MA Thesis-Parte I (Volume I): La Pittura
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1
PARTE I: IL COLORE
I- PITTURA E RILIEVO DIPINTO
Rilievo e pittura erano tecniche strettamente legate e complementari rappresentando,
insieme, il modo più completo di decorare un ambiente.
Durante la IV, V e VI dinastia, nell’area Menfita, la tecnica predominante della
decorazione parietale nell’ambito delle sepolture private fu sicuramente quella del rilievo
dipinto. Al di là delle motivazioni di carattere pratico (come la disponibilità di mezzi e la
buona qualità della pietra) che permisero il largo impiego e lo sviluppo della tecnica in
questa zona più che in altre, bisogna considerare che, dal punto di vista concettuale, la
rappresentazione attraverso il rilievo dipinto era considerato il modo più corretto di
decorare una parete. Un rilievo possedeva, infatti, una maggiore capacità di resistenza e
durata nel tempo rispetto alla pittura, il requisito fondamentale delle decorazioni tombali1.
La pittura su superfici non scolpite, benché conosciuta fin da tempi più antichi, cominciò
a diffondersi maggiorente durante il Primo Periodo Intermedio e il Medio Regno,
raggiungendo il culmine del suo maggior sviluppo durante l’età del Nuovo Regno2. Il
luogo di più vasto utilizzo fu sicuramente la necropoli tebana dove, probabilmente, la
1 Harpur, 1987, p. 5 2 Durante l’età tinita e l’Antico Regno, la pittura (su intonaco di argilla mista a paglia) fu utilizzta all’interno delle mastabe costruite in mattoni crudi.
2
grande preferenza per la decorazione puramente pittorica fu determinata da motivi di
carattere pratico più che estetico considerato che le tombe situate alla base della collina
(dove si trovava una roccia di qualità migliore) furono decorate con scene eseguite in
bassorilievo.
In effetti, dove le caratteristiche fisiche del calcare nel quale erano scavate le tombe
rendeva difficile l’esecuzione del rilievo, fu preferita la realizzazione delle decorazioni su
intonaco3.
È necessario ricordare, inoltre, che il rilievo richiedeva un procedimento molto più lungo
ed elaborato, oltre che più costoso, rispetto alla semplice pittura e ognuno di questi fattori
deve aver rappresentato un elemento determinante nella scelta della modalità di
decorazione di una sepoltura privata.
Se in alcuni casi furono realizzate in una stessa tomba alcune scene in rilievo e altre
semplicemente dipinte si può ipotizzare, quindi, che ciò fosse dovuto sia alla qualità non
omogenea della pietra nell’ambito di una stessa sepoltura, sia alla mancanza di tempo da
parte degli artisti per poter eseguire il rilievo su ogni parete.
3 Vandier, 1964, p. 3
3
1. Colori e pigmenti4
La composizione chimica delle sostanze impiegate come coloranti nell’antico Egitto
rappresenta il fattore a cui si deve primariamente la conservazione ottimale e diffusa delle
pitture parietali; è opportuno tenere presente, infatti, che la natura quasi esclusivamente
minerale o artificiale dei pigmenti, in associazione con le particolari condizioni climatiche
del luogo, hanno influito in maniera determinante sia sulla consistenza e capacità dei
colori di mantenere la propria aderenza alle superfici nel corso del tempo, che sulla
conservazione della tonalità originaria di questi.
Proprio questo ultimo aspetto merita una particolare attenzione nell’ambito di uno studio
incentrato sulla pittura e in particolare sul colore poiché, nonostante si possa contare su
un generale buono stato di conservazione dei dipinti egizi, si deve ritenere un fatto
abbastanza raro il poter riscontrare una corrispondenza fedele dei colori oggi visibili con
la loro tonalità originale.
Per poter interpretare e capire il significato di un dipinto è indispensabile poter ricostruire
l’aspetto e l’effetto originario voluto. Risulta fondamentale, dunque, per una analisi
corretta, tenere presente per prima cosa i diversi fattori che possono aver interferito con
la preservazione dei colori considerando, oltre all’intervento di cause esterne eccezionali,
la normale alterazione chimica che una sostanza può subire nel corso del tempo, a causa
dell’inevitabile esposizione agli agenti naturali, senza sottovalutare i cambiamenti dovuti al
tipo di legante presente nel colore e le eventuali patine di vernici applicate sulla superficie.
Si può osservare come molte tombe siano state esposte, nel corso del tempo, ai danni del
fumo e del fuoco che, da un lato, hanno causato semplicemente al rivestimento delle
pitture di una patina sottile (molto spesso rimovibile5), ma dall’altro, hanno determinato
una irreversibile alterazione chimica dei pigmenti e, di conseguenza, dei colori delle
4 È necessario distinguere i termini “colore” e “pigmento” indicando più precisamente con quest’ultimo una sostanza colorante di natura organica o inorganica. 5 Forbes, 1955, p.240
4
pitture. Così il giallo, bruciato dal fuoco, si è trasformato in rosso, il blu in verde scuro e il
carbone è sparito6. Sicuramente anche l’umidità ha contribuito al deterioramento della
pittura causando, in alcuni punti, il rigonfiamento e il distaccamento della pittura7, senza
tralasciare i danni causati dal guano dei pipistrelli.
In sintesi, è possibile desumere dalle analisi che i colori più resistenti agli agenti esterni si
sono rivelati il rosso e il giallo seguiti dal blu. Il verde e il nero hanno mostrato una
maggiore tendenza a scomparire o a subire modifiche come anche i coloranti sintetici che,
con il trascorrere degli anni, si sono scuriti fino ad annerire del tutto. Anche i derivati
dell’arsenico non si sono rivelati eccellenti per quel che riguarda la durata8. Comunque
questo aspetto sarà trattato più dettagliatamente in seguito, nell’ambito di un’analisi
puntuale dei singoli pigmenti.
La natura inorganica dei pigmenti, oltre che nell’ambito della conservazione, si è rivelata
come un vantaggio anche nell’ambito delle moderne analisi chimiche, avendo sicuramente
reso più facile un’individuazione precisa delle sostanze utilizzate in pittura.
Riguardo questo punto, ciò che emerge dalle antiche liste dei pigmenti è che gli Egizi
riconoscevano due diverse tipologie di materie coloranti: le sostanze morbide (indicate
con il termine “stỉ”9) che si presentavano in polvere allo stato naturale o facilmente
macinabili, come le terre o elementi simili, misurate in genere in unità di volume e le
materie dure (a cui si riferisce il termine “drwỉ”10
), come le pietre, che dovevano essere
polverizzate artificialmente per poter essere utilizzate e che venivano misurate a peso;
facevano parte di quest’ultimo gruppo di materie dure anche le sostanze sintetiche
ottenute, cioè, artificialmente mediante processi di lavorazione di sostanze naturali.
I pigmenti risultavano, quindi, distinti in due classi principali secondo le loro
caratteristiche fisiche.
Il bianco e il nero, pur essendo compresi fra i sei colori primari usati in pittura, erano
esclusi da questa classificazione perché considerati in modo diverso rispetto alle altre
sostanze usate11
.
6 Brunner-Traut, 1977, p.116 7 Mekhitarian, 1954, p.32 8 Brunner-Traut, 1977, p.116 9 Harris, 1961, p. 141 10 Harris, 1961, p. 141, 157-8. Il termine (maschile singolare) può significare anche “colore” o “pigmento” in senso generico. 11 Brunner-Traut, 1977, p.116
5
Bianco
I pigmenti bianchi riconosciuti fin dalle prime analisi nelle pitture egizie sono risultati la
calcite (carbonato di calcio) e il gesso (solfato di calcio)12
.
L’uso del bianco nella pittura parietale è attestato già per l’epoca Predinastica; pur non
essendo stata determinata l’esatta natura chimica della sostanza impiegata a quel tempo, si
suppone comunque che potesse trattarsi proprio di carbonato o solfato di calcio
trattandosi, con molta probabilità, degli unici pigmenti bianchi allora conosciuti e,
soprattutto, facilmente reperibili nel territorio13
.
Solo per alcuni frammenti di pittura di epoche successive gli studiosi sono riusciti a
definire con precisione la composizione chimica del colorante impiegato; in particolare,
Spurrell si è occupato dell’analisi di alcuni campioni di colore bianco costituito da solfato
di calcio appartenenti alla IV e alla XVIII dinastia14
e di altri di carbonato di calcio relativi
alla XII dinastia provenienti da el-Bersheh. Borchardt, durante il suo studio incentrato
sul busto di Nefertiti conservato al museo di Berlino, ha potuto rilevare l’uso, anche in
questo caso, di un colore bianco composto da carbonato di calcio15
; da ulteriori analisi si è
potuto constatare, sempre in riferimento all’età amarniana, che entrambe le sostanze
furono utilizzate su una figura in legno di Akhenaton16
. Russell in seguito ai suoi esami ha,
invece, potuto confermare l’uso del solfato di calcio durante il periodo greco-romano ad
Hawara 17
e Lucas, infine, esaminando alcuni frammenti di tale colore datati alla V e alla
VI dinastia, ha potuto individuare rispettivamente del carbonato e del solfato di calcio.
Egli ha riconosciuto, inoltre, per quel che riguarda la XVIII dinastia, dodici campioni di
carbonato e due da solfato di calcio e ancora altri frammenti, composti esclusivamente di
carbonato di calcio, pertinenti alla XXIII dinastia.
12 Brunner-Traut., 1977, p.116 13 Lucas-Harris, 1962, p. 349 14 Spurrell, 1895, p.226, 232; Spurrell, 1892, pp.28-29 15 Borchardt, 1923, p.32 16 Schäfer, 1934, p. 3 17 Russell, 1892, pp. 44-8
6
Per ottenere il colore bianco poteva essere utilizzata anche la biacca di piombo (che,
nonostante molte incertezze, si suppone fosse indicata con “sšw” o “hrr”18
) ottenuta
lasciando dei pezzi di questo metallo in immersione dentro vasi di terracotta contenenti
aceto per circa 10 giorni. Al termine di questo periodo di tempo era possibile estrarre il
deposito formatosi sul fondo dei vasi e grattare il bianco formatosi sulla superficie del
piombo stesso; l’operazione poteva essere ripetuta più volte, finché tutto il piombo non
si fosse trasformato in biacca (acetato di piombo)19
.
Solo nel 1974 lo studioso J. Riederer riuscì a individuare, nel corso dei suoi studi, un altro
minerale impiegato come pigmento bianco in pittura: l’huntite (carbonato di calcio e
magnesio). Da questa sostanza era possibile ricavare un colore particolarmente bianco e
brillante molto apprezzato, oltre che per queste sue qualità estetiche, anche per le
caratteristiche chimiche che garantivano una lavorazione e una tecnica di impiego
particolarmente poco impegnative20
. Applicato su intonaco, ceramica e altri materiali,
sicuramente questo minerale, conosciuto già nell’Antico Regno, ebbe un vasto impiego sia
dal punto di vista geografico che cronologico raggiungendo il culmine della sua diffusione
durante il Nuovo Regno. Gli studi condotti al riguardo dal “Max-Planck Project” hanno
permesso di individuare molti campioni di questo pigmento databili tra la XVIII e la XX
dinastia che ne confermerebbero l’uso, quindi, in particolare durante questo periodo 21
.
Nero
Il carbone, presente nella vita quotidiana dell’uomo egizio sotto varie forme, era la materia
da cui principalmente si ricavava il pigmento nero; di consistenza fine o grossolana, le
tipologie più diffuse erano il carbone di legna e la fuliggine (“d،bt”
22) raschiata dai vasi da
cucina o dalle murature (in quest’ultimo caso poteva contenere dei minerali che
conferivano al pigmento una grana più grezza del normale)23
. Spurrell ha riscontrato, nel
18 Harris, 1951, p. 150 19 Brunello, 1971, pp. 20-21 20 Heywood, 2001, pp. 5-9 21 Lee-Quirke, 2000, p. 115 22 Harris ,1961, pp. 159-60. Il termine non compare in nessuna lista dei pigmenti ma in alcune liste delle offerte. 23 Lucas-Harris, 1962, p. 339
7
corso delle sue analisi, numerose testimonianze di carbone del tipo cosiddetto “nero-
fumo” riferibili all’Antico, Medio e Nuovo Regno rivelando, quindi, un utilizzo diffuso di
questa materia durante tutta la storia egizia24
. L’ipotesi della vasta diffusione del “nero-
fumo” come pigmento è stata ulteriormente supportata dall’identificazione da parte di 1
di questa sostanza su della ceramica di età predinastica25
e dal lavoro svolto da Myers su
alcuni oggetti provenienti da Armant 26
. È necessario aggiungere anche che il “nero-
fumo” è sicuramente il tipo di pigmento utilizzato nella tomba di Per-Neb (della V
dinastia), dato che conferma ancora una volta l’impiego di tale materiale fin dall’Antico
Regno27
.
Testimonianze certe dell’uso di questa tipologia di carbone come colorante provengono,
inoltre, dalle pitture realizzate ad Amarna durante la XVIII dinastia28
mentre, per ciò che
concerne il periodo del Medio Regno, sono stati analizzati da Reisner alcuni campioni
della medesima sostanza provenienti da Kerma29
.
Riguardo l’impiego, invece, di fuliggine come materia colorante rimane fondamentale il
lavoro svolto da Lucas su dodici frammenti di colore nero di epoche diverse (uno datato
alla I dinastia, tre alla VI, sette alla XVIII e uno alla XXIII) che si sono rivelati essere,
infine, tutti campioni di carbone, di cui undici di fuliggine di grana fine e uno, datato alla
XVIII dinastia, dalla consistenza più grezza30
.
Sulle figure in legno provenienti da Amarna è stato riconosciuto, invece, del nero d’osso
(carbone di origine animale) mentre un esempio molto particolare di carbone mescolato
con della cera è stato riscontrato sulla testa di Nefertiti di Berlino31
.
Più raramente il pigmento nero poteva essere costituito dalla pirolusite (ossido di
manganese), un minerale importato dal Sinai individuato, per esempio, in un frammento
della XX dinastia trovato a Beni Hasan32
.
Un campione di grafite pertinente alla XII dinastia rinvenuto a Kerma ha sollevato dubbi,
infine, riguardo al fatto che anche questo minerale potesse essere usato come colorante
24 Spurrell, 1895, pp. 227, 229, 232; Spurrell, 1892, p. 28 25 Ritchie, 1937, I, pp. 181-5 26 Mond-Myers, 1937, I, pp. 121-2, 131 27 Williams, 1933, p. 25 28 von Bissing-Reach, 1906, p. 67; von Bissing, 1941, p. 15 29 Reisner, 1926, IV-V, pp. 290-1 30 Lucas-Harris, 1962, p. 339 31 Borchardt, 1923, p. 32 32 Spurrell, 1895, p. 229
8
nero
, ma purtroppo non esistono ancora delle conferme definitive che possano
avvalorare l’ipotesi33
.
Giallo
Il colore giallo poteva essere ottenuto con pigmenti diversi. Tra le sostanze morbide
presenti in natura erano utili gli ossidi di ferro e l’ocra gialla (presente nelle liste come
“stỉ”34
) contenente ossidi di ferro idrati come la limonite (idrossido di ferro) o la ghoetite.
Si trattava, in ogni caso, di coloranti stabili che difficilmente potevano subire gravi
modifiche nella tonalità nel corso del tempo in assenza di fattori esterni particolarmente
dannosi.
Il termine “stỉ” poteva indicare sia l’ocra gialla nello specifico, sia le ocre in generale intese
come materie in polvere allo stato naturale o particolarmente friabili35 (in opposizione al
termine “drwỉ”). Le ocre si definiscono geologicamente come terre costituite
principalmente da quantità variabili di silice, argilla e ossido di ferro (idrato o anidro) a cui
devono il loro colore 36. Sono reperibili facilmente nel territorio egiziano e in particolare
vicino ad Asswan, dove abbonda la varietà delle ocre rosse e vicino al Cairo, dove si
trovano, invece, maggiori concentrazioni di ocre gialle; entrambe le tipologie sono
presenti nelle oasi del deserto occidentale37. In relazione alla questione della provenienza,
Iversen ha messo in evidenza che il nome stesso delle ocre denunci la loro provenienza
nubiana e che indichi solo le terre in senso generico38; su questo dato egli ha fondato la
sua ipotesi secondo cui “stỉ” dovrà essere tradotto e inteso come “ocra” nel senso più
ampio del termine.
Un’altra sostanza, di natura diversa, da cui era possibile ricavare un colore giallo brillante e
intenso somigliante all’oro, era l’orpimento (“knỉt”39
), un solfuro di arsenico giallo
33 Brunner-Traut, 1977, p. 116 34 Harris, 1961, pp. 150-2. 35 Erano reperibili anche sotto forma di noduli (formazione detta “argilla di Esna”), in particolare nelle rocce della montagna tebana (Leblanc-Siliotti, 2002, p.40). 36 Forbes, 1955, p. 207; Lee-Quirke, 2000, p.113 37 Forbes, 1955, p. 207; Lucas-Harris, 1962, p. 348 38 Iversen, 1955, p. 26. 39 Harris, 1961, pp. 142, 153-4; Iveresn, 1955, pp. 34-9
9
naturale importato dalla Persia o dall’Armenia. Contrariamente a quanto riscontrato per i
campioni di ocra esaminati, il pigmento “knỉt” si è rivelato molto sensibile alla luce; spesso
la semplice esposizione a questo agente ha causato, infatti, l’ossidazione del solfuro di
arsenico determinando lo schiarimento e addirittura il dissolvimento del colore40
.
Esistono ancora alcune incertezze riguardo la data in cui fu introdotto per la prima volta
l’uso di questo minerale in pittura; per il momento è stato possibile appurare solo che il
fatto risale, al più tardi, alla XII dinastia41
. Dalle analisi dei campioni disponibili, emerge
che il colore giallo composto da orpimento fu molto apprezzato in particolare in età
amarniana42
e nella necropoli Tebana43
; Lucas si è occupato dell’analisi di una piccola
quantità di orpimento rinvenuto allo stato naturale all’interno di una borsa trovata nella
tomba di Tutankhamon44
e di otto campioni di questo pigmento relativi alla XVIII
dinastia. Petrie trovò lo stesso minerale in campioni rinvenuti a Gurob datati alla XVIII e
XIX dinastia mentre, per quel che riguarda il periodo tolemaico–romano, esistono alcune
testimonianze provenienti da Tanis45
.
Dalle ricerche è emerso, inoltre, che l’uso dell’orpimento associato al realgar (solfuro di
arsenico rosso) si sviluppò solo verso la fine della XVIII dinastia46
.
L’ocra gialla, al contrario, era sicuramente conosciuta già in età predinastica. Spurrell ne ha
individuato la in presenza in tombe della IV, della XII e della XVIII dinastia47
; Toch in
frammenti pertinenti alla V dinastia48
e von Bissing e Reach nelle pitture di Amarna49
.
Anche Russell riporta esempi di ocra impiegata durante il Nuovo Regno e in epoca
Tolemaica50
. Lucas in seguito agli esami effettuati su tre campioni di pigmento giallo della
XVIII dinastia, uno della XIX e due risalenti al periodo compreso tra la XX e la XVI
dinastia, è giunto alla conclusione che si trattava in tutti i casi di ocra gialla51
.
40 Green, 2001, p. 45 41 Lee-Quirke, 2000, p. 116. Secondo Forbes questo minerale è usato diffusamente solo a partire dalla XVIII dinastia; secondo Lucas solo dopo la metà della XVIII dinastia. 42 Spurrell, 1895, p.231-2; Borchardt, 1923, p.32; Schäfer, 1934, p. 3 43 Mackay, 1920, p. 37 44 Lucas, 1923, III, p. 177 (appendix II) 45 Petrie, 1890, p. 38; Petrie, 1885-1888, I, p. 39 46 Brunner-Traut, 1977, p.116 47 Spurrell, 1895, pp.226-7, 231; Spurrell, 1892, pp. 28-9 48 Toch, 1918, pp. 118-9 49 von Bissing-Reach, 1906 p. 67; von Bissing, 1941, p. 15 50 Russell, 1892, p.44, 47; Petrie, 1889, p. 11 51 Lucas-Harris, 1962, p. 349
10
In aggiunta a questi risultati, è stato scoperto, in alcune tombe del Nuovo Regno a Deir
el-Medina, l’uso di questa stessa sostanza per la realizzazione della decorazione
monocroma52
.
I più recenti studi condotti dal “Max-Planck Project” hanno portato all’individuazione la
presenza di ocra gialla in campioni di colore riferibili a tutto il periodo compreso tra la V
dinastia e l’età romana e di orpimento, in forma pura, impiegato su sarcofagi della XVIII e
XIX dinastia oltre che sulle pareti della tomba di Thutmosi IV. Ma la scoperta più
interessante di questa ricerca è stata certamente il riconoscimento nelle pitture di alcuni
templi e tombe del Nuovo Regno di un colore composto da un misto di ocra e
orpimento.
In altri casi ancora, è stata notata la presenza sulle superfici decorate di ben tre strati di
colore giallo: uno di ocra come base, uno di orpimento e un terzo più superficiale di ocra
gialla aventi lo scopo di creare un colore più intenso53
.
Per ottenere il colore giallo furono impiegate sporadicamente anche altre sostanze; un
tipo di pigmento usato a Kerma durante il Medio Regno, in effetti, si è rivelato essere,
durante le analisi, una materia derivante dalla pietra arenaria; in altri casi ancora fu usato
del monossido di piombo giallo54
.
Esistevano, inoltre, delle sostanze coloranti gialle origine vegetale e talvolta, anche se in
casi rari, i pigmenti gialli minerali furono associati ai materiali organici.
Le analisi più recenti hanno, infine, rivelato con una maggiore precisione la composizione
di alcuni campioni di varie epoche attestando la presenza nel colore di jarosite e
natrojarosite (solfati di ferro)55
.
Rosso
Secondo Lucas è possibile distinguere gli ossidi di ferro naturali in due gruppi: le ocre
rosse (idrossidi di ferro) e gli ossidi di ferro rossi (ossidi di ferro anidri); in realtà la
52 Bruyère, 1952, pp. 9-10 53 Nicholson-Shaw, 2000, p.115 54 Lucas- Harris, 1962, p. 350 55 Davies, 2001, p.2
11
distinzione può essere espressa anche in altri termini tenendo presente la definizione
geologica di ocre secondo cui le terre sono pigmenti minerali che devono il loro colore
alla presenza del ferro, sia esso l’idrossido di ferro (limonite) che l’ossido di ferro anidro
(ematite)56
.
I pigmenti rossi utilizzati erano, dunque, l’ocra rossa e l’ossido di ferro rosso anidro
(definito anche ematite); i termini “mnšt” ,” tmhỉ”, “dỉdỉ” e “ prš” presenti nelle liste
indicavano diversi tipi di ocre rosse esistenti distinte in base alle loro sfumature di colore e
alla loro provenienza.
“Mnšt”57
, nonostante la mancanza di conferme nelle liste dei pigmenti, si ritiene che fosse
quasi certamente un’ocra rossa usata come pigmento che, però, non può essere
identificata con precisione per quel che riguarda la sua tonalità; ”tmhỉ” , l’ocra proveniente
dalla Nubia e dalla zona di Elefantina, era forse il tipo rosso-marrone usato per il colore
della pelle degli uomini; “dỉdỉ”, invece, reperibile in Nubia e ad Assuan, era caratterizzata
da un colore rosso sangue molto vivido e, rispetto alle altre terre, era più rara e più
brillante. Per ciò che concerne la sostanza definita “prš”, si è a conoscenza solo del fatto
che si trattava un tipo di ocra rossa reperibile all’interno del paese e che non era
considerata esattamente come un pigmento.
Il termine “tr”, invece, ha un significato più ambiguo in quanto, sebbene indicasse
sicuramente una sostanza minerale usata in qualche sua forma come pigmento, a volte
sembra riferirsi precisamente ad un minerale di colore rosso ma, in certi altri casi, appare
come un termine generico usato per indicare le ocre o, con un significato ancora più
ampio, “colore”58
.
Lucas nomina anche la “sinopis” e la “rubrica”, le terre egiziane riportate da Plinio59
fra le
sostanze usate dai Romani come pigmenti, concludendo che doveva trattarsi quasi
sicuramente di ocre60
. Anche Vitruvio cita delle ocre rosse provenienti dall’Egitto61
e
Dioscoride afferma addirittura che la migliore terra rossa era proprio quella egiziana62
.
56 Lee-Quirke, 2000, p. 113 57 Iveresn, 1955, p. 28-34 58 Harris, 1961, pp.146-157 59 Plinio, XXXV: 13-15 60 Lucas-Harris, 1962, p.347 61 Vitruvio, VII: 7,2 62 Dioscoride, V: 112
12
Un altro pigmento conosciuto e di certo impiegato dagli Egizi era il realgar (“3wt-ỉb”63
),
un solfuro di arsenico rosso che generava un rosso brillante tendente all’arancione.
Si tratta, però, di un minerale molto sensibile alla luce (come l’orpimento) e che si
degrada facilmente assumendo una tonalità arancio-gialla (definita pararealgar)64
.
Il colore rosso può essere realizzato anche artificialmente tramite la cottura dell’ocra gialla
ma riguardo il possibile impiego da parte degli Egizi di questa tecnica e la sua diffusione
non si possiedono notizie certe.
Per concludere, pigmento definito cinabro (solfuro di mercurio rosso) fu usato in Egitto a
partire dall’età tarda, mentre il rosso minio (ossido di piombo) comparì solo in epoca
romana65
.
Spurrell ha analizzato alcuni campioni, della IV dinastia di ossido di ferro rosso (che egli
chiama ematite) e di ocre rosse miste a gesso, alcune delle quali scurite a causa della
presenza di manganese. Egli ha esaminato, inoltre, dei frammenti di pittura rossa,
costituita da ossidi di ferro rossi, ocra rossa e ocra gialla bruciata, pertinenti alla XII e
XVIII dinastia66
. Ugualmente Russell ha preso in esame alcuni frammenti di colore
relativi alla XII, XVIII e XIX dinastia determinando la natura dei pigmenti come ossido di
ferro rosso mentre, per il periodo tolemaico, ha potuto riscontrare nel materiale
analizzato l’uso di ocra rossa (probabilmente ocra gialla bruciata)67
. L’ ossido di ferro
rosso è stato individuato da Toch nella tomba di Per-Neb68
; la stessa sostanza, inoltre, è
stata riscontrata su una figura in legno di Akhenaton e in varie pitture di età amarniana
analizzate da von Bissing e Reach69
. Lucas nel corso delle sua indagini ha potuto
constatare l’uso di semplice ocra rossa per alcuni campioni della VI dinastia, per dieci
campioni della XVIII, uno della XIX e due risalenti al periodo compreso tra la XX e la
XVI dinastia, rilevando la presenza in vari frammenti della VI e in uno della XVIII
dinastia di un colore costituito da ocra rossa mista a gesso.
Per quel che riguarda gli studi sull’impiego del realgar come pigmento, tralasciando alcuni
campioni analizzati da Spurrell e Barthoux e citati da Lucas, purtroppo non datati, è
63 Harris, 1961, p.142 64 Lee-Quirke, 2000, 114 65 Brunner-Traut, 1977, p.116 66 Spurrell, 1895, pp. 226-7, 231 67 Russell , 1892, pp. 44 68 Toch, 1918, pp. 118-9 69 von Bissing-Reach, 1906, p. 67; von Bissing, 1941, p. 15
13
opportuno prendere in considerazione i risultati delle ricerche condotte dal “Max-Planck
Project” basate sul ritrovamento di un ricettacolo nella tomba di Kheruef (TT192)
contenente questa sostanza e di un campione della decorazione della sepoltura di
Thutmosi IV (KV43), testimonianze certe dell’uso di questo minerale durante la XVIII
dinastia a Tebe. Il progetto ha permesso, in aggiunta, l’identificazione del pararealgar nelle
pitture di Amarna70
.
Le ricerche di Iversen avevano, comunque, già sottolineato come alcune antiche liste dei
pigmenti fornissero già una prova dell’uso di questa sostanza durante il Nuovo Regno.
Marrone
Questo pigmento, come il rosso e il giallo, era costituito da ocra o da ossido di ferro; in
particolare, è stato scoperto che una buona qualità di ocra marrone si ricavava dalla zona
dell’Oasi di Dakhla.
Alcuni frammenti di pittura analizzati ne attestano l’uso dalla IV dinastia fino al periodo
tardo.
Un altro metodo per ottenere il colore marrone, in uso già durante la IV dinastia,
prevedeva la stesura della pittura rossa su uno sfondo nero oppure, come riscontrato
nella tomba di Meketra (della XI dinastia), l’applicazione di uno strato di vernice
trasparente sopra uno strato di ocra gialla scura.
Un altro campione di colore marrone, prelevato da una scatola dipinta della XVIII
dinastia, esaminato da Lucas, si è rivelato essere ossido di ferro misto a gesso; purtroppo
è stato impossibile stabilire se si tratti di un composto naturale (riconosciuto già in altri
casi) o artificiale71
.
Infine, il lavoro condotto per il progetto di conservazione promosso dal British Museum
ha portato alla scoperta su un papiro della XVIII dinastia di un colore composto da
70 Lee-Quirke, 2000, p. 114 71 Lucas-Harris,1962, p. 344
14
ematite, orpimento e nero di carbone applicato e un altro ancora da ematite e nero di
carbone su un papiro della XXI-XXII. dinastia.72
Blu
Un pigmento comunemente impiegato per realizzare il colore blu (a cui si riferiscono i
termini hsbd, hsbd m3،73
) era l’azzurrite (carbonato basico di rame), un minerale
proveniente dal Sinai che possedeva numerose sfumature (dall’indaco all’azzurro
oltremare e dal blu cobalto al turchese74
). Sebbene esistano testimonianze dell’uso di
azzurrite come pigmento pertinenti a tutto il periodo compreso tra l’Antico e il Nuovo
Regno, dallo studio della grande quantità di materiale relativo alla XVIII dinastia, è
emerso quanto questo fosse, in realtà, apprezzato in particolare in tale periodo75
.
Inoltre, fin dalla IV dinastia, gli Egizi furono in grado di produrre anche dei coloranti
artificiali; il cosiddetto “blu egiziano” 76
o “fritta alessandrina” 77
(definito hsbd, hsbd n
sš)78
diventò, in effetti, il pigmento blu più diffusamente impiegato; largamente utilizzata
anche per la realizzazione di perline, amuleti e altri piccoli oggetti, la fritta blu, come
pigmento fu preferita all’azzurrite.
Era ottenuta dalla cottura, ad una temperatura compresa fra gli 800 e i 900˚ C, per 24 ore,
di un composto di quarzo pestato, alkali tipo natron o potassa (carbonato di sodio), calce
(ossido di calce) e malachite79
(carbonato di rame); con soli 15 grammi di questa materia si
potevano ottenere circa 100 grammi di fritta80
(silicato complesso di rame). L’intensità
del colore ottenuto e la consistenza, ovviamente, potevano variare di volta in volta.
Le analisi hanno confermato quanto fu vasta effettivamente la diffusione di questa
sostanza durante tutta la storia egizia, cominciando dagli studi di Williams incentrati su
72 Lee-Quirke, 2000, p. 111 73 Brunner-Traut, 1977, p.116; Harris, 1962, pp. 148-9. 74 Liverani, 2004, p. 21 75 Spurrell, 1895,p. 232 76 Liverani, 2004, p. 21 77 Vitruvio lo definisce anche Coeruleum e afferma che fu inventato ad Alessandria. 78 Brunner-Traut, 1977, p. 116; Harris, 1961, p. 149 79 Forbes, 1955, p. 216; Lee-Quirke, 2000, p. 109; Lucas-Harris, 1962, p. 342 80 Brunner-Traut, 1977, p. 116
15
pitture della V dinastia e proseguendo poi con gli esami di Laurie, Spurrell e Petrie su
campioni della XI, XII e XVIII dinastia81
. Ulteriori analisi relative ad alcune pitture del
Medio, Nuovo Regno ed epoca Tolemaica sono state condotte, invece, da Russell82
.
L’uso del blu sintetico ad Amarna, dove sono stati rinvenuti anche i resti di un’ industria
per la produzione di questo materiale, è stato confermato dagli studi di von Bissing e
Reach83
mentre le indagini di Borchardt hanno portato al riconoscimento di tracce di
questa sostanza, nello specifico, sulla testa di Nefertiti e su una statua in legno di
Akhenaton84
.
La polvere cristallina di colore blu rinvenuta nel Tempio di Micerino, forse parte del
corredo funerario, descritta da Reisner come “blu granulare usata nelle pitture parietali
delle mastabe”85
, è stata interpretata da Lucas proprio come fritta blu.
Il blu egiziano fu usato anche come pietra per incrostazioni (per il suo tipico colore e
aspetto) sulla su statue, stele, pareti e sarcofagi (sia su pietra che su legno) in sostituzione
del lapislazzuli.
In certi casi, addirittura, il blu egiziano usato per raffigurare alcuni elementi del corredo
funerario, poiché assimilato per colore e concetto alla pietra del lapislazzuli, era lavorato
in rilievo; così è possibile trovare sui sarcofagi degli scarabei in blu egiziano realizzati
tridimensionalmente86
o anche gli elementi funerari che rappresentino oggetti in pietra
preziosa sul corpo della mummia come bracciali, anelli o amuleti87
.
Non esistono, invece, prove attendibili che confermino l’ipotesi dell’uso diffuso del
lapislazzuli vero e proprio e del turchese come coloranti e gli studiosi si sono dimostrati,
col tempo, sempre più propensi all’idea che si tratti di una teoria errata88
. Effettivamente,
pur essendo vero che dal lapislazzuli è possibile ottenere un eccellente colore permanente
(detto blu ultramarino), non è sicuro che il procedimento per ricavarlo fosse noto già
prima dell’inizio dell’XI secolo d. C.; questa tecnica richiedeva, infatti, una particolare e
81 Spurrell, 1894, p. 12 82 Russell, 1892, pp. 45-6 83 von Bissing-Reach, 1906, p. 67; von Bissing, 1941, p. 15 84 Borchardt, 1923 , p. 32 85 Reisner, 1931, pp. 18, 53, 237-8 86 Questi elementi erano realmente costituiti di fritta blu in tutto il loro spessore e non, come si potrebbe supporre, rivestiti solo superficialmente con questa sostanza. 87 Delange, 1998, p. 24 88 Lucas-Harris, 1962, p. 343
16
complessa lavorazione della pietra per cui alla polverizzazione estremamente fine del
materiale doveva seguire la levigatura, con un prodotto finale del 2٪.
Lucas ha sperimentato l’uso del lapislazzuli semplicemente macinato come pigmento
ricavando un colore grigio-bluastro che non somigliava affatto al blu ultramarino
dimostrando, dunque, l’inadeguatezza di questa tecnica. Inoltre, considerata la grande
quantità di lapislazzuli necessaria per poter ricavare del colore per pittura (dato anche il
suo scarso rendimento) e il costo di questa pietra semi-preziosa, si deve reputare l’ipotesi
ancora meno verosimile.
Con il trascorrere del tempo, il colore blu sintetico ha subito dei cambiamenti tali da
apparire oggi marrone scuro o addirittura nero89
; questo fenomeno è facilmente
riconoscibile, per esempio, su alcuni oggetti appartenenti al corredo funerario di
Tutankhamon dove la fritta blu fu usata per dipingere il simbolo del trifoglio sul letto, la
pelle della mucca in legno e lo sfondo dei vasi per cosmetici in alabastro.
Un altro genere di alterazione a cui può essere soggetto il blu egiziano è la trasformazione
in colore verde vero e proprio. Le analisi di alcuni campioni di pittura, pertinenti
all’Antico e al Medio Regno, hanno rivelato, in effetti, come il colore verde visibile oggi
sia, in realtà, il risultato del degrado subito dal pigmento sintetico blu scelto in origine
proprio per raffigurare degli elementi vegetali. È opportuno notare che oltre ad un
cambiamento della tonalità, l’alterazione chimica ha provocato anche un cambiamento
della consistenza del colore rendendolo spugnoso e friabile90
. Nei punti in cui il colore
blu si è distaccato del tutto è visibile una impronta lasciata nel supporto, una sorta di
ombra che può essere identificata come un ultimo strato di colore rimasto o come una
traccia del legante impiegato in origine senza escludere l’ipotesi che si tratti di una macchia
causata da un fissativo di restauro91
.
Al di là di queste considerazioni di carattere generale riguardo le due principali forme di
mutazione del blu, si deve tenere presente che, trattandosi di una sostanza costituita da
diversi componenti chimici, può subire numerose e diversificate tipologie di danno92
.
89 Lucas-Harris, 1962, p. 344 90 Lee-Quirke, 2000, p. 110 91 Delange, 1998, p. 25 92 Green, 2001, pp. 44-5
17
Verde
Fin dall’antico Regno il pigmento verde era ricavato dalla macinazione della pietra semi-
preziosa della malachite (indicata dal termine generico “wad”93
), un minerale metallico
(carbonato di rame verde) ricavato dal Sinai e dal deserto orientale.
Dallo studio di alcune tombe a el-Bersheh e Kahun, è emerso che durante la XII dinastia
fu impiegata anche la “crysokolla”94
(silicato di rame idrato95
) ridotta in polvere.
Fu molto più sporadico, invece, durante tutta la storia egizia, l’uso dell’ atacamite (cloruro
di rame).
Sicuramente il pigmento verde più utilizzato fu quello sintetico (definito “šsyt”96
);
conosciuta fin dalla VI dinastia, la fritta verde era ottenuta cuocendo insieme sabbia
(contenente carbonato di calcio e quarzo), alcali e dei minerali di rame97
o anche seguendo
lo stesso procedimento noto per produrre la fritta blu aggiungendo al composto del ferro
(utilizzando quindi del quarzo impuro o della sabbia ferrosa)98
.
Talvolta il colore verde era composto anche da fritta blu e ocra gialla, come riscontrato in
alcune tombe di el-Bersheh e Kahun (XII e XVIII dinastia) e in alcuni dipinti di età
amarniana99
.
In altri casi ancora è stato rilevato dalle analisi un colore verde costituito da fritta blu
associata ad un pigmento giallo di origine vegetale.100
Le indagini di Lucas hanno portato al riconoscimento di fritta verde in diversi campioni,
uno proveniente da una tomba della VI dinastia, sei relativi alla 18. dinastia, uno datato
alla XIX e uno del periodo compreso tra la XX e XXVI dinastia. Russell ha individuato
93 Harris, 1961, p. 143-5; Iveresn, 1955, p. 6-19. Il termine “wad” poteva indicare i pigmenti verdi in generale, il trucco per gli occhi, il minerale usato in medicina riportato nel papiro Ebers (malachite, verdigris e chrysokolla), o semplicemente la pietra semi-preziosa della malachite. 94 Brunner-Traut, 1977, p. 116 95 Liverani, 2004, p. 21; Forbes, 1955, p. 222. Chrysokolla (“Colla d’oro”), nel mondo classico, era il nome dato generalmente alla malachite verde; il nome deriva dall’uso del pigmento come fondo delle dorature per conferire all’oro una tonalità più fredda. In realtà il termine chrysokolla, attualmente, indica un silicato di rame naturale mentre il termine malachite un carbonato di rame naturale. 96 Harris, 1962, pp. 152-3 97 Forbes,1955, p. 222 98 Brunner-Traut, 1977, p. 116 99 von Bissing-Reach, 1906, p. 67; von Bissing, 1941, p. 15 100 Lucas-Harris, 1962, p. 345
18
testimonianze di verde sintetico pertinenti al Medio e Nuovo Regno101
, Spurrell al
periodo di Amarna102
e Borchardt, nell’ambito delle sue ricerche incentrate sul busto di
Nefertiti, ha infine confermato impiego del pigmento artificiale anche in questo caso103
;
altri campioni ancora, datati alla XVIII dinastia, sono stati presi in esame, infine, da
Eibner104
.
Riguardo, invece, alle diverse modalità di impiego della malachite, le ricerche di Spurrell
hanno condotto all’individuazione, in alcune tombe della 4. dinastia, di campioni di
pigmento composto da pietra pura, altri di un verde costituito da malachite mista a gesso
e ancora, in certi casi, di malachite applicata su uno strato di giallo105
. Per ciò che
concerne il Medio e Nuovo Regno, lo stesso studioso, ha analizzato dei campioni sia di
malachite che di “chrysokolla”106
.
Lucas si è occupato, invece, dell’esame di alcuni frammenti di verde di malachite
pertinenti a una tomba di Giza (della V dinastia) e del verde applicato su due barche
appartenenti al corredo funerario di Tutankhamon.
Un ulteriore procedimento usato per ottenere il colore verde, emerso dalle analisi
effettuate su due papiri (uno della XIX dinastia conservato al museo dell’università di
Filadelfia e uno di epoca tolemaica o romana esaminato dal progetto di conservazione del
British Museum), consisteva nel mescolare del blu egiziano con l’orpimento107
.
Per quel che riguarda l’aspetto della conservazione, gli scienziati hanno sottolineato come
il verde, a causa della sua stessa natura chimica, semplicemente a contatto con l’aria possa
assumere un aspetto rugginoso e danneggiare l’intonaco sottostante; tutto questo è stato
riscontrato, per esempio, nella tomba tebana di Menna (TT69) in cui le parti dipinte in
verde si sono sgretolate e hanno corroso, appunto, l’intonaco.
101
Russell, 1892, p. 46 102 Spurrell, 1895, pp.234, Petrie, 1894, p. 14. 103 Borchardt, 1923, p. 32 104 Eibner, 1970, pp. 582-3 105 Spurrell, 1895, p. 227; Petrie, 1892, p. 29 106 Spurrell, 1895, p. 227, pp. 232-3 107 Lee-Quirke, 2000, pp. 112-3
19
Arancione
Molti colori impiegati in pittura e ancora oggi visibili non erano costituiti da un pigmento
vero e proprio ma ottenuti mescolando fra loro, o con il bianco e il nero, i pigmenti citati
nelle liste.
Così il colore arancione si poteva ricavare sia sovrapponendo della pittura rossa su uno
strato di giallo, sia mescolando direttamente dell’ocra rossa e gialla108
.
Grigio
Era ottenuto mescolando, ovviamente, il bianco e il nero. Nella tomba di Per-Neb, per
esempio, il grigio è composto da gesso e carbone di legna o nero-fumo109
. In certi
campioni di grigio della IV dinastia è stato individuato invece del gesso, o terra gialla
molto pallida, mescolato al “nero-fumo”110
.
Rosa
Dalle analisi si evince che il colore era ottenuto, fin dall’Antico Regno, mescolando
insieme ocra e gesso111
. Alcuni campioni, fra cui quelli provenienti dalle tombe di
Amenemhet112
(XVIII dinastia), di Menkheperrasonb113
e di Nefertari (XIX dinastia),
presi in esame da Lucas, testimoniano che questo colore fu utilizzato soprattutto durante
il Nuovo Regno.
Anche il rosa presente sulla testa di Nefertiti si è rivelato essere composto da ocra e
gesso114
.
108 Reisner, 1926, IV-V, pp. 293-4 109 Williams, 1933, p. 25, n. 19. 110 Lucas-Harris, 1962, p. 346; Forbes, 1955, p. 224 111 Lucas-Harris, 1962, p. 346 112 Davies-Gardiner, 1915, p. 98 113 Davies-Davies, 1933, p. 25 114 Borchardt, 1923, p. 32
20
Un procedimento differente è stato riscontrato in una tomba di epoca greco-romana
dove, per fare questo colore, è stata applicata della tinta di robbia (ricavata dalla radice di
una pianta nativa della Grecia) su una base di gesso115
; probabilmente lo stesso metodo fu
usato anche sui sarcofagi di questo periodo.
2. Vernici
Dalle ricerche emerge che nell’antico Egitto erano utilizzati due tipi di vernice: una,
praticamente priva di colore, che si presenta oggi nelle tonalità del marrone, giallo o rosso
(a seconda dello spessore originario dello strato) e una di colore nero, che non ha subito
alterazioni nel corso del tempo.
Vernice trasparente
Nonostante l’aspetto attuale, la trasparenza della vernice al momento dell’applicazione è
certa e dimostrata, almeno secondo l’opinione di Davies116
, dal fatto che essa fosse stesa
sulle figure senza alcuna cura e definizione dei margini che solo ora risultano molto
evidenti nella loro irregolarità a causa dello scurimento della vernice stessa117
.
La vernice costituiva un vero e proprio rivestimento protettivo per pitture murali,
sarcofagi lignei, stele, scatole, ceramiche dipinte, e molti altri oggetti. I diversi modi di
impiego della vernice trasparente sulla pittura parietale sono ben esemplificati da alcune
tombe della necropoli tebana in cui si può osservare come essa fosse usata sia per
ricoprire l’intera superficie della parete dipinta (come nel caso, per citare un esempio, della
115 Petrie, 1889, p. 11; Russell, 1892, p. 47; Russell, 1893-4, pp. 374-375; Russell, 1893-5, pp. 67-71 116
Davies, 1917, p.57, n.4 117 Lucas-Harris, 1962, p. 357
21
tomba di Kenamun118
) che, come nella maggior parte dei casi, per rivestire solamente
alcuni particolari colori come il giallo e il rosso. Inoltre nelle cappelle della 18. dinastia è
stato notato un sottile strato di vernice usato come copertura di certi particolari più
preziosi o fragili119
.
Oltre allo scopo protettivo è emerso anche un fine estetico e simbolico dell’uso della
vernice trasparente rivelato dalla ricerca di brillantezza di alcuni colori con l’intento
preciso di imitare alcuni particolari metalli, primo fra tutti l’oro, o di pietre preziose120
.
Oltre alla tradizionale funzione di patina protettiva Mackay ha ipotizzato anche un uso
della vernice come legante (quindi già mescolata al colore al momento della applicazione
di questo)121
. La vernice trasparente era composta da un particolare tipo di resina che,
purtroppo, a causa del limitato approfondimento dell’argomento, non è stato ancora
possibile individuare con assoluta certezza.
Le indagini svolte da Lucas e dai suoi predecessori hanno seguito un procedimento
inverso rispetto a quanto ci si potesse aspettare essendosi concentrate principalmente
sull’individuazione del solvente in grado di sciogliere la resina antica per poter arrivare,
solo di conseguenza, al riconoscimento della tipologia della resina stessa. Dunque, il fatto
che la vernice antica sia oggi solubile in certi solventi ma non in altri, tra cui la trementina
(in cui invece la maggior parte delle resine sono solubili), ha portato alla conclusione che
essa fosse costituita da gommalacca122
(solubile, infatti, in alcool e insolubile in
trementina), ma considerato che la resina usata nell’antico Egitto era più aromatica
rispetto alla gommalacca e, soprattutto, trasparente, risulta improbabile che si tratti
proprio di questa sostanza.
Per quel che riguarda la questione del colore, che rappresenta un’altra caratteristica da non
sottovalutare ai fini dell’individuazione del genere di resina impiegata, è emerso che il più
simile a quello della vernice antica è dato dalle oleo-resine conifere; il problema, però,
consiste nel riuscire a conciliare i due aspetti fondamentali appurati dalla ricerca, vale a
dire solubilità e colore, considerato il fatto che le oleo-resine sono risultate solubili nella
trementina contrariamente a quanto già dimostrato dalle analisi per la vernice antica.
118 Davies, 1917, p. 57, n. 4 ; Davies, 1930, I, p. 60 119 Mekhitarian, 1954, p. 34; Lothe, 1954, p. 32 120 Delange, 1998, p. 28 121 Lucas-Harris,1962, p. 356; Mackay, 1920, pp. 36-7 122 Prodotta da insetti parassiti di alberi che crescono in Ceylon e India; presenta un colore molto scuro.
22
Comunque, si deve tenere presente che una vernice può aver subito, negli anni, un
cambiamento nelle sue caratteristiche originarie e, di conseguenza, nel grado di solubilità
o insolubilità in un determinato solvente; con il tempo e l’esposizione, in effetti, è stato
dimostrato che il grado di solubilità di una determinata sostanza può calare. Questa
scoperta induce a ritenere insufficienti i soli test di solubilità come criterio di
individuazione della sostanza di cui era composta la vernice antica123
. In effetti, oggi è
possibile distinguere le vere resine (come quelle derivanti da pistacia, cedro, pino,
ginepro, cipresso, ecc.), contenenti un solo componente della resina, dalle gomme-resine
(tipo la mirra), che sono una combinazione di elementi tipici delle resine e delle gomme
polisaccaridi, in base alla loro solubilità in alcool (le prime) o acqua (il secondo gruppo). Il
test, però, può essere valido solo se applicato a resine appena trasudate dalla pianta e non
a campioni antichi.
Solo recenti studi, fondati sulla analisi chimica effettuata direttamente sui campioni di
resine, hanno permesso di avanzare nuove proposte di identificazione. Senza dimenticare
le problematiche ben note, dovute all’antichità dei componenti posti sotto esame, si è
potuto, negli ultimi anni, risalire in certi casi alle fonti botaniche di tali materiali124
.
Oltre alle analisi finalizzate al riconoscimento della tipologia specifica della resina, gli
studiosi, avendo dato per scontato che per poter essere utilizzata anche la vernice egiziana
dovesse essere diluita in qualche modo, hanno dovuto affrontare anche il problema
dell’identificazione del solvente impiegato in antichità. Come punto di partenza per le
indagini sono stati presi in considerazione i solventi conosciuti al giorno d’oggi tipo oli
essiccanti (come l’olio di semi di lino), trementina o alcool. Considerando sempre, come
già accennato, che la vernice egizia non è risultata solubile in trementina e che questo
solvente, come anche l’alcool, non era conosciuto nell’antico Egitto, Lucas (basandosi
sulla teoria di Petrie125
fondata sull’uso di un vino molto forte come solvente) ha tentato
degli esperimenti con lo sherry126
. Giungendo ad esiti negativi egli ha potuto ammettere,
alla fine, solo due possibili soluzioni affermando che, probabilmente, le resine egizie non
avevano bisogno di solventi estranei (perchè già semi-liquide al naturale, come le oleo-
123 Lucas-Harris, 1962, p.358 124 Serpico-White, 2000, pp. 443-4 125 Petrie, 1892, p.29 126 Lo sherry è il vino bianco più alcolico che esista.
23
resine) oppure che necessitavano di un solvente di cui gli egizi disponevano sicuramente,
come per esempio una soluzione di natron e acqua.
L’ipotesi più accreditata al momento (in assenza di ulteriori analisi chimiche), sostenuta
anche da Laurie127
, sembra quella dell’uso di oleo-resine riscaldate prima dell’uso per
ovviare al problema della loro consistenza spessa e sciropposa.128
Lucas ha svolto
numerosi esperimenti in questa direzione giungendo alla conclusione che, con l’aiuto di
un pennello particolarmente rigido, era possibile comunque stendere alcune resine ad una
temperatura di 20° C; mentre non era particolarmente utile, invece, scaldarle fino ai 60°C
poichè in brevissimo tempo dalla consistenza molto liquida e poco viscosa sarebbero
ritornate comunque allo stesso stato dei 20° C. L’unico vero svantaggio delle oleo-resine
era costituito dai tempi di essiccazione che si prolungavano anche per settimane (un
tempo variabile anche a seconda della temperatura del luogo).
In conclusione, non è ancora stata trovata una soluzione al problema convincente sotto
tutti i punti di vista; se l’ipotesi dell’uso di oleo-resine conifere risolve, da un lato, la
questione del colore e dell’assenza in antichità di solventi come trementina o alcool, si
scontra, dall’altro, con l’evidenza del fatto che queste resine sono solubili solo in
trementina, mentre l’antica vernice sottoposta al test di solubilità ha dimostrato il
contrario. Infine, anche la gommalacca è da escludersi perché, sebbene possieda la stessa
capacità di solubilità in alcohol riscontrato oggi anche nella vernice egizia, non soddisfa
sotto il punto di vista del colore e non sono conosciute, al momento, altre resine che
corrispondano ai requisiti fondamentali per ora emersi dalle ricerche.
L’uso della resina scomparve sorprendentemente in epoca tolemaica e romana, forse a
causa delle guerre che provocarono in Asia la distruzione delle piante da cui, molto
probabilmente, era ricavata.
In certi casi è stato rilevato l’uso, oltre che di vernice vera e propria, di cera d’api
(applicata dopo essere stata riscaldata) per fissare il colore o per migliorare la brillantezza
in particolare dei colori rosso, blu, e verde129
. Dopo il 1000 a.C. si cominciò ad utilizzare
per lo stesso scopo anche la gomma di acacia.
127 Laurie, 1910, pp. 30-1 128 Lucas-Harris, 1962, p.360 129 Forbes, 1955, p. 239
24
Purtroppo il tentativo di proteggere già in età antica le pitture con vernici di rivestimento,
si è rivelato dannoso; col tempo la vernice trasparente applicata sopra i dipinti ha subito,
infatti, un processo di deterioramento che si è concluso, in certi casi, addirittura con il
distaccamento dalla parete della vernice e del colore sottostante. A causa dell’ossidazione,
inoltre, oggi essa appare di colore giallo, rosso o bruno alterando inevitabilmente l’aspetto
originario dei dipinti, creando colori aranci o bruni che non devono essere considerati
come scelte intenzionali degli artisti.
Bisogna considerare la presenza di vernice come un elemento determinante anche nello
studio del colore bianco oggi diventato giallo, del blu ora verde, e delle ocre ormai scurite
irrimediabilmente. Un esempio molto evidente è costituito dal gruppo delle tre musiciste
della tomba di Nakht che rivelano oggi una tonalità di pelle sicuramente molto più scura
rispetto all’epoca della realizzazione130
.
In realtà il miglior agente di conservazione per questi dipinti si è rivelato essere
semplicemente il clima secco dell’Egitto, considerato anche il fatto che le stesse pitture
conservate nei musei sono soggette, nonostante i moderni accorgimenti utilizzati, a un
lento degrado.131
Vernice nera
La vernice nera era applicata sul legno con lo scopo di imitare l’ebano e per realizzare
oggetti funerari di vario tipo132
. A partire dalla XVIII dinastia sostituì il semplice colore
nero con cui erano dipinti gli oggetti in legno e rimase in uso durante il tutto il periodo
Persiano e Tolemaico.
Erroneamente ma spesso chiamata bitume o pece la vernice nera è, in realtà, una resina a
basso punto di fusione (solubilità), altamente solubile in alcool e acetone e praticamente
insolubile in trementina, spirito di petrolio, carbone bisolfuro, etere e benzol che si
presentava già di colore nero al naturale. È inoltre risultata solubile in pyridine e 130 Delange, 1998, p. 28 131 Mekhitarian, 1954, p. 34 132 Si può notare, per esempio, su molti oggetti del corredo funerario di Tutankhamon e di Horemheb o anche sulle scatole canopiche e per il cibo di Yuya e Tuyu.
25
saponificabile con soda caustica. Le analisi hanno dimostrato la presenza, in essa, di una
materia organica nitrogena, probabilmente della colla usata come base sulla superficie del
legno prima della verniciatura.
Le resine nere oggi conosciute che possono essere usate come lacche sono ottenute dalla
“Canariam strictum” (proveniente dalle zone ovest e sud dell’India), dalla “Rhus vernicifera”
(presente in Giappone e Cina), dalla “Melanorrhoea usitata” (di Cina e Cambogia) e dalla
“Melanorrhoea laccifera” (dell’Indo-Cina). Al naturale si presentano allo stato liquido con una
consistenza viscosa e di colore grigio-bianco; con l’esposizione, applicate in sottili strati, si
asciugano assumendo un colore nero lucido.
Probabilmente nell’ antico Egitto era usata una sostanza simile.
3. Leganti
Gli studi che hanno seguito l’ultima edizione dell’opera fondamentale di Lucas “Ancient
Egyptian Materials and Industries” (aggiornata da Harris), hanno avuto come materia di
interesse primario l’analisi dei pigmenti tralasciando, purtroppo, l’altro componente
fondamentale della pittura: i leganti.
Appurato il fatto che si trattava di sostanze organiche, rimangono ancora molte questioni
in sospeso concernenti i fattori che potessero determinare la scelta di una certa sostanza
piuttosto che un’altra. Si può ipotizzare che il criterio di scelta fosse condizionato dal tipo
di supporto della pittura, dal periodo di esecuzione di questa o dalla necessità di ottenere
effetti visivi diversi per ciascuna parte di un oggetto. Per il momento, ciò che le analisi
hanno rivelato con certezza è che i leganti organici utilizzati erano principalmente di due
tipi, vale a dire colle animali e gomme vegetali (anche se resta ancora da stabilire
esattamente da quali piante fossero ricavate le gomme) questione che potrà essere chiarita
solo in futuro, in seguito ad ulteriori approfondimenti della materia.
26
Oltre alle sostanze leganti per ora individuate, gli studiosi ritengono che ne fossero
impiegate anche delle altre e, sicuramente, anche mescolate insieme.
Queste sostanze, acide già al momento dell’applicazione, o divenute tali nel corso del
tempo per la loro stessa decomposizione, hanno arrecato dei seri danni alle superfici
dipinte. In alcuni casi si sono verificati nei supporti dei fenomeni di corrosione, veri e
propri buchi che, nel legno, possono apparire simili a delle bruciature. É importante
sottolineare che questo tipo di danno è dovuto non tanto alla composizione chimica dei
colori quanto a quella dei leganti in essi presenti133
.
Colla animale134
La colla era il prodotto ottenuto dall’ebollizione in acqua delle parti animali contenenti
gelatina (come ossa, pelli, cartilagini e tendini); il liquido, concentratosi mediante
l’evaporazione, era versato in uno stampo e, asciugandosi, si trasformava in una massa
solida e gelatinosa. Per l’uso, questa sostanza doveva essere polverizzata e mescolata ad
acqua calda135
.
Un altro genere di colla animale molto forte, la caseina, era ricavata, invece, dal latte.
La colla animale, oltre ad essere un buon adesivo e legante per i colori, talvolta, era
distribuita sopra la pietra o l’intonaco con lo scopo di otturare i pori superficiali
costituendo, quindi, una base ottimale per la pittura; oppure, in certi altri casi, poteva
anche essere mescolata al bianco di calce per preparare l’intonaco136
.
Bisogna tenere presente, dunque, considerati i diversi possibili modi di impiego della
colla e l’impossibilità di distinguere oggi il suo uso originario per ogni caso esaminato
(essendo questa mescolata in profondità con il colore o il supporto), che la presenza di
colla in una determinata pittura non rappresenta la certezza che essa fosse stata impiegata
come legante137
.
133 Davies, 2001, p. 22 134 La colla era composta, in effetti, da collagene, una proteina animale. 135 Lucas-Harris, 1962, p. 3; Newan-Serpico, 2000, p. 475 136 Talvolta questo impasto è chiamato indistintamente dagli egittologi “gesso”. 137 Newman-Halpine, 2001, p. 22
27
Albumina
Sebbene gli studiosi affermino che anche il bianco d’uovo fosse utilizzato come legante,
esistono tuttora molti problemi di identificazione di questa sostanza; l’unica
identificazione certa si riferisce ad un uso superficiale dell’albumina in alcuni punti della
decorazione della tomba di Nefertari138
.
Gomma vegetale (“Kmỉt”139
)
La gomma di origine vegetale (individuata con sicurezza nei colori di alcune pitture
rinvenute a Karnak e in dipinti della XVIII, XIX dinastia, del periodo tolemaico e dell’età
copta) era ricavata da due specie di piante diverse: l’Acacia e l’Astragalus; tra di esse
particolarmente apprezzata era l’ “Acacia Senegal” (presente in Africa orientale), il cui
prodotto è più comunemente chiamato “gomma arabica”, l’ “Acacia Nilotica” (reperibile in
Egitto e in Sudan) e l’ “Astragalus Gummifer” (varietà caratteristica della Turchia, Siria,
Palestina, Iraq e Iran)140
.
Oli
Anche se conosciuti già in età antica, gli oli furono utilizzati in pittura solo in epoca tarda,
verso il VI secolo d. C141
.
138
Newman-Halpine, 2001, p. 23 139
Harris, 1962, pp. 158-9 140
Newman-Halpine, 2001, p. 22; Newman-Serpico, 2000, p. 476 141
Lucas-Harris, 1962, p. 351. Inoltre, nel caso in cui i colori sono mescolati a queste sostanze la pittura viene definita, ovviamente, “a olio”e non, come nel caso della pittura egizia, “a tempera”.
28
Cera d’api
Esistono poche identificazioni precise di questa sostanza poiché, pur avendo dimostrato
con certezza la presenza di cera in un determinato colore, è risultato comunque molto
difficile stabilire se questa fosse stata usata come legante o, al contrario, come
rivestimento superficiale protettivo della pittura. Le più chiare testimonianze dell’uso di
questa sostanza come legante sono rappresentate dai ritratti funerari del Fayum di età
romana e, per quel che riguarda le epoche precedenti, dal nero usato per gli occhi di un
busto in calcare di Nefertiti142
e dalle pitture di alcune tombe tebane della XVIII dinastia.
In questi casi la cera appare mescolata molto a fondo con il colore143
, contrariamente a
quanto ci si potesse aspettare nel caso in cui fosse impiegata solo come rivestimento.
La cera d’api poteva essere usata secondo procedure diverse a seconda delle necessità; in
forma pura, considerata la sua consistenza densa e il fatto che non esistevano dei solventi
in grado di scioglierla, il colore a cui era mescolata doveva essere necessariamente fuso per
poter essere applicato. La stesura sulla parete tramite dei semplici pennelli risultava,
comunque, molto difficoltosa rendendo necessaria la manipolazione del colore con
attrezzi preventivamente riscaldati, una pratica che costituiva una notevole perdita di
tempo e che limitò l’uso della cera pura solo alle piccole applicazioni.
In alternativa, la cera poteva essere bollita insieme ad una soluzione alcalina (natron o
potassa) con lo scopo di generare un’emulsione cremosa che, mescolata ai pigmenti,
rendeva il colore facilmente applicabile semplicemente con dei pennelli. Di sicuro per i
progetti molto vasti, come la decorazione di una tomba, era preferito l’uso di una
emulsione di cera.
Degli studi recenti hanno dimostrato che non esiste motivo di credere che questo fosse il
procedimento usato per ottenere la cosiddetta cera Punica menzionata da Plinio in
quanto questa era composta da cera e sapone di potassio ottenuto dalla saponificazione di
grasso animale o di olio vegetale con potassa144
.
142 Borchardt, 1923, p. 32 143 Mackay, 1920, pp. 35-8 144 Newman-Halpine, 2001, p. 23
29
Resina
Per ciò che riguarda l’utilizzo delle resine naturali come leganti, si può affermare con
certezza solo che esse presentavano, a causa delle loro caratteristiche, numerose difficoltà
durante l’applicazione.
Le resine, in effetti, solide a temperatura ambiente a causa dell’evaporazione del solvente
naturale contenuto in esse appena trasudate dall’albero, dovevano essere riscaldate prima
dell’uso; questa procedura non permetteva, comunque, di raggiungere una consistenza
ottimale per l’applicazione del colore trattandosi di sostanze viscose e collose per natura.
Non essendo conosciuti a quel tempo dei solventi in grado di scioglierle una volta
essiccate, una soluzione poteva consistere nel racchiudere le resine appena trasudate
dall’albero, e quindi ancora liquide, in un recipiente ben sigillato che impedisse
l’evaporazione del solvente naturale.
Studi recenti hanno permesso l’identificazione di una varietà particolare di resina usata
come legante nelle pitture di alcune tombe della XVIII dinastia: il mastice, ricavato dalla
“Pistacia lentiscus” o anche dalla “Pistacia atlantica”.
Purtroppo l’impiego della resina come legante rimane ancora un argomento da
approfondire considerando che le problematiche emerse durante le analisi concernenti
l’uso delle resine come vernici, devono ritenersi valide anche in questo ambito145
.
4. Strumenti per la preparazione e l’applicazione dei colori
Macinatori
Per ridurre i pigmenti in polvere venivano utilizzati dei mortai di pietra di forma
rettangolare che presentavano, sulla faccia superiore, un bordo di contorno elevato e un
145 Newman-Halpine, 2001, p. 23-4
30
avvallamento centrale in cui era posta la sostanza da macinare. Il pestello, sempre in
pietra, poteva essere conico o a spatola.
Tavolozze e contenitori
I pigmenti , una volta preparati, erano conservati in borse o, se mescolati ai leganti, erano
essiccati e poi conservati in forma di blocchetti negli appositi incavi delle tavolozze. Per
usarli era necessario solo ammorbidirli e diluirli con dell’acqua.
Le tavolozze, di forma rettangolare, erano realizzate con diversi materiali come avorio,
legno o pietra (tipo alabastro, arenaria, schisto o serpentino) ed erano caratterizzate dalla
presenza, sulla superficie superiore, di incavi (di forma rotonda o rettangolare) in cui
erano poste le tavolette di inchiostro o di colore per pittura. Possedevano, inoltre, degli
appositi spazi per le “penne” che, in alternativa, potevano essere riposte in astucci.
L’acqua con cui erano diluiti gli inchiostri e i colori era contenuta in piccoli vasi separati.
Tutti questi elementi sono ben visibili nel segno geroglifico usato per la parola “scriba” in
cui si riconosce proprio un astuccio, un vasetto per l’acqua e una tavolozza per gli
inchiostri. Le tavolozze, inoltre, per la loro forma lunga e stretta, spesso erano usate
anche come regoli146
.
Alcune sono state rinvenute con i colori ancora disposti negli appositi incavi; per esempio
è in una tavolozza rinvenuta nella tomba di Tutankhamon147
sono ancora visibili i colori
nero, verde, rosso, bianco e giallo, mentre il blu è andato perso; in un’altra tavolozza,
citata da Davies e Gardiner, sono invece ancora visibili il rosso, il giallo scuro, il giallo
chiaro, il verde, il blu e il bianco148
.
Nelle tombe sono state rinvenute anche conchiglie e piccole tazze emisferiche di
terracotta usate per preparare le misture di acqua, pigmenti e collanti, ognuna usata per un
colore diverso149
.
146 Lucas-Harris, 1962, p.366 147 Carter, 1923, III, pl.XXXIII (A). 148 Davies-Gardiner, 1915, p. XXXii 149 AA. VV., 2005, I, p. 184
31
Pennelli
I pennelli, oggetti di uso molto comune in Egitto, erano realizzati esclusivamente con
materie vegetali e, in base alla forma, è possibile distinguerne principalmente tre tipologie.
Un primo tipo era realizzato con fasci di fibra grezza, o ramoscelli, legati insieme con una
corda sottile o con una foglia di palma in modo da realizzare anche il manico dello
strumento (dato che i manici in legno non erano utilizzati). Di questo primo gruppo
fanno parte sia i pennelli a forma di ventaglio, costituiti da canne sezionate usati per
spazzare il pavimento o ventilare il fuoco, che quelli fatti con piccioli di datteri o
ramoscelli di “Ceruana pratensis”150
e “Desmostachya bipinnata”151
.
Esistevano, poi, dei pennelli costituiti da fasci di fibre (differenziati a seconda dei diversi
gradi di sottigliezza di queste) piegati in due a metà della loro lunghezza e legati insieme
proprio nell’estremità piegata. A questo genere appartengono un pennello, datato al
Nuovo Regno, trovato a Deir el-Medina e due pennelli di data incerta fatti con rami di
“Desmostachya bipinnata”. Di questo stesso gruppo fanno parte anche alcuni pennelli
rinvenuti a Deir el-Bahari, cinque pennelli di fibra di palma di età romana e altri ancora
provenienti dal monastero di Epiphanius152
. I pennelli di questo tipo, realizzati in piccole
dimensioni, erano usati proprio per dipingere. Si tratta di un utensile rinvenuto di
frequente all’interno delle sepolture (talvolta addirittura ancora intriso di pittura) e tra gli
esempi se ne possono citare uno ritrovato da Davies153
, due rinvenuti da Peet e Woolley,
e altri due ancora da Pendlebury.
Una terza tipologia di pennelli comprende quelli realizzati con pezzi di legno fibroso di
diversa grossezza (probabilmente porzioni della nervatura centrale dei rami della palma da
dattero), pestati ripetutamente ad una estremità finché le fibre non si fossero separate per
formare delle setole grezze. Questi pennelli erano usati esclusivamente per dipingere.
All’interno delle tombe tebane ne sono stati trovati dieci154
su cui è ancora visibile della
150 Secondo Keimer (1932, pp. 32-3) questa pianta è usata ancora oggi per fare pennelli. 151 Lucas-Harris, 1962, p.133 152 Lucas-Harris, 1962, p.133-134 153 Davies, 1913, pp. 5-6, pl. XVII 154 Davies, 1913, pp. 5-6, pl. XVII
32
pittura antica; osservando con attenzione, si può notare come ogni pennello fosse usato
per l’applicazione di un solo stesso colore155
.
Sulla superficie dei dipinti sono rimaste, in alcuni casi, le tracce dell’uso del pennello; una
testimonianza è data da alcune pitture del periodo di Amarna in cui sono state individuati
i segni di pennelli di spessore variabile (2-7 mm e 10-15 mm)156
.
5. Supporti della pittura parietale
L’intonaco, il supporto più utilizzato per le decorazioni pittoriche, poteva essere
composto di argilla, gesso o calcare (anche se quest’ultimo, in realtà, era usato soprattutto
sulle superfici di legno).
La qualità più grossolana di intonaco di argilla era composta dal materiale alluvionale del
Nilo, un misto naturale, in proporzioni variabili, di argilla, sabbia e calcare. Un tipo
migliore era, invece, quello ricavato dal materiale presente nei depositi ai piedi delle colline
(dalle quali era stato spazzato via dalle piogge) composto da argilla e calcare di consistenza
più fine del materiale alluvionale. Questo tipo di intonaco è ancora oggi utilizzato
localmente come rivestimento per le pareti di mattoni essiccati al sole, o sopra l’intonaco
di argilla più grezzo, con il nome di hîb157
.
Il più antico dipinto murale rinvenuto in Egitto (risalente all’età predinastica158
) fu
eseguito proprio su intonaco di argilla. Ovviamente, questo genere di supporto fu
impiegato anche in età posteriori e, in particolare, durante la XVIII dinastia ad Amarna
155 Davies-Gardiner, 1936, pp. XXXii-XXXiii 156 Von Bissing-Reach, 1906, p. 67; von Bissing, 1941, p. 14 157 Lucas-Harris, 1962, p.76 158 Quibell-Green, 1902, II, p. 21
33
dove, sia nel palazzo reale che nelle case private, le pitture furono realizzate direttamente
sullo strato di argilla che ricopriva la struttura in mattoni.
Talvolta, al primo strato più grezzo applicato sulla parete, composto da argilla mista a
paglia tritata, era sovrapposto un secondo strato più sottile di limo argilloso puro o
mescolato con scagliola come riscontrato, per esempio, nella famosa raffigurazione delle
oche di Meidum159
. Questo tipo di supporto, purtroppo, si è rivelato poco duraturo nel
tempo anche a causa delle termiti che hanno distrutto la paglia che legava il limo.
In ogni caso, l’intonaco maggiormente utilizzato come supporto per la pittura di pareti o
soffitti, di abitazioni private, palazzi, templi o tombe era quello di gesso (solfato di calcio).
Anche nei casi in cui il muro fosse già stato coperto da un primo strato di argilla si
ricorreva, in genere, ad un ulteriore rivestimento con del gesso prima della decorazione
della parete.
Solo nel caso in cui la roccia in cui era scavata la tomba lo rendeva possibile, la parete, una
volta lisciata, fungeva direttamente da fondo per la pittura e solamente gli eventuali buchi
o crepe erano otturati con il gesso; un esempio di questa tecnica si trova nelle tombe di
Ouserhat (TT56) e Ramose (TT55)160
.
L’ intonaco di gesso, nella sua qualità più grossolana, era usato anche per eliminare i
difetti e le irregolarità dei muri in pietra che dovevano essere scolpiti161
.
Di norma, comunque, la procedura prevedeva la stesura di una prima base di gesso e poi,
sopra questa, di un secondo strato di intonaco più fine per lisciare del tutto la superficie;
infine il muro era tinteggiato con uno strato estremamente sottile di colore bianco a
tempera o bianco di calce con lo scopo di riempire i pori ancora presenti sulla parete
prima di procedere al disegno e alla stesura del colore162
. Quest’ultimo strato più
superficiale era composto essenzialmente da carbonato di calcio e poteva anche non
contenere affatto del gesso; gli studiosi tengono a sottolineare che il gesso in esso
eventualmente presente è da considerarsi, comunque, solo un’impurità e mai un legante. Il
159 AA. VV., 2005, I, p. 185 160 Mekhitarian, 1954, p. 28 161 L’intonaco, steso sulle pareti su cui doveva essere eseguito il rilievo, era intagliato proprio come se fosse pietra; inoltre, era impiegato per eliminare gli eventuali difetti presenti nei rilievi. 162 Lucas-Harris, 1962, p. 354
34
bianco di calce, infatti, aderiva perfettamente sia alla pietra calcarea che ad un eventuale
strato di intonaco di argilla senza bisogno di adesivi aggiuntivi163
.
Trattandosi di una sostanza naturale, il gesso impiegato per l’intonaco poteva variare nella
composizione e nel colore e, anche se generalmente si presentava nelle tonalità del bianco,
era possibile trovarne in varie sfumature di grigio, marrone chiaro e occasionalmente rosa,
come il tipo impiegato nella tomba di Imhotep a Lisht (XII dinastia) e di
Tutankhamon164
.
Inoltre nel gesso, e di conseguenza nell’intonaco, erano presenti allo stato naturale anche
diverse impurità come il carbonato di calcio e la sabbia. Il carbonato di calcio rilevato
dalle analisi chimiche nell’intonaco egiziano probabilmente non è da considerare, quindi,
come una aggiunta artificiale di calce all’intonaco di gesso puro (che con il tempo si
sarebbe trasformata, tramite il processo naturale della carbonatazione, in carbonato di
calcio) e non si deve neanche interpretare come il risultato del processo di carbonatazione
di una quantità di calce presente già nell’intonaco stesso perché generatasi durante la fase
di cottura del gesso grezzo (cottura che avrebbe coinvolto anche le impurità di carbonato
di calcio in esso presenti); è opportuno sottolineare infatti che la temperatura di cottura
del gesso era troppo bassa per trasformare una qualsiasi quantità di carbonato di calcio
eventualmente presente allo stato naturale come impurità, in calce viva.
In alcuni casi, poi, gli studiosi hanno osservato che l’ultimo strato di intonaco applicato
sul muro era composto da una maggiore quantità di carbonato di calcio rispetto al gesso
comune ma, per il momento, non hanno potuto affermare con certezza né che potesse
trattarsi di una qualità di gesso alquanto povero al naturale, né che si trovassero di fronte
ad un prodotto artificiale in cui il carbonato di calcio fosse stato aggiunto per rendere
l’intonaco più bianco.
Riguardo al processo di lavorazione che precedeva la stesura dell’intonaco vero e proprio,
si sa per certo che, per poter essere utilizzato, il gesso grezzo doveva essere sottoposto a
cottura (ad una temperatura di circa 130˚), polverizzazione e spegnimento. Durante la
fase di cottura il gesso perdeva i ¾ dell’acqua in esso contenuta; la sostanza ottenuta, se
rimescolata ad acqua e poi nuovamente essiccata, generava un materiale particolarmente
duro.
163 Lucas-Harris, 1962, p. 77 164 Lucas, 1923, II, p. 164 (appendix II)
35
In Egitto il gesso era reperibile sotto due conformazioni; in forma di roccia era presente
nella regione del Mariout a ovest di Alessandria, nel distretto tra Ismailia e Suez, nel
Fayum, e vicino la costa del Mar Rosso mentre sotto forma di ammassi di cristalli
liberamente aggregati, la tipologia più diffusa al tempo, è ancora oggi estratto vicino al
Cairo e Alessandria e nella zona che va dal Cairo a Beni Suef. Alcuni piccoli depositi si
trovavano anche in altri siti come le oasi del deserto occidentale.
Per quel che riguarda i primi utilizzi del gesso come intonaco non è stata ancora
individuata una data precisa; è utile considerare, però, che su un vaso di ceramica rossa
rinvenuto nel sito predinastico di Ma’adi, analizzato da Lucas, sono state riconosciute
delle riparazioni effettuate proprio con il gesso che testimoniano, quindi, almeno la
conoscenza di questo materiale in tale epoca e uno dei modi d’impiego.
In aggiunta, è stato individuato nella zona del Fayum un affioramento di gesso puro
sicuramente noto fin dagli inizi dell’età dinastica165
; dalle analisi di alcuni campioni di
malta e di intonaco di gesso provenienti dalle piramidi di Giza, dalle tombe adiacenti e
dalla necropoli di Saqqara gli studiosi, dopo aver constatato l’altissima qualità di questo
materiale dal punto di vista della purezza, hanno ipotizzato che fosse stato estratto
proprio da tale sito.
6. Tecnica della pittura su intonaco
Se gli elementi distintivi della pittura egizia si individuano per prima cosa nella natura
quasi esclusivamente minerale dei pigmenti e in quella organica dei leganti, ciò che
165 Lucas-Harris, 1962, p. 78-9
36
permette di definirla in definitiva come pittura a tempera166
è la pratica di applicare i
colori su uno strato di intonaco, costituito da gesso o argilla, perfettamente asciutto.
Come regola generale si deve tenere presente che i colori reagiscono chimicamente con il
supporto al momento dell’applicazione e quanto meno il supporto è capace di assorbire e
incorporare il colore, tanto più pigmenti e le sostanze usate per diluirli e farli aderire
devono essere in grado legarsi fortemente ad esso. Se, infatti, nella pittura a fresco
l’applicazione del colore avviene su una superficie ancora umida e resa caustica dalla
calce167
(che, combinandosi con i gas carboniosi dell’aria, si trasforma in carbonato di
calcio racchiudendo in sé il colore in modo stabile) nella pittura a tempera il colore deve
aderire al supporto grazie alle qualità chimiche del pigmento o a quelle del legante ad esso
mescolato. Infatti, se fuliggine e ocre aderiscono all’intonaco e alla pietra anche se
applicate asciutte (le ocre anche meglio se bagnate), altri pigmenti come la malachite,
l’azzurrite e la fritta blu e verde non aderiscono alle superfici in assenza di sostanze
leganti.
La pittura parietale su intonaco (sia di argilla che di gesso) prevedeva diverse fasi di
esecuzione. Per prima cosa era necessario suddividere la parete in registri tracciando delle
linee guida orizzontali; se nel Medio Regno si preferirono delle linee non continue168
,
durante la XVIII dinastia queste (di colore nero) servirono anche da base di appoggio per
le figure169
.
All’interno dei registri veniva eseguita, poi, per mezzo di una corda bagnata di colore
rosso, la quadrettatura170
; la griglia, necessaria per la rappresentazione delle figure secondo
il canone tradizionale, prevedeva una ripartizione dell’altezza della figura tramite 18
quadrati e aveva come unità di misura di base il pugno171
. Questo metodo, in uso dalla
XII dinastia in poi, derivava dal sistema impiegato già durante l’Antico Regno che
prevedeva la trasposizione sulla parete da dipingere di uno schema di coordinate in cui
166 Secondo la regola universalmente valida nel tempo per cui i pigmenti, i leganti e la tipologia del supporto su cui questi sono applicati definiscono una tecnica pittorica.(AA.VV., 1973, p. 327) 167 Calce spenta (idrossido di calcio) ottenuta dalla idratazione dell’ossido di calcio ricavato dalla cottura del carbonato di calcio. 168 Schulz-Seidel, 1999, p. 124 169 Davies, 1958, p. 5 170 Mekhitarian, 1954, p.30 171 Nel corso della storia egizia ha subito solo piccole variazioni.
37
una linea verticale intersecava sette linee orizzontali corrispondenti ai sette diversi livelli
del corpo umano.
Talvolta erano riportati sul muro solo dei punti di riferimento o delle linee verticali (che
rappresentavano gli assi delle persone o degli oggetti da disegnare) o orizzontali. È
difficile capire la vera ragione che indusse gli artisti del Medio Regno a introdurre un
nuovo sistema (vale a dire la quadrettatura) in sostituzione del precedente che era
sicuramente ancora del tutto valido; si può ipotizzare che i motivi fossero semplicemente
la possibilità di facilitare ulteriormente il lavoro o la ricerca di una aderenza più rigorosa al
canone delle proporzioni172
.
In ogni caso, una volta eseguita la quadrettatura della parete, con il colore rosso veniva
tracciato un abbozzo del contorno delle figure173
e, successivamente, era possibile
stendere tutto intorno il colore di fondo; solo in casi eccezionali le figure erano dipinte
senza la preventiva linea di abbozzo.
L’artista cominciava, poi, a dipingere gli spazi della figura delimitati dalla linea rossa
generalmente nell’ordine di pelle, vestiti e gioielli multicolori (che erano prima
rappresentati nella massa e poi dettagliati); la capigliatura, gli occhi e alcuni pezzi del
mobilio erano realizzati nella fase finale del lavoro così come le eventuali ombreggiature
(comunque molto rare)174
.
Nel corso dell’opera la linea rossa dell’abbozzo iniziale perdeva la definizione e la
chiarezza originarie e il disegnatore, ad opera ultimata, doveva ricorrere ad un ripasso per
definire i contorni della figura (ovviamente nel caso dei capelli e di altri oggetti di colore
nero il contorno non era realizzato con il rosso).
Le notizie riguardanti la divisione del lavoro durante la decorazione di un ambiente, dalla
fase primitiva dell’intonacatura fino alla definizione degli ultimi particolari di una pittura,
non sono, purtroppo, molto dettagliate175
; di certo si deduce che la decorazione di una
tomba era frutto di una collaborazione di più persone, aventi ruoli diversi, riunite in
squadre che comprendevano, quindi, personale altamente specializzato come intonacatori,
disegnatori e pittori, senza dimenticare gli addetti alla preparazione dei colori. Il maestro,
172 Vandier, 1964, p. 12 173 A Deir el Medina il disegno di abbozzo è tracciato con il colore nero. 174 Mekhitarian, 1954, p. 30 175 Forbes, 1955, p. 240
38
la mente che ideava l’intero progetto, aveva il compito di dirigere il lavoro e correggere i
dipinti ultimati176
.
Soprattutto durante l’Antico Regno, le squadre di artigiani e artisti addetti alla decorazione
di tombe e templi regali, ma anche di sepolture private, dipendevano direttamente dalla
corte; formazione e perfezionamento avvenivano proprio nell’ambito della realizzazione
di grandi opere ufficiali e, proprio per questo motivo, si possono riscontrare alcuni
caratteri comuni tra le raffigurazioni delle sepolture private e quelle regali 177
.
È ragionevole supporre, inoltre, che in una stessa grande tomba lavorassero
contemporaneamente anche due squadre diverse, fatto che giustificherebbe la presenza di
stili differenti nelle decorazioni di una stessa sepoltura178
. Bisogna tenere presente che per
stile, però, non si intende una espressione personale dell’artista che, in effetti, non firmava
neanche il suo lavoro. L’arte funeraria aveva uno scopo il cui raggiungimento era affidato
al ripetersi fin dai tempi più antichi degli stessi schemi figurativi tradizionali tramandati da
padre in figlio; non c’erano quasi mai variazioni o espressioni individuali e nel caso in cui
si introducesse un particolare nuovo, questo diventava subito parte di un repertorio di
temi comuni a cui tutti potevano attingere. Per questo motivo è difficile distinguere un
artista o una bottega da un’altra o anche cercare di definire la cronologia di un’opera
basandosi solo sull’analisi dello stile179
.
Per quanto concerne la questione dell’illuminazione degli ambienti bui delle tombe
durante la fase di decorazione (soprattutto di quelle scavate molto in profondità nella
roccia), gli archeologi sono ancora lontani da una soluzione definitiva. Una delle ipotesi,
che contemplava l’uso di lampade ad olio o torce, è stata respinta a causa dell’assenza sulle
pareti delle tombe delle tracce del fumo che queste avrebbero dovuto certamente lasciare
in caso di uso; ugualmente, è stata accantonata la teoria di un’illuminazione effettuata con
schermi riflettenti la luce esterna all’interno delle tombe a causa dell’assenza totale di tale
categoria di oggetti fra i reperti provenienti da Deir el Medina. L’assenza nel suddetto sito
di strumenti necessari per questo tipo di illuminazione appare, ad alcuni studiosi, come
una prova inconfutabile dell’erroneità della teoria, considerando il fatto che sul luogo
sono state trovate pressoché tutte le tipologie degli oggetti necessari al lavoro degli artisti.
176 Farina, 1929, p. 12 177 AA.VV., 2005, p. I, 162-3 178 Vandier, 1964, pp. 5-6 179 AA. VV., 2005, I, pp. 177-9
39
Una possibile soluzione al problema consiste nel ritenere che fossero impiegate delle
lampade con una emissione di fumo talmente bassa da non lasciare tracce sui muri180
, ma
non esiste, al momento, una risposta certa.
7. Tecnica del rilievo dipinto
Il processo di realizzazione di un rilievo è stato ricostruito in maniera soddisfacente in
tutte le sue fasi, soprattutto grazie al ritrovamento di lavori lasciati incompiuti in età
antica. Tralasciando alcune piccole differenze riscontrabili nella tecnica, dovute tanto al
periodo quanto al luogo di esecuzione, in generale, si può affermare con sicurezza che il
metodo prevedeva una prima fase di preparazione della parete a cui seguiva l’incisione
vera e propria e, infine, la pittura. Per prima cosa, quindi, la parete era lisciata e, se
necessario, stuccata con gesso. Oltre che per eliminare i difetti della parete il gesso poteva
essere impiegato anche per creare livelli diversi nel rilievo stesso o, ancora, per correggere
i difetti del lavoro appena ultimato. Addirittura, se la pietra in cui era stata scavata o
costruita181
la tomba risultava particolarmente scadente tutte le figure, o solo alcuni i
particolari, erano direttamente scolpiti (poco profondamente) in uno strato di intonaco di
gesso appositamente applicato182
. In alcune tombe della necropoli tebana, dove non è
stato possibile effettuare un rilievo vero e proprio (per i diversi motivi già accennati
nell’introduzione) si può notare il tentativo di ottenere l’effetto tipico del rilievo tramite
l’applicazione di un sottile strato di intonaco di gesso sulla figura che, una volta dipinto,
180 Vandier, 1964, pp. 6-7 181 Come nel caso delle cappelle delle mastabe (della fine del regno di Chefren) costruite con blocchi di calcare nummulitico; questo calcare è troppo ricco di fossili per poter essere scolpito e necessita di un rivestimento in gesso. 182 Vandier, 1964, pp. 8-9; Aldred, 1988, p. 2; AA.VV., 2005, I, pp. 180-1
40
appariva come una pittura particolarmente spessa; questo espediente era utile per dare
risalto alle decorazioni nell’insieme o anche solamente alle figure principali183
.
La seconda fase del lavoro prevedeva che si tracciassero sulla parete dei punti o delle linee
di riferimento verticali o orizzontali oppure, in alternativa, un reticolato rosso (talvolta
anche nero o giallo); in un successivo momento veniva realizzato il disegno generale il cui
profilo, una volta corretto, era ripassato con il bulino. A questo punto il fondo neutro
veniva abbassato184
lasciando in rilievo la figura in cui, come ultima fase, erano realizzati i
particolari interni. La superficie, poi, prima di procedere alla stesura del colore, era coperta
da un sottile strato di gesso 185
.
Si possono riconoscere diverse tipologie di rilievo distinte in base al grado di emergenza
delle figure dal fondo, dal modo in cui erano incisi i contorni e dal tipo di spigolo (vivo o
arrotondato) che caratterizzava i bordi delle figure.
Nel corso della III dinastia e agli inizi della IV, le figure erano rappresentate secondo
masse semplici, trattate sommariamente e staccate nettamente dal fondo grazie al grande
dislivello creato tra parete e figure; durante la V dinastia, invece, il tipo di rilievo più
diffuso fu quello di media evidenza e con il tempo comparve anche un rilievo
particolarmente basso.
Una tecnica diversa, sviluppatasi a partire dalla IV dinastia, prevedeva il ribassamento solo
della piccola porzione di parete intorno al profilo figura tramite un solco degradante più
profondo proprio vicino al contorno di questa, lasciando, quindi, immagini e parete di
fondo sostanzialmente allo stesso livello.
Il genere di rilievo cosiddetto a incavo, di cui è stato individuato un primo esempio nella
tomba di Debehen (IV dinastia), presentava, invece, le figure scavate solo nei contorni in
modo che non si creasse nessun dislivello tra lo sfondo e l’interno della figura stessa;
questa tecnica era riservata, in genere, alle iscrizioni o alle scene raffigurate sulle pareti
esterne degli edifici perché l’incavo permetteva di creare un contrasto netto tra luce e
ombra conferendo un grande risalto ai contorni che, in un bassorilievo tradizionale,
investito da abbondante luce diretta, sarebbero risultati poco visibili. La tecnica
183 Vandier, 1964, p. 3 184 Gli scalpelli utilizzati per incidere una parete di roccia tenera erano di rame puro mentre quelli impiegati per le pietre più dure, di selce; potevano essere utilizzati con o senza l’aiuto di un mazzuolo in legno. 185 Smith, 1946, p. 244; Donadoni, 1994, p. 78
41
dell’incavo era utilizzata anche sulle pietre molto dure per le quali l’abbassamento
dell’intera parete sarebbe risultato un lavoro troppo lungo e complesso.186
Un diverso procedimento che, contrariamente a quanto avvenne per tutti gli altri, fu
presto abbandonato, consisteva nello scavare nella parete non solo il contorno ma le
intere figure nel riempire, poi, il vuoto con paste di colore per uno spessore uguale alla
profondità della parte scavata (circa 1 cm), in modo da ottenere l’effetto di una pittura
piana187
.
Anche nel caso della decorazione a rilievo il lavoro era eseguito da botteghe di specialisti
anonimi.
186 Aldred, 1988, p. 27 187 Mekhitarian, 1954, p. 23; Donadoni, 1994, p. 81
42
II- CONVENZIONI NELL’USO DEI COLORI IN ARTE
L’arte egizia è sempre stata connotata da uno scarso interesse per la ricerca di nuove
forme d’espressione; in ambito funerario gli schemi sperimentati fin dagli inizi nel
bassorilievo e nella pittura erano reputati validi e perfettamente funzionanti per lo scopo
allontanando la necessità e, di conseguenza, la volontà di apportare grandi innovazioni
all’iconografia tradizionale.
Al contrario, vennero attribuiti alle opere antiche dei valori primordiali: considerate
creazioni del demiurgo erano parti integranti dell’ordine universale e perciò da rispettare
nella loro forma originaria.
Durante tutta la storia egizia gli artisti, perciò, preferirono affidarsi alle medesime forme e
temi sperimentati fin dall’antichità modificando solo piccoli particolari che, in ogni caso,
entravano a far parte subito di quel patrimonio tradizionale188.
Così gli storici dell’arte hanno riconosciuto nella pittura egiziana una scelta
profondamente ragionata189
dei colori con cui erano rappresentati esseri e oggetti
rispondente a regole e criteri antichi (talvolta contraddittorie dal nostro moderno punto di
vista); attraverso queste convenzioni l’artista cercava di creare un equilibrio tra il
significato simbolico attribuito ai colori e la colorazione reale delle cose190
.
188
AA. VV., 2005, I, p. 163 189 Williams, 1932, p.38 190 AA. VV., 2005, III, p. 107
43
Per prima cosa si deve distinguere, dunque, una duplice finalità nell’impiego dei colori191
nel senso che l’artista poteva fare riferimento, attraverso la tinta impiegata, sia
direttamente al colore che un oggetto presentava in natura sia, contrariamente al suo
aspetto noto alla vista, a un valore aggiunto dal materiale del quale l’oggetto in questione
poteva essere composto; in questo ultimo caso, l’essere o l’oggetto raffigurato poteva,
talvolta, anche essere intenzionalmente modificato nel colore per essere rivestito di un
determinato significato legato a certi materiali.
Da ciò si deduce, in sintesi, che il colore era impiegato sia con un fine prettamente
naturalista192
che con uno simbolico (definito da Aufrère religioso o funerario); bisogna
tenere presente che in una stessa opera è anche possibile riscontrare,
contemporaneamente, entrambe le finalità d’uso del colore193
.
Per ciò che riguarda l’aspetto naturalista dell’impiego dei colori (necessario considerato lo
scopo delle decorazioni tombali194
), ci si aspetterebbe di riscontrare, come è ovvio, una
riproduzione fedele della realtà ma, nei fatti, pur essendo perfettamente noti i
procedimenti per ottenere tutte le sfumature di colore esistenti in natura, gli artisti egizi si
limitarono all’uso in arte di soli pochi colori (stesi uniformemente e ricorrendo raramente
all’ombreggiatura).
La tavolozza era intenzionalmente ridotta a poche tonalità (introdotte nel cap. I)
risultando troppo povera per poter raffigurare ogni oggetto secondo il suo colore reale e
l’artista si doveva accontentare dell’approssimazione. In verità, sarebbe più corretto
affermare che una assoluta corrispondenza con la natura non fosse realmente
perseguita195
poiché quel che contava era piuttosto riuscire a creare nel complesso, con le
tinte a disposizione (e sempre nel rispetto delle convenzioni), armonia in una stessa scena
sia dal punto di vista compositivo che coloristico; il compito dell’artista era, dunque,
191 Queste regole sparirono progressivamente durante l’età tolemaica, nel momento in cui in Egitto si diffusero una religione e una cultura diversa. 192 Rispondente a criteri estetici e comprensibile a prima vista. 193
Aufrère, 1998, p.32 194 La veridicità di una qualunque cosa raffigurata nelle scene era indispensabile per far sì che questa si rianimasse nell’aldilà e quindi garantisse la sopravvivenza del defunto. 195 Bisogna ricordare, infatti, che all’occorrenza gli artisti egizi si sono dimostrati essere ottimi imitatori di materiali (come per si può osservare per vasi in pietra e faїence, armi e cofanetti) e abilissimi rappresentatori di animali.
44
quello di rallegrare la composizione senza discostarsi troppo dalla natura e i toni, in
genere, risultano più suggestivi che reali196
.
Il fattore che determinava la scelta volontaria di un numero così ristretto di colori risiede è
parte delle rigide convenzioni che fin dai tempi più antichi guidarono l’espressione
artistica determinando, dal punto di vista di un uomo moderno, un parziale fallimento
nell’intento di ottenere un effetto naturalista o realistico.
Ma in realtà, un uomo egiziano, conoscendo molto bene il soggetto raffigurato perché
parte della sua vita quotidiana, non poteva essere assolutamente ingannato dalla
raffigurazione di questo tramite un colore in parte o totalmente diverso dal reale ed era
perfettamente in grado di identificarlo, riconoscendo tali riproduzioni, quindi, come
realistiche e funzionali al loro scopo. Se si considera, poi, che questi principi rimasero
immutati per secoli, si può capire come risultasse ben noto a chiunque che a un certo
oggetto poteva essere attribuito, nelle arti figurative, un determinato colore diverso dal
reale197
.
I motivi che portarono alla selezione dell’uso in pittura di soli determinati colori saranno
trattati nel capitolo III, nell’ambito di una ricerca del significato; qui di seguito saranno
trattate, piuttosto, le convenzioni che legavano ognuno di questi pochi colori sempre allo
stesso oggetto o, in caso di variazioni, i principi che regolavano tali eccezioni.
Le norme che determinavano la scelta e l’attribuzione dei colori ad un certo soggetto da
raffigurare, costituivano una sorta di codice in cui solo per certi casi si può constatare una
coincidenza con la realtà; per esempio, il rosso e giallo della pelle umana rappresentano
una scelta arbitraria per indicare una differenza di tono fra la pelle dell’uomo e quella della
donna dedita ad attività da svolgere al chiuso198
.
In aggiunta, in base al principio della dissimilazione, per poter raffigurare vicini (o
sovrapposti) degli oggetti uguali fra loro per forma e colore, l’artista ricorreva ad una
differenziazione arbitraria di questi mediante l’uso di colori diversi199. Si tratta di un
accorgimento previsto dalle leggi fondamentali della figurazione piana egiziana che
196 Mekhitarian, 1954, p. 34; AA. VV., 2005, I, p. 183 197 Smith, 1946, p. 257 198 Vandier, 1964, pp. 29-33 199 Lo stesso principio è applicato nei testi in geroglifico.
45
imponevano la chiarezza di lettura dell’immagine e l’armonia degli elementi raffigurati
come finalità primarie200.
Ma se il rispetto delle convenzioni nell’uso dei colori era una componente specifica della
pittura egizia, altrettanto tipico era il concetto di intercambiabilità presente all’interno del
sistema per cui uno stesso oggetto poteva essere raffigurato anche con colori diversi a
seconda delle necessità (non solo nel caso di due oggetti identici sovrapposti nella scena).
Più che a questioni estetiche o simboliche, il fatto era strettamente legato al concetto di
policromia; si è, infatti, notato che determinati colori erano intercambiabili esattamente
come in natura una medesima cosa poteva apparire con sfumature diverse a seconda delle
occasioni come, per esempio, il fuoco o il sole; così erano intercambiabili il rosso e il
giallo, il verde e il blu o il blu e il nero per rappresentare il cielo o i capelli che, per gli dei,
erano di lapislazzuli. Così il rosso e il nero, nell’ambito degli inferi, potevano avere il
medesimo significato di distruzione e apparire, quindi, intercambiabili; ugualmente il giallo
e il bianco potevano essere entrambi rappresentazioni della luce solare. Anche il blu
pallido e il verde erano intercambiabili nella raffigurazione dell’acqua di fiumi e paludi in
quanto tonalità naturalmente presenti nella realtà di questi elementi; anche per la
raffigurazione della pietra turchese potevano essere usate diverse tinte in virtù delle sue
numerose sfumature che variavano dal blu acceso al verde.
Ogni tinta, inoltre, poteva essere ottenuta da sostanze chimicamente diverse che
rendevano delle differenze nella tonalità finale da non sottovalutare; in una stessa figura si
possono trovare parti distinte che prevedevano lo stesso colore effettuate con pigmenti
diversi, come per esempio nella stele di Nefertiabet, in cui per il giallo della pelle è stata
usata dell’ocra mentre per il giallo del vestito la jarosite.
Talvolta dietro alla scelta del pigmento c’era anche una motivazione simbolica ben
precisa che metteva in relazione il soggetto raffigurato con la maggiore o minore
preziosità del materiale usato per dipingerlo; per esempio, durante la XVIII dinastia,
alcuni abiti bianchi delle divinità furono realizzati con l’huntite perché considerato un
minerale raro e speciale201
. Altre volte, invece, la scelta di un determinato pigmento e
200 Forbes, 1955, p. 239; AA. VV., 2005, III, p. 107 201 Davies, 2001, p. 4, 6
46
quindi anche del colore, era condizionata dal tipo di supporto su cui il colore doveva
essere applicato202
.
È noto, in ogni caso, che i colori primari già nominati non sempre erano utilizzati con
tono uniforme; se è vero che, da un lato, non esistevano sfumature nella pittura più antica,
dall’altro risulta palese dall’osservazione delle pitture murali che i colori principali
potevano avere diversi toni, non solo a causa della diversa composizione chimica dei
pigmenti usati per rendere uno stesso colore, ma anche a causa della tecnica di
applicazione del colore o ancora per una volontaria scelta dell’artista. Il rosso risulta più
chiaro o più scuro anche a causa del supporto e dalla quantità di colore rilasciata dal
pennello sulla superficie; il verde può risultare più chiaro o più scuro a seconda della
quantità di malachite contenuta o, secondo altre teorie, se scuro, perché mescolato al
blu203
.
Di certo non si conoscono, sempre che esistessero, le convenzioni che regolavano al
scelta del pigmento al di là di motivazioni di carattere tecnico come tipo di supporto su
cui doveva essere applicato, periodo storico e, eventualmente costo.
Di seguito sono riportate, schematicamente, alcune categorie di soggetti204
e i colori
attribuiti loro in arte.
Figura umana
Il contorno delle figure era tracciato, in genere, con un colore rosso-bruno; a Deir el-
Medina fu realizzato anche in nero o in bianco nel caso in cui lo sfondo fosse stato scuro.
La pelle dell’uomo era dipinta con dell’ocra rossa di tonalità scura mentre quella della
donna con ocra gialla, rossa o bruno pallido in riferimento al fatto che svolgeva le sue
attività soprattutto al chiuso.
Quando più figure si sovrapponevano una sull’altra in fila, per dare maggior risalto ai
personaggi di una scena ed evitare che si confondessero, il colore della pelle,
202 Nicholson-Shaw, 2000, p.110 203 Williams, 1932, pp. 36-7 204 Ovviamente si tratta di una scelta ristretta che coinvolge solo quelle categorie che risultano inerenti all’argomento principale di questa tesi.
47
indipendentemente dal fatto che si trattasse di uomini o donne, era alternato in giallo e
rosso.
Durante il nuovo Regno, poi, il colore della pelle femminile subì delle variazioni: in certi
casi fu usata dell’ocra rossa (della stessa tonalità di quella impiegata per l’uomo) o, più
spesso, un colore beige pallido, rosa o, ancora, una tinta violacea. Nero e rosso scuro
erano i colori usati per la pelle dei Nubiani mentre il giallo chiaro era riservato ad Asiatici,
Libici, Beduini, Siriani e Ittiti; le popolazioni egee erano raffigurate secondo gli stessi
criteri usati per il popolo egizio205
.
Il colore nero era usato anche per le divinità legate all’oltretomba e per i defunti206
.
I capelli erano realizzati con il nero, così anche il contorno degli occhi e altri particolari
come i fori delle narici; è opportuno sottolineare che, in quest’ultimo caso, non si tratta di
un tentativo di riprodurre delle ombre ma semplicemente di una convenzione per indicare
la presenza di una depressione o cavità207
.
I denti erano, ovviamente, raffigurati con il bianco; il sangue e le ferite in rosso208
.
Vestiti
Nonostante l’applicazione di norme molto rigide nell’uso del colore, che spesso
portavano l’artista ad allontanarsi dalla realtà, i vestiti risultano molto realistici; anche se la
vera tonalità della stoffa era un po’ più tendente al beige, il bianco con cui erano dipinte le
vesti di lino non si allontana molto dal vero. Anche le pelli di pantera, chiazzate, appaiono
molto realistiche.
I perizomi maschili, nelle raffigurazioni, erano bianchi o gialli e bianchi;
straordinariamente a Mo’alla, nella tomba di Ankhtifi, gli arcieri nubiani vennero
raffigurati con indosso dei gonnellini rossi e rossi a macchie verdi, mentre il gonnellino
del defunto presenta bande multicolori.
205 Il colore della pelle da solo non bastava a contraddistinguere un popolo e le etnie erano caratterizzate da altri elementi come abiti e acconciature. 206 Wilkinson, 1994, p.115, 125 207 Vandier, 1964, p. 31 208 Brunner-Traut, 1977, p. 119
48
Le donne talvolta portavano tuniche rosse o verdi; in particolare nel Nuovo Regno le
vesti femminili acquistarono molte varianti non solo per quel che riguarda la forma:
variopinte o a tinta unita, potevano essere ornate con cinture multicolore.209
Le larghe
cinture che ornavano le tuniche bianche erano in genere colorate in verde o rosso mentre
per le vesti rosse si usava una cintura blu210
.
Durante il Medio e il Nuovo Regno anche i vestiti degli stranieri divennero colorati e,
sempre nel Nuovo Regno, si sviluppò l’abitudine di rendere la trasparenza delle vesti
mediante la stesura di strati sottili di colore bianco diluito.
Gioielli
L’oro, naturalmente, era reso con il colore giallo, talvolta ricoperto con uno strato di
vernice per farlo apparire più brillante, e l’argento con il bianco.
Le perline di cui appaiono composti la maggior parte dei gioielli erano di colore blu,
verde, rosso, giallo e nero, a seconda, ovviamente, del materiale che dovevano
rappresentare; blu e verde potevano essere usati, per esempio, a imitazione delle perline in
faїence o di elementi vari in pasta vitrea e smalti (di cui, nella maggior parte dei casi, erano
fatti i gioielli nella vita reale); ma il blu era, ovviamente, anche un richiamo al lapislazzuli o
la turchese a seconda dell’intensità; il verde corrispondeva alla tonalità verde della pietra
turchese, alla malachite, al diaspro verde, al feldspato e all’amazzonite (nella realtà di
colore verde o blu-verde e spesso associata nelle iscrizioni al turchese e al lapislazzuli)211
.
Il rosso si riferiva alla corniola, all’ematite e al diaspro rosso212
usati per amuleti, perline,
incastonature, ecc.
Il nero era rappresentativo per l’ematite nera, il bianco per il quarzo e il cristallo di rocca.
In certi casi lo strato di pittura era talmente spesso che i particolari dei gioielli risultano
quasi in rilievo sulla parete213
ma non si può dire se si tratti di una scelta dell’artista o del
risultato del degrado delle pitture per cui l’ispessimento oggi visibile è dovuto all’umidità.
209 Smith, 1946, p. 261 210 Vandier, 1964, p.30 211 Williams, 1932, p.45 212 Il diaspro giallo, invece, non fu usato in gioielleria fino all’età romana e quello di tonalità marrone solo nel Medio Regno in particolare per gli scarabei.
49
Vegetali
Fedelmente alla realtà, erano rappresentati in verde e, talvolta, in blu ora trasformatosi in
verde a causa del degrado della sostanza usata come pigmento.
Il legno era comunemente raffigurato con i colori rosso e giallo; quello del mobilio,
invece, con il nero214
.
Alcuni tipi di cereali erano raffigurati in nero, bianco o rosso; i frutti in rosso215
.
In questa categoria si possono includere i collari composti di elementi vegetali che
compaiono nelle pitture della XVIII dinastia216
per i quali vennero adottati vari colori
(giallo, verde, blu, rosso, bianco e nero) fedelmente alla varietà delle composizioni di
questi ornamenti nella realtà.
Fregi
Le bordature policrome ornavano un gran numero di scene di carattere religioso e
funerario. In basso, al di sotto della scena, si dipingevano una o più bande orizzontali di
vari colori; in alto, nelle epoche più antiche, queste fasce erano composte da rettangoli
generalmente dipinti di rosso, blu, giallo e verde di dimensioni variabili e spesso separati
da tratti verticali.
La sequenza di rettangoli poteva essere sormontata da un fregio kheker e altri motivi
stilizzati aggiuntisi al repertorio nel corso del tempo, come il temi costituiti da una serie di
boccioli e fiori di loto o di fiori di loto e grappoli d’uva (molto diffusi durante il Nuovo
Regno) 217
.
213 Mekhitarian, 1954, 32 214 Vandier,1964, p.32 215 Brunner-Traut, 1977, p. 119 216 Andrews, 1996, p.122 217 Vandier, 1964, p. 42-44
50
Secondo Mackay218
, queste bande policrome erano rappresentazioni di pavimenti in cui
gli elementi rettangolari simboleggiavano le sezioni delle travi di sostegno.
Questi fregi, oltre che sulle pareti e sui sarcofagi, si possono osservare anche intorno a
stele e tavole offertorie o, ancora, come bordi di troni divini o sulle orecchie di alcune
mummie di gatto.
Premesso che giallo, rosso, blu e verde corrispondevano ai colori delle pietre usate per
realizzare i gioielli, secondo Aufrère esistono delle analogie tra le bordature policrome e le
composizioni dei contemporanei collari. L’assenza del bianco e del nero nei fregi, a partire
dal Nuovo Regno, confermerebbe proprio la sovrapposizione dal punto di vista
ideologico delle bordature con i decori caratteristici dell’oreficeria associandoli nella loro
funzione a quella del collare usekh.
Un’altra teoria individua nei fregi raffigurati sui sarcofagi una vera e propria “rete magica”
funzionante grazie alla capacità di rievocazione, attraverso il colore dei rettangoli, delle
proprietà di minerali e metalli, necessarie per la rinascita del defunto. Il richiamo ai
minerali permetteva, secondo Aufrère, di invocare l’irradiazione solare, alla rinascita del
quale il defunto è legato; i minerali (attraverso i colori che li rappresentavano) avevano il
potere di mantenere la luce presso il defunto e costituivano la garanzia di questa
irradiazione che, facendo appello alle forze dell’universo divino, serviva a respingere le
forze del male che dispiegano le loro influenze nefaste nel momento in cui viene la notte,
cioè la non-luce: il nero, contro cui tutti i popoli dell’antichità hanno sempre cercato di
premunirsi219
218 Mackay, 1916, pp. 169-173 219 Aufrère, 1998, pp. 35-7
51
III- SIMBOLOGIA DEI COLORI
Per comprendere l’arte egizia è necessario conoscere l’ideologia che regolava il
concepimento delle creazioni stesse; proprio in questo senso è utile soffermarsi sulle
ragioni che portarono alla scelta, fin dai tempi più antichi, di soli determinati colori nelle
arti figurative.
Gli studiosi hanno potuto constatare che le tonalità utilizzate nei dipinti erano quelle
desunte, in realtà, dai principali colori di pietre, minerali e metalli preziosi presenti in
natura.
Il regno minerale era, infatti, coinvolto nella creazione di metafore figurative utili alla
descrizione di ciò che doveva essere raffigurato sia che si trattasse di un essere vivente, di
un albero, di un metallo o di un minerale220
e l’artista sceglieva di impiegare i pigmenti
secondo il loro colore originario, piuttosto che mescolarli tra loro e ottenere sfumature e
tinte diverse, per non allontanarsi dall’aspetto di quei minerali prescelti come punti di
riferimento e quindi dal loro significato, evitando così ogni l’ambiguità di significato221
.
Il colore in pittura, quindi, valeva per il materiale che rappresentava, lo sostituiva e ne
prendeva il significato; il colorismo in arte non rispondeva a meri criteri, ma si basava
sulla nozione di perfezione ottenuta attraverso l’identità222
dei colori con dei minerali
220 Per esempio un corpo può essere raffigurato come se fosse fatto di fäїence o cornalina, le foglie di un albero o il disco solare di pietra turchese. 221 Aufrère, 1998, p. 32 222 Ovviamente oggi si possono riscontrare alcune differenze, per uno stesso colore, tra un dipinto e l’altro ma questo è dovuto sia ad un diverso livello di degrado delle sostanze coloranti impiegate (anche perchè uno stesso colore poteva essere ottenuto con pigmenti diversi che reagivano diversamente agli agenti
52
prescelti, gli stessi con cui erano anche riempite le fondazioni dei templi o dei luoghi di
passaggio importanti223
. Tutti gli elementi minerali risultavano legati a un colore e ogni
colore, di rimando, evocava un minerale specifico. Anche le sostanze artificiali avevano lo
stesso effetto richiamando, attraverso il loro colore, le proprietà di un minerale (come, per
esempio, il blu sintetico poteva essere il sostituto di turchese o lapislazzuli).
Secondo Lacau “Il colore non era solo un elemento estetico ma un elemento
reale…Disegno, colore, nome o testo si aiutano vicendevolmente a rendere un essere più
reale”224
; il colore aggiungeva, quindi, così come il nome, un senso all’oggetto dipinto e
comunicava un valore fondamentale alla figura rappresentata.
L’assenza di colore era considerata come una carenza nello spirito egiziano poiché esso
caratterizzava la vita. Per un essere era parte integrante della sua natura e, in questo senso,
poteva essere considerato anche sinonimo di “sostanza”; la parola “ỉwn” usata per
esprimere il concetto di colore può essere tradotta come “apparenza esteriore”, ma anche
come “natura”, “essere”, “carattere” o anche “disposizione”225
.
In particolare, questo uso “religioso” del colore si può riscontrare nei templi. Nei luoghi
sacri la tavolozza usata per i geroglifici era ristretta a sei colori convenzionali aventi un
significato ben preciso: a parte il nero (che rappresentava il limo inteso come elemento
primordiale) il giallo, il bianco, il blu, l’azzurro, il verde pallido e, infine, il rosso
rappresentavano i sostituti rispettivamente di oro (carne degli dei), argento (ossa divine),
lapislazzuli, turchese e cornalina o diaspro rosso citati dai testi tolemaici o dalle liste delle
ricchezze minerali, tipo le liste dei tributi, come materiali presenti nei depositi di
fondazione226
. Emerge, quindi, la natura ambivalente del tempio che da una parte, con le
pareti e i piloni, raffigura le due catene che costeggiano il Nilo ma, dall’altra, rappresenta
un luogo costituito di minerali e metalli preziosi, un microcosmo che integra l’universo
minerale.
esterni) sia al fatto che già in antichità esistevano delle varianti in uno stesso colore a causa dell’uso di sostanze diverse per ottenerlo. Inoltre, bisogna considerare le diversità presenti sia nei pigmenti naturali che artificiali di uno stesso genere: la fritta blu, per esempio non poteva riuscire sempre perfettamente uguale, così il colore della malachite poteva variare di volta in volta. 223 Aufrère, 1991, p.574 224 Lacau, 1904, p.155 225 Wilkinson, 1994, p.104 226
Per questo motivo alcuni edifici sacri erano designati come “casa dell’oro e dell’argento”.
53
Il concetto, molto complesso, è stato ovviamente sintetizzato in questo ambito per non
sviare troppo dal discorso principale e rappresenta solo un piccolo accenno, comunque
necessario, alla relazione esistente tra l’ideologia religiosa, le pietre e il colore.
Appurato il fatto che nella cultura artistica egiziana il colore rivestiva un importante ruolo
religioso e simbolico, è importante notare che questo suo aspetto assumeva valore solo in
rapporto ad una scelta molto ristretta dei materiali che servivano da riferimenti pittorici;
risulta indispensabile sottolineare i motivi che portarono alla scelta di determinati minerali
e metalli di riferimento piuttosto che altri e, di conseguenza, come già detto, solo di certi
colori in arte. Nonostante conoscessero tutti i minerali presenti nel territorio, gli Egiziani,
dunque, preferirono richiamare attraverso la pittura sempre gli stessi pochi materiali;
secondo Aufrère, non esistono riferimenti cromatici per l’ametista o per alcune varietà di
minerali verdi tipo il feldspato, l’amazzonite, lo smeraldo, l’agata, il basalto e alcune varietà
di marmo e ossidiana227
. Per convenzione gli antichi egizi, dunque, scelsero solo quelli per
loro più significativi o che apparivano ai loro occhi come quelli utilizzati dai tempi più
antichi.
In realtà, lo stesso autore, dichiara in un altro articolo che i colori riscontrati in arte
contemplavano anche il verde come sinonimo della malachite o del feldspato228
e questa
ambiguità complica, ovviamente, l’interpretazione delle rappresentazioni di gioielli in
ambito funerario.
In ogni caso, la scelta molto ristretta dei minerali conferiva alla gioielleria e alla pittura (e
quindi anche ai gioielli raffigurati) un aspetto apparentemente monotono ma la sensazione
doveva essere annullata dal profondo carattere simbolico e protettivo di questi materiali.
In aggiunta, metalli e minerali, contraddistinti ognuno dal proprio colore, potevano
apportare un significato che andava al di là di quello del materiale in sé conferendo a un
essere, o a una cosa, lo stato dell’ immaterialità caratteristico degli dei. Minerali e metalli
acquistano, insieme ai loro relativi colori, un senso metaforico complesso costituendo la
luce o la non-luce dell’immagine della divinità che ne è rivestita.
Alcuni colori poi, con un gioco di epiteti divini, suggeriscono anche delle coppie
antagoniste: come il turchese e il lapislazzuli o il blu turchese e il blu lapislazzuli. Hator,
qualificata come “volto di turchese”, esprime la luna piena mentre Iside, detta “dalla testa
227 Aufrère, 1998, p. 34 228 Aufrère, 2001, p. 160
54
di lapislazzuli” (Iside velata che piange la morte di Osiride, quindi invisibile), evoca la
preparazione alla rinascita sotto forma del primo spicchio di luna d’argento, immagine
anche del nuovo nato.
Le rappresentazioni, spesso comprese solo in parte, testimoniano dunque uno stretto
rapporto tra i colori, i minerali e i diversi aspetti divini. Il verde del turchese era, come già
accennato, legato alla luminosità lunare mentre il lapislazzuli connotava la notte celeste e i
fenomeni sia buoni che cattivi, in relazione essa.
Questa particolare percezione dei fenomeni notturni strettamente legata al colore è tipica
del mondo egizio.
Gli epiteti minerali e coloristici richiamavano alla mente delle metafore molto significative
nell’immaginario religioso ed erano allegorie usate per dare un’idea delle forze divine.
Aiutato dal minerale, dalla materia o dal colore ai quali era strettamente associata per
analogia una forza divina, l’uomo detiene una piccolissima parte di potere sul mondo
divino, essendo in grado, grazie a questi mezzi, di attirare la forza di questo presentandogli
uno degli aspetti sul quale egli chiede di agire.
Il ruolo funerario dei minerali e dei colori era molto importante anche nello spazio
ristretto della tomba o nell’ambito del mobilio funerario229
.
I colori costituiscono, quì, una sorta di codice molto sofisticato; sfortunatamente il
rispetto e l’applicazione di tale linguaggio era strettamente dipendente dal livello di
percezione religiosa dell’artista che mette in opera una riproduzione di carattere sacro o
funerario.
Si può constatare, in ogni caso, che questo codice di riferimento si precisò maggiormente
quando la serie dei colori perse ogni ambiguità di interpretazione e cioè nel momento in
cui le opere acquistarono un carattere più solenne e reale durante il Nuovo Regno e in cui
il dettaglio acquistò una importanza primaria.
Se il colore nell’antico Egitto costituiva un vero e proprio linguaggio230
creato sulla logica
propria di questa cultura, appare evidente, in ogni caso, la necessità di decifrarlo per poter
“leggere” oltre l’immagine.
229
Aufrère, 1998, p. 31-35; Molte teorie legate alla rinascita del defunto, apparentemente lontane da uno studio riguardante i colori nello specifico, sono fondate però (per ragioni religiose e funerarie) proprio sull’apparenza dei minerali e dei metalli preziosi poiché i colori, sostituti di questi materiali primordiali, garantiscono l’equilibrio e l’armonia cosmica necessarie alla resurrezione.
55
È difficile separare, nell’ambito di un discorso riguardante la simbologia del colore, la
pittura dalle altre discipline; la classificazione seguente può riferirsi perciò al significato del
colore in generale e non solo nei dipinti.
Bisogna ricordare, inoltre, che per quanto possa apparire facile riconoscere il significato
di base di ogni colore si deve fare attenzione alla caratteristica ambivalenza di significato
espressa da alcuni colori nelle diverse circostanze e forme in cui sono impiegati.
Bianco (“hd”)
Ovviamente il colore che meglio si addice al concetto di pulizia, purezza rituale,
innocenza e sacralità. L’ indossare dei sandali bianchi alludeva allo svolgimento del
servizio sacerdotale. Con l’alabastro bianco erano realizzati oggetti rituali di vario genere e
anche il tavolo di imbalsamazione del toro Apis a Menfi; esso era, inoltre, il colore di
molti animali sacri (come il babbuino detto “Grande Bianco”, la mucca, il bue,
l’ippopotamo). La parola “hd” (bianco) indica l’argento usato insieme all’oro per
raffigurare rispettivamente la luna e il sole. Inoltre, essendo la corona dell’Alto Egitto
bianca, era considerato anche il colore araldico del sud dell’Egitto231
.
Più in generale, era segno di gioia, fasto e trionfo232
.
Nero (“km”)
Il nero, colore del ricco suolo della valle del Nilo, simbolizzava l’Egitto stesso sin dalle
epoche primitive(“Kemet”: ”la terra nera”). Anche se per eccellenza identificava il colore
della notte e della morte, talvolta risultava legato al concetto di fertilità proprio perché
colore del limo del Nilo portatore di vita.
Ma il nero non era un colore ambiguo solo in virtù del suo duplice significato, esso poteva
essere addirittura intercambiabile con il verde nella pelle di Osiride e negli scarabei; questi
230 Delange, 1998, p.1 231 Wilkinson, 1994, p.109 232 Aufrère, 1991, p.574
56
due colori rappresentavano in entrambi i casi il legame con il defunto (divenuto Osiride) e
il tema generale di vita e risurrezione. L’equivalenza simbolica di nero e verde si nota
anche nella realizzazione di statue di divinità. La pietra nera sembra essere stata un
materiale simbolico molto potente usato spesso per le statue magiche iscritte del periodo
macedone e tolemaico233
.
Poteva essere anche segno di rinascita postuma e di preservazione eterna (essendo anche
il colore di Anubi o Min) e riferimento all’ossidiana234
.
Era connesso, comunque, soprattutto al mondo sotterraneo e ai suoi defunti, demoni,
ombre e, ovviamente, a Osiride sovrano dell’oltretomba (talvolta inteso anche come
divinità legata al Nilo).
La resina usata sulle mummie, gli ushabti ricoperti di catrame, Anubi erano di colore nero.
Il colore era legato anche alla regina Ahmes Nefertari come protettrice della necropoli e
talvolta a Iside ma anche al culto del toro e all’immagine dell’ibis nero.
Più in generale, era sinonimo di sporcizia e lacrime235
.
Rosso (“dšr, tms, tr, ỉns, ỉdmỉ, ỉdmỉt”)
Tra i colori risulta essere stato il più importante; i minerali rossi, infatti, come la
cornalina, il diaspro o le sostanze coloranti erano associati al fuoco e al sangue. Sin dai
tempi più antichi l’ocra rossa era considerata come un “ricostituente magico in grado di
conferire al defunto la forza che gli avrebbe permesso di intraprendere una nuova vita236
”
ed esistono, in effetti, molte testimonianze dell’importanza di questi coloranti rossi
durante i riti funerari.
Anche la materia stessa dei pigmenti, pertanto, poteva avere un suo significato anche se,
più che in pittura, ciò emerge nell’ambito del rituale: l’ocra rossa “mnšt” era impiegata per
scopi apotropaici e magici e poteva servire per segnare dei limiti difensivi insuperabili
dalle forze malefiche; questa sostanza era utile anche come medicamento agendo contro i
demoni che causavano disordini negli organi responsabili dei sensi mentre l’ocra “dỉdỉ”,
233 Wilkinson, 1994, p. 109-110 234 Aufrère, 1991, p. 574 235 Brunner-Traut, 1977, p. 124 236 Camps, 1961, p. 521
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nonostante fosse utilizzata in medicina per le sue proprietà, poteva essere sinonimo di
male.
Comunque la lista di tutte le attestazioni dell’uso del rosso in pratiche magiche e religiose
è lunga e va oltre l’interesse principale di questa ricerca; risulta utile, però, farsi un’idea
approssimativa del ruolo protettivo attribuito alle sostanze chimiche o pulverulente rosse
che si ritrova, più o meno, anche nelle pietre di questo stesso colore 237
.
Le pietre di colore rosso erano alternate, nei gioielli rituali, a pietre di alto potere
simbolico la cui innocuità era in grado di contrastare la forza del rosso. Occhi di corniola,
o perle di questa stessa pietra, potevano rappresentare gli aspetti aggressivi del dio o dei
geni terribili dalla testa di leone posti a guardia di questo.
Il colore rosso possedeva, come il nero, evidentemente un valore ambivalente essendo
connesso, con il suo color sangue, tanto al concetto di vita, rigenerazione e protezione
quanto alle forze pericolose del caos. In effetti, era strettamente connesso con le rosse
regioni desertiche e, di conseguenza, il dio di queste terre Seth, definito dai capelli e occhi
rossi.
Così il rosso poteva essere usato come sinonimo di distruzione e morte o ancora si poteva
trovare in espressioni tipo “dšr ib” (“furioso”) o “dšrw” (“collera”); talvolta era addirittura
sinonimo di dannoso, pericoloso e metafora per “dolore” e “rabbia”.
Gli scribi egiziani usano l’inchiostro rosso per scrivere la parola “male” e i giorni
sfortunati dell’anno o ancora per nemici, mostri ostili e divinità tipo Apophis e Seth.
Era usato anche per raffigurare la natura ardente (quindi violenta) del sole raggiante così
come per l’amuleto a forma di serpente, l’“occhio di Ra”, l’impetuoso e protettivo, ma
anche potenzialmente distruttivo, aspetto del dio sole238
.
Da notare è che il simbolo più potente per la protezione magica, l’occhio udjat, aveva
talvolta un punto rosso in un angolo.
Sekhmet e Hator, che potevano personificare l’occhio solare, vengono descritte in alcuni
testi magici abbigliate con vesti di lino rosso brillante: questo loro aspetto divino, ritenuto
molto pericoloso, era al tempo stesso temuto e invocato dagli uomini.
237 Aufrère, 1991, pp. 556-7; 651-5 238 Brunner-Traut, 1977, p.124; Wilkinson, 1994, p.107
58
In generale, tutte le cose di colore rosso erano considerate potenzialmente molto dannose
ma, se maneggiate nel modo giusto, potevano fornire anche la più alta protezione magica
possibile; da questo emerge anche un altro significato del colore come sinonimo di difesa.
Un concetto simile si riscontra nel simbolismo dei serpenti di colore rosso considerati la
peggiore combinazione di pericolo immaginabile e, nonostante questo, dipinti (durante il
Nuovo Regno) sopra i letti in quanto potenti protettori del dormiente se rianimati dalla
giusta formula.
A partire da Medio Regno si intensificarono le differenze tra le sfumature di rosso239
,
un’attitudine interpretata da alcuni studiosi come tentativo di differenziare il rosso
“buono” da quello “cattivo”; Harris suggerisce, infatti, che il rosso relativo a Seth era
quello di tonalità arancio caratteristico della corniola, mentre il rosso-sangue brillante
tipico del diaspro non avrebbe avuto alcuna connotazione negativa240
.
In certi casi può sembrare che il rosso impiegato per dipingere il sole sia esattamente
quello collegato a Seth, forse proprio perchè il rosso del fuoco divino poteva essere sia
portatore di vita che, in certi casi, distruttivo241
.
Viene spontaneo chiedersi se questa ambivalenza di significato del rosso fosse dovuta
proprio alla doppia natura delle cose rosse nella vita reale come, per esempio, esempio il
fuoco.
Come già accennato all’inizio del discorso, il rosso in arte era usato anche senza alcuna
connotazione negativa come, per citare un esempio, nel caso della pelle degli uomini, per
certi abiti da cerimonia, e per tracciare i contorni della figura umana.
Il rosso era, inoltre, il colore legato al Basso Egitto caratterizzandone la corona.
Giallo e oro
Il giallo, legato al sole, era simbolo di vita, luce e crescita; era connesso anche al concetto
di eterno e imperituro.
Rappresentava la materia vegetale, alcuni cibi e la pelle delle donne.
239 Baines, 1985, p. 287 240 Harris, 1961, p. 225 241 Pinch, 2001, p. 184
59
La carne e le ossa degli dei si riteneva fossero d’oro puro, così i simulacri delle divinità
potevano essere realizzate con questo metallo mentre le raffigurazioni bidimensionali
erano dipinte di colore giallo. L’”oro bianco”242
era considerato come oro puro e il colore
giallo poteva essere scambiato con il bianco243
.
Anche i pigmenti gialli potevano essere usati come protezioni durante particolari rituali.
Verde (“w3d”)
Il verde era simbolo di crescita e vita; “fare cose verdi” indicava un comportamento
positivo e produttivo in contrasto con il concetto di “cose rosse” che simbolizzavano il
male. Il verde era anche un potente simbolo di resurrezione.
I testi antichi parlano dell’aldilà come di un “campo di malachite” e nei testi delle piramidi
si trovano riferimenti al verde simbolo di vita; nel capitolo 77 del libro dei morti si dice
che il defunto aspiri a divenire un falco dalle ali di pietra verde.
Osiride stesso, e quindi il concetto di morte e rinascita, era caratterizzato dal colore verde.
Uadjet “la verde” era il nome della dea serpente tutelare del Basso Egitto; anche la dea
avvoltoio e Hator erano associata a questo stesso colore.
L’amuleto conosciuto come “Occhio di Horus” è generalmente realizzato con materiali
di questo colore proprio per i suoi effetti positivi; le proprietà curative e benefiche
venivano conferite all’amuleto stesso tramite il colore. In verde (in pietra o faїence) erano
fatti anche gli amuleti di protezione o guarigione.
L’essere in possesso di un amuleto di pietra verde (di una qualsiasi) permetteva,
nell’immaginario simbolico, di dominare l’intero universo minerale.
Questo colore assicurava, poi, al defunto una perpetua vitalità in virtù della connessione
con la piante e quindi con il concetto di viridità dell’essere, crescita e rinnovamento.
Sotto forma grezza o di gioiello funerario i minerali verdi assicuravano, quindi, a chi li
possedeva rinascita eterna.
242 Elettro: misto di oro e argento. 243 Davies, 2001, p.1; Wilkinson, 1994, p.108
60
In alcuni casi il verde chiaro nelle raffigurazioni parietali stava ad indicare, oltre malachite
o amazzonite, anche la pietra turchese.
I materiali verdi erano, in generale, metafore per pace e gioia244
.
Blu (“hsbd, ỉrtỉw”)
Questo colore, in cui si identificava il lapislazzuli, era associato sia al cielo che all’acqua
primordiale funzionando, in entrambi i casi, come elemento portatore di vita e rinascita.
Nello stesso modo poteva raffigurare il Nilo con i relativi raccolti e offerte ed essere
legato al concetto di fertilità; molte figurine dette “della fecondità” rappresentanti la
generosità del fiume erano, in effetti, di colore blu. La fenice, o airone, antico simbolo
delle acque primordiali, era spesso raffigurata con un blu acceso contrariamente al reale
colore delle piume di questo uccello. In questo caso il colore reale veniva trasformato e
esaltato di proposito dagli artisti a scopi simbolici; altri animali spesso raffigurati in blu
erano anche il babbuino sacro e l’ibis.
In certe circostanze il colore blu poteva avere anche connotazioni solari ed era connesso
con il dio Amon-Ra245
.
Poteva essere assimilato al nero nel caso della raffigurazione dei capelli per richiamare
una caratteristica divina.
Era anche il colore delle polveri (ceneri) e dei vestiti da lutto delle prefiche e della la benda
frontale per il lamento funebre.
C’era una differenziazione, non solo visiva ma anche concettuale, tra il blu scuro (hsbd,
irtiw) e il blu chiaro, riferendosi il primo alla pietra del lapislazzuli e il secondo a quella del
turchese: elementi complementari rappresentanti due aspetti dell’essere.
Il turchese aveva significato di rigenerazione e gestazione ed era simbolo di Hator246
; la
turchese, simbolo di speranza e rinnovamento perchè assimilato al chiarore della luna
piena o alle prime luci degli inizi del giorno, donava a chi la possedeva gioia e felicità. Per
la sua fragilità e instabilità nel colore, che tende a spegnersi se conservata in cattive
244 Brunner-Traut, 1977, pp.125-6 245 per questo motivo alcuni ritratti di re della XVIII dinastia dal volto blu erano simbolicamente assimilati a questa divinità.Wilkinson, 1994, p. 107 246 Che ne è proprietaria e veglia sul suo aspetto.
61
condizioni, fu rinforzata la sua assimilazione alla luna, di cui fu considerata una
emanazione.
Il ritorno ciclico della luce fu, fin dai tempi più antichi, una delle principali preoccupazioni
della civiltà egizia e la pietra turchese, rispondeva perfettamente a questi bisogni: in virtù
del suo variare da un pallido chiarore ad un colore blu-verde intenso, fu associata a
numerose forme di luce. Era sinonimo anche di molti fenomeni cosmici, per ragioni non
sempre palesi, a differenza del lapislazzuli la cui assimilazione con la notte si basa su una
semplice evidenza. La qualifica della turchese come astro nascente deriva dal luogo da cui
era estratta (oriente), lo stesso da cui si levano ogni mattino e ogni notte il sole e la luna.
Un altro fenomeno astronomico osservato dagli Egizi, e associato a questa pietra, era
quello della luce zodiacale che compare sia immediatamente dopo il tramonto del sole che
subito prima del suo sorgere.
Altra concezione antica legata alla pietra era quella del “lago di turchese”, nominato nei
Testi delle Piramidi e nei testi funerari successivi, che evoca un luogo a oriente da cui il
sole esce purificato come un neonato247
.
Da questa breve introduzione alla simbologia delle pietre, basata soprattutto sulle teorie di
Aufrère, si intuisce come in arte i colori blu e azzurro, fossero richiami alle virtù di
turchese e lapislazzuli, portatori di luce e vita e considerate nella cultura egiziana antica
sicuramente le pietre più importanti.
247 Aufrère, 1991, pp. 465-7; 492-8; 516-7; Aufrère, 2001, p.160
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Schema comparativo pietre-colori-pigmenti
Pietre impiegate nei gioielli (perline/pendenti/cloisonné)
Colore delle pietre Colore in pittura Pigmento
*Lapislazzuli-“hsbd m3‛ ”,” tfrr” (usato dall’età predinastica)
Blu Blu- “hsbd” Azzurrite- “hsbd, hsbd
m3، “ o fritta blu- “hsbd, hsbd
n sš”
*Turchese-“mfk3t” (usato dall’età predinastica all’epoca greco-romana)
Dal blu cielo pallido al blu-verde acceso con venture brune o nere
Celeste o verde chiaro
Malachite-“w3d” o fritta verde-“šsyt”
**Malachite-“šsmt”, “w3d”
Verde Verde-“w3d”
*Feldspato
*Amazzonite-“nšmt (m3‛)”. Varietà di microclino. (usata dall’età predinastica; era considerata una delle 6 pietre più preziose; le iscrizioni antiche la associano a lapislazzuli e turchese)
Verde brillante o verde-azzurro
**Ossidiana (vetro vulcanico)
Nero Nero-“km”
Carbone di legna, fuliggine-“d‘bt”, pirolusite (rara)
**Ematite-“bỉ3” Nero lucente
Granato (usato dal periodo Badariano per perline, dal M.R. soprattutto per incastonature)
Almandino-“hm3gt” Rosso scuro o rosso-marrone (il più utilizzato)
Rosso-“dšr”
Ocra rossa -“mnšt” ,
”tmhỉ”,
“dỉdỉ” e “prš” o realgar-
Piropo Rosso fuoco
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Diaspro
*Diaspro rosso-“hnmt” (il più comune; impiegato dal periodo Badariano)
Rosso intenso “3wt-ỉb”
Diaspro giallo-“hnmt”
(usato in gioielleria dall’età romana in poi)
248
Diaspro marrone (usato nel M.R.)
Diaspro verde-“nmhf” (impiegato dal periodo Badariano)
Calcedonio (rosso e marrone usato dall’ età predinastica; giallastro dal M.R.)
*Corniola-“hrst” (durante il N.R. nonostante il largo uso di paste vitree, che sostituiscono le altre pietre, la corniola continua ad essere usata)
Giallo-arancio, arancio-rosso
Rosso-“dšr”
Ocra rossa -“mnšt” ,
”tmhỉ”,
“dỉdỉ” e “prš” o realgar-
“3wt-ỉb”
Sarda-“hrst dšrt” Marrone-rosso, arancio-rosso scuro, marrone traslucido
Agata-“k3 hd” Striata di vari colori
Onice-“k3 km” (molto diffuso a partire dalla XXI dinastia)
Nero
Crisoprasio-“prdn” Giallognolo-verde
Quarzo (usato dall’età predinastica)
**Quarzo latteo-“mnw hd”
Bianco-latte opaco Bianco- “hd” Calcite, gesso o biacca di piombo
**Quarzo ialino (cristallo di rocca)-“mnw hd”
Incolore e traslucido
Ametista-“hsmn” (molto diffusa nel M.R. in collane e bracciali)
Violetto traslucido e rossastro
Giada (mancano reperti)
Giadeite Verde, gialla, bianca, marrone, arancione, nero, rosa o viola
Nefrite Dal verde al bianco
Olivina
(usata dall’età predinastica) Giallo-verde
Peridoto-prdn (usato dall’età tolemaica)
Verde chiaro (trasparente)
Smeraldo (usato dall’età tolemaica)
Verde acceso (trasparente)
**Paste vitree Vari colori
*Faїence Dal blu al blu-verde Blu-verde Azzurrite-
248 In pittura il giallo rappresenta l’oro o, nel caso della raffigurazione di collari floreali, elementi vegetali o sostanze artificiali. Dal confronto con i reperti, in effetti, non emerge alcun riscontro per l’uso di questo materiale nelle composizioni di collari, dato che conferma un uso posteriore all’età faraonica.
64
brillante “hsbd, hsbd
m3، “ o fritta blu- “hsbd, hsbd
n sš” o Malachite-“w3d” o fritta verde-“šsyt”
Steatite (spesso ricoperta da invetriatura verde)
Bianco, grigio, nero
*Pietre o materiali di riferimento per le raffigurazioni dei collari.
** Pietre o materiali la cui rappresentazione in pittura non risulta del tutto certa.
Bibliografia: Andrews, 1996, pp. 37-63; Aufrère, 1998, p. 33-4; Devoto-Molayem, 1990, pp. 21-181; Harris, 1961, pp. 141-162; Lucas-Harris, 1962, pp. 338-361, 386-405; Shaw, 2001, pp. 9-12