Florilegio volume I

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Florilegio Volume I Anno 2008 Nataniele Paghini -1-

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Florilegio

Volume I

Anno 2008

Nataniele Paghini

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Introduzione

Per molti anni ho covato il progetto didedicarmi alla stesura di una sorta di diarioriflessivo, ovverosia di una collezione dipensieri sparsi che spesso mi capita dielaborare, su argomenti i più disparatipossibili, anche se ultimamente mi accorgo cheoramai mi cimento solo nell’analisi di due o treproblemi – se così vogliamo chiamarli – chem’assillano: l’anima, il mito, la mente poetica.Ammetto anche che ho fiammate di ritorno per lafilosofia e la logica, il che spesso m’induce arivalutare tutte le presunte conclusioni cheritengo d’aver raggiunto.

Ci fu un periodo, circa due lustri fa, chemi cimentai in un’impresa simile, spinto omeglio influenzato dalle riflessioni scritte delMaestro Zen Ryushui, il cui tempio frequentavonel tentativo di fare dello zen un sistemaportante della mia vita. Ogni tanto vado arivedere quelle pagine che ho stampate erilegate, accorgendomi ogni volta dell’errorecommesso nell’avere abbandonato quellabell’abitudine. Ma si sa, o meglio so di esserefatto così, un’alternanza di interessi, unapprofondire un argomento per poi passare ad unaltro e così via. Con qualche punto fermo,fortunatamente: la poesia e il disegno. Eproprio questi punti fissi, quasi cardinali,

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dovrebbero aiutarmi a realizzare quale sia lavera natura della mia mente, o della mia anima,o di qualunque sia quella cosa che ci governa.

Questi pensieri sono dedicati a voi, bambinemie (ma credo che non sarete più tali quandoleggerete queste righe, semmai le leggerete,ovviamente); o forse, più che dedicate, questepagine sono compilate apposta per voi, nellasperanza che leggendole possiate esserestimolate nel meditare, nel ragionare intornoalle cose, nel capire la fondamentale importanzadi sapere pensare con la propria mente,sviluppando idee proprie, costruendo eall’occorrenza decostruendo sistemi diriferimento propri, non con il grandioso scopodi fondare scuole di pensiero, bensì con il piùmodesto seppur vitale fine di essere degliesseri umani emancipati, liberi, fruitoridell’intelligenza che l’evoluzione universale ciha donato, testimoni attivi delle bellezze deigiardini dell’anima che ognuno di noi possiede(o entro i cui confini vive, se vogliamoutilizzare una diversa prospettiva).

Non dimenticate mai che la curiosità per lecose del mondo e della psiche è sempre un bene enon deve mai languire; che la conoscenza spostasmisuratamente in avanti gli orizzonti dellanostra comprensione; che la creatività e ilpensiero attivo sono il bene più fecondo che sipossa perseguire; che i sentimenti e le emozioni

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sono nutrimento per la nostra anima e chepercepirli e viverli è altrettanto importanteche provocarli positivamente nel nostroprossimo.

Scrivo queste righe non già alla fine di unlavoro annoso, seguito da una raccoltasistematica di tutti i miei pensieri; bensìall’inizio di quest’avventura, pertanto neppureio adesso so che cosa leggerete più avanti. Mipiace l’idea che vi rendiate conto che nelleggere queste righe, la persona che le hascritte non aveva la benché minima idea di ciòche avreste letto successivamente. Infatti non èmia intenzione ritornare successivamente suquesta presentazione.

Non mi rimane che augurarvi una buonalettura.

Milano, 9 novembre 2008

Prolegomeni ai pensamenti

Tempo fa, e credo siano passati otto anni, più o

meno, per svariati mesi tenni un diario, che per

l’occasione colli chiamare Diario Assoluto. Un progetto

ambizioso, in effetti non tanto diverso dal precedente,

se non per un fatto: era per me stesso, a mio esclusivo

beneficio. Forse per questo venni meno all’intento e non

ebbi la forza di continuare nell’opera.

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E’ certamente vero che l’artista crea per sé, nel

senso che concretizza nella maniera a lui più consona un

impellente emotivo che ha scaturigine nella sua anima.

Ma è altrettanto vero che solo nella consapevolezza di

suscitare emozioni nel suo prossimo egli si sente

pienamente realizzato come artista. Così è nella mia

impellenza di disegnare; e così vorrei fosse in questi

miei scritti, che se pur pensati come strumento per

giocare con le mie idee, per costruire nuovi sistemi di

analisi delle cose, per liberare la mia creatività, sono

a vostro beneficio, bambine mie, anche se mai magari

verranno nelle vostre mani.

Pertanto ho ritenuto doveroso anticipare i

pensamenti voluto da questo intento con l’intero Diario

Assoluto. Sarà, comunque sia, anche un modo per

constatare come il mio modo di pensare sia cambiato nel

corso degli anni, o rimasto sempre lo stesso… sperando

almeno che non sia peggiorato nell’ortografia e nella

sintassi, sapendo già di essere pessimo nella

grammatica!

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DIARIO ASSOLUTO

PRIMO VOLUME

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MALKUTH

PREFAZIONE

Ho cercato diverse volte di dare forma

all’introduzione che segue, ed inevitabilmente ogni

sforzo è valso solo a riempire il cestino. Da quando

iniziai ad interrogarmi su me stesso e su ciò che mi

circonda, sul mondo, gli altri, Dio e tutta la sequela

di argomenti di natura filosofica e religiosa che presto

tardi un individuo sensibile è portato ad affrontare, mi

sono sempre ripromesso di registrare le mie

considerazioni, degne o mediocri che fossero. Il

successo non mi ha mai arriso. Ora, mentre scrivo per

l’ennesima volta il preambolo al fatidico diario,

ritengo probabile che le circostanze siano quelle

giuste; la situazione di vita che sto affrontando ed i

progetti assunti assieme a Barbara, che nonostante i

momenti oscuri che avvolgono la nostra convivenza è la

persona adesso è sempre che più amo, mi stimola a

prendere la decisione: il diario assoluto. O, meglio,

Diario Assoluto. Non un vano elenco di insipide

considerazioni rubacchiate dai grandi pensatori che

considero i miei numi tutelari, ma la conseguenza di

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vera esperienza di vita, unica fonte che consenta ad un

essere senziente di arrivare a conclusioni per lui

stesso in un dato momento definitive.

Mi chiedo se deve esistere un destinatario, un

qualcuno che dovrà prendere in mano queste pagine e

leggerle per trarre insegnamento od un semplice spunto

di riflessione, ma mi accorgo che pretendere ciò è

vanitoso ed oltremodo superbo. Lascio che questi fogli

di meditazione e cronaca, raccolti ed ordinati per

consentire la sequenza temporale della mia vita, siano a

portata di chi vorrà perdere alcuni minuti della sua

vita. Non pretendo nessun lettore, nemmeno tu, figlio

mio, che graviti ancora nei propositi miei e di Barbara.

Dove sei adesso? Voglio che tu sappia che gli sforzi

della mia vita volti a migliorarmi, ad arricchirmi, la

tensione che mi spinge alla ricerca della comprensione

del mondo e la pazienza richiesta dalla via che sto

seguendo sono indirizzati a beneficio della tua

educazione, nonché all’armonia della nostra famiglia. Io

so che la vita che Barbara creerà con il mio modesto

aiuto, la vita che sarai tu, maschio o femmina che sia,

buona o cattiva, non è che dare ad un altro essere

senziente la possibilità di vivere e di portare a

termine, o perlomeno tentare, lo scopo per il quale è

venuto al mondo, e che corrisponde alla realizzazione

della propria natura. Così il mio compito è quello di

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guida, di maestro di vita, donandoti l’amore che alberga

nel mio cuore, la mia esperienza di vita, i miei

pensieri e la mia fede; e tu, quando il tempo avrà fatto

di te una persona matura e responsabile, saprai e dovrai

decidere cosa tenere e cosa eliminare.

Altre cose desidero esprimere, tuttavia mi accorgo

che una prefazione troppo lunga sa di artificioso e

ricercato, e col tempo tende a perdere la qualità di

immediatezza e sincerità che vorrei abbia per sempre. La

brevità è il veicolo della saggezza.

Termino queste vane righe con la promessa di

trascrivere le sole esperienze di vita e le poche

meditazioni che da queste scaturiscono, restando fedele

per quanto le mie forze me lo permettano al modello

proposto dal Buddha, il grande pensatore e maestro che

ha indicato la Via dell’Uomo.

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ALEPH

3 marzo 1999

1.

Venerdì scorso ho sperimentato per la prima volta

quello che nello zen viene chiamato sanzen, o dokusan,

ovverosia colloquio con il maestro. Si è trattato di un

dialogo spogliato dalla sua veste formale che necessita,

questo perché il Maestro desiderava conoscermi e

riteneva inopportuno trasformare l’incontro in una

cerimonia che probabilmente mi avrebbe solo intimorito,

inibendo la mia volontà ad aprirmi.

Così come accaduto con Philip e Sergio, i due monaci

che ho assunto (senza il loro permesso, mi perdonino)

come guide nella lunga via dello zen, ho spiegato i

motivi, su richiesta del Maestro, che mi hanno spinto a

chiedere il permesso di frequentare il tempio. La

risposta è stata la stessa: conoscere me stesso e la

realtà che mi circonda. Da qui è nato un libero dialogo,

attraverso il quale sono emersi alcuni miei dubbi e mie

incertezze sulla vita e sulla religione, che il Maestro

ha vanificato con vivaci metafore e lucidissime

spiegazioni, entrambe svuotate da qualunque orpello

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teorico ed intellettuale. Il Maestro opera sulla base

della vita di tutti i giorni, quella quotidianeità in

cui siamo immersi e che spesso disprezziamo, cercando

altrove spinte di emersione verso emozioni forti che ci

distolgano allo squallore. In verità non dobbiamo

fuggire, questo è quello che ho capito, comunque ci

portiamo dietro i nostri difetti, e dovunque andremo

trasformeremo la realtà che ci circonda (è meglio dire

la interpreteremo) in ciò da cui siamo sfuggiti.

La discussione ha avuto come perno i cinque

aggregati che compongono l’uomo, e che da diverse

settimane mi tormentano. L’analisi mi portava

irrimediabilmente al karma ed alla rinascita, due

concetti basilari del buddhismo; il Maestro mi ha

indicato la giusta chiave di lettura del karma ed ha

consigliato di evitare di pensare alla rinascita. Il suo

stesso maestro, il Venerabile Deshimaru, ne parlò solo

un paio di volte e dunque lui stesso non vede il motivo

di non fare altrettanto. E’ un uomo che nel parlare pare

saltare da un argomento all’altro, ma se si presta

attenzione è tutto collegato, ed ogni riferimento a

fatti della vita, ai problemi di Milano, della

delinquenza, ed altro ancora, ruota attorno al problema

affrontato in primis. Per questo è difficile per me,

ora, trascrivere in modo esauriente ed intellegibile

quello che il Maestro mi ha detto. Successivamente, nei

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giorni a venire, disporrò di registrare su queste pagine

il risultato delle mie considerazioni, che da venerdì

hanno assunto una nuova prospettiva. A dire il vero, il

mio modo di intendere la vita sembra avere assunto

diversa prospettiva, e ciò è solo positivo. ne sono

felice.

Non ho parlato al Maestro del mio desiderio di

ricevere l’ordinazione monacale, anche se me lo ero

proposto. Quando era nella stanza con lui, devo

ammettere che non mi è nemmeno passato per la mente,

dacché ne deduco che non fosse quello il momento, o che

il mio proposito non è ancora giunto a maturazione.

Tuttavia non vedo altra strada per me se non quella

della via monacale, i cui benefici dovrò riversare

interamente nella vita famigliare. Io e Barbara abbiamo

deciso di avere/fare/creare (quale verbo bisogna usare?)

un bambino. Si tratta di permettere ad una vita di

manifestarsi, di esistere e di tentare il raggiungimento

della propria meta, qualunque essa sia (e noi veglieremo

affinché sia buona e giusta). Non vedo come un padre

deciso sulla Via del Buddha non possa non essere un buon

esempio ed un buon educatore. L’educazione prima di

tutto, e l’amore per la conoscenza, e l’umiltà, per non

confonderci con gli stolti, i gretti, i vanesi che

questa civiltà di fine secolo modella a seconda degli

stilemi e degli stereotipi che si moltiplicano e si

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fagocitano a vicenda. E’ terribile, ma è il mondo che

abbiamo voluto e creato, dobbiamo viverci dentro, quale

modo migliore per sperimentare la nostra forza e la

nostra sincerità d’animo.

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2.

Consideriamo l’essere umano come l’aggregazione

temporanea di cinque elementi, che si forma con la

fecondazione dell’ovulo e si disfa con il sopraggiungere

della morte. Si definiscono skandha, e sono: Forma,

Sensazione, Ideazione, Coscienza e Predisposizione.

Quest’ultimo è di difficile traduzione e si è soliti

chiamarlo col suo nome sanscrito samskara. lo studio

attento di questi aggregati è uno scopo che mi sono

prefisso, il punto dal quale voglio partire per la mia

indagine buddhistica, indagine che potrà essere

soddisfacente solo se si fa compagna di viaggio dello

zazen, strumento principe per la conoscenza suprema.

I risultati delle mie considerazioni (tutt’altro che

definitive) sugli aggregati è opera di quanto letto e di

quanto sentito dal Maestro, cosicché con discrezione

posso dire di avere base solide su cui operare; non

dimenticando lo zazen, grazie al quale a volte ottengo

intuizioni che meritano di essere prese in esame.

Inizialmente cercavo di vedere me stesso come

l’aggregazione degli skandha, ma seguendo il consiglio

del Maestro (considera gli altri come aggregati) mi è

divenuto facile il meditarci sopra. Infatti, quando

osservo una persona, come ad esempio un mio collega, io

noto la sua forma, ovverosia il suo corpo organico. E’

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la struttura che supporta tutto il resto e attraverso la

quale avviene il contatto con l’esterno. La Forma è sede

dei sei sensi (uno dei passaggi della genesi

condizionata) e tradizionalmente è formata dai quattro

elementi: terra, acqua, aria e fuoco. C’è poco da

obiettare, se si presta un minimo di attenzione. Gli

antichi, qui in Europa come là in Asia, avevano la

Sapienza grazie alla quale riuscirono a decifrare alcuni

misteri dell’universo. Questo non è esoterismo, non è

scienza misterica, ma semplicemente razionalità,

indagine analitica della realtà, profonda meditazione. I

presocratici ebbero intuizioni sbalorditive ed è bene

fare alcuni esempi. Talete suppose che tutto ebbe

origine dall’acqua, e la scienza di questo secolo

ipotizza che l’idrogeno fosse esorbitante nei primi

istanti del Big Bang (l’acqua è composta per due terzi

di idrogeno). Anassimandro affermava che doveva esserci

una sorta di giustizia universale, una legge a cui gli

elementi e gli déi e gli uomini tutti si dovevano

attenere; qualcosa di impersonale, non identificabile a

Dio (il Dharma buddhista gli è molto simile). Inoltre,

Anassimandro era sicuro che la terra fosse uno fra i

tanti mondi e che i pianeti si evolvevano, come la vita

(l’uomo discendeva dai pesci e da qualche altro

animale). Teorie senz’altro straordinarie. Più tardi i

pitagorici scopersero che la terra era sferica.

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Inutile continuare, per evitare un elenco di nomi e

fatti, ma è giusto ricordare che la sapienza degli

antichi greci, un faro delle civiltà europee, si spinse

molto avanti, tanto che si dovette aspettare questi

ultimi secoli per riguadagnare quello che andò perduto

durante il Medioevo. Il cristianesimo, fra le sue

pecche, annovera quella di avere causato il declino di

una profonda sapienza e dobbiamo ringraziare gli ordini

indipendenti dei frati e l’amore per la conoscenza del

primo Islam se sono giunti a noi questi insegnamenti.

Tornando alla forma. Dicevo che essa è composta dei

quattro elementi. La terra possiamo identificarla nel

carbonio, la base della vita. L’acqua, si sa,

rappresenta il settanta per cento del nostro organismo.

Il fuoco è l’energia che produciamo dal cibo, e l’aria è

l’ossigeno che abbisognamo per vivere. E su questo non

ci possono essere discussioni.

Il secondo aggregato è composto dai sei sensi:

vista, udito, olfatto, gusto, tatto e mente. Ebbene sì,

nella concezione buddhista, la mente non è un organo

superiore al naso, semplicemente diverso; e non potrebbe

essere differente in un sistema di pensiero che nega un

io superiore, qui in occidente facilmente assimilabile

alla mente. In realtà la Mente, questa volta con la m

maiuscola, ha un valore particolare nello zen, ma non è

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il momento di parlarne, dato che la mia preparazione è

veramente misera.

Ritornando ai sensi, non posso esimermi dal

considerare le lezioni della filosofia occidentale,

nella fattispecie l’empirismo, che identifica nei

fenomeni acquisibili tramite i sensi l’unica fonte di

conoscenza. In effetti, i sensi sono lo strumento con il

quale noi percepiamo la realtà esterna. L’intero

apparato dei sensi si basa su una triplice struttura,

composta dall’oggetto del senso, l’organo sensoriale e

la sensazione. L’organo sensoriale produce una

sensazione, a cui segue la coscienza specifica o forma,

quando percepisce l’oggetto. L’occhio percepisce la

foglia e ne consegue la forma mentale della foglia, lo

stesso dicasi per il naso, l’orecchio, la lingua ed i

dermi. Per quanto riguarda la mente, il problema è

differente. La funzione della mente è il pensare, il suo

oggetto è il pensiero e l’organo è il cervello, che

definiamo mente. La differenza è che l’oggetto della

sensazione non è esterno, la forma mentale è creata

dalla mente stessa sulla base delle altre cinque

sensazioni. La mente si può definire come il senso che

organizza e riunisce gli altri e ne consegue che viene

identificata come la sede dell’io. A riguardo non ho

ancora idee precise; nel buddhismo si nega l’esistenza

dell’io, pertanto mi riprometto di affrontare la

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questione quando la mia maturazione nello zazen sarà

accresciuta

Riepilogo il secondo aggregato nella seguente

tabellina:

Sensi Organ

o

Sensazion

e

Oggett

o

Vista Occhi

o

Vedere Forma

Udito Orecc

hio

Udire Suono

Olfat

to

Naso Odorare Odore

Tatto Pelle Toccare Materi

a

Gusto Lingu

a

Gustare Sapore

Mente Cerve

llo

Pensare Pensie

ro

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Naturalmente, gli organi del senso trovano sede nel

corpo, nel primo aggregato. Non bisogna considerare i

cinque aggregati come cinque elementi separati

temporaneamente assemblati, bensì come entità virtuali,

con una precisa funzione.

Le percezioni sono formazioni mentali che seguono le

sensazioni. Quando vedo un amico, provo la sensazione di

vedere una persona; in un secondo momento percepisco,

attraverso una comparazione tra la persona vista e la

forma memorizzata del mio amico, che si tratta di

Giovanni. Questa è la percezione. La sensazione è un

impulso primario. Anche un pensiero nasce incontrollato,

e diventa percezione quando lo si è riconosciuto come

tale. si può definire, dunque, percezione come quel

riconoscimento della sensazione.

Al contatto segue la sensazione; alla sensazione

segue la percezione; alla percezione segue la coscienza.

Coscienza. Il termine ha un’accezione che comporta

un grande sforzo di comprensione. Cosa è la coscienza?

Perché esiste? Come si manifesta? Di cosa si nutre? La

psicologia e la psicoanalisi hanno fatto un campo di

battaglia della coscienza, decine e decine di scuole

sono sorte, indicandola come sede dell’Io e del Superio,

frazionandola in coscienza, subcoscienza ed inconscio,

ma senza arrivare ad illuminare il nocciolo della

questione: perché esiste.

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Neppure io posso fare altrettanto. Posso affermare

che la coscienza è la consapevolezza di quello che siamo

e di ciò che ci circonda. Io ho coscienza di essere un

essere umano: so cosa sono gli esseri umani, ho studiato

l’argomento a scuola e tramite osservazione ed analisi

mi riconosco come tale. Sono cosapevole di pensare, dato

che osservo i miei pensieri nascere, li posso prendere e

guidare, e ne posso costruire di nuovi, di punto in

bianco. Sono cosciente di pensare. Sono cosciente di

camminare. Sono cosciente di stare scrivendo queste

frasi. Sono cosciente dei miei pensieri verso barbara.

La coscienza è consapevolezza delle nostre azioni, dei

nostri pensieri e delle nostre parole, e della realtà

esterna; consapevolezza che siamo noi a fare determinate

cose o sono altri a farle; consapevolezza di dove ci

troviamo. A volte la nostra coscienza è ingannata,

soggetta ad illusioni, in errore, ma anche in questi

casi assolve la sua funzione di consapevolezza.

Coscienza deriva da coniscire, che in latino significa

“con sapere”. Siamo coscienti perché sappiamo. E che

cosa sappiamo meglio di ogni altra cosa? Sappiamo bene

quello che vediamo, quello che ascoltiamo, quello che

odoriamo, quello che assaporiamo, quello che tocchiamo e

quello che pensiamo, in ultima analisi tutto quello che

passa attraverso i nostri sensi. Contatto, sensazione,

percezione… coscienza. Ad ogni sensazione la sua

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coscienza: visiva, uditiva, olfattiva, gustativa,

tattile e mentale; si compenetrano a vicenda

strutturandosi nella complessa Coscienza.

Oltre, in questo stadio della mia ricerca, non posso

andare.

L’ultimo aggregato è difficile, non per altro perché

sankharaI è difficilmente traducibile. Può voler dire

“predisposizione”. Quando nasciamo abbiamo un patrimonio

genetico, in parte ereditato, una prima predisposizione.

Quando cresciamo l’ambiente in cui viviamo ci plasma,

una seconda predisposizione. L’educazione è una terza

predisposizione. Infine, bisogna considerare la

predisposizione che continuamente si forma in

conseguenza delle nostre azioni, delle nostre parole e

dei nostri pensieri. Questa predisposizione è il karma,

e qui si entra in un contesto che necessita

ponderatezza, profondità di analisi ed esperienza.

Quello che posso dire io rientra nella congettura.

Preferisco per il momento tralasciare.

Al karma segue la genesi condizionata e le quattro

verita esposte dal Buddha. Prima del karma, e dopo, ci

sono gli aggregati. Mi propongo di ritornare

sull’argomento, soffermandomi a lungo su ogni aggregato.

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3.

Devo prendere una decisione la cui conseguenza non

sarà indifferente per la mia vita. Mi riferisco al bivio

davanti al quale mi trovo: abbandonare il karate per lo

zen, oppure proseguire con gli allenamenti, seguendo la

strada che ho fatta mia da quasi quindici anni. A prima

vista sembrerebbe assurdo mettere sulla stessa bilancia

karate e zen, tale che nella mia esistenza ve ne possa

entrare uno solo, come se tutte due rappresentassero

interpretazioni del mondo in contraddizione. La verità è

molto più semplice… e più bella. Queste attività (che

orribile sostantivo) costano, e la cifra richiesta

impone una scelta. Come si vede è una questione di

pragmatica, per questo l’ho definita una verità bella;

perché per una somma di denari – che sono la cosa più

aleatoria ed impermanente ed illusoria di questo mondo –

io devo decidere della mia salvezza. Poco importa, e

comunque nella mia intima profondità ho già deciso. Devo

solo giustificare questa scelta e considerare la

possibilità che me ne possa pentire un giorno a venire.

Ora voglio elencare i pro ed i contro.

Karate

Pro: salute, prontezza fisica, virilità, serenità

dovuta allo sfogo, autodifesa, linea, agilità ed

elasticità, probabile longevità, disciplina, amicizia.

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Contro: momentanea mancanza di stimolo, spazio

temporale che impiegherei per attività che adesso trovo

più soddisfacenti, utilità limitata all’autodifesa ed

alla serenità, visto che la forma fisica posso

mantenerla con della corsa serale ed un buon vogatore e

la serenità è una prerogativa del mio modo di vivere.

Zen

Pro: pace interiore, possibilità di raggiungere la

comprensione totale, via per la salvezza, fascino

irresistibile, saggezza, verità, stimolo allo studio

della filosofia, possibilità di migliorarsi, altruismo,

felicità, disciplina ed educazione.

Contro: ampio spazio temporale da dedicarci (senza

alcun rimpianto), sacrifici, responsabilità, sforzo

duraturo per tutta la vita.

Quello che debbo fare è fermarmi, sedermi, prendere

questo elenco e meditarlo punto per punto. Tuttavia, so,

per certo, che solo l’intuito mi darà l’esatta

indicazione. Quello che posso dire con sicurezza è che

adesso, ne sono sorpreso, sono attaccato allo zen come

al karate, e sono solo passati pochi mesi da quando ho

iniziato a frequentare il tempio. Sto assistendo alla

nascita in me di un nuovo desiderio… no, alla

realizzazione di un desiderio che mi perseguita da

tantissimi anni, cioè la via religiosa (intesa come una

strada da seguire che non esclude la quotidianità della

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vita, l’amore, il lavoro e tutti i problemi connessi).

Voglio che passino altri due o tre mesi prima di

prendere la decisione. Voglio vedere cosa succede, come

si evolve la trasformazione, dove vado a finire ed in

che modo.

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4.

In tutti questi anni di vita, fra le poche verità

che posso dire di avere appurato c’è ne una che mi è

particolarmente cara. Desidero dispiegarla in tutta la

sua ampiezza, che è breve, perché la ritengo

strettamente legata alla dottrina buddhisa… E quale

realtà del mondo non è legata alla vita indicata dal

Buddha? Comunque sia, ecco di cosa si tratta.

Una persona manifesta se stessa nelle azioni, nelle

parole e nei pensieri. I pensieri ci sono celati, anche

se le loro conseguenze spesso si riflettono nelle azioni

e nei pensieri, mentre le opere e le favelle sono

oggetti immediati della nostra attenzione e della nostra

analisi; e per quanto noi ci sforziamo di esternare un

comportamento il più delle volte artificioso, fittizio

oserei dire, sempre una parte di noi stessi è presente

in quello che facciamo. Prima conclusione: noi siamo

quello che diciamo e facciamo. Anche quando mentiamo ed

assumiamo comportamenti precostruiti, siamo sempre noi,

indubbiamente. Seconda conclusione: vi sono

atteggiamenti, in alcuni circostanze della vita, che noi

ci sforziamo di controllare, ad esempio durante l’ambito

lavorativo, le cene di gala, le riunioni, la visita ai

parenti. Per lo più sono situazioni nelle quali è

necessario ostentare certe maniere per procurarci dei

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vantaggi. Definiamoli comportamenti primari o maggiori.

Terza conclusione: nelle vicissitudini che riteniamo

banali, nella quotidianità, nelle faccende di casa,

insomma, in tutti quei momenti che non riteniamo

importanti per la realizzazione dei nostri desideri, noi

non riteniamo opportuno controllarci. Definisco questi

atteggiamenti come comportamenti secondari o minori.

Finale: manifestiamo il nostro vero essere nei

comportamenti minori, appunto perché non ritenendo di

controllarci ci lasciamo andare. Ed è questa la verità

cui sono giunto. Se vuoi scoprire le qualità di una

persona, osservala nelle minuzie, facilmente

individuerai la sua vera natura. Ugualmente si può fare

attraverso l’analisi dei comportamenti primari, salvo

che è necessario una maggiore attenzione, una più lunga

conoscenza della persona ed una certa infarinatura di

psicologia. Lo stesso non si può dire per i

comportamenti minori, vero specchio dell’animo umano.

Per questo il Buddha esorta alla purezza ed al controllo

in ogni momento della giornata, senza dividere la nostra

vita in momenti importanti e momenti trascurabili.

Da questa verità si possono trarre due corollari. Il

primo è che la nostra natura si manifesta attraverso

pensieri, parole ed azioni, tanto che forse è meglio

affermare che i pensieri, le azioni e le parole sono la

nostra natura. Il secondo corollario dice che noi siamo

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portati a costruire comportamenti artificiali per

controllare le situazioni; ma, in ultima analisi, anche

queste artificità sono manifestazioni della nostra

volontà, ovverosia di noi stessi.

Per dare un senso a quanto sopra esposto,

bisognerebbe fornire un’adeguata accezione di natura, di

pensiero, parole ed azione, di manifestazione e di

essere. Posso concludere che un problema risolto ne

formula altri che a loro volta ne formano altri, e così

via.

Quello di cui mi rendo conto è che devo comunque

partire dal concetto buddhista dei cinque aggregati,

formulazione pragmatica e quanto mai efficace

dell’essere vivente, per potere discutere con un minimo

di soddisfazione dei problemi filosofici che mi stanno a

cuore.

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5.

Per quanto non conducano a soluzioni, a volte i

dialoghi su taluni problemi filosofici possono tornare

utili, non per altro perché stimolano l’intelletto ed

accrescono la cultura personale. Siamo esseri senzienti,

liberi di pensare ed agire, e soffermarci di tanto in

tanto sulle questioni della filosofia non può che essere

un bene. Se ne ricava benessere interiore, pace mentale

e serenità nella vita. Oggi, fra colleghi, si è toccato

la questione universale della morte. L’umanità si è

evoluta influenzata dal problema della morte e credo che

le religioni trovano la ragione d’essere nel timore in

cui l’idea della morte getta ci si soffermi sopra a

ragionare. Siamo essere senzienti, come sopra detto, e

non è stupido chiederci cosa succede di noi quando la

vita fluirà fuori dal nostri corpo per lasciare a terra

un oggetto freddo giustamente definito cadavere.

A parlarne eravamo io, Antonella e Roberta, che per

lo meno sono in grado di affrontare queste discussioni

senza cadere nelle ingenue credenze di cui ancora soffre

l’umanità di questo secolo. Certo, la cultura cattolica

è bene impregnata nei loro ragionamenti, non è facile

riuscire a liberarsene per pensare da uomo libero, ma

non si ritraggono davanti a differenti concezioni ed

accettano il dialogo. E’ stata sempre una difficoltà per

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me quella di trovare delle persone disposte a dialogare

di filosofia e religione, e dunque non posso che essere

felice di parlare con loro due, anche se alla fine non

si arrivi ad un accordo comune. Quello che conta, devo

dire, non è raggiungere un accordo comune, quanto la

discussione critica per trovare sempre nuove soluzioni.

E’ così, secondo me, che la filosofia cresce.

La morte, dunque. Morte contrapposta a vita. Ecco

che per definire l’una, bisogna descrivere l’altra. Sono

due opposti? Oppure morte non è che non-vita? Od è la

vita che è definibile come negazione della morte? Ora

cerco di analizzare il problema, anche sulla scorta di

quanto ci siamo detti in ufficio.

Quando cessano le attività biologiche di un

individuo, quando l’attività muscolare cessa, e dunque

il sangue non circola più con la conseguente mancanza di

distribuzione di ossigeno e di tutti gli altri elementi

vitali, sopraggiunge quella che viene definita morte,

ovverosia la cessazione di qualunque funzione vitale in

un organismo composto da una o più cellule, e nella

fattispecie di questa discussione, dell’uomo. Cosa

succede? Antonella mi ha parlato dell’anima, in cui

crede fermamente per via della sua fede cattolica,

mentre io mi sono limitato a dire che non so cosa

succeda; al contrario so, e con certezza, che il corpo

freddo che rimane non è più l’individuo che poco prima

-29-

viveva. E’ solo un cadavere. Certo, è quello che rimane

della persona, ma solo una parte, un componente, dello

stesso valore dei nostri ricordi. Che fine hanno fatto i

pensieri, i sentimenti e la coscienza di quella persona?

Io ragiono su linee di pensiero buddhiste, e vedo l’uomo

come un composto di cinque aggregati: corpo, sensazioni,

percezioni, coscienza e predisposizioni, di cui

precedentemente ho parlato e che in futuro riprenderò ad

analizzare. Qualcosa tiene uniti questi aggregati, non

so che cosa. So, che quando questa forza viene meno, i

cinque aggregati si scindono, e l’individuo cessa di

essere. L’ego non è più. Oltre non posso andare.

Da questa conclusione mi sono permesso di trarre un

corollario a mio parere del tutto coerente: è inutile

andare a trovare i propri cari al cimitero,

semplicemente perché i fiori li depositiamo su una tomba

che racchiude una massa putrescente di carne infetta che

tutto è tranne che la persona che ci è venuta meno.

Questa non esiste più, almeno nella sua rappresentazione

in questo mondo. Qualunque cosa sia diventata, non so

spiegarlo, nemmeno lo immagino, né voglio affidarmi a

teorie bizzarre sulla reincarnazione ed altre cineserie

del genere; non perché non siano rispettabili,

tutt’altro, ma si da il caso che siano lontanissime

dalla mia concezione, per quanto io frequenti un tempio

-30-

buddhista e mi stia lentamente e faticosamente

incamminando sulla via indicata dal Buddha.

Naturalmente, questo mio dire non ha trovato

sostenitori in Antonella e Roberta, che ritengono

doveroso rispettare la memoria dei propri cari andando

al cimitero. Io non ho contraddetto, non devo

contrastare le opinioni altrui. In questa sede dico solo

che un conto è rispettare la memoria dei propri cari, un

conto andare al cimitero, un altro conto ancora

ritualizzare questo ricordo attraverso cerimonie

religiose. Non aggiungo altro, tranne il dubbio che si

trattino di residui di un modo di pensare superstizioso.

Io ho una foto di mio padre, incorniciata sopra il

comodino, per non dimenticare l’uomo a cui devo la mia

vita, anche se ha commesso errori e avrebbe potuto

essere un padre migliore. Ma sono ben consapevole che

non c’è più l’essere vivente corrispondente

all’individuo Sergio Paghini, né in questo mondo, né in

qualsiasi altro ipotetico mondo. L’individuo Sergio

Paghini era tale in quanto un composto di varie qualità.

Alla sua morte, il composto si è disfatto, le qualità

deteriorate o sparite, e qualunque cosa ne sia rimasta,

anima, energia o cos’altro, non può essere identificata

con Sergio Paghini.

-31-

-32-

6.

Oggi ho riletto l’opuscolo informativo del tempio

del maestro Ryusui, e con meraviglia mi sono accorto che

alcune asserzioni contenute sono state da me

interpretate, o meglio comprese diversamente di quando

le lessi per la prima volta. Oso dire che si tratta di

una migliore comprensione, maggiore anche se non

definitiva (per fortuna!). Ho tratto piacere da questa

scoperta e mi chiedo se lo stesso può accadere per i

testi buddhisti che ho studiato i mesi passati. Potrebbe

darsi; dunque ritengo opportuno dedicarmi con calma e

ponderatezza alla rilettura del Dhammapada, del Sutra di

Hui Neng, e dei due sutra fondamentali della

Prajnaparamita. E’ anche vero che mi sono proposto di

passare un anno, il presente, di esclusive letture

filosofiche e buddhiste, evitando le riletture per così

potere ampliare lo spettro di indagine. Affido allo

zazen, strumento principe, il compito di illuminarmi

della vera saggezza. Non sono presuntuoso, dato che so

per certo che difficilmente questo potrà accadere, così

come so che le mie capacità di indagine filosofica sono

limitate. Quello a cui aspiro è la tenacia, lo sforzo e

la concentrazione per perseguire l’obiettivo, anche se

irraggiungibile.

-33-

-34-

7.

Sono pervenuto ad una conclusione. In verità già da

qualche settimana ruoto attorno a questo buco

gravitazionale, ed essendo partito da un’intuizione,

piuttosto che da una asettica elucubrazione, mi piace

pensare che abbia il sapore della verità.

La espongo con la maggiore brevità possibile,

evitando gli orpelli e le lungaggini che non fanno altro

che stimolare una personale interpretazione. La mia non

è stata una interpretazione, bensì un’intuizione nata da

osservazioni di esperienze personali.

Credo che solo attraverso l’analisi obiettiva di

esperienze di vita si possano trarre conclusioni valide,

anche se il dato soggettivo, e pertanto parziale,

pressoché sia dominante.

Vediamo di cosa si tratta.

Più di una volta mi è stato chiesto quale era la

ragione che mi avesse spinto a richiedere di essere

ammesso al tempio. E’ una domanda imbarazzante, perché

va a toccare corde intime, aspetti del mio pensiero che

di solito amo tenere in disparte in modo da ragionarci

sopra, senza permettere ad altri di fare altrettanto. Se

si esclude Barbara, il cui giudizio è per me di

fondamentale importanza, non ho nessuno con cui

condividere certe scelte di vita, e, tutto sommato, non

-35-

vedo perché dovrei cercare qualcuno a questo proposito.

I monaci del tempio, è vero, essendo di loro pertinenza,

non possono ammettere qualcuno senza averne verificato

la spinta interna; ma rimango, tuttavia, dell’avviso che

una simile domanda forse andrebbe posta alla fine della

sessione di prova, per evitare che l’interessato, preso

di sprovvista, risponda con frasi banali, senza senso. E

si rimane sorpresi, per forza di cose, giacché molte

volte operiamo delle scelte sulla base di semplici

intuizioni e non guidati da analisi razionali. Nel caso

in questione, non so di preciso come io sia giunto alla

decisione, in tre mi hanno fatto la stessa domanda, e la

mia risposta più o meno si è equilibrata sulla stessa

linea di tendenza. Con lo zen io voglio raggiungere la

comprensione totale della realtà. Considerata la

conclusione cui sono giunto e che mi appresto ad

esporre, ho trovata la soluzione alla domanda.

La nostra vita è un succedersi di eventi, una

sequenza temporale all’interno della quale una causa

origina un effetto che a sua volta sarà causa. Da un

punto di vita pragmatico, il momento attuale di un

essere vivente, l’evento che sta vivendo e che è

l’unico, in quanto presente, è l’effetto dell’evento

accaduto precedentemente, e così indietro nel tempo. Io

sto scrivendo sì perché ho deciso di esporre questa

conclusione – e dunque l’evento dello scrivere è

-36-

l’effetto della causa di voler esporre – ma anche perché

prima di accendere il computer mi sono seduto, e prima

di sedermi ero in piedi, e prima sono arrivato dal bagno

dove mi sono lavati i denti… e così via. Se ne deduce

che esistono due tipi di cause, e di conseguenza due

tipi di effetti: 1) un’origine causale dell’effetto, 2)

un’origine modale dell’effetto. Uno stesso effetto, così

come una stessa causa, che definisci origine, è

contemporaneamente dei sue tipi. In realtà non cambia

niente, solo l’interpretazione soggettiva. Vedo di

spiegare meglio le due origini, antecedendo la mia

definizione di evento.

Evento. Particolare situazione nella quale un essere

vivente si trova ad agire, intendendo il verbo agire

come il manifestarsi di azione, pensiero e parola.

Evento è l’azione attiva o passiva dell’individuo nei

confronti di una situazione che gli si crea attorno per

sua o meno spontanea volontà. La vita è un evento, a sua

volta suddivisa in sottoeventi, a loro volta

suddivisibili in microeventi. Più avanti cercherò di

avvalorare questa tesi.

Origine causale. Un evento accade in base ad una causa.

Può essere un atto di volontà dell’individuo che ha

creato la situazione, o il risultato di azioni avvenute

in passato. La causa dell’evento è il perché

quell’evento è stato voluto. Sto scrivendo queste note;

-37-

perché? Nell’atto dello scrivere chiarifico a me stesso

un’analisi fatta prima di addormentarmi tempo addietro.

E’ dunque la volontà di esporre e migliorare una tesi

che mi spinge a scrivere, ergo l’origine causale è la

volontà di critica (soltanto analizzando e criticando

una tesi se ne può ricavare la sua validità). Se poi

continuo il processo all’inverso, noto che l’origine

causale è a sua volta un effetto di quel ragionamento

serale di cui sopra. Altro esempio. Sto fumando la pipa.

So che mentre fumo la mia capacità di concentrazione può

aumentare, e ne traggo la conclusione che l’atto di

volontà di accendere la pipa è dovuto al desiderio di

ragionare al mio meglio.

L’origine causale riguarda la causa, la volontà,

l’atto decisionale che comporta l’evento, l’origine

prima che si differenzia dal modus operandi. Se io esco

per strada e nell’attraversare vengo investito, non si

pensi che non esiste l’origine causale di ciò. Bisogna

chiedersi: perché sono voluto uscire? Cosa andavo a fare

e perché? Mettiamo che sono uscito per andare in

libreria, nella speranza di trovare un testo sullo zen.

Non ci arriverò mai, stirato da una vettura condotta da

una donna che per un attimo si è distratta per dare

retta al figlioletto seduto accanto. L’evento, dal mio

punto di vista, è passivo, io ho subito, non volendo che

si verificasse l’incidente. Si direbbe un caso. E’ un

-38-

errore: il caso non esiste. Sono uscito con la precisa

volontà di cercare un libro, ed ho attraversato la

strada con un atto di volontà. In un certo senso ho

creato l’evento, assieme alla donna. L’evento in

questione è un nodo di due linee di causa ed effetto, la

mia e quella della donna, entrambi un succedersi di

situazioni volute, nelle quali si è agito con azioni,

pensieri e parole. Il caso non può esistere.

Origine modale. E’ strettamente legata alla precedente

e riguarda gli stessi eventi, solamente dal punto di

vista del modus operandi. Ritorno agli esempi

precedenti. Ho chiarito l’origine causale di queste

note, ma non bisogna tralasciare il modo in cui le sto

scrivendo:col computer. Perché ne ho uno. Perché l’ho

comprato. Perché sono entrato in un negozio. Perché lo

pagato. Non bisogna confondere l’origine modale con

l’origine causale, altrimenti dovrei specificare l’atto

di volontà che mi spinge a scrivere al computer. In

questo caso il motivo sarebbe la possibilità di scrivere

più velocemente, correggendo gli errori. Ma tutto ciò

non c’entra con l’origine causale. Vediamo l’altro

esempio. Vengo investito dalla macchina perché c’è una

macchina, e perché la donna l’ha comprata, e prima

ancora la scelta, e di quel modello per via della sua

disponibilità economica, perché il concessionario era

-39-

vicino a casa, e via dicendo. Anche qui abbiamo una

causa ed un effetto.

Mi rendo conto che non ho mantenuto le premesse di

esporre i due tipi di cause. Solo adesso mi accorgo di

una terza causa, di tipo temporale: l’origine temporale.

Origine temporale. E’ forse la madre di tutte le

origini, quella che esistendo permette il formarsi della

catena causa-effetto. E’ molto semplice. Io posso

scrivere in questo momento, ovverosia l’evento scrivere

si effettua grazie al fatto che un evento lo ha

preceduto, anche se nulla ha in comune. Prima di

scrivere sono stato in bagno per necessità fisiologiche.

L’operazione di defecare ha preceduto quella dello

scrivere, così come quella di giocare con Ciri – il cane

che vive con me e Barbara – è venuto ancora prima. Nulla

in comune tra i tre eventi, tranne il fatto che fanno

parte di una precisa sequenza temporale. Causa ed

effetto anche in questo caso? Il tempo è un succedersi

di eventi non legati tra loro se non dal fatto che si

susseguono? L’evento defecare ha anticipato quello dello

scrivere, e, dunque, su quali basi posso asserire che le

note che sto buttando già hanno un valore (posto che

l’abbiamo) maggiore della materia organica di scarto che

tramite lo scarico idrico ho convogliato alle fogne? Una

bella domanda senza risposta. Ma, a dire il vero, e

proprio a questo punto che volevo arrivare.

-40-

All’inizio di questa riflessione, ho specificato che

volevo esporre una mia conclusione, cosa che mi accingo

a fare, ora che ho in mano tutti i dati. Si tratta di

una conclusione legata ad una esperienza che sto

vivendo. Ritengo inutile formulare teorie astratte

legate ad osservazioni generali lontane dalla mia vita,

e quando le formulo devono essere il più possibili

vicine al mio vissuto.

Non intendo più in futuro dare una risposta

definitiva alla domanda: perché sono voluto diventare

buddhista? Da quanto sopra esposto, una risposta

definitiva esiste in base a cause precedenti, e dunque

crea una domanda che necessita di una risposta, e così

retrocedendo arrivo al momento della mia nascita. Tutto

quello che ho fatto e che ho pensato è la diretta

conseguenza della mia nascita. Per rispondere

esaurientemente al quesito perché sono buddhista devo prima

capire perché sono nato, e perché sono nati i miei

genitori, e perché esiste l’universo. Non può esserci

risposta, solo congettura. Devo, pertanto, dimenticare

la ricerca di questa risposta e rendermi conto che

l’atteggiamento che devo tenere è di assoluta

ricettività. Devo diventare piatto come l’oceano, liscio

ed immobile, in modo tale da accorgermi anche del cadere

di una microscopica goccia. Se l’oceano diventa

tumultuoso, tutto intento ad osservare se stesso, non si

-41-

accorge di nulla se non di se stesso e dei suoi

problemi. Dare una risposta vuole dire interpretare,

avere aspettative e speranze, e questo non può che

significare che sviare il mio percorso. Non posso

insinuare un filtro tra me e la via del Buddha, ma posso

e devo non volere niente, accettando tutto quello che mi

viene incontro.

-42-

8.

Sono quanto mai convinto che uno studio approfondito

del buddhismo debba partire dagli aggregati, ovverosia

dall’essere umano. Noi siamo lo strumento di analisi

della realtà, il parametro di identificazione e l’unico

filtro dal quale scaturisce ogni interpretazione; ne

conviene che senza una seria riflessione su codesto

mezzo di comunicazione, oserei dire medianico, non si

può iniziare il cammino indicato dal Buddha. Come dice

Popper, non esiste l’induzione, cioè la teorizzazione di

una o più osservazioni di accadimenti; il che vuol dire

che da pure osservazioni io non posso trarre nessuna

legge. Semmai il contrario. Lo studioso parte da un

azzardo, da un’ipotesi su un determinato campo, al che

segue l’osservazione mirata a confutare tale ipotesi, a

decretare la sua falsità; e fintanto che la sua fallacia

non è provata da serie di esperimenti, si può ritenere

valida. Condivido appieno questa linea di pensiero e

credo sia saggio applicarla anche al buddhismo. Voglio

partire da un’ipotesi di lavoro, nella fattispecie i

cinque aggregati, quindi osservare e sperimentare per

confutarla. Venticinque secoli di buddhismo dovrebbero

insegnarmi che non può essere abbattuta, ma sono

convinto che ognuno di noi deve camminare con le proprie

gambe e verificare di persona ogni parola del Buddha.

-43-

-44-

9.

Questi ultimi mesi posso definirli fra i più

significativi della mia vita. Sto assistendo ad una

crescita interiore che farò di tutto per trasferire in

ogni aspetto della mia vita quotidiana, perché ritengo

di poter raggiungere quella serenità basilare per il

benessere della mia famiglia. E più che mai è necessario

per me raggiungere questo scopo, non solo per amore di

Barbara, ma anche per nostro figlio, che se ancora non

esiste biologicamente già è presente nei nostri

pensieri. Sono felice quando vedo che ogni aspetto della

mia vita sta assumendo contorni sempre più definiti, e

se è vero che molto è da migliorare, è anche sì certo

che la sostanza è quella giusta per plasmare ciò che

desidero. E cosa desidero? La felicità di Barbara; la

serenità della famiglia; un bambino; la conoscenza; la

salute mia e di chi amo; tutto questo più ancora che il

benessere economico e la carriera. Ed ora mi accorgo,

dopo mesi di zazen e meditazioni, che non posso

pretendere l’avverarsi dei desideri sopra esposti senza

prima avere operato su me stesso. Se voglio la felicità

di Barbara, devo essere io stesso felice. Se voglio la

serenità della famiglia, devo essere io stesso sereno.

Felicità e serenità sono sintomi della libertà di

pensiero, del rispetto per ogni forma di vita e pensiero

-45-

e dell’amore per la conoscenza. La conoscenza ed il

desiderio di libertà intellettuale portano

all'emancipazione, i cui fiori sono serenità di spirito

e felicità di cuore. Solo la Via che sto seguendo mi può

donare l’emancipazione, ed io ne ho bisogno; non perché

senza di questa non possa amare Barbara, scrivere poesie

e vivere bene, bensì perché non sarei un uomo libero e

fiero e dunque degno di rispetto, e lo devo essere per

valorizzare ai più alti livelli la vita in comune con

mia moglie. Quante volte mi sono chiesto lo scopo del

matrimonio e dell’amore; i motivi profondi della nostra

unione e la fonte primaria del mio amore. Le risposte

sono poesie che ho scritto nei corsi di questi tre anni,

ma solo adesso mi rendo conto che non sono riuscito a

scorgere il vero valore del nostro matrimonio e

l’intrinseca bellezza di Barbara. Solo ora che capisco

che ogni aspetto della vita non va ripudiato, che

l’amore è il sentimento unico che ci sorregge e che la

libertà è l’unica via per il rispetto e che la

conoscenza è strumento e fine di emancipazione, posso

finalmente donarmi completamente al matrimonio e mirare

il suo significato. Che è quello di completare

l’individuo grazie all’aiuto di un altro individuo, di

permettere ad una nuova esistenza di venire al mondo e

di praticare quelle virtù che ci possono avvicinare

all’illuminazione. Il matrimonio è un campo di prova che

-46-

ci spinge al miglioramento, e senza amore non può

esservi matrimonio: il rispetto per l’altro lo pretende.

Altro vorrei dire sul matrimonio ed altro dirò.

Concludo questa brevissima dissertazione con il

ricordare a chi legge queste righe che il mio amore per

Barbara è sincero, e pulito come una fonte di montagna,

santo come i fiori sull’altare del Buddha, totale come

il cielo sopra di noi. Se è dentro di me è per una

ragione precisa e fondamentale e devo fare di tutto per

mantenerlo vivo, come il fuoco sacro. Perché è fuoco

sacro.

-47-

10.

L’umanità non ha fatto alcun progresso, dai tempi

della prima apparizione dell’homo sapiens sapiens ad

oggi. Non mi sto riferendo ad un progresso scientifico e

tecnologico, dato che nessuno può obbiettare la crescita

della conoscenza e dell’abilità umana sotto questo punto

di vista. Io parlo della spiritualità, non

esclusivamente religiosa, e della moralità. Dopo

un’attenta analisi, imparziale ed investigatrice,

chiunque si può rendere conto che l’umanità della Grecia

classica dei costumi, della società e del pensiero

rispecchia quella dell’Italia odierna, tanto per fare un

esempio. Certo, possiamo affermare che la democrazia e

la libertà individuale sono diventati due diritti

inalienabili, che il senso di rispetto e tolleranza e

difesa dei diritti umani è maggiormente sentito, che la

preoccupazione per la salvaguardia dell’ambiente si stia

facendo strada nel cuore di tutti noi… ma nella vita

pratica, nella quotidianità, nei piccoli gesti di tutti

i giorni siamo sicuri di essere cresciuti? Violenze ai

minori, stupri, rapine, omicidi, repressioni

psicologiche, autoritarismi ed altri comportamenti

similmente abietti sono all’ordine del giorno. Abbiamo

il telefonino e la navetta in orbita attorno alla Terra,

per non parlare di altre meraviglie tecnologiche, e la

-48-

scienza compie passi da gigante, nella fisica, nella

matematica e nella biologia, eppure lo spirito latita,

la filosofia si è rimpicciolita, le religioni sono

diventate una superstizione, la morale tanto cara a Kant

è una bandiera per gli ipocriti, la metafisica un genere

del fantastico, il rispetto per qualunque essere vivente

una campagna commerciale.

Al mondo, in questo momento, ci sono decine di

guerre in atto, piccole o grandi che siano, e mentre il

mondo cosiddetto civilizzato languisce nella pace e nel

benessere, dove vige la povertà, la miseria e la

tirannia le lotte non finiscono mai. Ma esistono i paesi

civilizzati? E che cosa è un paese civilizzato? Ci sono

paesi basati sull’economia e sull’uso di una fine

tecnologia, dove il capitalismo è imperante e la

mentalità affaristica è alla base della struttura

sociale; questo è il paese civilizzato di oggi. Ebbene,

io lo rinnego. Rinnego di essere italiano, se vuole dire

rinunciare ai valori umani e spirituali, che da secoli

sono additati da filosofi e maestri. Rinnego di essere

una persona civilizzata, se vuole dire privarsi della

libertà intellettuale per infarcirsi dei concetti

preconfezionati belli esposto sugli scaffali del tutto

pronto e facile.

Noi viviamo in una realtà che non corrisponde al

mondo realmente esistente. E’ un simulacro basato sul

-49-

bisogno superficiale e sfizioso immediatamente

soddisfatto da una risposta sempre più sofisticata che

genera una richiesta ancora maggiormente complessa ed

inutile. Il sistema in cui ci siamo imbrigliati non è

più governato dalla domanda dell’utenza, ma dalla

risposta del mercato; è la risposta che genera i

bisogni, e dato che i veri bisogni sono pochi e non

vendibili, ne consegue che siamo bombardati da articoli

vuoti e demenziali. In questo mondo artificiale,

illusoriamente sereno e ricco, bucherellato da migliaia

di valvole di sfogo (delinquenza, droga, discoteche,

tifo allo stadio, ecc.) ci siamo sigillati, sordi al

richiamo della Realtà, imbrigliati nel ciclo chiuso di

un falso progresso.

Dai venticinque ai venti secoli fa, più o meno,

l’umanità ha ideato scuole di pensiero stupefacenti. Io

ho deciso di appellarmi a questa tradizione, che è

giunta sino a noi grazie a uomini e donne quali Kant,

Russel, Gandhi, Madre Teresa di Clacutta, e molti altri

maestri nascosti ma ugualmente superiori, dalla cui

sapienza si può attingere liberamente per emanciparsi ed

aiutare l’umanità a ritrovare se stessa.

A guerra nella ex Jugoslavia sembra non finire mai,

come un emorragia che riversa sulla terra esausta la

linfa vitale dell’ultimo uomo. Bisogna battersi, nel

proprio piccolo, per sanare questa piaga.

-50-

-51-

11.

La prima esperienza di sesshin. Due giorni di zazen,

senza parlare, nel tempio giorno e notte. Sono passate

poche ore dalla sua fine e non trovo con che parole

descrivere l’accadimento. Ma che cosa è accaduto? Posso

veramente, adesso, seduto a tavolino, tracciare segni

intelligibili che potranno chiarire ad un lettore,

chiunque esso sia, l’esperienza da me vissuta? Ma,

ancora, quale esperienza? E’ stata una sofferenza, un

estenuante lotta a sopportare il male alle ginocchia, il

sonno, il desiderio di alzarsi, una lotta a contare le

respirazione, cercando disperatamente di non tenere

conto delle migliaia di pensieri che fiorivano e

rifiorivano senza sosta.

Se devo trarre un bilancio, non posso dire che esso

sia attivo… nemmeno a pari. Ho perso, lo ammetto, anche

se mi aggrappo alla labile scusante che essendo stata la

prima volta non ero preparato. Il primo zazen è passato

veloce, mi sentivo bene, tranquillo, concentrato sulla

respirazione, contando le inspirazione e le espirazioni.

Col secondo zazen è cominciato l’inferno. Sembrava non

finire più, le gambe mi dolevano, non riuscivo a

concentrarmi (in due ore non sono arrivato una sola

volta al dieci). Al terzo ho cambiato conteggio,

numerando solo le espirazioni. Qualcosa è migliorato,

-52-

effettivamente mi sentivo concentrato sulla respirazione

e sull’hara; tuttavia la mia mente era un campo di

battaglia, una fabbrica di sogni, visioni, desideri,

speranze, che nascevano e morivano ad un ritmo veramente

sconcertante. Spesso mi accorgevo che seguivo un

pensiero, costruendo una vera e propria trama, allora

mi buttavo tutto sull’espirazione e cominciavo

dall’inizio.

Momento magico è stata la cena. Un piccolo rituale,

il gassho prima di prendere il cibo e le bevande, lo

Shiguseigan iniziale, la consumazione del pasto in

silenzio, quasi fosse zazen anche quello. Ecco, cosa

traggo da questi due giorni. La vita, quella di tutto i

giorni, che ci pare banale e scontata, possiede aspetti

che noi trascuriamo e che dovremmo tutto al più quasi

santificare, onorare e rispettare. Come il momento nel

quale si ingeriscono alimenti, colazione, pranzo o cena

che sia. Oggi giorno trangugiamo con ingordigia, senza

soffermarci a pensare da dove viene quel cibo, come è

stato preparato, chi l’ha preparato e, cosa

fondamentale, chi era prima di diventare cibo, la sua

storia, che come la nostra affonda nelle radici del

tempo. Nel dojo, in seizan con il piatto in mano, dopo

l’invocazione, la pasta con le verdure (buona, devo

dire) era essenza di vita, alimento divino, unico e

raro. In quell’istante, decine di storie, da quella

-53-

della fabbrica della pasta a quella della pianta di

patate, sono confluite, concretizzate. Mi viene da dire,

realizzate, ma forse è troppo.

Credo che sia l’unica conclusione che sia sorta

dentro di me finito questo sesshin. Lo zazen non mi ha

dato nulla (certamente sono io incapace di afferrare

qualcosa). Già ora prendo la decisione di frequentare

anche quello successivo, iniziando già adesso a

praticare quotidianamente zazen con più tenacia,

assolutamente concentrato sulla respirazione. E

nient’altro. Solo respirazione.

-54-

12.

Sono consapevole del mio carattere ombroso e di

quell’atteggiamento che si potrebbe definire di

indifferenza. Indifferenza verso il mondo che mi

circonda, verso il prossimo, verso i sentimenti degli

altri, verso il loro dolore. A volte mi soffermo a

riflettere, domandandomi come mai persevero nel

fallimentare tentativo di modificare questa pecca.

Eppure ritengo di essere sensibile, sia alla bellezza

che ai sentimenti, e sicuramente sono comprensivo e

rispettoso verso qualunque comportamento al di là del

mio, né mi lamento di torti che eventualmente possono

essermi fatti (cosa che ultimamente non mi pare essere

mai accaduta, sicuramente in ambito familiare). Allora

cosa debbo fare? Non dubito dell’amore che provo verso

Barbara, altrimenti non sarei qui a scrivere queste

note, e poi perché sente sgorgare in me una continua

gioia nel vivere accanto a lei; tuttavia capita che la

ferisca con qualche parola o gesto fuori luogo, nel

tacerle alcune cose che faccio (in passato ho perfino

mentito, a mia sorpresa) o nel farle altre senza prima

chiederle un parere – cosa che ritengo indispensabile

all’interno dell’armonia di una famiglia (se c’è

armonia). Mi analizzo e scopro – non con piacere (a

seguito di esperienza vissuta) – che sono nel profondo

-55-

felice e soddisfatto con me stesso quando mi trovo ad

essere solo… ma non posso negare che non sopporterei di

vivere senza Barbara. Scopro che sono suscettibile al

dolore di chi amo, e ne soffro anch’io, pur non

lasciandomi trascinare e rimanendo su un’isola di pace

ed apparente freddezza; cosa che mi spaventa,

considerato che adotto lo stesso comportamento quando il

dolore m riguarda. Alla morte di mio padre m’imposi di

rimanere impassibile, di non versare una lacrima, di

mantenere lo stesso comportamento nell’ambiente

lavorativo (dove nemmeno avvertii che il giorno di ferie

richiesto lo usavo per assistere ai funerali del babbo)

e fra gli amici, così come a casa mia, dove continuai la

mia solita vita fatta di karate, letture e scrittura.

Forse un comportamento ereditato da mia madre,

qualcosa di genetico che mi porto appresso e che non

posso modificare – anche se questo mi suona come una

bella giustificazione per togliermi il peso dalla

coscienza. O, forse, un comportamento acquisito

inconsciamente, per replicare alla realtà in cui sono

cresciuto (e sarebbe dunque il tempo di cambiare).

Voglio cercare di capire meglio. Devo cercare di

capire meglio.

Ho un’idea della vita, o meglio di come un individuo

deve porsi di fronte ad essa per poterla affrontare, di

come la deve navigare, per usare un verbo oggi di moda.

-56-

Non bisogna mai contare su nessuno, esseri umani,

animali o ipotetiche divinità. Partiamo dall’assunto che

siamo soli, fini a noi stessi, bastanti a noi stessi, e

come tali responsabili totalmente delle nostre azioni e

degli accadimenti che attraversiamo. Qualunque problema

deve essere risolto senza aiuti esterni. Con questo non

voglio dire che l’altruismo è da rifiutare, che un aiuto

non è da accettare. Bisogna innanzi tutto sapersi

offrire, sempre e comunque, ma mai pretendere né tanto

meno aspettarsi. Dobbiamo avere un basamento di

indistruttibile granito nel nostro centro profondo e

fare affidamento su di esso per qualsiasi evenienza.

-57-

13.

Per quale motivo si vive? L’universo, nella sua

totalità, ha uno scopo? Che cosa è la Totalità?

Queste domande, inutile ed insondabili, ma da sempre

centri di gravità del pensare umano, mi tormentano

oramai da anni. Spesso… anzi, sempre, quando ho la

possibilità di mirare il cielo stellato, mi accade di

sprofondare in un senso di vuoto e di meraviglioso,

percepisco qualcosa di immenso, di incommensurabile che

strappa i miei pensieri e li trasporta su percorsi che

adesso non riesco a rievocare. Io so che non si tratta

di nulla di trascendentale, che al di fuori di me

stesso, non c’è nessuna forza che mi influenza e che

quello straniamento nasce esclusivamente da me stesso;

ma ciò non toglie il fatto che realmente il cielo

stellato che vedo è spaventosamente abnorme e che abissi

inimmaginabili separano il mio corpo dalle stelle

remote. Quello che mi rimane alla fine, oltre a

stupefacenza e gioia, è la consapevolezza che non siamo

nulla nella Totalità, né più e né meno importanti di un

asteroide che percorre nei milioni d’anni spazi gelidi,

assolutamente solitario. Appariamo e spariamo

nell’universo, più piccoli ed inutili della più piccole

ed inutile delle nostre cellule, che vive brevemente per

essere immediatamente rimpiazzata, lasciando alcun

-58-

ricordo. L’universo non ha memoria dell’umanità. Quando

la specie che rappresentiamo avrà esaurite le sue

possibilità, sicuramente verrà rimpiazzata e di lei la

natura non serberà una memoria, come tante fotografie su

un album di famiglia. Fra miliardi di anni, chiunque ci

sarà a vivere e pensare, difficilmente saprà qualcosa di

noi, o se lo saprà mai e poi mai sarà in grado di

provare i nostri sentimenti, le nostre paure, le nostre

arti. Così come noi nulla sappiamo, in verità, dei

pensieri di Giulio Cesare, del Buddha, di Mozart, o dei

grandi faraoni. Scrissero e parlarono… ma i loro sogni,

i loro più intimi pensieri, quello che facevano prima di

coricarsi, come mangiavano o si grattavano, come

camminavano o se mai si soffermavano a scrutare il cielo

stellato… insomma, tutto ciò che fa una persona… che ne

sappiamo noi? Gesù sognava? Ha mai avuto pensieri

d’amore verso una donna? Pizarro cosa provava nel suo

profondo per ciò che causò agli indigeni d’america?

Pietà, indifferenza, compassione, odio… chiese mai

perdono a Dio? Tutto questo non lo sappiamo, e così

quando muore un uomo se ne va un mondo intero, senza mai

più tornare. Si dissolve. Il mondo che viveva quando io

ero un bambino ora è morto, svanito nel nulla, ed i miei

ricordi nostalgici non so più se sono memoria del reale

abbellita dalla fantasia o solo un’invenzione della mia

mente. Potrei raccogliere nella coppa delle mie mani i

-59-

ricordi della mia infanzia - tanti anni spazzati dal

tempo, foglie volate oltre l’orizzonte mentale – e non

sapere distinguere il vero dall’artificioso. Ma, alla

fine, cosa non è inventato? Anche il ricordo più fedele

è una ricostruzione di un momento passato, di un

segmento della nostra vita che non c’è più e mai ci

risarà. Solo il presente, per quanto fuggente, è l’unica

realtà che possiamo vivere, solo adesso ed ora siamo

vivi e siamo qualcuno. Il prima ed il dopo sono pure

costruzioni mentali, ponti gettati sul nulla. Posso dire

che ogni istante un intero universo muore ed un altro ne

nasce.

Alla luce di quanto ho detto, ora più che mai certo

che solo il momento che viviamo esiste ed ha senso, mi

rendo conto di quanto sia importante e bella e sacra la

vita. L’universo è sacro, perché è aleatorio, un gigante

di foglie che si sfalda e si riforma (con foglie sempre

nuove per quanto identiche) ogni frazione infinitesimale

di tempo. Per questo bisogna battersi; non un al di là

ipotetico, un dio di pace ed amore, un messaggero di

luce, un maestro spirituale, un paradiso di gioia. Solo

per questo preciso momento mi devo battere, per queste

parole che sto scrivendo ora, per questi vestiti

semplici che porto ora, per questa musica che sento ora,

e per tutto ciò che esiste ora, buono o cattivo che sia,

per tutto ciò mi devo battere, per tutto ciò devo fare

-60-

zazen. Per i ladro e l’assassino, il poeta ed il

maestro, per Barbara e mio figlio che non c’è (eppure

c’è, perché il più piccolo attimo coincide con

l’eternità, dove tutto è compreso) per Alberto e mia

madre e miei fratelli, per Elisa e i miei colleghi, per

i soldati, il gorilla nella gabbia ed il gatto sotto i

ferri di uno sperimentatore. Per il Buddha, che tutto

aveva capito, per le sue parole ed il suo dharma che

cerco disperatamente di cogliere, per la macchina che io

e barbara abbiamo comprato, per le sinfonie di Beethoven

congelate in un disco di plastica e che vivono

nell’attimo che un fascio di luce lo colpisce. Per le

stelle e lo spazio vuoto e gelido. Io devo fare zazen

per l’universo. Io devo fare zazen perché esiste

l’universo.

-61-

14.

Cosa sia il tempo, nessuno può dirlo. Nel tentativo

di dare una risposta, ci sono cimentati filosofi,

scienziati e religiosi, ognuno col proprio bagaglio di

cultura ed esperienza, invariabilmente influenzante la

ricerca. E per quanto le ultime teorie fisiche (come

quella della relatività) forniscano un quadro generale

nel quale il tempo assume determinate caratteristiche,

ugualmente rimane un mistero il come sia sorto, che cosa

lo faccia trascorrere o meno, come misurarlo

correttamente, se esistano efficaci strumenti di

misurazione di esso. Il termometro misura la

temperatura, nel senso che il volume del mercurio si

modifica in base al calore presente nella materia

(gassosa, liquida o solida) con la quale viene a

contatto. Col cronometro non si può dire lo stesso. Il

cronometro non misura un evento esterno, evento che

influenza direttamente i meccanismi del cronometro. Il

cronometro, se non mosso da meccanismi interni,

indipendenti e bastanti a se stessi, non misura nulla.

Quello che misura il cronometro, è il concetto che

l’uomo a del tempo.

Io posso, nella mia piccolezza, aggiungere qualcosa

di interessante e nuovo – di stimolante, oserei dire – a

quanto già presente nella quasi sconfinata letteratura

-62-

sul tempo? Credo di no. Per questo le conclusioni –

piccole, piccole – che traggo or ora, sono note di

viaggio per me stesso, che col trascorrere del tempo

(sic!) modificherò od integrerò o sopprimerò del tutto.

Zazen è il perfetto strumento di misura del tempo.

Se zazen è profondo, è samadhi e la coscienza è vuota e

libera dalla discriminazione, allora zazen è al di fuori

del tempo, e dunque noi siamo al di fuori del tempo.

Perché? Perché noi siamo consci del tempo quando

pensiamo e facciamo cose e parliamo, o meglio quando nel

fare ciò siamo consapevoli di fare ciò, quando la

coscienza discrimina nel fare ciò. Ma se la coscienza è

pulita, se la nostra mente è concentrata sull’atto del

respirare e non si presta caso al sorgere e morire dei

pensieri, che come nubi nel cielo azzurro vanno e

vengono spazzate dal vento – mentre il quieto cielo

inamovibile permane – come facciamo a sapere che il

tempo trascorre? Senza punti di riferimento il tempo non

esiste, ed allora si prova la strana sensazione di fare

un’ora di zazen ed alla fine avere la sensazione che sia

passato solo qualche minuto, o viceversa, quando il

dolore ed il desiderio di alzarsi fanno sembrare qualche

minuto ere infinite. In zazen il tempo assume tutta la

sua relatività.

Eppure, mi dico, se dovessi rimanere tutta la vita

in zazen (un assurdo), senza pensieri tali che non

-63-

esisterebbe per me tempo, il mio corpo invecchierebbe

normalmente, ed alla fine morirei. Non è forse questo il

trascorrere del tempo? Dunque, un uno stesso spazio ed

in uno stesso istante possono esistere più tempi, una

pluralità di tempi, differenti gli uni dagli altri. Per

me il tempo non trascorre, ma per la candele che brucia

vicino a me, trascorre.

Forse, l’errore è di mettere il tempo dinanzi agli

eventi, mentre varrebbe il contrario. Una palla rotola…

e crea il tempo. Il tempo è una conseguenza del

movimento (anche il pensiero è movimento), dove c’è

quiete, immobilità, il tempo si esaurisce, anzi non

nasce. Per questo ci possono essere più tempi

contemporaneamente: ci sono più eventi che agiscono in

uno stesso spazio sovrapponendosi.

-64-

15.

L’indipendenza mentale, altrimenti definibile come

emancipazione, è la meta ambita che ogni essere umano

degno di se stesso dovrebbe aspirare. E’ una condizione

che allontana dalle convenzioni, le credenze, le

illusioni che secoli e secoli di civiltà hanno

accumulato nel nostro subconscio; pertanto è una scelta

che richiede coraggio e fermezza. E’ una scelta che

medito da tempo, ma che, in effetti, non sono ancora in

grado di fare… per la semplice ragione che comporta

decisioni e prese di posizioni inattuabili nella mia

attuale condizione di cittadino inserito nella realtà

sociale. Tuttavia, può darsi che sbagli le premesse.

Cosa vuole dire essere emancipati? Non cadere preda

delle illusioni della civiltà umana. Quali sono questi

errori? Come evitarli? E come condurre una nuova

esistenza in una società dove tutti si comportano

differentemente da te? L’unica risposta si trova nello

zen, per questo cerco di praticare con zelo zazen:

liberarmi ed andare oltre.

La civiltà umana è incoerente con la vita cosmica e

con il ciclo naturale del mondo che ci ospita,

altrimenti non sarebbero spiegabili le aberrazioni

causate dalla nostra specie, i danni e le catastrofi. Da

quando l’uomo ha sviluppato quello che si definisce

-65-

civiltà, si è sempre più allontanato dal resto del

consorzio mondiale, inseguendo brama, cupidigia, potere

e grandiosità, e costruendo costrutti teorici illusivi

inerenti alla creazione ed all’evoluzione dell’intero

cosmo. E personalmente ritengo che fra quanti si sono

accorti di tali errori, è possibile e bene annoverarvi

anche il Buddha. Di quanto rimane del buddhismo oggi, lo

zen rappresenta la sua parte più essenziale e pura, un

nucleo di sapienza immanente capace di risvegliarci alla

Verità. Ma quale verità?

Chi siamo. Perché ci siamo. Come dobbiamo stare e

dove dobbiamo andare. Ecco alcune domande a cui voglio

rispondere, ed a cui si può tranquillamente rispondere.

E poi: perché l’uomo è diverso dagli altri animali; se

ha uno scopo preciso, quale è quello del cavallo, o

della tigre, o della zecca; la civiltà è giusta; è bene

prodigarsi per favorire una permanenza indefinita della

specie umana o bisogna lasciare che l’evoluzione

continui, magari con la nostra estinzione. Domande sulle

quali mi cimenterò per tutta la mia vita, annotando su

queste pagine le meditazioni e le conclusioni, le

ipotesi e le correzioni di queste ipotesi, in una serie

di appunti che lascerò in eredità a miei figli, o

chiunque altro vorrà leggere per trarre spunto per

proprie riflessioni.

-66-

Chi siamo noi? Bellissimo quesito, la cui risposta è

molteplice: biologica, antropologica, filosofica,

fisiologica, religiosa, sociologica, psicologica,

biochimica, fisica ed altro ancora. Posso individuare

tre campi: scientifico (raggruppa la biologia, la

zoologia, la chimica e tutte le scienze che si presume

basarsi su leggi stabilite ed inequivocabili,

osservabili attraverso sperimentazioni; antropologico

(sociologia e psicologia, e come tali suscettibili di

modifiche nel corso del tempo); filosofico (termine che

uso momentaneamente in attesa di individuarne uno

migliore, e che sta per religione e metafisica e

filosofia, insomma per tutto ciò che vuole spiegare

l’uomo al di là di come è e di come fa, ma di cosa è.

I tre campi scindono la domanda in tre quesiti: come

siamo e perché lo siamo; cosa facciamo e perché lo

facciamo; cosa siamo e perché lo siamo. Non esiste un

quesito più importante dell’altro, e presumo che si

possono trovare soddisfazione in una unica risposta. La

Grande Risposta, che è anche la Verità. Ritengo anche

che il Buddha abbia trovato tale risposta e che alcuni

grandi maestri succedutogli la conoscano e la insegnino

a quei fortunati allievi che si sacrificano per

impararla. Simili maestri sono rari, dunque bisogna

imparare a cercare da soli. Io ho essenzialmente due

strumenti: zazen e la riflessione.

-67-

-68-

16.

L’altra sera, durante un allenamento nel dojo del

maestro Shirai, ho avuto modo di sperimentare quello che

barbara prova per il karate. Se mai dubitavo del suo

profondo amore verso questa disciplina, ora è stato

spazzato. Il ginocchio le ha ceduto in uno spostamento

di attacco, costringendola a riposare almeno per metà

lezione, cosa che evidentemente la turbata. Io ho

ignorato questo suo stato emotivo, e sarei andato a bere

la birra con i compagni di allenamento se lei non

insisteva col volere andare a casa… e fuori dalla

palestra è scoppiata in lacrime. Ho cercato di esserle

vicino, ma Barbara tende a chiudersi in questi momenti e

mi pare non abbia accettato il mio conforto. A casa è

rimasta in silenzio per tutta la sera, tanto che pensavo

pure io rientrassi fra le cose che la turbavano, e

malgrado mi fossi convinto di non avere fatto nulla di

male mi sono sentito in colpa. Così gira il mondo.

Ciò che mi preoccupa ora è la mia scelta.

Abbandonare il karate significa ferire Barbara. Malgrado

sia deciso a camminare lungo la via dello zen, il karate

ha permeato la mia vita per quindici anni, io e barbara

ci siamo conosciuti grazie ad esso e la maggior parte di

conoscenti sono compagni di allenamento. Pensavo di

-69-

essere riuscito a risolvere il problema, ma adesso

ritengo di dovere ricominciare le riflessioni.

-70-

17.

Ho terminato di leggere Il canto dell’immediato satori di

Yoka Daishi (traslitterazione in giapponese di Yung-Chia

Hsuan-Chu eh) famoso maestro cinese, allievo di Hui

Neng. Ho scritto leggere, e non studiare, perché un vero

studio di questo testo impone lunghi momenti di

riflessione ed una pratica più coerente e continuativa

della mia. Tuttavia non credo sia stata una lettura

indarna. Grazie al commento del maestro Deshimaru, devo

aggiungere. Deshimaru è probabilmente stato il maestro

zen che ha maggiormente influenzato lo zen occidentale.

Il Roshi del tempio che frequento, che non posso

chiamare mio maestro (una prerogativa esclusiva di chi

egli accetta come suo allievo – ma devo dire che adesso

come adesso non ci tengo particolarmente, non almeno

come praticare zazen) è stato allievo di Deshimaru, e

comparando i suoi scritti con i modi discorsivi di

Ryusui si intuisce.

Il commento di Deshimaru è bellissimo e

comprensibile, tanto che ho apprezzato maggiormente

questo che il poema vero e proprio. Deshimaru,

attraverso i versi di Daishi, esprime il suo personale

zen, semplice, pratico, completamente mondo da

esoterismi, misticismi ed inutili riferimenti a concetti

buddhisti lontani dalla mentalità occidentali, e

-71-

comunque proponenti verità non sperimentabili da esseri

umani comuni.

Mentre sono seduto a scrivere queste note, mi rendo

conto delle mie difficoltà nel riportare su carta le

impressioni che ho avuto nel leggere il commento di

Deshimaru. Sono sfuggenti, anche se ci posso riflettere

sopra. Probabilmente non sono abbastanza maturo, così

abbandona ora prima di esporre considerazioni non

appropriate o non coerenti con quanto ho provato.

Prima di chiudere voglio dire qualcosa. Capita

spesso che il nostro spirito, qualunque cosa si intenda

con questo termine, abbia dei moti che la nostra mente

non riesce a tradurre in suoni intelligibili (le

parole). Può essere per bassa cultura, o semplicemente

perché trattasi di moti non raziocinabili.

-72-

18.

Viviamo preda delle convenzioni. Sono come paraocchi

che ci spingono ad andare sempre avanti, consapevoli di

ciò che vive nelle zone buie (per noi) ma non desiderosi

di gettarci un’occhiata. Convenzioni sociali, morali,

religiose, politiche… ed altre ancora che ricoprono

tutta l’attività ed il pensare umano. Anche la scienza

ha le sue convenzioni.

Perché parlo di ciò? Due fatti ne sono la causa.

Uchiyama Roshi parla di valori mondani quando intende

quella serie di usi sociali che sono lontanissimi dalla

vera essenza dell’essere umano. Vera essenza dell’essere

umano è vivere la propria vita con purezza, che vuol

dire accettare totalmente la propria vita e scoprire che

essa coincide con noi stessi, con la nostra totalità.

Noi siamo la nostra vita. Le convenzioni ci portano

lontano da questa suprema via, lasciandoci infangati nei

valori ottusi e chiusi della società (che non sono da

rigettare, m vanno considerati per quello che sono,

senza attaccarsi ad essi con fede).

Mentre tornavamo a casa dalla montagna, dove avevo

avuto l’opportunità di riflettere sull’essere umano (si

era in macchina, ma non si viaggiava velocemente), un

uccello cadde sull’asfalto della strada. Ho bene

impresso il suo cadere ruotando, le ali inutili nello

-73-

stallo irreversibile, come se fossero spezzate o se

l’animale fosse stato investito da una tremenda folata

d’aria. Ancora adesso sento il tonfo sordo sull’asfalto

(forse più un’impressione, perché i finestrini erano

alzati ed il rumore del motore abbastanza forte da

coprire rumori esterni) e per un attimo un profondo

dispiacere sorse unito alla volontà di fermarmi per

soccorrere il povero volatile.

Non mi fermai, non so perché, per quanto il mio

cuore me lo implorasse. Convenzioni. Era solo un

uccello.

Per tutto il viaggio di ritorno fui pervaso

dall’angoscia, il tonfo risuonò nei meandri della mente

ed almeno una volta mi parve di percepire – o credere di

percepire – l’urlo di dolore dell’uccello.

Quell’uccello ero io. La sua vita era la mia, il suo

dolore il mio, la sua caduta la mia. Nel momento che lo

vidi, la mia vita e la sua erano parte del mio sé

assoluto. Quello che ho fatto è stato rigettare la mia

vita, non accettarla e non soccorrerla. E tutto questo

per una convenzione.

Ieri sera, mentre portavo fuori il Ciri, sono

passato vicino ad un parchetto. Il Ciri si avvicina ad

un mucchio di vestiti (così identificai l’oggetto), con

cautela. Ben presto compresi che era un uomo sdraiato a

pancia in su, le braccia dietro la nuca, un ginocchio

-74-

alzato. Non rimasi lì a lungo. Le convenzioni mi

obbligarono a non chiedermi se quella persona stava male

o se solo riposava (poteva essere morta). Normalmente

una persona non sta la notte sdraiata vestita in un

parco pubblico. Per questo mi allontanai in fretta,

perfino intimorito, come se avesse potuto aggredirmi (se

fosse stata in piedi, tutto sarebbe rientrato nella

normalità).

Come posso essere pronto a prendere i voti monacali?

Ho rifiutato la mia vita e sono fuggito davanti alla

anormalità (secondo i valori mondani); un monaco vive

con purezza, non rifiutando nulla, non pronunciando

giudizi (anche mentalmente). Molta strada ho da

percorrere.

-75-

19.

E’ necessario condurre un’esistenza il più possibile

coerente con pochi valori, ma ben stabiliti: onestà,

sincerità, rispetto. Mai e poi mai cercare il favore

degli altri, mentre non tirarsi mai indietro, per quanto

è possibile, dalle esigenze delle persone che

conosciamo. E ricordarsi sempre che la vita non è

circoscritta al nostro corpo, alla famiglia ed alla

casa, ma è tutto ciò che incontriamo. E mai indulgere al

pietismo ed all’indolenza; la vita, per quanto possa

essere ricca, è breve, e dunque dobbiamo ricavare da

essa il massimo. Quando sentiremo la morte approssimarsi

– ed è una speranza da coltivare quella in una morte

naturale, per vecchiaia – non dovremo rimpiangere una

vita vuota, passata in pigrizia.

Ogni giorno cerco di produrre qualcosa, di stimolare

chi mi vive accanto, di rendere felice Barbara. Mi

accorgo che è un compito molto difficile: spesso indulgo

in giochi che non mi danno nulla, e non sempre riesco a

rendermi disponibile nei confronti di Barbara… e questo

è un tasto dolente. Credo che il mio starmene a

scrivere, a fare zazen, a leggere, a curare la rivista e

giocare a scacchi mi allontani dalla persona che più amo

che desidero vedere felice. Eppure, al contempo, sento

che questo mio continuare a fabbricare e fare mi serve

-76-

per non sentirmi un uomo squallido, che se non lavora se

ne sta sul divano ad inebetirsi di televisione o a

leggere la gazzetta.

La civiltà contemporanea è un labirinto in cui è

facile perdersi. Siamo sottoposti ad una continua

tensione, la velocità e la frammentazione sono sistemi

di vita che siamo obbligati ad accettare. Noto che

difficilmente ci si impegna in lunghe discussioni, che

la dialettica è ridotta ad un paio di battute, che

ognuno esprime la propria convinzione senza la sincera

propensione a cambiarla se lungo la discussione ne

avverte la fallacia. Siamo costretti a fare le cose

subito, a pensare in una manciata di secondi, a dare una

risposta immediata, ad ascoltare canzonette e guardare

film spezzati dalla pubblicità, allucinanti giochi

televisivi imperniati su azione e reazione.

Sono perplesso e spaventato. Fondamentalmente sono

una persona che non riesce nell’immediatezza ad

analizzare una questione. Ho bisogno di tempo per

riflettere e ponderare, perché sempre in un secondo

momento mi accorgo di possibili alternative, quasi

sempre da preferire.

Frequentando il roshi, ascoltando il suo parlare

apparentemente disconnesso ma quanto mai preciso e

profondo, comprendo ora che ci sono ambiti nella vita

che vale la pena esplorare; modi di pensare che offrono

-77-

prospettive completamente differenti; valori per cui

vale la pena lottare.

Sul lavoro, la gente tendenzialmente si scanna.

Questo avviene quasi sempre alle spalle, una continua

proliferazione di dicerie, malignità, stupidaggine che

col tempo si accumulano sulle persone come marciume, e

la sporcizia alle volte sedimenta anche in chi da tutto

questo vuole astenersi. Sono le tentazioni dalle quali è

difficile fuggire. Spettegolare, ridere alle spalle,

lamentarsi di chi è assente, non ammettere i propri

errori, trattare male i subordinati… situazioni che

spesso raggiungono livelli di comicità. Manca il

rispetto, la disponibilità, la pazienza.

Non so che dire, tranne che ho intenzione di

continuare sulla mia strada.

-78-

20.

Si commettono sempre errori. Per quanto la nostra

volontà sia vigile, ed ogni nostra azione non sia

supervisionata, presto o tardi l’attenzione cede e si

compie un gesto, si dice una parola che sono causa di

malumori. A volte mi capita questo, con Barbara. Sono

certo del mio desiderio di non fare nulla che la

infastidisca, ammetto tuttavia che non sempre riesco

nell’intento. Il lupo perde il pelo ma non il vizio.

La vita non è facile, ancor di più quella di coppia.

Due universi che si integrano, interi sistemi planetari

che si scontrano, esplosioni, buchi neri che fagocitano

comete e soli... impossibile che tutto fili liscio. Io e

Barbara abbiamo passato almeno i primi due anni di

convivenza privati di serenità ed armonia. Ricordo che a

volte Barbara si turbava quasi ogni settimana.

Ritengo di essermi impegnato per migliorare la

situazione, ma capisco che sono ancora lontano da un

risultato apprezzabile. Il rispetto per l’altra persona,

se per di più amata, è fondamentale. La Via che seguo

non transige su questo aspetto. Se poi l’altro non si

impegna ugualmente nei propri riguardi… non importa,

perché si accorgerà del nostro impegno e farà

altrettanto. E’ così che la vita migliora.

-79-

-80-

21.

Nella vita di tutti noi capita che un’immagine, un

suono od un profumo rievochino passati nostalgici. Nel

mio caso, è l’infanzia ad irrompere nella mia memoria:

basta il rumore di un aereo ad elica, che vola basso in

una giornata d’estate, il cielo azzurro, il silenzio

rotto dal canto dei grilli, il sole incontestabile e

persistente. A volte, qua a Baggio, capita che queste

condizioni si verifichino, ed allora mi ritrovo a

Campagnano, sul lago Maggiore, bambino spensierato di

sette, otto anni, nel piccolo giardino di casa a cercare

quell’aereo, o mentre gioco con i miei piccoli amici, o

mentre cammino solo per andare a San Martino, in fondo

alla strada di ciottoli, dietro la curva che costeggia

il vecchio campanile.

E’ passato un quarto di secolo, e mi trovo a

considerare che quei pochi anni – mio padre conduceva la

famiglia alla fine delle scuole e ci raggiungeva durante

le sue ferie – sono stati i più felici di tutta la mia

esistenza terrena, per quanto questa non sia ancora

terminata. Non voglio asserire che ora sono una persona

triste, al contrario: mi rendo conto che in questi

ultimi mesi ho realizzato… o meglio, sto cercando di

realizzare cose che mi danno soddisfazione, dal

frequentare il tempio, alla rivista, dall’aver ripreso a

-81-

scrivere il romanzo al karate; e molte cose in futuro

miglioreranno, altre arriveranno, sperando nel cielo io

e Barbara riusciremo a dare la possibilità ad un essere

vivente di venire al mondo. Certo, il lavoro è una

macchia nera, per quanto stia cercando di praticare il

consiglio di Ryusui Roshi di trovarvi lo spirito e

seguirlo; alcuni giorni, spesso direi, la concentrazione

mi sfugge e la mia mente vola via. Lo zen vuole essere

la profondità e la totalità del quotidiano, il saper

vivere completamente ogni istante della propria vita, ed

in questo riscontro da parte mia manchevolezze e

negligenze. E’ per questo, forse, che rivado volentieri

con la memoria ai tempio dell’infanzia e non posso fare

a meno di considerarli il momento più felice. Ero solo

un bambino, quando giocavo, giocavo; quando studiavo,

studiavo… e se mangiavo, mangiavo. Nessuno dei

tormentosi pensieri che oggi mi perseguitano, nessuna

preoccupazione, nessuna angoscia per il domani.

Poco fa ero sdraiato a letto, cercavo di riposare

malgrado la calura, vicino a me Barbara si era già

addormentata. Ho sentito l’aereo e tutto un mondo è

morto per essere rimpiazzato da un altro. Ho esplorato

il piccolo paese dalle vecchie case di pietra e le

stradicciuole di sassi, vi sono ritornato, questa volta

da adulto, girando per i vicoli, fermandomi davanti al

monumento agli alpini, da dove si può ammirare il lago

-82-

Maggiore, arrivando a San Martino per andare a toccare

il famoso albero dal quale caddi fratturandomi l’omero,

cercando la grande roccia che con gli amici raggiungevo

fingendo di essere un bandito. Ricordo alcune parti del

paese, ma non so più da che parte si gira, quale

stradina si imbocchi per raggiungerle. Sdraiato, gli

occhi chiusi, ho ritrovato antichi sentimenti, il mio

cuore ha sorriso.

Da tempo ho preso la decisione di ritornare un

giorno a Campagnano. Ne ho parlato con barbara, si dice

d’accordo. Tempo che molto sia cambiato, prego che la

verità sia rimasta quella di allora.

Il bambino che giocava a Campagnano non è morto,

anche se nulla di lui è rimasto. Le cellule non sono più

le stesse, i pensieri non ritorneranno, il mondo visto

con i suoi occhi si è dissolto definitivamente. Ma quel

bambino è in me e non posso metterlo da parte. Questa

considerazione mi grava, perché so che ciò che ero ieri

non è oggi, e ciò che oggi non sarà domani, e ciò che

sarà domani non è ciò che è oggi ed era ieri. Il filo

che ci unisce è la memoria, una labile e fallace

duplicazione di immagini e suoni, quasi sempre non

comprovata da fatti incontestabili. Tutto il nostro

passato potrebbe essere una menzogna, un’illusione, e lo

è se riflettiamo sulla verità che solo il presente

-83-

esiste; ma se ci siamo, adesso, con i nostri ricordi,

vuole dire che qualcosa c’era ieri e ci sarà domani.

-84-

BETH

3 settembre 1999

1.

Il passaggio dalla prima alla seconda lettera è stato

dettato dall’ennesimo momento di litigio fra me e

Barbara. Inizio a pensare che in un matrimonio che si

vuole mantenere vivo per l’intera esistenza di chi vi

partecipa i momenti di disaccordo, di silenzi forzati,

di incomprensioni… insomma, di mancanza di armonia siano

maggiori di quanto mi aspettassi. Ancora una volta mi

rendo conto della necessità che io imponga a me stesso

una profonda e seria autoanalisi, al fine di evitare, o

perlomeno procrastinare al massimo, i disaccordi

coniugali. Analisi di chi sono, di come mi comporto, di

quello che dico, di come appaio a chi mi vive accanto.

In ufficio mi dipingono come una persona acida… e

pensare che sto facendo di tutto per essere paziente,

altruista e gentile. Dove sbaglio?

-85-

Devo essere sincero, comunque. Non ritengo che mi debba

assumere totalmente la responsabilità di quanto è

successo tra me e Barbara. Per quanto sono sempre

incline a ritenermi colpevole, questa volta, forse, il

mio errore era minimo. E’ vero, al momento di decidere i

gruppi di allenamento, io avrei dovuto stare con mio

moglie e le figlie del maestro, ma trascinato dal

desiderio di provare un forte allenamento sono rimasto

con Michelino e gli altri. Questo è stato un errore,

malgrado io fossi intenzionato a fare solo un paio di

giri di applicazione per poi inserirmi nel gruppo di

Barbara (alla fine non ho avuto la forza di farlo,

troppo preso dall’allenamento: ecco il grave errore – e

ne ero cosciente!). Tuttavia, Barbara non avrebbe dovuto

reagire così energicamente, insultandomi e non

rivolgendomi la parola. Perché pensa che non abbia

rispetto di lei come karateka? La amo, come potrei non

averne rispetto? Non è una pensa od una perdita di tempo

allenarmi con lei, perché, se pure è vero che come

karateka non ne abbia giovamento, come uomo, marito e

buddhista il merito di fare questo è alto, ed anche la

felicità che se ne trae. Questo Barbara dovrebbe

capirlo. Ed ecco che salta fuori la mia pecca: non

comunico abbastanza con la mia amata, non sono

abbastanza attento alla sua presenza, non le dimostro

totalmente il mio amore. In effetti, che senso ha

-86-

spartire le colpe? un po’ a me ed un po’ a lei? Il

Buddha insegna che se un’azione, od una parola od un

pensiero conducono ad una determinata conseguenza

(negativa o gioiosa che sia) chi ha eseguito quelle

azioni, dette quelle parola, fatti quei pensieri non può

esimersi dalla responsabilità. Nel buddhismo non esiste

dire: l’intento era buono. Se la conseguenza è letale,

allora le intenzione solo illusoriamente risultavano

benevole, mentre nella realtà erano sbagliate, fallaci,

senza altra possibilità. Dunque, io ho sbagliato, in

quello che ho fatto, in quello che detto dopo per

giustificarmi, in quello che ho pensato mentre decidevo.

Siamo figli delle nostre azioni, istante dopo istante.

Condivido questa asserzione, corrisponde immancabilmente

alla verità. Non importa che io stia qui, adesso, a

pensare e riflettere e giudicare su quello che Barbara

ha detto e fatto, e su quello che avrebbe o non avrebbe

dovuto e potuto dire. Importa, in un evento in cui sono

coinvolto attivamente, ciò che mi riguarda. Questo non

vuol dire evitare di dialogare con Barbara (ne sarò mai

capace?) sul suo comportamento; vuol dire non

tralasciare in primis cosa è meglio che io faccia

affinché le cose vadano per il meglio. Barbara è poco

paziente? Intransigente? Collerica? Cosa devo fare (io!)

per evitare di manifestare in lei questi stati, magari

facendole capire che a volte sbaglia? Non è questa

-87-

forse il modo giusto di vivere di un “vero adulto”, come

Uchiama Roshi chiama il bodhisattva?

Ecco che la seconda lettera ebraica è ora nel cielo

della mia coscienza per ricordarmi un voto che ora

faccio, davanti a me come uomo e marito e seguace della

Via, e davanti all’immagine del Perfetto affinché non

scivoli nel dimenticatoio.

Il voto

Faccio voto di ascoltare la voce di tutti

Faccio voto di non negarmi al bisogno di chi mi cerca

Faccio voto di rispettare qualunque creatura

Faccio voto di amare mia moglie in ogni istante

Faccio voto di non tradire o abbandonare la famiglia

Faccio voto di lottare e soffrire per la famiglia

Faccio voto di ricercare il senso delle cose

Faccio voto di coltivare la tolleranza

Faccio voto di nutrire la pazienza

Faccio voto di camminare con zelo e serietà

Faccio voto di mostrarmi benevolo e compassionevole

Faccio voto di superare gli ostacoli

Faccio voto di pregare per la salvezza degli esseri

viventi

Faccio voto di dedicarmi con profondissimo impegno a

zazen

-88-

Faccio voto di venerazione per i buddha, i patriarchi ed

i maestri

Faccio voto di alienarmi la codardia e la ignavia

Faccio voto di proseguire integerrimo come un guerriero

Che il mio corpo, il mio spirito e la mia coscienza

siano segnati da questi voti come da marchi impressi con

ferro rovente.

-89-

2.

Inevitabilmente cado nell’errore. Quello che mi domando

è se esiste l’errore, o è solo un modo per incolparci di

non essere capace di fare o dire cose che reputiamo

lodevoli, altamente dignitose. L’essere umano è una

macchina complessa, un assemblamento armonioso di

diversi fattori, e come ogni sistema complicato spesso

va in crisi, si blocca, non fa quello che dovrebbe fare…

ma un sistema complesso (come quelli informatici) sono

progettati per determinate funzioni, mentre l’uomo non

ha uno scopo, un compito da assolvere… o mi sbaglio?

Comunque, ritornando al mio errore, mi confesso incapace

di balzare in avanti ed agguantare quel fazzoletto

bianco che è sinonimo di vera maturità. Essere adulti

non significa non sbagliare, bensì combattere per

evitare in futuro altri sbagli. Nel mio piccolo, questa

volontà mi manca, e la cosa è grave. Sono un uomo

qualunque che fa una vita qualunque, come posso ancora

cadere nella negligenza e nella manchevolezza? Non

dovrebbe essere tutto più facile? Forse, maggiore è la

responsabilità e maggiore è la volontà a rispettarla. Ma

un uomo che è sposato non ha una grande responsabilità?

Tutto è relativo, chi sei, cosa fai, come fai…

L’altro ieri ho fatto un voto, che comporta il seguire

dei valori e il non farsi depredare lo spirito dalle

-90-

manfrine della vita mondana. Oggi sono caduto

nell’abisso della mondanità, facendomi accalappiare dai

valori mondani così imperanti in questi anni di fine

millennio. Il mio capo ha deciso di darmi un telefonino,

contro il quale io mi sono sempre battuto, ancora adesso

ritengo a ragione. Non ho fatto nulla per convincerlo

che la spesa era inutile: cosa ne faccio al lavoro di un

telefonino? Al contrario sono subito corso a prenderlo e

per tutto ieri ed oggi ci ho giocato come un bambinetto.

Un anno di zen buttato nel cesso… e per di più tirando

lo sciacquone, visto che ho accettato di prendere un bel

centone al mese in nero da un cliente senza dire nulla

in ditta! Sono un milioneduecentomila all’anno, quasi

una quindicesima. Ho pensato che sarebbero stati soldi

buoni per pagare la quota associativa al dojo… come fare

l’elemosina con soldi rubati!

Tornando a quanto sopra: l’essere umano, complesso e

laborioso, non ha uno scopo, nel senso che nessuno lo ha

progettato per assolvere un preciso compito, anche se

alcune religioni sembrano affermare proprio il

contrario. Se l’essere umano non ha uno scopo, perché

esiste? La risposta è che non è necessario avere uno

scopo per esistere, anche se non vuol dire che non

sussista motivo per questa esistenza. Se ci siamo il

motivo c’è, non si scappa. Quello che manca è lo scopo

finale. Lo scopo finale va costruito più che ricercato,

-91-

creato più che perseguito. Lo scopo è vivere. E vivendo

si costruisce un incredibile tessuto di azioni che si

intrecciano con quelle di altri migliaia di esseri

(umani o no) venendo così a creare u ricamo tanto

complesso quanto armonioso, tanto fitto quanto colorato.

L’esistenza nell’universo è un tappeto dagli infiniti

fili e colori e ricami, che si vive in un sol giorno (la

vita di ogni creatura) e che esiste solo in quel giorno.

La vita è già una magnifica ricompensa, la migliore in

assoluto, l’unica opportunità di sperimentare noi stessi

e l’universo, l’unico momento che possiamo sentire e

percepire e vivere. Non esiste null’altro, non può

esistere… perché cercarlo? E se esistesse comunque non

sarebbe adesso, in questa vita, da questo mio corpo

sperimentabile. Per questo si può venerare il Buddha

(ottenendo benefici poiché inconsciamente si è spinti ad

una condotta morale elevata) ma non invocare il suo

aiuto: il Buddha non può aiutare nessuno.

-92-

3.

Mentre scrivevo le note del punto 2., improvvisamente

(le cose capitano sempre all’improvviso) mi è venuto in

ricordo un momento vissuto con gli amici, quando ero

piccolo, penso otto o nove anni. Sotto il portico di un

condominio di via Moncalvo, aspettavo, non so più se da

solo o meno, un amichetto che scendesse a giocare. Il

ricordo è confuso, e dunque capisco che quell’attimo di

vita è andato perso e ciò che ricordo probabilmente non

corrisponde alla verità. E ciò mi spaventa e mi fa

riflettere su come la nostra vita spesso si basi su

fondamenta mandaci. Noi siamo figli della memoria ed

agiamo in base a ciò che ricordiamo, e così come

tendiamo a dimenticare ciò che impariamo a scuola o come

la nostra memoria perda presto i flabili frammenti dei

sogni notturni, così il nostro passato si perde nel

corso del tempo e ciò che alla fine ricordiamo non è

detto che corrisponda alla realtà. Chi mai può

verificare i nostri ricordi? Così è la storia, penso,

quella che studiamo, quella che pensiamo ci appartenga.

Gli studiosi ricostruiscono lavorando su testi che a

volte poggiano le loro tesi e le loro ricostruzioni su

altri testi; un immenso palinsesto in continua modifica.

Già la storia delle antiche civiltà ruota su pochi punti

cardine, mentre il resto è precipitato nell’oblio e lo

-93-

si può riedificare grazie all’intuizione ed alla logica…

ma quanto è vero? Di tremila anno di cultura egizia, si

conoscono qualche nome di faraone, alcune cose che

fecero, una manciata di mionumenti, qualche papiro… in

realtà tantissime informazioni e manufatti, ma rispetto

a ciò che si produsse per tre millenni è solo una

manciata di qualche decennio. La nostra cultura è figlia

di ipotesi, di costruzioni artificiali, non possiamo

fare altro che affidarci al buon senso.

Ricordare il passato ha senso in quanto la memoria

storica è serbatoio di valori. Le radici formano un

popolo, così come formano un individuo. Dimenticare,

volutamente, chi siamo e da dove veniamo – storicamente

e culturalmente – è segno di follia mentale. L’identità

non è una pura astrazione, bensì una sintesi, o meglio

una stratificazione del passato storico. L’individuo si

definisce in quanto ha un passato e questo passato è la

sua memoria, il suo spirito, le sue nozioni che fanno

funzionare l’intelligenza. Ogni nostra azione, pensiero

e parola, ogni sentimento trova energia per

concretizzarsi nel passato – quello personale,

ovviamente. Cosa sarei io, adesso, senza trent’anni di

vita alle spalle? Ora, il problema che si pone è se la

coscienza e la conoscenza di questo passato siano

indispensabili ad un individuo per stabilire la sua

identità o se l’esperienza ottenuta agisca anche

-94-

inconsciamente e dunque si può vivere il momento

presente obliando di volta in volta il momento passato.

Individuo, identità, momento temporale, memoria,

coscienza e conoscenza, ecco termine che devono essere

analizzati e compresi per potere portare avanti questo

discorso (e siamo punto e a capo, visto che comunque è

solo grazie nozioni passate, a memorie ben stabilite che

possiamo intraprendere una tale analisi).

-95-

4.

Continua la lista delle mie negligenze, all’interno di

un periodo che ho voluto dedicare: un voto fatto che

faticosamente riesco a mantenere. Ho messo un

bigliettino vicino al piccolo altare del buddha nello

zendo, con scritta sopra una preghiera per il bambino

dell’Antonella. Il giorno dopo Antonella mi chiama al

lavoro, dicendomi che ha abortito spontaneamente. Lì per

lì non ho saputo cosa dire, a parte le solite frasi di

circostanza. Poi ho realizzato l’inutilità del voto, ma

adesso mi rendo conto che a maggior ragione devo tenervi

fede. Perché fare un voto, mantenerlo, quando si sa che

non sarà di giovamento a nessuno se non a noi stessi? Mi

sembra un gesto egoistico. Io so che i buddha non si

muoveranno per le mie preghiere, ma so anche che la

tenacia a tenere fede ad un voto, privandosi di

determinate cose e bisogni, può migliorarci e portarci

verso una più alta condotta morale. Quello che non

comprendo è come può aiutare una terza persona. E di che

cosa bisogna privarsi durante un voto? Dolci? Sesso?

Colazione? Doccia calda? O seguire i cinque precetti

(non mentire, non rubare, non uccidere, non tradire e

non bere alcolici)? Devo riprendermi dallo scivolone che

mi sta precipitando nel buio e nella mondanità. Sto

diventando gretto, squallido, consumista, misero. Ho

-96-

paura di me stesso e di questo mio atteggiamento,

accorgendomi per di più di non avere la forza per

controbatterlo. Credo che si tratti della società nella

quale vivo e della quale, molto probabilmente non posso

fare a meno. La città non è solo un agglomerato di

edifici e di persone, è pure la concentrazione dei

miasmi della civiltà; i lati peggiori ne vengono messi

in evidenza, ingigantiti e ben nutriti… da noi stesi!

Una persona deve vivere rispettando un’integrità di

comportamento e di pensiero: mente pura, parole, giuste,

azione corretta, niente paraculismi e furbizie… tante

belle parole e bei propositi che in una città come

Milano (faccio esempio della mia città – che amo, devo

dire!) è difficilissimo mantenere; non per debolezza di

intenti, per incapacità congenita o mancanza di

perseveranza, ma semplicemente perché la condotta di

vita che sei obbligato a tenere non te lo permette.

Bisogna essere sinceri: il lavoro opprimente ed

invadente, la mondanità elargita dai mezzi di

comunicazione, il dovere ed il diritto – così ci

insegnano – del guadagnare il più possibile ed in tutti

i modi, ci hanno portato a comportamenti maligni,

cinici, gelidi verso il prossimo. Parlo di me stesso, di

cui ho sicura esperienza. Intorno a me ho un alone che

mi isola dal mondo e tutto ciò che vedo non deve toccare

il mio cuore, primari obiettivi sono la carriera, la

-97-

macchina, il cellulare… è forse un essere umano, questo?

Eppure, avendo famiglia, non puoi sottrarti ai doveri

familiari. Sono confuso, eppure certo che tutto potrebbe

essere differente. Ecco perché ho deciso di seguire la

Via indicata dal Buddha. In essa sono sicuro di

recuperare quei valori necessari a rendere fiorita anche

la vita di città, a rendermi conto che quello che

apparentemente sembra un dovere è solo illusione e ciò

che conta è l’igiene mentale e spirituale, il benessere

interiore di chi ami ed il rispetto per chi ti vive

accanto.

-98-

5.

Questa notte, durante un sogno, mi è parso di provare

una piccola e breve esperienza di satori. So che si

tratta di un’illusione, di uno sfogo dell’inconscio,

della realizzazione di un desiderio; tuttavia non posso

fare a meno di soffermarmi sulla qualità del sogno e sul

suo significato. Come tutti i sogni, all’alba era un

frammento friabile e disperso, ma il ricordo di una

frase è rimasto, brillante e luminoso. Nel sogno

affermavo un’idea, non so più dove ed a chi, che suonava

verosimilmente così: La realtà è la vita, la vita è la realtà; è

un’esperienza che ha significato solo per l’individuo che la vive. Ora che

è sera, dopo una giornata nella quale la mia mente non

si è posata mai su questa frase, mi accingo ad

analizzarla ed a capire se contiene grani di verità.

Le parole chiavi sono: vita, realtà, esperienza,

individuo. La vita è l’arco di tempo di esistenza di

un’entità biologica o vegetale o micogena nel corso del

quale la suddetta esplica la propria funzionalità

attraverso le qualità di cui è dotata. Allargando il

concetto, si può dire che la vita è l'esistenza di

qualsiasi cosa in un lasso di tempo all’interno del

quale mantiene inalterate struttura, funzioni, processi

biochimici, o solo chimici. In questo casa tutto è vita:

la roccia, l’acqua, il fiore ed il cielo. Posso dire che

-99-

con vita si intende l’esistenza di creature appartenenti

ai regni animali, vegetali e micogeni. Credo, comunque,

che io intendessi con vita, l’esistenza di un essere

umano; tuttavia, ha senso parlare di tutti gli esseri

viventi, ovverosia appartenenti ai tre regni. La realtà

è la totalità delle cose esistenti, nulla vi è escluso.

L’esperienza è ciò che un essere vivente sperimenta,

l’insieme di situazioni ed accadimenti nel quale si

trova ad agire passivamente od attivamente. L’individuo

è l’illusione dei cinque aggregati.

La realtà è la vita, la vita è la realtà. Vita è realtà coincidono. La

vita di un essere, l’insieme degli accadimenti e delle

circostanze nell’arco del suo tempo sono anche la

realtà, la sua realtà. la Realtà assoluta, trascendente

l’individuo, non ha senso perché non può essere

sperimentata; la realtà sperimentata dell’individuo è la

sua vita.

E’ un’esperienza che ha significato solo per l’individuo che la vive. Se ciò

che sperimentiamo è la nostra vita, la nostra esperienza

è la nostra vita, allora esperienza, vita e realtà

indicano la stessa cosa. Chi è che sperimenta-vive nella

sua realtà? L’individuo. L’individuo attraverso i sei

sensi sperimenta la realtà che vive e forma la

coscienza, la coscienza rifletta la realtà e formula il

concetto e l’idea di vita.

-100-

In ultima analisi, realtà, vita, esperienza ed individuo

non differiscono fra di loro, sono la mente dello zen.

Ciò che io vedo è il mio sé, la mia mente, la mia vita,

la mia realtà. Soggetto ed oggetto non sono entità

separate, bensì una dualità imposta dalla nostra

coscienza discriminante.

-101-

6.

Sono rimasto sveglio per tre ore a letto, la notte

scorsa, impressionato dalle immagini di un film di

guerra, Salvate il soldato Ryan. Non sono state tento le scene

crude, quanto la consapevolezza della tragedia immane

che i soldati, uomini qualunque, hanno vissuto per conto

nostro. Morti e morti, odio e ferocia, tremenda paura e

fragilità… che ventaglio di sentimenti ha percorso

l’Europa di mezzo secolo fa. Solo mezzo secolo, e la

gente si odiava, si ammazzava, campi di sterminio,

bombardamenti, baionettate, la bomba atomica… i forni

crematori... E adesso, dove è finita quella guerra?

L’energia smisurata generata da milioni di corpi umani

che fine ha fatto? L’odio che provavano i nostri padri e

i nostri nonni è svanito nel nulla? In Germania, le

persone della mia età sono i nipoti degli uomini che

combatterono contro il mondo e vollero conquistarlo, che

bruciarono ebrei e se ne vantarono; il sangue di

discendenza è lo stesso, i geni sono gli stessi, le

persone sono le stesse. Cosa è cambiato? I maestri zen

che insegnavano durante l’espansione del Giappone

imperiale, con le strage che comportò, cosa pensarono?

Il loro zazen era lo stesso? Kodo Sawaki, Deshimaru…

cosa c’era nei loro cuori?

-102-

Siamo figli dell’era fascista, immancabilmente, quando

milioni di italiani – la maggior parte – inneggiava al

duce. Siamo tutti loro figli, qua in Italia, come in

Germania sono tutti figli dei razzisti impietosi che

bruciavano uomini, donne e bambini. Come risollevarci da

questo karma terribile che ci pesa sulle spalle? Sono

dunque anch’io colpevole perché mio nonno accettò il

fascismo e la sua alleanza con la Germania? O, forse,

ognuno è responsabile solo delle proprie azioni? Eppure,

non si può dimenticare, ma forse si deve. Tutto diverrà

polvere, i ricordi si perderanno per sempre con la

scomparsa dell’umanità ed un intero universo sparirà,

come se non fosse mai esistito.

Solo il presente, solo l’attimo fuggente che ci sfugge

dalle mani appena si cerca di afferrarlo, solo quello

conta. In quell’istante incalcolabile l’universo prende

le sue decisioni.

-103-

7.

Devo prendere una decisione. Entro domani. Questa notte

mi alzerò e mi affiderò a zazen. Schiarendo la mente,

sedando le ansie, forse sarò lucido per una obiettiva

scelta. Io so bene che quindici anni di allenamento è

una ricchezza che non è bene gettare, ma so anche che

questa conoscenza ha il sapore di una preparazione allo

zen. Sento che non ci può essere nessun passo migliore

se non quello di dedicarsi allo zen. Primo o poi viene

il momento per il guerriero di trasformarsi in

religioso, mantenendo quella disciplina e

quell’imperiosa forza che se sono prerogative essenziali

nella guerra non sono valori secondari nella religione;

zazen è una lotta continua.

Bisogna lottare per raggiungere uno scopo. Zazen non ha

scopi, solo sedersi; contro chi lottare? Contro la

debolezza della mente e della volontà e del corpo. E chi

combatte contro la mente e la volontà ed il corpo, se

mente, volontà e corpo sono tutto quello che possiedo?

Lo spirito. Lo spirito lotta, lo spirito di Buddha che

ho dentro di me, lo spirito di Buddha che sono senza

saperlo.

Anche qui, parole grosse. Spirito di Buddha. Ma chi è lo

spirito, chi è Buddha? Allora bisogna tornare indietro,

dimenticare queste parole ed affidarsi a zazen ed alle

-104-

antiche scritture. Sedersi in silenzio, immobile come

una montagna ed addestrare l’intelligenza nella lettura

dei sutra e dei testi dei grandi maestri, nient’altro

può servire per chiarificare la mente e scorgere il vero

obiettivo. Non so cosa sia lo spirito, non so cosa sia

Buddha. Ora devo eliminare queste incertezze,

allontanare le false credenze e le illusioni, niente

nirvana e reincarnazione, non pensare al karma, soltanto

sedersi appartato, risoluto, silenzioso, concentrato.

Mirare a se stessi, pulendo la coscienza.

Capita, nel girovagare per le librerie, che mi imbatta

in ridondanti testi sul buddhismo, sull’energia

interiore, sul potere della mente. sugli angeli e su

mille altri argomenti, resi fioriti e semplici e

digeribili come acqua e the, ma che sono ben lontani dal

vero rigore filosofico. La verità non è semplice e

comprensibile solo perché si è letto un testo infiorato.

La verità – il Dharma, tanto per intenderci – pretende

serietà ed impegno, costanza e volontà, e non è detto

che ciò deva poi essere discongiunto dalla benevolenza e

dall’altruismo, al contrario! Questi sentimenti

altruistici sono la conseguenza della seria ricerca del

Dharma, ne scaturiscono automaticamente.

-105-

8.

Continuerò a frequentare il tempio. Ieri sera, entrando

nello zendo e preparandomi allo zazen, ho percepito un

sentimento di gratitudine, come se un fiore nascesse in

me. Per quanto le circostanze della vita me lo

permetteranno, cercherò di frequentare il centro almeno

due volte la settimana (sicuramente una presenza alla

settimana è obbligatoria) ed ogni due mesi seguirò il

breve ritiro di due giorni. La mia presenza al Centro

non è casuale, tanto meno è il sintomo del desiderio

futile di seguire una moda. Ritengo che sia necessario,

in questa vita, capire cosa facciamo e perché lo

facciamo… e cosa ancora più importante sapere come fare

per vivere meglio. Per questo ho deciso di convertirmi

al buddhismo. Ed a questo punto è bene fare delle

precisazioni. Buddhismo, Buddha e buddhisti; nel nostro

Paese, in questi ultimi anni, stiamo assistendo ad una

vera e propria invasione di spiritualità orientale

(cosiddetta), ed in tutto questo il buddhismo (presunto

tale) ha una sua parte fondamentale. I templi tibetani,

i dojo zen, le aberrazioni di Osho proliferano oltremodo

nelle città, sui monti, in mezzo ai boschi, guidati da

sedicenti maestri del dharma (il Dharma con la "d“

maiuscola è un'a’tra cosa) da lama imbellettati nelle

loro belle vesti ocra, da pseudoguru che spandono perle

-106-

di saggezza riciclate da testi (autentici, questa volta)

spirituali di vecchia data. Del Dharma del Buddha…

nemmeno l’ombra, se non si cerca con attenzione. Quando

avvertii il desiderio di rispondere a quelle domande che

da tempo mi assillavano e che non avevo trovato (pur

sapendo che forse non esistono) nelle religioni nelle

quali investigai, conclusi che il buddhismo (che già da

tempo conoscevo, pur avendolo sempre tenuto distante)

poteva aiutarmi. Ben presto mi resi conto che si

trattava dell’unica religione universale, adatta a

qualunque essere umano, di qualunque cultura e razza

(sic!) e classe sociale e nazione. Compresi che la Via

indicata dal Buddha (la cui esistenza onoro) era la

migliore possibile, la confacente al meglio. I casi

della vita vollero (ma nulla accade per caso) che nel

cercare un luogo di cultura buddhista la mia scelta

cadde sul Centro che ora frequento. Ora mi rendo conto

che tutta la mia vita (ciò che ho fatto, detto e

pensato) mi ha condotto a questo Centro, che banalmente

ho scelto perché vicino a dove lavoro; e lavoro dove

lavoro perché sono stato in Egitto con mia moglie; ed in

Egitto vi sono andato come viaggio di nozze; e prima ho

sposato una ragazza conosciuta nel dojo di karate-do; e

così indietro nel tempo. Non è meraviglioso, tutto

questo? A coronare, posso affermare per certo che in

questo centro c’è il Dharma del Buddha, quello

-107-

autentico: Ne ho le prove, non perché ho cercato e

trovato il Dharma, ma per via di piccoli fatti

collaterali, di innocenti (apparentemente) indizi,

parole e gesti che mi hanno portato sulla giusta strada,

dalla quale non ho intenzione di allontanarmi. Se trovi

un tesoro, te ne accorgi, anche senza conoscerne

esattamente il valore… anche se non riesci a vederlo

bene questo tesoro – basta il riflesso, no?

A tempo debito, quando mi sentirò più maturo (passeranno

degli anni?) dedicherò qualche riga per elencare le

piccole prove che possiedo a suffragare la mia tesi

della sicura presenza del Dharma nel tempio di Ryusui

Zensen Roshi.

9.

Mi sono sempre sentito in colpa per la mia ferma

decisione di non devolvere nulla in beneficenza, anche

se a volte capita che dia poca pecunia ad un lavavetri o

per una causa che sento vicina. Tuttavia, in generale,

non appoggio nessuna iniziativa in maniera stabile. E’

forse una colpa? o, peggio, un peccato? Evitare di

aiutare le popolazioni che vivono in una situazione

civile, sanitaria e tecnologica inferiore alla nostra

-108-

(mi riferisco all’Italia) può essere considerata

un’azione poca meritoria? L’altro giorno, ascoltando le

vomitevoli notizie sullo scandalo della missione

Arcobaleno, ho avuto una riprova della bontà del mio

intento a non fare elemosine. Anche se non tutte le

missioni sono infette da scandali, rimane la verità che

la vera elemosina è agire con benevolenza e compassione

nella realtà sociale nella quale si vive, senza

sforzarsi di andare in chissà quale parte del mondo od a

versare somme solo per sentirsi in pace con se stessi.

Se la propria vita incrocia il destino del missionario,

senza che noi si abbia stravolto l’esistenza per

ottenere ciò, allora nulla in contrario… anzi! Quello

che tengo a puntualizzare è che decisioni che provochino

traumi nell’ambito familiare sono da evitare. Si può

essere caritatevoli anche con i propri cari e non

sentirsi sminuiti.

Voglio prendere l’esempio della vita religiosa; una vita

spesa per la religione, qualunque essa sia, quasi

sacrificata per essa… giusto? Affatto. E’ bene dare un

senso alle parole e ricomporre un vocabolario interiore

che tenga conto dell’esatto loro significato. Vivere

religiosamente la propria esistenza vuole dire ricercare

la nostra natura ed assolvere il nostro ruolo nella

società nella quale viviamo. Vuole dire cercare di

essere persone morali e mantenere l’integrità, evitando

-109-

paraculismo, ipocrisia, superbia, indifferenza. Vuole

dire diventare un “adulto”, responsabile totalmente

delle proprie azioni, che pensa ciò che dice cercando di

metterlo in atto. Vuole dire, innanzi tutto, cercare e

trovare un senso alle parole che si pronunciano ed un

senso nelle parole sentite; e da questa ricerca del

senso recondito, ricordarsi le azioni ed i pensieri che

hanno causato il proferire delle sopraddette parole, e

non ultimo le azioni ed i pensieri che da quelle parole

nasceranno, o sono nati. Una ricerca che copre l’intero

anno di un’esistenza, ma che vale ben la pena di

compiere. Su questo argomento mi prendo la briga di

tornare più avanti, anche perché ho deciso di definirlo

come questione da portare in sanzen.

-110-

10.

Il sacrificio dei diciotto uomini che hanno minato il

loro organismo per interrompere una reazione a catena

che avrebbe inquinato l’intero Giappone di

radioattività, il loro camminare lento dentro

insufficienti tute registrato da videocamere e trasmesso

al mondo, l’apprensione di una nazione ciecamente

fiduciosa nelle proprie capacità e nella propria

tecnologia, l’ammissione di colpa da parte dei più alti

dirigenti della società che gestiva il reattore

nucleare… sono questi gli eventi, i fatti della vita che

mi suggeriscono che nulla è ancora perso e che

nell’anima dell’uomo i semi del dovere e della

responsabilità germogliano continuamente. Il Giappone,

tranciato e stracciato dal consumismo occidentale, dal

capitalismo occidentale, dalla moda occidentale, dai

vuoti valori di fine millennio occidentali, preda della

tecnologia, alla disperata ricerca di sempre nuovi e più

disumani passatempi, ci ha donato nel momento più

tragico di questo fine secolo (la consapevolezza di una

catastrofe annunciata) un esempio di sacrificio

inimitabile. Il vecchio Giappone, fatto di lealtà, di

assoluta fedeltà al gruppo – leggi clan – cui si

appartiene, di totale accettazione della morte come

ultimo rimedio per mirare al trionfo… od all’onorevole

-111-

sconfitta, è risorto come la fenice araba. In realtà,

sotto le ceneri gelide e grigie

dell’industrializzazione, pagliuzze di brace non hanno

mai perso il loro calore, incendiandosi nel momento del

bisogno. Dove e quando, dirigenti prezzolati sarebbero

disposti ad ammettere pubblicamente l’errore e la

responsabilità della propria azienda per una cattiva

gestione che potenzialmente può spazzare migliaia di

vite umane? Dove e quando, volontari si offrirebbero,

anonimi, sapendo che il loro corpo un domani non sarà

più quello di adesso? In Italia, in questo paese che

pure amo, tutti sono pronti a scaricare il barile per

non rimanere infangati, ed il senso di responsabilità è

un dovere che conta meno della merda su un marciapiede.

Ci siamo dimenticati che cosa voglia dire essere

responsabili delle proprie azioni ed ammettere in

pubblico gli errori, tanto che vivendo in una società di

tale risma l’eventuale onesto che vorrebbe imitare

l’onestà dei giapponesi verrebbe deriso e preso per uno

scemo. Il suo esempio lodevole non avrebbe peso, al

contrario, lo si indicherebbe come modello di scemenza.

E’ così i nostri figli crescono, ed in loro non c’è più

spazio per l’etica del dovere, del lavoro, della

fedeltà. Ora sappiamo che il giapponese non ha

dimenticato cosa voglia dire essere un guerriero, il

sacrificio per il bene comune è un valore non alieno al

-112-

suo cuore. Bastano questi per indicare una primaria

razza guerriera. E noi? Siamo ridicoli e frignoni.

Quanti soldati manterrebbero il giuramento dato in caso

di guerra? Gli obiettori di coscienza (per lo più

fannulloni e mezze seghe) aumentano di anno in anno,

mammoni che piagnucolano di essere contrari alla

violenza. Ma quale violenza? Il soldato non è violento,

ma forte e deciso nel proprio dovere. La sua mente deve

essere chiara, il suo senso del dovere inossidabile, la

sua volontà a difendere il proprio paese (i propri

concittadini) non vacilla. Dove sono i nostri soldati?

-113-

11.

“Riesce a trovare il senso di quello che diciamo?”

La domanda me la porto addietro da due settimane – senza

risposta certa, se non una pletora di mezze idee alcune

senza coda, altre senza testa. Per questo ora mi sono

seduto a buttare giù queste righe per cercare di dare

forma ai pensieri che mi si agitano dentro. Certo, lo

zen dovrebbe essere l’acquietamento della mente, ma va

da sé che il sottoscritto è ben lontano dall’aver

raggiunto solo il primo gradino di questo risultato…

nemmeno l’ombra, insomma! Tuttavia, non va negato il

fatto che con una certa volontà e sforzo riesca a

riflettere seriamente su un unico prolema e con un poco

di esercizio riesco anche a sviscerarlo bene. Ecco,

dunque, che cerco di dare la risposta a lungo cercata,

preparando un discorso che presto o tardi dovrò

discutere in sanzen.

Mi ripeto la domanda: “Riesce a trovare un senso in

quello che diciamo?” La voglio analizzare, questa

domanda.

Riesce. Si rivolge alla mia persona, alla mia mente, alla

mia capacità analitica. Il verbo riuscire implica la

vittoria in una ricerca di qualcosa o di qualcuno. Vuole

dire che io debbo vincere la mia battaglia, e vuole

-114-

anche dire che io devo cercare qualcosa, altrimenti

quale la mia ragione d’essere nel Bodhimandala?

Trovare. La conferma della necessità della mia ricerca.

Sono nel bodhimandala per cercare qualcosa e debbo

trovarla, debbo riuscire; non ci sono altre attività se

non quella del cercare, e del riuscire a trovare.

Un senso in quello che diciamo. Questa frase va suddivisa.

Parto dalla fine.

Quello che diciamo. Nella segreteria, il maestro tiene dei

discorsi, spesso generici, a volte centrati

specificatamente sul buddhismo, ma sempre, sempre

inerenti il dharma. So questo non perché individuo il

dharma, bensì per una supposizione logica: il maestro –

colui che ha ricevuto il Sigillo della Trasmissione

della Mente – non parla tanto per aprire la bocca: il

suo è un insegnare lo zen, per chi ha le orecchie per

intendere. Quel dire, dunque, quel parlare, quei

dialoghi sporadici vanno afferrati al volo e seguiti con

serissima attenzione (l’attenzione di chi lavora di

precisione, un orologiaio, per intenderci.) Il fatto che

nella domanda il maestro ha posto l’attenzione a quello

di cui si parla nella segreteria (nel bodhimandala,

dovrei dire) vuol proprio dire che in quelle parola è

nascosto l’oggetto della mia ricerca, il tesoro del

buddhismo. Una perla? Per di più ha usato il plurale, il

che significa che non quello che dice lui è degno di

-115-

attenzione, ma anche le domande dei suoi allievi, le

risposte - sempre di questi ultimi.

Senso (o meglio: Un senso). Personalmente, credo che siamo al

nocciolo della questione. Il senso di quello che si

dice, del parlare tra maestro ed allievo (perché non è

mai dialogare tra il maestro e più allievi, ma è sempre

un mondo tra due individui, un rapporto (mondo) tra due

termini (maestro, allievo). In una serata ci possono

essere più mondo, ma non vanno presi come un dialogo tra

un termine da una parte, e più termini dall’altra – così

sarebbe un ragionare sbagliato.) Senso (guardo il

vocabolario – sommo bene): dal latino sensu, da sentire,

che è percepire. Seguono ben tredici accezioni. Le più

appropriate sono:

7. Criterio generale intuitivo, discretivo,

intellettivo.

8. Significato, concetto espresso da una parola, da una

frase.

12. Opinione, parere.

Credo che l’accezione più appropriata sia quella del

numero otto, laddove si psecifica che senso è il

significato espresso da una parola, o da una frase.

Tuttavia, per arrivare a questo bisogna usare un

criterio sia intuitivo, che discretivo, che intellettivo

e giungere infine ad un’opinione, un mio parere

personale.

-116-

Sopra, il risultato dell’analisi, ora le correzioni a

questa analisi. Il senso che debbo cercare, non è un

significato recondito, che ha valore in quanto è in

rapporto con le singole parole che compongono le frasi e

le frasi che compongono il discorso. Il senso è celato

al di fuori di qualsiasi contesto, pur tenendo conto che

il contesto va preso in considerazione. E’ come se si

trattasse di una metafora, dove se si parla del sole che

illumina gli esseri viventi, scaldandoli, non bisogna

soffermarsi sul significato rapportato alle singole

definizioni: sole (dunque luce, calore, vita), esseri

umani (pensieri, intelligenza, ciclo della vita e della

morte); bensì andare oltre, e capire che il sole è Dio,

la luce ed il calore la sua grazia, gli esseri umani

spiriti o meglio: anime. Ed anche questa metafora ha un

senso, ancora più recondito, ed è questo senso profondo

che bisogna far emergere. ne conseguo, in ultima

analisi, che non si può più, alla fine, parlare di

opinione personale, perché il significato più profondo,

il senso delle parole e dunque delle cose, trascende

qualunque parere per diventare inopinabile, verità

assoluta. Lo stesso dicasi per l’accezione di senso:

Criterio intuitivo, discretivo, intellettivo. Il

criterio di ricerca interpreta, di conseguenza è un

filtro e come tale ha lo scopo di far passare alcune

-117-

cose e lasciare indietro altre, ed alla fine non si sa

se è passato il giusto o viceversa.

Cosa posso trarre da queste sopra riportate analisi? Che

cosa è questo senso? Se lo cerco, interpreto e dunque

sbaglio. Dovrei inventare dei parametri, e sarebbero

sbagliati. Nulla allora, solo ascoltare e lasciare

decantare senza fare nulla se non zazen… e naturalmente

continuare con questi fogli di diario assoluto, che una

volta finiti sono dimenticati. Anche questa disgressione

che mi sto accingendo a terminare devo lasciare cadere,

per non esserne influenzato. Quale risposta allora? Non

cercare un senso, oppure andare per gradi, ovverosia

individuare il senso apparente, poi la metafora celata

dietro, poi il senso primo di questa metafora ed il

senso recondito del senso primo? E se non ci fosse

metafora? ma come si sviluppa un discorso del maestro?

Quasi impossibile seguirlo, tanto è un balzare da un

argomento ad un altro… eppure ci deve essere un

denominatore comune, perché non siamo macchine che

sparano numeri a caso, ma coscienze che seguono una

linea di condotta. Il primo livello di significato è

dato dalle singole frasi, e queste frasi assumono un

significato diverso all’interno della frase che le

utilizza. le frasi così formate hanno un senso prese

singolarmente, ma questi significati possono non essere

gli stessi se le frasi di uno stesso discorso sono messe

-118-

in rapporto tra di loro. Fra questi rapporti di frasi,

ne viene fuori che i significati delle singole parole

possono assumere sfumature differenti. Voglio fare uno

schema:

-119-

parol parol parolparol parolparol parol

frase

parolparolparol

frase frase frase

periodo periodo

DISCORSO

All’interno di un discorso, possono esserci quattro

livelli di significato, quattro sensi, per così dire; in

realtà il senso recondito, nel parlare del Bodhimandala,

è al di fuori di questi quattro livelli.

Il Dharma è il senso delle cose. E il senso in quello

che si dice, come nella domanda del maestro, è

un’indicazione per scovare il Dharma del Buddha. Non

rimane che ascoltare, riflettere, mettere da parte e

continuare zazen, oppure considerare ogni parola come un

koan. La domanda del maestro, in definitiva è un koan.

-120-

12.

Sanzen.

Martedì 12 ottobre 1999, una data che appositamente qui

segno per rammentare ora e per sempre l’esperienza del

mio primo sanzen (ovverosia dialogo a quattr’occhi con

un maestro illuminato – maestro, illuminato, ecco due

termini che per essere pronunciati esigono da parte del

proferitore… io… una minima conoscenza dello zen. Io non

possiedo questo tesoro, ma posso affidarmi al giudizio

di chi da tempo segue Ryusui Roshi e felicitarmi del

fatto di essere stato ammesso al Centro). Sanzen non è

un semplice scambio di belle parole, né una confessione

dal prete con assoluzione finale, tanto meno una seduta

dall’analista. Sanzen (nel mio attuale stato di

co(no)scienza) è la dialettica critica che il maestro

imposta affinché l’allievo (che ancora io non sono)

trovi con le proprie forze risposte al suo quesito. In

sanzen il maestro conduce il gioco, in quanto conosce il

gioco (è impregnato del dharma) e dunque quello che dice

è sinonimo di verità (dharma – Dharma).

Entrando in segreteria, il maestro stava scrivendo il

foglio giornaliero delle note. Mi sono seduto, iniziando

a leggere (per la ennesima volta) il primo capitolo

della sublime opera di Dogen Zenji. Nel mio spirito mi

auguravo che smettesse presto, dato che già in un’altra

-121-

occasione – arrivando in segreteria con l’intento di

chiedere sanzen – il maestro era impegnato alla macchina

da scrivere e proprio non me la sentii di disturbarlo.

Questa volta la fortuna è dalla mia parte (ma la fortuna

non esiste, come non esiste la Provvidenza, invenzioni

entrambe per togliersi di dosso la responsabilità delle

scelte e degli errori): il maestro ben presto smette di

scrivere ed apparentemente non sembra volere iniziare a

segnare un altro foglio. Tra l’altro, i suoi fogli

meriterebbero un commento a parte, tanto sono gli spunti

che se ne possono trarre per iniziare una seria

discussione su un qualunque aspetto dell’esistenza

(sociale politica, metafisica, filosofica, etc.) umana.

Torniamo alla segreteria. Faccio gassho e chiedo di fare

sanzen. Il maestro accetta, e di quello gliene sono

immediatamente grato. Si inizia.

La domanda che decido di porre al maestro – la questione

da discutere, insomma – riguarda una sua frase, già

argomento di un punto di questo diario. “Riesce a

trovare un senso in quello che diciamo?” Spiego al

maestro l’ansia che mi hanno procurato quelle parole e

cerco di dimostrare il mio sforzo per comprenderle e

farle “girare” nella mia vita. E’ difficile, col

maestro, riuscire a prolungare un discorso senza essere

interrotti… e questa interruzione è sempre la benvenuta.

Ogni sua parola contiene una verità, od è lo spunto per

-122-

la ricerca di una verità, altrimenti non si spiegherebbe

la Trasmissione della mente che ha ottenuto dal

Patriarca Deshimaru. Tuttavia, è bene chiarire subito

che il maestro, il roshi (come preferisco chiamarlo

quando non mi rivolgo direttamente a lui) usa esporre il

dharma parlando della realtà sociale nella quale

viviamo, ed i suoi esempi sono fatti di vita, di storia

che tutti noi che frequentiamo al centro hanno vissuto o

vivono. Non c’è nulla, nel suo insegnamento, che sia

anche solo lontanamente assimilabile al minestrone

profumato new age e filotibetano che in questi ultimi

anni si è riversato – per opera di - sugli italiani.

Noto che anche lo zen italiano ne ha subito l’influsso,

tanto che in questi ambienti che definisco senza

esagerare alterati , non si fa che parlare di nirvana,

angeli, trascendenza, reincarnazioni, e tutto scivola

irrimediabilmente verso la metafisica, le metafore

poetiche e tutte queste belle cose da sentire ma che in

effetti nulla hanno a che fare con la realtà nella quale

noi siamo immersi, anche nostro malgrado. In questi

giorni il Dalai Lama (che appositamente evito di

chiamare Sua Santità) è a Milano, per raccogliere fondi

per la causa tibetana (che comprendo) ma anche per

insegnare ai milanesi come riacquistare la pace

interiore, la serenità, qualunque sia il loro credo.

Siamo veramente lontanissimi con lo studio della Via. La

-123-

Via non è, per nessuna ragione, una panacea, né per

nevrotici o paranoici che siano, né tantomeno per

tossici o gente dello spettacolo che vuole mettersi in

mostra. Con il roshi questo non accade, e dunque ecco la

prova della sua reale illuminazione. Il roshi non parla

mai apertamente del dharma, i suoi discorsi non sono

un’elencazione dei principi buddhisti, od una

disgressione sulle dottrine del buddha (leggi: Buddha).

Il suo parlare – come già fatto notare poco sopra –

ruota attorno alla realtà sociale nella quale siamo

immersi, ed ognuno deve essere in grado di cercare il

senso delle cose (il Dharma, come in questo momento

della mia vita io lo intendo) con le proprie capacità.

L’insegnamento del roshi, al fine di questa ricerca, per

chi ha orecchi, è illuminante.

E sanzen? Quando ho esposto la mia incapacità di trovare

il senso delle parole, mancando in me la conoscenza del

senso, subito il roshi ha ribattuto specificando che pur

non conoscendo l’obiettivo della ricerca, lo scienziato

(faceva un esempio, ma è ovvio che si riferiva allo

studente dello zen) procede facendo ipotesi, e scartando

nel processo della ricerca quelle che non si possono più

ritenere validi. Così devo procedere. Costruire ipotesi,

eliminare quelle invalidate dai dati dell’esperienza, e

continuare fino ad arrivare alla verità, al Dharma. Lo

zen è illuminazione immediata, ma questo non esclude un

-124-

cammino graduale, fatto di piccole aggiunte, ognuna

delle quale è un corpuscolo di luce, una pagliuzza, un

tozzo di brace nell’oscurità della nostra (mia)

ignoranza.

Lo sanzen è terminato soffermandosi su una mia ultima

domanda, che inizialmente non mi era nemmeno passata per

la mente, ma che, data la piega che aveva preso la

discussione, mi sono sentita in dovere di fare:

“maestro, cosa fa lei per tutti quei giovani e meno

giovani che vengono presi in giro sul Dharma del

Buddha?” Il maestro non mi ha risposto subito, lasciando

“aperta” la domanda; il giorno dopo ne ha parlato sul un

suo foglio di note, chiarendo che lui si chiama fuori

(per l’età e per avere già molto dato) ma lascia

l’incarico ai suoi migliori allievi (i più preparati) di

iniziare una serie di conferenze, senza intenti di

crociate od acerrime discussioni. Starò a vedere. Nel

frattempo, continuo lo studio, vado avanti con zazen,

costruisco ipotesi, le verifico, quelle buone le porterò

in sanzen.

Per finire, alla luce, di questo sanzen, pongo termine

ai punti di questa seconda lettera dell’alfabeto beth,

ritenendo che sia tempo di iniziare un nuvo scalino per

innalzarmi ulteriormente da malkuth. Costruire ipotesi,

indagare fatti sociali, senza dimenticare la mia indole

artistica, la passione per la poesia ed il fantastico,

-125-

per colmare con l’immaginazione, l’intuizione ciò che la

ragione non riesce a comporre.

Non ho finito con questo punto, volendomi adesso

soffermare, seppur brevemente, sul senso delle parole.

Senso che non avrebbe senso se disconnesso con le azioni

ed i pensieri che hanno causate le parole in questione.

Pensieri, azioni e parole, è un trittico che viaggia in

continua rotazione, ogni parte non potendo mai essere

discongiunta dalle altre… e ciò vuole dire che cercare

il senso delle parole è anche la ricerca del senso delle

azione che si compiono e dei pensieri alla base di

entrambi (Parole ed azioni).

-126-

DALETH

1. Mito ed anima – 12 dicembre 1999

L’intervista ad Hillman, che ho debitamente

registrato, mi ha lasciato segni indelebili, in aggiunta

ad un desiderio di conoscere meglio l’autore e di

indagare più profondamente alcuni argomenti e concetti

che mi hanno sempre affascinato, quali il mito e l’anima

(da non confondersi con spirito). Due termini, questi

ultimi, legati a realtà ampie sia di indagare, sia da

comprendere; legate al cammino spirituale e culturale

dell’uomo. In questi anni, il degrado della vera ricerca

spirituale, sostituita da una massa di pseudofilosofie,

scuole esoteriche, libere interpretazioni delle

religioni classiche (il tutto elencabile sotto il titolo

di: new age) hanno allontanato la persona dalla vera

conoscenza del mito e dell’anima, ovverosia da una

giusta interpretazione dei significati dei vocaboli

menzionati. Che cosa è il mito? Che cosa è l’anima?

Dell’anima, il solo parlarne evoca il concetto di

dio, immortalità e vita ultraterrena (od extraterrena),

dunque, come aspirante buddhista, non mi sento pronto di

affrontare adesso un simile discorso, non questo

-127-

affermando che la mia ricerca del Dharma escluda la

volontà di trovare finalmente una soluzione – per quanto

personale – al problema: cosa è l’anima (posta la sua

esistenza)? Per quanto riguarda il mito, posso

permettermi di darne una spiegazione alla luce delle mie

attuali e scarse conoscenze. In passato ne ho perfino

parlato in un articolo sulle origini della fantascienza,

raggiungendo una conclusione che tuttora condivido.

Ritorno volentieri all’argomento, cercando così di

definire maggiormente la mia tesi e magari trovando

nuovi sviluppi.

Il vocabolario da quattro accezioni, tutte

indubbiamente rispondenti alla complessità del termine

mito e che nulla hanno a che vedere con l’uso

incongruente che oggi se ne fa. La parola deriva dal

geco mythos: parola, storia, narrazione; e già

l’etimologia ci aiuta a compiere un passo verso la

comprensione. Le quattro accezioni si possono leggere

su qualsiasi vocabolario (il mio è lo Zingarelli), a me

interessano le prime tre, che riformulerò in una mia

personale lettura:

1. Una lettura religiosa. Narrazione sacra

sull’origine della vita e del cosmo (cosmogonia)

attraverso le imprese di déi (o di un dio).

2. Una lettura eroica. Narrazione di imprese di eroi

cui seguirono fondazioni di civiltà.

-128-

3. Una lettura filosofica. Esposizione di un sistema

filosofico, o comunque astratto, attraverso

un’allegoria.

4. Una lettura sociologica. Immagine di un evento,

di un fenomeno sociale, o di un personaggio che in

determinati gruppi culturali ha svolto un determinante

ruolo pratico o ideologico, od entrambi.

Ciò che accomuna le quattro accezioni è l’idea del

racconto, attraverso il quale si narrano vicende per

spiegare lo stato attuale delle cose o il motivo del

perché delle cose. Il mito si può correlare anche ad

eventi o personaggi realmente esistiti, ma che hanno

acquisito nel corso del tempo una tale levatura da

sfuggire la realtà storica. Ma ciò non ha importanza, in

quanto è nella formulazione dello stesso mito, oramai

disgiuntasi dalla causa originale che lo ha formato, che

l’uomo cerca le risposte alle grandi domande della vita.

L’essere umano è un animale mitopoietico, ovverosia si

distingue dagli altri animali per il fatto che è sua

caratteristica creare miti. Dunque, non parlo di

intelligenza e sentimento per distanziare l’animale uomo

dagli altri animali presenti sul pianeta che ci ospita,

bensì della capacità innata di creare miti, ovverosia

narrazioni che stano a fondamento della civiltà. La

conseguenza maggiormente lampante è che la civiltà

dell’uomo trova origine non nella volontà di qualche

-129-

dio, ma nel mito. Il mito della creazione, così come è

spiegato nella genesi biblica, ne è un esempio, in

quanto pur non rispondendo alla possibilità di riscontri

scientifici è la spiegazione accettata da tutti i

cristiani, che su questa base hanno edificato la loro

civiltà. L’induismo, per spostarci in oriente, è

ricchissimo di miti, legati alle gesta di miriadi di

divinità, che nelle loro imprese hanno dato origine

all’uomo e all’attuale universo. Ma il mito è qualcosa

di ancora più sottile e penetrante, quando si riferisce

a determinati valori, come l’onore ed il coraggio,

conseguentemente specificandosi nel mito del samurai

(tanto per fare un esempio), indicante l’ideale di una

persona che sacrifica la sua vita per un ideale. Ecco,

il mito del samurai è quello che mi piace

particolarmente, perché meglio di altri mi spiega quella

perenne tensione dell’uomo alla ricerca di un qualcosa

che vada oltre l’immanente. Il mito del samurai è il

mito del trascendente.

Il samurai, nella mia esposizione, non è solo il

riferimento alla figura storica del medioevo giapponese,

ma anche l’immagine di un individuo ideale, di colui che

si batte – mettendo a repentaglio la propria esistenza –

per un ideale. Si potrebbe obiettare che il samurai era

un guerriero al soldo di un feudatario (Daimyo), verso

il quale palesava una sincera fedeltà. Quale ideale,

-130-

allora? In questo caso, dovrei introdurre il concetto di

ideale, ma è ancora presto. Piuttosto, vorrei porre

l’evidenza sul particolare che proprio nel servire il

Daimyo, il Samurai onorava l’ideale, perché l’ideale è

ciò che muove il samurai, che cerca un padrone per poter

meglio onorarlo (l’ideale). Di conseguenza, non si

tratta più di un semplice atto di sudditanza, giacché il

Samurai è conscio che esiste qualcosa che va oltre, ed è

questo qualcosa che lo spinge a sacrificare la vita.

Siamo in un contesto superiore, di completo valore

umano, al di spora di qualunque religione. L’uomo

samurai non si batte per gli déi, per Cristo o Buddha,

bensì per una forma idealistica che sfugge qualunque

interpretazione e che difficilmente può essere spiegata

su carta. E’, per l’appunto, il mito del samurai, nel

quale alcune persone cercano di trovare una ragione di

vita. E’ l’unico motivo che può spingere a praticare il

kendo, la via della spada (la spada è il simbolo del

samurai), che in questi tempi di valori azzerati e di

pseudomiti di celluloide ci può ricondurre ad essere un

vero uomo, un adulto, insomma un bodhisattva. Il

bodhisattva è colui che ricerca il mito in assoluto, il

mito dell’illuminazione, ma è disposto a sacrificare

questa ricerca per salvare un simile dalla miseria

dell’ignoranza… ed è proprio in questo sacrificio che

sta il supremo ideale, impossibile de definire a parole,

-131-

ma solo con i gesti, con l’azione, con zazen ed il

kendo.

Attenzione! Il mito non è favola, non è invenzione,

è una realtà ben precisa dentro di noi.

Postilla (molto breve)

Con Daleth, inizio a porre dei titoli alle note,

data la mia volontà di cercare percorsi nella mia

personale ricerca del Dharma.

-132-

2. Tempo di cambiamenti – 2 gennaio 2000

Preciso subito la ragione del titolo: dall’inizio

del nuovo anno, non frequenterò più il Tempio Zen dove

insegna il Maestro Ryusui. Leggendo le note indietro,

dove mi ponevo il dovere ed il voto di fare del Centro

Zen un costante punto di riferimento nella mia ricerca

del Dharma, questa decisione appare quasi inverosimile.

Posso solo dire che ciò che ci riserva il domani è

veramente imperscrutabile. Non sto parlando di destino,

concetto lontano dalle mie idee (per altro sicuramente

erronee) bensì degli effetti dei molteplici intrecci

della vita. Quegli stessi intrecci che mi hanno

inesorabilmente portato a prendere la difficile

decisione. Precisamente, il kendo è stato fondamentale.

Ma andiamo per ordine.

All’inizio del mese scorso, a seguito di una

crescente perdita di interesse nel karate, decisi di

interessarmi ad una alternativa. Lo zen non poteva

essere questa alternativa, dato che la sfera in cui

opera non comprende aspetti al contrario ricoperti dal

karate – in quanto arte marziale – e per l’ulteriore

motivo che da tempo ho sempre saputo essere incapace a

condurre una vita aliena ad una qualsiasi attività

fisica. Ritengo importantissimo dedicarmi ad una

attività fisica, non solo per gli evidenti benefici

-133-

sull’organismo, ma anche per sdebitarmi con mio fratello

Daniele. Essendo lui impossibilitato, per via della

grave malattia che lo assilla, impegnarsi in una

qualsiasi attività fisica, ho io il dovere assoluto di

praticarla per entrambi, un dovere cui non posso fare

meno. Se a questa attività fisica si aggiungono valori

quali l’onore, il rispetto, la sincerità, il coraggio…

allora siamo di fronte ad un’arte marziale. Il karate,

che ho praticato per quindici anni, mi ha formato il

carattere, in un certo senso; ma, ultimamente, ho

sentito che non era più per me, che in esso non sarei

mai riuscito a trovare ciò che cercavo. Che cosa? Non lo

so, anche se credo che lo zen abbia tirato fuori questa

mia delusione, evidenziandola. Infine, il kendo, verso

il quale già tempo addietro, circa sette od otto anni,

provai interesse. Così ho contattato un dojo, ho fatto

una lezione di prova, mi sono innamorato e di

conseguenza ho preso la decisione di dedicarmi ad esso,

per raggiungere i più alti risultati possibili. Mi sono

subito trovato in un ambiente umano, frequentato da

persone sincere, a cui non ero abituato (nel karate

oramai ci sono troppe tensioni, lotte per il potere, la

politica sta assumendo proporzioni allarmanti ed il

business è imperante). Come rinunciare a tutto ciò? Il

kendo è budo, la via del guerriero, il modo più

-134-

verosimile per avvicinarmi al mito del samurai, che ho

spiegato nella nota precedente, se non mi sbaglio.

Cosa centra tutto questo con il Tempio del maestro

Ryusui? Tutto è connesso, indissolubilmente. Purtroppo,

la quota associativa del Tempio è molto alta, tale da

non permettermi il sostentamento delle spese per il

kendo: l’hakama, e fra non molto una armatura completa.

E’ forse veniale tutto questo? Non credo. La mia ricerca

del Dharma non si estingue, al contrario: il kendo fonde

il budo con lo zen, inoltre ben presto inizierò a

cercare un altro Tempio zen, se pur con la

consapevolezza di non potere più trovare un grande

maestro come Ryusui Roshi. Ho scritto una lettera

indirizzata a Philip, il monaco che mi ha seguito nel

mio anno al Tempio, non per spiegare le ragioni del mio

abbandono, ma per ringraziare di quanto ha fatto per me.

Continuerò zazen nel piccolo zendo da me costruito in

cantina e proseguirò nella compilazione del commento del

Dhammapada, opera a cui tengo moltissimo.

-135-

3. Il miracolo della vita – 20 gennaio 2000

A distanza di quasi tre settimane riprendo il

diario. In questo arco di tempo ho avuto modo di

riflettere profondamente sulle scelte operate e sugli

esiti che potranno avere nella mia vita. Ammetto che

spesso mi colgono dei dubbi, ma la certezza di non avere

preso una strada sbagliata, la consapevolezza che le mie

qualità al meglio si manifesteranno attraverso il kendo,

mi spronano a continuare. Tuttavia, la vita non è solo

kendo e zen, anche se così mi piacerebbe fosse. la vita

è molte altre cose, talune di importanza fondamentale,

come quella che dà il titolo a questa nota. Il miracolo

della vita… quale miracolo? Il miracolo della creazione,

che la donna serba nel suo ventre, la capacità di creare

dal nulla un essere vivente. Si tratta di un atto

smisurato, oserei dire divino, e che, paradossalmente,

possiedono tutte le creature di questo pianeta, anche la

più umile ed apparentemente inutile. Come un ratto, come

un piccione, od uno scarafaggio, anche la donna è in

grado di costruire una forma vivente, partendo da poche…

anzi una cellula. Che altri commenti si possono fare?

Nessuno, al massimo la meraviglia di fronte al fatto di

una cellula che già in nuce contenga tutte le

caratteristiche fisiche del suddetto essere vivente.

Vorrei parlare anche delle attitudini psichiche, ma mi

-136-

addentrerei in un contesto non molto familiare, che non

necessariamente coinvolge la scienza della psicologia,

mentre indubbiamente rimanda a molte nozioni del

buddhismo. ma non è questo l’ambito più adatto. Io sono

qui, in semplicità ed umiltà, a parlare del figlio che

io e Barbara abbiamo deciso di avere e che già da

qualche tempo preferisce rimanere al di là di questa

vita. Uso un parlare forse troppo mistico, ma sono

convinto che più che creare un essere ex novo, noi si

dia la possibilità ad una forza trascendete di

manifestarsi su questa terra, introducendo in essa delle

nostre stesse qualità. E, forse, non si tratta di una

forza trascendente, bensì di un’energia quanto mai

appartenente a questa realtà, scaturita in maniera

karmica e che attende il momento giusto per rinascere.

Un’energia che forse è priva di volontà, di anima, di

identità, ma possiede una tendenza, delle qualità, una

certa intensità.

Comunque sia, sono qui solo per meditare sul

desiderio nostro di avere un figlio e sul fatto

incontestabile che da nove mesi i nostri sforzi sono

vani. Il caso è una sciocca invenzione per non pensare

alla responsabilità che dovremmo assumerci in ogni atto

della nostra vita, atti che sono le cause del nostro

destino. E’ possibile che abbia compiuto, o detto, o

pensato qualcosa che contrasti la nascita del nostro

-137-

bambino. Non si tratta di un discorso che nulla a che

vedere con il senso delle cose, perché se ci si ferma un

attimo ci si rende subito conto che noi e soltanto noi

siamo la causa del nostro destino. Lo costruiamo secondo

dopo secondo, ognuno con le nostre azioni, le nostre

parole ed i nostri pensieri, e questa moltitudine di

fili formano un’immensa rete, dove diventa assurdo

pretendere di spostare un filo, o di tagliarlo senza

compromettere quelli che gli sono vicini. Così è la

nostra vita, una rete di karmica, dove tutto ha un

valore pienamente concreto. Se io agisco e parlo male,

queste mia azioni saturano l’ambiente in cui vivo,

influenzando chi mi vive accanto (lavoro, famiglia,

amici) e generando reazioni che presto o tardi

ritorneranno a me. Nulla di trascendente, come si vede,

ma soltanto immanenza, incontestabile. Dunque, mi

chiedo, quale mia manifestazione sta generando un simile

ritardo? O le cause sono da ricercarsi in più profondi

strati del tempo? Bisogna solo avere fede, proseguire la

vita con calma ed energia, nella corretta visione delle

cose.

4. Zen e Kendo – 23 gennaio 2000

In questi ultimi giorni spesso mi sono chiesto cosa

mi ha condotto lontano dal karate, così lontano da

averlo definitivamente accantonato. Ma non dimenticato!

-138-

In quindici anni della mia vita, molte ore della

settimana le ho dedicate al karate, iniziando da ragazzo

(avevo diciassette anni) e finendo da uomo (come dovrei

definirmi adesso), accumulando in tal modo un discreto

bagaglio di sapere, oltre ad avere forgiato un buon

fisico. Tutto è andato perso? Oso dire di no. Ho già

scritto non molto tempo fa di questo, ma ci tengo a

ritornare sull’argomento. Credo di avere scorto la causa

ultima della mia drastica decisione, e voglio meditarci

sopra, argomentarci infine.

Ricordo che qualche anno fa, quando la mia storia

con Simona (breve, molto breve) giungeva al termine, ero

intenzionato ad iniziare la pratica del kendo, senza

abbandonare il karate. Mi scoraggiò il costo eccessivo,

cosicché continuai con la pratica del karate con ottimo

entusiasmo. Dal 1991 al 1995 visse i migliori anni da

karateka: ottima forma, frequentissimi allenamenti,

insegnamenti, stages. Pensavo, allora, che la mia strada

fosse quella, aprire una palestra, diventare istruttore

e poi maestro, e negli anni che vennero immediatamente

dopo alcune cose mi persuasero della bontà delle mie

intenzioni. Purtroppo non fui buon veggente. Nel 1997

iniziai il corso istruttore della FIKTA, e l’entusiasmo

non mi mancava. Gli ultimi mesi del 1998 mi videro

applicato seriamente… come dire, la lampadina che arde

il doppio del normale prima di spegnersi. Dal 1999 ebbi

-139-

l’improvviso calo di interesse, stranamente in

coincidenza con la mia frequentazione del tempio zen del

Maestro Ryusui. Non sono più riuscito a risollevarmi e

tutto questo deve avere un senso. Forse mi resi conto di

non aver ottenuto ciò che cercavo, forse l’ambiente era

talmente cambiato da non sentirmi più in armonia con

esso, forse lo zen mi aveva aperto un altro occhio,

forse l’infortunio di Barbara (senza la quale la mia

vita non sarebbe più la stessa) mi ave a messo di

malumore – il timore che il ginocchio malandato non le

avrebbe permesso di continuare la pratica – forse la

constatazione che tanti anni di sacrificio non mi

avevano gratificato di un grazie da parte

dell’associazione di goshin-do (ma credo che sia un

troppo pretendere), forse l’entusiasmo mi è morto

dentro, di morte naturale, come capita agli esseri

viventi … insomma, tanti motivi, ma forse solo uno ne è

la causa originale ed unica. Quale?

Il karate permette un’ottima educazione fisica.

Dovrei aggiungere anche un’ottima educazione etica, un

giusto modo di affrontare la realtà di tutti i giorni.

Ma non posso dirlo, perché mi sono accorto che non è

così. E’ questa la verità, e su questo aspetto mi ha

aperto gli occhi lo zen. Il karate è diventato un

fenomeno non separabile dalla federazione in seno alla

quale lo si pratica, e col tempo si sono innescati quei

-140-

meccanismi tanto tipici negli ambienti dove ci siano

interessi economici e politici (non la politica dei

partiti, bensì quella del potere). La FIKTA è

un’organizzazione a fini di lucro e per quanto sia

composta da ottimi karateka, scarseggiano gli “adulti”,

così come Uchiyama Roshi ha la compiacenza di chiamare i

bodhisattva. Ci sono solo uomini che vogliono mangiare

ed ingrassare e comandare, e si tanto ben mascherato

sotto la facciata del karate etico (quello del dojo kun,

tanto per intenderci) da arrivare a crederci essi

stessi. ma si ingannano, e discorsi sentiti io stesso

con le mie orecchie non mi danno che ragione. In questo

karate io non riconosco nessuno zen, nemmeno nella sua

più piccola parte, semmai lo zen ha parti. Potrebbe

esserci, ma le attuali condizioni delle organizzazioni

non lo permettono.

Nel corso dell’anno passato ho maturato questa

convinzione, avvallata anche dal tirocinio buddhista,

che mi ha portato a vedere le cose con occhio

differente, oserei dire più imparziale, in un tal modo

che spesso mi sento spesso fuori dal coro e dunque privo

di quei riferimenti che normalmente usiamo per definire

il giusto ed il non giusto, il bello ed il brutto, e

così via. E’ paradossale rendersi conto che noi

giudichiamo e valutiamo con quei parametri che la

società corrotta che vogliamo giudicare ci ha forniti, e

-141-

senza i quali ci sentiamo perduti. Io stesso, spesso, mi

sono sentito spaesato, ed solo grazie allo zazen ed alla

certezza delle verità del Dharma (l’insegnamento del

Buddha e dei Patriarchi a lui successivi) che ala fine

ho sempre ritrovato la giusta strada. Ultimamente, a

seguito del mio volontario abbandono del tempio (ma per

soli motivi economici, ci tengo a precisarlo) questa

capacità è venuta meno, costringendomi spesso al

silenzio piuttosto che dire fesserie o percorrere le

squallide strade delle idee preconfezionate che ci

vengono fornite a destra ed a manca. dalla settimana

entrante inizierò un nuovo tirocinio zen, dedicando più

tempo allo zazen ed alle letture di testi sul Dharma (e

riprendendo seriamente la stesura di queste note). E

così, il karate non ha nulla a che vedere con lo zen,

con l’etica, con la purezza d’animo, anche se conosco

karateka che si possono definire “adulti”, e non a caso

sono al di fuori del coro. Penso a Claudio, a Roberto e

sua moglie Laura, a Sopracciglione (non ricordo mai se

si chiama Massimo e Massimiliano); tuttavia con loro non

ho mai stretto un buon rapporto di amicizia (in effetti,

non ho mai ricevuto da parte loro proposte del genere.

Credo che il carattere chiuso faccia insorgere negli

altri la volontà di tenermi un po’ alla larga). Troppo

pochi, comunque, ed isolati affinché possano essere la

ragione del mio continuare la pratica. Non trovo più

-142-

ragione di praticare, a parte il fatto di tenermi in

forma… e non è ragione sufficiente. Senza contare il

fattaccio dell’estate scorsa, riportato in queste note,

durante lo stage di goshindo a Foligno. Un altro

macigno, forse quello definitivo.

Inutile continuare, ho già detto tutto. Delusione,

mancanza di gratificazione (indispensabile),

consapevolezza di un karate che si è alienato, o non ha

mai posseduto alcuno elemento di zen, dispersione

dell’amicizia (Bruno è cambiato, Michelone non viene

più, Michelino e Riccardino non gli ho mai sentiti

vicini), una federazione filopolitica e lucrosa, e – mi

duole dirlo – un maestro a volte troppo freddo con chi

ha dato tanto. Parlo del Maestro Shirai, indubbiamente

un grandissimo karateka, e forse anche un grande uomo

(per chi gli è vicino) ma troppo lontano da chi vorrebbe

almeno una volta sentirsi nei suoi pensieri. Tutto il

gruppo che pratica con lui, non è composto da suoi

allievi, ma solo da persone alle quale lui insegna

karate. Lo fa magistralmente, con uguale impegno e

sacrificio e dedizione da tantissimi anni, senza mai

stancarsi, spesso o quasi sempre trasmettendo insieme al

semplice insegnamento di una tecnica anche qualcosa

d’altro di più grande, che ha che fare con la vita di

tutti i giorni; ma è inutile negare il fatto che noi non

siamo suoi allievi. Nell'associazione di goshindo che ha

-143-

fondato, non si è forse circondato di persone della

FIKTA, tutte economicamente agiate? Il Maestro sa dove

pescare e cosa pescare. Non voglio criticarlo, la vita è

sua.

Al contrario, affacciandomi nel mondo del kendo ho

avuto impressioni differenti. Non voglio dire che le

persone siano migliore, perché è indubbio gli individui

si assomiglino tutti; pur tuttavia, devo ammettere che

nell’AIK, l’associazione dove mi sono inscritto, ed

anche la più vecchia in Italia, vige una filosofia

differente. Non c’è lucro, nemmeno uno spiraglio di

volontà di guadagnare sul kendo. Forse perché

l’associazione è piccola (il kendo è poco sviluppato in

Italia, non più di un migliaio di iscritti) e dunque

sarebbe assurdo pensare ad una carriera professionale… o

forse perché lo stesso kendo non si presta a simili

prese di posizioni. In Giappone so per certo che ci si

può dedicare alla carriera professionista del kendo solo

dal settimo dan. Interessante, vero? L’ambiente è

piccolo, tutti e dico tutti si conoscono, si gira da

dojo a dojo, ed il belo – se così so può dire – è che

non esiste un maestro di riferimento, giapponese o meno

che sia. So che una o due volte l’anno arrivano alcuni

maestri giapponesi, verso uno dei quali mi sembra di

aver compreso ci sia una specie di profondo rispetto,

tuttavia non esiste quella figura veneranda come nel

-144-

karate, nella fattispecie interpretato dal maestro

Shirai. Ci sono grandi possibilità di sviluppo e spero

nel contempo di inserirmi all’interno del gruppo che

dirige l’associazione. Ecco, forse è proprio questo ciò

che mi mancava, l’idea di appartenete attivamente ad un

gruppo, e non solo quella di vacca da mungere. Ma questo

non è tutto. Ora voglio dire due cose sullo zen ed il

kendo, che tra l’altro è anche il titolo che ho dato a

queste note.

Precedentemente ho detto che ho trovato la

possibilità di armonia tra il karate e lo zen. In

realtà, se mi devo attenere all’insegnamento del maestro

Ryusui, è profondamente sbagliato parlare di zen e… Lo

zen è religione, è il Dharma del Buddha, e come tale

deve proseguire solitario lunga la strada che porta

all’illuminazione. La questione che mi conduce a

ritenere importante accostare lo zen ad un’arte marziale

è il samadhi (zazen, per intenderci). Il samadhi

assoluto è sperimentabile solo in zazen, tuttavia,

quando ci si alza, si può portare nella vita quotidiana

quello che si chiama samadhi positivo. Come una pianta

dall’intenso profumo che ci circonda mentre siamo

seduti, i suoi fiori ci possono accompagnare

all’occhiello; così possiamo portare questo samadhi

positivo in altre attività, e di più rinforzarlo. Il

kendo può fare questo, è impregnato della filosofia zen,

-145-

al contrario dello karate che proviene da tradizioni

completamente differenti. L’atteggiamento, la

concentrazione, lo spirito, la mente, tutto è rivolto

all’annullamento dell’ego, a superare la coscienza

discriminante per entrare in armonia con tutto ciò che

ci circonda. Solo così si può fare un buon kendo. Ma,

naturalmente, non sono ancora così afferrato per

arrivare a trarre simili conclusioni. Rimanderò il tutto

a quando sono almeno un primo dan (ci arriverò? Sì!).

-146-

5. Scienza e nostalgia – 30 gennaio 2000

Spesso capita che si visitino luoghi non tanto per

l’interesse che possiedono (architettonico, culturale,

geografico, etc.) quanto per i ricordi che possono

evocare. Mi sto riferendo al Museo della Scienza e della

Tecnica di Milano, che nella giornata di ieri ho

visitato con Barbara, dolce metà del mio cielo. In

effetti, non ero lì tanto per sapere qualcosa di

aeronautica o di acustica, quanto per tornare con la

memoria ad anni passati, quando ebbi la fortuna di

visitarlo con mio padre. la nostalgia è un potente

sentimento, tanto forte quanto più i ricordi sono legati

a momenti felici dell’infanzia. Uno di questi momenti fu

certamente quello che mi vide visitatore del Museo della

Scienza e della Tecnica. Così, ieri, ho ripercorso gli

stessi spazi, visto le stesse macchine, schiacciati gli

stessi bottoni; mi sono seduto su un pezzo di

artiglieria pesante (suscitando i rimproveri del

guardiano) dove so mi ero seduto da bimbo; ho passato la

mano sul metallo dei possenti treni a vapore ben sapendo

di averlo fatto anche quel giorno di più di vent’anni

prima. C’erano le stesse biciclette, le stesse

automobili, il seminterrato con la riproduzione di una

vecchia fonderia, tutto di pietra e metallo, ed il

pendolo che con le sue lente ed eterne oscillazioni

-147-

indica il ruotare del nostro pianeta. Dunque un viaggio

nella memoria, nient’altro, consapevole, tuttavia, che

io non ero più lo stesso e che nemmeno l’aria e gli

odori che respiravo erano gli stessi. per più di un

attimo ho considerato che nemmeno quelle stesse macchine

fossero in ultima analisi le stesse, perché

l’osservatore non era più lo stesso e la luce che le

colpiva non era la stessa di quel lontano oramai giorno.

Tornando a casa, ripensando ad ogni attimo

rivissuto, o vissuto ex novo, mi sono accorto di una

fugace intuizione che avrebbe potuto provocare in me il

pianto, essere causa di lacrime. Non si possono vedere due

volte le stesse cose. Ciò che vidi al museo quand’ero bimbo,

se pur a rigor di logica potrei affermare essere le

stesse che ho osservato ieri, se pur in termini di

ovvietà dovrei ammettere che il pezzo di artiglieria su

cui salii a nove anni è lo stesso su cui sono salito

ieri, in un’analisi al di là delle convenzioni mentali

cui siamo abituati risulterebbero essere perse per

sempre nel limbo del tempo passato. Una cosa non lo è di

per sé, a scapito di ciò che la circonda, non possiede

una natura ed un’essenza tale da poter dire: è ciò che è.

Una cosa è in stretto rapporto con l’ambiente nella

quale è inserita, assume significato in relazione con

l’osservatore, e l’elenco dei fattori potrebbe

continuare. Oggi guardo il portacenere che ho davanti

-148-

agli occhi, proprio adesso, ma domani altra luce lo

colpirà e pure io non potrò dire di essere lo stesso

(altro sangue, altro umore, altra aria respirata, molto

cellule saranno morte). Eppure, è nello stesso momento

impossibile negare trattarsi dello stesso portacenere.

Si viene così a costituire una sorta di contraddizione,

una dualità, dunque, che proprio lo zen tende ad

eliminare. Ecco un punto, dunque, su cui meditare a

lungo: come eliminare il paradosso del continuo

mutamento in opposizione alla stabilità? Se tutto è

stabile, nulla muta; se tutto muta, nulla è stabile.

Questo dilemma era conosciuto già ai tempi dei sommi

filosofi greci, e si potrebbe assimilare al paradosso

della freccia di Zenone. E’ ovvio che la freccia

colpisce il traguardo, ma la logica affermerebbe il

contrario. E’ ovvio e logico che il portacenere è lo

stesso, ma lo zen, il Buddha, mi dicono che non può

essere lo stesso.

-149-

6. Piccoli piaceri quotidiani – 6 febbraio 2000

La vita tende inesorabilmente a sfuggirci, ed i

nostri sforzi hanno il sapore della vanità, tesi come

sono a preservare ed accumulare cose e ricordi che alla

fine, immancabilmente, risulteranno per lo più inutili,

pesi dei quali sarebbe stato meglio in precedenza

liberarsi, come le zavorre che impediscono alla

mongolfiera di librarsi libera nei cieli azzurri di

maggio. Mettiamo da parte soldi, vendiamo il nostro

tempo per uno somma di denaro a fine mese, compriamo

nuovi vestiti quando notiamo che la moda è cambiata,

donando alla chiesa quelli vecchi o regalandoli quasi

vantandoci di questo nostro atto di bontà; e poi

l’autoradio, il computer, l’orologio subacqueo da mezzo

milione (magari sappiamo nuotare male o non del tutto),

il fuoristrada (mai guidato su uno sterrato). E così,

presi dalla mania del tanto e del più, ignoriamo sottili

ed assoluti piaceri del vivere quotidiano, dimentichiamo

che la vecchiaia è l’arte del ricordo e quando saremo

canuti e curvi ci risulteranno squallidi i rammenti

degli straordinari e i sabati al lavoro, dell’autoradio

con telecomando e CD, delle serate in discoteca a

spaccarci i timpani; vorremmo avere avuto più momenti

banali e quotidiani, ma ricchi di illuminazione, di

satori. Il sapore del caffè la mattina in inverno prima

-150-

del lavoro, la passeggiata lenta e pacata la domenica

per andare a messa, la birra con gli amici dopo un duro

allenamento; aiutare in cucina a pulire le verdure, in

assoluto silenzio o parlando di cose del tutto inutili;

le passeggiate nei boschi, così tanto per camminare,

fermandosi magari a raccogliere due o tre more; starsene

seduti sulla poltrona preferita a leggere il nostro

autore preferito. Ognuno ha i suoi momenti quotidiani, e

non sarebbe stolto rivalutarli, e cercare in essi la

giusta illuminazione, la nostra vera natura che in

questa società ipertecnologica abbiamo accuratamente

seppellita sotto strati di convenzioni e mode dettate

dalla televisione. Bisogna ricercarli ed immergersi in

essi, senza il timore di sprecare tempo… la nostra vita

si rispecchia in essi. Quando la nostra volontà langue,

quando ci rilassiamo e facciamo o diciamo cose cui non

prestiamo attenzione, allora la nostra vera natura

emerge, non vincolata e controllata. In quel momento di

totale libertà, noi dobbiamo ancor di più annullarci,

come in zazen, per scoprire noi stessi e raggiungere il

satori. Nello zen, può apparire ad un profano che si dia

troppa importanza a mestieri privi di valenza per così

dire “spirituale”, come setacciare la cenere per

togliere i mozziconi, o fare le pulizie nel tempio. Al

contrario, in questi momenti poveri e quotidiani,

possiamo rintracciare la nostra natura, come in zazen,

-151-

perché la nostra mente è concentrata solo sul

setacciare, solo sul pulire lo stipite: pulire,

respirare, null’altro. Non è meraviglioso? Lo stesso

discorso vale per i piccoli piaceri, come camminare nel

parco, le mani in tasca e null’altro per la testa,

beandosi del momento. E’ questo quello che ci manca, la

capacità e la voglia di bearsi del momento che si sta

vivendo, senza essere con la testa altrove, immerso in

pensieri che non hanno nulla a che fare con quel preciso

istante. Se si riuscisse a a raggiungere una simile

concentrazione-deconcentrazione, allora la natura di

buddha che è in noi non ci sarebbe sconosciuta.

-152-

7. Dio esiste? – 6 febbraio 2000

Normalmente non ritengo utile perdere tempo in

problemi pseudofilosofici la cui soluzione è più

effimera e falsa del problema stesso. Lo definisco

pseudofilosofico perché nella sua essenza è falso,

nonché fuorviante e del tutto inutile a risolvere

qualunque rovello e dubbio. Per lo più serve per

convincere noi stessi, e non sarebbe saggio servirci

della soluzione cui siamo giunti, a volte esagerando

nell’autocompiacimento, per cercare di tirare sulla

stessa carretta il nostro prossimo. Comunque, procediamo

e vediamo cosa ne viene fuori.

La domanda è subdola, impossibile negarlo, dato che

ha in sé due enunciazioni che ben dovremmo conoscere e

che invece ci sfuggono. Prima enunciazione: essa spiega

la natura dell’entità che noi sinteticamente definiamo

Dio. Seconda enunciazione: essa spiega il significato

dell’esistenza. Ora, per proferire la domanda “Dio

esiste?” noi dovremmo ben conoscere le due enunciazioni.

Così è? Non lo so per chi mi legge, ma personalmente non

ne ho la benché minima idea; ma posso fare uno sforzo.

Vediamo, con Dio posso identificare un essere (sob! che

cosa è un essere?) che sfugge il tempo e lo spazio pur

identificandosi in essi (pertanto è presente in ogni

luogo ed ogni tempo – naturalmente a patto che io sappia

-153-

ben definire tempo e spazio!). Vorrei andare oltre,

parlando di onnipotenza, ma è conveniente fermarsi e

cercare di dare un significato a spazio e tempo e al

termine – molto usato e poco compreso – “essere”. Che

cos’è un essere? Questa è una domanda veramente

fenomenale. Cosa vuole dire un essere, e, ancora più

intrigante, cosa vuole dire essere un essere e sentirsi

un essere?

Bene, abbiamo capito che prima bisogna dare valore

ai termini di base, poi, illuminati da tale sapienza,

arrivare al grande dilemma di Dio. Concentriamoci: Che

cosa è un essere? Prima, ovviamente, bisogna avere ben

stretti in mano i fondamenti del linguaggio (nella

fattispecie, quello italiano) per cui è lecito chiedersi

che cosa si intenda per “cosa”. Non domandiamo “Che

tempo è un essere” o “Che spazio è un essere” o “Che

sentimento è un essere”, bensì “Che cosa è un essere”.

Il problema è che ognuno di noi intende “cosa” in una

sua maniera particolare, come è giusto che sia, senza

bisogno di affidarsi al vocabolario, così come ad esso

non ci affidiamo per trovare risposta alla grande

domanda: Chi è Dio (posto che esista). Conseguentemente

tutto il percorso risulterebbe inquinato di

soggettività, e apparirebbe un comportamento ingenuo e

ridico quello di manifestare la mia soggettività

-154-

intendendola come una delle possibili risposte al

dilemma su Dio.

Posto quanto sopra, una mia soluzione la voglio lo

stesso dare, ché sono vanaglorioso. Che Dio esista o non

esista, non ha assolutamente nessuna importanza, perché

non sposterebbe di una virgola l’intera storia della

civiltà umana e di questo pianeta. Un conto è sapere di

Dio, un conto è credere di sapere di Dio. Bisogna

spostare di un livello tutto il discorso.

Sinteticamente: l’esistenza o meno di Dio non è

congiunta con la credenza o meno in lui. Le due cose non

vanno di pari passo, non sono in comunicazione; e

comunque, qualunque sia la nostra fede, o certezza che

dir si voglia, sarà sempre lontanissima della Verità

(posto che esista).

-155-

8. Hemingway – 7 febbraio 2000

Ci sono scrittori che hanno fatto della propria arte

un tutt’uno con la vita vissuta, tanto che se ne fatica

a trovarvi un distinguo; e farlo forse è un male. Ne

conosco pochissimi, e se dovessi fare un nome per

portarlo come esempio, credo che Hemingway sarebbe il

primo ad essere proferito. Hemingway, il grande

scrittore di questo secolo che ha saputo reinvenare il

romanzo. Proprio in questi giorni sto leggendo Isole nella

corrente, il romanzo postumo, in verità tre episodi

stretti attorno alla figura di un uomo che, come tutti i

protagonisti del grande scrittore, è un fallito e come

tale assolutamente un vero uomo. E su questo aspetto

della narrativa di hemingway mi vorrei soffermarvi.

Tutti i protagonisti di Hemingway, per quanto

apparentemente diversi, nel fisico, nel lavoro, nelle

amicizie, nelle morti, sono la manifestazione di uno

stesso individuo, che è l’ombra di Hemingway. Egli si

racconta di volta in volta, attraverso dialoghi,

scazzottature, battute di caccia, lunghe giornate di

pesca, agguati al nemico, episodi di battaglia, sbronze

colossali e amari – sempre amari – ricordi di una vita

vissuta e persa. Sembra quasi che Hemingway ci voglia

ricordare che nella vita si è sempre dei perdenti, che

ciò che ci rimane è un pugno di ricordi e la

-156-

consapevolezza che il domani sarà più amaro dello ieri.

Ma l’idea di fallito di Hemingway è sfuggente e riguarda

uomini e donna che apparentemente sono di successo, come

il pittore Hudson, mentre la loro esistenza si stempera

piano piano lungo continue sconfitte sentimentali,

perdite di cari ed amori. Quello che dobbiamo chiederci

è: perché Hemingway fu quello che fu, cosa lo portò al

suicidio, cosa lo indusse a ritenere la vita ed il mondo

qualcosa di amaro ed al contempo bellissimo, come un

improbabile e stupefacente fiore che nel momento di

essere toccato si sbriciola.

Il percorso, Hemingway lo dipana nei suoi libri,

pagina dopo pagina e tocca a noi riuscire a

ricostruirlo, per infine comporre il puzzle della sua

anima. Egli giunse all’inevitabile conclusione che la

vita non si può afferrare, ma tutt’al più è lei che ti

afferra e ti scuote, e che non si può usare, ma è lei

che ti usa. La fine è sempre ed una sola: la morte, ma

non di vecchiaia, bensì durante un’azione in cui si

crede e nella quale si è finiti per fuggire o

dimenticare per mancanza di altri scopi. Hudson non è un

patriota, non caccia il sommergibile tedesco per amor

del suo paese. Il suo scopo è più grandioso, titanico,

l’unico vero motivo che ognuno dovrebbe avere per fare

le cose: il senso della sfida, il pericolo ed il

coraggio di sfidare, il pesce spada, il leone, il

-157-

sommergibile tedesco, il fucile del nemico, l’immenso

mare, la vita stessa, la morte, che alla fine vincerà,

sempre, ovunque, comunque. Attenzione! Non siamo davanti

ad una visione pessimistica della vita, al contrario.

Hemingway amava la vita, amava il mondo ed i suoi

personaggi, i suoi meravigliosi e perdenti protagonisti

lo dimostrano: essi lottano con estremo amore per le

cause giuste che nulla hanno a che fare con loro se

stessi… ed è per questo che muoiono.

Ultimo, ma non ultimo, Hemingway, per quanto se ne

dica, sapeva scrivere. Se qualcuno volesse mai iniziare

la carriera dello scrittore – o perlomeno provare – gli

converrebbe leggere il grande vecchio.

-158-

9. Mike Oldfield&Kendo – 8 febbraio 2000

Naturalmente è sempre difficile riuscire ad essere

imparziali. I nostri giudizi invariabilmente sono emessi

su parametri personali, e non sempre sono modificabili o

assimilabili da altri. E questo si evidenzia ancor di

più quando l’oggetto della passione – dell’amore dovrei

dire – è insolito, o perlomeno poco comune. E’ bello,

bellissimo amare qualcosa che pochi conoscono, studiarla

e conoscerla a fondo, suscitando sempre la sorpresa se

non l’indifferenza nel prossimo. Ah, è meraviglioso ed

io godo di ciò, perché mi fa capire come spesso siamo

modellati dalle grandi correnti imposte dalla società.

Quando la cosa è semplice, di facile accesso,

immediatamente consumabile…bhe, state certi che sarà

appannaggio della massa; è sempre stato così e lo sarà

sempre. Al contrario, quando l’oggetto dei desideri,

dell’amore infrenabile, della più cieca passione è così

singolare, strano, apparentemente incomprensibile,

alieno, brutto, inutile… allora sono pochi i suoi

estimatori, una vera élite.

Così accade per il kendo, praticato da un migliaio

di persone in tutta Italia; così accade per

l’incommensurabile Oldfield, genio musicale, che forse

vanta maggiori estimatori della nobile arte marziale

giapponese. Il Kendo e la musica di Oldfield non hanno

-159-

nulla in comune, se non il fatto che li amo e che sono

due meraviglie che il mondo ha saputo offrirmi. Io credo

che vale la pena di combattere e vivere per loro, sì,

vale la pena. Perché ho la certezza che siano dei fiori

inestimabili, dei gioielli della nostra cultura e

sarebbe veramente sciocco perderli, veramente sciocco.

Differente è l’amore per la mia Barbara ed a scanso di

equivoci mi conviene prossimamente spendere tempo ed

elettricità per chiarire il tutto.

Molto bene, questa è una nota breve, dato che spesso

sulle cose più belle faccio fatica ad esprimermi. Credo

che il miglior modo di dir le cose sia non dirle

proprio. Al contrario, limitarsi ad agire, con il corpo

intero muoversi, come nel kendo, per manifestare la

propria vera natura e raggiungere il Dharma. Certo,

perché anche in Oldfield è presente il Dharma,

altrimenti perché l’universo ha sprecato tanto tempo e

fatica a diventare quello che è? Le due cose sono in

contrasto? Non credo proprio, il percorso che le lega

magari è elaborato, e con un poco do pazienza lo

dipaneremo.

-160-

10. L’albero – 21 febbraio 2000

Cosa vuole dire disintegrare una vita? Innanzi

tutto, vuole dire sapere cosa è una vita e dunque avere

bene saldo il concetto di vita, e non è una cosa facile.

se qualcuno dovesse domandarci cosa è la vita, non credo

riusciremmo a trovare così su due piedi una risposta

soddisfacente. Tutto questo per arrivare a confessare il

mio senso di colpa per avere consentito l’abbattimento

di un pino trentennale, una magnifica pianta di quasi

dieci metri… anzi un magnifico essere vivente. Ma per

continuare devo per forza di cosa cercare di esporre la

mia idea di vita, che cosa è, come si sviluppa e perché.

Cosa non facile, dunque e che credo non possa nemmeno

essere spiegata. Questa sapienza non risponde ai rigidi

canoni della scienza, bensì alla sensibilità dell’arte;

non è una fredda tabella matematica, piuttosto un

quadro, od una sinfonia, dove le pennellate e le note

vengono accostate e sovrapposto in armonia con l’indole

dello spirito.

La vita? tutto è vita, anche la più misera

particella di vita. Semplicemente, bisogna considerare

il tutto su piani differenti, definibili livelli di

coscienza. la vita è la coscienza nel suo manifestarsi,

partendo da uno stato di assoluto coma ed inerzia (la

pietra) fino a quello di coscienza infinita (Dio?).

-161-

Ecco, ho gettato in questo momento un’idea,

un’intuizione che è uno spunto sul quale lavorare in

futuro, il tutto nato dalla riflessione

sull’abbattimento del grande pino davanti a casa. Sì,

perché si è trattato di un assassinio, della distruzione

di una vita. Bisogna partire dal concetto che una pianta

è un essere vivente a tutti gli effetti e come tale

andrebbe rispettato. Ciò non vuol dire non cibarsi di

verdure e frutta, attenzione, vuole dire non

distruggere. la differenza è rilevante.

Nelle popolazioni indigene, nella cultura tribale

dalla civiltà occidentale considerata selvaggia, anche

la preda nella caccia è sacra ed in alcune culture si

chiede ad essa perdono e la si rispetta perché è fonte

di vita. L’animale non viene allevato, la sua indole

selvatica non è smorzata, i suoi istinti inibiti.

L’animale vive nel suo contesto, come l’indigeno, e

muore per nutrire un altro essere vivente, quasi come se

donasse se stesso. La stessa sacralità noi dovremmo

inserirla nella nostra vita quotidiana, nel curare anche

le piantine dell’orto e del giardino. Sono esseri

viventi che meritano il nostro rispetto e che con noi

condividono questo meraviglioso pianeta.

Per tornare alla pianta, non ho molto da aggiungere.

Vorrei solo esprimere il mio dispiacere per avere

lasciato commettere questo crimine ed ora mi domando che

-162-

fine abbia fatto lo “spirito” del pino. Essendo un

essere vivente, produce karma e di conseguenza

quell’energia deve essere andata da qualche parte: nel

prato, nelle mani del giardiniere, nella mia mente che

produce il sentimento di dispiacere, in chi guardava

dalla finestra di casa sua. ho pensato al significato

della parola “spirito” , alla fede ed al rigore

scientifico e mi sono accorto, in finale di esame, che

ancora adesso, malgrado il mio zazen e letture dei sutra

(che dovrei riprendere con maggiore ardore, studiandoli

attentamente) non sono ancora giunto ad una conclusione

definitiva. il dubbio mi tormenta l’anima, ed il dubbio

di avere permesso l’assassinio di un essere vivente è

ancora più forte.

-163-

11. I Piani di esistenza – 12 marzo 2000

In parole povere, tutto è vita, esistenza, essa è

come un’energia che pulsa e vibra in ogni particella di

materia dell’universo; maggiore è la vibrazione, più

complessa è la forma di vita. In base a ciò, ho buttato

giù un diagramma, dividendo le forme esistenziali in

sette piani o livelli. Credo sia possibile organizzare

tutto l’universo in questi sette piani, considerando che

ogni cosa è una forma di vita. Il passo successivo

consta nel ricercare le leggi che governano l’energia

vitale e nel comprenderne appieno la struttura.

L’energia vitale è il wakan tanka (per utilizzare la

mitologia dei nativi americani), altrimenti definibile

come il ki universale. Questa energia, come già dapprima

annunciato, pervade l’intero universo, ogni atomo ed

ogni interstizio tra gli atomi. Naturalmente, la mia è

sole un’intuizione, ma per una volta voglio seguire

questa intuizione fino in fondo e vedere dove mi porta.

In aggiunta, voglio cercare di armonizzarla con il

pensiero buddhista, e credo proprio sia possibile. In

questo caso, il wakan tanka è il Dharma, dunque non solo

energia, ma anche legge e senso delle cose; ma è ancora

presto per arrivare ad una simile conclusione.

-164-

12. Tempo di svolte – 21 marzo 2000

La nostra vita non è una semplice linea dritta che

collega la nascita e la morte, senza interruzioni, senza

curvature, senza sorprese. In parole povere, voglio dire

che mi sta capitando qualcosa di nuovo; dopo quasi

trentacinque anni, mi rendo che conto che provo

l’inguaribile desiderio di cambiare il corso della mia

vita. Nulla che abbia a che vedere con un drastico

ribaltamento di ciò che sono adesso e di ciò che adesso

possiedo; semplicemente la necessità – che è più che

desiderio – di introdurre delle novità.

Perché tutto questo? E perché proprio adesso e non

l’anno scorso, o cinque anni fa? Se devo analizzare la

situazione, allora mi tocca guardarmi alle spalle ed

iniziare da quando sono entrato per la prima volta nel

tempio del Maestro Ryusui, se non andando ancora più

indietro, ai tempi di frequentazione del gruppo Bahai di

Milano. Sarebbe da capire se esiste un filo conduttore o

se sono cose che capitano a caso, sotto lo stimolo

improvviso di desideri infrenabili. Forse dovrei

riguardare tutta la mia vita sotto una nuova ottica, e

già so che nel farlo potrei accorgermi che ciò che vedo

non sarà di mio gradimento. Di conseguenza, per evitare

il trauma di una simile ricerca – che presto o tardi

dovrò affrontare – sarebbe saggio cominciare da adesso,

-165-

dal desiderio di svolta insortami da pochi giorni,

proseguendo poi a ritroso nel tempo, fino a quando i

miei ricordi sapranno condurmi. Sarà una ricerca della

mia vera essenza, del mio sé, della mia natura

inequivocabile, unica, irriproducibile, qualcosa di

meraviglioso, come una nota melodiosa che vibra

nell’universo. Potrei incontrare difficoltà, se non

addirittura dei lati della mia personalità poco

piacevoli (e so che ci sono).

A metà aprile parteciperò ad un seminario di Reiki,

per l’apertura dei canali energetici. Nulla che abbia a

che vedere con la new age, dato che questa filosofia è

nata all’inizio del secolo in Giappone. Succesivamente,

se ne avrò la costanza, mi voglio dedicare allo shiatsu

e nel contempo continuare il mio studio del Dharma del

Buddha (lo zen, si intende), per conto mio, od in un

tempio qui a Milano. Certamente la rinuncia al tempio

del Maestro Ryusui ha pesato molto e mi ha lasciato

amareggiato, e spesso mi domando se la mia scelta sia

stata quella giusta: kendo o Buddha? In realtà non ho

rinunciato al Buddha ed al suo insegnamento, ma solo ad

un tempio la cui ammissione era vincolata al pagamento

di una retta troppo salata per i miei fondi.

Adesso basta, questa sera faccio fatica a scrivere,

forse per via del televisore acceso.

-166-

13. Reiki – 25 aprile 2000

Dall’inizio dell’anno ho notato un calo di stesure

di queste note, e ripongo la causa nell’abbandono del

tempio del maestro Ryusui. Il maestro era un continuo

stimolo ad analizzare la realtà ed a mettere sempre in

discussione le mie azioni, le mie parole ed il mio

pensiero. I suoi discorsi – lezioni, sermoni – erano

mere riletture della società in cui viviamo, salaci e

dure critiche a quelle piccole gesta e tradizioni ed

usanze e modi di dire che siamo abituati a seguire e che

sono invero motivo di perdizione (intesa questa come

allontanamento dalla verità del Buddha, il Dharma,

perfettamente comprensibile anche da chi non ha fatto

dell’insegnamento dell’Illuminato la sua via).

Ora sono solo, spesso mi accorgo di cedere alle

lusinghe della mondanità, ancora più spesso – e per

questo ringrazio tutti i Buddha, i Bodhisattva ed i

Patriarchi – sono conscio di come tutti noi viviamo in

una società basata su ipocrisie e vuote usanze. Io

stesso sono il primo a seguire queste leggi mondane, per

questo la mia consapevolezza è così lucida. Ciò che mi

manca è la forza di compiere il passo che mi separi

dalla mondanità. Quando sarò capace di compierlo?

-167-

Nel frattempo cercherò di dedicarmi con maggiore

impegno a questo diario, annotando qualunque cosa mi

passi per la mente.

E per non staccare, eccomi a dire quattro parole sul

seminario di Reiki (o reiki, con la prima lettera

minuscola, a seconda dell’importanza che gli si vuole

dare). E’ stata un’esperienza singolare, e credo di non

averla ancora metabolizzata, per via della mia mentalità

scettica e scientifica che è all’opera su uno o due

fatti. innanzi tutto, premetto che è stata dura, non per

il seminario in sé, quasi una cosa banale, quanto per

l’atteggiamento della mia Barbara, che non ha gradito –

giustamente o meno, non è mia competenza opinare sui

suoi metri di giudizio – gli orari piuttosto lunghi e la

mia assenza da casa per tutto il fine settimana.

Continuando, posso dire che si è trattato di un

seminario che avrebbe potuto benissimo essere contenuto

in una giornata, ci sono stati troppo tempi morti ed un

finale “angelico” che a mio parere nulla aveva a che

fare con il reiki. Ed ora passiamo ad una veloce

descrizione, in modo che tu che mi leggi ti possa fare

un’idea di che cosa sia _ o cosa si pensa che sia – il

reiki. (Un’altra premessa: intorno a questo reiki è

sorto un giro d’affari non indifferente, con la

conseguenza che tutto il movimento è inquinato dall’idea

di fare soldi).

-168-

Bene, tutto è iniziato con una informale

presentazione a cui è seguito un piccolo rituale quanto

mai ridicolo e piuttosto americano, durante il quale

ognuno di noi ha scritto il proprio nome su

un’etichetta, appiccicandola poi sul petto all’altezza

del cuore. Dato che eravamo in otto, non mi sembrava il

caso, anche perché ritengo ogni occasione ottima per

allenare la memoria e l’intelligenza.

Ci siamo seduti ad un tavolo ed il Master (così si

chiama nel reiki colui che può aprire il canali) ha

spiegato brevemente i chakra ed il reiki, due argomenti

che richiedevano più tempo e che io farò argomento

principale in una successiva nota. Adesso mi preme dare

una panoramica del seminario.

Finita la breve spiegazione, nella quale il Master

non ha ritenuto opportuno soffermarsi a parlare delle

origini del movimento reiki (comunque mi sono già

informato in proposito, scoprendo come al solito tante

belle incongruenze), abbiamo iniziato a simulare dei

trattamenti reiki fatti su un’altra persona, sia quello

completo che quello veloce. Successivamente il Master ci

ha donato una serie di piccoli cristalli (sette, quanti

i chakra) con i quali effettuare delle terapie (ne

abbiamo vista una, imparando velocemente le giuste

posizioni).

-169-

Soltanto nel tardo pomeriggio si è giunti al momento

della prima iniziazione. Nel reiki ci sono tre livelli,

l’ultimo dei quali è quello del Master, mentre nel primo

vengono fornite le chiavi per trasmettere il reiki

tramite le imposizioni delle mani. Le quattro

iniziazioni del primo livello corrispondono all’apertura

dei chakra delle mani, del settimo chakra e del chakra

del cuore, più un’iniziazione di carattere spirituale.

Il Master è stato parco di parole, per questo credo che

mi rivolgerò ad altri per avere maggiori informazioni.

Durante la prima iniziazione ho sperimentato un

fatto inconsueto, che ancora adesso sto cercando di

metabolizzare e razionalizzare (e non so fino a che

punto ciò sia giusto ed adeguato alla situazione).

Cercherò di spiegarlo brevemente. Un calore piacevole mi

ha pervaso il capo ed il petto ed una gioia

incontenibile ha preso possesso di me, tanto che mi sono

messo a ridere stupidamente. Non so dare spiegazioni, se

non avanzare l’ipotesi – timidamente – di

autosuggestione, anche se credo che convincersi di

sentire caldo (molto piacevole e confortante, lo ripeto)

e provare una gioia appagante e senza motivi siano

accadimenti troppo lontani dall’autosuggestione (non

avevo letto materiale informativo, nessuno me ne aveva

fatto cenno, non mi aspettavo nulla di tutto ciò… e

conservavo un’ombra – spessa – di scetticismo – che non

-170-

mi ha ancora abbandonato). Da giorni rifletto e medito,

ma non sono ancora giunto ad una conclusione che non sia

quella che mi suggerisce di non fermare la mente su quei

fatti, ma di continuare zazen e reiki, proseguire nel

mio personale percorso di ricerca... o meglio, formulare

definitivamente un personale percorso di ricerca.

Comunque, qualcosa è accaduto, ho compiuto un passo, o

sono pronto a compierlo. ma prima di avventarmi su

simili considerazioni, voglio continuare nel racconto,

mancando veramente poco al suo completamento.

Mentre ero in meditazione, dopo l’iniziazione – la

prima – una luce improvvisa è apparsa nel mio orizzonte

visivo (avevo gli occhi chiusi) ed un calore è stato

percepito dalla pelle nella zona del viso corrispettiva.

Non so cosa sia successo. per un attimo ho pensato che

fosse il sole (avevo le finestre sulla mia destra) ma

pioveva (almeno, prima di iniziare l’iniziazione) e le

finestre del locale sono a livello della strada, la via

è stretta ed era quasi sera. Che cosa è successo? Anche

in questo caso, meglio non pensarci su.

Che cosa altro dire, a parte la diarrea che mi ha

colto domenica (il secondo giorno) e la frequenza più

alta del solito di defecamento da una decina di giorni a

questa parte? Leggendo, ho scoperto che si tratta di un

periodo di autopurificazione… e se si tratta solamente

di un po’ di freddo preso al pancino? Ecco, la mia

-171-

mentalità scientifica all’opera. Basta, non voglio più

trarre conclusioni o cercare risposte, solo prendere per

accaduto ciò che è accaduto e cercare di migliorare la

mia vita.

Un’altra cosa. mi sta passando la voglia di mangiare

carne. Un altro effetto, dunque? Questo, per di più,

sarà difficile da far digerire alla mia Barbara!

Nel punto successivo ci sono dei commenti a “frasi

zen”, a coronamento della lettera daleth. Sono pronto a

passare ad he, in costante avvicinamento al sentiero che

mi condurrà alla sephira successiva.

-172-

14. Pensieri zen – 25 aprile 2000

I

Nascere è proprio come andare in barca. issate le

vele e muovete i remi. Sebbene siate voi a remare, la

barca vi ospita, e senza di essa nessuno potrebbe

galleggiare. ma voi procedete, ed il vostro navigare

conferisce alla barca la sua essenza. riflettete su

questo fatto.

In quel preciso istante non esiste nient’altro che il mondo della barca:

il cielo, l’acqua e la sponda fanno parte del mondo della barca, che non è

uguale ad un mondo che non sia quello della barca.

Quando navigate, l’insieme formato dal vostro corpo,

dalla vostra mente e da quello che vi circonda

costituisce l’intera attività della barca. Così la

nascita non è nient’altro che voi e voi non siete

nient’altro che la nascita.

Dogen Zenji

Commentare un pensiero di Dogen Zenji è un’impresa

che esula le competenze e la maturità di un allievo

-173-

quale sono io. meno di un allievo, dato che non ho

neppure avuto i tre rifugi; ma non importa. Commentare

il Patriarca dello zen soto vuole dire mettere da parte

il nostro sistema occidentale di critica e giudizio,

così basato sulla logica e sull’esatta scansione

temporale, per lasciare il posto non all’intuizione od

alla sensibilità, bensì alla volontà di unire la teoria

alla pratica, in una pasta omogenea che è la nostra

vita. Dogen Zenji parla sempre della nostra vita, non vi

è nulla di astratto o teorico, tutto ha una pura valenza

concreta, umana, carnale, oserei dire esistenziale.

In questo bellissimo pezzo, il Patriarca puntualizza

la limpida verità che nascita e vita e noi, in quanto

esseri viventi, siamo la stessa identica cosa; e giunge

a questa conclusione attraverso varie proposizioni

geniali nella loro semplicità. Nascere - – non vivere –

è come andare in barca, ci si siede, si impugnano i remi

e si voga verso l’immensità del mare. Questa nostra

azione conferisce l’essenza ala barca, perché suo scopo

è quello di consentire la navigazione. Il Patriarca

consiglia di riflettere su questo fatto. Riprendiamolo,

allora: ...il vostro navigare conferisce alla barca la sua essenza. Io

nasco, ovverosia entro nella barca e la spingo

all’esterno, intendendo con ciò che conferisco senso

alla mia nascita. E dunque, la nascita sono io ed io

sono la nascita.

-174-

Ancora prima di arrivare ad affermare esplicitamente

quanto appena detto, la prima proposizione del Patriarca

la suggerisce.

Quello che viene dopo è ancora più straordinario.

Barca, io, il mondo che mi circonda sono la stessa cosa,

e non solo un insieme di entità separate che

interagiscono. Bisogna liberarsi da una certa mentalità

dualistica e cercare di comprendere che il nostro sé non

è inscritto nell’individuo, ma corrisponde al mondo

intero di cui si fa esperienza. Esperienza è sé.

La vita è nascere e spingere la barca e remare e

comprendere che mare e cielo e terra e barca sono

manifestazioni di uno stesso organismo; comprendere che

nascere è vivere e vivere è nascere. Allora apparirà

chiaro che la nascita non è nient’altro che voi e voi non siete nient’altro

che la nascita.

-175-

II

Molto tempo fa Cartesio disse: “penso, dunque sono”.

Qui comincia la filosofia. ma se non state pensando, che

cosa succede? Qui comincia la pratica zen.

Maestro zen Seung Sahn

Lo zen non è una filosofia, a scapito di un pessimo

pregiudizio che sembra essersi così ben solidificato

nella mentalità degli occidentali. Spesso mi domando

come e quando un individuo viene a contatto con questa

pseudoverità e perché mai non si sforza di indagare e di

capire esattamente il senso delle cose che sente. la

nostra conoscenza – anche quella scolastica, si badi

bene – è basata essenzialmente sul sentito dire.

pazienza, ma qui sono come bastione a difesa dello zen e

della sua essenza prettamente religiosa.

La filosofia è un bene prezioso ed un tesoro

impareggiabile, ma non è religione. Almeno nel senso

occidentale dei due termini… ed è bene mantenere questa

accezione. Ora non voglio soffermarmi a parlare di cosa

sia o non sia la religione; mi basta porre l’attenzione

sulla proposizione del Maestro Seung Sahn.

-176-

Lo zen è pratica, zazen, vivere quotidianamente il

samadhi con il corpo intero, è non pensiero e non non-

pensiero. Il pensiero e la consapevolezza di pensare,

ovvero l’uso delle facoltà mentali e la capacita di

rendersi conto dell’uso e delle potenzialità di queste

facoltà, non determina l’individuo, non è autocoscienza.

In zazen, nel samadhi assoluto, non si pensa né si non-

pensa; semplicemente si sta seduti, null’altro. Eppure

la consapevolezza di se stessi è assoluta, pervade ogni

cellula e va oltre. In questo stato, la coscienza è

pulita, la menta libera, si è in comunione con il tempo

e lo spazio, di conseguenza con l’universo intero.

Quando si è in zazen, si vive intensamente l’attimo

presente, che è tutto il nostro universo. Allora, quel

singolo istante è identico ad un singolo istante

dell’eternità: per questo possiamo dire che il nostro

essere è eterno.

Quando si è in zazen, immobili, si occupa la parte

più piccola dello spazio, e per questo possiamo dire che

il nostro essere è infinito.

Il nostro essere è tempo, è spazio, è l’universo. E’

tutti gli esseri viventi, perché al pari di noi tutti

gli esseri viventi condividono spazio e tempo e dunque

ci condividono, e noi condividiamo noi.

E’ possibile non pensare? Il pensiero è una delle

attività della mente. Non bisogna cadere nella falsa

-177-

convinzione che il pensiero è una cattiva

predisposizione e che lo zen sia un mezzo per eliminare

il pensiero. Se non ci fosse la facoltà di pensare, i

grandi patriarchi non ci avrebbero lasciato i loro

scritti. Neppure il Buddha. Il pensiero è un gioiello,

ma in zazen non serve, così come non serve il non

pensiero. Bisogna sgombrare la mente, la coscienza, o

per meglio dire, bisogna evitare di utilizzarle... anzi,

non bisogna dar loro retta; allora si staccheranno da

noi come foglie secche. Questa non è filosofia, è zen in

pratica. E’ zazen.

-178-

III

“Che cosa andate a fare laggiù?”

“Lo saprò quando ci sarò arrivato.”

André Gide

Lo zen è dappertutto, e questa citazione ne è un

esempio inequivocabile. Che cosa è lo zen? Un grande

casino, verrebbe voglia di rispondere; oppure: non ne ho

la benché minima idea. Ricordo il monaco Corrado,

allievo del Maestro Ryusui, quando mi disse che dopo

trent’anni non aveva ancora capito nulla. Bellissimo!

“Che cosa andate a fare laggiù?” “Lo saprò quando ci

sarò arrivato.” Bellissimo! Perché fare zazen? Potremo

rispondere solo quando ci arriveremo. E quando ci

arriveremo non sarà più necessaria la risposta: saremo

lo zen, saremo Buddha, ed il Buddha non va né viene, né

cresce e né decresce.

Dobbiamo andare allo zen senza cercare qualcosa, uno

scopo superiore, una meta (l’illuminazione, od il

nirvana). Dobbiamo andarci con una domanda implicita:

“Che cosa vado a fare laggiù?” E la risposta ci deve

pervadere e spingere: “Lo saprò quando ci sarò

arrivato.”

-179-

Forse non ci arriveremo mai, o quando ci arriveremo

non ce ne accorgeremo; o forse ci siamo già.

L’importante non è pensare di ottenere qualcosa di

particolare. Shikantaza, solo stare seduti.

IV

Detesto sentirmi a casa

quando sono all’estero.

G.B. Show

Tanto vale non viaggiare, se si vuole ritrovare

ovunque la stessa atmosfera e le stesse abitudini di

casa nostra. E’ il turismo di massa, dove l’individuo si

sposta per andare in un posto identico. Dove, allora, la

sorpresa? lo straniamento?

Andare al di fuori del proprio paese è un desiderio

che nasce dalla spinta interiore di conoscere altre

tradizioni, altri costumi ed altre culture. nagare tutto

ciò per rifugiarsi in clonazioni dei nostri habitat è un

atteggiamento di totale chiusura mentale.

-180-

GIMEL

12 ottobre 1999

1.

Precedentemente ho parlato di senso delle cose, nella

fattispecie riferito alle parole, alle azioni ed ai

pensieri. Proprio da queste tre manifestazioni

dell’essere, che sono le uniche in ultima analisi,

voglio iniziare la riflessione che mi ha spinto ad

iniziare questa nuova lettera. Precedentemente ho anche

scritto del mio sanzen, che proprio sul senso delle

parole verteva, arrivando personalmente alla conclusione

(nella mia riflessione scritta, non in sanzen, dove il

maestro mi ha lasciato una domanda aperta ed un compito

non indifferente: quello di costruire ipotesi per poi

disfarle – dato che, vista la ricerca, è impossibile

trovare subito la verità) di come sia necessario

accostare, o meglio armonizzare la ricerca del senso

delle parole a quella del senso delle azioni e dei

pensieri. Ora voglio soffermarmi sul significato del

termine senso: cosa è il senso? Posso dire quello che

intuisco, ovverosia che si tratta del Dharma. Il Dharma

-181-

va individuato nel nostro esprimere noi stessi, e dato

che il mondo è la rappresentazione che di esso ce ne

facciamo, appunto attraverso pensieri, parole ed azioni,

ne conviene che qui si sta parlando del Dharma come il

senso delle cose. Come trovare questo Dharma, se non

attraverso le tre manifestazioni? Il maestro di Dogen

Zenji, Nyozai, disse di lasciare cadere corpo e mente,

ma bisogna notare che corpo e mente sono parole, azioni

e pensieri, che lasciati cadere rivelano il Dharma. Ma è

pure vero che zazen, lo strumento principe per rilevare

il Dharma, è azione, perché è fare qualcosa, stare

seduti, quieti ed immobili, è anche pensiero, perché

essi non si sopprimono né si incrementano e dunque il

loro scorrere nella mente non è annullato, ed è parola,

non solo durante il salmodiare dei sutra e dei precetti,

ma per via che gli stessi pensieri, quando non

immaginativi, sono parole silenziose. Allora, si arriva

ad una contraddizione, che sarebbe non altro che la mia

incapacità di andare oltre questo gradino.

1. Il senso delle azioni, dei pensieri e delle parole

è il Dharma

2. Lasciando cadere corpo e mente si afferra il

Dharma, si è il Dharma

3. Zazen è lo strumento per arrivare al Dharma. Zazen

è il Dharma

4. Zazen è azione, pensieri e parole.

-182-

5 Con azioni, pensieri e parole si afferra il Dharma,

si è il Dharma.

E’ un cerchio, un serpente che si morde la coda, dove

non parto da nessuna parte per non arrivare in nessun

luogo. Posso dire, un po’ amareggiato, che questa mia

prima ipotesi è incompleta… monca. In verità, mi sono

lanciato in disgressioni partendo da basi non studiate,

non costruite con il ragionamento. Esponendo l’ipotesi,

mi sono basato su assiomi, che adesso devo riprendere

ed analizzare per capire quale intuizione mi abbia

portato a loro.

Pensieri, parole, azioni. Ancora prima delle Quattro

Eccellenti Affermazioni, sono i cardini del nostro

essere, perché ci esprimono e rappresentano gli

strumenti di azione sulla realtà che percepiamo da una

parte e di percezione della stessa realtà dall’altra.

Percepire attraverso i sensi, sia passivamente che

attivamente, è un’azione, la cui conseguenza può essere

un pensiero, od una parola di commento. Attraverso i

sensi (azione) percepiamo la realtà e di essa ce ne

facciamo un’idea. Ma l’azione è anche agire attivamente,

oserei dire aggressivamente (ma non con uso di violenza)

onde ottenere che nella realtà che percepiamo noi ci si

-183-

muova, o che questa realtà la si modifichi. Questa è

l’azione

Azione. Percepire attraverso i sensi. Utilizzare

attivamente i sensi. Agire sulla realtà attraverso il

nostro corpo fisico. Muoversi nella realtà con il nostro

corpo fisico. L’azione sono le nostre opere, ciò che

creiamo, ciò che facciamo, che modifichiamo: il lavoro,

la creazione artistica (ma anche artigianale), l’amore

fisico, lo sport, l’arte marziale. Tutto ciò che implica

manifestare se stessi attraverso il proprio corpo fisico

o tramite un manufatto creato con il proprio corpo

fisico.

Parole. Fondamentalmente, parlare è un’azione, ma qui

si intende come la manifestazione del pensiero (anche

l’azione lo è), o meglio il proferir parola inteso come

rapporto con una o più persone. Parlando si comunica,

nel modo migliore, il proprio essere all’esterno, si

esprimono opinioni, si fanno complimento o rimproveri…

insomma, si interagisce e si agisce sulla realtà,

creando effetti. Con la parola si comunica un’idea,

un’opinione, una filosofia, un insegnamento. Il Buddha,

Il Cristo, insegnarono con le parole, ammaestrarono

uomini e donne con il dono della favella, con il vibrare

delle corde vocali. La parola è il linguaggio, ed il

linguaggio traduce la percezione della realtà. Per certa

filosofia, la verità è insita nelle proposizioni ed il

-184-

linguaggio non è solo la chiave di lettura della realtà,

ma la realtà stessa. Io non condivido simili posizioni,

ma riconosco nel linguaggio un’importanza fondamentale.

Anche gli animali (in special modo i mammiferi)

possiedono un linguaggio, atto a comunicare stati

d’animo. Ecco, forse questa ultima definizione è forse

la migliore: Il linguaggio comunica stati d’animo. E con stato

d’animo si possono intendere tutte le manifestazioni

possibili del nostro essere.

Pensieri. L’ho messo per ultimo, quando in ultima

analisi andrebbe posto come fondamento. Azioni e parole

nascono sempre da un pensare. Non sempre, ragionandoci

sopra. L'istinto non è un pensiero, eppure da esso

scaturiscono sia azioni che pensieri. Cosa dunque è un

pensiero? E’ l’attività della mente, che lavorando sulle

percezioni elabora idee.

Bene. Noi siamo pensieri parole ed azioni, e ci

presentiamo agli altri in queste tre manifestazioni.

Trovare il senso di esse, vuole dire carpirne il

significato ultimo, e non solo la causa che le ha

generate. Questo in primo luogo. In secondo luogo,

assumendo che le tre manifestazioni rappresentano da una

parte il nostro essere nel mondo ed il nostro essere al

mondo, e dall’altra il mondo al nostro essere (attraverso

le azioni ed i pensieri) ne consegue che ciò che

facciamo, pensiamo e diciamo è rispondente alla mondo, è

-185-

la realtà. Scoprire dunque il senso di pensieri, parole

ed azioni, è trovare il senso delle cose. Ora, cosa può

essere il senso delle cose? Il loro significato, perché

esistono, come esistono, lo scopo del loro esistere? Il

senso delle cose è il Dharma, ma cosa è il Dharma, senza

cadere nel vizioso: Il Dharma è il senso delle cose?

Perché le cose sono quelle che sono, e perché si dice

quello che si dice, ecco cosa è il Dharma.

2.

La storia dell’Italia repubblicana del secondo dopo

guerra è cosa preziosa, tanto che mi rammarico nel

constatare che malamente e poco viene trattata nelle

scuole medie inferiori e superiori. Solitamente bisogna

giungere all’università, nella facoltà apposita, per

inserirsi nel giusto corso di specializzazione e

finalmente indagare su quello che è accaduto a questa

nostra bella (povera) Italia. Il problema sorge quando

si considerano i testi che sono la vera materia di

studio, affermando con ciò che storia avvenuta e storia

scritta (ed analizzata) non sempre è detto che

coincidano. Il libro che si studia non è la realtà

-186-

accaduta, non è quel particolare passato, bensì una sua

interpretazione, per quanto obiettiva ma solamente

un’interpretazione. Precedentemente – giusto appunto nel

punto precedente – dicevo come i tre modi di

manifestarsi corrispondessero alla realtà delle cose, ma

ora ben mi accorgo che non tenevo conto del fattore

interpretazione. La realtà la si interpreta, e dunque la

sua essenza ci sfugge, innegabilmente fino a che agiamo,

pensiamo e parliamo. La realtà – diciamo storica, per

rimanere in tema – è composta da fatti, ovverosia

fenomeni. Anche noi siamo un fenomeno. I fenomeni si

percepiscono attraverso i sensi e si analizzano con la

mente, dando vita a pensieri; ma non è detto che le mie

percezioni, dunque la mia mente, siano quel particolare

fenomeno percepito: è una sua rappresentazione. Fra noi

ed i fenomeni, esiste una rappresentazione – quella,

appunto, dei fenomeni. La storia è composta da fenomeni.

Ora, una storia passata e finita, non può nemmeno essere

più percepita… come dunque rappresentarla? Gli storici,

che si accingono a lavorare di intelletto su accadimenti

storici avvenuti secoli prima della loro nascita,

lavorano, bene che vada, su rappresentazioni di altri,

con la conseguenza che le loro conclusioni sono quanto

mai ipotetiche, per quanto possibilmente verosimili. Se

ne conclude che la materia di studio – nel caso di un

corso di storia – non è un particolare periodo storico,

-187-

per esempio il famoso e non abbastanza conosciuto

sessantotto, bensì il particolare testo scolastico di

riferimento. Si studiano le idee dello studioso, quando

si dovrebbero cercare i resoconti dei nudi fatti,

conoscere il contesto sociale e culturale ed abbozzare

una tesi (che invariabilmente risulterà opinabile).

Tutto questo per sottolineare la mia attuale (proprio

di queste note) propensione a considerare impossibile

uno studio obiettivo della storia. Ed estendendo

l’orizzonte, l’impossibilità di una rappresentazione

della realtà scevra da una qualsiasi interpretazione.

Osservare senza interpretare vuole dire fare in modo che

la coscienza discriminante, che funziona istintivamente,

non entri in gioco, e per non farla entrare in gioco

bisogna evitare di dare importanza ai sensi. Tutto nasce

dai sensi (e non dimentichiamo il sesto, la mente

pensante, la fabbrica di pensieri – i cosiddetti oggetti

mentali), che stimolati dalla realtà esterna, composta

dagli oggetti dei sensi, producono le relative

coscienze.

A riguardo, concludo, s’impone una lunga riflessione.

-188-

3.

Zazen è sinonimo di samadhi, ovverosia di quello stato

del nostro essere in cui la coscienza non discrimina, i

pensieri sorgono e muoiono senza nostro intervento; in

definitiva, l’attimo protratto nel quale sia ha la

possibilità di percepire non attraverso i sei sensi.

Zazen è attività e lavoro fondamentale nel buddhismo

zen, da cui ne consegue che il fiore così ottenuto va

portato con sé nella quotidianità della vita. In zazen

si ottiene, o meglio si è samadhi assoluto, si è

infiniti ed eterni, non perché si viva per sempre e si

permea con il proprio essere tutto lo spazio, bensì

perché quel singolo istante e quel singolo spazio che ci

vedono impegnati in zazen, immersi attivamente nel

samadhi, sono identici con i singoli istanti e spazi

dell’eternità e dell’infinito. Quando non si è in zazen,

quando si vive la quotidianità, tuttavia, non bisogna

pensare che il frutto di zazen non si possa assaporare.

Il samadhi positivo è quel frutto, che dobbiamo portarci

addietro, costantemente, per vivere completamente il

nostro buddhismo. Così facendo, anche la nostra vita di

tutti giorni, che erroneamente considereremo banale ed

inutile, diventa un’occasione per raggiungere il satori.

A fronte di quanto sopra, è indispensabile allineare il

-189-

quotidiano e zazen, o meglio integrare il quotidiano con

zazen. A parole, ma nei fatti, come fare?

La società nella quale vivo, ad una mia prima

considerazione, non permette una vita in armonia con

l’ottuplice sentiero, essendo continuamente le

tentazioni a portata di mano. Nel lavoro, negli svaghi,

ma anche nella vita familiare, le occasione per

lasciarsi andare alla mondanità, per allontanarsi dai

valori e cadere nei vizi, per invaghirsi della

disonestà, del tradimento e del paraculismo ci

circondano, con la conclusione che è molto facile essere

preda di esse. Molto meglio la vita monastica. Ebbene,

Ryusui Roshi non mi ha dato ragione, sottolineando che

non è per colpa mia se non riesco ad alienarmi le

tentazioni, ma per via di una incapacità insita nel mio

essere uomo; incapacità, tra l’altro, che può e deve

essere prima limitata ed infine eliminata. Per giungere

a questo risultato, bisogna iniziare ad integrare nella

quotidianità il piccolo samadhi positivo, molto

lentamente, con grande pazienza, modificando gli

atteggiamenti ed allineando il comportamento a zazen.

Come ebbe modo di dirmi il monaco Philip, bisogna

evitare di atteggiarsi a comportamenti che creino un

intrinseco contrasto con il nostro zazen. Dunque,

iniziare da questo piccolo passo, per costruire piano

piano la mia vita buddhistica. Non solo buddhistica, in

-190-

verità, ma totale, assoluta, la vita che vivo ogni

giorno in ogni istante della mia esistenza.

-191-

4.

La proliferazione dei mezzi di informazione sembra

avere causato nel corso degli anni una quanto mai

allarmante disinformazione, propagandasi questa in ogni

ricettacolo della nostra società. Il fenomeno non sembra

essere solo causato dal mondo della televisione, anche

se lo ritengo il maggiormente responsabile, ma si

trovano fonti di cattiva informazione anche nei libri,

sui giornali, e dunque non sarebbe sbagliato ritenere

che anche internet ne sia invasa. Tuttavia, il mondo

della televisione ne è il maggior colpevole, anche per

il fatto che interi settori della società si affidano ad

esso per manifestare il proprio pensiero. Un esempio,

l’altro giorno, mentre cenando mi sorbivo il solito

programma vinci un sacco di soldi se sai un sacco di

cose, le più disparate possibili, sintomo di erudizione

frammentaria, appunto definibile televisiva, senza,

immagino, il giusto approfondimento. Il presentatore -

tra l’altro, faccio notare di come avesse espresso, su

una risposta di un giocatore, la sua deficienza in

merito all’autore di Tenera è la notte – nell’elencare le

risposte non dette, si fermò a spiegare di come il

nirvana fosse nel buddhismo l’ideale alter ego del

cristiano paradiso. Si può immaginare quale idea sul

buddhismo ne possono trarre gli spettatori ignari della

-192-

struttura dottrinaria del movimento religioso iniziato

con l’insegnamento dell’illuminato. Il presentatore,

certo Jerry (Jerri, o Gerri) Scotti, ex parlamentare, è

stato nei giorni scorsi presente agli insegnamenti sulla

“felicità” del Dalai Lama, avvenimento che ha preso i

connotati di manifestazione politica nonché di

spettacolo.

Da quanto sopra scritto, mi piace giungere alla

conclusione che la popolazione italiana, quella

televisiva e comunque incapace di frapporre un filtro

critico fra se stessi e la (dis)informazione dilagante,

si sia infarcita di conoscenze frammentarie, per di più

inesatte. Tutti noi siamo vittime ed al contempo

colpevoli di questo male. Ed a farne le spese è la

stessa vera conoscenza, quella vera, importante per

comprendere il mondo e se stessi, venduta a basso

prezzo, smerciata a lotti, solo nelle parti di buona

degustazione e che può essere frutto di guadagno…

insomma, un business. Lo stesso buddhismo, difficile

religione e sistema filosofico – in assoluto sublime e

non adatta tutti, giustamente – sta subendo in questi

ultimi anni del millennio una mercificazione aberrante,

grazie all’opera pessima di tantissimi sedicenti maestri

del dharma (volutamente lo scrivo al minuscolo) che

hanno iniziato a fare circolare una propria

interpretazione del sublime insegnamento

-193-

dell’Illuminato. ho come l’impressione che si sia voluto

rendere il buddhismo una religione, o meglio un

movimento spirituale adatto a tutti, stravolgendone così

la sua vera essenza. Ché il buddhismo non è per tutti ed

esige responsabilità e profonda serietà e severità.

Trattasi di un cammino verso l’acquisizione della gnosi

e della libertà, per diventare infine uomini emancipati,

ma non per questo alieni alle problematiche della

società nella quale si conduce la propria esistenza.

-194-

5.

E’ bene che spenda tempo e carta per un problema

“umano” che spesso è facile constatare nei rapporti

lavorativi all’interno delle aziende. Nella fattispecie,

mi riferisco al modo con il quale vengono considerate le

donne sposate in procinto di iniziare una gravidanza.

Parlo pere esperienza, ovverosia per esser stato

testimone di fatti. Credo che simili situazioni, penose

e squallide aggiungo nel definirle, si sviluppino in

tutte le aziende, e quello che stupisce è la

constatazione che spesse volte simili atteggiamenti sono

ostentati da delle donne. Dunque, l’esempio che voglio

portare è quello di una mia collega, Antonella, donna

riservata e tranquilla, ma non per questo stupida o

debole, che a causa di così invidiose qualità è spesso

oggetto di maldicenze non solo nascenti dai “capi” ma

bensì dalle stesse sue – e mie – colleghe. In effetti,

provo rimorso e vergogna per non essere capace di

tagliarmi definitivamente fuori dal circolo vizioso

delle mie colleghe (lavoro solo con donne) prendendo una

posizione decisa ed onesta – sincera, insomma – per

dedicarmi esclusivamente al lavoro e lasciare a chi

altro non è in grado di fare il pettegolezzo,

intervenendo solo se interpellato e sempre dicendo la

verità e difendendo gli oppressi. Spero sinceramente che

-195-

l’educazione buddhistica che mi sto impartendo mi porti

col tempo a diventare un vero “adulto”, intendendo con

questo termine il Bodhisattva. Tornando alla mia cara

collega Antonella, sposata da pochi mesi e desiderosa di

una gravidanza, devo riferire l’episodio che mi vide

uditore involontario di maldicenze fra il “capo”, certo

Bacci – che tutti noi chiamiamo dottore ben sapendo che

laurea non ottenne – ed un consulente esterno, sua

grande amico e confidente, un vecchio di settant’anni in

fase avanzata di rincoglionimento. I due Vecchi

appartenenti al gota della Ducoil Chimica (preciso:

trattasi del nome della mia azienda) parlicchiavano, con

pompa di grandi illuminati, commentando lo stato civile

dell’Antonella, così poco adatto ad una persona

seriamente intenzionata alla disponibilità verso

l’azienda, arrivando infine alla conclusione che su

quella persona non si poteva fare affidamento, dato che

con un bambino da accudire non avrebbe potuto offrire il

suo massimo per l’azienda. In tutto quel discorso,

indegno di un essere vivente che vuole definirsi umano,

si adombrava l’idea che una donna sposata con figli sia

una perdita per l’azienda, e dunque alla fin fine non

faccia che rubare lo stipendio.

Bacci e Cribio, i nomi questi dei due coglioni flosci,

uomini (?) soggetti ad una mentalità retrograda e

vetusta, totalmente priva del rispetto per il prossimo

-196-

in generale e per la donna in particolare. A gente di

tale risma, come replica a discorsi così deprimenti, di

argomenti validi ed intelligenti – se il loro intelletto

limitato riuscirebbe a comprendere – ce ne sarebbero da

portare; ma si correrebbe il rischio di essere

fraintesi, alienati dalle strategie aziendali e dunque

per sempre dimentichi di eventuali aumenti di livelli e

di paghe, e dato che tutti dobbiamo vivere e cercare di

migliorare il tenore di vita della famiglia nella quale

viviamo, non possiamo fare altro che tacere ed

abbozzare. Io, personalmente, evito sempre di parlare

con Bacci di argomenti che anche solo alla lontana

sfiorino l’aspetto umano e squisitamente intimo delle

mie colleghe, e quando proprio non riesco a sfuggire

sempre, e dico sempre, difendo le colleghe, anche le più

stronze, perché mio padre mi insegnò che esercitare il

mestiere della spia, professionalmente o meno – è fare

opera cattiva. In aggiunta, voglio ricordare a queste

persone – e simili – che anche loro, in quanto esseri

umani (purtroppo) sono nati da donna, e che pure le loro

mogli (le opinioni delle quali non posso che trovare

inaffidabili, considerati i gusti che le hanno spinte ha

maritarsi con certa gente) hanno messo al mondo dei

figli. Aggiungo, altresì, che la condizione della donna

che è madre, è condizione sublime; che la donna nel

mentre crea nel suo corpo la vita, è un miracolo per gli

-197-

occhi ed i cuori di tutti; che la figura della madre –

in special modo per noi maschietti – è determinante

nello sviluppo e rimane sempre un punto di riferimento.

Ancora, voglio dire a questi signori che le aziende ed

il mondo del lavoro in generale sono parte integrante

della società, e considerata che la società è formata da

cellule familiare e su queste cellule base la propria

sussistenza, bisogna ringraziare le donne che creano

esseri umani, perché operano il bene per la società.

Certo, poi c’è l’educazione, ma questo è un altro

discorso che esce dall’attuale contesto.

Tanto che siamo in tema, voglio finire questo punto

esponendo il “bell’ambiente” lavorativo all’interno del

quale devo passare circa nove ore al giorno – esclusi il

sabato e la domenica, grazie al cielo. Non sono qui a

sparlare male della gente, ma dato che la situazione è

quella e che la debbo sopportare in continuazione, mi

piace metterla nera su bianco, giusto per ricordarmene

in futuro, caso mai la memoria del vecchio che sarò

perde acqua. Non so (non sono psicologo) se è per via

dell’ambiente piccolo, ma fra noi colleghi della Ducoil

Chimica, ci si mette dell’impegno per sputtanarsi a

vicenda. Il sottoscritto cerca con le proprie debole

volontà di fuggire a questo gioco al massacro, e quando

è irretito dalle circostanze fa di tutto per rimanere i

silenzio o deviare il discorso sullo scherzo. Non così è

-198-

per le mie colleghe, sempre pronte a sparlare dietro a

chi manca – con il quale, la volta precedente o nella

prossima occasione, lo si fa confidente di altre

maldicenze – in una continua girandola che non ha fine.

Quello che è peggio, ciò che più di ogni altra cosa mi

urta e verso la quale non avrò mai sentimenti di

perdono, è quella perversa volontà grazie alla quale

talune delle mie colleghe – nella fattispecie due –

spesso confidano al capo(decaz) i loro malumori nei

riguardi di quelle due o tre persone (sempre le stesse).

Così, si ha la consapevolezza che qualcuno primo o poi

parlerà male di te con la direzione. Questo vuol dire

professare il mestiere della spia; professione che non

fa per me. Siamo una piccola comunità, un mondo in

miniatura, dove tutti siamo capitati per fabbisogno e

non per amore degli uni verso gli altri, cosicché

sarebbe bene sopportare, fare del nostro meglio per

tornare a casa da chi si ama vivi e sani (anche

mentalmente). Adesso, in queste righe, io esprimo il

proposito di non tradire, né sputtanare, né ingannare

qualsivoglia persona, per qualunque fine; perché non

esiste fine degno che si possa raggiungere con il

raggiro. Anche questo vuole dire cercare di essere un

bodhisattva.

-199-

6.

Argomenti e fatti di vita da riportare in questo

diario sono tanti, forse troppi. Ritenevo,

nell’intraprendere questo esercizio, di occuparmi dei

più salienti – come dire: di quelli che si possono

definire punti di svolta – ma da diverso tempo mi sono

accorto dell’impossibilità di separare un fatto

dall’altro, legati come sono da un unico filo

conduttore. Ecco, dunque, la ricerca che conta: quella

del misterioso filo conduttore, misterioso solo per la

mia velata mente, ancora incapace di osservare con

chiarezza la realtà fenomenica e di trarne insegnamento.

A gettare maggior confusione, ma solo apparentemente, si

aggiunge la da poco iniziata lettura della Critica della

ragion pura (dagli esperti chiamata la prima Critica) del

sommo Kant. Anche ad un profano quale son’io non sfugge

la profondità smisurata del suo pensiero. Ora, tornando

a quanto più sopra detto, cerchiamo di trarre dalla

massa un fatto singolare stimolante la mia riflessione,

che non dovrà e non vorrà essere vana ed inutile. Spesso

mi ripeto che queste note – questo diario, appunto

Assoluto – è materiale che verrà ad essere di giovamento

sia a me, in un prossimo futuro, che a mio figlio (uso

una forma singolare, non negando la possibilità di un

desiderio ad averne degli altri – “averne”, quale brutto

-200-

verbo, come se qualcuno lo si possa avere, cioè

possedere!). Bene, di cosa parlare? Almeno due

argomenti: l’ultimo sanzen (il secondo) nel quale con il

monaco Ryusui (il Maestro – sarà bene d’ora in poi usare

la maiuscola) ho discusso di cosa sia la responsabilità;

l’ultimo stage di goshin-do, intorno al quale ho

interiorizzato certezze e problematiche nuove. Un punto

alla volta, dunque. Iniziamo con sanzen.

Nella sua fase di conclusione, il Maestro mi ha

chiesto di dire un’ultima cosa, ed il sottoscritto ha

espresso, dopo un attimo di riflessione, la sua

concezione dello zen, e cioè che trattasi di una Via

difficile che esige dallo studente il senso di

responsabilità. Responsabilità non è un termine da

prendere alla leggera, come al contrario sembra

insegnare a tutti noi la società nella quale viviamo,

identificando in essa in primo luogo quella italiana.

Responsabilità vuole dire non solo essere assolutamente

consapevole delle proprie azioni, parole e pensieri, ma

assumerne gli effetti, totalmente, accusando il colpo se

ciò lo comporta. E’ facile, in una società come la

nostra, ricca di relazioni interpersonali (a volte –

spesso direi – rese d’obbligo da varie esigenze) di

occasioni (negli acquisti – il mercato, e la pubblicità,

a seguire… anzi, in primis) di informazione, di

divertimenti (quasi sempre proposti con massicci

-201-

martellamenti)… di mode, insomma, per lo più, ma anche

per chi sa dove cercare e guardare di ricche possibilità

per arricchirsi (in senso culturale, naturalmente); è

facile, dunque, cadere in errori e causare con il

proprio karma (azioni, parole e pensieri) frutti marci

che andranno a cadere col loro carico virulento nella

cesta del prossimo. Ne consegue che ci rimangono due

alternative: assumersi le responsabilità di quanto

operato, oppure negare e nascondersi. la seconda non è

mai scelta degna di un vero adulto; e non mi sto

riferendo al bodhisattva della tradizione buddhista, no

di certo, bensì a qualunque essere umano che desidera

dichiararsi tale. Per il sottoscritto, che ha deciso da

tempo di seguire lo Studio della Via, vi è una ragione

in più per dare un senso al concetto di responsabilità e

per assumersi in toto la responsabilità delle proprie

azione. Considerando, in aggiunta, che la responsabilità

la sia ha verso qualcosa o qualcuno, ovverosia verso un

principio, un organo statale, un ente morale, una

persona (l’amico, la moglie, l’amata, il figlio – va da

sé che parlo anche di “la figlia” – l’insegnante o il

Maestro), ecco che doppiamente devo stare attento alla

mia condotta, orale ovvio, che deve essere rigorosa. Da

una parte mia moglie, Barbara, che mai smetterò di

ringraziare per l’amore che nel suo cuore porta nei miei

confronti, verso la quale ho l’obbligo di comportamenti

-202-

degni, leali e fedeli, di azioni di amore, e di una

condotta generale della mia vita avente lei come

riferimento: per fare un esempio, nel guidare per

lavoro, devo fare attenzione, perché se causassi un

incidente che mi procurerebbe la morte, lei rimarrebbe

sola (anche se, grazie alla sua forza, una vita nuova se

la ricostruisce – pur tuttavia soffrirebbe)… e se

procurassi la morte di qualcun altro le conseguenze

sulla nostra famiglia sarebbero terribili. Gli esempi si

allungherebbero, riempendo questa pagina. Per di più, se

la provvidenza (la nomina incautamente, non sapendole

dare un significato appropriato e probabilmente non

credendoci) ci assiste, fra poco avremo un figlio, che

subito, immantinente diverrà un altro riferimento, una

nuova responsabilità. Dall’altra parte, la Via del

Buddha, il Dharma che studio da un anno a questa parte.

Esige una grande responsabilità, per il semplice motivo

che risulterebbe un’assurdità il mio diligente sutudio

se non fosse accompagnato da una altrettanto diligente

condotta di vita, la quale altro non è che l’Ottuplice

Sentiero. Addentrandomi nella riflessioni, noto che la

quarta verità delle Eccellenti Affermazioni, se presa

sul serio (ed altro non può essere se si desidera

studiare la Via) si può mettere come base di partenza

per una vita matura. Ecco, in ultima analisi, fatta

rientrare la dottrina del Risvegliato nell’ambito della

-203-

vita quotidiana: semplicemente soffermandosi

sull’importanza della responsabilità e sulla doverosa

coscienziosità nell’applicarla.

Per quel che riguarda il goshin karate do, la

disciplina marziale costruita dal Maestro Shirai (e non

inventata, dato che racchiude elementi di differenti

scuole di karate, magistralmente congegnati in un

tutt’uno di sorprendente semplicità ed efficacia) il

discorso parrebbe più complesso che nel riscontro di una

prima analisi. Per il fatto che debbo introdurre la

figura di mia moglie, quanto mai inseparabile dal mio

vivere il karate. Barbara ed io ci siamo conosciuti in

palestra, il nostro amore è sbocciato in altri lidi, ma

il karate ha saputi cementare la nostra unione. Ora, a

seguito del suo infortunio al ginocchio, che non le

permette di esprimere a pieno le sue qualità di atleta,

Barbara sembra stia perdendo interesse, e più di una

volta mi ha espresso l’intenzione di abbandonare gli

allenamenti. Consigli non ne posso dare, conosco la

donna e so che non ci presterebbe ascolto più di tanto,

giustamente: il consiglio di una persona che non vive la

situazione in questione serve a ben poco, non è

obiettivo, per intenderci. Io stesso, come

precedentemente annotato, a seguito dell’incontro con lo

zen, non trovo nel karate quello stesso stimolo di

qualche anno fa. Ho scoperto che nel karate cercavo

-204-

qualcosa che mai avrei potuto trovarvi, mentre nello zen

mi si aprono ampie prospettive. Tuttavia, se

abbandonassi l’allenamento, mia moglie mi seguirebbe,

anche se la sua decisione di abbandono non fosse

completamente matura. E’ per questo, e non altro motivo,

che tardo a prendere una decisione, che, comunque, deve

essere decisa entro la fine dell’anno. In aggiunta, e

non ultimo motivo, in palestra (dovrei dire dojo) non si

respira più quell’aria di amicizia come qualche anno fa.

Bruno conduce una vita sempre più lontana dai nostri

(miei e di Barbara) canoni; Michele è sempre più

assente, preso come è dal lavoro; Michelino fa lo scemo

(come dice Barbara) con caterina, una ragazza

finlandese; Riccardo ha sempre mantenuto quella patina

di distacco utile a non formare una vera amicizia, e,

comunque, da qualche tempo sembra fare coppia con

Michelino. Nicoletta e Rosanna non vengono più da tempo,

con la conseguenza che Barbara si sente isolata, sola,

anche se non ha mai voluto confessarmelo; e, se si

prende in considerazione il fatto che nei suoi riguardi

– primo, perché è una donna (per di più piccola di

statura, e, secondo, è infortunata al ginocchio – tutti

applicano le tecniche mollemente, facendola inferocire,

la sua insoddisfazione appare ancora più evidente. Io

cerco di starle vicino, ma non sempre riesco, e quando

il dolore al ginocchio le torna a causa di una

-205-

particolare tecnica, o la sua tenacia non basta a farle

raggiungere il risultato sperato in barba ai limiti

imposti dal ginocchio, allora si chiude in un silenzio

per me angosciante, dal quale esce dopo qualche giorno.

In questi periodi io dovrei starle vicino, parlarle, ma

ne sono incapace, oppure non indovino il momento giusto,

con la conseguenza di peggiorare tutto; non mi rimane

che, come ultima risorsa, di comportarmi al meglio delle

mie possibilità, educato, premuroso, gentile.

Il karate, se è stato formativo per me, se nella mia

vita ha saputo donarmi il sapore giusto e la mentalità

adeguata per affrontare le cose, presumo che lo stesso

sia accaduto con mia moglie. Per questo, oltre al fatto

che abbisogno di più tempo, devo seguire la sua

decisione, di continuare o meno nella pratica dell’arte

marziale. Devo ammettere, comunque, per finire questa

nota, che presto dovrò affrontare il problema con lei,

spiegandogli come il karate non mi appaghi più (se non

nella sua esclusiva efficacia di allenamento fisico) e

che il tempo così guadagnato possa servirmi per

dedicarmi finalmente alla scrittura; inoltre, i soldi

altrimenti devoluti alla federazione ed alla palestra,

potranno servirmi per pagare il servizio di analisi dei

testi dell’agenzia letteraria. Fra non molto sarà pronta

la raccolta della Foresta di Laft, e data la fiducia che

ho in quei racconti, non trovo inutile e dispersivo

-206-

affrontare la spesa, considerando anche l’improbabile e

lontana possibilità che i miei racconti ricevano una

seria attenzione.

-207-

7.

Ho assistito al terzo kusen del Maestro Ryusui. Il

kusen è quel momento, durante zazen, nel quale il

Maestro, rimanendo in zazen, espone quello che si

potrebbe definire un sermone, ovverosia un suo discorso

sul dharma. Dei precedenti non ho fatto cenno in questo

diario, benché la loro importanza non fosse indifferente

al mio sviluppo di persona dedita alla realizzazione

dell’insegnamento dell’Illuminato; al contrario,

dell’ultimo mi interessa riportarne un sunto, più che

altro perché il Maestro ha parlato di alcuni aspetti

dell’essere buddhisti che rispecchiano alcune

riflessioni che feci settimane addietro. Nella

fattispecie, mi sto riferendo ad un periodo di tempo

(qualche giorno, invero) che passai a chiedermi se era

il momento o meno di chiedere di ricevere i precetti,

per la ragione che non ritenevo – e non ritengo –

coerente con le mie intenzioni continuare a frequentare

il Centro come semplice associato. La conclusione fu che

lasciai perdere, ritenendo più opportuno parlare con il

maestro di tutto ciò quando la mia comprensione del

buddhismo fosse cresciuta di qualche granello. E’

successo che nell’ultimo kusen, il Maestro ha parlato di

come i precetti (ottenuti con un piccolo ed

apparentemente insignificante rituale) siano importanti

-208-

come punto di riferimento per chi segue e studia

l’insegnamento dell’Illuminato; i precetti ci ricordano

in ogni momento che abbiamo assunto una ben precisa

responsabilità e ci possono venire in soccorso quando il

nostro essere onesti, seri e leali può venire contestato

e messo in discussione – ovverosia quando stiamo per

commettere una colpa – dallo sviluppo di una determinata

situazione. Bene, le parole del Maestro hanno in maniera

definitiva tranciato la mia indecisione, costringendomi

a riesaminare la mia posizione al Centro. Il Centro è un

Tempio buddhista zen, chi in esso vi insegna è un

maestro illuminato che ha ricevuto la Trasmissione da un

maestro illuminato, e precisamente dal Patriarca Dogen,

e che frequentarlo non significa soltanto andarci per

fare zazen ed ascoltare quando capita i discorsi di

Ryusui Roshi, bensì impegnarsi doverosamente nella

pratica del Buddha-Dharma; il che vuol dire assumersi

delle responsabilità. Ed io queste responsabilità me le

voglio assumere. E’ per questo che ho preso la

decisione, tornando a casa l’altra sera, dopo zazen ed

avere ascoltato il kusen, di chiedere al più presto i

precetti. Esporrò le conclusioni delle mie riflessioni a

riguardo, ed ascolterò il parere del Maestro,

consapevole dell’autorevolezza del suo insegnamento.

Non si tratta, credo, di fanatismo, il mio, né di una

vampata, quello che si può definire una passione

-209-

passeggera destinata ad esaurirsi come la fiamma

scaturita dalla paglia, vistosa all’inizio per finire in

cenere fredda. La mia è una ferma volontà a proseguire

lo studio del Dharma, fin dove le mie forze saranno in

grado di portarmi, impegnandomi nello zazen, nella

comprensione e nella pratica quotidiana, non

dimenticando di accompagnare a queste attività una

costante e profonda riflessione sulle mie parole, i miei

pensieri e le mie azioni.

-210-

8.

Babbo natale esiste. In un certo senso. Quale, questo

senso? Vengo ora a descriverlo, perché mi pare di avere

scorto una verità, o presunta tale (con queste note vi

indagherò sopra), illuminante a dir poco, sul tema

dell’identità di un essere umano (o dovrei dire

vivente?). Bene, iniziamo dal principio, introducendo

l’argomento in modo che tutto possa apparire con

chiarezza. Poi si vedrà che l’analisi è più breve del

fatto, ed il fatto di questa introduzione che sto

allungando oltremodo… ma, si sa, il cappello ha la sua

importanza.

L’altro giorno, in ufficio, si stava parlando di

quando da bambini, avessimo scoperto la non esistenza di

Babbo Natale (per conto nostro o su informazione dei

nostri genitori o chi altro). Alla fine del discorso,

non durato molto per la verità, me ne sono uscito con

un’affermazione che ha sollevato l’ilarità delle mie

colleghe, per altro giustificata, anche se ad una più

attenta analisi la mia battuta (doveva essere così nella

mia intenzione) risulti più profonda di quanto

sospettato. Ed è appunto in questa sede che mi accingo a

dimostrare che la mia battuta può essere utilizzata come

spunto per interessanti riflessioni.

-211-

Ciò che proposi come battuta alle mie colleghe – ma

già dopo averla detta iniziai a crederci sul serio – è:

nel momento che si portano i doni sotto l’albero, a natale, si diventa Babbo

Natale, dunque, siamo tutti Babbo Natale, e la sua esistenza è così

confermata. Ciò che intendevo dire è in attinenza, come

appunto anticipato sopra, con il problema dell’identità.

Noi siamo ciò che pensiamo di essere, ovvero noi in

quanto esseri viventi e la nostra identità coincidono.

Ciò che si manifesta agli altri tramite il mio corpo

(espressioni facciali, parole, azioni) è la mia identità

in azione, ciò che io sono, ma anche ciò che io penso di

essere. nel momento che mi accingo a fare un dono,

sapendo di agire come un virtuale Babbo Natale, io

divento tale, lo sono a tutti gli effetti,

indipendentemente dal mio passato storico,

indipendentemente dal fatto (veritiero) di essere

Nataniele Paghini. Voglio collegare l’argomento a quanto

afferma il Maestro Deshimaru, nel dire che quando siamo

in zazen (altrimenti definibile samadhi), siamo

illuminati. Zazen ed illuminazione, quando la pratica è

potente ed assidua, coincidono. Allo stesso modo, quando

la pratica di essere Babbo Natale è profonda, quando la

nostra concentrazione è potente come quella in zazen,

allora coincidiamo con il concetto di Babbo Natale. Ma

parlare di concetto è sbagliato. Si può considerare

zazen un concetto? No: zazen è una condizione

-212-

dell’essere vivente, la condizione sua più pura,

fondamentale, all’origine di ogni sentimenti, pensiero e

coscienza. All’inizio c’è zazen. babbo Natale è un

concetto, un’idea di un uomo che elargisce doni con

gioia, similmente all’idea del bodhisattva. Nel momento

che siamo in zazen, siamo dei bodhisattva (nel suo

significato allegorico, ovverosia di termine che

rappresenta un insieme di virtù ed intenti. Similmente,

se consideriamo Babbo Natale non come nome proprio di

una persona, ma come termine simboleggiante un insieme

di virtù positive e di atteggiamenti altruistici, allora

ci si può identificare in esso, anzi, si può essere

incarnazione di tale logos nel quando il momento e lo

spazio coincidono con la nostra volontà natalizia.

Dunque qui sto parlando di spirito natalizio, che non è

un qualcosa che esiste indipendentemente da noi, ma che

si può definire come la predisposizione a fare una certa

cosa in una determinata maniera per un ben preciso fine.

Ed ecco, concludendo, il Babbo Natale realmente

esistente in tutti noi.

-213-

9.

C’è qualcosa di nuovo nell’aria. E’ un modo di dire,

no? Ma questa volta, nell’utilizzarlo, avrei dovuto

aggiungere… e non è bello. mi sto riferendo alla

trasmissione televisivo cui ho assistito, in parte (ero

ospite di amici), ier sera. Uno spettacolo del sabato

sera, come vanno di moda da anni ed anni, per menti

incapaci di cercare altrove più seri e costruttivi

impegni, dove due squadre si combattono a colpi di

giochi idioti. E’ risaputo che fa milioni di spettatori,

e, giustamente considerato, che in Italia non posso

esistere milioni di idioti, ne conviene che molti

spettatori sia siano lasciati intrappolare, o, come nel

mio caso, sgomenti ed increduli, assistano per rendersi

conto di quanto basso sia il livello non solo della

televisione italiana, ma anche della cultura in

generale. Personalmente, voglio evitare in futuro ogni

contatto con simili riviste televisive, per mantenere

una corretta igiene mentale.

Di cosa trattava il programma? Bene, le due squadre in

competizione erano formate da, una parte gli

eterosessuali, dall’altra gli omosessuali; i componenti

erano solo maschi, mentre il pubblico, che votava alla

fine di ogni gioco era formato da donne, di ogni età (ed

estrazione sociale, credo). Solo qualche anno fa, una

-214-

simile trovata sarebbe stata ritenuta impensabile,

mentre con i tempi che corrono risulta sempre più

naturale ritenere normale la trasgressione… perché

l’omosessualità, per quanto se ne dica, è una

trasgressione. Si tende a far notare che l’omosessualità

è antica come la civiltà umana, e probabilmente è vero;

che nell’antica civiltà greca era d’uso che gli uomini

amassero e frequentassero dei giovani di pari sesso

(forse gli stessi grandi pensatori che hanno fondato il

ragionar occidentale si abbandonavano a questo vizio);

che anche in alcuni animali (mammiferi) si possono

sviluppare atteggiamenti omosessuali. Insomma, è normale

e non può essere contestata. Anzi, stiamo arrivando ad

un punto tale che mostrarsi contrario all’omosessualità

vuole dire fare atto di intolleranza… essere razzisti,

insomma. A ragione di ciò, onde non apparire troppo

bigotto, mi voglio soffermare ad affrontare il problema

e studiare la questione per evidenziare la presunta

normalità o meno dell’oggetto di questa nota e per

dimostrare se il mio atteggiamento è da bigotto o da

persona impensierita giustamente dalle tendenze di

questi ultimi mesi. Aggiungendo, che in tutto il mondo

si sta verificando una nuova presa di posizione nei

riguardi degli omosessuali: inserimento di nuove leggi,

facilitazioni burocratiche, riconoscimenti ed altro

ancora.

-215-

Bene. Partiamo dal basso. Cosa è l’omosessualità?

Varie spiegazioni ci possono essere a riguardo. Iniziamo

dalla più semplice: il rapporto carnale fra due

appartenenti dello stesso sesso di una specie animale, e

dunque il coito tra maschio e maschio, o femmina e

femmina. Questo in natura, dove il coito, ovverosia la

penetrazione, non viene raggiunta, ma simulata negli

atteggiamenti della copula. In natura questo avviene fra

quelle specie animali dal complesso sistema sociale,

cioè che vivono in gruppi dove sussistono diverse

gerarchie. Gli scienziati concludono che accade per

stabilizzare il gruppo. Lo scopo, dunque, è quello di

uno stabilizzatore sociale, avvenente tuttavia tra

animali che, a differenza dell’uomo, non hanno

sviluppato una cultura stratificata, nel senso che

cresce nel corso delle generazioni, con tutto quello che

ne consegue: arte, tradizioni, scienza, religione,

eccetera. In oltre, è bene specificare che fra i

suddetti gruppi di animali (delfini, scimmie, giraffe,

per fare alcuni esempi) la pratica dell’omosessualità

non è un agire fine a se stesso, solo per trarre

piacere, godimento, bensì una sorta di valvola tendente

a mantenere l’armonia nel gruppo. In aggiunta, non sono

stati riscontrati casi di omosessualità fra due

individui dove l’uno è un adulto e l’altro un piccolo, e

quest’ultimo non coscienziente. L’omosessualità è

-216-

pratica fra individui consapevoli del loro agire e

disposti nel fare questo; in più, è probabile che la

pratica serva a preparare il maschio all’accoppiamento

vero e proprio, oppure a sfogare il proprio stimolo

sessuale quando la femmina ancora non è in stagione

d’amore.

Nell’ambito della civiltà umana, non si può dire

altrettanto. L’omosessualità è pratica come un vizio fin

e a se stesso, onde raggiungere l’appagamento di un

desiderio che non trova riscontro di utilità in seno

alla società. E’ vero che, si dice, fin dalla nascita,

ovvero al momento della discriminazione (tredici,

quattordici anni) l’individuo diviene consapevole della

propria omosessualità; ma un conto è permettere che

questa omosessualità venga esternata senza ritegno, un

conto è viverla nel proprio io, con riservatezza. La

religione cattolica la considera un peccato; io, non

essendo cristiano, non posso dirmi d’accordo su questo

giudizio, tuttavia non posso ritenere l’omosessualità un

aspetto normale dell’essere umano, e dunque ritengo

indispensabile che l’omosessuale si atteggi a contegni

riservati. Naturalmente, ben sono consapevole del fatto

che qui non bisogna parlare solo dell’aspetto puramente

fisico, ma anche del sentimento d’amore che attornia e

compenetra l’atto sessuale. Chiaramente, se fra due

omosessuali, l’intesa è anche sentimentale oltre che

-217-

sessuale, allora non mi pongo in contrasto; ma rimane la

mia ferma idea che comunque il rapporto va se non

celato, per lo meno non ostentato. Intendo: vivere

l’omosessualità non come una colpa, bensì come un

propensione personale che nulla deve avere a che vedere

con la società nella quale si vive. In aggiunta, ricordo

che la pederastia, forse non confondibile con

l’omosessualità, è comunque un atteggiamento deviato che

deriva dall’omosessualità.

Una società è formata dal nucleo famigliare nel suo

elemento più piccolo. La famiglia permette la crescita

ed il mantenimento della società, attraverso l’unione di

uomo e donna generante una nuova vita (o più di una).

Nel suo svilupparsi, questa nuovo essere senziente deve

avere due figure accanto, fondamentali: quella paterna e

quella materna. Nel caso uno delle due mancasse, è per

via di incidenti accidentali o meno, e comunque è bene

sostituirla, onde assicurare una giusta crescita.

Inoltre, la famiglia è la prima scuola di educazione;

per questo cedo che sia bene dei coniugi il vivere in

armonia ed il cercare di ampliare in modo costruttivo le

proprie conoscenze; ed inoltre credo nella validità del

matrimonio. Insomma, sono un tradizionalista, e non vedo

come due omosessuali possano costituire una famiglia, né

tantomeno ritengo indispensabile che vengano formate

leggi a favore degli omosessuali. Nessuna acredine nei

-218-

loro confronti, semplicemente, essendo una

predisposizione congenita, è bene che rimanga tale,

senza trasformarla in istituzione. Permettere la nascita

e la buona crescita di un essere vivente, ecco uno degli

scopi dell’uomo… come può riuscire a fare ciò un

omosessuale?

-219-

10.

Nel primo capitolo dello Shobogenzo, il Patriarca

Dogen esordisce dicendo: Quando tutte le cose diventano il Buddha

Dharma…, continuando con lo specificare cosa succede

nel momento che ciò accade. Ora, pur non conoscendo e

non avendo consapevolezza del Dharma del Buddha, penso

di poter soffermarmi sull’implicazione della

proposizione del Patriarca; perché, ad una stretta

analisi, il linguaggio esprime più di quel che si evince

ad una prima approssimata lettura. L’aggettivo quando ed

il verbo diventare sono il perno del discorso che voglio

affrontare; ma prima di iniziare, è opportuno che

indaghi su una porzione della frase, ovverosia tutte le

cose.

Sicuramente, la traduzione italiana non può riprodurre

il significato profondo del giapponese utilizzato dal

Patriarca Dogen, tenuto conto anche del fatto che un

lemma trova nelle radici etimologiche la sua vera

essenza, e, dunque, una traduzione non può mai attingere

a questa eredità, riproponendo per intero il valore che

l’autore volle infondere nel suo scritto. Ciò

nonostante, si può accostare al significato ignorato

quello che noi riteniamo il più opportuno possibile, in

base alla nostra esperienza ed alla nostra conoscenza.

Nel caso della frase: tutte le cose, il sottoscritto ritiene

-220-

considerarla come riferimento alla Totalità, o

nominabile nel sistema buddhista come: Buddhatathata.

Proseguendo, posso ora arrivare al significato

dell’intera proposizione, che risulterebbe: quando la

Totalità diviene il Buddha Dharma. Ciò significa che la

Totalità non è sempre, in eterno, il Buddha Dharma, nel

senso che il Dharma, quale scopo dello zen, non è sempre

presente nelle cose. Il Dharma, in conclusione, non è un

elemento della realtà sensibile, bensì – e qui azzardo

un’ipotesi – una qualità delle cose non sempre

manifesta.

Quando si manifesta il Dharma, e perché si manifesta?

Rispondere a questi dilemmi presuppone la conoscenza di

cosa sia il Dharma, risultato che si può raggiungere

solo con l’illuminazione improvvisa, il satori, frutto

di serissimo e profondissimo zazen (leggi samadhi) e di

coscienziosa vita vissuta lungo la Via. Io, non avendo

né la conoscenza trascendentale (nemmeno in una sua pur

piccola porzione) né un’esperienza di vita buddhistica

(quanto mai difficile da perseguire), mi limito a fare

ipotesi, costruire concetti personali da verificare di

giorno in giorno, scartando quelli non più sostenibili.

Arrivando così alla conclusione – di questa nota –

dell’esposizione di una mia personale interpretazione

del Dharma. L’importante, in ciò, è avere sempre

presente che si tratta di una posizione temporanea, da

-221-

verificare e presumibilmente errata… ma necessaria per

continuare nel cammino.

Definizione del Dharma.

Riferendosi non al dharma (gli elementi della realtà –

altro argomento affrontabile e da affrontare), e nemmeno

all’insegnamento orale del Buddha; bensì al suo

significato più intrinseco, corrispondente a quel Dharma

la cui ricerca deve essere precipua in un Dharmacarin

(definizione data dal Maestro Prajnananda). Questo

Dharma è il Dharma. Definizione: Il senso delle cose. Con

cose intendendo la Totalità, e con senso (termine il cui

esatto significato mi assilla da tempo) esattamente il

Dharma, ovverosia il significato delle cose rapportate a

esse stesse, in una relazione che è interdipendente.

Continuando, la Totalità, essendo composta da cose

(elementi) in rapporto continuo fra di esse, ha il

significato che hanno le cose, e le cose hanno il

significato che se ne deduce dal loro rapporto con le

altre cose che compongono la Totalità. Ora si giunge ad

un dilemma della filosofia di ogni tempo, che si scinde

in due problemi: 1.le cose hanno un’essenza a priori?;

2.questa essenza è conoscibile?

11.

Da questa nota, è mio intenzione abbandonare –

temporaneamente, si intende – le disquisizione oltremodo

-222-

tese alle argomentazioni teoretiche, cosa che ho fatto

finora, trascurando di conseguenza l’aspetto pratico e

perciò più importante: la vita, concreta, quella della

quotidianità. Concludendo questa breve premessa, mi

piace sapere di avere raggiunto definitivamente questa

certezza, ovverosia che il troppo parlare di concetti

non legati alla realtà (come, al contrario, dovrebbe

essere il Dharma) conduce lontano dallo Studio della

Via.

Bene, iniziamo; a caso, la prima cosa che mi viene in

mente. Giusto l’altro giorno, al telegiornale della sera

di Canale 5 – quello dell’opposizione, così considerato

dalle persone avvinte dai pregiudizi e con i paraocchi –

mi capita di vedere un servizio altrimenti inutile su un

singolare episodio avvenuto durante una partita di

calcio. Precisando, una telecamera aveva filmato una

scena nella quale fra due giocatori erano intercorsi dei

probabili sproloqui (niente sonoro) con un epilogo che

vedeva uno dei due sputare in faccia all’altro. Qualche

giorno dopo, una speciale commissione, basandosi sul

filmato, aveva giudicato lo “sputacchino” reo di colpa e

passibile di espulsione. Il servizio di canale 5

concludendo facendo notare che era il secondo episodio

di incorrettezza che, ripreso dalla televisione, veniva

sottoposto alla commissione sportiva, e si chiedeva dove

avrebbe potuto portare questa possibile rivoluzione. A

-223-

riguardo, vorrei esprimere il mio giudizio, dato che

ravviso in germe nella faccenda lo sviluppo di

situazioni del tutto non auspicabili. Inizio col

precisare che il campo di calcio, essendo un’arena di

combattimento in primis, ovverosia un luogo dove più

persone si affrontano in vista della vittoria. Ci sono

due gladiatori, si affrontano, ad armi pari, ed

ovviamente, trattandosi di un gioco rude, gli animi si

surriscaldano, il fisico si affatica, i muscoli dolgono,

la mente non sempre può rispondere lucidamente; la

conseguenza può essere un gesto inconsulto, una perdita

di controllo, un’esplosione di rabbia, ed il tutto è

giustificabile all’interno della situazione, nell’arena,

quale realtà virtuale. L’arbitro esiste per limitare

questi episodi – inevitabili, voglio precisare – e ciò

che osserva ed esamina deve essere da lui e soltanto da

lui giudicato, all’interno della durata ufficiale dello

scontro. Quello che è successo ha ribaltato la sacralità

del combattimento, l’ha messa in secondo piano. Qualcuno

è andato a ripescare in un secondo momento, e quando i

giochi erano orami finiti, ha punito un gesto del tutto

comprensibile (all’interno della realtà dell’arena, lo

ripeto). Il dramma, il pericolo, è insito nel fatto che

d’ora in poi si esamineranno con scrupolo da inquisitore

tutti i filmati, e le telecamere – ergo l’addetto che la

manovra - seguiranno ossessivamente ogni gesto degli

-224-

atleti, obbligandoli a contenere emozione che è

necessario sfogare per il giusto andamento della

partita. Certo, sono d’accordo che è necessario

contenere gli sfoghi e mostrare un comportamento

dignitoso, anche per via degli spettatori – specie

quelli giovani – ma il nocciolo del problema sta proprio

in quest’aspetto: agli spettatori è consentito di vedere

troppo… e troppo da vicino. La televisione è diventata

imperante, nonché mandataria e conservatrice della

verità, perché la verità è ciò non che noi vediamo, ma

che la televisione ci fa vedere. Per questo motivo non

condivido il giudizio della commissione, temendo in

futuro un’intromissione delle telecamere in ogni angolo

della nostra esistenza: al lavoro, nella vita pubblica,

in strada, tanto che si dovrà stare attenti ad ogni

gesto. Libertà negata.

-225-

12.

Punto di svolta decisivo nella mia vita. Nulla a che

vedere con l’aspetto sentimentale, che grazie al cielo

(modo di dire, estraneo a qualunque credo religioso)

mantiene il suo aspetto florido. Ciò a cui mi riferisco

è la decisione definitiva di abbandonare il karate… per

il kendo. In realtà, un dubbio nel fondo della coscienza

rimane, ecco dunque il motivo di questa nota: indagare

su questo dubbio e scoprire se ha un senso ragionevole o

se si tratta solamente di un frutto del timore… Timore

di cosa? Di perdere qualcosa che ho costruito lungo

l’arco di quindici anni e che di conseguenze deve avere

avuto un’influenza sul corso della mia vita. Ho iniziato

a praticare karate-do all’età di diciassette anni,

essenzialmente per acquistare fiducia e sicurezza in me

stesso, in un secondo momento per dedicarmi ad

un’attività sportiva che tenesse impegnato ed allenato

il fisico. Ben presto mi sono sentito quasi morbosamente

attratto da questa arte marziale, tanto che sempre era

in primo piano nelle mie decisioni. Programmai la mia

vita sul karate: mai saltare una lezione, rinunciare a

lavori che impedissero per problemi vari l’allenamento…

perfino rifiutai l’invito a cena di una ragazza (a casa

sua) per non perdere una lezione del Maestro. Cosa dire?

Ancora adesso faccio fatica nel carpire la ragione del

-226-

mio attaccamento, ma forse si tratta solo della

consapevolezza che esiste qualcosa al di sopra di tutti

noi (non mi riferisco a Dio, al Cielo od altri concetti

puramente religiosi), o per meglio dire al di là di noi,

come l’onore, il dovere, la lealtà, qualcosa da servire,

per il quale sacrificarsi. In effetti, c’è una piccola

verità in ciò che ho appena scritto, ed è la verità del

trascendente, di ciò che non può essere spiegato a

parole, bensì con i gesti, configurati in particolare

azioni. Oltre l’apparente, e per motivare l’apparente,

per conferirgli dignità, bisogna cercare valori

definitivi ed assoluti, non necessariamente di carattere

religioso. Allora, sotto questa ottica, i valori

religiosi e quelli puramente laici (come l’onore del

guerriero) tendendo entrambi a farci vivere una vita

dignitosa che si elevi dallo stato animale verso uno

stato spirituale. Entra in gioco il dovere morale, nel

senso kantiano del termine, dunque indiscutibile e

solamente attuabile.

Ritornando al discorso iniziale, ecco che il mi

dedicarsi assiduamente al karate-do era ed è una ricerca

del trascendente, un offrirsi a quei valori che la

società consumistica di questi ultimi decenni non è

capace né di offrire né tanto meno di mostrarne la

ricerca. Ora, con la drastica decisione di abbandonare

il karate-do per il kendo, potrei perdere di vista la

-227-

ricerca di questi valori assoluti? Non credo,

semplicemente non solo perché anche il kendo è una porta

aperta (per chi sa aprirla) sui valori sopra menzionati,

ma anche in ragione dello zazen, a cui mi dedico con

tutta la sincerità e concentrazione di cui sono capace.

Il filo non è andato perso, la strada è sempre ben

segnata innanzi a me, tocca solo a me disporre della

forza per continuare. Tuttavia, il dubbio sulla scelta

permane. Permane la paura di perdere molto, ovverosia

una cultura accumulata in quindici anni, che

immancabilmente mi ha portato ad essere quello che sono.

Mi domando, il kendo, lo zen, saranno in grado di

donarmi tanto? Non so rispondere, solo il tempo saprà

darmi una risposta. Ulteriormente, un altrro timore è

dato dalla consapevolezza che la mia scelta imposterà

anche una scelta forzata da parte di Barbara. So –

avendomelo lei detto – che è stanca di continuare la

pratica (il ginocchio?); ma questa mia decisione non

potrà che obbligarla a fare altrettanto. Ne abbiamo hioà

parlato, e lei mi ha detto che si tratta di una

questione che devo affrontare – in ultima analisi – da

solo.

-228-

HE

1. Nuova impronta – 11 maggio 2000

La vita non è statica, e quando lo è (per volontà

nostra, è bene precisare) diventa al pari di uno stagno

e presto comincia a maleodorare. Al contrario,

rinnovando gli elementi che la formano, purificando le

situazioni, introducendo nuovi contesti, si ha il

piacere di vivere, perché tutto diventa una scoperta, un

viaggio che non può mai finire. Così, cercando di

assimilare quanto appena detto, non posso che essere

contento di avere lasciato il karate per il kendo, di

avere iniziato lo studio del Reiki e di continuare

ascrivere poesie (ogni poesia è un universo,

un’avventura) di essere ancora indaffarato nella ricerca

di un tempio zen e di meditare una capatina ad un tempio

tibetano vicino a casa. Da qui il titolo: Nuova

impronta. Sì, giacché i miei piedi hanno cambiato forma,

le piante non lasciano più i soliti segni sulla sabbia…

eppur sono sempre miei, questi piedi! Non è fantastico?

Ma cerchiamo di venire al dunque. L’attivazione Reiki mi

ha aperto nuove prospettive, ora intravedo un universo

smisuratamente più vasto ed intuisco che potrò

-229-

sperimentare esperienze che mi conoscenza, saggezza e

pace. Il tutto, senza rinunciare alla mia quotidianità,

e ciò rende il tutto ancora più meravigliosamente.

Reiki, in connubio con lo zen, mi fa comprendere come

sia sempre più necessario staccarsi dalla mondanità,

dalle abitudini, dai sentito dire, dai pregiudizi, tutti

schemi mentali presi in prestito e facili da usare, ché

in tal modo non si spremono troppo le meningi. Questo è

un punto che non smetterò mai di ripetere, fino alla

nausea se necessario.

Reiki, dunque. Cosa è successo dall’ultima volta?

Qualche cosina interessante e da non prendere alla

leggera. Innanzi tutto la purificazione dei cosiddetti

ventun giorni, nei quali ho defecato in abbondanza e mi

sono dedicato ad autotrattamenti. Il risultato? A

portata di mano, impresso nel mio corpo di carne e

sangue. Ad aprile, prima dell’attivazione, ho fatto una

visita specialistica per liberare l’orecchio (mentre

scrivo mi viene in mente una sera di luglio del ’94, ero

andato a trovare mia madre al mare – Camogli,

precisamente – e si stava guardando un film in

televisione: “Gli eroi di Telemark”. Domenica, ricordo,

prima del film avevamo giocato a carte. A volte ho

sprazzi di vita vissuta, ricordi che fioriscono con

tutto il loro carico emotivo; ma ancora non riesco a

trovare collegamenti tra quei ricordi e l’attimo

-230-

presente). Ritorniamo all’orecchio. nella visita è

risultata una perforazione all’orecchio, di vecchia

data, più cicatrici di altre perforazioni, il tutto in

un insieme di cattive condizioni. il dottore mi

prescrive la solita cura (precedentemente avevo fatto

un’altra visita, e prima ancora, di diversi anni, lo

stesso disturbo mi si era presentato varie volte). Alla

fine, il dottore si raccomanda che io ritorni per una

visita più accurata per verificare bene l’entità della

perforazione. Ci sono tornato questa mattina, e con

sorpresa il dottore ha scoperto che la membrana del

timpano si sta autorigenerando. Ora è un foglio roseo

sottile e delicato… ma c’è, quando non avrebbe dovuto

esserci. Il Reiki è estraneo a questo? Non lo so, e non

voglio indagare. Così come non voglio indagare su come

sia passato da sera a mattina il mal di stomaco alla mia

Barbara dopo un trattamento Reiki. Nuove impronte,

appunto. Nuove impronte.

-231-

2. La vera realtà – 11 giugno 2000

Esattamente un mese di silenzio e riflessione. Il tempo

è statico, pura illusione: è la nostra psiche che

accelera o rallenta ai ritmi delle emozioni e delle

passioni. E migliaia di cose accadono senza che noi si

riesca a trovare una ragione ovvia… ma è solo per nostra

incapacità. Invero, per ogni cosa c’è un motivo

d’essere, e noi abbiamo il dovere e l’obbligo di

scoprirlo. Per questo, e non altro, sono qui a narrare

di un percorso che mi si è ripresentato in questi ultimi

giorni e dei miei tormenti decisionali.

Prima di arrivare al dunque, mi preme sottolineare come

sia oramai difficile per noi cittadine della società del

consumo e della brevità, riuscire a soffermarsi su

questioni di interesse etico, sociale e filosofico. Mi

spiego meglio. I giornali, sia cartacei che televisivi –

l’informazione, insomma – forniscono non solo il dato di

fatto, ma anche la sua interpretazione, a tal punto che

lentamente ci stiamo dimenticando l’importanza della

riflessione e dei tempi – mai brevi – necessari per

effettuarla. Il mondo che abbiamo creato non ci vuole

indaffarati in simi le sciocchezze, così abbiamo

delegato altri a farlo per noi. Ho l’inquietante

impressione che la società nella quale siamo nati e

-232-

viviamo – e nutriamo – si divide in tre strati: la

massa, di cui io stesso ed il mio amore facciamo parte;

la casta che nutre cibo preconfezionato e precucinato la

massa; e un èlite di liberi pensatori, di filosofi e

sapienti… insomma, di seriosi studiosi a cui poco

importa della massa e che conducono le proprie ricerche

ad esclusivo beneficio dei confratelli. Avete bisogno

che vi spieghi il tutto in dettaglio? (arriverò mai al

dunque, in questo foglio?)

La massa siamo tutti, chi più, chi meno. Chi vive

integralmente nella massa, chi soltanto quegli attimi in

cui - a volte suo malgrado – è costretto a nutrirsi del

cibo della massa. A me interessa l’homo massa. Egli è

imboccato, non pensa, non legge, non riflette, segue le

tradizioni senza chiedersi come e perché siano nate, si

affida ai pregiudizi, evita di prendere decisioni

personalmente, guarda programmi insulsi alla televisione

che non procurano mai educazione ed istruzione. Costui

non vuole fare fatica, solo divertirsi e raggiungere il

benessere, e per questo lavora e lavora, ed il suo

cervello si atrofizza, non importa se è un genio

dell’informatica o cos’altro. L’homo massa non è più

capace di rompere i veli di maya e di domandarsi dove

siamo e cosa cavolo stiamo facendo… e, specialmente,

perché.

-233-

La casta dei produttori di cibo è la più patetica. Anche

loro sono come l’homo massa, loro stessi lo sono in fin

dei conti, ma hanno raggiunto il gradino superiore (o

forse sarebbe meglio dire inferiore) ed oltre a nutrirsi

del cibo precotto lo producono. Sono loro che ci danno

le notizie e la loro interpretazione, dispongono i fatti

come gli pare, rigirano la frittata per tornaconto

personale (questi sono i politici) a volte spostano

impiegati ed operai come pedoni su una scacchiera.

Quando arrivi la sera a casa e ti siedi per cenare, sono

dietro la televisione che ti aspettano con i loro

programmi per deficienti, ti fanno l’occhiolino, ti

dicono che sei bravo, ti mostrano corpi bellissimi che

nessun essere normale riuscirebbe ad avere e mantenere

all’interno di una normale esistenza. Possono essere

utili, i giornalisti (alcuni, pochi per la verità) ma

devi saperli ascoltare.

All’interno di questi due gruppi, per fortuna di tutti

(ma nessuno forse se ne rende conto) esistono personaggi

formidabili, anime nobili ed umili, difficili da

individuare, ma che possono donare molto e con le quali

conviene condividere degli interessi, o conviene

ascoltarle, magari leggerle. Non si può dire chi siano,

ma solo che ci sono e che ognuno di noi può individuare…

e magari proprio uno di noi che si sente

-234-

fondamentalmente una cacca, potenzialmente è uno di

questi bodhisattva.

L’èlite è il gruppo più pericoloso… ed inutile.

Qualunque cosa facca, la fa per se stessa. Il suo lavoro

non esce dal gruppo e non si sa bene a cosa possa

servire. All’umanità no di certo. Sono tanti, troppi… ma

bisogna tenerli, perché ognuno ha il diritto di vivere

la propria vita come più gli aggrada.

Tutto questo ha un senso? Indubbiamente.

Il senso è la vera realtà che si nasconde dietro la

facciata che noi non solo abbiamo eretto, ma ci

spacchiamo il culo per mantenere. Possiamo vederla,

studiarla, viverla? Quale è la sua vera natura? Esiste

solo un modo per raggiungerla: zazen e profonda

obiettività innanzi a tutti i casi della vita.

-235-

3. Una nuova visione della vita… ma sempre la stessa –

13 giugno 2000

La vita ha un suo aspetto positivo: non è mai la stessa,

è un caleidoscopio mutevole che ci presenta combinazioni

di colori sempre differenti… e che il più delle volte ci

sorprendono. Come fare ad affrontarli ed interpretarli

correttamente? Da dove partire onde ottenere le giuste

chiavi di lettura? Affidarsi alla fede religiosa, alla

scienza o a qualcosa d’altro?

Esperienza e sperimentazione, questa è la mia risposta.

Costruire dei modelli di riferimento che le circostanze

di volta in volta ci costringeranno a modificare e

perfino cambiare radicalmente, fino a quando non

troveremo un’armonia tra il nostro essere e la realtà

che ci circonda, fino a quando il modello che costruiamo

e che deve rappresentarci il mondo circostante non

soddisfa il nostro essere, la nostra interiorità ed

esteriorità; insomma, la nostra totalità. Ma così

facendo, non si rischia di approdare a modelli negativi,

depravati, oppressivi verso il nostro prossimo? Ci vuole

qualcosa a priori. Potrebbe essere la coscienza. Eppure

essa può risultare inquinata, tale da ritenerla

inaffidabile, tale da farci supporre che il suo stato di

partenza è pur sempre una conseguenza, un effetto di una

causa antecedente. Esiste qualcosa a priori, percepibile

-236-

od intuibile, con la quale disporre le fondamenta di una

ricerca della verità?

L’anima. L’anima è un concetto, e ci si cede per un atto

di fede. Qui non la nego e non l’affermo, semplicemente

specifico l’impossibilità di percepirla come dato

d’esperienza. L’anima è un concetto a posteriori, e non

può rappresentare la base del nostro modello. Bisogna

cercare altrove. In noi stessi, senza una meta precisa,

soltanto non soffermandosi sui pensieri, sulla

coscienza, sui sensi, cercando di andare oltre il

concetto di Io, di Ego. Questo è zazen. Con zazen si

intuisce, profondamente ed indubitabilmente la vacuità…

e da qui inizia la nobile via che conduce alla divinità.

Il percorso è lungo, ma di semplice esposizione. Non

corrisponde all’illuminazione (la folgorante e totale

comprensione del Dharma), non significa essere dei santi

o degli angeli in terra; solo si comprende meglio la

giusta relazione tra noi e l’universo. Io ho iniziato

questo viaggio, ho percorso la strada, sono arrivato ad

una meta che è il vero inizio, e voglio rendere

partecipe chi legge quello che ho scoperto. Preciso la

soggettività dell’esperienza, ma non posso negare la sua

validità e la verità incontrata. Chiunque poteva

giungere a conclusioni differenti dalle mie, pur

tuttavia egualmente nobili e giuste, diritte scale vero

l’Oceano della Divinità. La nostra mente terrena non è

-237-

in grado di afferrare la complicanza dei molteplici

fattori che contribuiscono a formare un essere

senziente, ed umano nella fattispecie. Il Buddha ha dato

un’indicazione, sublime essa, ma solo un tassello che

inserito in un disegno più vasto. Esiste qualcuno – o,

per meglio dire, è esistito – che ci ha fornito le

coordinate giuste ed i parametri adeguati per comporre

l’intero mosaico. Ne scaturirebbe un’opera d’arte

superlativa, al completamento della quale tutti gli

uomini e donne, di qualunque religione e ceto sociale,

sono invitati ad intervenire.

Questa lettera sacra – HE – è finita.

Questa Sfera Mistica, MALKUTH, è stata completata.

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Catechismo cattolico

Sono sempre stato contrario nel volereintrodurre nella vita educativa di Miriam dellospazio riservato al catechismo cattolico e alrelativo insegnamento dei fondamenti dellareligione cristiana. Così come non ho maiapprovato integralmente l’ora di religionecattolica inserita nel programma scolasticodella scuola primaria; preferendo che venissesostituita da una più opportuna lezione dimitolologia, considernado il mito – Mito, piùpropriamente – uno dei costituenti della psicheumana.

Pur rimanendo di quet’idea, che in unmomento succesivo spero di poter sviluppare espiegare, credo che nei riguardi del catechismocattolico, così come viene insegnato all’internodegli istituti religiosi, quali le parrocchie,sia opportuno un differente approccio. Enonostante io e Barbara non siamo due praticantie, parlando di me stesso, nemmeno un credente –essendo attirato da una visione buddhista dellarealtà,se pur con forti influssi politesisti – ègiusto che Miriam inizi un percorso in tal senso(riferito al catechismo).

Il perché va individuato nel mio pormirispetto al Mito (d’ora in poi “mito”) e allasua concezione. E alla necessità che un bambinonon solo venga avviato verso una concezione

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mitica della realtà, ma anche che sia invogliatoa sviluppare un proprio immaginario poetico,personale se pur rifacendosi a modelli giàesistenti. Questo perché l’essere umano è unanimale mitopoietico, ossia che è propensoall’affabulazione, alla creazione di raccontiche spieghino e raccontino la propria origine,alla narrazione della realtà prima ancora chealla sua analisi e spiegazione.

Ciò che ci differenzia dalle altre specieviventi di questo nostro meraviglioso pianeta(“nostro” per modo di dire), non ètantol’intelligenza o l’autocoscineza 8probabilmenteposseduta anche da qualche altra specie), bensìla qualità della mitopoiesi. Infatti, se pur sistudiano i linguaggi e i comportamenti socialidi specie volute,se pur ci siano indizi diautocoscienza e intelligenza evoluta inquestespecie superiori, di una cosa si può esserecerti: l’essere umano è l’unico che crearacconti, che narra attraverso parole e disegni,che comunichi stati emozionali attraverso segniche non siano prettamenti utilitaristici per lasopravvivenza della specie. Insomma, l’essereumano

Il motivo che sta alla base di ciò fa partedi quel gruppo di misteri che da sempreattanagliano la ricerca spiritusle e non, ecomunque non è mio desiderio parlarne ora.Piuttosto, mi preme sottolineare che un bambino

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non può ricevere immediatamente una spiegazionescientifica e totalmente non poetica del mondo edi come abbia avuto origne la vita. E’necessario introdurlo al mondo, introdurlo einiziarlo alla vita attraverso il mito,attraverso il racconto mitico e fiabesco per laprecisione, non volendo con ciò asserire che ciòche viene enunciato nei racconti religiosi sullacreazione sia falso. Ma non è neppure vero!Diciamo, piuttosto, che verità e falsità nonsono pertinenti al mito. E dunque allareligione.

Ecco spiegato, a grandi linee, il mio parerefavorevole all’insegnamento del catechismo, nonsolo, ma anche a una pratica religiosa(affiancata dalla rimarcazione che tutti i mitihanno uguale valore, se pure ognuno deve trovarecollocazione nella configurazione culturalenella quale si è sviluppato nel corso deltempo). Per questo è necessario che Miriam, cosìcome greta quando i tempi saranno maturi, inizia sviluppare la visione mitica della realtà, unasorta di fermento poetico che non dovrà maiabbandonarla nel corso della sua vita, anche see quando non riterrà più opportuno seguire ilcristianesimo (così come è capitato a me).

Ci vuole un mito fondante, che sia consono ein armonia con la società e la civiltà nellaquale si vive. Almeno ciò nei promi sviluppidella crescita.

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2. Capitolo I del Sutra del Loto

Si tratta di una sorta di introduzione atutto il Sutra, ed assistiamo all’apparire didue fra i maggiori protagonisti oltre al Buddhastesso, e cioè Maitreya e Manjushri. Inoltre,alcuni insegnamenti vi sono già esposti - informa rudimentale - ma comprensibile ed utileper delle riflessioni iniziali sul valore ed ilsignificato dell’intero Sutra.

Siamo sul picco del Monte Gridhrakuta, che avolte viene tradotto in occidente come Piccodell’Avvoltoio, nei pressi della città diRajagriha, la capitale del Magadha, un regnodell’India nord orientale. A tale proposito,vorrei aprire una parentesi storica edincorniciare brevemente un periodo nei quali dueculture vennero in contatto, favorendo ilpassaggio di nozioni e sapere.

Nel corso dei cinque secoli successivi allamorte del Buddha, il suo pensiero prese adiffondersi in tutta l’India, ed in seguitomigrò grazie all’opera missionaria di coraggiosimonaci verso l’est asiatico. Tuttavia, ciò chemi preme ora, è sottolineare il contatto tra laciviltà indiana e quella greca dell’imperoBactriano che avvenne nei due secoli antecedentila nascita del Cristo. La storia degli imperiindogreci è di fondamentale importanza percapire come il pensiero buddista sia penetrato

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nel mondo ellenistico dapprima e poisuccessivamente in tutta quell’areamediorientale ricchissima di fermenti religiosiche è la mesopotania e la regione iraniana. Neicinque secoli che vanno dal Buddha al Cristo,abbiamo lo sviluppo e la diffusione delzoroastrismo (deformazione occidentale dizarathustrimo) nell’Iran, ed ancora adesso glistudiosi cercano di trovare collegamenti perprovare che il Mitra zoroastriano ed il Maitreyabuddista non sono che la palesazione culturaledi uno stesso modello simbolico-religioso.

Mitra è una divinità indoiranica, collegataal sole, che aiuta Varuna, dio massimo vedico,nella lotta contro i demoni e nel soprassedereall’universo intero. Stesso ruolo presiede nelzoroastrismo, affiancando Ahura Mazda nellalotta contro il principio del male, Arimane.Sicuramente è stato assimilato dal buddhismo, amio parere, e trasformato nel bodhisattvaMaitreya, il Buddha futuro, ovverosia Bahaullahstesso.

Il culto di Mitra fu molto popolare fral’aristocrazia e l’esercito romano, e nei primisecoli della nostra era fu l’unico serioconcorrente del cristianesimo. Il fatto cheabbia perso il confronto è da imputare al suaesotericità (segretezza), al suo essereesclusivamente per alcune classi sociali ed aessere precluso per le donne. Tuttavia il suo

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aspetto solare fu assorbito dalla figura diCristo salvifico ed angelico, e tutto lognosticismo cristiano che si sviluppò moltoprobabilmente subisce ampie influenze dalmitrismo. Ricordiamo che il culto di Mitradall’Iran si diffuse fino in Gran Bretagna,ricalcando più o meno l’area di influenzaceltica, come se il mitrismo rispondesse adesigenze spirituali connesse con la cultura deicelti. Sono semi lasciati cadere nei solchidella storia e che col passare dei secoli sisono sviluppate in nuove piante e verzure.

Con questo ho voluto solo ricordare che lereligioni sono mene monolitiche di quanto sivoglia immaginare e che hanno subito influenzefra di loro tali da modificarne completamente lefondamenta originarie. Lo stesso islam subìinfluenze manichee sotto gli Omayyadi, quandol’impero persiano venne conquistato dagli arabi,e tutte le dottrine ebree del giorno delgiudizio e degli angeli (che ritroveremo nelcristianesimo e nell’islam) sono di direttaderivazione zoroastriana.

Nel suo ultimo periodo di vita “ufficiale”Mitra assunse la connotazione di portatore diluce del Dio Unico. L’esoterismo e lognosticismo occidentali si sono nutriti diquesta interpretazione solare e presumibilmenteanche il misticismo islamico ne assorbì lanozione. Bahaullah, cresciuto nella cultura

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islamica sciita pregna di messianicità, fuidentificato da suo figlio cpme lamanifestazione di Dio, così come i raggiluminosi sono la manifestazione del sole.

Ritornando al Sutra del Loto, diamo unaccenno su cosa accade. Una immensa folla dimonaci e monache, laici e laiche, bodhisattva,divinità, arhat, esseri mitologici, draghi,creature non umani e quanto di più stupefacentel’immaginazione può produrre è riunita attornoal Buddha Sakyamuni, il quale, assiso nellaposizione del loto, è immerso nel samadhi1.All'improvviso, il Buddha emana un raggio diluce purissima dalla fronte (esattamente fra idue occhi) e si appresta a risvegliarsi dalsamadhi. A questo punto, il bodhisattva Maitreyainterroga il bodhisattva Manjushri, chiedendoglispiegazione di quanto sta accandendo. Il tutto èraccontato con dovozie di particolari e connarrazione ricca di iperboli e di ripetizioniche possono stancare il lettore occidentale. Inrealtà, nella letteratura buddhista,inizialmente nata oralmente e tramandatasi contale modalità, la ripetizioni di medidesimi

1 Samadhi: difficilmente traducibile in italiano, indicauna situazione psicologica di assoluta quiete interiore e di introspezione spirituale. In questo stadio, l'essere annulla se stesso e si ricongiunge con l'assoluto. Entra in armonia con la Totalità.

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contenuti in uno stessa narrazione garantivaun'appropriata memorizzazione. Nella domandaposta da Maitreya e nella risposta data daManjushri troviamo esposte due importantiverità.

1. I tre veicoli di insegnamento del Buddha2. La ciclicità dell'insegnamento del BuddhaManjusrhi spiega che il Buddha, di "ritorno"

dal samadhi si sta accingendo ad esporre lalegge fondamentale dell'universo, ovverosia laLegge del Loto. Lo stesso sutra ha questo nome ela dottrina sviluppatasi in seguito trasformaquesto scritto nella manifestazione tangibiledella stessa legge, tanto che possiamoannoverarlo tra le scritture sacre pereccellenza. In una visione bahai, si puòaffermare che il Sutra del Loto è una delleinfinite forme del Libro Primigenio, il qualedall'eternità è presso la Divinità.

Ma analizziamo bene i due punti soprabrevemente elencati.

1. Cosa si intende con veicolo? E' unametodologia di insegnamento attraverso la qualeil Buddha cerca di aprire la mente dei suoiallievi onde risvegliarli alla realtà assoluta,che è una sola. Tuttavia, come Egli si accorgepresto, gli individui sono fortemente legatialle passioni ed al proporio Io, preda dellabrama e dell'ignoranza; di conseguenza larivelazione della legge suprema risulterebbe

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perfino dannosa. Ecco che il Buddha inventadifferenti veicoli, ad incastro, per condurrelentamente gli uomini al risveglio ed allacomprensione totali. Il sutra elenca treveicoli: i) Veicolo degli arhat (gli ascoltatoridella voce, i primi allievi del buddha i qualiudirono di persona i suoi isegnamenti). Questo èil Theravada, o Buddhismo degli anziani, legatoa concezioni ancora primitive ma giàracchiudenti in essa i semi di tutti i futuriprogressi. Come dici Abudlbaha, il seme ha giàin sè la quesrcia che sarà, e csì il buddhismoprimitivo porta in grembo più grandi e cosmicheconcezioni. A questo veicolo facciamo risalirel'insegnamente delle Quattro Nobili Verità - cherimangono una fondamenta del buddhismo - e laconceaione transitoria del nirvana comeestinzione. ii)Veicolo dei Pratyekabuddha. Conil termine pratyekabuddha si usa indicare chiraggiunge l'illuminazione con i propri mezzi,senza concorrere ad aiutare l'universo nella suacostante evoluzione. Naturalmente, il Sutra delLoto è molto esplicito nell'insegnare che con ipropri mezzi ed in via solitaria non èassolutamente possibile raggiungere il satori,tuttavia, come spiegato precedentemente, adalcuni individuo può servire appartarsi insolitudine per superare una certa fase delproprio cammino ed approdare poi all'ultimoveicolo. La legge della concatenazione dei

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dodici anelli (sulla quale meditano i buddhasolitari) è il concetto base di questo veicolo.Basilare anch'esso, ma solo in vista di una piùampia concezione dell'insegnamento buddhista.iii) Veicolo dei Bodhisattva. L'ultimo veicoloed il più completo. Non è molto chiaro, ma aduna prima analisi il Sutra sembrerebbe indicarequesto ultimo come il veicolo unico e principe,quello vero. Potrebbe anche essere, tuttavia,che sia solo uno dei possibili veicoli senzarappresentare la verità assoluta, che in quantotale non è possibile concepire se non attraversointerfacce temporanee. Qui si ha l'introduzionedella figura del bodhisattva, che è fondamentalenel buddhismo Mahayana. Il bodhisattva è coluiche rimanda la propria illuminazione totale, ilproprio diventare buddha fino a quando tutti gliesseri viventi di tutti i mondi saranno salvati.Qui sorge un paradosso. Anche il BuddhaSakyamuni è stato un bodhisattva ed ha fattop ilvoto di salvare tutti gli esseri... come alloraè divenuto Buddha? La risposta va trovata incapitoli successivi, dove viene svelata la veranatura di Sakyamuni.

Bodhisattva. Entra in campo a pieni terminiil concetto di amore altruistico e di beneelargito senza aspettativa di nessunaricompensa. L'insegnamento è che qualunque cosa,sia buona o malvagia crea karma e dunquerinascita; pertanto le azioni pie vanno compiute

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con assoluto distacco e fini a se stesse. Solocosì il saggio può raggiungere la divinità edaiutare gli altri a farlo. La sua praticareligiosa si basa su sei virtù:

1) Fare dono di sé. Offrire se stessi e leproprie azioni, ma anche donare cose materialiin quanto vista come pratica che diminuisce ilsenso di attaccamento. L'accentramento di beniconduce ad un forte attaccamento alla vitaterrena, con la conseguenza che il mondospirituale, prerogativo alla divinità, sfugge.L'huqullah, per intenderci, ha sia da una partel'utilità di poter sostenere la Causa, edall'altra la possibilità offertaci didistaccarci dall'attacamento ai soldi. ma ancheil dono della propria esistenza, in casiestremi, è vista come una virtù santificatadalla Divinità.

2) Disciplina. L'osservanza dei precettibasilari, quali: non uccidere, non rubare, nonmentire, non indulgere in azioni e pensieri chepossano addolorare il prossimo, e molti altri.Nella fede bahai significa attenersi alle virtùche sono elencate nel Kitab i Aqdas.

3) Pazienza. In ogni istante ed in ogniaspetto della propria esistenza bisognasforzarsi di essere paziente e tollerante. Amaggior ragione nella ricerca della buddhità.Sono due qualità che possono permettere diosservare le cose con maggiore lucidità e di

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prendere decisioni più ponderate. Esserepaziente vuole anche dire non lamentarsi.

4) Costanza. La pratica religosa non solonecessita di pazienza, ma anche di assiduità, dicostanza e sforzo. Ogni giorno sforzarsi direcitare la preghiera obbligatoria, di leggeremattina e sera i versetti sacri. Sono un inizio,ma se manteniamo questa condotta i fiorisbocceranno nel nostro cuore.

5) Meditazione. Potrebbe essere anche zazen,o preghiera. La pratica religiosa pereccellenza, cardine e fondamento di qualunquefede.

6) Saggezza. Argomento ostico da affrontare.Il termine sanscrito è Prajna e non basterebbeun volume per sercare solo di affrontare laquestione in termini generali.

Esaurito una prima esposizione dei treveicoli, venimao al secondo punto, profondamentebahai. La ciclicità del Sutra del Loto.

Come il racconto di manjushri ci fa inutire,ciclicamente il Sutra viene esposto da un buddhaed attraverso di esso la suprema legge vieneannunciata. Sutra e Legge coincidono, ed isingoli segni che manifestano visivamente ilSutra sono il corpo del buddha.Buddha=Legge=Sutra. Si prefigura lo scenario cheverrà meglio chiarito nel capitolo XVI.

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Per qaule motivo viene esposto ad intervallicosmici il Sutra? Quando la legge inizia adeclinare e si entra nel periodo di mappo(declino assoluto della legge) appare un buddhaad insegnare la suprema legge per salvare tuttigli esseri viventi.

E' chiaro che il secondo punto è in buonasintonia con quanto insegna la fede bahai. E,tenendo conto che il Buddha sakyamuni fu unamanifestazione divina, ogni conseguenza logicatende a conclusioni bahai. Ma non bisognacorrere.

Chi narra è Manjushri, il quale narra di unevento simile a quello che staaccadendo, ma chevide lo svolgimento interminabili eoni addietro.Egli, terminando il racconto, dice che sia luiche Maytreia erano allora presenti, ma con nomidifferenti. Reincarnazione, rinascita? No, e mispiego.

Quando Masnjushri era il bodhisattva Mioko,il Buddha Nichigatsu-tomyo rivolse a lui leseguenti parole:

"Tu sei l'occhio del Mondo,in te ognuno può credere ed avere fede.Tu puoi onorare e sostenere il Dharma,la Legge che io espongotu solo puoi testimoniarla."

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Parole forti, che indicano una primarietà diManjushri, il quale ha tre valenze, una mitica,una spirituale e l'altra umana.

1.Valenza mitica di Manjushri. E' larappresentazione della virtù per eccellenza: lasaggezza, intesa quale prajna e non conoscenzadi nozioni. La prajna è la conoscenza deldivino, che dischiude i cancelli del cuore eapre la nostra mente-anima alle dolci brezze chespirano dai giardini di Baha. Si ottine soltantoattraverso la pratica religiosa della preghiera-meditazione, della pazienza, del dono di sé, edell'osservanza dei precetti religiosi o decretidivini.

2. Valenza spirituale. Manjushri è lo Spirito Santo. Ovverosia l’emanazione energeticadivina, prana, archeus che dir si voglia. Se consideriamo la realtà divina come un sole, allora Manjushri è l’insieme dei raggi solari, la luce che innonda l’universo e che tutto pervade. O, ricollegandosi ad una parabola successiva tratta dallo stesso Sutra, è l’acqua del dharma che bagna ogni cosa.

3. Valenza umana. In questo caso è la manifestazione concreta e fruibile dai sensi, ovverosia vedibile everificabile, sperimentabiledella divinità.

In quest’analisi, ho voluto leggere il Sutradel Loto in un’ottica religiosa monoteistica,

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inquewsto caso quella Baha, che ritengo essere l’unica religione basata sulla Rivelazione che meglio di chiunque altra sia in grado di affrontare le problematiche sociali, cultirali epsicologiche del mondo in cui viviamo. Ma questo, forse, sarà l’argomento di una prossima discussione.

Milano, 12 novembre 2008

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3. La questione di Abramo

Sia gloria a Dio.Ed Abramo ricevette l’ordine di sacrificare

suo figlio al cospetto di Dio. Egli chiese,perché ciò? Onde provare la tua fede, gli disseDio.

Io penso che la prova sia stata duplice. E’possibile veramente credere che l’Oceano diVerità per un attimo solo abbia voluto il sanguedi quell’innocente? Ed è possibile che luiignorasse il fatto che una suo Profeta maiavrebbe potuto dubitare di Lui? Dove, allora, lanecessità del sacrificio? Quale lo scopo?

Dio non mise alla prova Abramo, in veritàEgli fece in modo che Abramo mettesse alla provaDio, iniziando non solo lo spirito, ma anche lamente alla verità universale. Per far ciò chieseall’uomo di sacrificargli il figlio, la cosa piùpreziosa che avesse al mondo. Abramo, allora,nella sua perplessità presumibilmente seguìquesto ragionamento: Questo Dio è arrivato danulla, si è proclamato come l’unico dio, haannunciato il mio obbligo a pregarlo e adessochiede come prova della mia fedeltà a lui lavita di mio figlio. Giammai dovrei fare unasimile cosa, foss’anche egli l’unico dioesistente; tuttavia, voglio metterlo alla prova:se egli non ferma il mio pugnale, allora lomaledirò e nessuna generazione a seguire si

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ricorderà di lui; se lo ferma, allora il miocuore sarà per sempre suo, e il cuore sei mieifigli e dei figli dei miei figli.

Dio voleva dimostrare ad Abramo di esserepace ed amore, e per riuscire in ciò condusseAbramo sulla soglia del più grande atto diamore: il sacrificio della propria stirpe; nonper vedere se Abramo portasse a termine il rito,bensì per fermarlo sul momento culminante emanifestare la clemenza divina: Io non hobisogno della morte di tuo figlio, Abramo, perconoscere la tua fede in me, ma tu doveviconoscere la mia clemenza per amarmi.

Dal canto suo, Abramo aveva bisogno dellaconferma che quel dio fosse Dio, affinchépotesse essere da quel momento e in poi il diod’Israele.

Ho voluto dare un’interpretazione diversadel famoso passo biblico e, in effetti, sipotrebbe benissimo spostare l’accentomaggiormente sul pensiero di Asbramo, sulla suadecisione di sacrificare il figlio per metterealla prova Dio. Magari insinuando che Dio nellasua onnipotenza non sospettasse questo pensierodi Abramo.

Come molti altri passi della Bibbia, leinterpretazioni sono molteplici.

Milano, 13 novembre 2008

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4. Natale

Scrivo queste note a un passo dallefestività natalizie.

Credete ancora in babbo natale, carebambine, convinzione che sia io che vostra madreabbiamo promulgato in seno alla nostra famiglia,consapevoli forse della bellezza di questo mito.Chiaramente, veràà un giorno nel qualescoprirete che non esiste nella realtàquotidiana, quella che tutti noi viviamo nolentio volenti, Babbo Natale. Non esiste nemmeno unpaese dove egli viva insieme ai suoi amici elfie folletti, tutto preso durante l’anno acostruire giochi.

Spesso, mi domando perché sia più facile farpassare per vero un mito come quello di B.N.piuttosto che parlare di Dio, di Gesù e diinsegnare all’interno della famiglia lareligione o la preghiera. Personalmente ritengoentrambi dei miti, e come tali non possonoessere etichettati con Vero o Falso, perché ilmito appartiene a un’altra categoriaconcettuale. Anzi, non è affatto una categoria,non almeno nel senso kantiano2 del termine. Delmito non si può dire che esista o meno,solamente che opera attivamente all’internodella nostra anima (pertanto, bisogna postulare

2 Kantiano: riferito al filosofo Kant, il cui pensiero ha

rivoluzionato il modo di intendere la conoscenza delle cose.

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l’anima come ente reale per concepire il mitocome operatore fattivo – ma detto in questitermini ammetto che perda molto di poeticità).

Essendo un mito, Babbo Natale esiste neinostri cuori, nel nostro amore, ed è per questoche io e la mamma vi abbiamo parlato di luiancor prima che di Dio. Essendo una figuramitica scollegata da strutture religiosecomplesse (anche se la sua origine sembra esserelegata a San Nicola) il suo valore è piùsemplice e immediatamente intuibile da unbambino. Babbo Natale è colui che porta i doninel giorno della gioia e del radunarsi infamiglia. E’ un momento di pace, di serenità, dicalore consumato nell’intimità della sferafamiliare. E lo spirito natalizio incarnato dalB.N. non è gravato da chissà quali sentimentialtruistici o caritatevoli; è un piccolo spiritoche si occupa di piccole gioie, quotidiane eprivate.

Avrete il modo e il motivo, crescendo, diampliare il vostro orizzonte etico. Per adesso,babbo natale assolve egregiamente il modesto manon insignificante compito di rendere il vostroNatale un giorno speciale ed unico.

Milano, 14 novembre 2008

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5. Giustizia e non vendetta

In questi giorni, i media (e mi riferiscoprecipuamente ai notiziari televisivi) hannoparlato spesso del processo imminenete agliimprenditori ritenuti responsabili dell’incendioalla famosa acciaieria Falk. Precisamente,ritenuti responsabili delle morte causatedall’incendio, in quanto sembrerebbe che lemisure di sicurezza e quelle antincendio nonfossero le più idoneo, ovvero fossero scarse enon verificate secondo un piano programmaticoben preciso, come vuole la normativa.

Comunque sia, sarà il dibattimentoprocessuale a far emergere la verità, o meglio,come sempre quando si tratta dei tribunali, avràla meglio ,a versione dei fatti che verààenunciata con maggiore coerenza e rappresentanzadi prove affidabili.

In merito non mi pronuncio, in quanto nonconosco bene i fatti e anche a conoscerli bene –attraverso i mezzi di informazione, ovviamente –non sarebbe mai sufficiente. L’esperienza mi hainseganto che quasi mai, se non proprio mai,l’esposizione dei fatti attraverso i mezzi diinformazione (mass media possiamo definirli) siarappresentativa di ciò che realmente è accaduto.Ritengo che i fatti, chiamiamoli pure i fenomeniche accadono nel mondo, non possono mai essereriferiti nella loro integrità. Già il

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raccontarli, per parola o scritto o anche permezzo visivo, ne altera l’autenticità. Ma questoè un altro discorso che magari affronterò piùavanti.

Ciò di cui vorrei parlarvi, ora, è delladifferenza che sussiste tra giustizia evendetta, ifferenza che oggigiorno parrebbeessere venuta meno. E lo faccio in riferimento,appunto, a ciò che le televisioni fanno vederesulla faccenda della Falk, che poi il vero nomesarebbe Tyssen; ma questo è un particolareininfluente. Influente, al contrario, sono leinterviste ai familiari delle vittime.

Nessuno puà mai capire fino in fondo ildolore di una persona quando perde un faro, ameno che tu non sia una persona similmentelegata a quel caro; e per quanto tutti nellavita affrontiamo presto o tardi la perdita dipersone amate, ciò non basta e non aiuta acomprendere e ad essere partecipe del dolorealtrui. Dunque non mi soffermo qui a giudicare isentimenti di sofferenza dei genitori e dellemoglie e dei fratelli degli operai mortinell’inendio dell’acciaieria. Piuttosto vogliomettere l’accento sulle parole e i commenti diqueste persone all’indomani dell’accusaformalizzata ad alcuni imprenditori dell Tyssen,accusa di omicidio colposo e concorso inomicidio. Accusa pesante, terrificante in ambitolavorativo. Accusa accolta dai parenti con quasi

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esultanza, gioia, esasperata soddisfazione;emozioni che innegabilmente lasciano trasparirei sentimenti di vendetta. Pià che giustizia èfatta, qui si tratta di vendetta è fatta, perchéla giustizia non deve punire chi a priori èconsiderato colpevole, e nemmeno ascoltare levoci colme d’angoscia e di dolore dei parenti.La giustizia deve essere talmente al di sopradelle parti che un giudice non dovrebbe esseresfiorato da coinvolgimenti emotivi, anche se ciòè impossibile, perché abbiamo un’anima e questaanima è una vera benedizione del divini. Ciònonostante, la giustizia deve essere lontanadalla vednetta, ed è per questo che i parentinon possono far parte del procedimentioprocessuale e ancor di meno dovrebbero essereintervistati onmde dar loro la possibilità diesultare o inveire o chiedere a voce altagiustizia, perché no, quella che chiedono non ègiustizia ma vendetta. Ed è comprensibile, ègiustificabile, è umano che la chiedano. E’giusto che sia così e non potrebbe esserealtrimenti.

Quello che dico è che non si tratta di unatteggiamento bello. E con bello, intendo Bello,perché il bello non è solo nelle forme, nellemovenzee nella musica, bensì anche nel modo diparlare, di pensare, di esprimersi, di estarnarei propri sentimenti. E dunque può essere belloanche il dolore, anche il pianto e la sofferenza

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se vissuti nella propria anima senza lanecessità di sbandierarli al mondo televisivointero, quasi pervasi da questa necessitàindotta di protagonismo, di visibilità. Come sefosse più importante la visibilità del propriodolore, della propria sete di giustizia-vendettache il dolore stesso, che la giustizia stessa.Come se fosse un diritto che la verità emergadagli atti processuali, un diritto dei parentiavere giustizia, avere questa sorta disoddisfazione, come se dopo ci si sentissemeglio, come se fosse un sostegno a sopportaremeglio il dolore della perdita dei cari.

E così, il sapere delle persone in prigione,come la legge vuole che avvenga se ritenuteresponabili, potrà confortare gli animiaddolarati? Ridurre la peerdita, o meglio lamorte di una persona a un medro peso dabilancia, per pareggiare i conti nella nostranima? Soffro due pesi, ma se quello vienecondannato allora soffritò solo un peso perchéeuqll’uomo in progione vale un peso.

Non è un diritto dei familiari averegiustizia. Non è una pretesa che possonoaccampare. Per quanto il dolore della perditasia enorme, si tratta di un dovere dello stato,innanzi tutto. Lo Stato ha il dovere di faregiustizia, questa è la verità. E il dovere èsempre più forte del diritto.

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Il dovere è l’assunzione di responsabilitàverso qualcosa o qualcuno, una persona, unasituazione o un principio. Il dovere è rendersiconto che ci sono imperativi morali, che inquanto esseri umani non possiamo condurreun’esistenza volutamente ignari del nostroprossimo. Il dovere è sapere essere coerenti conla parola detta e con la parola data.

E’ dovere dello Stato fare luce sugliaccadimenti ed era dovere degli eventualiresponsabili fare in modo che i sistemi diemergenza in caso di incendio funzionasserocorrettamente.

Milano, 18 novembre 2008

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6. Medicine alternative

Tempo addietro ebbi una serie di discussionicon alcuni miei colleghi, inerentil’accertabilità e l’affidabilità di alcunemedicine cosiddette alternative. Non si riuscìad arrivare ad una conclusione largamentecondivisa, ognuno rimanendo sulle proprieposizioni, per una serie di ragioni, più o menosensate. Vi accorgerete, affrontando lerelazioni interpersonali, che spesso se nonsempre è quasi impossibile fare cambiare idea aqualcuno, così come lo è cambiare la propria.L’umiltà di ammettere un proprio errore, ocomunque di rivedere una propria idea o tesi èun valore poco conosciuto e ancor menopraticato. E’ vero che Pound mirabilmente disseche se un uomo non si batte per una propriaidea, allora o quell’idea non vale nulla oquell’uomo non vale nulla; ma ciò non significaevitare a priori e sempre di rivedere unapropria posizione anche dopo un’estenuantebattaglia che ci ha visto perdenti.

Ci sono molte cose che non conosco, altreche conosco poco, alcune che conosco in manieraaccettabile e pochissime che conosco bene. Manon mi difetta il senso critico e il vizio dianalizzare bene le questioni, da più punti divista possibili, grazie all’amore per lafilosofia, al tempo che ho speso per studiarla

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al di fuori dei percorsi accademici, alleletture che continuamente faccio. E non è unatteggiamento mentale in contrasto con quanto viho spiegato nel primo di questi pensamenti (sulmito fondante necessario per lo sviluppo dellapsiche-anima) perché ritengo oramai da qualcheanno che poetica della vita e visionescientifica della vita possono coesisterepacificamente in quanto la nostra anima è ilfrutto di una realtà mitica che noiglorifichiamo nel nostro intimo, che alimenta lapsiche la quale non potrebbe trovaremanifestazione se non attraverso la mente(l’operatività di una parte del cervello) e ilmondo diciamo “materiale” (che comprende ilnostro corpo, ovviamente); il quale mondo puòessere investigato solamente dagli strumentimessi a punto dalla scienza in così tanti secolidi duro lavoro.

Anche questo è un argomento sul quale vorreitornare successivamente, in altro momento. Orami preme ritornare alla questione delle medicinealternative, alla discussione avuto con i mieicolleghi che per quanto tecnici di laboratoriorimangono fermi in posizioni del tutto estraneea una sana prassi scientifica.

Se il nostro organismo risponde a leggi benprecise (molte delle quali ancora da scoprire èvero, ma pur sapendo in anticipo che una leggedella natura non può che rispondere a criteri

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matematici e logici) che sono state formulate (oscoperte, anche qui altra discussione da aprire)secondo criteri metodologici condivisi da tuttala comunità scientifica, come è possibileintervenire medicamente su tale organismoattraverso interventi che non tengano conto diqueste leggi? Non solo, come tenere conto dimedicine che si basano su assunti assiomatici edogmatici, a volte vecchi di secoli se non dimillenni, che non possono essere verificati davalide e ripetibili sperimentazioni dilaboratorio?

L’omeopatia ne è un esemplare esempio. Nonstarò qui a soffermarmi in un trattato didivulgazione omeopatica, lasciando a voi ilpiacere di andare a cercare informazioni, se loriterrete opportuno, preferendo evidenziarel’aspetto del tutto pseudoscientifico di unabranca della medicina i cui cultori vogliono farpassare per scienza tout court. Senzaconsiderare il largissimo consenso che trova trala popolazione o tra la gente che dir si voglia.E’ incredibile come nella nostra societàoccidentale così ricca di opportunità direperire informazioni e notizie su pressochétutto, ancora ci siano vastissime sacche diignoranza scientifica. Anzi, di ignoranza diragionamento. A volte mi viene da pensare chesia più opportuno parlare di sacche di buonsenso perse in un mare di ignoranza. Che poi non

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è giusto, perché molte persone che conosco lequali fanno ricorso alle prescrizione di mediciomeopatici, non posso certo definirle ignoranti,anzi. Sembrerebbe che costoro abbiano necessitàdi credere in qualcosa che trascenda la scienzae la realtà, un loro mito, una sorta direligione, tuttavia non rendendosi conto che lareligione si fonda su un mito che deve essereconsiderato come realtà mitica dell’anima, edunque non solo non investigabile dalla scienza,ma neppure usabile come strumento di scienza.Questo è il punto fondamentale.

Eppure la psiche può influenzare la nostramente, il nostro umore, talora, forse, anche lanostra salute. Le emozioni e i sentimenti, sepur riconducibili a fenomeni biochimici, cipermettono di gioire, meravigliarci, amare esoffrire; pertanto non devono essere abbandonatinelle mani fredde della scienza, ma allevati omeglio riscattati all’interno di una narrazione,di un mito. Ma che non è, ripeto ancora unavolta, qualcosa di cui si possa dire è vero o èfalso, esiste o meno, è verificabile ofalsificabile. Il metodo della falsificabilitàdeve essere un felice strumento per demarcare lascienza dalla pseudoscienza; l’arte – dunque ilmito e la religione – non sono pseudoscienza, malo diventano se con essi si vuole proporre unostrumento alternativo per analizzare come è

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fatta la realtà e quali sono le sue dinamiche eleggi.

Ecco, dunque, che partendo da un discorsointorno alle medicine alternative sono arrivatoa definire i contorni di una più ampia einteressante discussione: come e perché nonconfondere l’arte con la scienza. E come eperché uno spirito ricco di arte e di scienza, ocomunque felicemente sensibile su entrambi icampi. Sia uno spirito Bello.

Milano, 20 novembre 2008

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7. I tarocchi

Ho iniziato lo studio dei tarocchi dagiovane, più o meno in concomitanza con le mieprime letture di magia cerimoniale e diesoterismo occidentale. Non ricordo esattamentequando nacque in me questa passione, più o menomentre frequentavo le scuole medie e sono sicuroche i primi testi li lessi mentre frequentavo laterza media.; ma cosa mi abbia spinto verso taledirezione non lo so, ameno che non mi rifacciaalla teoria del daimon.

Unitamente allo studio della magiacerimoniale, che alcuni chiamano ancheoccultismo o scienza occulta, mi dedicai anchealle prime letture sul buddismo, e per moltianni questi due interessi sono proseguitiparallelamente. Ultimamente, almeno mentrescrivo queste note, ho perso ogni interesse perle scienze occulte, mentre proseguo sempre nellostudio del buddismo.

Tornando ai tarocchi, nel corso degli annisono riuscito a comprendere e realizzare chesarebbe stato un errore continuare a vederli conun’ottica di studioso di essoterismo. Per quantonel secolo XIX siano stati spesso affiancatiallo studio della Qabalah (una forma esotericadel giudaismo, anche e si tratta di unadefinizione molto ambigua), mi sono accorto chehanno un profondo valore psicologico e mitico, e

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mi hanno aiutato in tal senso le letture di Junge Jodorowsky. E specialmente quest’ultimo èstata la guida che mi ha aiutato ad ampliare lavisione dei tarocchi quale compendio archetipicodell’essere umano.

Pertanto ci tengo precisare che i tarocchi,se da una parte possono ancora (e lo sono,purtroppo) usati ascopi divinatori, dall’altraparte sono dei mezzi terapeutici di valoresquisitamente psicologico. Le figure delle lame(o carte o arcani che dir si voglia) sonomiraboli simboli che se osservati con occhipoetici ci possono aiutare a fare luce sullanostra anima. Io stesso li uso a questo scopo enon vengono mai meno alla loro natura.

L’eesere umano è essenzialmente un animalemitopoietico, come avrò modo di dire spessevolte in questi pensamenti, e i tarocchi siprestano ottimamente ad evidenziare e stimolarequesta qualità; infatti una giusta e sincera edemozionante lettura delle carte si potrà daresolo se si sarà in grado di comporre unanarrazione partendo dalle lame uscite durante iltiraggio.

E più sarà complesso e ricco il racconto,maggiore sarà la possibilità che si possaapprofondire la nostra anima.

Io vi consiglio lo studio dei Tarocchi,possibilmente di quelli marsigliesi nellavariante proposta dallo stesso Jodorowsky.

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Milano, 25 novembre 2008

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8. Mio padre

Voi non avete conosciuto mio padre, ilvostro nonno paterno, e non so ancora adessodirmi se sia stato un ben o un male. In realtà,non so ancora adesso quale sia il mio verosentimento verso di lui, anche perché non ho maiaffrontato criticamente questo argomento. Trannequalche sporadica riflessione, dopo la sua mortenon ho avuto la forza per propormi di rivedere edi capire l’importanza e l’influenza dellafigura di mio padre nella mia vita. Non ne homai parlato e quando leggerete queste righe èprobabile che voi sarete le prime persone asentire le mie confessioni.

L’ambiguità del rapporto con mio padre nascein un momento preciso e continua tuttora, inquanto vado quasi costantemente a trovarlo alcimitero e tengo appesa al muro del mio studiouna sua foto (precedentemente appesa addiritturain camera da letto). I ricordi di porzioni dellamia vita dove lui è presente vengono spessorivisitati dalla mia coscienza, a volte con unforte senso di nostalgia e malinconia, a voltecon una certa perplessità, spesso concompassione. Mai con rabbia, anche se cisarebbero valide ragioni affinché ciò avvenisse.

Compassione e perdono; e comprensione.Questi i tre sentimenti principali che provoverso mio padre. Compassione per le sue

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sofferenze. Perdono per il suo comportamento.Comprensione come giustificazione di ciò chefece e disse.

Negli ultimi anni, se non mesi della suavita, quando il tumore oramai lo aveva invaso,era cambiato, forse ritornando alla sua veranatura che per molto tempo era stata deturpata efuorviata da quel giorno fatidico. Il giorno chei dottori finalmente sentenziarono la lorodiagnosi sulla malattia di mio fratello Daniele.

Ci sono giornate, inserite e sommerse nelnostro passato, che spiccano per un particolareche non potrà mai abbandonarci; una forteemozione, solitamente, legata a immagini oeventi, momenti di forti sensazioni, circostanzeche nel bene come nel male avranno la qualità dicambiarci la vita, oppure di modificarlasostanzialmente. Simili giornate sono come punticardinali, mattoni fondanti, e per chi amaritornare spesso nei propri ricordi, sono tesorida custodire con parsimonia, sia che portinoalla luce sofferenze, sia che faccianoriaffiorare piacevoli sensazioni.

Quella fu una di queste giornate. Avevo pocopiù di dieci anni e mi accingevo ad iniziare lescuole medie, l’adolescenza si stava affacciandoe l’infanzia arretrava, rimanendo nel limbodorato dell’età fanciullesca. Ricordochiaramente mio padre seduto sul bordo del lettoche piangeva e io impacciato nel tentativo di

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consolarlo. Solo ora capisco quanto inutilefosse e solo ora, padre come lui, comprendoquanto enorme e schiacciante possa essere statoil dolore.

Da quel giorno, lentamente, o forserepentinamente, non so, perché ora mi sfuggel’arco di tempo entro il quale casa mia sitrasformò in un luogo invivibile per me.Invivibile per chiunque. Mio padre diventavasempre più nervoso, irascibile e mentre ioentravo nell’adolescenza il clima in casa sifece teso, mio padre litigava continuamente conmia madre, urlava, bestemmiava, la insultava permotivi sempre e comunque banali. Quando uscivodi casa mi vergognavo nell’incontrare i vicini,perché supponevo che tutti sentissero le urla ele bestemmie di mio padre. E da sempre sonosicuro che la principale ragione della miaadolescenza solitaria e introversa e del miototale chiudersi sia stata il comportamento dimio padre. E pensando a mio fratello William,giusto riparlandone l’altro giorno con miamadre, del suo periodo negativo alle scuoleelementari ed anche del successivo bassorendimento scolastico alle medie e allesuperiori (tanto che non ebbe il desiderio diportarle al termine) come non posso orariportare tutto ciò al comportamento mio padre ealle nefaste conseguenze di due bambini increscita evolutiva?

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Il periodo delle mie medie fu sicuramente ilpiù terribile, poi non so se feci l’abitudine oaltro, ma sicuramente le cose non tornarono piùa posto, come si suol dire. Non nego chesuccessivamente, specialmente quando terminai lascuola, non nego che ci furono deimiglioramenti, ma è certo che il bel periododella mia infanzia non è mai più tornato. E daciò deduco che William, che l’infanzia l’havissuta nell’inferno, non ne abbia una bella daricordare.

Ma ciò non vuol dire che noi tre fratellinon ci siamo aiutati a vicenda, e che non siamostati uniti. Girammo l’Europa insieme, quandoancora Daniele poteva guidare e camminare esuccessivamente io e William uscivamo insieme,specialmente per andare al cinema. E con lamalattia di mio padre, con il tumore che locolse a sessant’anni, ebbi modo di vedere miamadre con occhi differenti, così come vidi miopadre non più con cuore astioso.

E’ difficile spiegare che malgrado tutto, hosempre amato mio padre e che forse l’ho perfinoperdonato e che ora tengo una sua fotografia eprego nei giorni del suo compleanno e della suamorte. E qui non nego nemmeno di pensare che iltumore venne come punizione, o meglio, comemalvagia fioritura del cattivo karmaaccumulatosi negli ultimi anni. Non unapunizione divina, giacché non credo che la

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realtà divina si occupi di giudicare esentenziare intorno alle faccende umane;piuttosto un’autocondanna, un giudizio che miopadre si è dato da solo, con il suocomportamento. E questo riguarda tutti noi,bambine mie. Siamo i giudici di noi stessi, eciò che facciamo ricadrà su di noi, inbenevolenza o in disgrazie.

Non voglio più aggiungere nulla, per ora,sapendo che sicuramente ritorneròsull’argomento, in questo mio rileggermi ilpassato.

Milano, 30 novembre 2008

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Prolegomeni successivi

Tempo addietro presi a modello l’Albero della

Qabalah, per ordinare la mia crescita spirituale

all’interno di una narrazione diaristica. Col tempo

l’entusiasmo si smorzò ed io fui preso da altre

incombenze e passioni. Terminai il primo volume –

coincidente con la sfera mistica di Malkuth – in

prossimità della mia conversione alla Fede Baha’i, dato

che ritenevo che quell’atto di immersione religiosa

potesse significare un importante passo di crescita e

maturità interiore.

In realtà le cose sono andate diversamente, ed ora

mi trovo ad iniziare questo nuovo volume del Diario

Assoluto subito dopo la mia rinuncia alla Fede sopra

menzionata. E’ passato quasi un anno, nel quale la mia

vita ha subito scossoni e raddrizzamenti. Ora,

presumibilmente, credo di essermi incanalato nella

direzione giusta… che è non avere nessuna direzione

giusta, bensì assaporare il mondo col cuore e vivere

l’attimo con gioiosità.

Questa nuova sfera mistica – detta Yesod (ed un

giorno disserterò un poco sull’Albero) – nasce e si

sviluppa in un incrocio di accadimenti che non mi

possono lasciare indifferente… tutt’altro! Li vorrei

elencare, giusto per far comprendere a me stesso che la

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vita è costellata di segni che è bene non ignorare ed a

maggior ragione trascurare.

Non sono elencati in ordine di importanza, dato che

l’ultimo è il fiore più bello del mio giardino. Qui non

si tratta di organizzare delle classifiche; si tratta,

piuttosto, di saper valutare la portata di ogni singolo

avvenimento ed il valore della loro coincidenza.

Una nota prima di proseguire. L’anno di sosta fra

una sfera mistica e l’altra mi ha visto impegnato a

compilare una sorta di diario di autoanalisi, una sorta

di percorso terapeutico basato sui principi rivelati nel

libro “La profezia di Celestino”, fra i quali quello

sulla fondamentale importanza delle coincidenze. Jung

parlava di sincronicità, ma non sono qui a fare una tesi

sullo sviluppo della psicologia. Ciò che conta è che

quel libro, per coincidenza (!), ha scatenato una serie

di eventi che mi ha condotto all’apertura di questa

nuova serie di riflessioni.

Ma voglio tornare ai tre accadimenti.

1- Rinuncia della Fede baha’i

2- Lettura del libro “Il codice dell’anima” di

Hillman

3- Il bambino che Barbara sta crescendo dentro di sé

-279-

Ne devo parlare adesso? Ne faccio argomento di

capitoli successivi? Non lo so. Adesso preferisco

rimanere in questo prologo come un piccolo poeta sui

sentieri di un placido giardino, magari sul ponticello

di pietra ad ascoltare il canto dell’acqua che fluisce.

La vita non è solo un dono… anzi non è proprio un

dono. la vita è l’unica realtà, è la verità

indubitabile, è la ragione che spiega l’universo. Non il

contrario. La vita esisteva prima dell’universo, ne era

il mito, l’archetipo formativo. Tutto questo, per

annunciare un cambio di registro che lascia sorpreso –

piacevolmente debbo ammettere – il mio spirito

razionale.

Voglio terminare dicendomi che questa nuova sfera

mistica mi induce a ripropormi differentemente

all’interno del nuovo volume del diario. Non più le

lettere dell’alfabeto ebraico, bensì il nome delle varie

fasi di crescita dell’adepto delle arti esoteriche ed

occulte: neophita, zelatore, practicus, etc.

Non posso che augurarti buon lavoro, Nataniele.

N.B.

-280-

Prima di iniziare ho piacere nel raggruppare quelle

poche riflessioni accumulate in questo anno di pausa tra

una sfera mistica e l’altra.

-281-

Introito all’altare della Sfera Mistica

Fiori di acqua e luce – 22 giugno 2000

Una nuova raccolta di poesie, per lodare e

commemorare l’importante svolta della mia vita. Ma quale

svolta?

Una svolta che comporta nuovi impegni, una maggiore

responsabilità, una riqualificazione del mio

comportamento, un sistema di riferimento che esige una

continua ricerca della verità.

Il 13 giugno, in un negozio di tappeti orientali,

alla presenza di due credenti, ho dichiarato di volere

essere ammesso nella comunità baha’i. La mia vita non

può più essere quella di prima, pur rimanendo

esattamente quello di prima. Quello che è accaduto, è

una rivalutazione. Consapevole del ruolo dell’uomo e

dello scopo della Rivelazione, non posso più guardare il

mondo con gli stessi occhi. Ecco che urge l’impegno di

ridisegnare la mia filosofia e di pormi dei progetti che

implichino la ricerca della verità. Essa, la ricerca, è

un dovere morale dell’uomo, che non può semplicemente

accettare una fede o un credo senza avere lottato e

studiato; ed anche dopo, non si deve rilassare ed

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abbandonare nella culla delle sacre scritture, ma

rimboccarsi le mani ed esplorare i vastissimi

possedimenti degli insegnamenti, per trovare sempre

nuovi percorsi.

Personalmente, sono interessato ad una rilettura dei

sutra buddhisti primitivi nella luce degli scritti

baha’i, e ad una nuova interpretazione del Dharma così

come è studiato nello Zen. Voglio portare gli

insegnamenti del Buddha nella luce di Baha’u’ullah,

collocando il Perfetto Risvegliato fra i Messaggeri

Divini la cui filosofia è ancora valida nella società

odierna.

-283-

Forse non si cresce mai – 4 luglio 2000

Nella vita non si impara mai nulla, tanto meno si ha

la possibilità di crescere, o modificare il proprio

carattere, e men che meno di migliorare, nello spirito,

nel carattere, nella moralità. Si nasce e si diventa

quello che si è, assolutamente senza scostarsi. Se si ha

l’impressione di cambiare, allora si è preda di

un’illusione; in realtà quello che succede è solo un

allineamento con la nostra vera identità. Prima si era

mendaci, artefatti, sbagliati, con lo studio, la

ricerca, la meditazione ci avviciniamo al nostro io, ci

identifichiamo con esso, diventiamo esso e finalmente

nasciamo per quello che veramente siamo. Dunque, non

cambia nulla, solamente ci si avvicina o ci si allontana

dalla propria identità.

L’identità è il nostro Io. Quando nasciamo, esso è

ben preciso e nitido, ma noi non lo conosciamo, lo

ignoriamo e se il nostro karma è favorevole, forse

abbiamo la possibilità di iniziare una ricerca di esso;

prima di avere di lui una intuizione, in seguito di

iniziare una questua, meticolosa o superficiale. La

nostra vita è tutta qui, capire che abbiamo un Io, e

cercare di allineare la nostra vita su di esso.

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Ma questo Io, mi chiedo, ha un valore morale, dei

parametri caratteriali, insomma qualità, positive o

negative che siano? Se non lo conosciamo, come facciamo

a cercarlo? E se fosse una pura illusione? Ed il karma,

in che misura rientra nella relazione Io e corpo?

Bisogna ristrutturare tutto. Allora, esiste il sé,

del quale nessuno sa niente. Esso è già quando nasciamo,

ma non è l’anima. Il Sé è la nostra vera natura, la

natura autentica, quello che siamo e che dobbiamo

riscoprire, perché la società lo ricopre di illusioni.

Poi abbiamo l’ego, che è frutto del karma. L’ego è

quello che siamo in apparenza, la forma, ciò che vediamo

a prima vista in un nostro simile, così come in un

animale, od in una pianta. Anche l’universo ha un ego,

ma è molto più difficile distinguerlo dal suo Sé.

Il Sé è l’essenza, l’Ego la forma. Il karma è

l’effetto delle nostre azioni, la nostra manifestazione

nella realtà concreta, immanente. Ciò che diciamo,

pensiamo e facciamo (le opere con il corpo) modifica la

realtà, in modo minimo o massimo. E’ il karma. Il karma

dei nostri genitori ha parzialmente effetto su di noi,

conseguentemente è giusto dire che una parte di loro

rinasce in noi, e non solo geneticamente. Il nostro

karma lavora sul nostro Ego, ma non sul Sé, che è già

quello che è.

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L’anima è la natura divina, è una bolla spirituale

collegata al nostro Ego (corpo è Ego) che si forma al

momento della nascita e cresce fino alla morte del corpo

fisico. In quel momento avviene un trapasso. La

coscienza (il residuo della nostra esperienza) trapassa

nell’anima, ed inizia una nuova vita.

In realtà, le cose non avvengono così. Io non so

come avvengono. Baha’u’llah ha le idee chiare, come suo

figlio e diversi altri illuminati. Io ho solo due

possibilità: o affidarmi alle parole del Messaggero, o

iniziare una ricerca seguendo le sue indicazioni, ma

basandomi soltanto sulle mie forze. La seconda è quella

che preferisco. Certo, ogni tanto potrei chiedere un

conforto alla Divinità, il Gloriosissimo, ma non voglio

fare affidamento su di lui: mi ha dato abbastanza forza

per arrangiarmi da solo.

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Nitsche ha sbagliato tutto – 5 settembre 2000

Sono passati alcuni mesi, per me un arco di tempo di

riflessione. Una parte di questo diario è dedicata allo

studio delle dieci illuminazioni, dato che ho intravisto

nel lavoro di Redfield del buon materiale di lavoro.

Adesso sono qui per parlare di Nitsche, il pensatore

e filosofo tedesco. Sto leggendo il suo “La volontà di

potenza” e mi sono accorto che il grande filosofo parte

da presupposti completamente sbagliati. Per questo tutto

quello che ne segue è errato; tuttavia non si può negare

a Nitsche il merito di avere scardinato l’ipocrisia

della civiltà occidentale, la falsa morale che ci sta

corrodendo da dentro. Ma sbaglia nel considerare il

nichilismo come la conseguenza di due millenni di

cristianesimo, come l’effetto, il contraccolpo di un

atteggiamento umano lontano dalla legge dell’andare al

di là del bene e del male. Nitsche considera l’intera

morale un’invenzione della civiltà corrotta cresciuta

nel cristianesimo, e come tale non corrispondente alla

realtà, non vera, e dunque superabile. Nitsche parla di

ceti bassi e medi che innalzandosi hanno causato

deturpazione e a lungo andare il nichilismo.

E’ vero, il nichilismo, l’esaurimento nervoso e

psicologico, la caduta dei valori, sono una diretta e

forte conseguenza di secoli di morale imposta e non

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sentita nel profondo. Questa verniciatura ha portato

alla commedia, ovverosia alla recita di palinsesti in

cui nessuno crede.

Per descrivere bene questa situazione di lassismo,

Nitsche pone una similitudine con il buddhismo.

Chiaramente, Nitsche non sa nulla del vero buddhismo;

evidentemente ai suoi tempi gli studi degli insegnamenti

del Buddha erano a livelli bassissimi.

Non solo, Nitsche, come qualunque altro pensatore

occidentale, di ieri e di adesso, confonde l’occidente

con l’intero mondo. L’occidente che ci culla è un’isola

di felicità, una porzione minima che ben poco ha in

comune con il resto del mondo. Esistono civiltà e

culture che non contemplano sistemi di pensieri simile

al nostro e dove i parametri morali ed etici sono

dissimili, a volte alieni. Per questo, in vero, non

esiste un nichilismo, se non nella civiltà occidentale.

Noi parliamo, consideriamo, analizziamo, ponderiamo e

forgiamo complesse teorie sociali e filosofiche… ma che

ne sappiamo del Butan? O cosa pensano gli aborigeni

australiani del comunismo, di Dio e della pensione?

Fortunatamente non esiste solo l’occidente, e non lo

dico perché non mi piace viverci… anzi, non saprei come

farne a meno! Lo dico perché le nostre previsione

risultano invariabilmente errate. Scommetto che Orwell,

che tanto temeva il comunismo, nemmeno gli passò per

-288-

l’anticamera del cervello che l’Europa sarebbe stata

sommersa da un’ondata di migranti nordafricani.

Un saluto.

-289-

Frammenti di illuminazioni – 11 settembre 2000

Spesso capita, fenomeno ignorato e sottovalutato –

d’altronde viviamo in una società consumistica dove le

rivelazioni dell’istinto non sono considerate, e,

dall’altra parte, tutti si gettano sulle apparizione

miracolose che sono solo allucinazioni di massa – magari

ascoltando della musica, o guardando un bel panorama, o

leggendo un libro, di sentire improvvisamente una

profonda chiarezza attorno ad un argomento che ci

angustiava. In verità, queste meraviglie accadono nella

congiunzione di due sensazioni, di due esercitazioni dei

nostri sistemi sensoriali (nel senso buddhista del

termine, s’intende); quando cioè si riflette

sull’argomento in questione nel mentre si ascolta una

particolare musica o ci si trova immersi nella natura

incontaminata. Insomma, le condizioni possono essere

molteplici, e differenti da individuo ad individuo. Ma

il risultato è identico: l’improvvisa illuminazione.

Certo, bisogna essere sinceri, ed affermare che sono

illuminazioni d’importanza secondaria, e che spesso si

perdono nel tempo e nella coscienza (od incoscienza?).

Capita che cammini, ed improvvisamente comprendi la

frase criptica di un maestro, o il significato delle

stelle, o più banalmente le profonde implicazioni di

-290-

un’affermazione apparentemente senza senso, o di una

semplicità che ha del quotidiano.

Oggi, mentre mi sedevo, improvvisamente ho capito

per quale ragione è stato Ryusui Roshi ad ereditare il

Dharma dal maestro Deshimaru. Semplicemente, ha

sviluppato un suo zen, molto particolare, oserei dire

geniale. Chi pratica zen sembra essere fatto con lo

stampino, un sacco di citazioni in testa, il sorriso

ebete in faccia, la testa rapata… le solite cose,

insomma. Ryusui Roshi è diverso, non cita, non ha la

testa rapata e ride solo quando bisogna ridere. Parla

del Dharma senza parlare del Dharma. Ecco per quale

ragione a lui Deshimaru Roshi ha consegnato il Sigillo.

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PARTE PRIMA

La verità non è istituzionabile (30/04/01)

Per alcuni mesi ho creduto, o meglio cercato di credere che la verità possa essere espressa all’interno di una istituzione. Naturalmente mi sto riferendo alla verità metafisica, o trascendentale… alla verità che spieghi l’universo non nella sua modalità (per questo abbiamo la scienza) bensì nella sua essenza (posto che abbia un’essenza) nella sua ragione prima ed ultima di esistere. Ho creduto di ravvisare ciò nella Fede Baha’i, ma ora, dopo attenta analisi, mi accorgo che i motivi erano ben altri.

Bisogna sempre essere sinceri con se stessi, per

quanto questo possa essere causa di sofferenza e

disagio. In questo caso, l’esame riflessivo che mi sono

imposto a rilevato la causa principe della mia

conversione alla fede suddetta. La ricerca della verità,

purtroppo non ha nulla a che fare, dato che rimango

legato (e lo sono rimasto nella mia breve vita di

baha’i) alla visione buddhista dell’universo. Il motivo

era semplicemente quello di rompere la tradizione

cattolica, di slegarsi dai falsi ed ipocriti costumi

della società italiana. In particolare, mi riferisco al

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battesimo, perché è da quando abbiamo deciso di cercare

un figlio, che mi angustio sul fatto del battesimo.

Il battesmo è un rituale oramai svuotato della sua

sacralità, imposto ad un incosciente da persone che per

la maggiore non credono nel dio cristiano, o ci credono

solo per costume. Personalmente, andare all’altare con

mio figlio tra le braccia di mia moglie, affermare di

credere in dio padre ed in suo figlio sono gestualità e

verbosità senza senso. Tuttavia, sono ben consapevole

degli ostacoli cui posso andare incontro annunciando

questo mio pensiero. Già una volta mia moglie mi ha

fatto notare che la tribù dei bambini potrebbe isolare

nostro figlio, se non fosse battezzato. Io non credo che

ciò possa accadere, anche se sono consapevole che la

possibilità esiste. Ciò che pavento maggiormente, è

l’incomprensione della mamma di Barbara, così

apparentemente legata alle tradizioni. ma, in ultima

analisi, che senso fare battezzare un bimbo da genitori

che non credono nella fede cristiana e cattolica in

particolare?

Ecco, mosso dalle riflessioni sopra riportate, fui

spinto a convertirmi alla Fede Baha’i. Successivamente,

i malintesi nati con Barbara e non per ultimo la mia

idiosincrasia per le istituzioni religiose e idee

personali non collimanti con la rivelazione di

Baha’u’llah mi hanno spinto a rigettare la fede.

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Ora vivo in una situazione quasi angosciante. Certo,

formalmente rimango un bahai, ed è questo che dirò al

prete quando Barbara mi costringerà ad andarci a

parlare. In ciò sarò fermo di proposito.

La religione, per tornare al titolo di questa

riflessione, cosa mai è se non l’approccio della nostra

anima all’anima del mondo? Se non la risposta che ognuno

si dà ai dilemmi che l’animo umano si pone da millenni?

Ognuno ha la sua risposta, ed omologarla e rinchiuderla

in un’istituzione con le sue regole ed organi è

deprimente e squallido; non solo, è quanto mai

antiproducente, perché limita la sensibilità e la

creatività dell’individuo. La rivelazione può essere uno

specchio della verità, e forse un dio, o il dio unico,

ha parlato all’uomo per trasmettergli la sua verità, ma

ciò non toglie che piegare la propria mente ed il

proprio spirito ad un insieme di conoscenze sia una

sorta di impastoiamento della creatività umana… e la

creatività è la qualità che fa dell’essere umano un

essere speciale.

Io non nego la veridicità della Fede Baha’i,

tantomeno la sua validità sociale. Semplicemente, la mia

visione religiosa è una visione mitica e poetica, che

necessità dell’assoluta libertà di inventare nuove

configurazione di simboli e miti, di iniziare nuove

mitopoiesi. Postulata l’esistenza di Dio e la sua

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Rivelazione, rimane fatto ineludibile la sua assoluta

libertà di pensiero, che tende all’indipendenza da credi

preconfezionati.

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L’anima che è noi (03/05/01)

Non bisogna negare l’anima.

Bisogna imparare a ragionare evitando di utilizzare

gli strumenti cognitivi modellati dalla civiltà

occidentale, e mi riferisco alle meccaniche logico-

verballi, al raziocinio. E’ tempo che l’uomo guardi se

stesso – e di conseguenza il mondo – con gli occhi del

bambino, con la meraviglia del bambino. Mi voglio

spiegare ulteriormente.

Per secoli, dalla rivoluzione rinascimentale,

l’occidente ha posto barriere tra la fantasia,

l’immaginazione da una parte e la logica (sinonimo di

verità) dall’altra. La religione è diventata questione

di fede dogmatica ed una valvola di sfogo per sedare le

angosce per ciò che il raziocinio non spiega. Abbiamo

definito i miti come favole e leggende e costruito la

nostra storia su basi prettamente causali e matematica

(siamo il prodotto, anzi, il risultato di azioni e dna e

fattori ambientali). Tutto ciò che comportava il mondo

dell’immaginazione è stato alienato nel suo limbo, come

diversivo ed evasione. Il mito è diventato evasione – ed

io mi riferisco al mito non nell’accezione postmoderna

tanto cara alla società consumistica, dove non è che la

rappresentazione del modello ideale di vita. Io parlo

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del mito come lo intendevano gli antichi greci… e come

lo intendono ancora adesso gli aborigeni australiani. Il

mito come serbatoio del nostro essere uomo. Come origine

dell’uomo.

L’anima va ripescata da questo serbatoio, e mondata

dai preconcetti scientifici e religiosi (e qui mi

riferisco alle fedi di ceppo abramico). Non ci servono

prove scientifiche, per ciò, perché non v’è nulla da

verificare. Ricominciamo a guardare il mondo con occhio

infantile, per scoprire la meraviglia, ed essere come

quegli esploratori medioevali, come i mercanti sulla

vita della seta che tornando dai paesi dell’oriente

parlavano di tetti d’oro, uccelli giganti e donne dalle

innumerevoli mammelle. Riprendiamoci i miti che abbiamo

cacciato, e riconquistiamo gli déi. Jung diceva che gli

déi sono diventati malattie. Io dico che abbiamo ucciso

gli déi ed essi sono ritornati sottoforma di malattie

(mentali), vizi peccati. Ridiamo l’anima al mondo.

Abbiamo un’anima, non concepibile razionalmente,

essa proviene dai miti, dagli archetipi, ed essa è la

nostra vera natura. Essa ci rappresenta e si esterna

attraverso le emozioni ed i sentimenti. La sua è

un’esistenza prettamente artistica, creatrice e di

improvvisazione; nostro compito è ridarle dimensione,

scoprire il suo ruolo nel mondo e vivere la vita come

un’avventura, come una sperimentazione teatrale.

-297-

Il mito dell’anima… non è affascinante, questa

frase? L’anima, questa entità astratta, incorporea,

questa illusione. Ma cosa è un’illusione? Non esiste

l’illusione, tutto è verità, tutto si concretizza in noi

e dato che noi il risultato dei nostri pensieri, delle

nostre azioni, dei nostri sentimenti… non è sciocco

ridurre le illusioni, le chimere, i sogni a mere

fantasticherie? No! Esse sono il pane dell’anima. Di

più, esse sono le parole dell’anima, il suo parlare, il

suo dire, il suo essere.

Il mito dell’anima. Parliamone, allora,

proclamiamone l’esistenza, facciamone un novello

vangelo… ma no! Non esiste la rivelazione, non esiste un

dio creatore staccato dalla sua creazione. Gli dèi sono

i canali energetici dell’universo, sono nati con lui e

moriranno con lui. L’universo è più meraviglioso di

quanto scienza e religione rivelata ci insegnino, non è

solo la conseguenza del big bang, non è solo la

creazione di dio… è la manifestazione del mito. E’

l’espressione, il parlare dell’anima universale, la sua

continua improvvisazione, è il percorso del mito nelle

leggi fisiche. E la nostra anima è uno specchio, od una

figlia, od una goccia di quest’anima universale, di

questo Grande Spirito, di questo Brahaman… ma

attenzione! Non è un dio creatore e legislatore,

separato dalla sua creazione. E’ la creazione stessa,

-298-

così come noi siamo la nostra anima che si manifesta,

siamo l’anima stessa che inventa ed interpreta il suo

mito.

L’anima è un’immagine archetipica, come tale non ha

una collocazione precisa, non ha proprio collocazione.

Non esiste una dimensione dell’anima, se non quella del

mito. Dobbiamo sforzarci di pensare diversamente, di

ideare nuovi approcci al mitico che è in noi… anzi, dirò

di più, nuovi approcci all’esistenza in genere. La vita

è un’esplorazione del meraviglioso, cerchiamo di essere

come gli esploratori medioevali. Come gli studiosi

medioevali, che immaginavano animali chemerici e

catalogavano con criteri irrazionali.

Il mondo ha bisogno di occhi da bambino. ha bisogno

di ingenuità.

-299-

La sacralità della vita (07/05/01)

Barbara ha comprato un libro divulgativo sulla

gestazione e tutto ciò che è legato a ciò in ambito

emotivo, affettivo, alimentare ed altro ancora. C’è un

disegno - un quadro illustrativo – che mi ha colpito

notevolmente. Sono rappresentate le varie fasi di

sviluppo del bambino (infans, è chiamato nel testo),

dallo stato embrionale, a quello fetale fino al momento

del parto. Ho scoperto che a otto settimane, la creature

ha già un abbozzo di arti, la testa, il taglio degli

occhi e naso e bocca comunicanti. Il suo cuore batte (è

la prima cosa che accade, e questo dovrebbe indurci a

riportare l’attenzione sul significato del termine

cuore), il suo cervello inizia a formarsi, ad occupare

spazio. La differenza tra stadio embrionale e quello

fetale deriva dalla convinzione che il feto è

interamente sviluppato in tutti i suoi organi, e nel

proseguire della gravidanza non fa altro che aumentare

di grandezza. E’ sicuramente così… ma definire

l’embrione non come una forma di vita da rispettare e

proteggere per via della sua incompletezza è

abominevole. Il fatto che è possibile condurre un aborto

fino a quando sussiste lo stadio embrionale è un'azione

omicida. Fin dal momento del concepimento, il bambino è

-300-

completo nel suo corredo cromosomico, l’anima è scesa

nell’utero materno, la vita ha avuto inizio. L’idea di

strappare quel corpicino di pochi centimetri – se non

millimetri – dal grembo di Barbara e gettarlo nella

spazzatura, o congelarlo, o rinchiuderlo in un barattolo

sotto spirito in attesa di essere studiato, o destinato

all’incenerimento… mi ributta, mi disgusta, mi deprime.

D’altra parte, capisco l’importanza dell’aborto legale

come tentativo di controllare ed amministrare

un’operazione che avrebbe continuato ad essere

perpetrata nella clandestinità. Ci tengo solo a

puntualizzare un concetto rigoroso: la sacralità della

vita. Abbiamo perso questa nozione, così come abbiamo

perso la nozione della responsabilità, e del sacrificio.

La civiltà occidentale sta lentamente sostituendo

antichi valori con falsi miti che nella loro sfolgorante

falsità ci abbagliano e ci attirano, nessuno escluso.

In natura la vita è sacra, anche se in una

prospettiva difficile da comprendere dalla nostra mente

oramai aliena a ragionare per termini che non siano

logico-utilitaristi-edonisti. In natura, una creatura

anormale o debole non sopravvive al parto, e ciò è

necessario per la sopravvivenza della specie. Noi

abbiamo eliminato la selezione, nel rispetto di etiche

che negli ultimi secoli si sono via via sviluppate. Ciò

non vuol dire che la vita non è sacra in natura, mentre

-301-

lo è nella società umana evoluta. E’ vero il contrario.

Cercherò di spiegarmi, mostrando come potrebbe essere la

vita di una piccola società umana che abbia rinunciato

ai benefici della civiltà occidentale e ritornata al

contatto pieno con la natura.

La gravidanza viene seguita e protetta, l’infante

nasce, è allattato, custodito, allevato. Se è debole,

troppo, o anormale, egli morirà, la sua anima ritorna

nei lidi uranici in attesa di ridiscendere. I genitori,

che hanno amato il loro figlio, rimettono quel corpo nel

ciclo della natura in modo che la vita non si

interrompa. La sofferenza genuina è integrata nella

spiritualità verso la natura. Un ‘uomo è colpito dal

cancro, viene accudito, amato, col tempo egli aspetta la

morte con serenità e la comunità rende dolce il suo

trapasso: un’altra anima torna indietro, un altro corpo

viene cremato e le ceneri rimesse alla natura. La vita

non si interrompe. Se un bambino esce a giocare, solo

per acquisire responsabilità ed esperienza, e dopo un

grave incidente muore, ancora una volta un’altra anima

che va ed un altro corpo donato all’eterno ciclo della

vita. Tutto ciò non estingue il dolore, la sofferenza,

l’amore, la passione, le cure mediche… tutt’altro!

Questi sentimenti assumono il loro vero significato.

Esiste il senso di responsabilità.

-302-

La civiltà occidentale ha la miocentesi per

eliminare immediatamente le eventuali anomalie,

dimenticando la responsabilità dei genitori verso la

creatura che hanno concepito anomala, dimenticando il

mito (mito come vocabolo positivo, ricco di significato

educativo) dell’anima che avendo scelto dove nascere per

adempire il suo scopo ha il diritto di nascere a meno

che non sorgano impedimenti naturali; ha l'aborto per le

gravidanze indesiderate o non programmate, dimenticando

che la vita non la si programma, non è cosa

indesiderata, ma un evento sacro in quanto riflette la

manifestazione delle energie dell’universo, del volere

degli déi; impone subdolamente il monitoraggio dei

nostri figli con telefonini, controlli a vista sempre

più oppressivi, eliminazione quasi totale dei momenti di

svago indipendenti (nei bambini), dimenticando che il

rischio, l’incidente sono parte della vita

indispensabile e che cercare in tutti i modi di

prevenirli morbosamente porta ad uno sconvolgimento del

significato stesso di vita e di vivere.

Noi siamo creature poetiche, sentimentali, preda di

emozioni. E’ la nostra natura, pertanto è bene non fare

nulla - o comunque non troppo – nel tentativo di

eliminare quei sentimenti spiacevoli in favore di quelli

piacevoli. Alimentare la felicità, la gioia, l’amore e

cercare di sopprimere il dolore, l’angoscia, la

-303-

tristezza è un tentativo maldestro, primo perché l’amore

ha ragione di esistere in presenza dell’odio, e così via

con gli altri; e, secondo, come notiamo si è scambiata

la felicità di vivere con l’accumulo di denaro e beni,

causando una perdita dei valori sacri della vita. In

realtà, amore, gioia, piacere non sono in antagonismo

con odio, angoscia e dolore… tutti quanti hanno la

stessa importanza nel gioco della vita ed assumono

qualità negative o positive a seconda di come noi

assumiamo atteggiamenti nei confronti della vita. Tutto

può essere solo amore, ma non cercando di sopprimere

l’odio, bensì vivendo nel rispetto del prossimo; o può

essere solo piacere cercando di non confondere il

piacere solo con il benessere fisico ed economico.

-304-

Ritorno al divino (22/06/01)

Ritenevo di avere raggiunto un risultato, in merito

alle mie esigenze spirituali; evidentemente ancora non

sono in grado di comprendere appieno questo aspetto

della mia personalità… o della mia anima, dovrei dire

(ma cosa sia anima, personalità e carattere è un

argomento talmente vasto e basilare che sarò costretto

ad affrontare prossimamente). Ripercorrendo a ritroso i

miei passi, mi sono ritrovato ben presto di fronte al

mistero della divinità, che si rispecchia – od è

rispecchiato – dal mistero della vita (checché ne dicano

gli scienziati, la vita rimane comunque un mistero,

almeno nella sua forma causale, se non modale).

Ovverosia – giusto per essere chiaro con un eventuale

remoto lettore - ho rivalutato la mia decisione di

abbandonare la fede baha’i.

Se qualcuno dovesse osservare ed analizzare le mie

decisione sulla religiosità come elemento della mia

esistenza – che definirei breve e poco profonda –

chiaramente si farebbe del sottoscritto un’idea poco

positiva, e sicuramente con conclusioni non di certo a

favore di una coerenza di comportamento che dovrebbe

distinguermi (così ho sempre sognato). Non esiste

coerenza nel mio rapportarmi alla religiosità. Ora

-305-

rinuncia, ora mi dedico con fervore, ora annuncio un

ferreo scetticismo, ora analizzo il fenomeno, etc.

Potrei dire di non avere le idee chiare a proposito

delle mie esigenze spirituali… se la spiritualità fosse

solo un gusto, come quello di un certo tipo di pietanza,

od un capriccio sulla falsariga dei capricci

adolescenziali od anche sì adulti (e inculcati e di

seguito stimolati dall’opulenza della società

consumistica che manteniamo). Al contrario, credo che

questa atteggiamento sia indicatore di uno spirito

genuino di ricerca e di una mente scevra da

condizionamenti ed influenze esterne.

Dubitare, cambiare idea, angosciarsi intorno ad una

questione spirituale – nonché filosofica – è azione

degna e rispettosa. L’anima è in movimento, è alla

ricerca del suo centro di gravità (aggiungerei

permanente, citando la nota canzone di Battiato).

Definirei la mia vicenda con la spiritualità un spirale

che lentamente mi condurrà alla fonte divina, ma che

esige un percorso circolare e ciclico forse ampio quanto

la mia vita. Poco importa, fino a quando saprò con

certezza che è la mia libertà mentale ad assicurarmi

questo ciclico cambiamento di idea.

Non ultimo, mi sento in dovere di aggiungere, a

conclusione di questo brevissimo intervento, l’annuncio

-306-

della gravidanza di Barbara (ed adesso siamo al quarto

mese), mi vede costretto ad imporre un regime etico alla

mia esistenza… e qui si apre una nuova discussione.

Ora, è tempo di dormire. Sono le ventiquattro, ed il

colpo di tosse di Barbara a letto, è un invito a

staccare per andare a coricarmi. Buonanotte..

-307-

L’intelligenza dell’evoluzione (18 luglio ’01)

Nella vita, spesso capitano delle piccole

illuminazioni. Sono attimi fugaci che il più delle volte

si dimenticano, soffocati dalle molteplici esigenze

della quotidianità e del vivere sociale. E’ un peccato,

dato che possono riguardare verità importanti, o

faccende sentimentali, o meccaniche sociali… ed altro

ancora. Io me ne ricordo qualcuna, specialmente un

lontano giorno del millenovecentonovanta, durante una

lezione di karate-do. La tecnica era gyaku-tsuki, e

nell’eseguirla improvvisamente compresi come avrei

dovuto farla per renderla più efficace… ma non solo.

Compresi l’importanza della tecnica nell’ambito del

karate-do.

Questo è un esempio di poco conto, ed i microsatori

sono fratture luminose che coprono tutto l’agire ed il

sapere umano. Ritengo che solo attraverso e grazie a

questi istanti gli scienziati gettino le fondamenta

delle loro scoperte. Così come poeti ed artisti e

musicisti si rifacciano ai microsatori nel forgiare le

loro opere, come se fossero spunti miracolosi.

Cosa ne decreti il sorgere, sinceramente mi sfugge.

Ci vorrebbe, appunto, un microsatori! Scherzi a parte,

questa nota non è per studiare il fenomeno, bensì per

-308-

riportare la riflessione nata da una folgorazione, pochi

giorni addietro.

Un documentario. Il ghepardo, la sua struttura

muscolare ed ossea, la sua nicchia ecologica, la sua

evoluzione, il suo manto… Andiamo per ordine.

Scientificamente, si sa, è accertato che la natura

progredisca secondo il meccanismo dell’evoluzione: nel

regno animale, le specie migliorano per competere sul

territorio. Il miglioramento è, in sinetsi, una modifica

strutturale che tende all’efficienza massima. Nella

fattispecie del ghepardo, l’evoluzione ha beneficiato

questo felide cacciatore di alcune peculiarità, quali la

capacità di raggiungere altissime velocità (100/110 km

orari/ ed un manto maculato per mimetizzarsi nella

savana. In realtà, altri animali hanno sviluppato una

mimetizzazione migliore, ma è proprio osservando il

ghepardo che il satori mi ha visitato. Dunque, sia il

ghepardo.

Asserire il meccanismo dell’evoluzione, vuole dire

accettare che una data specie si sia modifcata nel corso

di millenni. Nel caso del ghepardo, vuole dire affermare

che il manto del ghepardo, nella specie dalla quale

deriva, era differente, probabilmente non maculato. La

maculazione successiva, è la risposra ad un'esigenza di

adattamento. La tecnica di predazione dell’animale

-309-

esigeva una mimetizzazione particolare. Poteva

essere uniforme, come nel caso del leone, ma sarebbe

reisultata inadeguata relativamente alla grande

velocità; infatti, un proiettile lanciato a d alta

velocità risulterebbe visibilissimo, se di colore

uniforme. Ma provate ad immaginarvelo a chiazze, tale

che nella velocità si venga a provare un effetto quasi

labirintico, dove i contorni sfuggono.

Fino a qui, tutto logico e facile... Ma, e c’è

sempre un ma, come è potuto accadere una cosa del

genere, per quale ragione l’evoluzione del ghepardo è

risultata differente da altri predatori che condividono

con lui lo stesso territorio (la savana)? E’

l’evoluzione intelligenze, è la consapevolezza

dell’universo. SeA=A eB=B,alloraA B

Questo è quello ci insegna la logica. Quando A si

avvicina il più possibile a B, significa che

l’evoluzione ha spinto il manto del ghepardo a duplicare

non tanto il colore della savana, quanto il contrasto

dei colori nella savana: chiaro dell’erba e scuri delle

ombre, in modo tale che nella corsa accade quanto ho

spiegato sopra. Affinché ciò avvenga, tuttavia, mi pare

indispensabile che un sistema di controllo esterno al

ghepardo ed alla savana faccia in modo che la

conformazione pigmentata del manto assuma le giuste ed

-310-

adeguata combinazioni. Altrimenti vorrebbe dire che il

ghepardo consapevolmente si è adattato nel corso dei

millenni. Ciò, ovviamente, è impossibile. Cosa, allora,

rende possibile la mimetizzazione, quale meccanismo

esterno all’evoluzione opera in modo che il manto

assimili le cromature della savana?

Io penso ad un’evoluzione intelligente

dell’universo, ma non virata verso la manifestazione di

una divinità superna tipica delle grandi religioni

monoteistiche. L’evoluzione intelligente è uno degli

aspetti, o meglio, delle qualità dell’assoluto

transfenomenico che è oltre il fenomenico e l’apparente.

La ricerca di questo transfenomenico è la fondamenta

dell’esistenza di un essere senziente.

-311-

No global, Sì global (20 agosto ‘01)

C’è chi si domanda se i fatti di Genova entreranno

nella storia, quella studiata perlomeno, e c’è chi li

interpreta come sintomi del malessere delle generazioni

giovani nate nelle società industriali del nostro

pianeta. A simili quesiti, difficilmente potrei avere

delle risposte, ma sicuramente ritengo che attorno ai

tumulti genovesi scatenatesi in concomitanza del vertice

G8 si siano sviluppate correnti di pensiero le più

disparate, alcune delle quali - quelle vicine alla

sinistra giovanile e combattiva ed in genere ad un certo

tipo di gioventù che riconosce nella sinistra la

tenutaria della cultura e della libertà di pensiero -

rasentanti la paranoia. Mi riferisco, nella fattispecie,

al parto oramai omologato (sic!) Di chi ritiene

responsabile il governo dell’accaduto, avanzando perfino

l’accusa che sia stata attuata una strategia apposita

per reprimere la contestazione antiglobal. Non solo, ma

è oramai consuetudine di tutti i sinistroidi accusare

il governo di destrofilia, addirittura andando a

paragonarlo con il Cile degli anni settanta. Ahimè, il

luogo comune è diventato imperante è la capacità di

ragionare con le propria testa è divenuta un’attività

assai rara.

-312-

A Genova, sicuramente le forze dell’ordine sono

state “esuberanti”, ma altrettanto i gruppi armati

contestatori hanno esagerato nella loro protesta. Dato

che non stiamo vivendo una situazione di guerra civile

(ringraziando il cielo), rimane ovvio che scagliare

pietre ed inveire fisicamente contro le forze

dell’ordine è un atto perseguibile penalmente e del

tutto incivile. Senza contare il fatto che giorni prima

del vertice, i portavoce ufficiali degli antiglobal

hanno dichiarato che avrebbero oltrepassato le zone

messe off limit dalle forze dell’ordine.

Cosa pensare? Una cosa sola: i responsabili, da ambo

le parti, vanno puniti, così come vanno redarguiti i

giornali ed i telegiornali che si sono trafelati per

dare informazioni a volte molto fazione.

Tornando alla questione generica degli antiglobal,

che contestano ai grandi paesi industrializzati la loro

presunta presa di potere sul mondo intero. Il discorso è

molto più ampio, e profondo. E’ chiaro che ognuno ha il

diritto di esprimere la propria opinione, ed è dovere di

uno stato democratico garantire questa libertà... Ed è

proprio perché suggellata da questa libertà che pure la

mia opinione sugli antiglobal ha il diritto di esistere

ed essere messa su carta (o su file, chiaramente). Quale

questa opinione?

-313-

Gli antiglobal non hanno avanzato soluzioni

attendibili per permettere ai paesi poveri di

affacciarsi sull’economia mondiale... Anzi, non hanno

avanzato nessuna soluzione. Il fatto che l’economia sia

governata dai grandi paesi è un dato di fatto, una

realtà dalla quale bisogna partire per prendere

provvedimenti... Ma mi sembra di capire che i paesi

poveri sono disponibilissimi ad entrare in questa

economia, e nessun loro rappresentante ha sfilato

assieme agli antiglobal. Nei paesi poveri si soffre la

fame, e, nello stato attuale delle cose, solo i grandi

paesi possono intervenire per garantire la loro

sopravvivenza. La globalizxzazione, per quanto

effettivamente sia una bruttura umana, rimane l’unica

soluzione per garantire la sopravvivenza dell’intero

pianeta. Naturalmente, una globalizzazione guidata che

lentamente porti al suo interno tutti i paesi del mondo,

garantendo ad ognuno l’identità culturale. D’altronde,

se si vuole creare una confederazione mondiale di tutti

gli stati, per abolire le guerre e la fame, non vedo

come non si possa accettare la globalizzaazione, dato

che dovrebbe esserci una sola economia. Ciò che è da

evitare, è la presa di posizione dei grandi paesi e

l’allineamento dei paesi poveri e minori sui parametri

imposti e per taluno sinceramente impossibili da

rispettare.

-314-

Il peso della tradizione (20 agosto ‘01)

E’ interessante sapere che, malgrado ci vantiamo

delle nostre specifiche mentali rispetto alle altre

specie, siamo impastoiati a superstizioni mentali che

nel regno della natura risulterebbero controproducenti

per l’equilibrio e la continuità. Mi riferisco alle

tradizioni ed al forte legame che proviamo verso esse.

Chiaramente, mi preme far sapere che non sono

contrario alle tradizioni, essendo un fondamento della

società umana e consentendo la salvaguardia di valori e

conoscenze importanti per la nostra identità. Tuttavia,

questo è condivisibile solo per quelle tradizioni che

noi sentiamo vive in noi e che reputiamo fondamentali

per la nostra esistenza o per certi aspetti della nostra

esistenza. Ad esempio, il kendo poggia le sue fondamenta

sulla tradizione, e per quanto si sia evoluto nel corso

dei secoli, rimane una disciplina che non può esistere

senza il peso della tradizione del Budo e del samurai.

Ci sono valori che non possono essere esentati dalla

pratica del kendo, e questi valori possono essere solo

recuperati e mantenuti vivi nella tradizione.

Al contrario, quelle tradizioni che ci risultano

vuote e non in armonia con la nostra anima - anche se

per altri sono valide e rapportabili ottimamente al

proprio status vivendi - sono solo debilitanti e

-315-

nocive... Almeno per me, che non sopporto l’ipocrisia e

la pochezza mentale e la superficialità nell'appropriare

determinate tematiche spirituali. Ora mi sto riferendo

al battesimo, al battesimo della bambina che la mia

amatissima Barbara accudisce nel suo ventre.

Io sono contrario, mentre Barbara, per motivi che

razionalmente non posso obiettare più di tanto, ritiene

doveroso officiare per la bambina. Non è questione di

credere o meno, afferma lei, ma di offrire alla bambina

una condizione che non la alieni dal resto dei bambini.

Si sa, i bambini formano un gruppo e se qualcuno

manifesta atteggiamenti o passati vissuti differenti

allora viene messo da parte, isolato. In realtà, questo

è un mito, dato che i bambini sono ancora troppo

immaturi e non dotati di analisi per capire la

differenza fra essere battezzati o meno. Per di più, la

società italiana si sta arricchendo di nuove etnie, tali

da garantire un’adeguata integrazione di tutti. In

aggiunta, e non ultimo, io sono un bahai, e come tale,

come credente nella figura di Bahaullah quale Maestro di

questa era umana non posso concepire il battesimo,

perché non credo ci sia un peccato originale da mondare.

Essere bahi, non sopportare le ipocrisie e la

pochezza mentale, seguire una tradizione oramai svuotata

dai suoi significati più profondi solo per conformarsi

ad uno stilema di vita sociale è del tutto

-316-

insopportabile. Sono sincero, non credo che Barbara lo

voglia fare per la serenità della bambina, almeno non

consciamente. Intendo che probabilmente abbia timore di

discostarsi dalle tradizioni. E’ normale, è un fatto

culturale. Abrogare una tradizione oramai obsoleta è

molto faticoso ed è normale che solo pochi abbiano la

forza... Anzi, no, la costanza e la fermezza mentale ed

il coraggio di affrontare le critiche della moltitudine.

In realtà, Barbara è molto forte, e dunque, amandola, io

mi sforzo di credere che lei lo faccia sinceramente per

la bambina e che questa non sia una scusa per

mascherare una sua paura congenita.

Ho intenzione, pur avendo accettato a malincuore il

battesimo della bimba (per la quiete familiare) di non

salire sull’altare o, pur salendo, di non recitare

nessuna formula.

-317-

PARTE SECONDA

Pietra filosofale (25 novembre 2001)

Quale è lo scopo della vita? Non si tratta di

essere a conoscenza di verità trascendentali, divine

o metafisiche che dir si voglia; tanto meno

ammettere che ci sia un disegno che trascendi la

nostra esistenza quotidiana. Semplicemente, dobbiamo

costruire questo scopo, nella certezza che una vita

non va mai sprecata... o per lo meno non andrebbe

sprecata. Forse la vita non è un dono, inteso questo

come qualcosa che ci viene dato da una realtà

divina, trascendente la nostra. Ma sicuramente

dobbiamo trasformarla in dono. Dobbiamo renderla

talmente preziosa per un motivo banalissimo: è

l’unica occasione che ci si presenta per manifestare

la nostra anima, la nostra identità, o per meglio

dire: il nostro sé. Ed a maggior ragione, dobbiamo

garantire a tutti gli esseri viventi questo diritto,

universale esso; il diritto di nascere, vivere

secondo la propria natura e tentare di realizzare i

sogni che per tutta la vita portiamo nel nostro

cuore, sia il cuore di un uomo, sia il cuore di un

animale.

-318-

Nel rinascimento e nel tardo rinascimento (ed

anche successivamente, durante l’illuminismo, la

cosiddetta epoca della ragione), alcuni uomini

cercavano la Pietra Filosofale. Materialmente si

trattava di trasformare il piombo in oro,

spiritualmente era la ricerca del divino per

ottenere la Grande Opera, traguardo non dissimile da

quelli di certe filosofie orientali. La Grande Opera

è la trasformazione dell’anima umana in anima

divina, trascendere questo piano materiale per

guadagnare una realtà superiore, beata,

infinitamente meravigliosa. Ciò che consente questo

è la Pietra Filosofale, tesoro ricavabile attraverso

dettagliate e criptiche pratiche alchemiche-magiche.

Io credo sia venuto il momenti di reinterpretare il

concetto di Pietra Filosofale.

Al di là di qualunque credo religioso, di ogni

sistema filosofico, del risultato probante delle

scienze, l’universo è la manifestazione della

volontà della vita, e come tale è sacro, perché

sacra è la vita. Nel rispetto del vivente e della

sua unica possibilità (la vita) di realizzare la

propria natura, il dovere di tutti noi è il porsi

dinanzi alle cose, animate o meno, come un monaco

zen riverisce il cuscino di ruvida tela sul quale

praticherà se stesso (zazen). Il diritto alla vita,

-319-

o meglio all’esistenza, da tributare a tutte le cose

è il primo dovere dell’essere umano. Dunque, tutto

ciò che nasce è un tesoro prezioso da custodire, è

la manifestazione pura della forza della vita, è lo

steso universo che moltiplica se stesso. E’ una

pietra filosofale, perché ogni cosa nuova è una

qualità che si aggiunge alla perfezione

dell’universo e ne partecipa dei benefici.

Ieri sera, alle otto e diciotto, è nata mia

figlia. La perla preziosa è venuta al mondo nove

mesi fa, ed è cresciuta custodita, protetta, nutrita

dal corpo di Barbara; da Barbara stessa. Due esseri

hanno diviso spazio, tempo, cose ed energie per nove

mesi.

Io e Barbara, nella nostra volontà gioiosa e

nell’amore delizioso di avere un figlio, carne nata

dalla carne, spirito imbevuto di spirito, abbiamo

offerto le circostanze (coi nostri corpi e

sentimenti e desideri e sogni ed emozioni) affinché

una nuova vita prendesse forma, affinché la matrice

dell’universo si moltiplicasse nuovamente in un

nuovo essere. Io non so da dove venga Miriam, se la

sua anima, posta che l’abbia, sia eterna, o perirà

con il suo corpo, e non voglio saperlo. Io so che

qui ed ora lei vive, che attraverso lei le energie

-320-

del mondo ci parlano e ci comunicano la volontà

degli déi. E’ la Pietra Filosofale della mia vita,

quella attraverso la quale trasformerò il piombo che

mi ha inquinato in oro che mi delizierà.

Tutto questo è una metafora, è un racconto

mitico. L’uomo è essenzialmente un animale

mitopoietico, un affabulatore. La narrazione

favolosa è lo strumento principe per spiegare gli

arcani dell’universo, non è necessario che dietro le

parole ci siano verità trascendenti, perché le

parole stesse sono le verità. Immanenti verità.

Ora, il mio impegno nella vita acquisisce un

nuovo valore, un più alto significato, un sublime

scopo. Non sto parlando di annullarmi nel servizio

tributato a Miriam. Al contrario sto parlando di

realizzarmi con maggiore tenacia per essere un

adeguato punto di riferimento, un faro nella notte

per la barca che Miriam dovrà costruirsi.

La sua vita le appartiene. Io non ne dispongo i

fili, probabilmente non ne conosco nemmeno i

termini. Io sono solo il custode di questa creatura

meravigliosa, e dovrò adoperarmi affinché la strada

le sia spianata innanzi. Costruirò un molo per lei,

le indicherò i cieli sereni ed i mari calmi per

poter salpare... E sarò come un marinaio con teso

l’orecchio per eventuali grida di aiuto. Allora

-321-

partirò, perché sui figli non si hanno diritti, ma

solo doveri, e questa cosa deve essere una gioia non

una tribolazione.

La felicità è circoscritta nel donarsi

passionalmente alle persone ed alle cose che si ami.

Oltre ciò, c’è solo l’illusione.

-322-

I Ricordi ed i sogni (7 dicembre 2001)

Oggi, mentre leggevo delle poesie di Borges, uno

dei miei poeti preferiti ed uno dei miei maestri

spirituali e letterari, mi è capitato un verso che

mi ha colpito, inducendomi una sorta di micro

illuminazione. Il verso recita: “E’ inutile ridirmi

che il ricordo/Di ieri e un sogno sono la stessa

cosa.” (Inutil repetirme que el recuerdo/De ayer y

un sueno son la misma cosa). Il ricordo di ieri ed un sogno

sono la stessa cosa. Trovo questa frase meravigliosa,

sublime, ma, con mio dolore, mi avverte che è il

frutto di un ragionamento poetico e dunque non da

tutti comprensibile. Ed è proprio questo aspetto che

mi ha fatto riflettere e non tanto la rivelazione

che il ricordo di un fatto accaduto ieri ha nella

sostanza e nell’essenza lo stesso valore del sogno

di questa notte. Io stesso ho animo di poeta e mi è

congeniale il ragionare da poeta. Ma se dovessi

proporre la stessa meditazione a chi non è

predisposto ecco sorgere un’incomprensione.

Tutto questo a cosa ci conduce? Le

incomprensioni e l’incapacità, che spesso si nota,

di stabilire un dialogo su argomenti comuni si basa

proprio sulla qualità del ragionamento, dove con

qualità non intendo attribuire un valore positivo o

-323-

negativo, bensì differenziare le modalità del

ragionamento, dovute a caratteristiche personali

intrinseche, a fattori educativi, culturali,

ambientali e sociali. Ne conviene, allora, che

improvvise folgorazioni, specialmente nel campo

artistico, possono risultare banali, o squallide, o

deprimenti, astruse per taluni, meravigliose ed

innovative per altri, normali per altri ancora.

Quello che bisogna capire è, allora, se esiste una

modalità di ragionamento che è qualitativamente

migliore di altre, o se l’illuminazione è u fatto

relativo e dunque anche la verità corrispondente

solo un fattore temporaneo e riguardante solo un

determinato insieme di individui (di menti, dovrei

dire).

Lo stesso zen, che si preoccupa di realizzare il

Dharma, non è una prassi adatta a tutti, e se pur

fra coloro che non vogliono seguirla ci sono menti

capaci almeno di capirla e giudicarla, altri ne

saranno completamente disturbati, anche se gli

stessi si dedicano con sincerità e devozione ad

altre scuole buddhiste. Dove è la verità? Se tutto

è relativo, anche il Dharma (il senso delle cose) è

un concetto prettamente umano e dunque suscettibile

di modifica, di cessazione?

-324-

Personalmente, ho sempre lottato per trovare una

strada che mi conducesse all’esatta comprensione

della totalità dell’universo, ma mi sono sempre

trovato a fare i conti con aspetti che non accettavo

e che non potevo fare miei, pena un forte senso di

insoddisfazione. Nelle parole del Buddha, termine

col quale si nomina Siddharta Gautama, mi è sempre

parso di recepire perle di incommensurabile

saggezza. Purtroppo non sono mai riuscito a trovare

una corrispondente scuola di insegnamento buddhista

che mi aiutasse nella pratica. L’unica, è risultata

una via che esigeva uno sborso di denaro troppo

alto, o forse troppo alto per la mia volontà di dare

(ma non vivo solo, e dunque devo tenere conto anche

delle considerazioni di Barbara). Ora, che sono in

corrispondenza con un monaco della scuola Honmon,

spero di aver trovato chi potrà darmi utili

ammaestramenti.

-325-

Dialoghi interreligiosi (30 dicembre 2001)

Negli ultimi anni si è sempre più assistito ad

una proliferazione di congressi e dibattiti aventi

come denominatore comune lo scambio interreligioso,

sia organizzati da strutture dipendenti dall’ONU,

sia da organismi statali, regionali o comunali, sia

da istituzioni private, il tutto nella forsennata

ricerca di un dialogo aperto e pacifico fra le varie

confessioni (non tutte, ovviamente, solo le

maggiori) come se i mali del mondo dipendessero da

una cattiva relazione fra queste e, dunque, la

soluzione può solo ritrovarsi nella loro reciproca

armonia. Nulla di più ipocrita ed illusorio.

Ipocrita, perché non solo le confessioni religiose

sono sempre rappresentate con ampie lacune, ma

specialmente per l’incontestabile fatto che la

religione non è la causa del malessere mondiale e

che fondamentalmente un dialogo di reciproca

comprensione si baserebbe su presupposti

inconciliabili con il medesimo atto di fede verso

una confessione piuttosto che un’altra. Illusorio

come conseguenza, in quanto i suddetti dibattiti

servono, al massimo, agli studiosi. Ma vorrei

spiegarmi meglio.

-326-

Partiamo dall’incomunicabilità di fondo. Vi

sono confessioni teiste e confessioni ateiste, e qui

vediamo già come un dialogo, se vi può essere, è

utili solo a studiosi, mentre il singolo credente,

per quanto si sforzi di tollerare colui che ha fede

in sistemi differenti non potrà mai accettarne i

dettami. Rimane sempre un’incomunicabilità di fondo,

perché un buddhista, pur se indifferente a discorsi

teologici e metafisici, non può accettare il dogma

di un dio eterno ed onnipotente che ordina lo stato

delle cose a proprio piacimento, così come un fedele

nella missione salvifica del Cristo non potrà mai

accettare la presenza di un Buddha che proclama la

pace del Nirvana senza l’ausilio di Dio. E se a

questo livello non vi può essere dialogo, quale lo

scopo di questi meeting? Qualcuno dice che bisogna

comprendersi a vicenda per superare le intolleranze

religiose. E’ vero che esistono le intolleranze, ma

spesso queste nascono da pregiudizi che affondano le

loro radici nella cultura e nella società di

appartenenza; senza contare il fatto che la

popolazione religiosa è per la maggior parte dei

casi ignorante sia della propria religione sia

dell’esistenza e dei risultati finali dei dibattiti

interreligiosi.

-327-

Prendiamo delle religioni monoteiste di maggiore

rilevanza mondiale: cristianesimo, islamismo e

giudaismo. Si basano su principi che solo a prima

vista attingono a patrimoni comuni. In realtà, lo

stesso Dio ha ruoli e scopi completamente differenti

passando dall’una all’altra fede, ed i fedeli in

fondo al loro cuore non possono che considerare con

pietà i loro “cugini”, ben sapendo che basano la

loro fede su un errore. Come può mai un cristiano

ammettere che Maometto è stato un profeta voluto dal

suo stesso Dio? E come potrà mai un giudaico

ammettere che Gesù sia il vero Messia? Non c’è

possibilità. Allora, ridomandiamoci lo scopo dei

suddetti dibattiti, e ririspondiamoci: per

comprendere come nasce l’intolleranza religiosa e

combatterla. Si sbaglia tutto, allora, se lo scopo è

solo questo.

La religione non è causa di malessere, non è

causa di intolleranza, non è causa di guerre o

quant’altro. La religione è solo un sintomo, è un

effetto. Le vere ragioni stanno a tergo, molto a

monte e riguardano la psiche profonda dell’essere

umano, il suo interfacciarsi con la realtà delle

cose, la volontà di potere e dominio, l’istinto di

conservazione. La religione è solo un gioco

attraverso io quale manifestare la libido della

-328-

quale ognuno di noi ne è ricolmo. A motivo di ciò,

il dialogo fra religioni non dovrebbe proprio

esserci, in modo tale che la fede sia una costa

inscritta nella sfera più intima dell’essere umano

ed utile al fabbisogno della sua anima e della sua

mente. Personalmente, della religione professata dal

mio prossimo non mi importa nulla, a patto che esso

non ne faccia uso per manipolare la sua libido ed

imporla al mondo. Questo sarebbe, ed è, il vero

pericolo.

E’ la cultura che va studiata ed affrontata, in

quanto la religione - fino a quando non riusciremo

ad inscriverla nella nostra sfera intima - è una

delle sue tante sfaccettature. La cultura e la

psiche umana, per l’esattezza sono i due punti che

necessitano di profonda analisi.

La civiltà umana dovrebbe spostare il proprio

asse verso una comunità rigorosamente laica,

governata da pochi organismi aperti a tutti e

trasparenti nello loro operare, indipendenti da

qualunque credenza religiosa. La religione rimane un

fatto individuale, liberamente esprimibile anche

attraverso associazioni e chiese, ma pur sempre

lontano dal mondo della politica. La morale, che

ognuno deve coltivare nel suo piccolo orto,

giustamente può essere alimentata dalla religione,

-329-

ma è più facile che una buona etica fiorisca in uno

stato laico, democratico e libero piuttosto che in

una teocrazia basta su cidici vecchi di secoli, se

non millenni.

A dar peso al mio pensiero, vorrei fare un

paragone, forse azzardato, forse banale, ma quanto

mai utile per comprendere come stanno realmente le

cose. Calcio (il gioco del pallone, intendo).

Vediamo bene come negli stadi, le persone offuscate

dall’ignoranza si picchino in nome di un legame

sentimentale-morboso verso una squadra di calcio.

Ovviamente, un interista non picchia un milanista

solo per motivi calcistici, o perché appartiene ad

una squadra avversaria (tutte le squadre lo sono). I

motivi sono altri e ben più profondi, che a

tutt'oggi mi sfugge riuscire a metterli su carta. Ma

è quanto mai chiaro che hanno a che fare con la

nostra natura di esseri umani, che è la stessa per

tutti gli esseri umani del mondo. E così come io, in

quanto essere umano adulto e maturo, non posso farmi

influenzare nel giudicare il mio prossimo e nel

relazionarmi con esso, dal calcio, così debbo

evitare che la religione si frapponga fra me ed i

miei giudizi sugli altri. Il problema, e lo ripeto,

sorge quando la religione è assurta a sistema di

-330-

vita totale e diventa un mezzo per esprimere la

propria natura profonda.

-331-

Una nuova vita, una antichissima vita (31

dicembre 2001)

Quando è nata Miriam? Sembrerebbe una domanda

retorica, o, a più ragione, sciocca. Io non credo,

rispondo infischiandomi della banalità, che la mia

bambina sia nata nel momento stesso della sua uscita

dal ventre di Barbara. Si è trattato solo di una

formalità, per quanto dolora per Barbara,

un’esperienza che mamma e figlia in primo luogo, ed

io dietro loro, hanno sperimentato e vissuto

intensamente. Tuttavia, Miriam era già viva, era già

una essere vivente, era già nell’universo e ne

beneficiava. E così un giorno prima di venire alla

luce, un mese, tre mesim nove mesi prima. Nel

momento in cui il mio spermatozzo a fecondato

l’ovulo, è forse quello il momento della nascita? O

forse sarebbe più adeguato ammettere che lei era già

nata nel momento preciso nel quale io e Barbara

abbiamo preso la decisione di avere un figlio? O

forse prima ancora, o forse, più presumibilmente,

non è mai nata essendo Miriam, così come tutti noi,

una forma della forza vitale che impregna l’intero

universo. In tal caso, Miriam è antichissima, ed in

tal modo lo siamo tutti. Ciò che risulta di nuovo è

solo la forma, la struttuta temporanea, la

-332-

concrezione della forza vitale, un nodo di luce,

un’onda nell’immenso mare che nace e muore.

La mia bambina è un’essere vivente che io e

Barbara abbiamo richiamato sulla terra col nostro

amore, o meglio è la forza della vita dell’universo

che abbiamo concentrato in noi e plasmato con le

nostre matrici. Eppure, un’identità indipendente da

noi e dall’universo e dall’ambiente Miriam possiede.

E’ l’anima, che non è un fatto metafisico e

trascendentale, bensì il mito che si incarna, un

accordo che prende vita e vibra, una pagluizza di

luce che riverbera nelle tenebre. E’ un mistero che

non va investigato, ma solo vissuto con tutta

l’intensità possibile.

La vita è la vera natura dell’universo, e come

tale essa è pura e rappresenta l’idealizzazione

della perfezione, anzi è la perfezione fatta carne e

terra e cielo. Tutta la verità possibile è a nostra

portata, non dobbiamo fare altro che aprire gli

occhi, la mente ed il cuore all’evidenza

dell’universo ed alla forza della vita e considerare

sacro tutto ciò che vive, animato od inanimato che

sia.

E’ stupido ritenere che vi siano cose belle e

cose brutte, che vi sia il male ed il bene, che vi

sia Dio o non vi sia Dio, che si nasce e si muore.

-333-

In realtà, ogni istante ha il sapore e l’essenza

dell’eternità ed ogni luogo è tutti i luoghi

contemporaneamente e che tutto ciò che accade è puro

e giusto e necessario. E’ la nostra ignoranza che

offuscandoci frappone fra noi ed il resto il velo

del giudizio e del pregiudizio. In tal modo noi non

sentiamo più l’universo, ma lo giudichiamo, non lo

viviamo bensì lo osserviamo da lontano. I nostri

bisogni - da quelli indispensabili a quelli ritenuti

indispensabili a quelli superflui - ci impongono di

operare al mondo e questo operare ci obbliga a

giudicare tutto e tutti. E col giudizio perdiamo

l’innocenza e l’immanenza delle cose.

Dobbiamo tornare bambini per sentire la forza

della vita che scorre in noi, dobbiamo abbandonare

la nostra mente e vedere cosa alberga nel nostro

corpo oltre il nostro corpo.

-334-

Sovralimentazione e squilibrio dell’ecosistema

(14 gennaio 2002)

Alle volte - anzi, sempre - è necessario

chiedersi quali siano gli effetti della nostra

alimentazione. Mi riferisco, nella fattispecie, ai

cittadini della cosidetta civiltà occidentale, che

il luogo comune vuole riunisca tutti i paesi

industrializzati (se poi industrializzazione

corrisponde a civiltà è tutto da verificare) che

statisticamente consumano la maggior parte delle

risorse alimentari del mondo. In realtà, non voglio

ricalcare il dire di tutte quelle organizzazioni che

vedono nei paesi occidentali (USA in testa) la causa

dello squilibrio dell’ecosistema terrestre,

semplicemente capire e mostrare quale sia la vera

causa.

Che noi abitanti dei paesi induistrializzati

abbiamo un’alimentazione superiore al necessario è

fuori discussione, ma bisogna anche comprendere per

quale ragione esistono i paese occidentali. E

bisogna anche, con coraggio, dire che i paesi

“poveri” (secondo i parametri di noi occidentali)

non sono ancora arrivati a realizzare l’importanza

del mantenimento dell’ecosistema. In effetti, i

paesi industrializzati, che per primi hanno

-335-

inquinato e sconvolto la terra, ora sono anche i

primi ( quasi sempre) ha sviluppare progetti per la

salvaguardia del bene del pianeta. Al contrario, i

paesi in via di sviluppo “rodono” e sfruttano le

risorse senza adeguati criteri, e solo l’intervento

esterno li spinge a tenere conto dell’impatto

ambientale. Ciò vale, mi pare, per tutti i paesi non

europei e non facenti parte del G8, l’organizzazione

che riunisce gli Stati maggiormente

industrializzati.

In realtà, il discorso non è così semplice. La

verità, come al solito, è dove meno la si suppone.

Il fatto è che i paesi occidentali hanno ideato un

modello a loro immagine, modello che il resto del

mondo vuole imitare, con le conseguenze che si

vedono. La cultura europea è questo modello, e come

tutti noi possiamo constatare quasi tutti i paesi

mondiali cercano di conformarsene; tuttavia, il

passato storico non è lo stesso per tutti, con la

conseguenza di fratture ed incapacità di affrontare

quello che comporta una simile strada. La cultura

europea, non è solo figlia della filosofia greca e

della religione cristiana, è anche il prodotto

dell’illuminismo e della rivoluzioone industriale.

Avendo vissuti questi eventi, la società europea ha

sviluppato le giuste strutture di pensiero le più

-336-

idonee utili ad affrontare tutto il disastro che

l’industrializzazione ha prodotto. Ovviamente, tra

dire ed il fare c’è di mezzo il mare, ovverosia la

volontà esiste, ma il potere dell’economia spesso e

volentieri inibisce molti pregetti. Tuttavia, se

esiste la volontà, presto o tardi questa visionme

avrrà la meglio.

Ma cosa c’entra tutto questo con la

sovralimentazione? Il preambolo mi è servito per

mettere a fuoco un punto che mi è molto caro: il

problema siamo noi, esseri umani, figli della più

grande rivoluzione della nostra storia: la

rivoluzione agricola. Il passaggio dalla società di

raccoglitori-cacciatori alla società agricola segnò,

anzi innescò una trasformazione di tale portata che

le conseguenze le stiamo vivendo tuttora.

L’agricoltura e l’allevamento introdussero una nuova

mentalità: produrre nutrimento per soddisfare la

richiesta della tribù. Maggiore era la richiesta,

maggiore lo sfruttamento agricolo, maggiore il

divario fra coloro che avevano tanto e coloro che

avevano poco. A povertà è una conseguenza della

politica di sovraproduzione, dove lo scopo non è più

quello di soddisfare le esigenze, bensì quello di

creare nuove esigenze per soddisfare la produzione

di beni. Abbiamo, così, una situazione ribaltata,

-337-

esattamente opposta alla filosofia della natura,

dove il numero di esseri viventi è in relazione alle

disponibilità della madre terra. L’uomo, spinge la

disponiblità della terra per soddisfare un numero

sempre maggiore di esseri umani.

Naturalmente, non voglio affermare che la

comunità umana sia un male che infesti iol mondo,

solamente che questo pensiero (nato dalle

possibilità date dall’agricoltura) ha causato le

condizioni sociali che ora noi conosciamo, nonché le

malsane idee occidentali sulla morte, la giovinezza,

al vecchiaia e la malattia. Sarewbbe necessario

ritornare ad una forma di vita il più vicino

possibile alla sussistenza, ovverosia alla

produzione di beni limitati alle esigenze,

risparmiando tempo per l’educazione dello spirito e

la ricerca della propria natura originaria.

In natura, non esiste povertà o ricchezza. Gli

animali godono dei frutti della terra, predano solo

per la stretta sopravvivenza, non producono per

soddisfare il meccanismo in se stesso. I predatori

hanno il loro territorio di caccia, che difendono,

ma non appartiene a loro, e spesso animali predatori

differenti condividono lo stesso terittorio. In

realtà, l’idea di un territorio è umana e forse

andrebbe coniato un altro termine.

-338-

L’occidente, per tornare al dioscorso iniziale ,

essendo una struttura che produce in sovrabbondanza

e dunque deve stimolare al consumo, ha creato una

frattura, attinge alle risorse di tutto il mondo,

contribuendo in tal modo all’esistenza dei paesi

“poveri”. Tuttavia, l’occidente, vivendo questa

situazione paradossale che a parer mio è integrante

dell’evoluzione sociale umana, ha gli strumenti per

trovare una soluzione ed andare oltre. Io sono

sempre stato ottimista e ritengo che l’umanità possa

costruire un meraviglioso mondo sociale.

-339-

Il tradimento di Pietro (24 gennaio 2002)

Il Nuovo Testamento, sia che vogliamo

considerare quello ortodosso, sia che preferiamo una

visione più ampia che comprenda anche i cosiddetti

apocrifi, è un testo sublime, aldilà di ogni

implicazione religiosa. Anzi, se escludiamo queste,

allora potremo leggerlo con occhi nuovi.

Mi viene in mente, ora, le parole di un giovane

kendoka che pratica nel dojo; così giovane che ogni

appunto sarebbe ingiusto ed inopportuno. Il ragazzo

mi pare sia propenso allo zen ed a negare i dogmi

cristiani, il che non è un male, se non fosse che

cià porta sempre ad una posizione acida nei

confronti del Nuovo Testamento e dei fatti ivi

riportati. E’, questa, una posizione tipica di chi

per una ragione od un’altra non vuole pensarsi

cristiano. Purtroppo, spesso si confonde la Chiesa e

più in generale gli organi religiosi, con la Verità

e con la figura del Cristo, uomo e maestro

straordinario.

Pietro, discepolo, tradisce tre volte il suo

maestro, negando a chi lo ndica di esserne allievo.

In realtà, e voglio essere succinto, non è un atto

di tradimento, bensì un gesto di grande coraggio.

Pietro, nega la propria fede nel Cristo, per

-340-

guadagnarsi la vita, dunque antepone la passione per

la carne e la terra, all’amore per lo spirito. Ma se

così non fosse, la sua vita finirebbe in un attimo

ed il messaggio del suo maestro morirebbe con lui.

Ecco, allora, che Pietro nega la sua amicizia e la

sua fede nel maestro, per garantire al verbo del

maestro di sopravvivere e diffondersi.

L’attaccamento alla vita non è un peccato, non è

una colpa e la passione che si prova per questa

carne, per la terra ed i sensi, il cielo e le

foreste, è un vero e proprio dono che abbiamo il

dovere ed il diritto di difendere, proteggere e

nutrire. Amare Cristo, per Pietro voleva dire

negarlo per affermare la vita terrena; ma , essendo

il Cristo la quinteessenza della vita, essendo egli

lo spirito fatto carne e la carne fatto spirito,

ecco che Pietro non tradisce, ma afferma ed proclama

la sua umanità e l’umanità del suo maestro.

-341-

9.Il perché del filosofare

Ho sempre provato una forte attrazione perla filosofia, sia occidentale che orientale (equesta dicotomia, che è presente in molti altriaspetti dello scibile umano, andrebbeanalizzata, dato che sembrerebbe la culturaumana sostanzialmente divisa in occidentale oorientale - ma, in realtà, la questione va postain altri termini, come farò più avanti); anchese per quanto concerne quella orientale, il miointeresse verteva maggiormente se non totalmentesulle varie forme di spiritualità religiosa(specificando va detto, che nella tradizioneculturale indiana, giusto per fare un esempio, èquasi impossibile porre in atto una scissionetra filosofia e religione). Fin da giovane misono dedicato alla lettura della filosofia, piùche al filosofare vero e proprio, probabilmenteperché non ero ancora abbastanza maturo peraffrontare determinati argomenti con glistrumenti filosofici. Strumenti i quali,preciso, solo in questi ultimi giorni ho avutomodo di sperimentarne la vera natura.

Per tutti questi anni ho candidamenteignorato, o meglio travisato il vero scopo dellafilosofia. Non solo, mi era anche sfuggita lavera importanza della filosofia e la necessitàdi una sua costante preservazione. Avevo semprecaldeggiato lo studio della filosofia fin dalle

-342-

medie, inserendola, più o meno intensamente, intutti gli indirizzi scolastici delle mediesuperiori, consapevole che il suo studio avrebbeofferto agli studenti strumenti utili perragionare con la propria testa. In aggiunta aciò, che continuo a proclamare basilare chevenga attuato, mi piace ora affermare che lafilosofia è l’arte del pensare liberamente, e ilfilosofare è il pensare al di fuori di dottrinee sistemi ritenuti veritieri a priori.

Escludendo la scienza empirica, che analizzae studia la realtà dei fenomeni attraverso lesperimentazioni, le congetture e il tentativo didimostrarle; escludendo le scienze matematiche,che pur studiando enti astratti può vantare diessere una delle poche discipline dove vi sonoteoremi dimostrati validi da qui all’eternità(all’interno di sistemi ben definiti e coerentinel tempo, altrimenti le stesse leggimatematiche dovrebbero cambiare, adattandosi ainuovi sistemi – e comunque non cambierebbe ilsenso del discorso), la filosofia è quella“scienza” che mette in dubbio tutte le altreverità acquisite (appunto escludendo quellematematiche, quelle logiche e quellescientifiche sperimentalmente dimostrate), in uncontinuo e mai finibile lavori di revisionecritica.

La filosofia è appunto una revisione criticadelle conoscenze acquisite e una critica

-343-

continua della realtà, in una perseverantetensione verso la verità, consapevole che non ènella metà la sapienza, la gnosi, bensì nelcammino. La sapienza da amare, da produrre,della quale colmarsi, pertanto, non sarà mai laverità, perché è solo un ideale che ci sprona,bensì il continuo lavoro di critica.

Le stese scienze empiriche e matematiche, sepur vantandosi di possedere certezzeinconfutabili, possono essere sottoposte arevisione critica da parte della filosofia neiloro metodi di approccio alla realtà.

La mia conclusione, peraltro facilmentesupponibile da ciò che sopra ho scritto, è chechi intenda filosofare non può avere una fededel tipo religiosa o spirituale, o meglio nonpuò credere in un sistema dottrinario cheammetta delle verità a priori e non confutabili.Tutto deve essere sottoposto a critica, pertantoanche i dogmi e le credenze religiose. Pertanto,aggiungo ancora, la teologia, il cui nucleo èuna struttura assiomatica di verità nonscientifiche, non deve essere considerata comefilosofia.

Che poi anche l’asserto che non possonoesistere strutture di verità a priori, del tipodi quelle delle religioni rivelate, sia essostesso non una verità assiomatica e dunquesottoponibile a critica, certo non ci esime dalcontinuare per la nostra strada del filosofare,

-344-

perché se pur non esistono verità assolute disicuro l’unico modo per accertarsi che vi sianoo meno verità assiomatica è la critica stessa,la quale non è un’assunzione di veritàassiomatica, bensì solo uno strumento e dunquenon suscettibile di essere considerato unastruttura di verità. Insomma, non bisognaconfondere il cucchiaio con la medicina, comericordava il maestro zen che frequentai unadecina di anni fa.

Mi farebbe molto piacere, bambine (ma non losarete più nel leggere queste note) che voiconsiderereste l’opportunità di imparare un pocodi filosofia e di apprendere gli strumenti delfilosofare, per non dar per scontato nulla esottoporre tutto a una costante e salutarecritica, voi stesse comprese, così come io hoiniziato a fare ultimamente.

Milano, 3 dicembre 2008

-345-

10. Cristo storico e Cristo mitico

Ho terminato di leggere un interessanteraccolta di apocrifi neotestamentari.Considerato che in questi ultimi anni,probabilmente a seguito del fortunato romanzo diDan Brown, Il Codice da Vinci, sembra essercifra i lettori un interesse per rinato per lafigura di cristo (interesse foraggiato e osereidire pasturato con furbizia dalle caseeditrici), ho dovuto agire con oculatezza peracquistare un testo serio, dove le traduzionidei testi siano state eseguite da studiosi seri.Spesso, i saggi in circolazione che vantanoclamorose scoperte o sensazionali nuoveinterpretazioni sono scritti dozzinali ad operadi giornalisti o sedicenti esperti; pertanto sirischia di comprare un libro senza alcunaattendibilità.

Fortunatamente mi è capitato un ottimotesto, ad opera di uno dei più seri studiosiitaliani, Marcello Crateri, il quale mi hapermesso di addentrarmi nell’affascinante mondodegli apocrifi neotestamentari, che sono unaiuto indispensabile per capire come la figuradel Cristo sia stata nel tempo interpretata ereinterpretata a seconda delle vigenti correntidi pensiero o per soddisfare le esigenzefolkloristiche del popolo. Ed è proprio partendodalla figura di Cristo che voglio iniziare

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questa discussione; anzi, si tratta proprio diiniziare e finire intorno a Gesù, perché mi èoramai lampante la verità che oramai non abbiamopiù la possibilità di sapere chi effettivamentefu e cosa disse.

Mi spiego, perché le mie parole potrebberoessere oggetto di fraintendimenti, e quando siopera un’indagine filosofica (e più avanti, inaltri pensamenti, vedremo come sia diventato nonpiù posticipabile da parte mia l’intraprenderedelle indagini filosofiche intorno alla realtà),quando si opera un’indagine filosofiche,appunto, è importante, anzi fondamentale evitarefraintendimenti – anche se va detto che infilosofia i fraintendimenti sono abbastanzacomuni. Pertanto, espongo il mio pensare conestrema chiarezza, iniziando da questoenunciato: Cristo è una figura mitica. Ed ora cercheròdi spiegare come sono giunto a questaconclusione.

Tutti i vangeli, sia quelli canonici chenon, rappresentano la testimonianza più direttadella vita e delle opere di Gesù; ma non nelsenso che chi li ha compilati ha assistitodirettamente alla predicazione del Cristo,piuttosto che non esistono altri testi scrittiappositamente per testimoniarla. Tuttavia, lamaggior parte, quelli canonici (che va detto perinciso non furono scelti da un’appositacommissione ecclesiastica, bensì adattati in

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quanto erano quelli maggiormente diffusi)possono essere considerati come una sorta dipalinsesti. Infatti è probabile che siano statiscritti e riscritti, ogni volta apportandomodificazioni o aggiunte, a tal punto che oramaipossiamo affermare con certezza che non esiste più lapossibilità di conoscere la figura storica di Cristo. Pertanto,la figura che ci è pervenuta è unastratificazione mitica avvenuta nel corso deisecoli, a cui hanno partecipato non solo leriscritture dei vangeli (e ricordiamoci che gliapocrifi non sono elementi alieni dellatradizione cristiana, e di quella cattolica inparticolare, anzi) bensì anche tutto l’insiemepopolare e clericale dell’idea di cosa fu ed èGesù.

Gli stessi vangeli canonici subisconol’influenza del momento storico nel quale furonoscritti, e questo si può dire specialmente delvangelo di Giovanni, che presenta analogiasorprendenti con l’apocrifo di Tommaso, dichiara ispirazione gnostica. Il Gesù di questidue vangeli sembrerebbe essere un maestro disapienza gnostica, il che è impossibile dato chedurante la sua missione lo gnosticismo non eraancora stato formulato. Ma ciò non vuol dire chenon vi siano elementi ricavati da un testoanteriore comune ai due, del quale si parlaspesso. E sarebbe una scoperta sensazionale unsuo ritrovamento.

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Personalmente, ritengo che i vangeli chemeglio di altri potrebbero offrire unatestimonianza abbastanza veritiera della vita diGesù, siano quelli degli Ebrei, ovverosia testinati in senso alle primissime comunità dicristiani, i quali erano per l’appunto degliebrei. Gli studiosi definiscono questo vangelomolto simile a quello di Matteo. Tuttavia non èrimasta alcuna traccia,

I canonici, al contrario, hanno lasciato unaprofonda traccia di se stessi, al tal punto chedata la loro somiglianza e la loro bellezzafurono senza decisione da parte delle autoritàscelti come testi di riferimento dalla Chiesa.Perché, va detto, nella Chiesa dei primi secoli,non esistevano ancora dei vangeli ufficiali e lastessa Chiesa si rifaceva a quelli esistenti.

Comunque sia, rimane sempre valida, almenonel mio sistema personale di pensieri, che lafigura di Cristo sia mitica, che egli stesso siaun mito, e con ciò non voglio affermare che nonsia esistito e nemmeno voglio dire che il mitoche è sia un’invenzione, o qualcosa di falso efuorviante. Il mito è una necessità dell’anima,e come tale, in mancanza di esso, l’anima necostruisce uno. Anzi, precisando, l’anima – madovrei dire l’essere umano – tende a mitizzare omiticizzare gli avvenimenti. Tutti gliavvenimenti. E più la distanza temporaledall’avvenimento è maggiore e più –

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proporzionalmente alla carica emotiva delsuddetto – maggiore sarà la sua mitizzazione.Ma, tornado alla figura di Cristo, vorrei quiriportare due mie interrogazioni che mi posidurante la lettura del testo di cui all’iniziodi queste righe, e che annotai sui margini delsuddetto.

Se cristo col tempo ha assunto unafigurazione mitica così come era pretesadall’immaginario collettivo, ovverosia dallapropensione mitica della nostra psiche, è giustorivalutare tale figurazione con l’aiuto degliapocrifi, oppure gli stessi apocrifi offronoun’ulteriore figurazione mitica?

E’ possibile che stiamo vivendo un periododi cambiamento mitico, nel senso che la nostrapsiche abbisogna di nuovi racconti, pertantoecco la rinata fortuna degli apocrifineotestamentari? Forse l’attuale figurazionemitica di Cristo non soddisfa più la nostrapsiche, il nostro immaginario, ed ecco pertantoil tentativo di ricostruirla o modificarla?

Ancora una cosa, riguardo il vangelo diTommaso. Il fatto che, se da una parte èaccostabile ai sinottici, e specialmente aquello di Giovanni, mentre dall’altra se nediscosta esplicitamente, può significare duecose: i) o a differenza dei canonici è piùvicino alla verosimiglianza dell’insegnamentostorico di cristo, o ii) rimane legato alle

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concezioni gnostiche del tempo in cui vennescritto, mentre i canonici se ne discostanoperché era volontà dei loro compilatorioriginale indicare la strada per una nuovareligione, o per una religione basata sudottrine differenti dallo gnosticismo.

Milano, 9 dicembre 2008

11. Il problema della laicità

Ho avuto modo di leggere un breve dibattitofra due pensatori, sulla tema della laicità, chein questi ultimi tempi qui in Italia rappresentaun problema a quanto pare spinoso. Più volte hofatto notare a chi con i quali discetto difilosofia – in appositi forum – che oggigiornosi ha un’accezione errata di laicità; infatti, èuso riferirsi alla laicità come se fosse laforma mentis di un non credente, o ateo che dirsi voglia, e, pertanto, viene definito comelaico colui che è ateo. Il che si tratta diun’asserzione errata e che stravolge il verosenso della laicità ed dell’essere laico. Laico,propriamente, è colui che aldilà della propriacredenza religiosa ritiene opportuno che in unoStato l’insieme della normativa che lo regge nonsia non solo influenzata, ma nemmeno alimentatada istituzioni o apparati religiosi. Per fare un

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esempio a tema, facendo riferimento allasituazione del nostro Paese, l’attitudine laicaafferma che la Chiesa non deve intervenire nellavita dello Stato, limitando il suo campo allasola sfera intima e spirituale del singoloindividuo. E’ chiaro, che a differenza di moltialtri Paesi occidentali, L’Italia soffra di unasituazione differente, avendo nel suo seno unvero e proprio stato teocratico il quale, inbase a precisi accordi diplomatici ha da sempreavuto sia formalmente che ufficiosamente lalibertà di intervenire – a volte pesantemente –nella vita politica italiana (e sarebbe da direanche “sulla” vita politica).

Comunque sia, dato per scontati i dati soprariportati, mi preme soffermarmi sul dibattito dicui feci cenno, perché mi pare che gliinteressati arrivino a conclusioni feconde diargomenti. Per la precisione, a seguito di unarticolo di Claudio Magris sulla laicità – nelquale ripropone dei concetti abbastanza banali,ed altri non condivisibili. Ad esempio, affermaanche che laicità è sapere distinguere ciò che èdimostrabile razionalmente da ciò che è inveceoggetto di fede. Questo non mi pare compitodella mentalità laica, perché il laico deve solofare in modo che le questioni religioserimangano in una sfera privata, direi quasifamiliare e affettiva, sia che abbia la capacitàdi distinguere il razionale dalla fede che non.

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Inoltre, la sua affermazione porta allaconclusione che la fede poggia su basiirrazionali; ma dovrebbe specificare che sitratta di fede religiosa, perché il sentimentodella fede, o meglio dire l’atteggiamentofideistico è presente in molti altri ambiti,compreso quello scientifico (anche se forse piùche di fede bisognerebbe parlare di fiducia).

Dunque, stando a Magris, ciò che è oggettodi fede non può essere dimostrato razionalmente,il che significa che esistono oggetti mentaliche sfuggono l’indagine razionale; ma se sonooggetti della mente, e dunque enti puri, comepossono non essere indagati razionalmente, datoche tutto ciò che è mentale, e dunque forma dipensiero, è analizzabile razionalmente? Sipotrebbe ritenere, pertanto, che non è affattovero che la struttura della mente siaesclusivamente razionale. Esistono ambitiirrazionali, ma che sono reali, dunque oggettodi conoscenza. La conclusione è che c’è unaconoscenza non razionale.

Secondariamente, ma non d’importanza bensìcome proseguo della discussione, se l’oggettodella fede non è un ente mentale, bensì unqualcosa che possiede presenza nel reale,ovverosia un ente facente parte della totalitàdell’universo, assumendo il ragionamento diMagris ne conviene che vi sono oggetti chepossono essere conosciuti soltanto tramite

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analisi non razionale. Insomma, l’irrazionale harealtà, al pari del razionale. E questa è unadicotomia ed anche una visione duplice dellarealtà delle cose.

Magris conclude il suo interventopolemizzando con il senato accademico in meritoal rifiuto o all’impedimento esercitato sulPontefice, quando avrebbe dovuto intervenire conun proprio discorso all’apertura dell’annoaccademico. A parte il riportare malamente ifatti – ma tutti i mass media sembrano averlofatto, in quanto al Pontefice non fu impeditonulla e la segreteria del Vaticano decise diannullare l’intervento – la conclusione cuiarriva, per la quale si tratta di intolleranza,trova giustificazione – sempre che si tratti diintolleranza – proprio nelle parole precedentidello stesso Magris, dove si dice che èpercepibile una pressione e un’ingerenza dellaChiesa negli affari dello stato italiano;ingerenza che giustificherebbe la presa diposizione del senato accademico.

Ma, tornando al discorso principale, ora mipreme analizzare la risposta data da Severino eapparsa sullo stesso quotidiano un paio disettimane dopo. Severino è il massimo filosofoitaliano, o perlomeno quello maggiormenteconosciuto. Sto studiando il suo pensiero cheritengo degno di approfondimento, ma anche dicritica, in quanto pare proprio rifarsi al

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sistema filosofico di Parmenide, il quale vennegià criticato sia da Platone che da Aristotile.

L’intero intervento è veramente ricco dispunti, Severino sa come trasmettere con paroletempli pensieri profondi. Inoltre mi è parso dinotare perfino una certa provocazione nel suointervento, come a voler stimolare uno studio,una discussione per trovare nuovi percorsi dipensiero.

Voglio riportare alcuni stralci del suoarticolo, perché subito all’inizio vi sonoproposizioni meritevoli di discussione.

Questa capacità non è cosa da poco (si riferisceall’affermazione di Magris, laddove si dice lalaicità è la capacità di distinguere ciò che èdimostrabile razionalmente da ciò che oggetto difede). Presuppone che si sappia che cosa sia “dimostrazionerazionale” e che cosa sia “fede”. Questa capacità segna niente dimeno che la nascita della filosofia, la presa di distanza dellafilosofia dal mito, cioè dalla fede.

Queste parole aprono un vero e propriobaratro ragionativo, nel quale ho trovato sommopiacere buttarmici. Severino prende unaposizione drastica, assimilando o forse facendouna uguaglianza tra fede e mito, e,contemporaneamente, asserendo che la filosofia èuna disciplina che si basa su metodiche diindagine puramente razionali. D’altronde, è bene

-355-

ricordare che il tutto il novecento filosofico èstato caratterizzato da un desiderio diriportare la filosofia – e lasciarcela – entro irecinti della razionalità e della logica. Ilfatto che la filosofia, nel suo nascere siastata – anche – un impulso a frapporre unadistanza ideologica tra la ragione e il pensierointorno al mondo e il mito – considerato comeuna narrazione intorno al mondo priva dicontenuti di veridicità, può spingerci aritenere che già dai tempi di Talete esuccessivamente di Parmenide ci fosse laconsapevolezza – anche se a livello basso – diuna scienza che si basasse su scoperte e teoriecomprovabili razionalmente, ovverosia a rigor dilogica (nel mio sistema di pensiero, logica erazionalità non possono essere disgiunti).Tuttavia, non penso che a quei tempi ci fossequella consapevolezza e non penso nemmeno che cifosse la capacità di discernere la scienza dalmito, dato che proprio il mito entrava a farparte di teorie filosofiche (vedi Platone). E,comunque, spesso le teorie che parevano essereimpostati sulla rigorosa logica, o su lucidededuzioni e postulati, in realtà si è scopertonon essere così (ad esempio i postulati diEuclide) tanto da indurre a ritenere che gliantichi pensatori seguissero percorsi diragionamento diversi dai nostri.

-356-

Non mi sembra di poter condividerel’affermazione di Severino, il mito impregnavafortemente l’esistenza degli antichi, a talpunto che fare parte delle dinamiche mentali, ecomunque anche si così non era, adesso non siamoin grado di capire dai soli scritti in cheambito esatto si sviluppava il loro pensiero.

Più avanti, Severino contesta conargomentazione ineccepibile, un’affermazione diMagris, fra le tante, presenti nel suo articolo:Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle propriecertezze. E’ gioco forza per Severino fare notareche se il dubbio deve essere rivolto anche allecertezze, allora anche quest’affermazione chepropone una certezza (la tolleranza dellalaicità) debba essere messa in dubbio; e seviene messa in dubbio, la laicità diventa puroscetticismo su tutti i fronti e senza un minimodi certezza, una base solida, diventa una formafilosofica inaccettabile. Al contrario, se nonla mette in dubbio, allora c’è una certezza chenon può venire messa in dubbio, e per megliospiegare c’è un sapere che non può venire messoin dubbio, pertanto la definizione di laicitàdeve essere rivista. Insomma, un bel paradosso,nato esclusivamente da un’infelice espressionedi Magris, che, leggendo attentamente la suaaffermazione, pare anche accostare la tolleranzaal dubbio. Tolleranza significa mettere indubbio le proprie certezze. Ma tolleranza non

-357-

significa accettare anche le certezzedell’altro, nella consapevolezza che possonoesistere più certezze contemporaneamente, piùverità contemporaneamente?

A me pare che il grave errore di Magris, secosì mi posso esprimere, consiste nel volerportare la definizione di laicità oltre iconfini della delimitazione dei poteri e dellesfere di influenza dello Stato e dell’autoritàreligiosa. Questa porta invariabilmente aequivoci e malintesi. Al contrario, la laicitàdeve essere mantenuta nel suo campo dicompetenza, esclusivamente laddove esista unatrito – se così si può dire – tra Stato eistituzione religiosa. Soltanto in similicircostanze bisogna parlare di filosofialaicista, o laica che dir si voglia, da attuare,sempre che l’idea di uno Stato indipendente dadettami religiosi sia accettata e propagata(idea che comporta immancabilmente una revisionedella stessa concezione di religione). Maladdove non esiste un simile problema, è perfinoinutile parlare di laicità.

Nel finale di articolo, Severino prende inesame l’ultima cartuccia di Magris a favoredella sua visione di laicità, citandodirettamente colui che ritiene essere stato ilprimo a proporre l’idea di laicità. Mi riferiscoa Gesù il Cristo e alla sua famosa sentenza

-358-

evangelica, riscontrabile in Matteo 22, 21. madi questo ne parlerò in successivo pensamento.

Milano, 15 dicembre 2008

-359-

13. Due scritti di karate

Sfogliando – si fa per dire – dei vecchi files, mi

sono imbattuto in alcuni miei scritti, delle tesine

composte durante la frequenza del corso istruttori di

karate. Si parla di ben undici o dodici anni fa, quando

era mio interesse dedicarmi al karate anima e corpo.

Cosa che feci, comunque, e che iniziai a fare molti anni

prima, nel millenovecentottantaquattro. Il corso della

vita, successivamente, prese pieghe differenti e

inaspettate, da lì a un anno abbandonai il karate a

favore del kendo, con grande soddisfazione e ottimi

risultati. Eppure anche quella strada lasciai ed ora, se

debbo essere sincero, non so esattamente quale contrada

stia percorrendo.

Comunque, ora mi permetto di farvi leggere queste

due tesine, ché se pure l’argomento vi è ignoto,

apparendo inoltre di scarsa attrattiva, nondimeno vi si

possono ravvisare barlumi di una mia filosofia di vita,

o almeno i rudimenti o l’intaglio grezzo di un sistema

che forse stavo iniziando a costruire, interrompendolo

per occuparmi di altro. Ed è proprio questo il punto

centrale attorno al quale ruota la mia riflessione: come

posso far rientrare in un unico sistema di pensiero la

molteplicità delle mie esperienze e delle mie letture?

-360-

Ora, però, mettiamo da parte questo dilemma e

godiamoci le mie prodezze ragionative attorno a due

elementi chiavi dell’insegnamento (non solo dell’arte

marziale): come mantenere alto e costante l’interesse

degli allievi (ma si può dire anche “allievi”), e come

valutare il livello di apprendimento degli stessi.

-361-

STIMOLARE L’ALLIEVO NELLA PRATICA DEL

KARATE-DO

Premessa

Questa breve tesi vuole proporre un modello, non di

insegnamento, dato che all’autore manca l’esperienza

necessaria per definirsi tale. Si tratta di uno studio

su come aiutare gli allievi nel trovare e rinnovare con

la pratica del karate-do gli stimoli necessari a non

abbandonare la disciplina.

Per qualche tempo ho insegnato in varie palestrecome aiuto istruttore, confrontandomi sia con cinturebianche, che con cinture colorate e nere. Ne ho ricavatoun nucleo di esperienza e nozioni che mi è servito comebase e sul quale ho costruito questo studio.

Dopo anni di presenza nella federazione, ho maturato

l’idea che la continuità omogenea del sapere del karate-

do può essere garantita da uno zoccolo duro di

praticanti, fedeli ad un insegnamento, ad una

tradizione; ma per favorire l’allargamento di tale

sapere, bisogna fin dall’inizio incentivare l’allievo

nella pratica, evitando così quel fenomeno di riciclo

nella massa dei praticanti, che è, tra l’altro, la linfa

economica della federazione. Se questo significa una

-362-

perdita della qualità, è un discorso che cercherò di

affrontare più avanti.

1 Note personali sul karate-do

Mi è impossibile iniziare a buttare le fondamenta di

un modello di stimolazione senza dimostrare, almeno a me

stesso, di possedere le basi cognitive del karate-do,

il che vuol dire se io conosco il significato del

karate-do; non della parola in se stessa, che è solo un

fatto etimologico (importante ma non vitale), bensì

della disciplina che prende questo nome.

E’ un argomento che esaurirebbe le pagine che

seguono senza proporre una risposta soddisfacente, né

tanto meno aggiungerei valore a quello che molti

studiosi hanno detto in passato. Tuttavia si pone una

questione forse non da tutti affrontata e sicuramente

sottovalutata o ritenuta ingenua. La questione riguarda

la classificazione del karate-do come esperienza non

trasmissibile all’interno dell’insegnamento.

All’inizio c’è il gioco, un’azione che va eseguita

all’interno di un sistema prestabilito e secondo

determinate regole che non bisogna trasgredire per non

incorrere in pene relative alla gravità della mancanza

(volontaria o meno). Da questa breve definizione

parrebbe che ogni cosa è un gioco, dagli scacchi al

-363-

lavoro, dallo sport all’universo. Giocare, nella più

alta concezione del verbo, vuole dire vivere.

Quando praticavo karate da cintura bianca, ascoltavo

le cinture più elevate parlare negli spogliatoi, del

maestro, dei suoi mitici allievi, dei kata. Imparai per

sentito dire che il karate è una disciplina. Più tardi,

ritenni necessario acquisire anche conoscenze teoriche,

così comprai gli ottimii testi di Nakayama, e qualcun

altro di mediocre fattura che preferisco non citare.

Ebbi la conferma delle voci di spogliatoio: il karate-do

è una disciplina.

La società in cui viviamo è un insieme di sotto

insiemi ben definiti (la famiglia, la scuola, la

palestra, il lavoro) dove per la maggior parte delle

volte si utilizzano vocaboli particolari senza darne il

giusto significato, presumendo che tutti ne conoscano le

accezioni. Così avviene per il termine disciplina: tutto

lo usano, ma nessuno spiega cosa intende dire. Ho

guardato il vocabolario, e ne deduco che disciplina può

essere: 1) complesso di norme che regolano la vita di

una società religiosa, scolastica, militare, dove

l’osservanza di tali norme è senza riserve. 2) Dominio

della propria natura e del proprio istinto; capacità di

dominare se stessi. 3) Impegno assiduo, dedizione con

sacrificio. 4) Materia di insegnamento e di studio. 5)

Educazione, direzione, guida ed ammaestramento.

-364-

Etimologicamente, disciplina deriva dal latino discere,

“imparare”. Successivamente ho riflettuto, arrivando a

definire disciplina una sfera di conoscenza appresa

attraverso regole precise ed irrinunciabili, con sforzo,

sacrificio e pratica.

Il karate-do, visto sotto questa luce è una

disciplina. Per il sacrificio richiesto, per le regole

che lo strutturano, per l’atteggiamento dovuto. Anche il

gioco è disciplina; dunque karate-do è gioco nella sua

massima accezione, e dato che il gioco è una

riproduzione della vita, il karate-do è uno specchio

della vita, e la sua costante pratica può condurre ad

avere un approccio alla vita più sereno, ed al contempo

combattivo, più realistico, ed al contempo fantasioso.

2 L’essenza del karate-do

A parlare di argomento, potrei apparire sfacciato.

In verità io non parlerò dell’essenza del karate-do,

perché non la conosco, e nessuno può insegnarmela, ne

adesso ne mai.

Gli antichi greci, ai quali l’occidente deve

l’attuale modello di pensiero, ritenevano che l’essenza

di ogni cosa fosse la sua vera realtà, un nucleo di

verità indivisibile, puro, irraggiungibile dai sensi.

-365-

L’essenza non poteva essere percepita, ma congetturata.

Di conseguenza non può essere insegnata, bensì sentita

come meta di un cammino solitario.

Senza arrivare a filosofeggiare, inutile e

dispersivo in questa sede, mi limito a supporre che

anche il karate-do abbia un’essenza, che corrisponda

alla sue vera natura e attraverso la cui conoscenza si

arrivi a comprendere il perché del karate-do. E dato che

il karate-do è una disciplina, questa essenza non è un

frutto che tutti possono agguantare ed assaggiare; è una

pietra filosofale che si realizza attraverso un percorso

faticoso e costante. Alla maturazione ci si arriva da

soli, grazie agli insegnamenti del proprio maestro, che

nella propria bravura può insegnare i mezzi e le regole

per raggiungere l’essenza, ma non l’essenza stessa, che

è esperienza personale non trasmissibile.

Io posso insegnare ingegneria genetica. Ho appreso

la materia da studiosi che prima di me hanno fatto

importanti scoperte. Queste scoperte sono ora un dato

conoscitivo, una nozione che io trasmetto ai miei

allievi, che avranno i mezzi per operare senza avere

faticato per raggiungerli. E’ come un muro, ogni mattone

è una scoperta, e chi sta in cima gode il panorama senza

avere contribuito a costruire quel muro.

Nel karate-do le cose non funzionano nella stessa

maniera. Fin dalla nascita del bushido, passando per le

-366-

varie epoche storiche giapponesi, si sono susseguiti una

serie di grandi maestri, ognuno responsabile di

innovazioni nelle arti marziali. Evitando di dilungarmi

in una descrizione storica dei processi che hanno

originato il karate-do, mi soffermo sulle figure del

secolo scorso. i loro studi hanno condotto al karate che

conosciamo oggi. Attualmente, grandi maestri come Kase e

Shirai sono una fucina di saggezza ed esperienze

notevoli, il loro livello è quasi commovente per un

praticante quale lo sono io. Tuttavia, l’esperienza di

questi maestri, la sapienza da loro accumulata, non è

stato possibile trasmetterla ai loro allievi. Einstein

ha realizzato la teoria alle fondamenta dell’universo

conoscibile, tutti i fisici la conoscono e la sanno

realizzare. Ma quello che ha realizzato Kase è suo

soltanto, il risultato di una vita di sacrificio, e

morirà con lui. A noi rimarrà un fulgido esempio ed un

modello di pratica.

Il karate-do nasce e muore nel cuore di ogni

praticante. Chi si accinge al karate-do deve riscoprirlo

da solo, e risultati che saprà raggiungere saranno un

frutto del suo lavoro, cresciuti e maturati in lui,

incomunicabili. La palpabile sensazione di crescita

interiore che si prova dopo anni di pratica, ciò che si

ricava da questa sensazione – idee, riflessioni,

miglioramenti – rimarranno confinati in noi stessi.

-367-

Potremo manifestarli nello svolgimento delle tecniche,

nel modo di esprimersi a parole o a gesti, ma l'essenza,

il nucleo, il calore che proviamo nell’eseguire un kata

particolarmente felice saranno soltanto nostri.

Ecco perché il karate-do è disciplina. Disciplina di

mente, disciplina di corpo, disciplina di spirito.

Disciplina, un termine che oggi giorno sembra languire e

che andrebbe riscoperto. Il karate-do permette di

scoprirne gli innumerevoli vantaggi.

3 Cosa insegnare

Considerate le conclusioni sopra riportate, potrebbe

risultare problematico insegnare. Tutt’altro; senza

bisogno di comunicare questi pensieri all’allievo

principiante, ancora inesperto dei percorsi mentali del

karate-do, devo fargli percepire la mia ricchezza

interiore; dalle mie tecniche deve trapelare

l’esperienza che mi ha maturato nel tempo e mi ha

condotto al mio particolare stile di karte-do.

Come praticante, spesso mi chiedo per quale ragione

il mio karate è così, a prescindere dai miei errori e

dalle mie capacità, dal mio maestro e dai miei compagni.

Il mio stile predilige alcune tecniche, alcuni kata;

cosa mi ha portato a ciò? E, ancora più importante,

-368-

quali sono i risultati interiori di questo stile? Posso

migliorare, e nel qual caso come debbo fare?

Questo bagaglio di esperienze, se utilizzato nella

giusta maniera, conduce ad idee ben precise, a prese di

posizioni che sono il fondamento della pratica, anche se

suscettibili di miglioramento. Ciò che devo insegnare al

mio allievo, dunque, a prescindere dal programma tecnico

(un problema della federazione) è come insegnare una

determinata tecnica. Io dovrò rammentare ciò che mi ha

condotto a maturare la tecnica, in quali circostanze

l’ho applicata al meglio, dove non è utile, e

trasmettere tutto ciò all’allievo.

Quando osservo il Maestro Shirai eseguire una

tecnica apparentemente semplice come oi zuki (non si

smetterà mai di ricavare da questo colpo) non posso fare

a meno di pensare che ci sono dietro quarant’anni di

pratica, di riflessioni, di miglioramenti, di scoperte.

Tutto quello che il Maestro ha passato nellì migliorare

oi zuki non potrà mai comunicarmelo, ma io percepisco la

sua ricchezza, lo sforzo di raggiungere ka perfezione,

tutto l’universo che c’è al di là della semplice

tecnica, e questo per me è il suo insegnamento, il

massimo dello stimolo.

Io non sarò mai come il Maestro, tuttavia spero che

i miei allievi percepiranno ciò nell’osservazione di una

mia tecnica: la vita che c’è dietro, il tempo trascorso.

-369-

Si dice che la rosa che il fiore che osserviamo, per

quanto brutto e trascurabile, è il risultato di milioni

di anni. Una tecnica, per quanto eseguita non alla

perfezione, è il risultato di anni di pratica (che ha

senso solo se coadiuvata da spirito di ricerca).

4 Stimolazione

Sarò breve in questo paragrafo, limitandomi ad un

elenco. Altro non posso dire.

Se insegnerò è per una scelta personale, per amore

della conoscenza ed affinché altri se ne impadroniscano.

E’ un atto altruistico, e come tale richiede umiltà e

sacrificio. Forse col tempo mi riconoscerò non idoneo,

ma adesso voglio farmi una proposta.

Il gruppo che si viene a formare va cementato. Mi

devo proporre con serietà, facendo trasparire la mia

preparazione e la mia qualifica. Devo fare scoprire agli

allievi la ricchezza del karate-do, l’utilità della sua

pratica. Naturalmente chi non è predisposto non

comprenderà; dove il terreno è buono questi piccoli semi

cresceranno, e con essi il karate in Italia.

E’ pure un discorso economico, perché non credo alle

attività senza fine di lucro. Tuttavia, se l’allievo

-370-

capisce che il dojo non è solo fonte di guadagno, se

riesco a convincerlo che il karate-do è una continua

riscoperta del valore delle stesse tecniche, allora

questo sarà sicuramente uno stimolo sufficiente. Fargli

uscire il karate che è in lui, fargli assaporare il

valore di una tradizione .

LA VALUTAZIONE

Tesi di Nataniele Paghini

1. Premessa

Prima di analizzare gli scopi della valutazione

applicata all’attività dell’insegnamento del karate-do,

è bene soffermarsi brevemente sulla struttura operativa

della valutazione; una piccola introduzione per avere in

mano la chiave d’accesso a questo complesso argomento.

L’intelligenza è la facoltà mentale in base alla

quale delle informazioni recepite attraverso i sensi

dalla realtà circostante, sono elaborate ed utilizzate

per raggiungere un determinato scopo. Questa è una

definizione basilare, che non tiene conto dell’uso

astratto del pensiero, tanto per fare un esempio,

tuttavia è quella che meglio d’ogni altra ci serve in

-371-

quanto comporta un atto di valutazione, vale a dire il

dato appena assimilato è sottoposto ad un esame, conscio

od inconscio, per verificarne il potenziale d’utilizzo

in base alle proprie esigenze ed alla propria

esperienza. Si ha, infine, la scelta.

La valutazione, dunque, è un modo operativo

continuamente attivo e presente nella nostra vita

quotidiana, precede ogni decisione ed ogni giudizio, e

per quanto obiettiva può essere si basa comunque sulle

proprie esperienze e conoscenze. Nell’osservazione non

esiste una verità assoluta, in quanto l’atto di

osservare è una relazione che presuppone due termini:

l’osservante (attivo) e l’osservato (passivo), dove ad

uno stesso oggetto passivo possono corrispondere più

soggetti attivi, ognuno con il proprio bagaglio di

esperienze e conoscenze. E’ per questa ragione che

l’insegnamento del karate-do è una cosa serissima:

l’istruttore deve tendere alla massima imparzialità,

raggiungibile solo accumulando sensatamente conoscenze e

d’esperienze; nel caso la sua esperienza sia minima,

deve supplire con una profonda nozione del karate, che

ci tengo a precisare non coincide con l’erudizione, per

quanto accurata sia.

E’ bene precisare che la valutazione non è un atto

di pensiero sterile, il più delle volte automatico e

comunque scontato e dunque accettato come tale. La

-372-

valutazione è a tutti gli effetti un processo razionale

produttivo, che può condurre ad una decisione, una

confutazione, una critica, che si traducono in maggiore

conoscenza ed esperienza; è anche un processo formativo,

in quanto forma e qualifica le capacità cognitive

dell’individuo. Chiaramente deve anche essere un

processo di autovalutazione del sistema valutativo

utilizzato.

Per concludere, vorrei differenziare la valutazione

dal pregiudizio, e dal giudizio affrettato. La

valutazione è un processo attivo, un ragionamento voluto

e cercato. Il pregiudizio è una sentenza preesistente

nella società in cui si vive o nel gruppo sociale in cui

si opera (l’ambiente del lavoro, della palestra,

dell’amicizia) assimilata senza attuare la verifica

della sua validità. Il giudizio affrettato è un basarsi

con errata fiducia sull’istinto dettato dall’esperienza.

Certo, una grande esperienza porta a prendere decisione

in un batter d’occhio, e determinate situazioni

obbligano questa drasticità; nell’insegnamento questo

non dovrebbe accadere, perché la varietà psicologica e

culturale degli allievi può coprire un gamma maggiore

della più vasta esperienza.

La valutazione insegna che bisogna sempre

attuare delle verifiche del proprio modello

valutativo: la società umana è sottoposta a

-373-

continui mutamenti, nell’arte, nella religione,

nella filosofia e nella politica, nei costumi e

nei gusti, tali da obbligarci ad una continua

riconfigurazione dei parametri valutativi.

2. L’insegnamento

La valutazione del modello d’insegnamento adottato trova senso nel rispetto degli allievi e del karate inteso come disciplina mentale e non semplice moto fisico ed agitazione di braccia e gambe. Bisogna ricordare che l’allievo è una persona che, il più delle volte, paga per ricevere un’istruzione e per scoprire un mondo che potrebbe rivelarsi con sua gradevole sorpresa più ricco di quanto possa immaginarsi.

Questa autovalutazione si attua attraverso

diverse fasi di verifica e rimoludazione,

necessarie se si tiene conto che 1) l’allievo

reagisce differentemente in relazione alla

propria volontà e capacità di apprendimento, 2)

l’allievo migliora nel corso del tempo ed

abbisogna di nozioni più accurate, 3)

l’insegnante è a sua volta un allievo, dunque

sono validi anche per lui i punti 1 e 2. Siamo

davanti ad un ciclo perpetuo, una catena

circolare composta da quattro anelli: a)

formulazione del modello, b) riconfigurazione in

-374-

itinere, c) valutazione del modello, d)

validazione finale.

Questa catena è preceduta da una vera e propria

presa di coscienza dell’istruttore stesso.

Esaminiamo i cinque punti dettagliatamente.

Presa di coscienza

L’istruttore deve considerare il proprio spessore

culturale in materia di karate ed il proprio grado di

apprendimento del karate. Ciò che io so è sufficiente?

Cosa ho imparato e come? Qual è l’argomento preferito?

Posso migliorare il mio apprendimento?

Quest’esame avviene tramite un’autovalutazione

obiettiva dell’istruttore che si giudica come allievo e

nella valutazione finale del proprio modello di

insegnamento.

La presa di coscienza deve essere sempre costante

nell’istruttore.

a. Formulazione

Il modello di insegnamento non è il

programma. Quest’ultimo è lo scheletro, la

struttura fissa che riprende le direttive della

federazione in seno alla quale si opera. Per chi

opera al di fuori di una qualunque federazione

-375-

(il karate-do trascende per definizione il

concetto di federazione) è fondamentale basarsi

su una grande esperienza nell'insegnamento,

acquisita personalmente od indirettamente.

Il modello d’insegnamento non è tanto cosa

insegnare, bensì come, e come impostare questo come. Il

primo passo sarà una valutazione iniziale dell’allievo

alla fine della prima lezione, una valutazione a priori

che risulterà ovviamente essere incompleta e pertanto

aggiornabile nel corso della stagione. In base alle

caratteristiche evidenziate si formula il modello, che

comporta da parte dell’istruttore: i) un’idea ben

precisa sulla materia insegnata, ii) un piano

metodologico strettamente rapportato alla natura

dell’allievo, iii) un programma sequenziale e

progressivo dei contenuti della materia, iv)

un’organizzazione del contesto in cui si opera (rapporto

con l’allievo al di fuori del dojo), v) un sentimento di

viva partecipazione da parte dell’istruttore, punto

fondamentale per coinvolgere l’allievo.

b. Riconfigurazione

In questa fase si ha la ristrutturazione

dell’insegnamento. E’ un momento periodico in

cui l’istruttore deve verificare che il modello

-376-

approntato sia coerente con le attitudini e le

aspettative dell’allievo. Ciò che è da evitare è

uno slittamento tra l’insegnamento e

l’apprendimento, il cui effetto è un girare a

vuoto dell’istruttore e dell’allievo, ognuno

chiuso in una spirale che non conduce ad un

sensibile miglioramento. L’istruttore non

dovrebbe sentirsi staccato dall’allievo, né

provare indifferenza per l’argomento trattato

perché da lui già sperimentato e compreso (cosa

impossibile nel karate, dove ogni stadio

successivo obbliga un riesame di quanto

imparato) bensì sentirsi parte di uno stesso

insieme. E’ come una relazione i cui termini si

influenzano a vicenda.

Per concludere mi permetto una considerazione, forse

azzardata per la mia immaturità nel karate, ma

particolarmente sentita. Il dojo ha senso se lavorano

contemporaneamente un maestro ed uno o più allievi;

trova realizzazione in quella che si può definire

trasmissione di conoscenza.

La riconfigurazione del modello di insegnamento è

una fase dell’autovalutazione generale che si ripresenta

-377-

ogni volta che venga a mancare sintonia tra istruttore

ed allievo.

c. Valutazione del modello

La prima vera valutazione del modello

d’insegnamento avviene dopo un arco di tempo

prestabilito. Ad esempio, alla prima sessione di

esami per passaggio di cinture, l’istruttore può

verificare la validità del modello che ha

approntato. Questa non si basa sulla percentuale

di allievi che hanno conseguito la cintura,

perché il karate è essenzialmente un’arte,

estranea a statistiche e calcoli di probabilità.

Piuttosto, l’istruttore baserà l’autovalutazione

su quegli allievi che più a fatica di altri

raggiungono il meglio delle proprie prestazioni.

Se l’istruttore forma da un allievo di

prestazioni non elevate un buon karateka (nello

spirito, nel kime, nella costanza piuttosto che

nella forma) ne consegue un giovamento per

l’intero gruppo di allenamento, che si troverà

più compatto.

-378-

L’istruttore è libero di comunicare in

maniera differente secondo l’allievo cui si

rivolge per una correzione od un elogio od una

dimostrazione, tuttavia scopo principale è di

cementare il gruppo di allenamento, tenere

presente una virtuale linea di tendenza senza

troppo discostarsi da essa. Se alcuni allievi la

superano in meglio, ecco che l’istruttore dovrà

sforzarsi di spingere gli altri sulle loro orme,

ricordando ai “primi della classe” che si è tali

grazie anche a chi non emerge.

d.Validazione finale

L’ultima fase serve a legittimare il modello

d’insegnamento, a dargli valore ufficiale onde

considerarlo un intervento formativo

sull’allievo da utilizzarsi come modello futuro,

e dunque ripetibile nel tempo.

Questa validazione non avviene una volta

soltanto, non ha scadenze precise, è piuttosto

un momento che l’insegnante deve sentire nascere

in sé, quando avverte che il proprio intervento

-379-

forma l’allievo come l’ipotesi iniziale aveva

previsto o come le potenzialità dell’allievo

promettono; quando il concetto tradizionale del

karate è compreso e praticato, anche solo come

tentativo; quando nell’allievo scaturisce la

volontà di raggiungere l’obiettivo che

l’istruttore gli ha fatto scorgere.

La validazione, dunque, è un momento

fondamentale nella vita professionale

dell’insegnante. Egli può confermarsi un buon

istruttore, ed avere la certezza di trasmettere

al meglio la conoscenza insita nel karate-do.

Precedentemente, abbiamo parlato di quattro

fasi attraverso le quali l’insegnamento trova il

proprio modello ideale in relazione a

determinati allievi, l’ultima delle quali è la

validazione. Ora vediamo, schematicamente, le

analisi sulle quali si fonda il processo di

validazione.

- L’analisi dell’efficacia. L’insegnamento è

stato efficace? Ha trasmesso la vera essenza del

-380-

karate? L’allievo è ora in grado do praticare

ciò che ha imparato?

- L’analisi della coerenza. L’insegnamento

ha proposto nozioni coerenti fra di loro?

L’allievo ha riscontrato controsensi interni

nella conoscenza acquisita?

- L’analisi della pertinenza.

L’insegnamento ha proposto nozioni pertinenti

con l’argomento trattato? Sono state proposte

nozioni che nulla hanno a che fare con gli

argomenti del karate?

- L’analisi della trasferibilità.

L’insegnamento ha trasferito all’allievo

integralmente e con chiarezza le nozioni

espresse dall’istruttore?

- L’analisi dell’accessibilità.

L’esposizione della materia trattata è stata

tale da consentirne l’accessibilità per

chiunque?

Se queste cinque analisi hanno un esito

positivo, allora il modello formativo ottiene la

-381-

validazione, l’insegnante ha la certezza della

propria professionalità e la propria competenza

è trasferibile in altre situazioni e

sperimentabile in occasioni differenti.

Conclusione

Se lo scopo della valutazione di un modello

di insegnamento è ora chiaro, conviene

considerare attentamente quali sono i soggetti

che operino la valutazione.

- L’istruttore. E’ il primo responsabile del

cammino degli allievi verso la maturità. Ne

consegue il dovere di verificare continuamente

la validità del proprio insegnamento.

- I colleghi. Per comparare il modello con

il proprio e trarne conclusioni edificanti o

proporre critiche costruttive.

- Gli allievi. Ho dei dubbi sull’autorità

degli allievi a confrontarsi con la valutazione

di un modello d’insegnamento. Non nego la

democraticità di questa azione, dato che ognuno

di noi ha la libertà di formulari giudizi su

-382-

cose che entrano a far parte della propria vita,

tuttavia la conoscenza degli allievi nella

maggior parte dei casi non ha lo spessore di

quella dello istruttore (mi riferisco ad un

istruttore qualificato ed esperto). Su quali

basi, allora, operano una valutazione

sull’operato del loro maestro?

Poniamo il caso che l’allievo sia stato

formato nella scienza della valutazione. Ne

comprende i modelli e le finalità, la logica e

la meccanica… ma la sua cultura di karateka è

legata all’arco di tempo di pratica, anche se ha

costruito basi conoscitive e filologiche sulla

storia del karate.

Essendo il karate, prima di tutto un’arte,

la pratica è l’unica via per comprenderne

appieno i reconditi significati. Può esistere un

ottimo karateka ignorante delle origine

dell’arte che pratica (anche se lo stimolo a

conoscerle è inevitabile) ma è impossibile che

uno studioso, per quanto esperto, a digiuno

dell’arte ne capisca qualcosa.

-383-

Gli allievi (lo sono anch’io) devono

sforzarsi di seguire l’insegnamento e di trovare

in esso quelle tracce utili alle peculiarità di

ognuno. Da parte dell’allievo ci vuole

l’intelligenza di capire che l’apprendimento è

attivo, e che dunque bisogna cercare e scovare

nelle parole e nei gesti del maestro le verità

che possono innalzare il livello. Ciò non toglie

il fatto che l’istruttore deve comunque e sempre

autovalutarsi seguendo le regole finora esposte.

-384-

14. La filosofia degli antichi greci

Ho iniziato da qualche giorno la lettura diun libro di Severino, quello che si può ritenerecome uno dei maggiori, o dei più conosciuti (ledue cose non sempre coincidono) filosofiitaliani. Comunque sia, devo ammettere che lasua prosa è limpida e il suo stile conciso,quasi illuminante. Si tratta di una storia dellafilosofia antica, pertanto quella nata in Greciae nelle sue colonie (termine infelice, loammetto), intorno al sesto secolo avanti cristo.In realtà avevo già letto una bella storia dellafilosofia, quella di Bertrand Russell, uno deimaggiori filosofi inglesi del secolo scorso;inoltre ultimamente avevo scaricato diversomateriale molto interessante e dettagliato suifilosofi che normalmente vengono definiti comepresocratici. Ho abbastanza materiale percrearmi una buona base conoscitiva della primafilosofia europea, delle sue radici e dei suoiprimi movimenti.

Il libro di Severino mi serve a cercare ditrovare un filo conduttore che attraversil’intera storia della filosofia occidentale –partendo appunto dai greci antichi – per evitaredi perdermi nelle singole storie dei filosofi, avolte decisamente complesse e profonde. E quinascono i primi problemi; ovviamente, aggiungo,perché a questo mondo è assai difficoltoso

-385-

riuscire a percorrere una strada senza incapparein quale rottura fastidiosa del fondo stradale,oppure in un’improvvisa bella vista che ci rubalo sguardo e il cuore. In questo caso, è ilrendersi conto che Severino non esponeun’imparziale storia della filosofia, bensìdipana un racconto, una storia avventurosa dovei filosofi sono dei coraggiosi avventurieri allaricerca di un prezioso tesoro. Un tesoro cheprobabilmente nemmeno loro stessi sanno cosasia, anche se Severino sembra intuirlo eprobabilmente immaginare che anche i filosofigià sapessero cose che solo secolo dopo sonodiventate di conoscenza comune nella filosofiacorrente. Quello che voglio dire è che mi pareche Severino stia rileggendo l’intera storiadella filosofia a suo modo, o meglio la impostasecondo il proprio modello di pensiero, ilproprio sistema filosofico, la propria ideafondante. E facendo quest’operazione,raccontando una storia, affabulando i lettoriinserendo i filosofi in un percorso giàstabilito, come se ci fosse già a prescinderedalle loro scoperte e dalle loro intenzioni, nonfa altro che ritornare a quel mito cheall’inizioa del suo libro sembrerebbecondannare, in quanto antitesi dello spiritofilosofico. Perché secondo Severino, il mito,pur sempre importante e fondamentale perl’essere umano, non potrà mai essere il racconto

-386-

della Verità, in quanto non la ricerca usando laragione, ponendosi domande, mettendo in dubbio,cercando di osservare la realtà per capirne ifondamenti con l’aiuto della sola mente. Il mitoè una non verità, è un complesso narrativo chevuole spiegare all’uomo il senso delle cose, macome struttura stabilita e immutabile. Gli dèisi accettano per come sono e non li si indaga,il mito lo si accetta, lo si assorbe in sé erimane quello per sempre, immutabile. Il mito è,dunque, un vedere le cose con un’idea giàstabilita che appartiene più alla poesia che nonalla ragione. La nascita della filosofia segnail distacco dal mito, perché i filosofi greci,per primi, negano il mito e si mettono incammino con le proprie gambe alla ricerca deiprincipi che governano il mondo, domandandosicosa sia la totalità delle cose, che fondamentiabbia, quale leggi la governano.

E’ chiaro che si tratta di una rivoluzione ecertamente io non ho le capacità e le conoscenzeper negare l’importanza fondamentale di questoevento. Tuttavia, mi permetto di far notare cheSeverino, negando il mito, lo reintroduce nelsuo racconto, perché lui rivede la nascita e ildipanarsi della storia della filosofia alla lucedi una idea maturata riflettendo su venticinquesecoli di filosofia; perché ritiene che queiprimi filosofi già cercassero un qualcosa il cuiconcetto è nato molto dopo ed è venuto

-387-

evolvendosi e maturando in due millenni; perchédescrivendo la nascita della filosofia comeevento di rottura col mito, non fa cheimmaginare e proporre una fondazione miticadella filosofia; perché se la storia non hasceneggiatura o linee guida se non viste aposteriori, mentre nel suo dipanarsi è unacollezione di eventi le cui relazioni fra lorosono dettate dalle stesse leggi che governano ilgioco di life, allora raccontarla intessendolaattorno alla ricerca di uno stesso elemento,come se tutti i filosofi sapessero a prioriquale fosse l’elemento da cercare, significamitizzarla.

Quando si vive e si lavora all’interno di unmovimento di pensiero oramai consolidatosi, e sivuole ricercarne l’origine persa agli albori deltempo, collocandola nei pressi della vita diuomini la cui intenzione probabilmente non eraquella di creare una simile corrente dipensiero, allora significa effettuare unafondazione mitica.

Quando gli appartenenti ad un genereletterario ricercano degli eventuali precursori,non fanno che fondare un mito, perché non eranell’intenzione di qui cosiddetti precursoricreare quello specifico genere letterario enemmeno ci avevano pensato.

Ma io non ho lo stesso approccio diSeverino, nei riguardi del mito, non

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considerandolo uno stadio del pensiero superatoe superabile. Il mito, e il libro stesso diSeverino lo conferma, è la manifestazione oforse la ragione d’essere della qualitàprincipale dell’essere umano: la mitopoiesi.Ovverosia il desiderio irrefrenabile diraccontare storie e di vedere ogni cosa comefacente porte di un racconto. Noi vogliamoaffabulare ogni cosa e soltanto trasformando ilmondo in un racconto, in una vera e propriafiaba possiamo soddisfare la nostra anima esentirci esseri umani. Ad esempio, anche unlibro meraviglioso come Il racconto dell’antenato diDawkins si dispiega come un racconto e usa lostratagemma di una scaletta narrativa perspiegare l’evoluzione, inserendola in unpercorso mitico, perché vista con gli occhidelle attuali conoscenze e comunque vista noncome avvicendamenti dovuti a causeinterdipendenti ma involontarie, bensì come attidi volontà dei geni per sopravvivere. Anchel’evoluzione, o meglio la nostra idea dievoluzione, è un mito. E qui, prima dicontinuare è meglio spiegare che c’è differenzatra un qualcosa e la sua idea. Che l’evoluzionesia la giusta teoria per spiegare il diveniredegli esseri viventi, è fuori dubbio; ma questateoria non è il terrirotia, ma una sua mappa. Ilterritorio non è la mappa non si è evoluto ecostruito nel corso del tempo seguendo lo scopo

-389-

preimpostato di fornire materiale per una mappa.La mappa è un racconto del territorio, è laforma mitica del territorio.

La conclusione è che il mito puòcorrispondere alla Verità, come nel casodell’evoluzione; oppure può essere solo unracconto per trovare la nostra origine, ol’origine di tutto, come nel caso dellafilosofia di Severino. Perché noi in quantoesseri umani culturali, abbiamo origine nelmito. La nostra psiche è nata nel mito ed è ilmito che offre una spiegazione di cosa noi siamoora. Di cosa siamo come entità psichiche eculturali, s’intende.

Proseguendo la lettura del libro suddetto –e per farvi capire che non ho giudizi negativisu Severino, sappiate che comprerò tutta lacollana della storia della filosofia, anche seil mio mito è diverso da quello che Severinodipana nelle sue opere – ho notato come i grecidi Severino avessero raggiunto identiche – oquasi – conclusioni sul senso delle cose diquelle raggiunte in India con alcune scuole dibuddismo e in Cina con il taoismo. E da notare èlo steso periodo storico, più o meno, ovvero dalsesto al quarto secolo avanti cristo, come sel’umanità fosse stata attraversata da un nuovovento, come una sorta di risveglio collettivo. Manche questo è mito.

-390-

Tornerò successivamente sui parallelismi trala filosofia dei presocratici e quella buddistae taoista.

Milano, 18 dicembre 2008

-391-

15 Nidanasamiuttam

Nei miei vecchi files, Ho recuperato altri miei

commentari inerenti dei testi classici di buddismo.

Ricordo bene che sono contenuti in un meraviglioso libro

che chiesi a barbara come regalo di natale e che lessi

con estremo interesse mentale, riempiendolo di appunti.

A questi tempi, l’interesse che nutrivo per il buddismo

era molto vivo e genuino, dettato da una sincera voglia

di approfondirne le dottrine. Ora, riesaminando quel

periodo, credo che possa iscriverlo nella mia costante e

febbrile ricerca di un centro di gravità permanente,

così come canta Battiato nell’omonima canzone; ed è per

la stessa ragione che successivamente mi sono convertito

alla fede bahai, ritornando poi al buddismo 8ma di

differente scuola), poi ancora alla fede bahai e infine

alla filosofia, forse l’unico vero strumento di

indagine. Nel frattempo dedicandomi alla poesia,

all’arte, alla scrittura, ala fiaba, in un percorso

ciclico che sinceramente mi lascia sconcertato.

Ecco i vecchi file, di cui sopra:

-392-

COMMENTO AD ALCUNI CAPITOLI DEL

NIDANA-SAMYUTTAM

1^stesura: dicembre 2001-gennaio 2002, Milano

Introduzione

Il Nidana-Samyuttam fa parte del Samyutta-Nikaya, una grossa

raccolta di discorsi del Buddha ordinati in sezioni,

libri o sottosezioni, capitoli e, per finire, paragrafi.

Il sutra in questione è il primo libro della sezione

delle condizioni (Nidana-vagga). Bisogna anche dire che

la grande raccolta del Samyutta-Nikaya è inserita nel

vastissimo canone Theravada, ed è redatto in lingua

pali. Noi, come seguaci del Mahayana (e come tali

interessati alle verità esposte in successi sutra)

abbiamo il dovere di studiare i testi del buddhismo

delle origini, utili a fornire i giusti lumi per

chiarificare gli insegnamenti che il Signore Buddha

espose con dovizia di parabole e simbolismi negli ultimi

grandi sutra, ed in particolare nel Sutra del Loto.

E’ quanto mai chiaro che tutta la dottrina del buddhismo

primitivo, a torto nominato Hinayana (Piccolo Veicolo)

-393-

pur nella sua limitata visione delle cose, è

indispensabile per comprendere appieno la profondità del

Dharma del Buddha; per questa ragione è sempre bene

iniziare lo studio didattico del buddhismo con i testi

in pali del canone Theravada (Anziani). E qui è

necessaria una nota di chiarimento.

L’Hinayana, come scuola, in realtà non esiste, essendo

questo appellativo stato coniato dagli esponenti del

nascente movimento Mahayana per designare tutte le

dottrine insegnate precedentemente. Io preferisco usare

il termine di “buddhismo primitivo, o delle origini”. Il

Theravada non è che l’unica scuola rimasta oggigiorno

del buddhismo primitivo. Questo buddhismo è l’insieme

degli insegnamenti che il Buddha espose nella prima fase

della sua trasmissione del Dharma, in relazione alle

esigenze ed alle capacità di comprensione dei primi

seguaci. Successivamente, sul finire della sua esistenza

terrena, l’Onorato del Mondo espose la vera dottrina, il

vero Dharma, nella forma del Mahayana, che vuol dire

appunto Grande Veicolo, in quanto le sue concezioni sono

di portata universale. Questi insegnamenti, tuttavia,

non vennero trasmessi immediatamente, ma tramandati

oralmente da discepolo a discepolo fino a quando la

cultura non fu pronta per accettarli.

Così vuole la tradizione. Nella realtà, presumibilmente,

alcuni monaci iniziarono a maturare una visione più

-394-

ampia dettata da particolari dettagli della dottrina del

Buddha, ponendo in tal modo le basi del Mahayana e

successivamente scrivendo i sutra quali il Prajnaparamita

e il Saddharmapundarika. Dunque, si potrebbero concludere,

il Mahayana non ha nulla a che vedere con l’originario

insegnamento del Buddha. Non è esattamente così:

possiamo tranquillamente affermare che il Dharma del

Buddha letteralmente inspirò i monaci spiritualmente più

evoluti, illuminandoli e mostrando loro il nuovo

veicolo, che essi non idearono affatto, in quanto esso

era già archetipicamente presente. Il Buddha, bisogna

ricordare, essendo un “assoluto”, trascende spazio e

tempo ed il suo insegnamento è vivo e presente in ogni

istante e luogo dell’universo. Ciò vuol dire che il

Buddha insegnò, insieme alle dottrine studiate dal

Theravada, anche il Mahayana, seminò baccelli di puro

Dharma che germinarono secoli dopo, quando le

circostanze furono idonee a stabilire un adeguato

ambiente di crescita. In tutti coloro che la ricerca del

Nirvana risultava limitata, le pianticelle crebbero nel

profondo dell’inconscio, fiorirono bagnate dalla rugiada

delle parole del Buddha e maturarono alla luce calda

della prajna nuovi frutti: i bodhisattva. Costoro

“riscoprirono” gli ultimi insegnamenti del Buddha,

“riscrissero” i sutra ed esposero al mondo l’univo

-395-

veicolo possibile per realizzare il Dharma qui ed ora:

il Veicolo del Buddha.

Tutto ciò raggiunse il suo parossismo nel Sutra del

Cuore e nel Sutra del Loto, sommi insegnamenti che

trasmettono il vero Dharma del Buddha.

Detto ciò, ritorniamo al Nidana-Samyuttam. Per calcolare

l’impatto di forze subatomiche è necessario utilizzare

formule matematiche molto complesse che, tuttavia,

necessitano da parte dello studioso la conoscenza delle

regole principali, quali quelle dell’addizione, del

prodotto, della divisione, eccetera. Similmente, per

immergerci nel sublime campo del Mahayana e potere

gioire nel leggere e recitare il Sutra del Loto,

dobbiamo essere ferrati nei principi basilari del

buddhismo, che proprio si trovano nella loro integrità

nel canone pali.

Nel Nidana-Samyuttan viene esposta la genesi condizionata,

la catena di condizioni che legano la nostra esistenze

ad un imperituro ciclo di rinascite. Come vedremo, la

genesi condizionata è legata alle Quattro Nobili Verità

ed è la soluzione per capire come l’ignoranza sia

basilarmente la causa del nostro vivere dolorosamente.

Ancora una volta, ci tengo a precisare che non sempre è

un bene interpretare la rinascita come reincarnazione di

un principio individuale da un corpo ad un altro

-396-

attraverso una sequenza temporale di esistenze.

Rinascita è anche nascere ogni giorno immersi

nell’illusione e nell’ignoranza.

1. Buddha-Vagga

In questo capitolo il Buddha espone la genesi

condizionata, imputando ad essa la causa dell’origine

del dolore, che come si è visto nell’esegesi del Sutra

della messa in moto della Ruota della Legge è una della

Quattro Nobili Verità; ne conviene, allora, che questo

capitolo del Nidana-Samyuttam ne è una sorta di

corollario.

La genesi condizionata è conosciuta anche come i dodici

nidana, ovverosia i dodici anelli perché la genesi viene

vista come una sorta di catena ciclica. Preferisco il

termine di “genesi condizionata”, addicendosi

maggiormente all’idea che volle presentare il Buddha.

Nel suo stile estremamente conciso e privo di fronzoli,

il Buddha ci elenca immediatamente quelle che si

potrebbero definire come delle stazioni nel cammino

dell’evolversi dell’essere umano, in ognuno delle quali

si manifesta ed opera una determinata qualità o virtù

(non nel suo senso etico) effetto di una causa

-397-

precedente, che a sua volta è l’effetto di un’ulteriore

causa antecedente.

La prima stazione è l’ignoranza, che come si è già visto

nel Sutra della messa in moto della Ruota della Legge, è una delle

cause dell’origine del dolore. In generale, nel

buddhismo di ogni scuola, l’ignoranza è vista proprio

come il fondamento negativo, la madre dell’illusione e

della brama, quanto di peggio un essere umano possa

dimostrare. Naturalmente, non si tratta di una

deficienza di erudizione, anzi! che nel buddhismo – e

specialmente nella tradizione zen – la saggezza (prajna)

scaturisce da un’assidua pratica meditativa e non da uno

zelante studio dei sutra. Sempre nel capitolo che stiamo

esaminando, il Buddha spiega stazione per stazione, e

nella fattispecie dell’ignoranza, parla di nescienza

delle Quattro Nobili Verità. Ignorando la presenza del

dolore nella vita, la sua origine, la sua cessazione

possibile e il mezzo che conduce a questa cessazione,

l’essere senziente causa la nascita dell’ignoranza come

stato di non-conoscenza e produttrice della genesi

condizionata. Come si vede, siamo sempre all’interno di

una stessa vita, e non già in un moltiplicarsi di

reincarnazioni; ignorando la storia del dolore nella

vita di tutti noi, in questa stessa esistenza noi

produciamo una catena di impurità che conducono ad un

ritorno ciclico delle stesse stazioni, un circolo

-398-

vizioso che ci incatena ad una forma di pensiero ed a un

modus operandi del tutto insufficienti a realizzare in

sé l’universo-dharma, che altro non è che il Dharma del

Buddha, o natura del Buddha, che tutti noi possediamo da

sempre.

La natura di Buddha, ovverosia quello stato nel quale

siamo un tutt’uno con l’universo e tempo e spazio

vengono annullati, è lo stato naturale e spontaneo di

ogni cosa esistente, animata o meno. Tuttavia, gli

esseri animati, dotati di coscienza e pensiero, emozioni

e sentimenti, vivono in turbinio di passioni – il ché

non è cosa negativa – che spesso conducono la loro mente

lontana da una giusta visione dell’universo. Questa

visione errata produce concezioni, opinioni, ipotesi che

vengono tramandate di generazione in generazione,

allargando ed aumentando le basi per lo sviluppo

dell’ignoranza. Nel momento in cui, la verità del dolore

(con i suoi tre sigilli, come spiegato sopra) viene

realizzata, allora l’ignoranza si dissolve e diviene

possibile iniziare il cammino verso la buddhità. Il

problema sono le tendenze, rappresentabili come la forza

di inerzia delle nostre azioni, e pensieri e parole.

Fino al cessare di questa forza, la nostra vita non può

che seguire i vecchi schemi e metodologie di pensiero,

appunto in quanto influenzate dal nostro agire passato.

Possiamo chiamare queste legge, la legge del karma. Lo

-399-

spazio che sussiste fra le tendenze che non possiamo che

seguire e la libertà assoluta di reagire agli eventi a

nostro piacimento rappresenta il nostro grado di karma,

o meglio: la forza del karma. Più piccolo è lo spazio

fra il libero arbitrio ed il destino maggiore è la

potenza del karma e dunque la pesantezza delle azioni

passate. Maggiore è lo spazio di azione, minore

l’influenza del karma. Quando lo spazio sarà uguale

all’infinito, vorrà dire che ci saremo affrancati dalla

legge del karma, avendo scatenato la natura di Buddha

che è in noi.

Dobbiamo immaginare uno scultore che ideata un’immagine

cerca di ricavarla da un blocco di pietra, scalpellando

le parti superflue. maggiore è la sua bravura, maggiore

sarà la possibilità che la statua risulti identica alla

sua immagine. Così, l’immagine è la natura di Buddha che

noi grazie agli esercizi percepiamo di avere. La nostra

capacità di colpire è il grado del nostro karma, e la

statua che ne risulta è il nostro gradi di

illuminazione. Dovremo scolpire molte statue per

migliorarci, e non è detto che in questa vita ci si

riesca.

La seconda stazione, che sorge in dipendenza

dell’ignoranza, sono i sankhara. Il termine è di

difficile traduzione, indicando le predisposizioni che

-400-

nascono a causa dello stato di ignoranza e che imprimono

un corso all’esistenza non ancora individualizzata.

Chiaramente, qua si intendono le azioni della vita

passata che predispongono i sankhara, ma noi possiamo

immaginarli come fattori ereditari, ambientali ed

educativi, nonché come il daimon idealizzato dallo

psicologo jungiano Hillman. Conviene ora fare una piega

all’esterno per parlare del daimon e di come esso possa

essere considerato come un sankhara.

Hillman, nel suo libro Il codice dell’anima, cerca di

riproporre una psicologia distante da una fredda scienza

che vede l’essere umano come una pura e schematica somma

di fattori, tali che quel fattore più questo fattore più

altri n fattori produce l’essere umano e la sua

individualità, al pari di una semplice operazione

matematica. Hillman rifiuta una simile conclusione, e

vuole dimostrare che l’individualità umana ha un

nocciolo incontaminato che è l’anima, la quale viene al

mondo custodita e influenzata dal daimon.

16 L’educazione dei figli

Mi soffermo su questo argomento, pervalutare il mio modo di essere padre ededucatore. Pur ammettendo che ritengo il ruolodel padre privo di lineamenti ben definiti, a

-401-

differenza delle generazioni precedenti, rimaneinvariato il suo ruolo – così come quello dellamadre – di educatore. Ora, cosa significhieducare è compito arduo da definire, così come ècompito arduo quello di metterlo in pratica; sepure risulta fondamentale il farlo.

E’ chiaro che per essere educatori bisognasia credere nel proprio ruolo e nella suaimportanza, sia avere dei modelli diriferimento, ovvero dei valori superiori, delleIdee cui tendere per poi riflettere taletensione verso i propri figli. Risultaconseguente che educare significa trasmettere ivalori cui si crede, pertanto è precipuamentenecessario possedere dei valori.

Da dove arrivano questi valori che noidobbiamo trasmettere ai nostri figli? sono ivalori della nostra società, oppure quelli aloro volta ricevuti dai nostri genitori (equesti ultimi due coincidono?)? Oppure liricaviamo dalle esperienza di vita vissuta? Sonolegati al nostro modo di vivere e pensare? Credosia un po’ di tutto ciò, ma credo più di ognialtra cosa che i valori rispecchino il nostromodo di vivere e di pensare e di rapportarci congli altri. Ecco, allora, che per essereeducatori, per prima cosa dobbiamo tenere – comesi suol dire – una retta e decente condotta divita. Tenere, così come si tiene la rotta, unavolta fissata, malgrado le tempeste o la calma

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piatta, perché la meta è davanti a noi, abbiamofissato la rotta tramite le costellazioni,sappiamo che là in fondo è la fine del viaggio eche è nel viaggio che ci forgeremo. I valori nonsono la meta, ma il viaggio stesso, sono tuttociò che si fa per tenere la rotta, sono laconseguenza della ferma volontà di raggiungerela meta. La quale sarà sempre oltre l’orizzonte,quale ideale puro e irrealizzabile, appuntoperché non è nella sua natura venire realizzato,concretizzato, messo in pratica, bensì è nellasua natura ispirare i marinari e i naviganti,dar loro la forza e la costanza di proseguire ilviaggio; il quale a volte avrà degli improvvisiscartamenti, scogli da evitare, pericoli daaffrontare, ampi giri da effettuare, isole earcipelaghi da circumnavigare o attraversare,che i nostri valori muteranno, perché avremoperso l’orizzonte della meta. Ma solo per untempo limitato, perché soltanto guardando lecostellazioni alla fine dell’impedimento odell’evento fuorviante ritroveremo la rottagiusta per proseguire il viaggio.

Ci sarebbe, dunque, da capire cosa sianoqueste costellazioni che ci aiutano a tenere larotta, che ci indicano la strada per quegliideali verso i quali attueremo un cammino cheforgerà i nostri valori. Sono le stessecostellazioni per tutti o cambiano? Sonoarchetipi o le acquisiamo? Conducono solo verso

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ideali giusti, o posso indicare la strada perl’ombra, per il male, per l’errore devastante?

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16. COMMENTO AL DHARMACAKRAPRAVARTANASUTRA

1^stesura, dicembre 2001

Introduzione

La traduzione esatta del titolo del sutra è: Sutra della

messa in moto della Ruota della Legge. Già da qui si

possono trarre ampi spunti di riflessione e discussione,

infatti questo sutra può ben essere considerato il

resoconto del primo discorso del Buddha nell’

esposizione della dottrina che sarà a fondamento del suo

insegnamento. Da quel momento si ha, nella tradizione

buddhista un po’ di tutte le scuole, la prima messa in

moto della Ruota della Legge, che segna l’introduzione

nel mondo del Dharma del Buddha.

Il Dharma del Buddha è una nozione dai significati tanto

ampi quanto sfuggenti, e se inizialmente era atto ad

identificare in una discussione fra monaci o in

un’esposizione o commento di parole dell’Illuminato lo

stesso insegnamento del Buddha, successivamente ha

inglobato nelle sue molteplici accezioni anche quelle di

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“senso delle cose”, “legge universale”, “il fattore più

piccolo dell’esistenza causale dato di conoscere”, e

molto altro ancora. In questo sutra, il termine

mantiene il suo significato primitivo, dato che non è

ancora nata la filosofia mahayana con tutto l’apparato

speculativo di respiro cosmico che me segue. Ciò non

vuol dire, tuttavia, che non si possa leggere il sutra

in questione tenendo a mente una nozione più universale

di Dharma.

L’importanza del sutra, comunque, è data

dall’esposizione che il Buddha fa in pubblico delle

Quattro Nobili Verità, dette anche Eccellenti

Asserzioni, che risultano essere il fondamento del suo

insegnamento. Il Buddha, avendo realizzato il risveglio

(bodhii), si presta a trasmettere questo meraviglioso

tesoro a chi è disposto ad ascoltarlo. La tradizione

vuole che al momento del Risveglio, il Buddha,

comprendendo che nessuno avrebbe mai potuto seguire una

così difficile Via, decidesse di ritirarsi nella foresta

a meditare in silenzio per il resto della sua esistenza.

Solo l’intervento di Indra (una divinità induista,

precisamente vedica) convinse il Buddha ad insegnare il

Dharma, salvando così tutti gli esseri senzienti, anzi,

l’intero universo. Sicuramente si tratta di

un’integrazione tardiva per compiacere e forse attirare

i fedeli induisti; è certo, comunque, che l’iconografia

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buddhista ha attinto a piene mani in quella induista, la

quale, come religione, ha nel corso dei secoli assorbito

il buddhismo, relegando il Buddha storico a

manifestazione (avatar) di Vishnu.

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La Prima Asserzione

Dolore

La vita è dolore (duhkha). Il Buddha parla che è

doloroso non ottenere ciò che si vuole, è doloroso

perdere ciò che si ama, vivere con ciò che si odia, la

malattia, la morte. Sembrerebbe che la vita stessa sia

dolorosa. Alla fine, conclude ricordando che i cinque

skandhaii sono dolore.

Una visione a prima vista tremendamente pessimista della

vita, che poggia la sua base sulla realtà del dolore,

sulla sua continua azione nei confronti di tutti gli

esseri. Il Buddha, va detto subito, non è un filosofo,

non è un uomo dedito alla speculazione; egli è un medico

che mosso da compassione individua una malattia, ne

indaga le cause, realizza che esiste un rimedio e lo

mostra a tutti, in un atto di donazione completa di se

stesso. Ciò che richiede in cambio è solo attenzione,

volontà, generosità, disciplina, concentrazione e

perseveranza. Ne consegue che non bisogna studiare ed

analizzare le Quattro Eccellenti Asserzioni alla stregua

di una qualsiasi teoria filosofica, bensì farle proprie

con l’intero corpo, realizzarle nella vita di tutti i

giorni.

Il dolore di cui si fa cenno, che è un sintomo, non è un

veleno che ci uccide. E’ la cartina tornasole della

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nostra esistenzialità. Noi siamo “esistenti”, e siamo

“personalità” e dunque viviamo in quanto soffriamo, e

tutta la nostra vita si costruisce sulla sofferenza. Di

questa sofferenza dobbiamo prenderne atto con

consapevolezza, questo ci dice il Buddha, anzi ci esorta

a farlo. Dobbiamo vivere il dolore per capire quanto

importante esso sia per l’evoluzione non solo dell’uomo

in quanto homo sapiens, ma di tutte le specie viventi,

del mondo e dell’intero universo. Nel mondo della

natura, la sopravvivenza della specie è legata alla

lotta del più forte che sopprime il più debole, del più

forte che scampa il predatore, del più forte che

trasmette il suo seme,

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del più forte che resiste alle calamità; dolore che

forgia, che costruisce, che modella. Dunque, dire che

tutto è dolore, vuol dire che questo posto in cui

viviamo è vivo con noi ed in noi, pur essendo

condizionato ed impermanente. Lo stesso Bodhisattva, in

eterno procinto di realizzare la natura buddhica,

rimanda l’agognata meta per rituffarsi nel dolore della

vita e salvare tutti gli esseri, quasi consapevole che

solo provando dolore può sperimentare l’ebrezza

dell’avvicinamento alla buddhità.

Nel dettaglio, il Buddha si riferisce al dolore

dell’essere umano che pur essendo un costrutto di

aggregati si illude di avere una natura propria, una

essenza e ne rimane legato moltiplicando in tal modo il

dolore. Qui bisogna introdurre tre termini: Sankhara

(condizionato), Anatta (non sussistente) e Anytia

(impermanente) relativamente ai cinque skandha. L’essere

umano, dice il Buddha, per quanto ci è dato sapere

tramite l’osservazione dei sensi (ed altri dati non ci

possono essere forniti al di fuori della sfera di azione

dei sei sensi) è un costrutto, un sistema operante

grazie all’armonia di cinque aggregati: il corpo

materiale, organico; le sensazioni (udito, vista, tatto,

gusto, olfatto e pensiero); le ideazioni, che susseguono

alle sensazioni (ascolto un rumore - la sensazione - lo

identifico successivamente come musica di pianoforte -

410

ideazione o percezione); tendenza comportamentale,

ovverosia la nostra personalità, con la quale nasciamo

e che ci suggerisce il comportamento e gli atteggiamenti

(qualcosa di simile al daimon greco, il genio che

accompagna l’anima nell’esistenza); la coscienza. Ora,

questi aggregati, questi fattori costituenti, sono causa

di dolore. Perché? La risposta ci è fornita da un sutra

della tradizione mahayanica, uno dei testi più studiati

ed in alcune tradizioni (zen) venerati come fondamento

della dottrina del Buddha, Il Sutra del Cuore

(Prajnaparamita Hirydaia). Quivi si afferma che i cinque

aggreagati sono nella loro essenza vuoti, ovverosia non

hanno essenza e come tali sono impermanenti, non

sussistenti e condizionati. Analizziamo le tre qualità

(ma forse andrebbe detto non-qualità?)

Impermanente. L’essere umano come nasce, così muore.

Essendo un composto, presto o tardi si disferà perdendo

la temporanea ed effimera identità. Nel finale del Sutra

della messa in moto della ruota della legge, un

discepolo del Buddha, Kondanna, dice: “Ogni cosa che ha

la natura di sorgere, ha anche la natura di cessare.”

L’eternità intesa come impossibilità di una fine dello

trascorrere del tempo non è negata. Negata è l’idea

dell’essere umano che permanga se stesso per l’eternità.

Non sussistente. Mancanza di un ego, di un anima dotata

di una essenza, esistente in sé e per sé stessa.

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L’identità non è un’unità incondizionata, ma il prodotto

dell’agire dei cinque aggregati e come tale è priva di

natura propria e dunque suscettibile di modifica, di

nascita e cessazione. Non si nega l’Io, solo si fa

notare come esso sia solo un prodotto artificiale, un

artificio per l’appunto.

Condizionato. Nell’Antico Testamento, iddio si proclama

come “Io sono Colui che sono”. Colui che esiste da sé,

indipendentemente da qualunque altra cosa al di fuori di

ciò che è, della sua natura. Iddio è incondizionato.

L’essere umano non è esistente per se stesso, così come

nulla nell’universo è esistente per se stesso, ma

manifesta la propria identità soltanto grazie a una

moltitudine di rapporti con altre entità, animate o meno

che siano, vive o morte che siano. Vuol dire essere

condizionati, vivere in dipendenza di altro, il quale

vive in dipendenza di altro ancora. L’universo allora,

non è un insieme di “cose” a se stanti e dotate di

natura propria, bensì un sistema dove tutto è evento. La

stessa scienza, negli ultimi anni, specialmente con la

meccanica quantistica e la fisica subatomica, sta

riproponendo questa visione dell’universo.

Ora, avendo realizzato che i cinque aggregati sono

condizionati, impermanenti, non sussistenti, dobbiamo

capire come mai siano causa di dolore. E se i cinque

aggregati sono l’essere umano (io che scrivo, tu che

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leggi), ne consegue che l’essere umano è dolore, è causa

ed è effetto del dolore. Perché?

i . Bodhi. Risveglio, impropriamente tradotto con “illuminazione”. E’ l’alienazione dell’individuodal samsara, e di conseguenza la stessa cessazione dell’individuo in quanto sinonimo di Io ed Ego. E’ la realizzazione totale, e non mentale o razionale, delle Quattro Nobili Veritàe dei Dodici Anelli di Causalità.

ii . Skandha. Aggregati che nel loro agire in relazione reciproca provocano l’illusione apparente della personalità. Rupa: forma materiale. Vedana: sensazione sensoriale. Samjna: percezione on ideazione che segue la sensazione. Samskara: tendenza comportamentale. Vijnana: coscienza nella sua totalità (conscio ed inconscio).

413

La Seconda Asserzione

Causa del dolore

Causa ed effetto. Se accosto una fiamma ad un foglio di

carta, questi brucerà. Il Fuco è la causa, il piccolo

incendio l’effetto. In effetti, anche il fuoco, quale

causa, risulta essere un effetto, dato che ci sarà stata

sicuramente una causa ad originarlo. Così, il piccolo

incendio, pur essendo un effetto, sarà causa del fumo.

La realtà è tutta qui, un sistema complesso di cause ed

effetti. Quale è la causa del dolore? I cinque

aggregati? Il Buddha dice: “La brama che cagiona la

rinascita è accompagnata da appassionato piacere, poiché

trae piacere da questo o da quell’oggetto, cioè a dire,

la concupiscenza, la sete di vivere e la sete di

annientarsi.” Parole potentissime, ma facili da

fraintendere. Si parla anche di rinascita, termine

spesso usato come sinonimo di reincarnazione, intesa

questa come trasmigrazione di un’identità permanente da

una vita all’altra. Vorrei esporre una proposta di

interpretazione alternativa.

Ogni giorno è una rinascita, perché ogni giorno nasciamo

a nuova vita. Il cielo non è quello di ieri, i pensieri

non sono quelli di ieri, le emozioni anche. Sono simili,

è vero, ma non sono le stesse. Tutto il mondo non è lo

stesso, e qualunque cosa facciamo, o proviamo o sentiamo

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è come se fosse per la prima volta. In tali termini,

rinasciamo ogni giorno. Per quanto riguarda una

probabile anima, non mi pronuncio. Lo stesso Buddha, non

disse mai nulla a riguardo.

Causa del dolore è la brama di questo rinascere, cioè il

desiderio vorace di vivere il mondo traendo piacere

dagli oggetti, dalle persone, dagli esseri viventi, dai

pensieri ed altro ancora. In una sola parola:

attaccamento.

Attenzione a due cose! Il Buddha ci fa notare che anche

il desiderio del non attaccamento (annientamento) è

causa del dolore, ché essendo appunto un desiderio di

qualcosa è di conseguenza una forma della “brama”.

Secondo, sarebbe una visione oltremodo aberrante del

buddhismo ritenerlo un sistema di pensiero che vede la

voglia di vivere e la vita stessa come un male da

estirpare per cessare il dolore. Il Buddha amava la vita

ed ha vissuto con passione. Qaule allora la differenza?

Dobbiamo tornare, dunque, per capire questa seconda

verità, all’impermanenza, al condizionato ed al non

sussistente. Tutte le cose non avendo natura propria,

dipendendo le une dalle altre, sono essenzialmente

vuote. La brama di vita, al contrario, è considerare le

cose come fini a se stesse e dotarle di una natura

propria a prescindere dal rapporto con l’intera

totalità. La brama è dunque considerare se stessi entità

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dotati di una identità permanente, di una natura propria

sussistente e di una vita incondizionata. In tali

termini si crea desiderio di noi stessi, e di

conseguenza di quello e quell’altro oggetto. Se poi

decidiamo che questo desiderio non va bene e vogliamo

annullarci, ecco che nasce una nuova brama, perché

l’annullamento è un oggetto desiderato.

Ogni brama che proviamo, per un nuovo telefonino, una

nuova moto, un’altra donna, un viaggio esotico, un

affare promettente, un libro interessante, anche per

recitare davanti al Buddha o meditare, è una rinascita.

Non c’entra nulla col fatto di vivere, di mangiare, fare

l’amore, volere bene, sacrificarsi per il prossimo,

scrivere o leggere. Non il fare che crea la rinascita,

ma la modalità del fare.

Il Buddha parla di concupiscenza. Che è un modo per

definire un desiderio smodato. Nell’economia delle

quattro verità esposte, indica un desiderio ottenebrato

dall’ignoranza.

L’ignoranza è lo sfondo della Seconda Asserzione. Non

vine detto apertamente, ma risulta chiaro che tutto il

discorso ruoto attorno a questo stato di essere della

mente. Un’ignoranza che non ha nulla a che vedere con la

mancanza di erudizione, di conoscenza, o con la demenza.

La si vuole intendere come mancanza di prajna, di

sapienza, quella tanto cara ai greci dell’antichità e

416

che mai come in questi ultimi tempi latita nella nostra

tanto amata civiltà occidentale.

La prajnaiii è una delle sei perfezioni cui deve tendere

un bodhisattvaiv, ed attorno ad essa ed alla sua ricerca

che ruotano molte scuole buddhiste del Mahayana. Una

appropriata traduzione, sarebbe: gnosi. Questa sapienza

iii.Prajna. Pra= avanti, al di là. Jna= conoscenza, conoscenda dialettica. La prajna è la conoscenza trascendete al di là della conoscenza dialettica, che è quella ottenibile tramite il ragionamento. Laprajna è una sapienza che trascende la mente, è intuizione metafisica, raggiungibile attraverso il retto sentiero indicato da Buddha nella Quarta Asserzione.

iv.Bodhisattva.Bodhi= risveglio. Sattva= esistenza. Il bodhisattva è una figura mitica, atta a rappresentare un’essere che pur avendo realizzato la buddhità rinuncia volontariamente allo stato di Buddha per aiutare gli esseri viventi. In realtà, il bodhisattva non è solo un orpello mitico per la devozione del fedele. Può rappresentare qualunque cosa aiuti a creare una sorta di frattura della realtà quotidiana in modo da intuire la conoscenza trascendete e dunque percepire, anche se brevemente, lo stato di risveglio; dunque, un oggetto, così come una persona. Va detto che anche chi si adopera disinteressatamente per il benessere

417

trascendente, è ciò che ci permette di intuire l’esatta

origine del dolore. Realizzare non dialetticamente

l’esatta origine del dolore vuole dire risvegliarsi alla

natura di buddha e realizzare la buddhità, entrare nel

nirvana (terza verità). Ecco che, allora, la prajna è lo

stato di illuminazione, è il risveglio, è la natura di

buddha.

del prossimo è un bodhisattva (vedi Maria Teresa diCalcutta). Si può essere bodhisattva anche solo perun attimo, come chi aiuta un proprio collega senza pensare a promozioni, aumenti o lodi da parte del superiore.

418

La vita è un accadimento meraviglioso, è la volontà del

Dharmav che si manifesta, è una qualità dell’universo.

Non bisogna disprezzarla o fuggire da essa. Come dice

chiaramente il Buddha, “sete di vivere e sete di

annientamento” sono le cause del dolore, dove sete di

vivere non è sperimentare con gioia la propria vita

v.Dharma. Concetto chiave del buddhismo, di difficile interpretazione, dato che ha più accezioni e nel corso dei secoli ha assunto significati sempre più profondi. Il dharma (lo scrivo appositamente con la lettera iniziale minuscola) all’inizio della storia del movimento buddhista stava a significare la dottrina del Buddha, ciò che aveva esposto nei suoi insegnamenti. Successivamente, in special modo con il fiorire della visione mahayana, con dharma si è voluto rappresentare la Legge Universale, in base alla quale ogni cosa è quello che è e sarà quello che diverrà. Come dire: il senso delle cose. Ma il vero Dharma è la realtà assoluto trasfenomenica, uncampo mistico che sottende a tutte le cose, create od increate, una forma di energia che compenetra edavvolge dando senso e giustificazione alla realtà. Visto in questa ottica, la realizzazione del Dharmain noi stessi è lo scopo principe della Via del Buddha, a patto che non si cada nell’errore di considerare il Dharma come una manifestazione divina, se non Dio stesso.

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bensì ritenere che le cose che percepiamo siano da

conquistarsi e da usarsi per raggiungere la gioia dei

sei sensi; e dove annientarsi non è sperimentare la

quiete della meditazione bensì assurdamente cercare di

annullarsi come persona.

La Terza Asserzione

Cessazione del dolore

Voglio riportare le esatte parole del Buddha:

“Questa, o bhikku, è la nobile verità circa la

cessazione del dolore: la completa cessazione,

la rinuncia, l’abbandono di questo bramare, il

completo allentamento della sua presa e il

completo distacco da esso.”

Appare chiaro che non si parla di annientamento

od estinzione della vita, bensì della brama,

420

della concupiscenza che ci porta ciecamente ad

attaccarci alle cose e negare così la verità

dell’impermanenza e transitorietà. Il ritirarsi

a vita ascetica, condurre una prassi

mortificante sia per il corpo che per la mente,

spostarsi verso un estremo di povertà sensoriale

ed emotiva non è la soluzione che il Buddha ha

realizzato e sperimentato. Tutto il discorso

ruota attorno alla ricerca del distacco del

nostro vivere dalla brama del vivere. Sembra un

controsenso, in realtà è una perla di saggezza

ricca di profondità significative. Per noi

occidentali, la cui civiltà ha imposto parametri

basati sul ragionamento, l’appagamento di

421

esigenze materiali non utilitaristiche e gli

effetti di una sempre più raffinata tecnologia,

la vita ci appare come una competizione volta a

guadagnare più spazio, più tempo e cose

possibili, alienandoci la necessità di

un’armonia con il mondo ed imponendo un

costrutto artificiale da addizionare al mondo

stesso, come un mondo nuovo sopra un mondo già

preesistente. Motivo per il quale siamo

disperatamente attaccati alle cose, essendo

questa concupiscenza l’unico mezzo per tenere in

esistenza - e giustificare tale esistenza - il

mondo da noi creato. Prendiamo come esempio la

medicina. Essendo basata sulla tecnica

422

scientifica, più che su un’approccio umano al

paziente, il risultato raggiunto (integrato da

molti altri fattori che elencare adesso

porterebbe il discorso lontano ed in altri

campi) è quello di ritenere qualunque tipo di

patologia od infortunio come un ostacolo ad una

vita che di diritto dovrebbe essere sana e

gaudiente. Siamo arrivati al punto da ritenere

un diritto morire di vecchiaia il più tardi

possibile, mentre ogni malattia, od incidente od

infortunio provochi un ferimento se non la morte

è alieno, estraneo, deturbante e da estirpare.

Non sto dicendo che i mali non vanno curati e

gli incidenti prevenuti; sto dicendo che anche

423

loro rientrano in un disegno dove ogni evento ha

lo stesso valore, e dunque morire di vecchiaia

(per quanto bello ed auspicabile) è identico che

morire di cancro. In entrambi i casi la vita

dell’individuo si realizza perché ogni evento è

un effetto e dunque il suo avverarsi

giustificabile ed inscrivibile nella nostra

effimera esistenza. Se accettiamo ciò, allora

cancelliamo la brama ed estirpiamo il dolore.

Nel buddhismo si parla spesso di nirvana. Dubito

che il suo esatto significato sia a tutti i

buddhisti o studiosi di buddhismo chiaro. E non

potrebbe essere altro, perché concepire con

424

limpidità di mente il nirvana vuol dire

realizzarlo e dunque avere raggiunto lo stato di

Buddha. Il nirvana è la cessazione del dolore,

esso si può valorizzare soltanto con negazioni,

ed allora il nirvana non è attaccamento alla

vita e non è attaccamento alla non-vita, non è

dolore ma non è nemmeno non-dolore, non è l’ego

ed a maggior ragione il non-ego. Il nirvana è la

cessazione non tanto del dolore o della brama,

ma del ragionamento dialettico e della coscienza

discriminante, per cui le cose sono ordinabili

per opposti, e in generale per classi,

categorie, ordini e sottordine, eccetera.

L’universo non è strutturato secondo le leggi e

425

le categorie che l’uomo ha formulato nel corso

dei secoli. Piuttosto, le leggi e le categorie

possono spiegare all’uomo il suo funzionamento,

ma esso esiste al di sopra dei nostri concetti.

La Legge del Dharma che regola ogni cosa, in

realtà è una non legge, perché è l’armonia delle

cose (ma dovrei dire degli eventi) ed il loro

esistere compartecipatamente l’unica (non)regola

che permette alla realtà di manifestarsi. Il

Dharma è esattamente quello che vediamo,

increato, autonomo, assoluto... che si palesa

come creato, dipendente e condizionato.

Il nirvana, come diranno alcune scuole

buddhiste, è il samsara, o meglio, la

426

realizzazione che nirvana e samsara coincidono.

Essere Buddha, quindi, è vivere qui ed adesso e

realizzare la propria esistenza.

La Quarta Asserzione

Via che conduce alla cessazione del dolore

Come si diceva all’inizio, il Buddha espose le

Quattro Verità con l’esprimersi di un medico,

che, analizzato il sintomo e trovatene la causa,

assicura una cessazione del male e dispiega la

ricetta. In questo particolare sutra, la ricetta

427

viene esposta già all’inizio, dove Egli parla

della Via Mediana da seguire per guadagnare il

nirvana. La Via Mediana è una grande rivoluzione

del pensiero, in verità intuita da altri

contemporanei del Buddha (Aristotele in

occidente, quando la cultura greca era in grado

di produrre sistemi di pensiero di altissimo

valore). Il Buddha la spiega con poche ma

concise parole: “Questi due estremi, o bhikku,

non dovrebbero essere seguiti da uno che abbia

lasciato la vita nel mondo: dedizione ai piaceri

dei sensi, che è bassa, rozza, volgare, ignobile

ed inutile, ed infliggersi tormenti, il che è

doloroso, ignobile e privo di utilità.” La Via

428

mediana è esattamente ciò che sta nel mezzo di

questi estremi, come già precedentemente detto,

e si esplica nel seguire l’Ottuplice Sentiero:

retta visione, retto pensiero, retta parola,

retta azione, retta condotta di vita, retto

sforzo, retto rammemoramento, retta

concentrazione.

Le traduzioni italiane dell’Ottuplice Sentiero

sono varie, pertanto ora affronterò ogni

sentiero elencandolo sia in sanscrito che nelle

diverse traduzioni.

1. Samyag-drsti (Retta Visione, Retta Fede)

429

Nel Magga-Samyuttam, capitolo I Avijja, il

Buddha dice che Retta Visione è la conoscenza

delle Quattro Nobili Verità. Una Retta Visione,

è quella che ci consente di vedere la realtà del

mondo, di realizzare l’esistenza del dolore

quale effetto della concupiscenza, di credere

nella possibilità della sua cessazione e nel

perseguire tale fine con il mezzo dell’Ottuplice

Sentiero. Oscar Botto, studioso insigne del

buddhismo, parla di retta fede, in quanto è

necessaria la fede nelle verità esposte dal

Buddha. In questo caso, conoscenza, visione e

fede coincidono.

Entrare nella corrente del Buddha implica una

430

ben precisa presa di posizione, che tuttavia non

va confusa con l’assunzione di dogmi ritenuti

verità indiscutibile al di là di ogni possibile

argomentazione. Le Quattro Verità non sono una

serie di assiomi che pretendono dal fedele una

cieca fiducia e che non necessitano di ulteriori

verità a priori. Il Buddha invita tutti a

verificare l’esattezza delle sue proposizioni

prima di assumerle come fonte di vita, pertanto

è un dovere studiare e capire e realizzare le

sue parole e farle nostre non con passiva

fiducia, ma vivificandole attivamente nella

quotidianità delle nostre giornate. Il primo

sentiero è, in ultima analisi, l’assunzione di

431

responsabilità nei confronti dell’insegnamento

del Buddha e la presa di posizione di essere

individui maturi capaci da soli di giudicare e

sperimentare.

Il Buddhismo non è esattamente come le altre

religioni, le cui fondamenta sono una

rivelazione divina, dunque un discendere della

verità assoluta da un mondo trascendente e

superiore al nostro piano di realtà. Le

scritture sacre sono testimonianza della parola

divina e l’uomo fa leva su di esse con fede per

attraversare la foresta intricata della vita. La

divinità palesa ai suoi profeti una mappa del

cammino. Ma il Buddha non è una divinità

432

trascendete ed onnipotente, non è il creatore

dell’universo e la sua non è una rivelazione per

il bene delle creature umane. Egli è un uomo

come tutti noi, che con le sue forze ha

attraversato la foresta, è tornato con la mappa

da lui disegnata e l’ha mostrata

indifferentemente a chiunque. Che questa

avventura epica sia accaduta in Asia

duemilacinquecento anni fa o in un altro mondo

un tempo imprecisato e remoto è indifferente.

Conta solo il fatto che un essere senziente

caratterizzato dalla transitorietà abbia

realizzato in sé il Dharma, sfuggendo in tal

modo al ciclo delle rinascite. La scelta di

433

seguire le sue indicazioni è il frutto della

maturità come esseri senzienti liberi di agire

non legati da pregiudizi e false credenze.

Divenuto Buddha, Sakyamuni ha sicuramente

raggiunto uno stadio evolutivo eccelso, Egli è

dotato di capacità superiori a quelle degli

uomini e la sua esistenza è affrancata da

qualunque legame a cose, pensieri e fatti.

Tuttavia, ciò che conta, e sapere che all’inizio

del suo cammino egli era un uomo come tutti noi;

ciò ci assicura che chiunque può raggiungere lo

stato di buddhità.

2. Samiak-sankalpa (Retto Pensiero, Retta

434

Risoluzione, Retto Proposito)

Qui, le traduzioni permettono differenti

interpretazioni. Se da una parte, il retto

pensiero è l’invito ad utilizzare l’attività

pensante sempre tenendo presente le Nobili

Verità, dall’altra parte, risoluzione e

proposito sono come un voto che il praticante

deve fare: liberarsi dalla brama e dalla sete.

Sempre nel sutra di cui ho parlato poco sopra,

il Buddha dice: “liberarsi dal desiderio, non

nuocere, non usare violenza.” Con la Retta

Visione, il ricercatore del Dharma ha deciso di

abbracciare la dottrina del Buddha, e di

verificarla di volta in volta lungo il suo

435

cammino. Il secondo sentiero è la presa di

posizione fattiva e concreta: risolgo di

liberarmi dalla brama, di non usare violenza e

di non nuocere al prossimo.

Se io, in quanto essere libero di agire, prendo

la personale iniziativa di dedicarmi alla

dottrina del Buddha, devo garantire anche agli

altri (il mio prossimo) la stessa libertà di

scelta, lo stesso diritto, perché anche io sono

il prossimo rispetto al mio prossimo.

La mia vita di ieri, senza il buddhismo, non è

differente da quella di oggi dopo che ho

abbracciato la dottrina del Buddha. Così

dovrebbe risultare la pratica di un buddhista.

436

La rivoluzione non deve essere esteriore, e la

vita quotidiana è bene che continui così come è

sempre stata. La trasformazione è interiore, con

un nuovo modello di pensiero la cui matrice non

è stata importata, o meglio trapiantata tale e

quale, al pari di un soggiogamento; piuttosto la

matrice è da noi fabbricata, con i nostri mezzi,

interiorizzando le verità esposte dal Buddha,

ispirandosi ad esse così come un pittore si

ispira ad un tramonto (per fare un esempio).

Sicuramente, il pittore non è ipnotizzato o

soggiogato, o peggio ancora non ha subito un

lavaggio del cervello da parte del tramonto;

semplicemente, lascia che la suggestione del

437

tramonto ispiri la sua vena artistica. Allo

stesso modo, dobbiamo lasciare che il Dharma

ispiri la nostra natura originaria, la nostra

buddhità potenziale, guidandoci verso i retti

sentieri. Se ci sarà un cambiamento esteriore,

questi sarà l’effetto di una trasformazione

interiore, pertanto avverrà spontaneameante,

quasi impercettibilmente. Non saranno le cose

che facciamo a cambiare, ma il modo nel quale le

facciamo.

3. Samyag-vac (Retta parola)

Nel Magga-Samyuttam, il Buddha dice: “astensione

438

dalla menzogna, dalla calunnia, dall’aspro

linguaggio, dal vaniloquio.” Ecco elencati

quattro modi di usare in malomodo il dono della

parola: mentire, dunque esprimere

volontariamente ciò che è falso, non

corrispondente alla realtà, con lo scopo di

arrecare danno al prossimo (anche il Buddha non

disse tutta la verità ed usò mezzi differenti

per portare i suoi discepoli all’illuminazione.

E’ detto nel Sutra del Loto. Ma non si tratta di

una menzogna prodotta per arrecare danno, bensì

di un espediente utile ed adeguato alle

circostanze. La verità è relativa, pertanto non

esiste una menzogna assoluto detta dal Buddha,

439

ma solo una verità relativa e circostanziale);

calunnia, nel senso di arrecare danno verbale al

prossimo dicendo di esso cose maligne e non

corrispondenti al vero con il solo scopo di

screditarlo; aspro linguaggio: il vituperio, la

parolaccia, l’esprimersi volgarmente, tutte

parole che nascono da uno stato di rabbia ed

alterità, situazioni emotive queste condannate

dal Buddha; vaniloquio: parlare di cose

inutili, che non conducano ad una crescita

personale o comunque alla costruzione di un

discorso edificante non solo in ambito buddhista

ma in tutto il campo dello scibile umano.

Se ci pensiamo bene, queste quattro proibizioni

440

del parlare, se fossero seguite non solo per

condurre una vita buddhista produrrebbero grandi

benefici alla società umana. Il vaniloquio è

imperante, e lo si assapora malvolentieri nelle

trasmissioni televisive, nei dialoghi di bassa

levatura all’interno dei bar, anche nel triste

parlare fra amici di cose di nessuna importanza.

Qui non si vogliono condannare le frasi di

circostanza o gli scambi di cortesia fra persone

che non si conoscono. Il vaniloquio è tutto ciò

che produce “aria”, fine a se stesso e,

nell’economia buddhista, non conducente alla

comprensione del Dharma. La volgarità verbale è

presente anche nella Camera dei Deputati e

441

nascendo da momenti emotivi alterati da odio,

rancore, invidia o gelosia mette in mostra un

essere umano gretto ed abbruttito. La calunnia,

che in misura minore si può chiamare

denigrazione o pettegolezzo, è imperante nel

mondo del lavoro dove sparlare di colleghi in

loro assenza pare essere una delle attività

preferite oltre quella propriamente lavorativa.

Ma anche nella politica si assiste volentieri ad

un rilancio di accuse e critiche che a volte

risultano solo fini a se stesse. E la menzogna?

Come non mentire nella nostra vita? Parrebbe

essere un compromesso, stipulando il quale ti

senti in pace nel mentire per non metter a

442

rischio parti di te che vuoi che non si

conoscano, o per ottenere un vantaggio o per

moltissimi altri motivi che tutti noi conosciamo

benissimo.

La Retta Parola, tuttavia non è solo astenersi

da queste quattro azioni verbali negative. E’

anche proseguire il cammino iniziato con il

primo sentiero, quello della retta visione, per

cui se io inizio col verificare le asserzioni

intorno al dolore fatte dal Buddha, e mi

propongo di risolvere il dolore nella mia vita

grazie all’Ottuplice Sentiero, ne conviene che

non mi rimane che esprimermi anche in armonia

con quanto deciso e creduto, e pertanto un

443

buddhista parlerà palesando - anche se

implicitamente - la ricerca, tutta interiore,

del Dharma. Gentilezza, disponibilità,

amorevolezza, acume, perspicacia... quste

qualità devono trasparire dal parlare di un buon

buddhista.

4. Samyak-karmanta (Retta Azione)

Magga-Samyuttan: “Quello che è astensione

dall’uccisione di esseri viventi, dal prendere

il non-dato, dalla non-castità, quello o bhikkhu

si chiama retta azione.” Nel canone buddhista

ortodosso, ci sono cinque precetti che si

444

impongono come regola per chi abbraccia la Via

del Buddha: non uccidere, non rubare, non avere

condotta cattiva, non mentire, non inebriarsi

con alcool o qualunque altra sostanza.

L’uccidere un essere vivente è considera azione

sacrilega in quanto si suppone che tutti

abbiano diritto all’esistenza onde avere la

possibilità di realizzare la propria natura di

Buddha. In realtà, il precetto va rivalutato,

riconsiderato. Si può considerare una cattiva

azione quella di un indigeno dell’Amazzonia che

uccide una scimmia per sfamare la propria

famiglia? Il suo gesto è inscritto in un ambito

dove esiste armonia fra i vari componenti e

445

l’uccisione della scimmia è il frutto di questa

armonia. Diverso è il gesto del cacciatore

occidentale che per un giorno abbandona la città

e va a caccia di uccelli per soddisfare chissà

quale necessità. La sua caccia non è in armonia

con le circostanze della sua vita e dunque non è

un agire retto. L’uccidere un essere vivente

quando questo gesto non è la diretta conseguenza

della giusta armonia fra cose ed eventi di un

dato ambiente, quando le circostanze naturali

non ne richiedono l’esecuzione è allora un

assassinio, una cattiva azione.

Il non prendere il non-dato, non è soltanto il

non rubare: è il divieto di prendere qualunque

446

cosa che non ci venga data volontariamente od in

seguito ad un patto stabilito, come un acquisto

od un baratto. Questo per evitare la brama di

desiderare cose, per cui possiamo prendere - ma

non necessariamente avere - solo oggetti che ci

vengono donati o dati volontariamente.

Non si tratta solo di cose materiali. Il

precetto si estende a tutto ciò che possiamo

sottrarre al prossimo, sentimenti, affetti,

idee, e a tutto ciò che vogliamo pretendere dal

prossimo e cerchiamo di ottenere con mezzi

ingannevoli. L’amore di una persona lo posso

accettare, ma non posso pretenderlo ed agire con

malizia per ottenerlo suo malgrado. Lottare per

447

un amore è giusto, ma rubarlo no.

I cinque precetti erano legati all’ordine

iniziale del Buddha, nel lontano 500 a.c.,

pertanto con la castità si riteneva appunto

l’astensione da qualunque tipo di rapporto

sessuale, così come il non prendere il non-dato

si riferiva alla regola dell’ordine di

sopravvivere solo con le donazione dei laici e

di non possedere nulla tranne la veste e la

ciotola delle elemosine. Nella nostra società,

così complessa e diversificata, e tenendo

presente che nel corso dei secoli il buddhismo

mahayna si è evoluto (grazie anche all’apporti

di sutra tardivi e rivoluzionari, come il Sutra

448

del Loto) un precetto sulla castità da imporre

ai laici è improduttivo. La buddhità, essendo la

qualità dell’essere umano, può essere raggiunta

anche nella quotidianità, perché è la qualità di

far le cose che produce karma positivo. La

castità, dunque, non è il divieto di fare sesso

con la persona che amiamo, bensì di fare sesso

come gesto fino a se stesso, per il

raggiungimento di un piacere momentaneo non

legato ad un rapporto stabile e fruttifero. In

alcuni testi, bisogna ammettere che al posto di

castità, si parla di condotta corretta; in

realtà io credo che con castità si voglia

intendere il consiglio di astenersi da tutte

449

quelle azioni che hanno come scopo se stesse ed

un piacere effimero, fugace ed inutile.

Sul non mentire abbiamo già parlato.

Non inebriarsi con sostanze, qualunque esse

siano, è relativa ad una presa di posizione

molto forte nel buddhismo di tutte le scuole e

cioè l’alienazione dell’ottenebramento, visto

come ostacolo. La mente - da non confondersi con

il cervello - ad esempio nello zen, piuttosto

avvicinabile al concetto di psiche, è forse la

nostra natura buddhica. Infatti, spesso si parla

di Mente del Buddha, motivo per cui qualunque

cosa possa compromettere la sua limpidezza deve

essere esclusa. L’ottenebramento, l’alterazione

450

della funzionalità della mente, e della Mente,

conduce ad uno stato che non permette la giusta

concentrazione (samadhi).

Retta Azione è samyak-karmanta, dove karman è la

legge della retribuzione per la quale ad una

data azione risulta una precisa conseguenza.

Ecco che, allora, retta azione è fare e dire e

pensate tutto ciò che produce un buon karma, che

possa permettere all’individuo di avvicinarsi

alla propria natura originaria, la natura di

Buddha. E’mettere in pratica i precetti

insegnati dal Buddha, è fare ciò che nella

quotidianità permette di realizzare le Quattro

Nobili verità, e dunque agire in coerenza con la

451

retta visione, il retto pensiero e la retta

parola. Retta azione assume e implica i tre

sentieri precedenti.

5. Samyag-ajiva (Reatta Condotta di Vita, Retti

Mezzi di Vita, Retto Mestiere)

Se i primi quattro sentieri sono realizzati, o

per lo meno se esiste tale volontà, allora

diventa doverosa condurre la propria esistenza

in linea con i precetti, e specificatamente

avere un mestiere che non vada loro contro.

Oggigiorno, diventa sempre più difficile

mantenere una integra onestà e sincerità nel

452

lavoro che si compie come sostentamento della

propria vita. I piccoli inganni, i piccoli

compromessi, le menzogne, i pettegolezzi, le

invidie e le ipocrisie costellano ogni giorno

lavorativo. Bisogna cercare di chiarificare il

lavoro da tutte queste nequizie e mantenere

un’assoluta coerenza di proposito.

Spesso e volentieri, l’onestà e la fiducia si

mettono da parte per interessi personali,

specialmente quando si ricopre un posto di

responsabilità e si hanno delle persona alle

proprie dipendenze. Un vero buddhista è prima di

tutto un bodhisattva, ovverosia un uomo

“adulto”, maturo e responsabile delle proprie

453

opere, parole e pensieri, e come tale deve

comportarsi in ogni luogo e dove. Essere

buddhisti vuole dire onorare l’insegnamento del

Dharma e non deludere il Buddha; vuol dire

mettere da parte i propri interessi per il bene

del prossimo e prendere le decisione che possono

favorire i nostri sottoposti.

6. Samyag-vyayama (Retto Sforzo)

Come mantenere un retto proposito, un retto

agire ed un retto pensare senza sforzarsi di

farlo? Il retto sforzo è la volontà di

continuare a prodigarsi nei cinque sentieri

454

precedenti. Non solo, ma è lo sforzo di

impegnarsi a mantenersi coerente con gli

insegnamenti che si è voluto prendere come guida

di vita, lo sforzo di realizzare la verità delle

quattro eccellenti asserzioni, lo sforzo di non

deludere il Buddha, lo sforzo di essere un

bodhisattva eccellente, considerando il

bodhisattva come uomo adulto e maturo.

Sempre nel Magga-Samyuttan, il Buddha dice che

lo retto sforzo è la volontà di fare sorgere

salutari elementi quando non sono ancora sorti,

di farli continuare a sorgere se sono già sorti,

di non fare sorgere cattivi elementi ancora

sorti e non ancora sorti. L’elemento in

455

questione è tutto ciò che nascendo dentro di noi

ci stimola ad agire, pensare e parlare. Può

essere un elemento “salutare”, come ad esempio

il desiderio di seguire l’Ottuplice Sentiero,

oppure può essere un elemento negativo, che ci

spinge a commettere azioni disdicevoli. Lo

sforzo sta nel creare e preservare gli elementi

salutari.

7. Samyak-smrti (Retto Rammemoramento, Retto

Ricordo, Retta Attenzione, Retta Consapevolezza)

Personalmente propendo, come traduzione adeguata

al significato del percorso indicato dal

456

sanscrito “smrti”, ad usare il nome di Retta

Consapevolezza. Il buddhista che si è spinto

fino al retto sforzo per far sorgere e mantenere

quei salutari elementi utili alla realizzazione

del Dharma, deve anche essere consapevole di ciò

che sta facendo, ovvero essere consapevole della

propria esistenza, del suo corpo e delle sue

sensazioni. Praticare il buddhismo non è solo

leggere i sutra o recitare formule, ma essere

vigili ed attenti, e mantenere quella stabile

consapevolezza di se stessi, grazie alla quale

possiamo comprendere l’impermanenza e la

transitorietà di tutte le cose. Il Buddha ha più

volte spigato come bisogna prestare attenzione

457

ai cinque aggregati o fattori costituenti:

corpo, sensazioni, ideazioni, coscienza e

tendenze; un vero e proprio esercizio che le

scuole successive hanno sviluppato in vari tipi

di meditazione. In realtà, più che di

meditazione si tratta di attenzione di se stessi

e del mondo che ci circonda.

Nella nostra società, che oserei definire

malata, spesso viviamole giornate senza prestare

attenzione a ciò che ci succede, lasciando che

gli eventi coi scorrano a fianco o dentro noi.

Ad esempio, quando guidiamo speso e volentieri

non siamo attenti completamente alla strada, a

volte la mente divaga e la guida viene eseguita

458

in parta automaticamente. Quando vediamo un

semaforo rosso ecco risalire la vigilanza e la

concentrazione. Possiamo dire, come un famoso

maestro vietnamita contemporaneo, che quel

semaforo rosso è un bodhisattva che ci aiuta a

ritrovare la consapevolezza. Se ogni istante

della giornata noi fossimo presenti a noi stesi,

fossimo consapevoli di quello che siamo, di

quello che facciamo e diciamo e pensiamo, allora

potremmo realizzare le Quattro Nobili Verità. A

volte si dice “io dico quello che penso”, ma,

come replica l’uomo coi baffi della Moretti,

“penso quello che dico” è il giusto

atteggiamento di chi coltiva la consapevolezza.

459

8. Samyak-samadhi (Retta Concentrazione)

Samadhi si presta a diverse interpretazioni ed

i suoi significati possono essere differenti a

seconda delle scuole buddhiste. Nel Terahavada è

lo stato di profonda concentrazione della mente

nel quale si sperimentano stadi successivi di

“estasi trascendentale” chiamati jhana o jnana.

Nel Magga-Samyuttan il Buddha descrive la

concentrazione come il dimorare in quattro stadi

di jhana, ognuno dei quali è caratterizzato da

un differente porsi della mente rispetta a se

stessa. Il primo stadio è il dimorare gioiosi

per il distacco dalla brama possedendo la

460

capacità di vitakka e vicara, ovverosia il fissarsi

l’attenzione su un oggetto di meditazione e

mantenerla liberamente. Nel secondo stadio di

abbandona vitakka e vicara e si sperimenta la gioia

per avere raggiunto l’unità della mente e la

calma interiore. Nel terzo stadio si abbandona

l’estasi precedente e si sperimenta nel corpo la

gioia del distacco. Nel quarto stadio si ci

distacca da gioia e dolore, da letizia e

tristezza, gli opposti si annullano e si

raggiunge la suprema purezza interiore.

Nello Zen, spesso samadhi è satori, in quanto lo

stato di buddhità e lo stato di samadhi

coincidono. In questo caso l’ottavo sentiero è

461

la perfezione suprema, il raggiungimento

dell’Illuminazione, l’essersi svegliati, l’aver

realizzato le Quattro Nobili Verità.

Più verosimilmente, samadhi è l’esercizio di

concentrazione che il Buddha insegnò dopo averlo

sperimentato, e grazie al quale è maggiormente

possibile comprendere l’esatta realtà dei

fenomeni. Nel tempio zen che frequentavo, il

Maestro soleva dire che dal samadhi di una

seduta di zazen nasce un meraviglioso fiore che

bisogna portare seco nella quotidianità della

vita. Solo così facendo è possibile innescare

quel lento processo che può condurre ad un

effettivo miglioramento della nostra esistenza.

462

Ricordo bene che al termine di una sessione di

zazen, uscivo dal dojo con l’animo leggero e

colmo di letizia e fiducia; certo, bastava

l’impatto con la dura realtà per discrepare il

mio piccolo fiore, ma la continuità poteva

assicurare una pulitura dell’animo e di

conseguenza un miglioramento della vita in

generale, dovuto alla sempre maggiore

consapevolezza della transitorietà, della non

sussistenza e della dipendenza reciproca di

tutti i fenomeni.

Nella pratica del Daimoku, cui mi sto applicando

in questi ultimi tempi, mi pare di ottenere

effetti simili se non maggiori. Il mi corpo è

463

pervaso da un forte senso di gioia e fiducia

verso il Buddha ed il suo insegnamento e, in

generale, verso la vita stessa. Penso che il

samadhi ottenibile grazie alla concentrazione

sulla ripetizione del Daimoku (esercizio fatto

con sincerità e devozione) sia sufficiente per

conseguire la realizzazione delle Quattro Nobili

Verità.

Le tre fasi e le dodici vie

464

Dopo avere elencato le quattro asserzioni, il

Buddha chiarisce che la decisione di annunciare

al mondo degli uomini, degli déi, dei demoni, e

in generale a tutti gli esseri viventi la sua

realizzazione fu presa solo quando la conoscenza

e la visione delle nobili verità non fu chiara

secondo tre fasi e dodici vie.

Ogni verità il Buddha l’ha realizzata in tre

fasi: nella prima contempla la verità nella sua

forma espositiva, ad esempio: “nascita è dolore,

malattia è dolore, etc.”; nella seconda viene

manifestata il proposito e la volontà di

comprendere la realtà e l’origine della verità;

nella terza ed ultima fase si è realizzata la

465

comprensione e la verità è per intero stata

studiata, compresa e realizzata. Quattro di

questi gruppi di tre fasi fanno le dodici vie.

Ad ogni fase il Buddha ha conseguito nuova

conoscenza e nuova saggezza.

Quello che meraviglia ed affascina in questa

esposizione di ricerca della verità è la

rigorosa sistematicità di analisi di una

supposizione, che attraverso diversi stadi di

contemplazione mentale viene spogliata nei suoi

elementi costituenti. Tutto il buddhismo delle

origine è basata su questa ricerca rigorosa che

coniuga magistralmente la razionalità logica e

l’intuizione metafisica.

466

Epilogo

A parte l’elenco delle divinità che plaudono la

messa in moto della Ruota della Legge, che ha un

forte sapore folcloristico e che comunque si

avvale della ricca iconografia religiosa

indiana, ciò chemerita attenzione - e di cui ho

fatto cenno all’inizio - è la sentenza del

Venerabile Kondanna: “Ogni cosa che ha la natura

di sorgere, ha anche la natura di cessare.” Mai

parole migliori furono pronunciate per

esemplificare l’essenza del buddhismo, ed

infatti il Beato rende atto al suo discepolo di

avere interamente compreso. Compreso cosa? La

467

transitorietà dei fenomeni e dunque dell’intera

realtà. L’esperienza ci dice che ogni cosa è un

fenomeno e la stessa scienza conferma, sia a

livello subatomico che a livello macroscopico.

Un fenomeno ha la natura di formarsi e di

disfarsi, in quanto è un evento che comporta un

processo fra elementi che a loro volta sono

fenomeni-evento. Anche noi, in quanto esseri

umani, siamo un fenomeno e come tale siamo un

processo di più elementi (i cinque aggregati)

soggetti a nascere, soggetti a cessare. Di cosa

fossimo prima o cosa dopo non se ne può avere

esperienza diretta e dunque non rientra

nell’ambito del buddhismo. Ciò che conta è

468

l’attimo attuale, e precisamente il qui e

l’adesso. Il nostro corpo è vivo nel momento

presente, dunque è ora l’opportunità di

realizzare il Dharma e vivificare la buddhità

latente. Attraverso una libera forma di

meditazione possiamo trascendere la

transitorietà dei fenomeni e realizzare

l’assolutezza del Dharma, di cui si può avere

percezione solo tramite gli effetti

riscontrabili nella realtà sensibile e la cui

“sostanza” è solo intuibile metafisicamente.

469