconto che qui prendiamo in esame è La Madonna dei mercati.
Una volta usciti di casa, dopo il suicidio di Michele Stamo, la madre e il narratore
iniziano una passeggiata attraverso le vie della città. La madre, infatti, non trovando
giustificazioni al gesto del figlio, credendolo, anzi, un errore, non trova consolazione
ed esce di casa, con l'intenzione di fare compere. A poco a poco, a questa passeggiata
senza un vero scopo si aggiungono numerosi passanti, fino a formare una «piccola
folla». Incontrano, poco dopo, un «crocchio» di persone che cantano e numerosi
passanti che stanno in ascolto, quasi di nascosto, con «pudore vile». Entrano, poi, in
un negozio di nastri, dove la madre acquista alcune cose pagando al mellifluo
commesso «merce e sorrisi», «toccando il denaro con un piacere sensuale». Il
commesso decide di seguirli in un negozio di fiori, dove la madre acquista fiori finti
di ogni foggia e materiale, prima di restare incantata alla vista di alcuni fiori vivi. I
fiori finti sono oggetti che ricorrono spesso nell'immaginario di Gallian, come una
sorta di mostruoso tentativo di contraffazione della natura, sempre descritto in modo
minuzioso e paradossale. Il fiorista impedisce alla donna l'acquisto di questi fiori, i
soli fiori vivi del suo negozio, e questo rifiuto acquista il valore di un simbolico
richiamo alla morte. I tre escono e vengono seguiti da un carretto, «tirato da un servo
in livrea». Il gruppo si accresce ulteriormente: il giovane commesso convince un
gruppo di «ragazzi, balie e fanciulle» a seguire questa processione improvvisata fin
dentro una piazza, dove non sono altri che loro, il carretto, il gruppo di persone che
cantano, una vecchia e un venditore di angurie e meloni. La madre invita tutti a
vestirsi a lutto, offre al narratore e al commesso una rossa fetta di anguria,
invogliando tutti a partecipare a questa sorta di comunione: l'anguria appare
«sanguinosa» come carne. L'aspetto della madre, agli occhi dei presenti, è ora quello
di una «Madonna senza Bambino, lugubre e splendente». D'un tratto, la processione
58
si muove seguendo la donna e incontra un plotone di soldati a cavallo e di fanti, tristi
e solitari. Tutti si fermano meravigliati a seguirne il malinconico passaggio fino a che
non dimenticano il motivo per cui erano partiti. Il narratore, la madre e il commesso
concludono il loro viaggio sedendosi in un caffè sconosciuto, lasciando fuori la folla
che avevano radunato. Il caffè è affollato e devono separarsi, aggregarsi ognuno ad
un tavolo diverso, seguendo i propri pensieri fino a dimenticarsi a vicenda e ad
addormentarsi.
«Il suo eroe – scrive Massimo Bontempelli riguardo a Gallian – parte solo
per l'avventura e quando arriva è diventato una folla»51: difficilmente troveremmo
parole più calzanti per cominciare a descrivere questo racconto. Il narratore segue
con occhi meravigliati questa madre che non riesce a spiegare il suicidio del figlio, la
studia, ne osserva i gesti e i modi. Lei, intanto, parte alla ricerca di vaghe
consolazioni materiali, ma finisce per vedere nella vita dei fiori la stessa vita
conclusa del figlio. Nel suo dolore riesce, però, a fare di sé stessa una figura di santa:
ancora una volta, come in Processione, si forma un gruppo, una folla che si ritrova a
compiere, quasi naturalmente, una sorta di rito pagano. Altrettanto inspiegabilmente
di come si è radunato strada facendo, questo gruppo si dissolve. A segnare la fine del
racconto c'è il fumo delle sigarette che oscura il caffè, dove l'oblio, almeno
momentaneo, di sé stessi pare l'unica soluzione.
Questo racconto assume particolare rilievo all'interno di questo corpo di testi,
poiché qui non compare come logica dominante il contrasto: a guidare la narrazione
è la patetica «gioia di comprare» che la madre si impone per superare il dolore, ma la
finzione borghese di questa copertura non è oggetto di polemica, viene descritta,
anzi, in maniera commossa e nello stesso tempo affascinata. Quello che domina è un
senso cupo di malinconia, dove la costruzione di un gruppo umano non conduce alla
soluzione violenta a cui siamo abituati, bensì ad un nichilismo diverso, rassegnato.
Le tristi figure che i tre incontrano all'interno del caffè sono l'immagine più eloquente
di questa rassegnazione grottesca:
Cinque persone: padre, madre e tre donne, camuffate da vecchie, cherassomigliavano stranamente al padre e alla madre, per un vizio di abitudine e
51 Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 1938, p. 522.
59
di contatto. Pezzi di gelato erano sparsi ancora sul tavolo, ognuno dei quali portava segni di bocca e di labbra, come la neve ai margini delle strade orme dei piedi.Essi non si sapevano difendere da quel gelo colorato e dolciastro, con le loro mani e coi loro visi rigati, così come i bambini poveri, laceri e scalzi, nonsanno difendersi dal freddo dell'inverno. Le labbra del padre erano spaccatecome d'uso e qualche goccia di sangue cadeva sul mantecato di limone checedeva ad un lieve foro rosso; altre gocce di quel piacere invernale colavanodalle bocche smunte sulle mani delle donne, e quelle mani le sostenevanodure e incartapecorite, con rassegnazione e con pietà.52
2.3 Analisi formale
Le strategie formali attraverso le quali Gallian costruisce e rappresenta
l'immaginario che abbiamo fin qui osservato sono state accennate solo brevemente.
Nei successivi paragrafi approfondisco l'analisi degli aspetti stilistici e formali, allo
scopo di mettere in rilievo la loro continuità rispetto agli aspetti tematici di questi
testi sperimentali. La mia analisi si concentra sui rapporti che intercorrono tra le
scelte lessicali, le costruzioni sintattiche e le impalcature narrative, al fine di
mostrare come l'uso di procedimenti iterativi ed elencativi, che costituiscono la cifra
più peculiare di Gallian, si esprima su più livelli, progredendo da porzioni ridotte di
testo alla costruzione dell'intero racconto. Cerco, laddove possibile, di mostrare il
legame tra contenuto e forma.
2.3.1 Notazioni lessicali e sintattiche: enumerazione e paratassi
Le osservazioni contenute in questo paragrafo spaziano dagli aspetti lessicali
e dall'uso figurato del linguaggio di Gallian a quelli propriamente sintattici.
Un'analisi di questo tipo permette di osservare da vicino le cause di quella sensazione
di spaesamento e confusione che inevitabilmente si prova al primo contatto con
questi racconti. Anche se sarebbe opportuno uno studio più approfondito sulle scelte
strettamente lessicali e sui campi semantici privilegiati in questi testi, in questa tesi
seguirò l'indicazione di Carlo D'Alessio secondo cui, «più che il riferimento a singole
52 Marcello Gallian, La Madonna dei mercati, cit.
60
opzioni lessicali o aggettivali», è opportuno, «per un discorso che voglia insistere di
più sulla consapevolezza delle strategie stilistiche, porre attenzione all'uso che
Gallian fa di alcune figurae verborum»53.
Comincio osservando una caratteristica peculiare di Gallian, nella quale molti
critici hanno individuato gran parte della sua originalità: l'uso dell'aggettivazione. Gli
aggettivi vengono utilizzati spesso in modo non del tutto proprio, secondo intenzioni
ora metaforiche ora iperboliche; specialmente quando utilizzati in coppia o in terna
(talvolta in rari casi sono addirittura quattro) danno la sensazione di voler
circoscrivere un'immagine o una sensazione inafferrabile, con esiti, non sempre
felici, di carattere non solo iperbolico ma anche ossimorico o sinestetico. Osserviamo
alcuni esempi: «un'antica donna»; «Casa […] dipinta al modo chiassoso e triste dei
baracconi da fiera»; «una triste fiera leggendaria»54; «[le] balie […] passeggiavano
[…] decadute, secche e polverose»; «le guardiane […], le più sode e nerborate»; «i
due vecchi genitori erano bassi, indecisi e trasparenti»55; «Grisou doveva apparire
alto due metri, pallido e mingherlino»56; «Sono vecchio, sano, alto e rubicondo»57;
«una giovane vecchia»58; «bocca inutile e pensosa»; «bocciuoli d'argento,
inverosimili, assurdi, inventati»59; «soggezione misteriosa, forte e intima»60.
Questo elenco di esempi serve a dare un'idea delle ampie possibilità
espressive di questo uso. L'aggettivo singolo si trova spesso a istituire un rapporto
ossimorico o paradossale col proprio sostantivo, mentre gli aggettivi raggruppati a
due, tre o quattro non sempre sono in accordo logico e consequenziale tra di loro:
quando non siamo in presenza di un ossimoro, almeno uno, di norma, si trova ad
avere un significato metaforico che carica di senso deformante anche gli altri
aggettivi o, nei casi peggiori, ha una funzione gratuitamente altisonante. Più rari, ma
non infrequenti, i casi di serie di sinonimi che sembrano come ruotare attorno
53 Carlo D'Alessio, Marcello Gallian: un espressionista in nero, in «Critica letteraria», n. 2, 1994, pp. 377-390. Cit. da pp. 383-384.
54 Marcello Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit. In questo, come in tutti i casi successivi, i corsivi sono miei.
55 Idem, La regina dei pargoli della città, cit.56 Idem, Vita del barone povero, cit.57 Idem, Cronaca nera..., cit.58 Idem, Rione San Lorenzo, cit.59 Idem, La Madonna dei mercati, cit.60 Idem, La madre stanca, cit.
61
all'oggetto, creando quello che abbiamo già citato come «ritmo ternario
nell'aggettivazione» (Luxardo Franchi). È da notare come alla logica oppositiva, che
domina a livello tematico, si affianchino scelte lessicali che sfruttano ampiamente il
contrasto, sia pure solo verbale; alla violenza narrata, corrisponde altrettanta violenza
nei rapporti tra i vocaboli.
Abbiamo parlato dei casi di ossimoro. Vorrei evitare di realizzare un arido
elenco di metafore, similitudini e altre figure utilizzate da Gallian, per sintetizzare
invece il discorso in alcune linee generali. Possiamo dire che il linguaggio figurato
volge naturalmente in direzione dell'iperbole, figura che permea sostanzialmente
tutta la narrazione, improntata all'amplificazione del dato di realtà. Annoto
solamente, per la sua frequenza rispetto ad altri, quel particolare tipo di metafora in
cui si ha il metaforizzato come complemento di specificazione e il termine
metaforizzante come sostantivo. Questo tropo concorre efficacemente, assieme alle
armi dell'elenco e dell'enumerazione, a creare un effetto di realismo e nello stesso
tempo di esagerata amplificazione. Ad esempio:
golfi grigi delle finestre;porticati di fili d'erba;
armatura dei busti e degli spilloni61;reggimenti numerosi di abiti appesi;una sommossa di visi rossi e fumanti;piramidi e castelli di parole;un braciere di fiati pestilenti62;[la] piazza grande di quel carro63;
Si noti come in questi casi la metafora sia spesso presa dal campo semantico della
guerra e della rivolta, con l'intento di esprimere una realtà confusionaria ed
esuberante, anche quando ci si riferisce ad oggetti comuni come spille o vestiti, quasi
che la violenza si annidi in ogni aspetto del reale.
Una ulteriore annotazione meritano quei casi in cui l'uso iperbolico crea un
61 Marcello Gallian, La regina dei pargoli della città, cit.62 Idem, Vita del barone povero, cit.63 Idem, La madre stanca, cit.
62
singolare cortocircuito tra significato letterale e figurato. Dopo scene condotte con
gli stilemi amplificatori fin qui elencati, vengono mostrate, talvolta, le conseguenze
catastrofiche o imprevedibili di quanto narrato. Quando queste conseguenze non
sono messe in rilievo come ipotesi, ma come eventi reali, l'iperbole precedente si
rivela ambigua, al confine tra figura retorica e esperimento di realismo esasperato,
dal momento che gli effetti di quanto descritto con evidente eccesso vengono
mostrati come effettivamente realizzati. Ad esempio, in Gli abitatori della piazza
grande, dopo che Gallian ha enumerato tutti gli oggetti di inusitata mole che Maria
ha portato con sé, informa che «ella aveva strappato tutto a quella stanza,
defraudando i poveri, le suore e i robivecchi», confermando come reale l'espressione
utilizzata per esprimere il timore del protagonista, cioè che Maria «è una di quelle
donne […] che non possono vivere, se non hanno la casa appresso»64, la quale a
prima vista era parsa evidentemente paradossale. Questo uso si inscrive in un
particolare gusto di Gallian, il quale si volge sempre a guardare alle conseguenze
delle creazioni della propria esuberante fantasia come possibilità di sviluppo
narrativo, istintivamente scatena la guerra per poter rovistare nel campo di battaglia.
Inoltre, egli indaga le possibilità espressive date dal paradosso di intendere alla
lettera il linguaggio proverbiale o figurato. Come esempio di questo secondo caso si
può citare Vita del barone povero:
Secondo i proverbi, c'è sempre uno nella vita che mangia i rifiuti gettati da un altro.
Ma se anche avesse voluto Grisou non li avrebbe trovati, per laragione che se li mangiava quell'altro. E quell'altro trovava sempre gli involti e i pezzi di pane dimenticati, prima di Grisou65.
Riprendiamo ora il discorso cominciato sopra relativamente alle sequenze di
aggettivi. Possiamo allargare la prospettiva sottolineando che difficilmente, in questi
racconti, si trovano sostantivi privi di una qualunque specificazione, sia essa un
attributo, un'apposizione, un complemento di qualità o di specificazione, una
successione di proposizioni relative che lo identificano. Questo rientra nel
procedimento tipico di costruzione del periodo di Gallian: un procedimento per
64 Marcello Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit.65 Idem, Vita del barone povero, cit.
63
aggiunzione, dove ogni proposizione può allargarsi a diventare periodo, grazie all'uso
di una sintassi paratattica, condotta attraverso processi asindetici, caratterizzati da un
ampio e personalissimo uso della punteggiatura. Il tentativo di possesso che Gallian
attua verso la propria materia si realizza, spesso, con l'uso di frequenti e lunghissime
sequenze enumerative: da ogni pensiero scaturisce una sorta di delirio immaginativo
che si traduce in lunghi e paradossali elenchi. Ogni ambiente viene indagato
minuziosamente con un ampio inventario degli oggetti, dai più comuni ai più
improbabili, che troviamo al suo interno. Vediamo due esempi, il primo da Gli
abitatori della piazza grande, il secondo da Battesimo in famiglia:
Pensai che nella camera deserta erano rimasti uno scheletro d'armadio, unletto che mostrava i ferri, un cassettone con i cassetti spalancati, un comodino aperto con dentro alcuni tovaglioli di carta, sulle pareti grandi orme di quadrie di immagini, il soffitto devastato dei suoi grandi fioroni rosa […].
[…] grosse borse di cuoio […] gonfie di ogni cosa trovata a portata di mano;sveglie, specchi, spazzole, spighe profumate, ninnoli di bronzo di quelli chefigurano sui mobili di casa, cucchiai, fazzoletti grossi che servirebbero comefodere di cuscini, e uccelletti variopinti di quelli che girano per casa eimbrattano i tavolini e le madonne appese ai muri.
Di ogni particolare si analizza minuziosamente ogni dettaglio, in modo da farlo
crescere e fargli acquistare una fittizia parvenza di centralità, prima di superarlo col
particolare successivo, che tira con sé un'ulteriore serie di dettagli. Questo periodare
si costruisce, per così dire, a “vortici” successivi, vortici in cui, non di rado, la
narrazione si disperde. Analizziamo, poiché esemplare, il lungo periodo seguente,
tratto da Rione San Lorenzo:
Quando vanno a scuola d'inverno sembrano modesti e distratti alfianco del padre o della nonna, e quasi in borghese: portano la cartella o i libri legati come i soldati le tende e lo zaino: in fila, calpestano il fango che riluce,a testa bassa, le mani nelle saccocce, con certo senso rivoluzionario di romper le righe, di fare schiera e di combattere, che metterebbe timore al più baffutogenitore e alla più maestosa massaia del quartiere: quelle massaie larghe dispalle prolifiche per orgoglio e per amore di sé stesse, che arrivano daimercati cariche di sporte e di masserizie, infronzolate di erbe e di cipolle,predatrici di carne nuova che sanguina per le bocche armate di denti.
64
È un periodo lungo, reso poco complesso dalla paratassi, sintomatico di un modo
tipico della prosa gallianiana di passare da un argomento all'altro tramite salti logici e
ripetizioni. Le proposizioni che descrivono il comportamento e l'aspetto dei ragazzi
sono poste in successione e inquadrano ciascuna un dettaglio diverso, utilizzando i
due punti come legame sintattico. Una volta descritta la loro attitudine violenta, si
introduce con una relativa il contrasto con i genitori; l'ultimo complemento di
termine («alla più maestosa massaia») serve a fornire un nuovo soggetto per il
periodo successivo, coordinato per asindeto, il quale comincia ripetendo in
anadiplosi il termine «massaie». Grazie a questo salto logico, si fa seguire alla
descrizione dei ragazzi quella della vita di queste «massaie». Nei casi in cui questo
processo non disperde l'attenzione, si ottiene l'effetto di uno sguardo che si ferma via
via su immagini diverse. Laddove, invece, il legame dello sguardo si sgretola si ha
l'impressione che la materia sfugga al controllo del narratore, le continue addizioni
indeboliscono il già labile legame logico, come in questo esempio, ancora da Rione
San Lorenzo:
Pauroso pianoforte nella notte dei rioni che passa nei sogni deicarcerati alla Lungara sopra una nuvola barocca fra un cuore trafitto, unacolomba che reca una lettera nel becco e una canzone triste stampata sullavelina gialla fra i paesaggi delle spalle degli uomini dove son vergate parolecol sangue delle spille avvelenate d'inchiostro; così diverso dal paesaggioestivo e clamoroso delle cataste di cocomeri verdi e rossi sopra stuoie e sopratele nell'angolo della piazza Tiburtina […].
Il primo esempio mostra come in Gallian la punteggiatura sia un elemento
fondamentale nella costruzione frastica. In particolare, i due punti – scambiati
frequentemente e quasi senza distinzioni con il punto e virgola – sono l'espediente
privilegiato per affiancare una proposizione all'altra, focalizzando, come abbiamo
visto, l'attenzione su particolari diversi. La sua originalità sta nello sfruttare i due
punti per evitare l'uso delle congiunzioni e delle determinazioni temporali, tra
proposizioni dove il rapporto è logicamente consecutivo o causale, ma diviene
sintatticamente coordinativo. Il risultato, nei casi migliori, è una successione
brachilogica efficacissima. Ad esempio:
65
La ragazza lo guarda: egli arrossisce e sbianca: ha capito quel che gli spetta:si rincantuccia in un angolo della camera e attende che torni la donna e nontocca cibo.
Cinque proposizioni con valore differente (principale, consecutiva, causale, due
consecutive coordinate tra loro) sono affiancate paratatticamente creando un efficace
effetto di rappresentazione psicologica immediata: il rapporto logico è evidente, ma è
reso suggestivo dalla simultaneità.
Altro strumento chiave della costruzione sintattica di Gallian è l'anafora,
come efficacemente messo in luce da Carlo D'Alessio e, dopo di lui, da Barbara
Stagnitti. D'Alessio, in particolare, ha sottolineato come il suo uso frequente serva a
«dare solidità ad una sintassi altrimenti desultoria». Ecco due brani in cui espedienti
anaforici obbediscono allo scopo di un «rassodamento sintattico»66:
Allora Grisou afferrò un saxofonoAllora […] tutti gli uomini si alzaronoAllora Grisou fece una retata67;
C'è un grammofono appollaiato sopra un mobile che si sgola a cantare, c'èuna bambina che suona le scale sul pianoforte […]. C'è un tenore che canta isolfeggi […]68.
Nel primo caso, tre azioni differenti e slegate logicamente tra di loro, sono unite dalla
presenza del protagonista e dal suo punto di vista, trovando nell'anafora un legame
retorico che, oltre a rendere evidente questo sguardo in movimento, istituisce una
sorta di debole legame sintattico. Nel secondo caso, pur essendo legate logicamente,
le tre proposizioni trovano nell'anafora l'espressione dell'elemento unificante dello
sguardo, dando la sensazione che le tre figure si presentino una dopo l'altra in rapida
successione. Questo stratagemma testuale consente di mantenere il controllo su scene
ed episodi che pongono il fuoco progressivamente su particolari diversi, che si
susseguirebbero altrimenti senza soluzione di continuità, attenuando la sensazione di
dispersione che un tale confuso incedere della narrazione inevitabilmente provoca. In
66 Carlo D'Alessio, Marcello Gallian..., cit., p. 384.67 Marcello Gallian, Vita del barone povero, cit.68 Idem, Battesimo in famiglia, cit.
66
realtà più che una sensazione di spaesamento, quello che Gallian cerca
continuamente di provocare è una sensazione di assolutezza: vuole slegare la propria
narrazione dalla contingenza spaziale e temporale: luoghi, tempi e personaggi
devono assumere un rilievo mitico, e direi, in alcuni casi, addirittura biblico. Il suo
immaginario caotico e violento cerca sempre un modo fantastico di esprimersi. Uno
degli stilemi caratteristici usati a questo scopo è l'uso frequente di espressioni vaghe,
che indicano un disordine spaziale, temporale e modale. Locuzioni del tipo: «di qua e
di là», «a casaccio», «dopo un tempo indeterminato», «un giorno», «non so perché»,
«chissà poi perché», «di quando in quando», «chissà dove», «dopo parecchi anni»,
«un lontano paese, che non ha nome», ricorrono frequentissimamente nei racconti
qui analizzati e fanno parte di questo intento di idealizzazione e astrazione del
messaggio.
Le due strategie testuali esposte sopra, uso dei due punti paratattici e anafora,
possono essere visti anche come l'equivalente sintattico dell'enumerazione. Questo
passaggio dalla sintassi di frase alla sintassi del periodo, apre alla successiva analisi,
che svolgerò nel prossimo paragrafo, di quella che ho definito “paratassi diegetica”,
ovvero dell'accostamento di episodi e scene in successione, non motivati da
continuità logiche. Con questo si intende enucleare un principio compositivo della
prosa di Gallian, che definirei, appunto, enumerativo, che può agire ad ogni livello
del testo.
2.3.2 Costruzioni narrative: “paratassi diegetica” e discontinuità
I racconti «novecentisti» di Marcello Gallian, anche se simili, come abbiamo
visto, dal punto di vista tematico, lessicale e sintattico, hanno esiti decisamente
differenti tra di loro per quanto riguarda la coerenza interna, l'equilibrio costruttivo e
diegetico. Ho parlato di “paratassi diegetica” riferendomi ad una modalità di scrittura
sempre presente, in qualche misura, in questi testi, che si caratterizza come
costruzione a blocchi successivi di narrazione, interrotti da tirate descrittive, lunghi
elenchi, similitudini: qualcosa di analogo a quello che per la macrosintassi ho
67
definito periodare a “vortici” successivi. Non di rado gli stilemi iperbolici, l'uso di un
periodare esuberante e il predominare della descrizione sulla narrazione fanno sì che
questi racconti deflagrino in una giustapposizione di brani, il cui legame, fornito
dall'intreccio, si rivela malsicuro. Questo è un difetto sul quale ha sollevato, a
ragione, l'attenzione la maggior parte dei suoi critici per quanto riguarda i romanzi,
ma che, nei casi meno riusciti, si riscontra anche nella misura breve. Anche se
indubbiamente la piccola mole di questi testi garantisce una discreta coerenza,
accade che la narrazione si sfaldi in una serie di quadri staccati, che non trovano
giustificazione logica, se non nello sguardo unificante di un protagonista e nella loro
successione cronologica. Questo modo di costruire può, quindi, rivelarsi come difetto
strutturale e destabilizzante, come nei casi di La regina dei pargoli della città e Vita
del barone povero, due primi esperimenti di «realismo magico», sostanzialmente
falliti. In questi due racconti ogni sequenza sembra far riferimento solo a sé stessa, il
punto di vista assunto dal narratore esterno cambia spesso, specialmente nel primo. Il
pensiero dei personaggi, reso in genere col discorso indiretto libero, ma anche in
modo diretto o con brevi monologhi interiori, si sovrappone al giudizio del narratore,
non sempre in modo coerente. Gallian si fa, talvolta, sopraffare dal proprio gusto
descrittivo ed è costretto, per far progredire la narrazione, a ricorrere a notazioni
didascaliche che introducono la nuova scena. Ad esempio, in La regina dei pargoli
della città:
Un bel giorno i due vecchi fecero la figlia enormeAvvenne così
Un ripiegamento sulla frase breve e lapidaria è, addirittura, anche l'incipit di Vita del
barone povero, che sembra scritto per vincere l'horror vacui della pagina bianca:
L'infanzia di Grisou fu questa.
In realtà, come abbiamo osservato in sede di critica tematica, in entrambi i racconti è
presente un messaggio di fondo, una possibile lettura ideologica, ma questo modo di
costruire il racconto lo rende ambiguo (se non inerte), non sappiamo quanto
intenzionalmente da parte dell'autore.
68
Un esempio, al contrario, di racconto ben costruito è Gli abitatori della
piazza grande. A donare coerenza alla narrazione è senz'altro il ricorso al
protagonista come voce narrante. In questo modo i frequenti giudizi, le immagini
varie e ricche, il monologo interiore, non appaiono come in altri casi ingiustificati e
ridondanti, ma si giustificano in quanto nati dallo sguardo angosciato del
protagonista, i cui pensieri spaziano dall'immaginario al reale in modo affascinante.
La logica del contrasto tra uomo e donna che regge il racconto è espressa tutta dal
punto di vista dell'uomo, che dà degli avvenimenti e dei comportamenti di Maria una
propria interpretazione. Non dimentichiamo che l'idea di letteratura che Gallian ha, è
quella di uno strumento di comunicazione, di un veicolo per il proprio messaggio
rivoluzionario. È per questo che, sia dove la narrazione è condotta in prima persona,
sia dove lo è in terza persona, sono sempre presenti parole di commento, giudizi e
valutazioni. Tenuto conto di questo, non sarà difficile comprendere che laddove
narratore e protagonista si identificano e, perciò, i giudizi si giustificano in un ottica
che è tutta interna alla narrazione, la presenza ingombrante di una morale o di una
ideologia, sia pure confuse, non appesantiscono il risultato artistico. Dove, invece, la
narrazione è in terza persona, come nel racconto La madre stanca, il lettore è
infastidito dalle costanti parentesi che Gallian inserisce per esprimere i propri
pensieri sulla paternità a commento di questa inquietante «storia vera», come la
definisce. Lo stesso discorso vale, a maggior ragione, per i Due pezzi, Sogno di
Roma e Comando tappa, nei quali il taglio è giornalistico nell'uno e autobiografico
nell'altro: annullandosi la distanza tra l'uomo e il personaggio, la retorica e
l'egocentrismo moralistico ne fanno delle prove assolutamente trascurabili dal punto
di vista artistico. Simile a questi due testi, ma discontinuo, è, invece, il “bozzetto”
Rione San Lorenzo. Si compone di due parti separate da un bianco tipografico,
ciascuna composta da due descrizioni successive. I primi due quadri descrivono i
ragazzi e le madri del rione e non sono che ridondanti rappresentazioni di una sorta
di umanità idealizzata, secondo i canoni a cui Gallian ci ha abituato: violenza,
esuberanza, fecondità. La seconda parte è più interessante poiché mostra due figure
più caratteristiche e, certo, molto meno ideali, ovvero i suonatori di organetto e il
venditore di cocomeri.
69
Nonostante quanto appena detto, non si escludono casi di narrazione in terza
persona che sanno essere molto suggestivi, come Battesimo in famiglia e
Processione. Nel primo, Gallian riesce a calare la propria critica alla borghesia nella
deformazione, riuscendo a renderla implicita nel taglio che dà alla sua descrizione.
Anzi, nella sequenza finale, adotta coerentemente il punto di vista del marito e rende
così, efficacemente, l'atmosfera grottesca e asfissiante della cerimonia. Nel secondo,
il punto di vista esterno del narratore riesce a calarsi progressivamente all'interno
della folla, seguendo i vari momenti della processione, fino alla catastrofe finale. Il
narratore si identifica con lo spirito violento, che attraversa tutti spingendoli alla
rivolta. Con l'uso di un discorso indiretto libero e di un discorso diretto che si fanno
espressioni corali, Gallian giunge ad una coerente forma espressiva per la propria
idea di violenza connaturata all'uomo, che diviene la violenza insita nei propri furiosi
personaggi.
Prima di concludere questa analisi della tenuta strutturale di queste giovanili
prove di «novecentismo», riassumiamo quanto detto fin qui. Appurata l'originalità
del linguaggio e delle soluzioni espressive di Gallian, i difetti formali che causano un
effetto di spaesamento nel lettore di questi racconti sono essenzialmente due. Il
primo è la mancanza di coerenza e necessità consequenziale nello sviluppo
dell'intreccio; il secondo è l'insistenza delle intrusioni d'autore non giustificate da
motivi interni alla logica del racconto. Concludo, dunque, questo capitolo, rileggendo
due racconti la cui tenuta si sfalda a causa dell'eccesso, rispettivamente dell'uno e
dell'altro, dei difetti qui riassunti: La Madonna dei mercati e Cronaca nera.
La Madonna dei mercati evita il secondo dei due rischi che abbiamo
osservato: il punto di vista del narratore e protagonista è, infatti, unitario e coerente,
la narrazione in prima persona evita dispersive intrusioni. Al contrario, la costruzione
dell'intreccio è tutt'altro che consequenziale. Il racconto si basa sostanzialmente su
una successione di incontri con gruppi di persone via via crescenti, fino allo
scioglimento finale. Sembra che vi sia un intento allegorico nella processione che,
progressivamente, si raccoglie attorno alla figura materna, ma non si riesce a
svelarne il significato. La tensione si risolve in un evento simbolico, in un rituale, che
70
porta poi ad un rapido scioglimento. Il gruppo creatosi spontaneamente si disperde
così come era nato: l'impressione di allegoria resta irrisolta. È questo un caso
esemplare di come il meccanismo enumerativo agisca a tutti i livelli: dalle vere e
proprie enumerazioni nominali, alla sintassi paratattica, all'anafora che sostiene i
periodi, all'iterazione della scena dell'incontro che guida la costruzione dell'intreccio
di gran parte di questo testo.
Cronaca nera è, invece, una sorta di favola morale, divisa in sequenze di
taglio diversissimo l'una rispetto all'altra. L'incipit è indubbiamente fiabesco, ma
l'evento macabro del suicidio in piazza della donna introduce un aspetto inquietante.
La tensione, così creata, si stempera parzialmente a causa della serie di
considerazioni sulla morte posta subito dopo. Segue, poi, una lunga descrizione della
palazzina e del suo guardiano, che costituiscono due trovate molto interessanti, ma,
immediatamente dopo, il racconto vero e proprio si interrompe bruscamente, per far
spazio al monologo del guardiano, introdotto da una di quelle espressioni lapidarie e
didascaliche che abbiamo osservato: «Un giorno egli venne in mia presenza e mi
tenne questo strano discorso». Le sue parole occupano circa metà del testo, il quale,
poi, volge repentinamente, attraverso una scena granguignolesca, verso l'explicit,
nuovamente fiabesco. L'inquietante atmosfera mortuaria della palazzina perde ogni
reale tensione, a causa di un grande squilibrio di tono, di registro, nel rapporto tra
narrazione e descrizione, tra mimesi e diegesi. Soprattutto, a consumare le ampie
possibilità delle premesse narrative interviene la solita urgenza comunicativa: a
prendere il sopravvento è quella sorta di comizio, di rivendicazione sociale, che è il
monologo del vecchio guardiano: certo, interessante per il suo tono paradossale, ma
sproporzionato rispetto alla brevità del racconto.
71
Terzo Capitolo
La fortuna di Marcello Gallian nella storia della critica
3.1 Gli esordi: il gruppo «novecentista»
Come i suoi esordi letterari, così i primi apprezzamenti critici riguardo
all'opera di Marcello Gallian sono legati all'esperienza artistica sorta intorno a «900».
Già un primo segno di approvazione, da parte del “maestro” Massimo Bontempelli,
è, evidentemente, l'inclusione tra le fila dei «Novecentieri». Bontempelli è un lettore
precoce e attento di questo allora giovanissimo autore, e scrive nel 1928 una
lusinghiera introduzione al suo primo racconto lungo, Il dramma nella latteria,
comparso su «L'Interplanetario»1. Qui, Bontempelli esalta l'originalità di questa
fosforica scrittura, sottolineando come «la sua immaturità raggiunge gli effetti della
sapienza». Scrive ancora:
Lo svolgimento delle trame narrative vive come un vagabondaggio stupefatto: tutto ciò che gli occhi del vagabondo toccano, diviene una meraviglia dafiera; le cose si animano e palpitano, sùbito piene di sangue; le persones'irrigidiscono in oggetti. […] l'aggettivo ha la consegna e l'incarico dilanciare nel meraviglioso, qualche volta nel mostruoso, gli atti e le forme piùnormali. Lo stile è perpetuamente inquieto: si sente sospeso sopra un vortice,s'agita per non essere inghiottito. […] un volgere di strada o lo scoppio di unverbo inaspettato generano mutazioni e sviluppi che riempiono in un anno lavita di un decennio.
Questa lunga citazione evidenzia come i pregi e i difetti di questo stile fossero già
ben presenti a Bontempelli, che ne esalta come punti di forza soprattutto le scelte
lessicali. Contemporaneamente, però, lo definisce ancora uno stile immaturo e a
rischio di essere «inghiottito» nel vortice da lui stesso creato. Bontempelli, dopo aver
1 Marcello Gallian, Il dramma nella latteria, introduzione di Massimo Bontempelli, in «L'Interplanetario», n. 6, 1928, pp. 1-4.
73
arrichito di una breve giunta l'introduzione citata, riproponendola nel 1929, in
apertura del volumetto Nascita di un figlio ed altri scritti2, torna poco dopo a parlare
di Gallian. Il 16 novembre 1930 pubblica, infatti, su «L'Italia letteraria» una lettera
polemica3, diretta a Giovanni Battista Angioletti, in difesa del sodalizio formato da
«900», citando Gallian e Alvaro come scrittori «paesani», scatendando la risposta
polemica di Angioletti («paesano Gallian?»).
Il decennio si chiude molto positivamente. Nel 1929 Gallian pubblica i primi
due romanzi, La donna fatale e Vita di sconosciuto, e i tre racconti del citato Nascita
di un figlio ed altri scritti, tre volumi che gli valgono l'attenzione di alcuni critici,
sintetizzata dalla cauta posizione assunta da Camillo Pellizzi, il primo a scrivere, a
caldo, nel 1929, un panorama critico dei giovani autori di «900», che lo definisce
«uno dei più promettenti del gruppo», ma anche «uno dei meno formati»4.
Il primo vero successo negli anni d'esordio arriva con la rappresentazione di
La casa di Lazzaro, al Teatro degli Indipendenti, il 28 febbraio del 1929. Le cronache
lo salutano come un successo per il teatro di Anton Giulio Bragaglia, anche se molte
sono le accuse di blasfemia e antireligiosità che gli vengono mosse. Nel dibattito che
ne scaturisce interviene in difesa del dramma anche il filosofo Adriano Tilgher5. Il
maggiore apprezzamento viene, però, sempre dal gruppo «novecentista». Armando
Ghelardini, dalle colonne di «2000», parla di un Gallian che «ha affrontato, con
un'ardita vicenda scenica, l'arduo soggetto; e ha superato ogni difficoltà»,
raggiungendo un «successo pieno, caldo, spontaneo»6.
Ancora polemiche scatena Scoperta della terra, l'opera teatrale debuttante al
Teatro Manzoni di Milano il 27 giugno 1930, che il direttore di «Oggi e domani»,
Mario Carli, decide di pubblicare sulla sua rivista. Colpito dalla censura dopo la
pubblicazione del primo atto7, avvenuta il 30 giugno dello stesso anno, il settimanale
2 Marcello Gallian, Nascita di un figlio ed altri scritti, cit.3 Massimo Bontempelli, Giovanni Battista Angioletti, Il Novecentismo è vivo o è morto?, in «L'Italia
letteraria», 16 novembre 1930, pp. 3-4. 4 Camillo Pellizzi, Le lettere italiane del nostro secolo, Milano, 1929, p. 393.5 Sulla questione cfr. Paolo Buchignani, Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista
anarchico, Roma, Bonacci, 1984, pp. 20-21.6 Armando Ghelardini, Il successo de «La casa di Lazzaro» di Gallian al Teatro degli Indipendenti
di Roma, in «2000», nn. 2-3, 1929, p. 4. Ricordo, a proposito di Ghelardini, che il già citato Nascita di un figlio ed altri scritti, inaugura la collana «Sintesi» della casa editrice Atlas, da lui diretta.
7 Marcello Gallian, Scoperta della terra, in «Oggi e domani», 30 giugno 1930, pp. 5-6.
74
deve rinunciare a pubblicare i due seguenti, ma si avvarrà, comunque, di altre
collaborazioni di Galllian. Ancora nel 1930, Gallian viene incluso nell'importante
antologia Scrittori nuovi8, curata da Enrico Falqui ed Elio Vittorini.
3.2 Il successo dei primi anni trenta
Siamo ancora nel 1930 quando Mario Carli, che pure l'anno successivo
esclude Gallian dalla sua Antologia degli scrittori fascisti, lo annovera «tra gli
scrittori d'avanguardia che al contenuto fascista delle loro concezioni, scaturito da
una mentalità nativamente intonata ai tempi, hanno applicato uno stile adeguato, vale
a dire moderno e italiano insieme, intenso, veloce, dinamico, geometrico,
scarnificatore, con violenta impronta passionale e polemica, e spiccate facoltà
artistiche»9. Con la pubblicazione dei primi romanzi l'attenzione della critica nei suoi
confronti cresce notevolmente. Arnaldo Bocelli è il primo a scriverne
approfonditamente, in una recensione del 193110. Il critico ne esalta la capacità di
giungere naturalmente a un'atmosfera «tra fiabesca e incantata», senza la mediazione
di un modello letterario «futurista o avanguardista», ma grazie a una «originaria
sensualità», che gli suggerisce «analogie improvvise […] comparazioni scattanti […]
girandole d'immagini e d'aggettivi». Il meglio di questa prosa, come Bocelli ribadirà
per i romanzi successivi, è nelle «scene d'insieme», «nei vasti affreschi animati “in
azione” dove uomini e cose sembrano d'una medesima essenza», mentre la mancanza
di una costruzione ben architettata è, a suo avviso, il difetto più grande.
Pugilatore di paese, vincitore al Premio Mediterraneo 1932, riceve ancora
una buona recensione da Arnaldo Bocelli11. Rinnovando quanto scritto l'anno prima,
cioè che grazie al suo «temperamento sensuale» Gallian realizza una prova di
«realismo magico» per una sorta di «necessità naturale», il critico saluta questa volta
il romanzo come un «esito assai felice», anche dal punto di vista costruttivo. Un
parere positivo è espresso anche da Enrico Falqui12, mentre una vera e propria
8 Scrittori nuovi, a cura di Enrico Falqui, Elio Vittorini, Lanciano, Carabba, 1930.9 Mario Carli, Censimento degli scrittori fascisti, in «Oggi e domani», 23 giugno 1930, p. 1. 10 Arnaldo Bocelli, Romanzi di Gallian, in «L'Italia letteraria», 29 novembre 1930, p. 8.11 Idem, Pugilatore di paese, in «Nuova Antologia», n. 6, 1932, pp. 421-423.12 Cfr. Pietro Luxardo Franchi, L'altra faccia degli anni trenta, Padova, CLEUP, 1991, p. 120.
75
stroncatura è, invece, l'articolo di Silvio Guarnieri, che lo recensisce dalle colonne di
«Solaria»13. Il romanzo, secondo Guarnieri, «appare ingiustificato non solo di fronte
ad un giudizio estetico, ma, ancor di più, assolutamente arbitrario nella sua
impostazione […]», manca di logica, di coerenza, è composto con «artificioso
barocchismo». Il critico cerca poi di identificare i modelli letterari di Gallian,
vedendo nel suo stile un'esasperazione di D'Annnunzio, del futurismo e di «900»,
senza un'identità o un'ideologia personali.
Il romanzo successivo, Una vecchia perduta del 1933, è un vero e proprio
fallimento, criticato sia dal solito Arnaldo Bocelli, sia da Guido Piovene. Il primo14
lamenta la falsità dell'allegoria «truculenta e muscolosa, di gusto strapaesano» su cui
il racconto si costruisce, che egli definisce «pseudo-dramma di quattro fantocci». Lo
stile, che egli aveva apprezzato si riduce a una «discorsività tutta esteriore […]
faticosamente ottenuta con i fuochi del Bengala degli aggettivi a capriccio». Guido
Piovene15 accusa Gallian di «intimità scarsa, scarsa maturazione e inadeguato
possesso della propria arte» e, con questa recensione, intende criticare tutto il
fenomeno del novecentismo che «ha cercato di giustificare questa mancanza di
intimità con dottrine capziose sull'arte come fantasia e magia, che sono poi scuse
d'un vizio». Conclude poi sottolineando, certo a maggior danno dei “minori”, che tra
i novecentisti «il Gallian si distingue per un maggiore ingegno».
Una vecchia perduta rappresenta il primo ingenuo tentativo di Gallian di
calare nei modi esuberanti della sua scrittura una tematica contemporanea e sociale.
Il romanzo, come è stato giustamente scritto, vuole essere un'allegoria della nuova
Italia fascista, che nasce dalla morte dell'Italia liberale, resa feconda dalla gioventù
squadrista. Dopo questo passo falso, Gallian raggiunge un buon risultato nel 1934,
con Comando di tappa. In questa raccolta di prose emergono decisi i motivi di
polemica antiborghese che domineranno anche nei romanzi successivi, nonché un
forte desiderio di riprendere l'azione squadrista, motivi ben evidenziato dalla
prefazione dell'autore. Luigi Chiarini, su «Quadrivio», nella recensione intitolata Il
13 Silvio Guarnieri, Pugilatore di paese, in «Solaria», n.12, 1932, pp. 53-54.14 Arnaldo Bocelli, Una vecchia perduta, in «Nuova Antologia», n.12, 1933, pp. 468-469.15 Guido Piovene, Una vecchia perduta, in «Pan», n. 1, 1934, pp. 304-305.
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romanzo dello squadrismo16, lo descrive come il romanzo di un «desiderio smisurato
di agire, come di una necessità che li liberasse [i fascisti della generazione di Gallian]
dal grigiore della vita quotidiana, dalla pesante e ferma aria borghese respirata nelle
rispettive “oneste” famiglie». Saranno state probabilmente proprio le pagine di
rievocazione squadrista, apprezzate anche da un fascista giovane e inquieto come
Romano Bilenchi, a valergli il secondo posto al Premio Viareggio del 1934. Rispetto
alle parole di Chiarini, l'ideologia di Gallian si spinge ancora più a fondo. Fernando
Capecchi ha visto giustamente come «i personaggi di Gallian […] fanno pensare a
un'umanità nuova, vergine, a un'umanità vichiana che esprima […] l'impeto di
rinnovamento e di progresso nascosto […] nelle profondità intatte dell'uomo»17. Ad
accoglierlo come «il libro più fedele al temperamento estroso, incostante
dell'autore»18 è ancora una volta Bocelli, proprio per la composizione varia di questo
volume. Il critico ne mostra gli immancabili squilibri interni, ma ne trasceglie alcuni
momenti di «creatività felice», in particolare in Incendio.
Sempre nel 1934 Gallian pubblica Tempo di pace. La prefazione porta la
firma di Giuseppe Ungaretti che presenta il libro come «esaltazione dello
Squadrista»19. Della qualità di scrittore di Gallian egli scrive, con qualche
ridondanza:
La prima sorpresa in uno scrittore di tanta facilità è la proprietà dei vocaboli,la puntualità delle frasi nel giro del discorso, la novità costante della fantasiae […] l'eleganza nel procedere d'una narrazione non solo di modo inconsueto,ma d'un modo che sembra avanzare, e di furia, moltiplicandosi i pericoli.
Il romanzo è recensito su «Pan» dall'amico Enrico Falqui20. In realtà, più che di una
recensione, si tratta di un accorato sfoggio delle proprie idee in merito alla scrittura
di Gallian, autore in cui «difetti e pregi […] si accavallano». Ribadisce spesso, in
16 Luigi Chiarini, Il romanzo dello squadrismo, in «Quadrivio», 23 giugno 1935, citato da Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., p. 90.
17 Fernando Capecchi, Comando di tappa, in «L'Italia letteraria», 11 agosto 1934, citato da Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit, p. 80.
18 Arnaldo Bocelli, Comando di tappa, in «Nuova Antologia», n. 10, 1934, pp. 475-477.19 Giuseppe Ungaretti, prefazione a Marcello Gallian, Tempo di pace, Roma, Edizioni di Circoli,
1934, pp. 8-12.20 Enrico Falqui, Tempo di pace, in «Pan», n. 3, 1935, pp. 460-463. Ora in Il Novecento letterario
italiano. Serie terza, Firenze, Vallecchi, 1969-71, pp. 278-283.
77
questo articolo, che Gallian è uno scrittore istintivo, che offre esiti altalenanti e pieni
di difetti, ma nonostante tutto pieno di grandi qualità. Per quanto riguarda lo stile
annota giustamente il «preponderare e gonfiarsi dei particolari fino a raggiungere
momentaneamente un'importanza capitale, forse nociva in rapporto a quella che
dovrebb'essere l'architettura e l'economia dell'opera ma, pezzo per pezzo, piena di
spicco». Sottolinea ancora: «scrive avventando colore su colore: non ha il tempo di
scegliere, ordinare, abbellire: gli occorrono due tre quattro aggettivi per accostarsi a
quella che è la sua visionaria realtà e sopraffarla». L'intento di Falqui, qui ancora
velato ma che emergerà in seguito, è quello di raccogliere e antologizzare quanto di
meglio lo scrittore romano ha prodotto, sfruttando le sue innate doti di fantasia, ma
eliminando le parti ridondanti e peggio riuscite. In conclusione di questo articolo lo
invita, infatti, a smettere di dedicarsi al romanzo, per abbracciare definitivamente la
misura breve, ma sa benissimo che a queste critiche Gallian è sordo.
La posizione di Ungaretti e Falqui va inquadrata nel dibattito critico che
occupa la nostra letteratura negli anni trenta, volto a stabilire una distinzione – e una
supremazia – tra scrittori “contenutisti” e “calligrafi”. Gallian, acceso fautore dei
primi, si trova nella situazione particolare espressa da Falqui: «la vocazione al
“barocco” se l'è sempre spassosamente ritrovata nel sangue»21. Egli stesso rivendica
per sé il ruolo di scrittore fascista, di rivelatore e cantore della nuova generazione, e
usa toni molto polemici nei confronti della «letteratura da tavolino», poiché la sua
aspirazione è quella di dare coerente espressione alla nuova ideologia rivoluzionaria.
Malgrado le proprie convinzioni, che lo portano naturalmente a ripudiare la «prosa
d'arte» in favore di un'arte concreta, egli si trova apprezzato principalmente dagli
illustri critici del fronte opposto, soprattutto Giuseppe Ravegnani e Emilio Cecchi, e,
invece, scarsamente considerato dai “contenutisti”, primo fra tutti il capofila Eurialo
De Michelis.
Come abbiamo scritto nel primo capitolo, i due romanzi pubblicati nel 1935,
Bassofondo e Il soldato postumo, segnano la fine di questo periodo di buon successo.
21 Enrico Falqui, Tempo di pace, cit.
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Mentre il primo viene censurato per l'argomento scabroso e non può essere letto,
prima della sua ripubblicazione epurata, il secondo riesce ad uscire, ma non
raggiunge buoni risultati. Si tratta di un romanzo malcostruito dove si esplicita
l'accusa al regime di aver abbandonato la generazione degli squadristi: i protagonisti
sono disperati e inquieti di fronte al dominio dell'odiata borghesia e al sostanziale
fallimento della rivoluzione. Non sarà un caso se un'interessante recensione positiva
viene da un giovane scrittore fascista, irrequieto e polemico, destinato a ben altri esiti
politici: Romano Bilenchi. Il suo articolo esce su «Il Popolo d'Italia»22 ed è
lucidissimo nel leggere dietro i «mille episodi che appaiono a prima vista
insignificanti, inutili e talvolta dannosi ad un logico svolgimento dell'azione» quel
«mondo reale su cui l'autore ha sovrapposto i suoi personaggi e le loro gesta». La
chiave di lettura che egli dà dimostra che egli ha capito quali sono le reali intenzioni
di Marcello Gallian, la portata politica della sua militanza letteraria:
[…] i libri di Gallian […] prima di essere arte sono documenti; documentiimpetuosi e disordinati, forti e umani perché tale è la materia che vi si èvoluta rappresentare. […] Un documento su di un periodo rivoluzionario noncreduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata,ma attesterà solo aspirazioni insoddisfatte o represse […] amore, odio eattesa. […] Bisogna insistere in questo: ricominciar da capo a indagarenell'opera dello scrittore che molte volte non è stato capito. Prima di ognialtra cosa apprezzarla come documento, altrimenti si rischierà di non capirel'arte.
Bilenchi conclude insistendo sulla necessità di capire le rivendicazioni della
generazione di Gallian per poter costruire, attraverso questi «documenti», legami con
le generazioni nuove, compresa la propria23.
3.3 Dalla metà degli anni trenta alla guerra
In fondo al quartiere è il titolo definitivo con cui esce, nel 1936, il censurato
Bassofondo. Questa pubblicazione desta un discreto interesse, ma la recensione in
assoluto più interessante è quella di Vasco Pratolini, allora giovane fascista “di
22 Romano Bilenchi, Il soldato postumo, in «Il Popolo d'Italia», 20 agosto 1935. 23 Bilenchi è nato nel 1909, sette anni dopo Gallian.
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sinistra” e futuro intellettuale comunista, pubblicata su «Il Bargello»24. Qui Pratolini,
dopo aver deplorato la «smania di abbozzare e di buttar via» dell'autore, istituisce un
confronto tra il romanzo di Gallian e Le sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi,
romanzi per certi versi simili, specie per la rappresentazione dei personaggi
femminili. A differenza di Palazzeschi, scrive Pratolini, «Gallian si posa più sulla
pedana dell'avvenimento, sulle ossa dei personaggi nel raccontare, e di essi
personaggi porta alla luce i sentimenti traverso la materia invece che sottilizzare
questa dalle reazioni psichiche e spirituali, ma il fondamento – l'umanità, l'ironia, il
paradosso, l'istinto irrazionale e la riflessione borghese eccetera, eccetera – è intatto».
Anche Ruggero Jacobbi accenna, ma solo brevemente a In fondo al quartiere
nell'articolo Tutto Gallian25, pubblicato su «Quadrivio» nel 1937. Jacobbi, l'anno
precedente, pubblica, sulla stessa testata, anche una recensione a Racconti per la
gente26. Ricordo, infatti, che nel 1936 escono, dopo In fondo al quartiere, anche
Racconti per la gente e Tre generazioni; nel 1937, Quasi a metà della vita,
Dopoguerra, Il monumento personale e Racconti fascisti. Jacobbi ha il merito di
essere il più abile, in questo biennio di produzione torrenziale, a sapersi districare e a
cercare di mettere ordine in questa selva di pubblicazioni. Nell'articolo del 1936, egli
saluta la raccolta di racconti come «il meglio di questa originale, dinamica,
vivacissima figura di scrittore» anche se divisa tra «vivezza icastica» da una parte,
«trascuratezze e sciatterie» dall'altra. Il critico individua molto chiaramente tra queste
pagine quelle caratterizzate da «una narrativa meno estrosa della sua consueta, ma
più stringata e aderente ai fatti», mentre deve inevitabilmente concludere che «troppo
spesso la sua sensibilità e la sua fantasia si tramutano in cifra, che troppo spesso le
sue pagine sono scorrette e ineguali». Più positivo l'intervento del 1937, dove
sottolinea l'approccio fantastico che Gallian utilizza per mettere a nudo «l'essenza
cruda e violenta» della realtà, «il senso vivo del concreto». A proposito di Tre
generazioni apprezza in particolare la descrizione centrale del terremoto, mentre
descrive positivamente «il restringersi voluto dell'ambiente» gretto e borghese che
offre In fondo al quartiere. Le note più positive vengono dall'analisi di un'altra
24 Vasco Pratolini, Come esempio, in «Il Bargello», 28 febbraio 1937.25 Ruggero Jacobbi, Tutto Gallian, in «Quadrivio», 21 febbraio 1937, p. 8. 26 Idem, Racconti di Gallian, in «Quadrivio», 27 dicembre 1936, p. 8.
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raccolta di racconti: Quasi a metà della vita, volume, secondo Jacobbi, vario,
coerente e adatto come nessun altro a mettere in luce, con pregi e difetti, «tutto
Gallian», compreso quello degli esordi novecentisti.
Nello stesso anno, Luigi Fallacara offre la propria lettura di Tre generazioni in
una recensione su «Il Frontespizio»27. Come già Falqui, anche Fallacara sottolinea lo
sperpero che Gallian fa del particolare, che lo scrittore «butta nella successione come
una cosa disusata, inutile, da cui lo sguardo e l'animo si sono già allontanati»: «la sua
aspirazione al caos è una tendenza che si risolve nell'elenco». Con una buona
intuizione, scrive ancora che la volontà di Gallian, scrittore che non può «pensare che
per cataclismi», è senza meta, si consuma con violenza e a vuoto senza giungere al
«nichilismo assoluto», ma anzi esaltandosi come «gioco della fantasia», «individuale
arbitraria visione del mondo» su un piano «essenzialmente e uniformemente
fantastico». È in virtù di questa dimensione fantastica che Fallacara istituisce un
paragone tra il romanzo di Gallian e Il rabdomante di Riccardo Bacchelli, a suo
avviso egualmente «gioco di fantasia», sia pure ironico e piacevole.
Dalle colonne di «Letteratura», anche Alfonso Gatto richiama Gallian, al
termine di una positiva recensione28 a Un filo di brezza di Gianna Manzini. La sua
posizione nei confronti dello scrittore è negativa, e il paragone con la scrittrice, per
certi versi simile per l'ampio uso di un linguaggio figurato e di «una circolare rapidità
di episodi e di momenti di vita suscitati brevi, accentuati», serve a dare maggior
risalto all'opera recensita. Lo squilibrio di Gallian è così espresso: «la crisi del
particolare nelle mani di un Gallian diventa ad esempio un'addizione di casi
immaginativi e di sudore polemico».
È del 1937 anche l'importante articolo di Emilio Cecchi, pubblicato su
«Omnibus» con lo pseudonimo di Il Tarlo29. Cecchi ribadisce una posizione già presa
da Falqui, cioè che Gallian sia uno scrittore che sperpera naturalmente le proprie doti
e non si cura dei propri difetti, e ciononostante riesce a produrre veri e propri pezzi di
bravura. Scrive Cecchi:
27 Luigi Fallacara, Gallian e Bacchelli, in «Il Frontespizio», n. 1, 1937, pp. 65-67. 28 Alfonso Gatto, Gianna Manzini, in «Letteratura», n. 2, 1937. 29 Il tarlo [Emilio Cecchi], Gallian, in «Omnibus», 19 giugno 1937.
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Lo so anch'io che Marcello Gallian farà sempre di tutto per essertrattato così da cane. Quel suo non poter transitare che pestando i calli deglialtri. Quella sua aria (letterariamente parlando) di mendicante ricattatore.Ostentatamente egli offende tutte le leggi della buona convivenza. Caccia ipiedi nel piatto. La gente, i critici, fingono di sorridere dal visin tirato. Ma nelsorriso verdognolo si vedono spuntare i denti. […]. I suoi «romanzi» sarannoun po' romanzi a brandelli, o brandelli di romanzo […]. Ma quali brandelli!
Cecchi rivendica per lo scrittore romano la massima libertà, ma avverte che se non
dosa i propri difetti la sua vicenda finirà per essere «una delle più penose tragedie
della nostra letteratura».
Massimo Bontempelli pubblica, nel 1938, il già citato volume di saggi
L'avventura novecentista. In appendice a quest'opera scrive un profilo degli autori
«Novecentieri», cioè dei collaboratori assidui di «900», tra i quali, naturalmente,
figura anche il Nostro30. Bontempelli si limita, in realtà, a ripubblicare quasi identica
quella prefazione a Nascita di un figlio ed altri scritti che abbiamo citato,
interpolando il testo con alcune osservazioni inedite. Le sue opinioni in merito allo
scrittore non sono mutate «dopo tanti più libri che Marcello ha scritti», poiché «il suo
scrivere è quello sempre». Termina però con una nota eccezionalmente positiva che
riporto per intero:
Così senza tregua, traverso venti o trenta volumi s'è in dieci anniingrossata la folla; e il torrente di sangue allegro al margine della strada s'èfatto un gran fiume, e nel cielo di Gallian si son messi a rotare falchi pieni difame. Questa folla ricca di tragedie e di ossessioni, tutt'insieme fa, nel climadella nostra poesia d'oggi, la sola grande macchia di gioia.
In realtà, Bontempelli resta uno dei pochi ad apprezzarlo ancora. I frettolosi e
numerosi volumi degli ultimi anni trenta trovano pochi lettori e pochi critici pronti ad
accoglierli. La sua ritrosia di fronte al successo gli impedisce di correggere quei
difetti che da sempre gli vengono rimproverati. Inoltre, la sua ideologia anarchica,
violenta, sovversiva e rivoluzionaria, la sua vena ascetica e visionaria lo hanno reso
un personaggio scomodo, rendendo precaria la sua posizione di intellettuale. Il
regime lo considera poco meno che un pazzo, un agitatore pericoloso. Il solo a non
vedere il paradosso di continuare a rievocare i proclami del Mussolini della prima ora
30 Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 1938, pp. 518-524.
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e della rivoluzione è lui, il «letterato squadrista». Irriducibile come artista, come
uomo, come intellettuale, continua a sperperare la propria scrittura in volumi sempre
meno curati, sempre più visionari. L'ultimo romanzo pubblicato in volume da Gallian
è Alba senza denaro, del 1943, anno in cui la guerra aggiunge un ulteriore motivo
affinché il libro non abbia alcuna risposta critica. La condanna definitiva da parte del
regime ha già preso la forma della stroncatura anni prima, con Primo diario,
romanzo del 1940. L'autore è Alfonso Silipo, dalle colonne della presitigiosa rivista
«Primato»31 diretta da Giuseppe Bottai. Le accuse mosse da Silipo sono di aver
tradito la promesse che sembravano destinarlo a grandi successi, dopo le prime
buone prove di «900» e del Teatro degli Indipendenti, e di aver ceduto ad un vizio di
«dilettantismo e improvvisazione».
Primo diario è recensito anche da Enrico Falqui sulla «Gazzetta del
Popolo»32. In questo articolo finalmente trova esplicita espressione il sogno di Falqui
su Gallian: realizzare «un volume antologico» che metta «le cose a posto». Falqui,
ormai definitivamente persuaso che lo si debba «prendere o lasciare»33, osserva
giustamente che «per Gallian la letteratura è un mezzo, non un fine» ed egli segue
nello scrivere un proprio istinto, una fede profonda. Ma anche se egli non bada
all'estetica, per Falqui, sempre di letteratura si tratta: pur rinunciando a ricorrere a
una prosa più studiata, Gallian «riesce pur sempre con mezzi propri» a esprimersi
«con diversa fortuna» nei propri «subitanei modi». Vedremo come negli anni
settanta, la posizione di Falqui sarà fatta propria anche da Ruggero Jacobbi, autore di
un primo fondamentale profilo completo dell'autore in cui si prospetta la possibilità
della scelta antologica.
3.4 Dal dopoguerra agli anni settanta: brevi rotture di un silenzio
Abbiamo visto come le ultime prove di Gallian, dopo il 1937, siano state
considerate generalmente fallimentari, laddove non sono state semplicemente colpite
31 Alfonso Silipo, Primo diario, in «Primato», 15 gennaio 1941, p. 15. 32 Enrico Falqui, Primo diario, in «Gazzetta del Popolo», 26 novembre 1940. Ora in Il Novecento
letterario italiano. Serie terza, Firenze, Vallecchi, 1969-71, pp. 283-286.33 Prendere o lasciare è anche l'emblematico titolo di un articolo di Enrico Falqui relativo al Gallian
di Bassofondo e Il soldato postumo, comparso in «Quadrivio», 7 giugno 1936, p. 5.
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dal più totale silenzio. La fine della guerra e il crollo del fascismo decretano la quasi
definitiva cessazione di questa carriera letteraria. I motivi sono certo da riscontrare
principalmente nei limiti di una scrittura che l'autore non ha saputo migliorare per
sanare i propri difetti, e che, anzi, ha difeso con orgoglio e caparbietà. A rendere
ancora più assoluto l'oblio concorre il mutato clima politico dell'Italia postbellica.
Gallian, pur non assumendo posizioni nostalgiche, non rinnega mai il suo passato di
fervente fascista, a differenza di altri che, sollevando più di qualche dubbio sulle loro
reali motivazioni, hanno obliterato un passato che ha garantito loro di raggiungere
una buona posizione sociale. Per usare queste parole di Gallian del 1959: «hanno
paura della mia ombra e forse un po' anche del loro passato»34. Le poche voci che si
sono levate per recuperare la memoria dello scrittore romano lo hanno fatto, prima
ancora della sua morte, avvenuta nel 1968, rievocandolo come ricordo di una
stagione passata, ignorando completamente la sua produzione contemporanea,
almeno quella minima parte che riesce a essere pubblicata su rivista, limitandosi, nel
migliore dei casi, a denunciare le sue misere condizioni di vita35.
Il primo, in ordine cronologico, a menzionare nuovamente Gallian dopo la
fine della guerra è, sorprendentemente, Luigi Russo36, che intervenendo su
«Belfagor» nella polemica tra politica e cultura in corso su «Il Politecnico»,
rimprovera a Falqui e Vittorini l'inclusione di Marcello Gallian e Telesio Interlandi
nella loro antologia degli Scrittori nuovi. Falqui risponde su «La Fiera Letteraria»
difendendo le proprie scelte di allora, in particolare:
In quanto al Gallian e al concetto artistico in cui teniamo alcune pagine dellasua produzione letteraria, non abbiamo nulla da modificare a quanto già dettoe ripetuto altre volte. Semmai lamentiamo che orrende condizioni di vita […]lo allontanino sempre di più dalla pratica dello scrivere e lo isteriliscano.37
Enrico Falqui, di cui abbiamo già avuto modo di esporre la posizione critica
34 Intervistato da Alfredo Orecchio, Un fascista alla fame, in «Paese sera», 23-24 gennaio 1960. 35 Di questo tenore sono l'articolo di Elio Talarico, Uno scrittore muore di fame, in «Momento sera»,
25 novembre 1947 e quello di Alfredo Orecchio, Un fascista alla fame, cit.36 Luigi Russo, Politica e cultura, in «Belfagor», n. 6, 1947, pp. 746-750. 37 Riportato in Enrico Falqui, La letteratura del ventennio nero, Roma, Edizioni della Bussola, 1948,
p. 340.
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“antologista”, è il critico più deciso a difendere l'opera di Gallian, menzionandolo
spesso nelle proprie opere degli anni cinquanta. Nel 1950 ripubblica in volume le sue
recensioni a Tempo di pace e Primo diario e poi, nuovamente nel 1961, nella terza
serie dei suoi studi dedicati al Novecento letterario. È del 1953, invece, la sua
relazione radiofonica, poi pubblicata, intitolata Il Futurismo; il Novecentismo, in cui
ricorda Gallian con queste parole:
Gallian: chi era costui?: vi domanderanno i più, e se voi non sapretegià che si tratta di uno dei nostri scrittori più vocati e più originali, estroso evisionario all'estremo, ben poco troverete da apprenderne nelle varie storie.38
In realtà Falqui non terrà mai fede alla promessa di realizzare l'antologia di racconti
che desidera, e questa è probabilmente la causa del deterioramento dei rapporti tra i
due a partire dagli anni cinquanta.
Tolti gli interventi di Falqui, negli anni cinquanta e sessanta la critica su
Gallian tace. A rompere il silenzio sono solo alcune sparute menzioni. Luigi Russo lo
include nell'edizione del 1951 del suo I Narratori39; Emilio Cecchi, nel 1954, lo cita
brevemente nel capitolo intitolato Scrittori al lampo di magnesio del volume Di
giorno in giorno40, lamentando il fatto che lo scrittore non abbia ancora dato una
prova coerente e ben costruita della sua scrittura magmatica; Silvio Guarnieri, nel
1955, scrive in Cinquant'anni di narrativa in Italia: «Restava ancora taluno, come
Gallian, cui era parola consueta quella di rivoluzione, ma così ottenebrata di
fumisticherie e di misticismi equivoci, così sperduta in vani conati di eccessi
avventurosi, da essere riguardato come un fenomeno di eccezione più che come un
possibile pericolo; ed in ogni modo le ripetute dediche a Ciano garantivano da ogni
possibile troppo decisa esigenza»41; Vittorio Vettori traccia un breve profilo di
“Stracittà” e del novecentismo nel suo volume Riviste italiane del Novecento42 del
38 Enrico Falqui, Il Futurismo; il Novecentismo, Torino, Edizioni della Radio Italiana, 1953, citato da Paolo Buchignani, Gallian: chi era costui?, in «Linea d'ombra», n. 33, 1988, pp. 92-93.
39 Luigi Russo, I Narratori (1850-1950), Milano, Principato, 1951, p. 321. La breve voce bio-bibliografica sarà espunta nell'edizione successiva, del 1958.
40 Emilio Cecchi, Di giorno in giorno, Milano, Garzanti, 1954, pp. 26-27.41 Silvio Guarnieri, Cinquant'anni di narrativa in italia, Firenze, Parenti, 1955.42 Vittorio Vettori, Riviste italiane del Novecento, Roma, Gismondi, 1958, pp. 48-49; 59; 71; 86; 97-
98.
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1958, ma si limita semplicemente a citare il nome di Gallian. Domenico Triggiani43
nel 1958 e Elio Filippo Accrocca44 nel 1960 gli offrono un breve spazio nelle proprie
rispettive inchieste per parlare della propria vita e delle proprie idee in fatto d'arte. Di
qualche interesse è anche la breve voce a lui dedicata del Dizionario Universale
della Letteratura Contemporanea45, edito nel 1960 da Mondadori, che lo definisce
«scrittore sensuale e insieme romantico» e ne riassume efficacemente lo stile come
«estroso in maniera forzata, eccessiva, cadendo in un esasperato barocchismo o in un
violento verismo mescolato a forme intellettualistiche». Nel 1962 Eurialo De
Michelis46, tornando su un confronto già proposto da Gatto, menziona Gallian che a
paragone di Gianna Manzini è definito «aritmico», lamentando in lui, a differenza
che nella scrittrice, un uso «gratuito» del linguaggio. Fidia Gambetti ricorda Gallian
nelle memorie della propria giovinezza fascista, Gli anni che scottano47, del 1967.
Marcello Gallian muore nel 1968, ma occorre attendere la metà degli anni
settanta per avere un primo saggio completo sulla sua figura di narratore. In questo
periodo anche Gianfranco Contini ha occasione di ricordarlo brevemente: nel suo
volume La letteratura italiana. Otto-Novecento ne menziona vagamente il «delirio
barocco»48, mentre nella voce Espressionismo (letterario)49 che redige per
l'Enciclopedia del Novecento scrive: «quando sorge Gadda, gli scrittori più abnormi
sono dei certo stimabili barocchi come Antonio Aniante, Marcello Gallian,
Beniamino Joppolo, che si riannodano alla poetica surrealista e alla calligrafia pur
agitata di Barilli e della stessa Manzini».
Il primo importante saggio monografico sull'autore, firmato da Ruggero
Jacobbi50, compare nel volume I Contemporanei della Letteratura italiana, edita da
43 Inchiesta sul teatro, a cura di Domenico Triggiani, Bari, Polemica Editrice, 1958, pp. 67-72.44 Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del libro,
1960, pp. 208-209.45 Marcello Gallian, voce, in Dizionario Universale della Letteratura Contemporanea, Milano,
Mondadori, 1960.46 Eurialo De Michelis, Narratori al quadrato, Pisa, Nistri-Lischi, 1962, p. 184.47 Fidia Gambetti, Gli anni che scottano, a cura di Ruggero Zangrandi, Mursia, 1962.48 Gianfranco Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Firenze, Sansoni-Accademia, 1974,
p. 362.49 Idem, Espressionismo letterario, voce di Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto per
l'Enciclopedia, 1977, poi in Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1988.50 Ruggero Jacobbi, Marcello Gallian, in Letteratura italiana. I Contemporanei, Milano, Marzorati,
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Marzorati, in una serie di monografie dedicata alle «vie italiane al surrealismo».
Jacobbi, in apertura, indica nella «vergogna degli anziani» e nella «repugnanza dei
giovani» le ragioni della dimenticanza dell'opera di questo autore e ribadisce una
posizione già espressa nelle sue recensioni, ovvero che l'analisi dei racconti brevi
possa offrire i migliori risultati. Ciononostante, imposta la sua analisi principalmente
sul teatro e sui romanzi, cercando di indagare più l'uomo che la sua arte. Secondo
Jacobbi con La casa di Lazzaro Gallian si dimostra «autentico drammaturgo», capace
di creare dialoghi ben «dinamizzati», sospesi tra modi colloquiali e lirici, adatti ad
esprimere la «volontà di potenza» di Lazzaro, che è libera da connotazioni politiche.
Delle migliori prove narrative vengono fornite dettagliatamente le trame e il critico
ha anche il merito di tentare di inquadrare coerentemente queste opere di Gallian in
un contesto europeo: Breton e il surrealismo, soprattutto, sono considerati riferimenti
imprescindibili. Per quanto riguarda i romanzi, Jacobbi mostra di essere molto
attento all'ideologia che Gallian veicola attraverso le sue trame, e ritiene malriuscito
il romanzo più scopertamente allegorico Una vecchia perduta, dove l'ideologia
prende il sopravvento sulla narrazione. Egli analizza attentamente i nuclei tematici
fondamentali che muovono la narrazione: «l'odio per il danaro, lo sgomento davanti
all'alienazione moderna che mette al bando la natura, il disprezzo per la civiltà dei
costumi». Considera molto positivamente le sue scelte stilistiche, la straordinaria
creatività e inventiva, anche se non può fare a meno di lamentare la tendenza a
dilatare fino all'eccesso il particolare. Da un punto di vista morale, Jacobbi sembra
giustificare, motivandolo come estrema ingenuità, il fatto che al proprio
antiborghesismo esasperato Gallian non abbia mai smesso di dare la paternità
fascista. Addirittura egli sostiene che il millantato passato squadrista dello scrittore
sia in realtà una posa letteraria, e adduce come prova il fatto che la rievocazione
squadrista emerga solo dagli anni trenta, mentre prima la materia era molto meno
storicizzata, anzi spesso paradossale e surreale. Conclude raccomandando i migliori
racconti brevi «a una antologia della nostra prosa più visceralmente moderna»,
poiché «non c'è neoavanguardia che possa disconoscere questo sicuro predecessore».
1974, pp. 435-458. In realtà Jacobbi già da qualche anno lamentava il silenzio sullo scrittore romano. Cfr., ad esempio, Antonio Pizzuto, Firenze, La Nuova Italia, 1971, p. 9, dove Jacobbi ricorda un colloquio in cui l'autore siciliano gli ha chiesto notizia proprio di Gallian.
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3.5 La riscoperta di Marcello Gallian dagli anni ottanta a oggi
Dalla fine degli anni settanta si assiste a una progressiva riscoperta dell'opera
di Marcello Gallian. La critica si libera progressivamente di pudori e ipoteche
ideologiche, per dedicarsi a una ricognizione priva di pregiudizi del valore letterario
e della modernità della sua opera. Soprattutto comincia a farsi strada l'interesse per il
Gallian della narrativa breve come esempio di scrittore moderno, ben informato delle
grandi avanguardie europee. Ciononostante sono pochi a dedicarsi, anche solo
sommariamente, ai racconti novecentisti oggetto della mia analisi.
Dato il discreto numero di interventi critici recenti, la rassegna che segue non
ha pretese di completezza, ma solo di informazione sulle analisi più approfondite e
interessanti in riferimento all'argomento di questa tesi.
Nel 1984 esce Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista
anarchico51 dello storico Paolo Buchignani, il primo volume monografico completo,
corredato di un'ampia bibliografia. Questo saggio biografico e critico, ricco di
materiale documentario – anticipato da un articolo di Buchignani comparso nel 1979
su «Trimestre»52 – si propone di fare chiarezza sulla vicenda umana di Marcello
Gallian, dedicando un capitolo anche alle vicende dei suoi tormentati ultimi anni.
Nella prefazione, Umberto Carpi insiste nel sottolineare l'originalità di Gallian nel
contesto europeo e lo definisce «il più forte scrittore dell'area bontempelliana e
“novecentista”, l'unico capace di autentiche accensiosi e suggestioni surrealiste»53.
La lettura di Buchignani è principalmente tematico-ideologica. Egli osserva come la
visione di Gallian sia improntata alla deformazione grottesca del mondo negativo
della società borghese e alla restaurazione dei valori positivi della natura. In questa
ottica, identifica come fondamentale la matrice cristiana, pauperistica della sua
cultura, che si sovrappone al gusto per l'innocenza primitiva che lo spinge a scegliere
come suoi eroi disperati, sottoproletari e vagabondi. Il rapporto natura-società, come
51 Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit.52 Paolo Buchignani, Primitivismo e antiborghesismo nella narrativa di Marcello Gallian, in
«Trimestre», nn. 3-4, 1979, pp. 311-346. 53 Umberto Carpi, Prefazione a Paolo Buchignani, Marcello Gallian..., cit., p. 11.
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si evidenzia, sfocia inevitabilmente nella lotta. Allo stesso modo i rapporti umani,
anche tra uomo e donna, non si danno se non come contrasto. Sulle opere di fine anni
venti, scrive ancora Buchignani, nonostante muovano dall'odio antiborghese del
fascismo squadrista, è forte l'influenza stilistica dell'avanguardia romana. Temi come
il luna park, il circo, l'incendio sono per Buchignani direttamente influenzati dal
movimento immaginista. Nelle opere successive al 1931, invece, la critica alla
borghesia come categoria «ontologica» cerca una via per storicizzarsi: Gallian mostra
il mondo borghese negativo in contrapposizione a quello che potrebbe essere grazie
alla rivoluzione fascista. Quando comincia a disilludersi riguardo all'effettivo
successo della rivoluzione, produce alcune opere caratterizzate da una visione
particolarmente pessimista, che segnando l'inizio del suo declino, gli costano critiche
e censure da parte del regime.
Il primo intervento dedicato al Gallian novecentista è pubblicato su
«Alfabeta»54 nel 1986. L'autrice, Claudia Salaris, traccia un rapidissimo profilo
dell'avanguardia romana per poi dedicarsi a una breve ricognizione dei motivi di
distanza tra Bontempelli e Gallian: allo «sguardo lucido e razionale» del primo,
contrappone l'«itinerario tormentato, al limite dell'allucinato» del secondo, alla linea
«retta», la «curva barocca». All'articolo segue una ristampa dei racconti Nascita di
un figlio e La regina dei pargoli della città.
Più interessata ai romanzi è la posizione che Cesare De Michelis espone nella
postfazione alla ristampa di Marsilio di Il soldato postumo, del 1988. De Michelis
propone di indagare i motivi ideologici di questo autore e, nella sua nota, invita a una
rilettura di Gallian «per quello che è stato, il facinoroso protagonista di una stagione
invano rimossa»55, ricordando come, al contrario, egli è sempre stato letto
principalmente dai critici «calligrafi», attenti all'uso «sfavillante» del suo
linguagggio. Il doloroso messaggio che scaturisce da Il soldato postumo è, secondo
De Michelis, il giusto punto di partenza per comprendere il significato che la
delusione per l'imborghesimento del regime fascista ha provocato nei giovani di
quella generazione.
54 Claudia Salaris, Gallian e «900», in «Alfabeta», n. 90, 1986, p. 19. 55 Cesare De Michelis, Il tradimento della rivoluzione, in Marcello Gallian, Il soldato postumo,
Venezia, Marsilio, 1988, pp. 227- 251.
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Nel 1989 esce su «Studi novecenteschi»56 il profilo di Pietro Luxardo Franchi,
a cui mi sono spesso richiamato nella mia analisi. Luxardo Franchi sottolinea la
distanza tra Gallian e gli scrittori di regime, indaga sul suo antiborghesismo
ideologico, ma soprattutto si dedica a una ricognizione dei temi e delle forme dei
suoi racconti brevi, specie di quelli contenuti in Quasi a metà della vita, da lui
individuati come il risultato migliore di Gallian. La sua scelta è motivata dalla
convinzione che l'incoerenza nell'intreccio e l'ipertrofia del particolare abbiano
impedito a Gallian di raggiungere validi risultati in campo romanzesco, mentre la
misura breve consente di contenere la forza centrifuga di questa narrazione. Come
Buchignani, anche lui divide la produzione di Gallian tra esordi novecentisti e
romanzi improntati al «realismo sociale», anche se sottolinea come gli stilemi
novecentisti permangano sempre nella sua narrazione, dove a prevalere è «una
dimensione di carnalità stralunata e surreale». Egli si dedica, quindi, brevemente
anche ai racconti comparsi su «900», in cui rintraccia la frequenza di «interni
proletari o piccolo borghesi in occasione di ritualità sociali canoniche quali
matrimoni, funerali e battesimi», descritti «con un tremendo espressionismo di marca
grosziana». Gli stilemi del novecentismo vengono individuati in «iperboli
sinestetiche, intemperanze descrittive, abuso dell'anafora, ritmo ternario
nell'aggettivazione, tendenza all'enumerazione smodata». Nei racconti successivi,
individua come motivi di ispirazione principali il sottoproletariato, l'amore fisico, la
maternità, i quartieri poveri e periferici, sempre narrati in modo che «il reticolo
sensoriale» prevarichi «sull'elaborazione razionale», secondo una cifra che non di
rado è «fantastico-espressionista». Le ultime pagine sono dedicate, completando il
ritratto della fisionomia intellettuale dell'autore, ai temi chiave degli ultimi romanzi,
dove si accentuano «la tematica politica» e «la visionarietà allegorica antisociale».
Nel 1994 Carlo D'Alessio, su «Critica letteraria»57, pubblica il primo articolo
incentrato sui procedimenti stilistici di Gallian, influenzati, a suo avviso, da
surrealismo ed espressionismo. D'Alessio rileva nella sua «visceralità espressiva,
che ricorda […] un autore come Céline» la principale differenza con Bontempelli. Il
56 Pietro Luxardo Franchi, Marcello Gallian, in «Studi novecenteschi», n. 38, 1989, pp. 207-264.57 Carlo D'Alessio, Marcello Gallian: un espressionista in nero, in «Critica letteraria», n. 2, 1994, pp.
377-390.
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secondo nome che gli affianca, per quanto riguarda la deformazione caricaturale del
mondo borghese, è quello di George Grosz. L'analisi di D'Alessio vuole essere
complessiva e rendere conto dei procedimenti enumerativi di Gallian come cifra di
tutta la sua narrativa. Le tecniche costruttive che Gallian usa per «accerchiare
l'evento o lo stato d'animo […] per focalizzarlo meglio nella sua fisicità» sono,
pertanto, sintetizzate in «giustapposizione di quadri staccati» ed «enumerazione
oggettuale».
Gli ultimi due articoli di cui mi occupo in questa rassegna critica sono uno del
2002, l'altro del 2005. Il primo intervento è L'espressionismo drammatico di
Marcello Gallian58 di Silvana Cirillo. In questo breve saggio Cirillo mette in luce
come nella narrativa di Gallian «l'estetizzazione delle situazioni» sia talvolta
«manierata», ma, generalmente il suo taglio d'avanguardia sia assimilabile a quello di
artisti come Toller, Wedekind, Brecht, Grosz, «voci insostituibili del dissenso», artisti
«intenti a premere sulla realtà, fino a straziarla e a deformarla». Sottolinea,
giustamente, come «Gallian in ogni cosa vedeva […] uno squarcio potenziale di
teatro», e come il teatro e il circo fossero per lui fondamentali motivi di ispirazione.
Cirillo offre anche una lettura del racconto novecentista Gli abitatori della piazza
grande come rappresentazione di un «palcoscenico itinerante», lettura che mi pare
interessante, anche se non sottolinea adeguatamente l'angoscia del protagonista, sia
rispetto alla donna, sia rispetto agli eventi che precipitano. L'autrice, infatti, sintetizza
la trama scrivendo soltanto che «due amanti decidono di fuggire insieme
abbandonando il loro povero quartiere e di fare della città intera la loro casa».
Il secondo articolo è di Barbara Stagnitti, ed è il più approfondito intervento
dedicato a Marcello Gallian tra le pagine di «900»59, anche perché tiene conto,
sintetizzandole, anche delle letture di Luxardo Franchi e di D'Alessio. Muovendo
dalla proposta di «900» di sprovincializzazione della cultura, Stagnitti identifica
Gallian come vero scrittore d'avanguardia, dallo stile «espressionista e surreale»,
ricco di «stilemi iperbolici e analogismi esasperati». I procedimenti linguistici di
58 Silvana Cirillo, L'espressionismo drammatico di Marcello Gallian, in «Sincronie», n. 12, 2002, pp. 121-130. Ora in Nei dintorni del surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 2006, pp. 71-85.
59 Barbara Stagnitti, Marcello Gallian tra le pagine di «900», in «Rivista della Letteratura italiana», nn. 1-2, 2005, pp. 423-426.
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questi racconti sono detti «per aggiunzione»: anafora, «sequenze iterative»,
«accumulazione enumerativa». Per inquadrare correttamente Gallian nella
prospettiva di «900», Stagnitti sottolinea come la sua narrativa sia in linea con
l'«atmosfera di modernità della rivista» e con «il senso profondo della sua poetica»,
ovvero saper guardare con meraviglia alle cose comuni, vivendo l'arte come
un'operazione magica.
.
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Bibliografia
Opere di Marcello Gallian
Cito esclusivamente le opere comparse in volume. Per un'ampia bibliografia delle
pubblicazioni di Marcello Gallian su riviste e periodici e per le antologie in cui è
compreso, rimando a quella fornita da Paolo Buchignani, Marcello Gallian. La
battaglia antiborghese di un fascista anarchico, Roma, Bonacci, 1984.
Narrativa
La donna fatale, Milano, Corbaccio, 1929
Vita di sconosciuto, Roma, Tiber, 1929
Nascita di un figlio ed altri scritti. Prefazione di Massimo Bontempelli, Roma, Atlas, 1929. Poi con titolo Nascita di un figlio, Montepulciano, Editori del Grifo, 1990
Pugilatore di paese, Lanciano, Carabba, 1931
Una vecchia perduta, Roma, Le Edizioni d'Italia, 1933
Comando di tappa, Roma, Cabala, 1934
Tempo di pace. Prefazione di Giuseppe Ungaretti, Roma, Edizioni di Circoli, 1934
Il soldato postumo, Milano, Bompiani, 1935. Poi, con nota di Cesare De Michelis, Venezia, Marsilio, 1988
Bassofondo. Nota di Giuseppe Ungaretti, Milano, Panorama, 1936
In fondo al quartiere. Nota di Giuseppe Ungaretti, Milano, Panorama, 1936
Tre generazioni, Milano, Panorama, 1936
Racconti per la gente, Cassino, Le Fonti, 1936
Quasi a metà della vita. Molto più che un romanzo, Firenze, Vallecchi, 1937
Dopoguerra, Cassino, Le Fonti, 1937
Il monumento personale, Roma, Edizioni di Critica e d'Arte, 1937
Racconti fascisti, Milano, Panorama, 1937
93
Combatteva un uomo, Firenze, Vallecchi, 1939
Nostro Impero Quotidiano: I. Tenebra solare, Catania, Editrice Jonica, 1939
Primo diario, Roma, Scrittori Contemporanei, 1940
Gente di squadra, Firenze, Vallecchi, 1941
Alba senza denaro, Roma, Azione letteraria italiana, 1943
America, Roma, Stampa Alternativa, 1989. Poi Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007
Villa con albergo. Nota di Sandro Bortone, Valeggio sul Mincio, Ampersand, 1995
Argante, Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007
Giornata di donne, Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007
Il viaggio impossibile, Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007
Licenza dal figlio, Pitigliano, Comitato Antifondazione Luciano Bianciardi, 2007
Teatro
La casa di Lazzaro. Seguito da Museo da camera, Roma, L'Angioliere, 1956
Pubblicistica, saggistica, critica d'arte
I segreti di Umberto Nobile, Roma, Pinciana, 1928
Sport fascista, Roma, Pinciana, 1928
Arpinati politico e uomo di sport. Prefazione di Nazareno Mezzetti, Roma, Pinciana, 1928
Avventura terrestre di Krimer, Tivoli, Mantero, 1938
Letteratura vitale fascista, Catania, Prigiotti, 1939
Guidonia, Torino, Azione – Rotocalco Dagnino, 1940
Il Ventannale. Gli uomini delle squadre nella rivoluzione delle camicie nere, Roma, Azione Letteraria Italiana, 1941
Arte, Roma, G. Menaglia – Arti grafiche, 1942
Carlo Vittorio Testi. Profilo, Roma, Novissina, 1946
Curatele
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Benito Mussolini, La dottrina del fascismo. Storia, opere ed istituti, a cura di Luigi Contu, Marcello Gallian, Arturo Marpicati. Con il saggio di Marcello Gallian, Storia del fascismo, Milano, Hoepli, 1935
A Domenico Lettieri, a cura di Marcello Gallian, Roma, Tipografica Editrice, 1935
Eduardo Gordigiani, Eduardo Gordigiani. Introduzione di Concetto Marchesi e presentazione di Marcello Gallian, Firenze-Empoli, Stet, 1948
Pericle Fazzini, Disegni originali di Pericle Fazzini, Firenze-Empoli, Stet, 1948
Lucenti Vuattolo, Lucenti Vuattolo, Roma, Il Pincio, 1952.
Luigi Santroni, Antenna, Roma, Conchiglia, 1953
Pier Demetrio Ferrero, Pier Demetrio Ferrero. Catalogo della mostra personale alla Galleria «Il Camino», Roma, Galleria Il Camino, 1953
Critica su Marcello Gallian
Massimo Bontempelli, Introduzione a Marcello Gallian, Il dramma nella latteria, in «L'Interplanetario, n. 6, 1928
Massimo Bontempelli, Prefazione a Marcello Gallian, Nascita di un figlio ed altri scritti, Roma, Atlas, 1929
Camillo Pellizzi, Le lettere italiane del nostro secolo, Milano, Libreria d'Italia, 1929
Armando Ghelardini, Il successo de «La casa di Lazzaro» di Gallian al Teatro degli Indipendenti di Roma, in «2000», n. 2-3, 1929
Riccardo Marchi, Una lettera, in «2000», n. 4, 1929
Scrittori nuovi, a cura di Enrico Falqui, Elio Vittorini. Prefazione di Giovanni Battista Angioletti, Lanciano, Carabba, 1930
Mario Carli, Censimento degli scrittori fascisti, in «Oggi e domani», 23 giugno 1930
Il Parrucchiere, Barbe di barbari, in «Oggi e domani», 30 giugno 1930. Ora in «Eurostudium3w», n. 17, 2010
Massimo Bontempelli, Giovanni Battista Angioletti, Il Novecentismo è vivo o è morto?, in «L'Italia letteraria», 3 novembre 1930
Arnaldo Bocelli, Romanzi di Gallian, in «L'Italia letteraria», 29 novembre 1931
Arnaldo Bocelli, Pugilatore di paese, in «Nuova Antologia», n. 1445, 1932
Enrico Emanuelli, Il Premio Mediterraneo è stato vinto da Marcello Gallian, in «L'Italia letteraria», 8 maggio 1932
Silvio Guarnieri, Pugilatore di paese, in «Solaria», n. 12, 1932
Arnaldo Bocelli, Una vecchia perduta, in «Nuova Antologia», n. 1481, 1933
95
Giuseppe Ungaretti, Prefazione a Marcello Gallian, Tempo di pace, Roma, Edizioni di Circoli, 1934
Luigi Chiarini, Il romanzo dello squadrismo, in «Quadrivio», 15 luglio 1934
Romano Bilenchi, Comando di tappa, in «Roma fascista», 22 luglio 1934
Fernando Capecchi, Comando di tappa, in «L'Italia letteraria», 11 agosto 1934
Guido Piovene, Una vecchia perduta, in «Pan», n. 11, 1934
Arnaldo Bocelli, Comando di tappa, in «Nuova Antologia», n. 1501, 1934
Enrico Falqui, Tempo di pace, in «Pan», n. 3, 1935. Poi in Prosatori e narratori del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1950. Poi in Il Novecento letterario. Serie terza, Firenze, Vallecchi, 1961. Ora in Il Novecento letterario italiano, Firenze, Vallecchi, 1969-71
Romano Bilenchi, Il soldato postumo, in «Il Popolo d'Italia», 20 agosto 1935
Ruggero Jacobbi, Racconti di Gallian, in «Quadrivio», 27 dicembre 1936
Luigi Fallacara, Gallian e Bacchelli, in «Il Frontespizio», n. 1, 1937
Alfonso Gatto, Gianna Manzini. «Un filo di brezza», in «Letteratura», n. 2, 1937
Ruggero Jacobbi, Tutto Gallian, in «Quadrivio», 21 febbraio 1937
Vasco Pratolini, Come esempio, in «Il Bargello», 28 febbraio 1937
Il Tarlo [Emilio Cecchi], Gallian, in «Omnibus», 19 giugno 1937
Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 1938
Enrico Falqui, Primo diario, in «Gazzetta del popolo», 26 novembre 1940, poi in Prosatori e narratori del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1950. Poi in Novecento letterario. Serie terza, Firenze, Vallecchi, 1961. Ora in Il Novecento letterario italiano, Firenze, Vallecchi, 1969-71
Alfonso Silipo, Primo diario, in «Primato», n. 2, 1941
Luigi Russo, Politica e cultura, in «Belfagor», n. 6, 1947
Elio Talarico, Uno scrittore muore di fame, in «Momento sera», 25 novembre 1947
Enrico Falqui, La letteratura del ventennio nero, Roma, Edizioni della Bussola, 1948
Luigi Russo, I narratori (1850-1950), Milano-Messina, Principato, 1951
Enrico Falqui, Il Futurismo; il Novecentismo, Edizioni della Radio Italiana, 1953
Emilio Cecchi, Di giorno in giorno, Milano, Garzanti, 1954
Silvio Guarnieri, Cinquant'anni di narrativa in Italia, Firenze, Parenti, 1955
Il premio Viareggio ha 25 anni, a cura di Leone Sbrana, Firenze, Luciano Landi Editore, 1955
Inchiesta sul teatro, a cura di Domenico Triggiani, Bari, Polemica, 1958
96
Antologia della rivista «900», a cura di Enrico Falqui, Lucugnano, Edizioni dell'Albero, 1958
Vittorio Vettori, Riviste italiane del Novecento, Roma, Gismondi, 1958
Alfredo Orecchio, Un fascista alla fame, in «Paese sera», 23-24 gennaio 1960
Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del Libro, 1960
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Eurialo De Michelis, Narratori al quadrato, Pisa, Nistri-Lischi, 1962
Fidia Gambetti, Gli anni che scottano, a cura di Ruggero Zangrandi, Mursia, 1967
Gianfranco Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Firenze, Sansoni-Accademia, 1974
Ruggero Jacobbi, Marcello Gallian, in Letteratura italiana. I Contemporanei, Milano, Marzorati, 1974. Poi, con titolo Marcello Gallian. Novecentismo, prosa d'arte, realismo magico e barocco: l'anarco fascismo e il surrealismo apocalittico , in Novecento, Milano, Marzorati, 1979
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Elisabetta Bacchereti, Marcello Gallian, in Narratori italiani del secondo Novecento, a cura di Giorgio Luti, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1985
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Il destino della scena. La drammaturgia italiana e il premio Riccione, a cura di Sergio Colomba, Bologna, Grafis Edizioni, 1990
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Giuseppe Iannaccone, Il fascismo “sintetico”. Letteratura e ideologia negli anni Trenta, Milano, Greco & Greco, 1999
Roberta Suzzi Valli, The Myth of Squadrismo in the Fascist Regime, in «Journal of Contemporary History, n. 2, 2000
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Censura teatrale e fascismo (1931-1944), a cura di Patrizia Ferrara, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale per gli Archivi, 2004
Barbara Stagnitti, Marcello Gallian tra le pagine di «900», in «Rivista della Letteratura italiana», nn. 1-2, 2005
Paolo Buchignani, La rivoluzione in camicia nera, Milano, Mondadori, 2006
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Roberto Gigliucci, Giovinezza, squadrismo e formazione fallimentare (Piazzesi, Gallian, Vittorini), in «Critica letteraria», n. 4, 2006
Ribellione e avanguardia fra le due guerre. I libri e le carte di Marcello Gallian , a cura di Nicoletta Trotta, Pavia, Università degli studi – Centro di ricerca interdipartimentale sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei, 2008
Silvana Cirillo, L'espressionismo tragicomico di Gallian. In fondo al quartiere, in «Reti di Dedalus», estate 2009, www.retididedalus.it
Silvana Cirillo, Rileggendo «La scoperta della terra» di Marcello Gallian nella versione integrale, in in «Eurostudium3w», n. 17, 2010
Achille Castaldo, Una nota al testo, in «Eurostudium3w», n. 17, 2010
Altre opere consultate
Hermann Grosser, Narrativa, Milano, Principato, 1985
Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli, 19713
Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, a cura di Ruggero Jacobbi, Firenze, Vallecchi, 19742
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Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 200811
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