Etologia e politica

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Etologia, guerra e politica * Leonardo Marchettoni 1. L’etologia, storia e concetti In questo lavoro cercherò di affrontare la questione se nello scatenamento della conflittualità bellica entrino in gioco delle predisposizioni biologiche innate, operanti su un piano di autonomia rispetto alle motivazioni razionali. Per esplorare questa possibilità intendo servirmi degli strumenti concettuali elaborati dalla ricerca etologica, offrendo una sintetica presentazione degli scritti intorno all’aggressività e alla guerra di Konrad Lorenz e Irenäus Eibl-Eibesfeldt. L’etologia è la disciplina naturalistica che studia il comportamento animale analizzandolo comparativamente alla luce dell’evoluzionismo darwiniano 1 . In questa ottica il comportamento è visto come un fenomeno soggetto alla selezione naturale: nel corso delle generazioni si affermano ereditariamente i moduli di comportamento che in un certo habitat risultano più redditizi. Ma perché l’evoluzione possa operare sul comportamento, l’etologia deve presupporre la trasmissibilità genetica delle sequenze motorie di base, estendendo così la portata di un modello esplicativo, incentrato sul principio della selezione del più adatto, assai potente e ‘corroborato’. L’etologia, come ambito di ricerca autonomo, nasce all’inizio del nostro secolo con gli studi di

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Etologia, guerra e politica*

Leonardo Marchettoni

1. L’etologia, storia e concetti

In questo lavoro cercherò di affrontare laquestione se nello scatenamento dellaconflittualità bellica entrino in gioco dellepredisposizioni biologiche innate, operanti su unpiano di autonomia rispetto alle motivazionirazionali. Per esplorare questa possibilità intendoservirmi degli strumenti concettuali elaboratidalla ricerca etologica, offrendo una sinteticapresentazione degli scritti intornoall’aggressività e alla guerra di Konrad Lorenz eIrenäus Eibl-Eibesfeldt. L’etologia è la disciplina naturalistica che

studia il comportamento animale analizzandolocomparativamente alla luce dell’evoluzionismodarwiniano1. In questa ottica il comportamento èvisto come un fenomeno soggetto alla selezionenaturale: nel corso delle generazioni si affermanoereditariamente i moduli di comportamento che in uncerto habitat risultano più redditizi. Ma perchél’evoluzione possa operare sul comportamento,l’etologia deve presupporre la trasmissibilitàgenetica delle sequenze motorie di base, estendendocosì la portata di un modello esplicativo,incentrato sul principio della selezione del piùadatto, assai potente e ‘corroborato’. L’etologia, come ambito di ricerca autonomo,

nasce all’inizio del nostro secolo con gli studi di

Oskar Heinroth sul comportamento sociale deglianatidi ma la vera fondazione della disciplinaavviene nel 1935, quando Konrad Lorenz pubblical’articolo Der Kumpan in der Unwelt des Vogels2. La novitàdell’approccio lorenziano consiste nel rilievoattribuito all’azione istintiva. Lorenz,confrontando il comportamento di specie diverse,sviluppa il concetto di coordinazione ereditaria: nelrepertorio dei comportamenti di un animale ci siimbatte sovente in movimenti riconoscibili,costanti nella forma, che l’animale non ha bisognodi apprendere; a tali movimenti Lorenz assegnòappunto il nome di coordinazioni ereditarie,intendendo evidenziarne in questo modo la naturaistintuale rigidamente programmata. L’attivazionedelle coordinazioni ereditarie richiede la presenzadi opportuni segnali scatenanti, filtrati da schemipercettivi innati, cioè da adattamenti filogeneticidella percezione. La catalogazione dellecoordinazioni ereditarie permette inoltre diosservare omologie comportamentali, vale a diresomiglianze fra strutture del comportamento dovutealla presenza di un progenitore comune; per questavia diventa possibile pertanto ricostruire precisetassonomie orientate filogeneticamente.Negli anni successivi Lorenz definisce lo status

della nuova scienza assieme a Nikolaas Tinbergen:in questo periodo la ricerca etologica privilegia ifattori istintivi, sottolineando la dicotomia trainnato e appreso, e si contrappone allazoopsicologia comportamentista nordamericana, cheenfatizzava invece l’importanza dell’ambiente nelplasmare il comportamento. La metodologia seguitadagli psicologi comportamentisti, come John B.Watson e Burrhus F. Skinner, infatti, era

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incentrata sull’analisi del comportamento animaleper mezzo di esperimenti in laboratorio; lesequenze motorie esaminate venivano quindiinterpretate secondo lo schema del circuitostimolo-risposta, prescindendo completamente dallastoria evolutiva della specie. L’etologia,viceversa, nel porre in rilievo il ruolo dellaprogrammazione innata, adotta una prospettivadiametralmente opposta, diacronica e descrittiva,senza tuttavia negare l’incidenza dei comportamentiappresi: è di questi anni la formulazione delconcetto di imprinting, una forma peculiare diapprendimento per impressione, caratteristicospecialmente degli uccelli, per lo piùirreversibile e limitato nell’estensione temporale,che presiede alle relazioni di riconoscimento dellamadre da parte dei nidiacei. Nel secondo dopoguerra si apre una importante

fase di confronto fra la scuola di Lorenz el’etologia anglosassone, animata dalle figure diTinbergen, nel frattempo trasferitosi nel RegnoUnito, William H. Thorpe e Robert A. Hinde, checondurrà ad una parziale ridefinizione dei concettichiave della disciplina. La nuova impostazione, cheattribuisce maggior spazio ai fattori ambientali,tende a sfumare la distinzione tra innato edappreso, poiché riconosce che anche talune sequenzemotorie codificate nel patrimonio genetico etrasmesse ereditariamente non sono immediatamenteattivabili dopo la nascita, ma richiedono un certoperiodo di tempo in cui perfezionarsi3. A partire dagli anni sessanta l’etologia ha

esteso sempre più il suo ambito di indagine allostudio del comportamento umano. In questo campo sitende a mettere in risalto quegli aspetti

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dell’agire dell’uomo che si basano su unaprogrammazione genetica (anche nell’uomo possiamorintracciare coordinazioni innate, adattamentifilogenetici della percezione, disposizioni innateall’apprendimento) e, in una diversa direzione, aesaminare quei tratti comportamentali umani chehanno dei precedenti nel mondo animale: lacomunicazione non verbale, l’apprendimento perimitazione, l’uso di strumenti, la tradizione, ilgioco. L’etologia umana si propone di investigarele radici biologiche del comportamento dell’homosapiens, portando alla luce quegli aspetti che sonointerpretabili come un retaggio del nostro camminoevolutivo. Quest’operazione può tuttavia sollevareperplessità allorché assuma come oggetto quelledimensioni dell’attività umana che coinvolgono lariflessione morale e il problema dellaresponsabilità individuale. Una situazione diquesto tipo si verificò in seguito allapubblicazione del saggio di Lorenz Das sogenannte Böse4, in cui l’etologo austriaco sosteneva, comevedremo, la natura istintuale della pulsioneaggressiva e, conseguentemente, le sue limitatepossibilità di compressione.La teoria di Lorenz era destinata a suscitare

critiche feroci, soprattutto da parte dellapsicologia statunitense, ancora legata alcomportamentismo, che non accettava l’estensioneall’uomo dei paradigmi concettuali elaborati perspiegare il comportamento animale. La ricezionedelle dottrine lorenziane fu ostacolata in ognimodo, trasportando sovente il dibattito sul pianodel confronto ideologico: vi fu persino chi nonesitò a muovere l’accusa di razzismo e a sollevareil sospetto di passate compromissioni col regime

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hitleriano. Nonostante questa opposizione,l’influenza di Das sogenannte Böse è andataprogressivamente consolidandosi e oggi, a distanzadi quarantacinque anni dalla sua formulazione, lateoria dell’aggressività di Konrad Lorenzrappresenta un inevitabile momento di confrontonella riflessione sul problema della guerra e suimezzi disponibili per estirparla o, almeno,renderla più tollerabile. È necessario, quindiprocedere a una sua dettagliata analisi che neevidenzi i nodi problematici rilevanti da un puntodi vista filosofico-politico; passerò quindi adesaminare quelle correzioni introdotte nella teoriadi Lorenz dal suo più famoso allievo, Irenäus Eibl-Eibesfeldt.

2. La teoria dell’aggressività di Konrad Lorenz

Konrad Lorenz è considerato comunemente il padredell’etologia; la sua figura così caratteristica,la sua vasta produzione divulgativa el’attribuzione del premio Nobel per la medicina(nel 1973 assieme a Nikolaas Tinbergen e Karl vonFrisch) gli hanno assicurato una popolaritàduratura anche presso il grande pubblico. L’ambitodi indagine in cui spazia l’opera di Lorenztravalica i confini della pura ricerca biologicaper accostarsi a tematiche più strettamente dipertinenza dell’indagine filosofica, per cui sirende opportuno premettere all’analisi dei suoiscritti sull’aggressività una rapida ricognizionedelle sue posizioni epistemologiche, come emergonosoprattutto in Die Rückseite des Spiegels5.La gnoseologia di Konrad Lorenz è imperniata su

una salda convinzione: per giustificare laconoscenza umana è necessario indagare la struttura

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biologica dell’apparato sensoriale. La nostraimmagine del mondo è funzione dei nostri organi disenso e la conformazione dell’apparato percettivo èmodellata dalla selezione naturale. In ultimaanalisi, la teoria della conoscenza di Lorenz hadunque alla sua base l’evoluzionismo darwiniano. Inlinea con queste assunzioni, Lorenz, sin dal 1941,aveva reinterpretato la dottrina kantiana dell’apriori sostenendo che la filogenesi determina leforme necessarie della conoscenza6. Piùprecisamente, Lorenz spiega l’insorgere delpensiero concettuale, in una precisa fase dellastoria evolutiva, attraverso l’integrazione diprestazioni più elementari ed eterogenee(rappresentazione centralizzata dello spazio,autoesplorazione, movimento volontario, imitazione,tradizione). Da questo punto di vista non solo laforma dell’intuizione dello spazio e del tempo, maanche le categorie kantiane dell’intelletto e lastessa logica classica hanno basi empiriche el’illusione della loro validità assoluta èdeterminata semplicemente dal loro successoadattativo, dall’essere un medium intrascendibilenella nostra rappresentazione del mondo7. In questa posizione tuttavia è assente qualsiasi

venatura di riduzionismo. Ripercorrere la storianaturale della mente non significa attivare unariconduzione dei processi psichici dall’universomentale al dato neurologico. Al contrario, Lorenz,nel descrivere le componenti biologiche deimeccanismi conoscitivi, sottolinea ripetutamentecome nel momento in cui le facoltà elementari siintegrano in un’unità nuova si compia un saltoqualitativo non prevedibile. Il pensiero astratto èun’acquisizione specificamente umana che non può

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essere indagata con un approccio di tipo‘composizionale’, ma richiede una comprensioneglobale della dimensione adattativa che entra ingioco nella genesi biologica dell’apparatoconoscitivo dell’uomo (l’apparato immagine-del-mondo).Ad un diverso livello, il paradigma

evoluzionistico viene esteso ancheall’interpretazione del progresso culturale escientifico. La dinamica dello ‘spirito umano’,come costruzione sovraindividuale segue le stessestrade della filogenesi8. Questa affermazione puòessere riguardata sotto una duplice prospettiva: inprimo luogo, nell’evoluzione culturale entrano ingioco facoltà innate acquisite filogeneticamente(ad esempio la programmazione istintuale dellacompetenza linguistica, autorevolmente confermatada Noam Chomsky e dalla sua scuola)9;secondariamente, il contenuto delle nostre teoriesul mondo si affianca al contenuto del genoma e,non diversamente da quello, è soggetto allapressione selettiva. A una tale impostazione delproblema gnoseologico non corrisponde però alcunasemplificazione ingenua del procedere dellascienza; Lorenz non alimenta una fiducia gratuitanella necessaria progressione finalistica delcammino evolutivo e neppure crede che la scienzaproceda approssimandosi asintoticamente allaverità. Anzi, afferma esplicitamente la nonpianificabilità dell’evoluzione culturale el’incidenza, nel lavoro scientifico di fattori nonrazionalizzabili come il senso estetico e leresistenze dell’abitudine10.L’approccio evoluzionistico alla teoria della

conoscenza viene compendiato da Lorenz nella

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formula, derivata da Donald Campbell, realismoipotetico11. La dicitura ‘realismo’, tuttavia, non devefar pensare che la posizione di Lorenz possa essereassimilata ad una declinazione del realismo qualeviene inteso nel dibattito filosofico attuale:delle due asserzioni che contraddistinguonoquest’ultimo, e che affermano l’indipendenza delmondo dalla conoscenza che di esso possediamo e

* Questo testo è stato ricavato da una sommaria revisionedel secondo capitolo della mia tesi di laurea L’etologia dellaguerra e il problema della pace, discussa presso l’Università diFirenze il 13 febbraio 1999. Lo pubblico adesso, a distanzadi tanti anni, perché accanto a molte ingenuità mi sembra diritrovarvi alcune tesi ancora condivisibili e attuali. Nelprocesso di revisione ho beneficiato dei consigli di FilippoRuschi , che ringrazio.

1 La definizione è tratta con adattamenti da I. Eibl-Eibesfeldt, Grundriss der vergleichenden Verhaltensforschung, München,Piper, 1987, trad. it. I fondamenti dell’etologia, Milano, Adelphi,1995, p. 3.

2 Cfr. K. Lorenz, “Der Kumpan in der Umwelt des Vogels”, J.Ornith., 83, 1935, pp. 137-413. Per una ricostruzione dellosviluppo storico dell’etologia si veda I. Eibl-Eibesfeldt, Ifondamenti dell’etologia, cit., pp. 9-22.

3 Su questo punto si può consultare N. Tinbergen, The Study ofInstinct, Oxford, Oxford University Press, 1951, trad. it. Lostudio dell’istinto, Milano, Adelphi, 1994.

4 Cfr. K. Lorenz, Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte derAggression, Wien, Borotha-Schöler, 1963, trad. it. dellaseconda edizione L’aggressività, Milano, Il Saggiatore, 1976.

5 Cfr. K. Lorenz, Die Rückseite des Spiegels. Versuch einerNaturgeschichte menschlichen Erkennens, München, Piper, 1973, trad.it. L’altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza,Milano, Adelphi, 1983.

6 Cfr. K. Lorenz, “Kants Lehre vom Apriorischen im Lichtegegenwärtiger Biologie”, Blätter für Deutsche Philosophie, 15, 1941,pp. 94-125, ristampato in K. Lorenz, Das Wirkungsgefüge der Naturund das Schicksal des Menschen, München, Piper, 1978, trad. it. “Ladottrina kantiana dell’a priori e la biologia contemporanea”,in Natura e destino, Milano, Mondadori, 1985, pp. 83-112. Il

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l’indipendenza della verità dei nostri giudizidalla nostra capacità di accertarla, Lorenzsottoscriverebbe soltanto la prima, che compendiala radicale opposizione ad ogni forma di idealismo.L’adozione del paradigma darwiniano, del resto,richiede che si accetti una preliminarecompromissione ontologica: tutto ciò che ci vienesegnalato dal nostro apparato conoscitivo devecorrispondere a dati di fatto reali del mondoextrasoggettivo, dal momento che esso stesso faparte del mondo e nella sua contrapposizione adaltri oggetti altrettanto reali ha raggiunto la suaforma attuale.D’altro canto, il realismo ipotetico presenta,

paradossalmente, significative analogie con alcuneforme contemporanee di antirealismo12. Per il

saggio in questione fu scritto a Königsberg nel periodo incui Lorenz deteneva la cattedra di psicologia comparata cheera stata di Kant.

7 Particolarmente interessante mi sembra, ad esempio, lariconduzione della categoria di connessione causale almeccanismo della reazione condizionata, per cui l’organismoopera un’associazione tra un evento con funzione di segnaleed una situazione, successiva a quell’evento, di importanzavitale, preparandosi ad essa. Ciò che abbiamo, dunque, è uncollegamento tra eventi temporalmente contigui, entro unatrasformazione di energia. Su ciò cfr. K. Lorenz, L’altra facciadello specchio, cit., pp. 172-7.

8 Ivi, pp. 295-324.9 Si veda N. Chomsky, Language and Problems of Knowledge: The

Managua Lectures, Cambridge, Mass., MIT Press, 1988, trad. it.Il linguaggio e i problemi della conoscenza, Bologna, il Mulino, 1991;S. Pinker, The Language Istinct, Cambridge, Mass., MIT Press,1994, trad. it. L’istinto del linguaggio, Milano, Mondadori, 1997.

10 Cfr. K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio, cit., pp. 379-86.11 Si veda D.T. Campbell, “Evolutionary Epistemology”, in

P..A. Schilpp (a cura di), The Philosophy of Karl Popper, vol. I, LaSalle, Open Court, 1974, pp. 413-63, trad. it. Epistemologiaevoluzionistica, Roma, Armando, 1981.

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realista metafisico il mondo consiste di unatotalità determinata di oggetti indipendenti dallamente e c’è una e una sola descrizione completa dicome il mondo è; inoltre, la verità delle teoriescientifiche è, almeno in via di principio,accertabile13. Al contrario, secondo Lorenz, lanostra immagine del mondo, che si forma in base alcontenuto percettivo trasmesso dai sensi edelaborato razionalmente, riflette soltanto certiaspetti della realtà, e precisamente quegli aspettiche sono funzionali alla nostra sopravvivenza: lenostre descrizioni del mondo sono solo unarappresentazione, utile ma parziale e imperfetta14.In definitiva, ciò che distingue soprattutto laposizione di Lorenz è l’impulso a sottolineare,nell’impresa scientifica, l’aspetto dellacostruzione empirica che poggia sull’evidenzafenomenica accessibile al nostro apparatosensoriale e osserva un misurato agnosticismo sullecose in sé.Nel 1963, alla vigilia della pubblicazione di Das

sogenannte Böse, lo studio delle causedell’aggressività nell’ambito della ricercapsicologica vedeva la prevalenza degli indirizziche spiegavano l’aggressività in base all’azione difattori ambientali. La ricerca più influente inmateria, condotta nel 1939 da John Dollard, avevacollegato l’aggressività alla frustrazione:l’impulso aggressivo sarebbe diretto control’agente della frustrazione stessa e sarebbe

12 In questo, esso condivide probabilmente la sorte dialtre epistemologie di ascendenza kantiana.

13 Cfr. H. Putnam, Reason, Truth and History, Cambridge,Cambridge University Press, 1981, trad. it. Ragione, verità estoria, Milano, Il Saggiatore, 1985, pp. 57ss.

14 Cfr. K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio, cit., pp. 25-38.

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proporzionale all’intensità di quella15. Ne segue,pertanto, che l’aggressività può essere controllatarimuovendone le cause dirette o inibita per mezzodella minaccia di una punizione. Lorenz si opponedecisamente a questo modello esplicativo, fondatosull’opinione totalmente errata, a suo avviso, chei comportamenti animali, come quelli umani, sianoprevalentemente reattivi e che possano venireillimitatamente modificati attraversol’apprendimento, intraprendendo una completainversione di prospettiva. L’insieme degli elementi di base del

comportamento animale ed umano è costituito dafattori innati – sequenze motorie, pulsioni esegnali scatenanti – dalla cui integrazione, alivelli sempre più alti, sorgono le funzionisuperiori come l’apprendimento. L’aggressività, inquesto quadro concettuale, appare essenzialmentespontanea, una pulsione primaria profondamenteradicata e pertanto non coercibile. La rimozionedegli oggetti su cui essa si dirige non portaquindi alla sua eliminazione, anzi, poiché ognimovimento istintivo, se privato della possibilitàdi sfogo, ha la proprietà di rendere tuttol’organismo animale inquieto e di fargli ricercareattivamente gli stimoli che innescano quelmovimento, l’aggressività è per principio nonestirpabile per mezzo di interventi sull’ambiente.Inoltre, il comportamento di appetenza siaccompagna a un abbassamento del valore di sogliadegli stimoli innescanti e questo, in un ambientein cui siano rimosse le sorgenti di frustrazione,può dirottare l’impulso aggressivo su oggetti che

15 Si veda J. Dollard et al., Frustration and Aggression, New Haven,Yale University Press, 1939, trad. it. Frustrazione e aggressività,Firenze, Giunti-Barbera, 1967.

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in condizioni normali non lo avrebbero scatenato16.Tuttavia, l’aggressività non è, in situazioni nonpatologiche, distruttiva ma ha sempre unsignificato adattativo preciso. L’opera di Lorenz èun tentativo di rendere conto di questafunzionalità, attraverso la chiarificazione degliscopi che l’aggressività, di volta in volta,soddisfa. In primo luogo, Lorenz distingue tra lotta

interspecifica e intraspecifica, a seconda chel’impulso aggressivo sia diretto contro membridella stessa specie o di specie diverse. La lottainterspecifica è, nel mondo animale, un fenomenocircoscritto: si presenta soltanto nelcomportamento predatorio (in cui però èsingolarmente dissociata dagli atteggiamenti cheaccompagnano l’aggressività vera e propria), inalcuni casi in cui taluni predatori uccidono altripredatori concorrenti, nell’attacco sferrato dallepotenziali prede allorché, trovandosi in gruppo,incrocino il predatore isolato (il cosiddettomobbing) e, infine, nella reazione critica, ilcomportamento di difesa dell’animale cui siapreclusa la via di fuga17. Nel caso della lottainterspecifica l’utilità per la specie è evidente;

16 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., pp. 89-96. Mi siaconsentito di notare in margine al discorso come il paradigmasotteso all’approccio lorenziano, concettualizzando l’origineendogena delle pulsioni aggressive sulla base di un’immagine‘idraulica’, quella dell’impulso innato che si accumula comeuna massa d’acqua fino a tracimare se non liberato, siachiaramente riconducibile, nella sua consistenza visiva e nelsuo potenziale esplicativo, all’influsso della teoriafreudiana e al ricorso a parallelismi fisico-matematici cheessa stava introducendo nella formulazione dei modellipsicologici.

17 Ivi, pp. 60-5.

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più complicato è spiegare quali compiti assolval’aggressività verso i conspecifici. Questa seconda forma di aggressività si sviluppa

probabilmente a seguito della concorrenza traesemplari della stessa specie, anche se, comevedremo, acquista in seguito funzioni ulteriori. Lacomparsa dell’aggressività intraspecifica è daricollegare a due esigenze distinte: da una partela difesa del territorio, dall’altra la selezionedei maschi più forti al momento dellariproduzione18. La distribuzione regolare di animalidi una stessa specie su un’area abitabile è,secondo Lorenz, la più importante funzionedell’aggressività intraspecifica, in quantopermette un’allocazione ottimale delle risorse tragli individui, ed insieme quella in corrispondenzadella quale è probabilmente sorto l’impulsoaggressivo. In questo caso, gli scontri traconspecifici possono avere esiti mortali per ilsoccombente, anche se a ciò si arriva solo molto dirado, poiché l’animale che si avventuri al di fuoridel suo territorio reagisce generalmente con lafuga nel caso che si imbatta in un altro esemplaredella sua specie.L’aggressività territoriale è tipica degli

animali che vivono isolati al di fuori del periodoriproduttivo mentre negli animali sociali prevalela seconda funzione più sopra ricordata, vale adire la selezione degli individui che possonogarantire il migliore pool genico alla discendenza econtemporaneamente proteggere in maniera piùefficace la prole. E’ questo il caso degli animaliche trascorrono tutta la loro esistenza in branchicome i cervidi, presso i quali, infatti, i

18 Ivi, pp. 66-76.

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combattimenti fra i maschi sono lunghi ed assaielaborati19. Nel caso delle specie animali più evolute che

conducono una vita sociale l’aggressività ha,inoltre, un’utilità supplementare in quantoconsente l’instaurarsi di vincoli gerarchici. Inquesto modo viene arginata la lotta fra i membridella comunità dal momento che ognuno degliindividui sa in quale posizione si colloca ciascunaltro esemplare e quindi adegua il suocomportamento a seconda se si debba confrontare conun animale subordinato o sovraordinato. Inoltre, lasocietà acquisisce una particolare coesione esolidità che gli deriva dal ruolo che in essaricoprono gli esemplari più anziani ed esperti.Questi infatti detengono la posizionegerarchicamente più elevata che li pone incondizione di trasferire per tradizione agli individuipiù giovani l’esperienza appresa nella loro vita20.In quanto detto sinora è già contenuto

implicitamente un dato della massima importanza cheè necessario porre in adeguato rilievo.L’aggressività intraspecifica, lungi dalcaratterizzarsi come un istinto primitivo, unretaggio da superare che ostacola la formazione diorganismi sociali complessi, costituisce invece un

19 E’ interessante notare come la competizione tra i maschiper l’accoppiamento conduca in certi casi ad adattamentifinalizzati univocamente a quello scopo, che possonorisultare, per altri versi, penalizzanti. Le corna deicervidi, come la livrea multicolore di taluni uccelli, sonocaratteri funzionali soltanto a prevalere nella competizionesessuale; per il resto sono completamente inutili se nondannosi. Non di meno questi caratteri si conservano perchégli individui che non ne sono provvisti non si riproducono:l’evoluzione, come dice Lorenz, pare qui inoltrarsi in unvicolo cieco. Su ciò cfr. ivi, pp. 76-8.

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necessario presupposto dell’integrazione incomunità ordinate. Tuttavia, se l’aggressivitàpresso gli animali sociali non fosse in qualchemodo regolata comporterebbe un peso intollerabilein termini di individui morti o gravemente feriti,tanto che i vantaggi che ho elencato nonbasterebbero a compensarli. Per tale motivo nellastoria evolutiva si sono sviluppati una serie dimeccanismi idonei a limitare la distruttività dellepulsioni aggressive, che hanno precisamente ilcompito di rendere possibile la convivenza dinumerosi animali all’interno di una comunità.Questi meccanismi sono innati come l’istinto diaggressione e vengono da Lorenz posti in relazionecol fenomeno della ritualizzazione filogenetica,sul quale, pertanto, è opportuno soffermarsipreliminarmente21.Il concetto di ritualizzazione fu introdotto

nella seconda decade del nostro secolo dallozoologo Julian Huxley – il fratello dello scrittoreAldous – per definire l’impiego di modulicomportamentali non sessuali nel contesto delcorteggiamento da parte di alcuni uccelli. Abbiamogià notato come ogni animale sia provvisto di unbagaglio di sequenze motorie, presenti sin dallanascita, che vengono attivate da opportuni stimoliambientali. Queste sequenze motorie compaiono

20 Ivi, pp. 81-4. In ogni caso la funzionedell’organizzazione gerarchica del gruppo non va posta sullostesso piano rispetto alla distribuzione spaziale e allaselezione riproduttiva. Infatti, queste ultime costituisconole esigenze ambientali in risposta alle quali l’aggressivitàintraspecifica si è affermata come pulsione; viceversa,l’organizzazione gerarchica del gruppo rappresenta un‘sottoprodotto’ dell’aggressività, in quanto si è sviluppataper renderla più tollerabile.

21 Ivi., pp. 99-113.

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generalmente nel quadro di attività benindividuate, ma possono acquistare, sotto la spintadella selezione, un significato ulteriore. Laritualizzazione consiste precisamente nel ri-orientamento adattivo del comportamento indirezione espressiva. In altri termini, certischemi motorii perdono, nel corso della filogenesi,la loro specifica funzione originaria e diventanopure cerimonie ‘simboliche’, dei segnaliindirizzati ai membri della stessa specie. La nuova funzione comunicativa del modulo

comportamentale esercita una pressione selettivasull’ulteriore evoluzione di esso, accentuandotutte le caratteristiche che rendono più efficaceed univoco il decorso motorio nell’assolvimento delcompito di segnalazione. Spesso questo processo èaccompagnato dallo sviluppo di strutture fisichecapaci di evidenziare l’azione. Inoltre, e questo èil dato più importante nell’economia del discorso,una volta che la ritualizzazione si è compiuta lacoordinazione motoria ritualizzata si rendetotalmente indipendente dalla situazione alla qualeera originariamente asservita: la catena di azioniche in un primo tempo adempiva ad altri finidiventa fine a se stessa non appena si ritualizza.Con la ritualizzazione, dunque, nasce un nuovo

istinto completamente slegato dalle altre pulsionie capace di contrastarle; anche la pulsioneaggressiva può venire controllata in questo modo.Così il rito riesce nell’impresa quasi impossibiledi ostacolare quegli effetti dell’aggressivitàintraspecifica che sono dannosi alla vitacomunitaria, senza per questo impedire quelle suefunzioni indispensabili alla conservazione dellaspecie. La pulsione, infatti, in generale utile,

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viene lasciata invariata; per il caso specificoperò nel quale si potesse dimostrare nociva,vengono messi in moto dei meccanismi inibitoriassolutamente specifici, creati ad hoc. Lorenz afferma chiaramente che i comportamenti

che hanno origine in questa maniera sono, almenoesteriormente, “analoghi alla morale”22. Se nepossono osservare esempi eloquenti neicombattimenti ritualizzati di molti vertebrati, apartire dai pesci ossei. Lo sviluppo deicombattimenti ritualizzati, nel corso dellafilogenesi, a partire dalla primitiva lottacruenta, può essere articolato, seguendo laricostruzione che ne dà Lorenz, nell’azioneindipendente di tre processi. Il primo passo dalcombattimento cruento a quello ritualizzatoconsiste nell’allungamento degli intervalli ditempo che intercorrono tra l’esecuzione dei singolimovimenti minacciosi che, presso tutte le speciein cui si verificano duelli, fanno da cornice alloscontro, e lo scoppio di violenza finale. Questadilatazione temporale non è ancora laritualizzazione ma rappresenta una premessa che larende possibile. Mano a mano che si allunga la durata delle

singole coordinazioni motorie di minaccia questesubiscono un processo di deformazione che conduce amimiche esagerazioni, a ripetizioni ritmiche e aformazioni di strutture e colori che accentuanovisivamente il movimento. L’atto del minacciaretende ad esaurire in sé lo scontro ritardando ilpassaggio al combattimento vero e proprio, in mododa evitarlo quando sia manifesta la disparità diforze tra i due contendenti. Si potrebbe forse dire

22 Ivi , pp. 155-61.

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che le sequenze motorie implicate negli atti diminaccia nella loro espansione progressivaconsumano l’energia accumulata in un’attivitàsimbolica, prima che sfoci nell’aggressione. Il terzo processo che contribuisce alla

trasformazione del combattimento cruento nelcombattimento ritualizzato è di naturacompletamente diversa. Negli animali superioriassistiamo alla comparsa di peculiari meccanismifisiologici che inibiscono i movimenti d’attacco.Sono esempi di questo genere di adattamenti isegnali infantili che bloccano l’aggressione degliadulti nei confronti dei piccoli e che compaiono,nella storia evolutiva, in relazioneall’allungamento del periodo che i nuovi natitrascorrono presso i genitori. Un fenomeno analogosi riscontra, presso numerose specie, nellafortissima inibizione da parte del maschio adattaccare la femmina. Ebbene, l’azione deimeccanismi inibitori, la cui efficacia èproporzionale alla pericolosità dell’attaccodell’animale, può essere attivata per mezzo dispecifici gesti ritualizzati che prendono il nomedi comportamenti di pacificazione o di sottomissione23. Questicerimoniali vengono adottati dall’individuo chevuole sottrarsi al combattimento o vuol porretermine ad esso e nella quasi totalità dei casihanno come effetto l’immediato arrestodell’attacco. Taluni atti di sottomissione derivano, ‘per

negazione’, dai comportamenti di minaccia,consistendo precisamente nel nascondere queicaratteri fisici – dentatura, artigli, colorazionevivace – che innescano il combattimento; il gesto

23 Ivi, pp. 177-84.

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del lupo che distoglie le fauci dall’avversario,esibendo il collo inerme ne è certo l’esempio piùnoto. In altri casi gli atteggiamenti disottomissione derivano dai moduli infantili oppuredal comportamento della femmina durantel’accoppiamento. E’ importante notare sin d’ora cheanche nell’uomo è possibile rintracciare lapresenza di atteggiamenti di pacificazione, ormaiprivati della loro funzionalità originaria: ilsorriso ed il riso altro non sono cheritualizzazioni del comportamento di minaccia checonsiste nel digrignare i denti e che, nel corsodell’evoluzione, perduta la primitiva carica diaggressività, hanno acquisito una valenzapacificatrice.Abbiamo visto finora quale utilità pratica abbia

l’aggressività intraspecifica, quale sia il suoruolo nel distribuire gli individui sul territorio,nel selezionare i maschi provvisti del patrimoniogenetico migliore ai fini riproduttivi enell’organizzazione delle comunità degli animalisociali. Abbiamo visto poi quali meccanismi sisiano sviluppati attraverso la ritualizzazione perlimitare la pericolosità della pulsione aggressiva.Adesso si tratterà di comprendere come, secondoLorenz, le cerimonie di pacificazione svolgano uncompito ulteriore, ancora più importante, chepermette l’instaurarsi di vincoli personali all’internodelle società animali. Nelle comunità più semplici, nei banchi formati

da taluni pesci per esempio, l’aggressivitàintraspecifica è totalmente assente e questacarenza va di pari passo con la più completamancanza di strutture interne e di legami autonomitra i vari individui24. La nascita di un ordine

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gerarchico, la comparsa di fattori auto-organizzativi che trasformano la ‘schieraanonima’ in un ‘gruppo’, diviene possibile invece,come ho già accennato, solo in seguitoall’‘invenzione’ dell’aggressività intraspecificaed il meccanismo che stabilisce un legame duraturoe ‘personale’, legame che chiaramente non puòessere innato ma deve venire appreso, fra due o piùindividui, consiste nella modificazione di unmodulo comportamentale di attacco. Questo fenomeno, riscontrabile in specie fra loro

assai diverse, che è stato osservato da Lorenzparticolarmente presso le oche selvatiche, comportauna ridirezione della pulsione aggressiva: lasequenza motoria primitiva di aggressione vienedistolta dall’oggetto che ha innescato lo stimoloper essere rivolta ad un bersaglio sostitutivo econtemporaneamente si ritualizza, inducendo nellacontroparte una ‘risposta’. Il risultato che inquesto modo viene conseguito è estremamenteimportante: ciò che si ottiene è di legarestrettamente due individui in un vincolo veramentepersonale, poiché l’identità del partner ai finidell’esecuzione della cerimonia di pacificazionenon è fungibile, e, nello stesso tempo, didislocare l’aggressività verso l’esterno, versoaltri conspecifici che non condividonol’appartenenza al gruppo25. La comunità che così siviene a creare può variare considerevolmente nellesue dimensioni: nelle oche ad esempio è limitataalla coppia riproduttiva, il vincolo instauratodalla cerimonia di pacificazione, che Lorenz chiamagiubilo trionfale, lega soltanto il maschio e la femmina

24 Ivi, pp. 189-99.25 Ivi, pp. 225-77.

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durante il periodo della deposizione delle uova, manei mammiferi e particolarmente nei primati ilnumero di esemplari che sono stretti da rapporti dimutua dipendenza, conducendo un’esistenzapropriamente sociale può crescere notevolmente.Dunque, Lorenz ha così mostrato come il sorgere

di ogni legame individuale ed esclusivo fraconspecifici sia da porsi in relazione conl’istinto aggressivo e come nelle cerimonie dipacificazione in cui si stringe e si consolida quellegame sia contenuta almeno allo stato latente unacerta misura di aggressività. Ogni vincolopersonale, in altre parole, si origina, nel corsodella filogenesi, a partire dall’aggressivitàintraspecifica: “non c’è amore senza aggressività”.Gli ultimi tre capitoli di Das sogenannte Böse sono i

più controversi dell’opera, quelli che maggiormentehanno suscitato critiche e polemiche. Lorenz,infatti, tenta di estendere all’uomo i risultatidella sua ricerca, considerando il funzionamentodei meccanismi inibitori nella specie umana, ilperché questi frequentemente falliscono, i pericolidel progresso e gli antidoti opponibili al dilagaredella violenza e alla minaccia della guerra.Quest’ultima parte, è bene precisarlo subito, vienepresentata dallo stesso autore come una riflessionenon supportata dallo stesso carattere discientificità dei capitoli precedenti:l’estrapolazione di concetti elaborati in relazioneal mondo animale e la loro trasposizione all’uomo,infatti, deve essere necessariamente accompagnatada una accurata considerazione di quei fattori chesegnano la distanza, lo ‘iato’, come dice Lorenz,tra la nostra specie e gli altri esseri viventi26.

26 Ivi, p. 281.

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Il pensiero concettuale ed il linguaggio hannocambiato completamente l’evoluzione umana,sviluppando un sistema capace di acquisireinformazione e ritrasmetterla in modo enormementepiù rapido dell’adattamento del codice genetico.Ciò che differenzia radicalmente la cultura umanadalle semplici tradizioni esistenti anche pressogli animali è la possibilità di trasferire ad altriun contenuto appreso anche in assenza dell’oggettoal quale esso si riferisce; in tale maniera ilnostro mondo culturale possiede una rapidità didiffusione che, attraverso il progressotecnologico, si è incrementata sino a regolarsisulla velocità limite dell’universo fisico, lavelocità della luce. All’evoluzione darwiniana,basata sull’unità di tempo della singolagenerazione, con la comparsa dell’uomo si affiancal’evoluzione culturale, incomparabilmente piùrapida, generando un divario sempre più ampio frale condizioni ambientali in cui la nostracostituzione biologica si è modellata e le esigenzeche ci impone oggi la convivenza nelle modernesocietà post-industriali. La selezione naturale nonriesce a tenersi al passo con le continueristrutturazioni del sistema culturale e questasituazione comporta una crescente inadeguatezzadella programmazione istintuale umana, calata in uncontesto ambientale completamente diverso da quelloche ne aveva determinato la configurazione cheancora oggi conserva27. In particolare la pulsioneaggressiva, innata in ciascuno di noi, può divenireestremamente pericolosa quando vengano elusi imeccanismi naturali preposti al suo controllo ed

27 Ivi, pp. 301-2. Cfr. anche K. Lorenz, L’altra faccia dellospecchio, cit., pp. 288-91.

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insieme scompaiano le condizioni in risposta allequali era comparsa. Gli ominidi dai quali l’uomo discende

direttamente erano provvisti, al pari delle attualiscimmie antropomorfe, di una forte carica diaggressività intraspecifica, estremamentefunzionale in rapporto all’ordinamento gerarchicodella comunità, e contemporaneamente di freniinibitori assai meno sicuri di quelli operantipresso i carnivori più specializzati. Infatti, comesi è visto, l’efficacia di quei meccanismi èproporzionale alla capacità di un individuo diuccidere rapidamente animali più o meno dellastessa grandezza, capacità di cui i nostri antenatipreumani non erano naturalmente dotati: la vittimapotenziale, di fronte all’attacco di un altroindividuo, aveva sempre la possibilità di metterein atto cerimoniali di pacificazione prima divenire seriamente ferita. L’invenzione delle armiartificiali, moltiplicando la pericolosità di ogniatto di aggressione, introdusse così un improvvisofattore di squilibrio tra le capacità di uccidere ele inibizioni sociali28.L’umanità nascente, continua Lorenz, sarebbe

andata in contro all’autodistruzione se, acompensare la diffusione delle armi, non fossesorta la responsabilità morale. Anche questafacoltà affonda le sue radici nel patrimonioistintuale dell’uomo e precisamente nei fortissimiistinti sociali che, nei primati, legano i membridella stessa tribù. Più precisamente, Lorenzipotizza che la comparsa della responsabilitàmorale sia da porre in relazione con una facoltàspeciale, assolutamente innata, che rende possibilela percezione dei valori come la vita, l’amore,

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l’amicizia, la bellezza e ricollega a essiun’esperienza interiore di tipo emozionale29. Lasensibilità ai valori, dunque, evolutasi in unamorale responsabile, ripristinò l’equilibrioperduto fra capacità e inibizione ad uccidere. Aquesto apparato di contenimento dell’aggressivitàdi origine filogenetica si affiancò gradatamente ilsistema di norme sociali elaborato per viaculturale, consistente di regole di condottasviluppatesi nell’ambito di ciascuna comunità etrasmesse di generazione in generazione.La genesi di questo apparato normativo è da porre

in relazione con il fenomeno della ritualizzazioneculturale, un processo che rappresenta lacontroparte, a livello della comunicazionepropriamente simbolica, della formazionefilogenetica di segnali di cui ho già avuto modo diparlare. In maniera non dissimile dallaritualizzazione filogenetica, il rito culturaleconsiste nell’acquisizione da parte di un certomodulo comportamentale di una funzione dicomunicazione totalmente nuova che gradatamente

28 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., pp. 303-05. Sul temadell’origine evolutiva della moralità si può vedere anche F.de Waal, Good natured: The Origins of Right and Wrong in Humans and OtherAnimals, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1996,trad. it. Naturalmente buoni. Il bene e il male nell’uomo e in altri animali,Milano, Garzanti, 1997. La tesi sostenuta da de Waal è che lacomparsa di regole morali sia strettamente collegata allapratica della caccia in comune. La caccia ai grandi mammiferirichiede una coordinazione ed un affiatamento che è possibileraggiungere solo se i cacciatori appartengono ad un gruppostrettamente coeso e l’affermazione di modelli dicomportamento condivisi contribuisce a generare quellacoesione. Seguendo questa linea argomentativa, de Waal puòconcludere che il comportamento morale è radicato nellanostra costituzione biologica.

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soppianta lo scopo primitivo. L’aspetto essenziale,comune tanto alla ritualizzazione filogenetica chea quella culturale, è dato dalla comprensione delloschema motorio messo in atto e dalla conseguentecapacità di prevedere il comportamento successivo,ma, mentre nel primo caso la ‘comprensione’ sifonda sulle prestazioni acquisite per viaereditaria da colui che riceve il segnale, nellaritualizzazione culturale tanto il processo dellatrasmissione quanto quello della ricezione disimboli si fondano sull’apprendimento e sullafacoltà di tramandare culturalmente i caratteriacquisiti. Il fenomeno della ritualizzazione culturale ha

coinvolto, sin dagli albori della storia dell’uomo,un numero vastissimo di moduli comportamentali traquelli posti in essere in presenza di altrepersone, proibendo tutta una serie di comportamentiistintivi (le buone maniere sono un tipico prodottodella ritualizzazione); si giunge, per questa via,ad imporre un controllo ferreo e pervasivo alsoddisfacimento delle proprie pulsioni, che vengonodisciplinate e rese socialmente accettabili. Nondiversamente dalla ritualizzazione filogenetica,anche la ritualizzazione culturale conduce così altemperamento dell’aggressività, rafforzandol’efficacia dei meccanismi inibitori istintivi ecodificando nuove cerimonie di pacificazione eregole di combattimento non cruento, e insiemecontribuisce al consolidamento dei legami internial gruppo, ne accresce la coesione, dirottandoall’esterno, in direzione delle altre comunitàindipendenti, la carica aggressiva spontanea.Questo risultato è possibile perché le usanze

29 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., pp. 308-12.

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tipiche di ciascun gruppo, grazie alla ripetizionecostante nel tempo, raggiungono una particolareautonomia, creando nuove motivazioni alcomportamento, indipendenti dalle funzionioriginarie di comunicazione, che l’individuoricerca per se stesse, sino ad attingere ad unadimensione sacrale fondata sulla persuasione che larottura delle regole tradizionali e dell’ordine chead esse si collega comporti accadimenti funesti30.La ritualizzazione culturale, in sostanza,istituisce una polarizzazione interno-esterno,contribuendo a definire uno spazio – quello dellacomunità – in cui la pulsione aggressiva deveessere controllata e ri-direzionata, in opposizioneall’altro spazio, ben più vasto, esterno al gruppo,nel quale l’aggressività recupera la suafunzionalità. Questo profilo assume, ai fini della presente

ricerca, un rilievo particolare: norme e ritisociali culturalmente evoluti diventano, colpassare delle generazioni, caratteristici delnucleo sociale in seno al quale hanno avuto originequanto le qualità ereditarie, evolutesi con lafilogenesi, sono caratteristiche di sottospecie,specie, generi e unità tassonomiche superiori. Laloro divergenza nello sviluppo storico erigebarriere fra unità culturali nello stesso modo incui l’evoluzione divergente le erige fra le specie;questo processo per tale motivo è stato chiamatodallo psicanalista Erik Erikson pseudo-speciazione31. Lapseudo-speciazione è alla base delladifferenziazione delle culture umane ma, allo

30 Ivi, pp. 113-20. Cfr. anche K. Lorenz, L’altra faccia dellospecchio, cit., pp. 341-63.

31 Cfr. E.H. Erikson, A Way of Looking at Things. Selected Papers from1930 to 1980, New York-London, W. W. Orton, 1987.

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stesso tempo, può innescare pericoloseconflittualità tra culture confinanti; può condurreinfatti, ed è questo il punto cruciale, a unindebolimento dei meccanismi innati di inibizionedell’aggressività, nella misura in cui impediscel’operazione di riconoscimento degli appartenentia pseudo-specie diverse come esseri umani,paralizzando la comunicazione filogeneticamenteritualizzata che dovrebbe accomunare tutti gliuomini in quanto membri della stessa speciebiologica32. Quando l’umanità primitiva, organizzata in orde

similmente ai primati superiori, ebbe raggiunto unacerta sicurezza in virtù della scoperta del fuoco edella fabbricazione di armi e di utensili, aifattori selettivi di natura ambientale si sostituì,secondo Lorenz, l’incidenza prevalente dellaconcorrenza intraspecifica. Questo stato di coseindirizzò il successivo cammino evolutivo dellarazza umana verso un incremento delle pulsioniaggressive a cui corrispose un ulteriore rapidoaccentuarsi della conflittualità fra gruppilimitrofi e la formazione parallela di una culturadella guerra33. In questo processo di rafforzamentodei comportamenti bellicosi, infatti, l’evoluzioneculturale dovette operare parallelamente, allaselezione genetica, sia in modo diretto, attraversol’esaltazione rituale dell’aggressività e laperpetuazione delle ‘virtù guerresche’tradizionali, sia indirettamente in conseguenza delcarattere fortemente esclusivo, di cui si è giàdetto, dei moduli comportamentali sviluppatiall’interno di ciascuna comunità.

32 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., pp. 122-6. Cfr. ancheK. Lorenz, L’altra faccia dello specchio, cit., pp. 319-23.

33 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., pp. 305-6.

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Così la carica di aggressività nell’uomo si èaccresciuta in misura assai maggiore rispetto aiprimati, raggiungendo, in taluni casi livelliinsostenibili. Lorenz, inoltre, ipotizza che pressoalcune comunità, esposte in particolar modo allaminaccia di attacchi da parte delle popolazioniconfinanti, l’aggressività si sia incrementataancor più rapidamente e intensamente, per effettodell’estrema pressione selettiva. A sostegno diquesta controversa conclusione Lorenz riporta glistudi condotti dallo psicanalista Sidney Margolinsugli Ute, una tribù indiana i cui appartenentisono afflitti in gran numero da nevrosiriconducibili all’ingorgo delle pulsioni aggressivee subiscono con frequenza condanne per criminiviolenti, anche se va detto che i dati forniti daMargolin sono stati interpretati diversamente daaltri psicanalisti, senza ricorrere a spiegazioniche, in qualche modo, siano strumentalizzabili inchiave razzista34. Abbiamo visto come, per Lorenz, l’aggressività

umana sia riconducibile alla duplice azione dellafilogenesi e dell’evoluzione culturale ed alprevalere della concorrenza intraspecifica sullaselezione operata dall’ambiente. Il processo che hacondotto al rafforzamento delle pulsioni aggressivesi è svolto entro una cornice ambientalecompletamente diversa da quella delle societàcontemporanee. L’aggressività nelle età

34 Ivi, pp. 306-7. Per quanto concerne gli approcci di tipogenetistico al problema dell’aggressività umana si può vedereR . P. Shaw, Y. Wong, Genetic Seeds of Warfare, Boston, UnwinHyman, 1989. La tesi di Shaw e Wong è che il nazionalismo, ilpatriottismo e le altre forme di propensione umana per laguerra rientrino tra le strategie messe in atto dal gruppogenetico per assicurare la propria sopravvivenza.

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preistoriche dell’evoluzione umana aveva un precisosignificato adattativo, collegato allaconflittualità fra tribù, significato che è deltutto venuto meno allorché l’uomo, divenutosedentario in seguito all’inizio dell’agricoltura eistituzionalizzata la proprietà privata, hacominciato a costituire comunità più vaste.Con l’aumento della popolazione le primitive

corti contadine sono divenute regni sempre piùestesi nei quali la conoscenza personale, cosìimportante per disinnescare gli istinti aggressivi,non è più possibile al di fuori di una cerchiaristretta. Nelle attuali società post-industrialiil fenomeno della spersonalizzazione dei rapportisociali è portato all’estremo, anche in conseguenzadelle enormi possibilità di spostarsi rapidamenteche competono all’uomo moderno. In questo contestoradicalmente trasformato l’aggressività è divenutaun pericoloso retaggio dell’evoluzione che deveessere tenuto costantemente sotto controllo dallamorale responsabile. Dissoltasi l’opposizione membri della tribù –

estranei, che definiva la classe dei possibilinemici contro i quali rivolgere l’istintoaggressivo, l’uomo moderno deve fare leva sulmeccanismo di compensazione della morale, suquell’unità sistemica di pulsioni istintive emoduli comportamentali filogeneticamente eculturalmente ritualizzati, per neutralizzare ilrischio di comportamenti antisociali35. Ad aggravarela situazione il progresso nella costruzione dellearmi consente oggi di uccidere altri esseri umaniimpedendo ogni contatto visivo, in maniera tale daprecludere l’attivazione dei meccanismi inibitori

35 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., pp. 314-21.

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e degli atteggiamenti di pacificazione. L’uomo chepreme il pulsante di innesco di un’arma a distanza,un missile o una bomba, è totalmente schermato dalpercepire emozionalmente le conseguenze del suoatto; per questo motivo riesce a condannare a mortemigliaia di persone senza che i meccanismiinibitori arrestino la sua mano36.Come ho già detto, le norme sociali, evolutesi

per ritualizzazione culturale rivestono un ruoloambivalente in rapporto alle dinamichedell’aggressività: da una parte esercitanoun’importante funzione di controllo degli istintiaggressivi, dall’altra, in virtù del loro carattereesclusivo, possono portare a conflitti fra culturediverse. In ogni caso, afferma Lorenz citandoArnold Gehlen, l’uomo è per natura un essereculturale: l’intero sistema delle sue attività ereazioni innate è costruito filogeneticamente inmodo da richiedere di essere completato dallatradizione culturale37. Anche i moduli dicomportamento sociale innati si trovano in un talerapporto di interazione con la tradizione che lacostituzione di comunità più vaste dei nucleifamiliari primitivi non sarebbe possibile senzal’elemento coesivo rappresentato dalla culturacomune, dalla sua preservazione e difesa. Ebbene,secondo Lorenz, nel nostro secolo, a causa deirapidissimi cambiamenti tecnologici e ambientali,si è verificata una pericolosa rottura dellacontinuità tradizionale. L’industrializzazionediffusa ed inarrestabile ha creato

36 Ivi, p. 305.37 Ivi, p. 326. Cfr. anche A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und

seine Stellung in der Welt, Wiesbaden, AkademischeVerlagsgesellschaft Athenaion, 1978, trad. it. L’uomo. La suanatura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983.

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un’insormontabile distanza tra le generazioni,ostacolando il processo di fissazione dei valori edelle norme sociali nei più giovani. Alla carenteinteriorizzazione dei contenuti trasmessi per viaculturale si aggiunge l’omologazione crescente, suscala planetaria, delle nuove usanze e tradizioni.Nella progressiva occidentalizzazione del mondo,infatti, è contenuto un pericolo incombente dalmomento che sopprimendo le differenze locali, essarischia di impedire l’insorgere di processicreativi38. La vena pessimistica e predicatoria di Lorenz,

accentuatasi nell’ultima parte della sua vita eculminata nel saggio Der Abbau des Menschlichen39, siaffaccia già nelle pagine conclusive di Das sogenannteBöse, in cui l’etologo austriaco descrive ilfenomeno dell’indottrinamento. Nella fase conclusivadell’adolescenza – sostiene Lorenz – i giovaniattraversano un periodo sensibile in cui avviene lafissazione dei valori culturali che, da quelmomento in poi, saranno sentiti come propri. Anchein questo caso alla base del fenomeno si situa unmeccanismo filogenetico, riscontrabile già neiprimati superiori, che in origine doveva presiedereallo scatenamento dell’aggressività collettiva infunzione di difesa del gruppo. Lorenz chiama questomeccanismo, che corrisponde alla sensazione

38 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., pp. 324-5.

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soggettiva del sentirsi percorsi da un ‘sacrobrivido’, entusiasmo militante40. L’entusiasmo militante ha come controparte

osservabile l’adozione di una postura di minacciain cui tutto il corpo viene teso e irrigidito,mentre il volto si atteggia ad un’espressione‘eroica’; una tale postura nei nostri antenatipreumani era accompagnata dall’erezione del pelo(da ciò il brivido lungo la schiena), che dovevafar apparire ancora più impressionante la figuradell’ominide41. L’entusiasmo collettivo di tipoaggressivo si è probabilmente evoluto a partire dauna reazione di difesa dell’unità sociale, e perquesto motivo comporta un azzeramento quasicompleto dei freni inibitori e delle funzioniregolatrici della morale responsabile; in ciòrisiede la sua pericolosità. Nell’uomo, infatti,l’attivazione dell’entusiasmo militante può esserecollegata, scomparsa l’esigenza di tutelarel’integrità del gruppo, alla difesa di quei valorie rituali culturalmente sviluppati che sono statifissati nel periodo post-adolescenziale.L’indottrinamento consiste esattamente in questoprocesso di fissazione. Servendosi del meccanismo

39 K. Lorenz, Der Abbau des Menchlichen, Piper, München 1983,trad. it. Il declino dell’uomo, Milano, Mondadori, 1984. Ilpessimismo di Lorenz però non è mai assoluto, non riesce maia sopprimere totalmente la fiducia – certa ìmenteprerazionale – nel progresso del genere umano. Per undiscussione di questi aspetti kantiani in Lorenz si vedaanche infra il paragrafo seguente.

40 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., pp. 328-36; cfr.anche K. Lorenz, Il declino dell’uomo, cit., pp. 152-60.

41 L’esistenza di una fase sensibile in cui si verifical’apprendimento delle norme etiche era già stata ipotizzatanel 1960 da Conrad H. Waddington in The Ethical Animal, London,Allen and Unwin, 1960.

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dell’entusiasmo militante – continua Lorenz – unabile demagogo, per mezzo di una propaganda mirata,può far leva su un’adesione prerazionale a certicontenuti tradizionali per accreditare unasoluzione violenta contro coloro che noncondividono quei contenuti. In questo modo, inpresenza di una situazione di inaridimento dellacontinuità tradizionale, possono instaurarsi lecondizioni propizie alla dittatura ideologica;l’ideologia, infatti, che consiste, secondo Lorenz,in una consapevole deformazione e polarizzazionedella tradizione, per il suo carattere semplificatoe tendenzialmente manicheo si presta naturalmente asuscitare una reazione emotiva di difesa.Come si è visto, la descrizione lorenziana delle

radici biologiche dell’aggressività dà corpo ad unavisione senz’altro cupa della ‘situazione attualedell’umanità’, a fronte della quale la‘dichiarazione di speranza’ con cui si conclude ilvolume appare quasi una clausola di stile, assoltasenza troppa convinzione. E’ certo che le ultimepagine di Das sogenannte Böse – in cui Lorenz introducealcuni “semplici precetti che possano servire damisure preventive contro i pericoli esposti” 42 –sono in più punti inficiate da un tonopaternalistico e predicatorio francamentefastidioso, e tuttavia anche fra queste righe sonoracchiuse osservazioni importanti.In estrema sintesi, si possono individuare

tre ‘precetti’: in primo luogo viene sottolineatal’importanza della ridirezione dell’aggressivitàche si opera per mezzo della ritualizzazione eparticolarmente di quella forma specificatamenteumana di ritualizzazione culturale che è lo sport43.

42 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., p. 340.

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Lo sport può esser definito, secondo Lorenz, “comeuna forma di combattimento non ostile governatadalle regole più severe che si siano sviluppateculturalmente”44. Lo sport non consente soltanto unosfogo catartico della pulsione aggressiva, mafornisce altresì una valvola di sicurezzaall’entusiasmo militante collettivo45. Inoltre, puòfavorire, e così veniamo al secondo punto, laconoscenza personale fra uomini di diverse nazionied etnie; una tale conoscenza, infatti, rappresentaun forte ostacolo all’aggressione in quanto azzerala distanza creata dalla pseudo-speciazione ecoltivata dalle ideologie, ricostruendo laconsapevolezza di una comune appartenenzabiologica, fondata sull’operatività di comunimeccanismi filogenetici.Infine, l’ultimo precetto riguarda la possibilità

di “dare un indirizzo all’entusiasmo militante, inaltre parole aiutare le nuove generazioni a trovarenel mondo moderno cause genuine che valga davverola pena di servire”46. Per Lorenz ci sono almeno“tre grandi imprese collettive del cui valoreultimo e assoluto nessun essere umano puòdubitare”47: l’arte, la scienza e la medicina.

43 Ivi, pp. 342-6.44 Ivi, p. 344.45 Non è necessario sottolineare come Lorenz si ingannasse

su questo punto. Lo sport, ben lungi dal divenire occasionedi scambio pacifico e di confronto, ricopre attualmente unruolo esattamente opposto. Le differenze tra fazioni sportivesembrano operare secondo il modello della pseudo-speciazionee le insegne delle squadre rivali costituiscono un segnalecapace di scatenare l’entusiasmo collettivo di tipoaggressivo. Su ciò cfr. R. G. Sipes, “War, Sports andAggression: An Empirical Test of Two Rival Theories”, AmericanAnthropologist, 75, 1973, pp. 64-8.

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L’affermazione di queste tre discipline, inoltre,può trovare un potente alleato, nella facoltà,tipicamente umana, dell’umorismo: l’ironia, il riso– ancora una ritualizzazione di un comportamentoaggressivo – hanno, infatti, un ruolo essenziale inquanto consentono di smascherare i falsi ideali48.

In conclusione, cercherò di presentare cinquepunti che compendiano i dati che ritengo essenzialiper l’indagine che mi sono proposto.

i) L’aggressività umana ha un’origine endogena. La sollecitazioneambientale interviene soltanto a scatenare l’impulso preesistente.

ii) L’aggressività costituisce un prodotto della filogenesi. Essa èfondamentalmente utile poiché rende possibile la coesione el’organizzazione gerarchica del gruppo nonché l’instaurarsi divincoli personali tra gli individui.

iii) Esistono meccanismi filogenetici di controllodell’aggressività.

iv) I pericoli dell’aggressività sono collegati alla discrepanza trale velocità dell’evoluzione biologica e di quella culturale. Letrasformazioni nell’ambiente determinate dal progresso, infatti,hanno neutralizzato quei meccanismi di controllo innati facendoricadere il peso del contenimento degli impulsi antisociali sull’unitàsistemica della morale responsabile e delle norme sociali di origineculturale.

v) L’effetto della ritualizzazione culturale è ambivalente. Da unaparte disciplina i comportamenti aggressivi verso i membri dellacomunità, dall’altra però incrementa la conflittualità contro coloro46 Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, cit., pp. 350-5. 47 Ivi, p. 350.48 Ivi, pp. 356-60.

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che appartengono ad una pseudo-specie culturale diversa e questotipo di conflittualità non è ricomponibile per mezzo dei meccanismibiologici di pacificazione.

3. L’etologia della guerra di Irenäus Eibl-Eibesfeldt

Irenäus Eibl-Eibesfeldt, allievo di Konrad Lorenz econtinuatore della sua opera, ha edificato sullebasi teoriche tracciate dal maestro una completatrattazione dell’etologia, sviluppando inparticolare l’analisi del comportamento umano efondando, nell’ambito della Max-Planck-Gesellschaft, il primo istituto di ricerca perl’etologia umana. A partire dagli anni sessantainoltre Eibl-Eibesfeldt ha affiancato agli impegniaccademici una intensissima attività di ricerca sulcampo, attraverso una lunga serie di spedizioniscientifiche condotte in Asia, Africa e Sud Americaper documentare usanze e rituali delle culturecosiddette ‘tribali’. Sono state in questo modoaccumulate informazioni di eccezionale valore,raccolte con grande scrupolo metodologico. Eibl-Eibesfeldt e i suoi collaboratori si servonoinfatti, per filmare i comportamenti che stannostudiando senza turbare i soggetti ripresi, di unoriginale espediente: una telecamera appositamentemodificata, sulla quale è stato montato unobbiettivo a specchio, così da nascondere la veradirezione in cui avviene la ripresa.Eibl-Eibesfeldt nel suo trattato sui fondamenti

dell’etologia e nel suo manuale di etologia umana49

ricollega l’evoluzione della socialità alla curadella prole, con ciò staccandosi nettamente da

49 I. Eibl-Eibesfeldt, I fondamenti dell’etologia, cit.; Id., DieBiologie des menschlichen Verhaltens. Grundriss der Humanethologie, München,Piper, 1984, trad. it. Etologia umana. Le basi biologiche e culturali delcomportamento, Torino, Bollati-Boringhieri, 1993.

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Lorenz, il quale, come abbiamo visto, riteneva che“non c’è amore senza aggressività”50. Per Eibl-Eibesfeldtl’evoluzione dei segnali tra genitori e figli,degli appelli infantili, dei moduli comportamentalidi assistenza, ha reso disponibili quegli schemimotori che permettono l’esistenza di un rapporto diamicizia-tenerezza anche fra adulti. Egli ipotizzache, attraverso un processo di ritualizzazionefilogenetica, alcuni degli schemi motori sviluppatinell’ambito delle cure parentali si siano residisponibili per nuove funzioni espressive, così dainibire la carica aggressiva spontanea che vienesollecitata dall’incontro con conspecificisconosciuti. In questo contesto esplicativo,l’origine del legame individualizzato, che Lorenzfaceva derivare dalla ridirezione dell’attacco, èriconducibile alla relazione madre-figlio ed èconseguenza dell’ampliarsi dello spazio di tempo incui la prole è strettamente dipendente dallamadre51. L’adozione di comportamenti derivati dalle cure

parentali ricorre in primo luogo nell’ambito delleinterazioni col partner, producendo l’effetto diconsolidare il vincolo tra i due soggetti: unesempio di questo genere di comportamenti ècostituito, nell’uomo, dal bacio, che trae originedalla ritualizzazione dell’atto di nutrirel’infante con una trasfusione di cibo da bocca abocca. D’altra parte, la presenza diritualizzazioni del comportamento infantile èattestata anche nella sfera degli atti disottomissione, come già aveva rilevato Lorenz.Invece, la funzione legante dell’aggressività, su

50 K. Lorenz, L’aggressività, cit., p. 275.51 Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana, cit., pp. 108-10.

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cui Lorenz si era soffermato, compare solo in unostadio evolutivo successivo, derivando dallapratica della difesa comune della famiglia. Indefinitiva, per Eibl-Eibesfeldt, l’ethos di grupponon è che un’estensione dell’ethos familiare: daquest’ultimo il primo dipende storicamente elogicamente52. Queste premesse concettuali influenzano

decisamente la risposta che Eibl-Eibesfeldtfornisce al problema che qui ci interessa, laspiegazione dell’aggressività umana. La visionegenerale che Eibl-Eibesfeldt ha della natura umanaè, infatti, assai più incline di quanto non fossequella del suo maestro, ad un moderato ottimismo ea una considerazione positiva delle capacitàdell’uomo di interagire pacificamente. Questaposizione è stata espressa in quello che èprobabilmente il testo più importante e discussonel dibattito etologico sull’aggressività dopo Dassogenannte Böse, il saggio The Biology of Peace and War,pubblicato nel 197953. In questa opera le intuizionidi Lorenz vengono vagliate criticamente e poste aconfronto con i risultati della ricerca sul campointorno alle condizioni di vita delle popolazioni‘primitive’. In primo luogo, Eibl-Eibesfeldt si preoccupa di

fornire una definizione rigorosa di aggressività:sono aggressivi tutti i moduli di comportamento che

52 Ivi, p. 109. La riconduzione dell’ethos di gruppo all’ethosfamiliare sottintende l’adesione ad un modello antropologicodel soggetto politico caratterizzato in senso naturalisticoed organicistico: per una discussione sulla portata diquesti echi di aristotelismo vedi infra il paragrafo seguente.

53 I. Eibl-Eibesfeldt, The Biology of Peace and War, London,Thames & Hudson, 1979, trad. it. Etologia della guerra, Torino,Bollati-Boringhieri, 1990.

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determinano la distribuzione spaziale dei membridella stessa specie o che portano al dominio di unmembro sull’altro (dunque, non solo i moduli diattacco veri e propri ma anche quei meccanismibasati sull’effetto improvviso di fortistimolazioni sensoriali come il canto territorialedegli uccelli)54. Inoltre, viene per la prima voltatematizzata con chiarezza la distinzione traaggressività interna al gruppo e aggressività tragruppi separati. Entrambe le forme di aggressivitàhanno radici biologiche ma nella seconda è lapseudo-speciazione culturale ad assumere lafunzione decisiva55.Per Eibl-Eibesfeldt l’incontro con i conspecifici

innesca naturalmente una reazione aggressiva cheviene tuttavia inibita dalla conoscenza personale.In questo modo l’aggressività in seno al gruppo puòessere controllata e neutralizzata attraverso imeccanismi elaborati dalla ritualizzazionefilogenetica e culturale, essenzialmente per mezzodei comportamenti di sottomissione e dipacificazione, nonché per l’intervento di individuigerarchicamente sovraordinati56. Questo genere diaggressività possiede, come si è visto, molteplici

54 Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., p. 40.55 Ivi, passim.56 Vale la pena di rilevare come la polarizzazione tra

aggressività interna al gruppo ed aggressività fra gruppidiversi comporti una limitazione all’efficacia di queimeccanismi ritualizzati volti a limitare la pericolositàdegli scontri intraspecifici: lo stesso Eibl-Eibesfeldtammette che presso gli animali sociali gli atteggiamenti disottomissione ed i segnali infantili sortiscono effetto solose diretti verso membri dello stesso gruppo, verso individuicioè, con i quali già sussiste un legame di conoscenzapersonale. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pp. 98-100.

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funzioni, collegate alla difesa del proprio ambitospaziale e dei propri beni, all’ordinamento internodel gruppo e alla reazione contro gli individuidevianti nell’aspetto o nel comportamento57.Nella guerra tra gruppi l’aggressività

intraspecifica innata gioca certo un ruoloessenziale ma a essa si sovrappone l’incidenza difattori di natura culturale – come l’adozione dicerti modelli educativi – che operano creando unadistanza tra gli appartenenti ai vari gruppi. Lapropaganda bellica, infatti, fa leva sull’innatareazione di difesa del gruppo familiare, attraversoil meccanismo, cui ho già fatto cenno,dell’entusiasmo militante; questa innata rispostadifensiva, preordinata in origine alla difesa dellafamiglia, può estendersi, come abbiamo visto, inseguito ad un processo di indottrinamento, alla difesadi una comunità più vasta e dei suoi simboli evalori. In questo modo la pulsione aggressiva versogli estranei può divenire assolutamentedistruttiva, al pari della lotta interspecifica. Laguerra, sostiene Eibl-Eibesfeldt, ha originiantichissime, praticamente coincidenti con l’iniziodella storia umana58 mentre non posseggono alcunfondamento le ricorrenti affermazioni secondo lequali l’aggressività sarebbe comparsa nell’uomoposteriormente alla nascita dell’agricoltura eall’abbandono del nomadismo a favore di uninsediamento stabile sul territorio. Le più anticheraffigurazioni di scene di battaglia, infatti, sitrovano già nelle pitture rupestri del Paleolitico,un’epoca in cui l’uomo viveva ancora di caccia e diraccolta. Inoltre, presso tutti i popoli

57 Ivi, pp. 85-111.58 Ivi, pp. 131-5.

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‘primitivi’, anche presso quelli che non praticanol’agricoltura come gli eschimesi, sonodocumentabili manifestazioni di aggressività eindizi di ritualizzazione delle pulsioniantisociali59. Tutto ciò induce a ritenere che la conflittualità

fra gruppi debba adempiere, almeno in origine, aduna qualche funzione. Eibl-Eibesfeldt sostiene chela guerra compaia come prodotto dell’evoluzioneculturale in risposta all’esigenza di operareun’allocazione dei beni e dei territori tra lecomunità limitrofe; la nascita della guerrasarebbe, in questo modo, connessa col prevaleredella selezione di gruppo sulla selezioneindividuale in seguito all’evoluzione culturale eall’aumento dell’integrazione sociale nei nostriantenati pre-umani60. La guerra è l’espressioneestrema della concorrenza tra comunità culturalidistinte e conduce alla selezione delle culture piùforti, in ciò consiste il suo profilo adattativo;parafrasando Von Clausewitz si può forse dire chela guerra non è che la continuazione – sul pianodell’evoluzione culturale – dell’evoluzionebiologica con altri mezzi.

59 Ivi, pp. 135-42.60 Ivi, pp. 174-92. Eibl-Eibesfeldt si serve qui dei

concetti introdotti dal biologo Ernst Mayr e della sua teoriagerarchica dell’evoluzione, incentrata sull’ipotesi chel’evoluzione operi su livelli differenti, agendo di volta involta sul singolo esemplare o sul gruppo. D’altra parte lostesso Mayr è recentemente giunto a conclusioni simili aquelle di Eibl-Eibesfeldt intorno alle attitudini aggressivedei nostri progenitori. Cfr. E. Mayr, This Is Biology: The Science ofthe Living World, Cambridge, Mass., Harvard University Press,1997, trad. it. Il modello biologico, Milano, McGraw-Hill Italia,1998, p. 199.

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Dalla comprensione delle cause ‘naturali’ dellaguerra, dal rifiuto a considerarla come unadegenerazione patologica dell’umanità, non segueperò che essa debba essere accettata e ritenutainevitabile; nell’uomo, del resto, è innato,insieme all’inibizione a uccidere i conspecifici,anche il desiderio della pace, tant’è vero che lenorme culturali che ingiungono di uccidere ilnemico fanno leva sulla sua disumanizzazione pervincere le resistenze della coscienza morale.Inoltre, è possibile documentare nella storiadell’umanità e nel patrimonio culturale dellepopolazioni tribali un gran numero di regoleelaborate per ritualizzazione concernenti le formein cui deve avvenire la dichiarazione di guerra ealla conduzione delle operazioni belliche, regoleche, nella tradizione occidentale, sono venute acostituire un vero e proprio jus speciale. Tutto ciòinduce a ritenere che anche nei rapporti tra gruppiumani sia in atto un’evoluzione verso forme diconflitto incruento. Un indice importante di questo processo evolutivo

è dato dal consolidarsi di rituali complessi per lastipulazione della pace, in parte basati susequenze comportamentali innate (riti consistentiin uno scambio di doni o nella consumazione di unpasto in comune), in parte su usanze culturali(come nel caso dell’intrecciarsi di vincolimatrimoniali tra le comunità che erano in guerra odell’interposizione di stranieri super partes inqualità di mediatori). Gli Tsembaga della NuovaGuinea, per esempio, solennizzano il consolidamentodella pace celebrando un gran numero di rituali,organizzati in una trama complessa e distribuiti inun arco di tempo di alcuni anni; in questo periodo

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si svolgono danze, avvengono scambi di maialiappositamente allevati e, da ultimo, si concludonomatrimoni tra le figlie dei vincitori ed i giovaniappartenenti alla tribù dei vinti61. Un altro genere di riti assai significativo è

rappresentato dalle cerimonie dirette allaconservazione della pace, come gli scambi di doniche vengono ripetuti, accompagnati da grandifesteggiamenti, a scadenze regolari dagli indigenidel monte Hagen, sempre in Nuova Guinea (ritualidel moka)62. Presso tutte le tradizioni, inoltre, laguerra è sentita come un male: la situazione diconflitto tra norme culturali che ingiungono losterminio del nemico e gli adattamenti filogeneticiche predispongono l’uomo alla socialità è vissutacon disagio. Di questa tensione irrisolta traimperativi biologici e culturali è un sintomoevidente l’esistenza di numerosi riti descritti daEibl-Eibesfeldt che presso vari popoli – ibellicosi Yanomami dell’America meridionale, adesempio – vengono celebrati a conclusione delleazioni di guerra; in queste cerimonie avviene unasorta di purificazione collettiva dei combattentiche hanno versato il sangue attraverso un lorotemporaneo allontanamento dalla comunità,accompagnata talvolta da pubbliche deprecazionidella guerra e professioni di pace per il futuro63.Per Eibl-Eibesfeldt, dunque, il patrimonio

pulsionale dell’uomo, la sua strutturamotivazionale, lo predispone efficacemente allaconvivenza pacifica nelle moderne società dimassa64. In ciò la sua opinione si distingue da

61 Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., pp. 212-5.

62 Ivi, pp. 218-9.63 Ivi, p. 196.

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quella di Lorenz, il quale, come abbiamo visto,riteneva che l’uomo fosse “buono ‘quanto basta’ peruna società di undici persone”65. Nell’uomo,infatti, la paura dell’estraneo, che può scatenarereazioni aggressive, non è mai disgiunta daldesiderio, conseguente alla sua organizzazionefamiliare, di instaurare rapporti amichevoli:“l’uomo possiede il senso della famiglia e,attraverso un’identificazione di simboli, è ingrado di considerare come sua famiglia l’interaumanità”66. In altri termini, è possibile far levasugli adattamenti sviluppati in funzione della vitain piccoli gruppi come la disposizioneall’ubbidienza verso i superiori gerarchici, lalealtà e la capacità di identificarsi con i membridel gruppo per rendere possibile la coesistenzaanche nelle moderne società industriali. Gioca afavore della convivenza pacifica, inoltre,l’esistenza dei meccanismi di ritualizzazione permezzo dei quali lo scontro armato viene reso menodistruttivo e quindi più tollerabile.Ipotizzare che sia storicamente in atto un

processo evolutivo operante sul piano culturalecapace di condurre ad una progressivaregolamentazione dell’attività bellica tuttavia, seda un lato istituisce una significativa simmetriatra evoluzione biologica e culturale, comporta altempo stesso che la domanda intorno allapossibilità di conseguire nel futuro una pace

64 Ivi, pp. 228 e ss.65 Cfr. K. Lorenz, Il declino dell’uomo, cit., p. 127. Undici,

come ricorda Lorenz, è il numero dei componenti di ciascunasquadra in molti sport, è quasi il numero che simboleggia lacomunità perfettamente coesa: come non ricordare che deidodici discepoli di Gesù solo undici gli furono fedeli ?

66 Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., p. 230.

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durevole venga a inserirsi in una prospettivainedita: per dare ad essa risposta è necessarioformulare una predizione sulle prossime tappe dellastessa evoluzione culturale. A questo propositoEibl-Eibesfeldt ritiene che sia necessarioconsiderare se le funzioni della guerra possanoessere espletate anche in assenza di essa.Pertanto, se la funzione principale cui la guerraha storicamente adempiuto è quella di allocare lerisorse vitali, selezionando le culture più‘evolute’ bisogna porre il problema se oggi questaallocazione sia operabile sulla base di unaprogrammazione razionale e attraverso qualistrumenti. L’opzione di Eibl-Eibesfeldt è a favore di un

potenziamento del diritto internazionale e delleorganizzazioni sovrastatuali in direzione di ungoverno mondiale su base federativa67. Un simileprogetto richiederebbe naturalmente l’istituzionedi “una forza di polizia internazionale dotata diun armamento moderno ma convenzionale e composta darappresentanti di tutti i paesi, sotto la cuiprotezione le grandi potenze potrebbero cominciarea smantellare i loro arsenali di armi”68; su questabase diventerebbe inoltre possibile attribuire laproprietà dei giacimenti di materie prime alleorganizzazioni internazionali e “sviluppare ilcommercio mondiale nel senso di un sistema didistribuzione cooperativo”69.All’implementazione di questo progetto

istituzionale dovrebbe fare da contraltare, nellasfera interna ai singoli Stati, l’incentivazione di

67 Ivi, pp. 234-6. Cfr. anche I. Eibl-Eibesfeldt, Etologiaumana, cit., pp. 407-10.

68 Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., p. 234.69 Ivi, p. 235.

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sistemi educativi mirati alla formazione di unatteggiamento tollerante e aperto alla diversitàculturale: la possibilità di conseguire questiobbiettivi dipende, secondo Eibl-Eibesfeldt, inbuona parte da come i mezzi di comunicazione dimassa sapranno porsi nei confronti delle minoranzee dei popoli stranieri e, in secondo luogo, dallacapacità delle tradizioni di mantenersi vitali,conservando il loro patrimonio di rituali – ritualicollegati alle feste, alle forme di saluto, alloscambio di doni – fondati sull’attivazione deimoduli di comportamento innati per la formazionedel vincolo di gruppo e degli appelli diacquietamento70. In definitiva, la prospettiva tracciata da

Irenäus Eibl-Eibesfeldt finisce, per esplicitaammissione dell’autore, col coincidere con unariproposizione del federalismo kantiano su basidiverse71; il federalismo, infatti, tanto nellastruttura interna dello Stato chenell’organizzazione dei rapporti sovrastatuali, inquanto realizza una bilanciata integrazione fraappartenenze comunitarie e diritti della tradizioneliberale, costituisce la migliore risposta alproblema della coesistenza fra etnie diverse. Inquesta maniera, allo stesso tempo, viene conseguitol’importante risultato di salvaguardare ilpluralismo strutturale delle società contemporanee.Nella forma di Stato federale Eibl-Eibesfeldt

sembra riconoscere un superamento del modello dello70 Ivi, pp. 239-40.71 I. Kant, Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf, (1795), in

Kants gesammelte Schriften, vol. VIII, Berlin und Leipzig,Deutschen Akademie der Wissenschaften, 1923, trad. it. Per lapace perpetua. Un progetto filosofico, in G. Bedeschi (a cura di), Ilpensiero politico di Kant, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 153-200.

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Stato nazionale affermatosi nel secolo scorso, unnuovo prodotto dell’incessante lavorodell’evoluzione culturale che si viene a collocaread un più alto livello di rispondenza adattativarispetto all’ambiente. Il segno distintivo delprogetto federale è dato dalla sostituzione, sulpiano dei valori ideologici soggiacenti, “delnazionalismo tradizionale, con caratteristiche diarroganza e di durezza, con un patriottismoliberale che unisca il riconoscimento e la tuteladel proprio Stato e della propria cultura con lastima e il rispetto di quelli altrui”72. Questa osservazione può suggerire un ulteriore

punto di contatto fra il federalismo di Eibl-Eibesfeldt e l’originale formulazione kantiana. Ilpacifismo giuridico di Kant non è separabile dallasottostante visione teleologica del divenirestorico. E’ la fiducia metafisica nel progresso delgenere umano che alimenta nel filosofo diKönigsberg la speranza della pace perpetua.Quest’ultima, se non fosse garantita dalla segretaprovvidenza che guida nascostamente il camminodella storia – come immagina Kant – , sarebbe anzicompletamente gratuita. In maniera non troppodissimile da Kant anche Eibl-Eibesfeldt (come giàLorenz) è portato a ipostatizzare le dinamicheevolutive, pur predicandone l’imprevedibilità el’assenza di finalismo. In altri termini,l’evoluzione, sia quella biologica che la suacontroparte culturale, è vista costantemente – incontrasto con il quadro teorico del darwinismo –come un processo cognitivo in cui le modificazioniapportano nuove informazioni sull’ambiente. Aquesto proposito, credo che si debba ammettere che

72 Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana, cit., p. 410.

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questo orientamento di fondo è comprensibile solose si considera l’idea di progresso come parte diuna ‘metafisica influente’ nell’accezione usata daJohn Watkins73. La fiducia che Eibl-Eibesfeldtripone nella capacità della cultura umana diprodurre nuove ritualizzazioni, idonee adisciplinare il patrimonio pulsionale dell’animale-uomo, va dunque valutata come adesione ad unaconcezione metafisica della storia e del progressodell’umanità74. Come si è visto, mentre le comunità più ridotte

sono legate dalla conoscenza personale,l’identificazione dei componenti di una societàformata da milioni di persone nella strutturastatuale è possibile solo se mediata da simboli evalori comuni: questa esigenza, fondata su quegliadattamenti filogenetici che sono alla base dellaspontanea costituzione e differenziazione deigruppi, può essere soddisfatta solo entro lacornice di un organismo statuale che riconosca unospazio autonomo alle diverse componenti etniche. Inmodo particolare, l’edificazione di forme digoverno federali sarebbe fortemente auspicabile in

73 Cfr. J.W.N. Watkins, “Confirmable and InfluentialMetaphysics”, Mind, 67, 1958, pp. 344-65.

74 Forse la chiave per superare quest’impasse è racchiusanell’investimento nel concetto di complessità enell’elaborazione di paradigmi evolutivi post-darwiniani cheintegrino la selezione naturale con la teoria dei sistemi.Questa possibilità è stata esplorata dal genetista Stuart A.Kauffman che ipotizza una freccia del tempo forte, orientatain direzione della complessità crescente, e l’insorgere diprocessi autoorganizzativi nei sistemi biologici. Su ciò siveda: S.A. Kauffman, The Origins of Order: Self-organization and Selectionin Evolution, New York, Oxford University Press, 1993; Id.,Investigations, New York, Oxford University Press, 2000, trad.it. Esplorazioni evolutive, Torino, Einaudi, 2005.

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vista della risoluzione dei conflitti etnici chehanno luogo nel continente africano; in rapporto aquesti eventi, la scelta operata dagli Statioccidentali di appoggiare una delle etnie coinvolterisulta per lo più arbitraria, dal momento che ireciproci antagonismi comportano intolleranze epersecuzioni da ciascuna parte. Ad esempio, nelcaso della Namibia, il sostegno fornito da partedella Comunità Europea alla fine degli anniottanta al leader del gruppo etnico Ovambo, SamNujoma, incaricato successivamente di guidare ilnascente Stato namibiano ha rappresentatoprobabilmente una presa di posizione indebita eimmotivata entro un contesto caratterizzato da unesasperato pluralismo75.Un ultimo dato è necessario porre in evidenza:

Eibl-Eibesfeldt sottolinea come la disponibilitàdei singoli ad una solidarietà di portata mondialerichieda la precondizione di un inserimento in

75 Nel 1966, in seguito alla revoca da parte dell’ONU delmandato al Sudafrica ad amministrare il territorio namibiano,ebbe inizio un periodo di guerriglia indipendentistaprotrattosi fino al 1990. In questa fase, le operazionibelliche furono condotte soprattutto dall’Organizzazione delPopolo dell’Africa del Sud-Ovest (SWAPO), rappresentativadell’etnia Ovambo. Le rivendicazioni avanzate dalla SWAPOricevettero l’appoggio degli Stati europei, saldamenteschierati contro la politica imperialista e razzista delgoverno sudafricano. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che imilitari della SWAPO, guidati da Sam Nujoma, futuropresidente della Namibia, si macchiarono di gravi crimini,documentati dalla Società internazionale per i diritti umanidi Francoforte, nei confronti degli appartenenti ad altrigruppi etnici residenti sul territorio namibiano. Leriflessioni sulla situazione politica nel continente africanosono contenute in I. Eibl-Eibesfeldt, Der Mensch - das riskierteWesen, München, Piper, 1988, trad. it. L’uomo a rischio, Torino,Bollati-Boringhieri, 1992.

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comunità minori da parte di ciascun individuo.Entro la disposizione concentrica delleappartenenze una identificazione simbolica con lacomunità più vasta, quella che ci comprende inquanto membri della stessa specie biologica,diviene possibile solo se è già attivo ilradicamento in una sfera inferiore, in cui illegame operi ad un livello personale e diretto76.

4. Sviluppi più recenti

Nel maggio del 1986 si tenne a Siviglia, periniziativa dell’antropologo messicano SantiagoGenovés e di David Adams, della InternationalSociety for Research on Aggression, un importanteconvegno intorno ai temi dell’aggressività e dellaguerra. Alla conclusione dei lavori fu redatto undocumento, la Dichiarazione di Siviglia sullaviolenza, firmato da venti studiosi provenienti dadodici differenti paesi, il cui scopo dichiaratoera quello di “sfidare un certo numero di presuntescoperte che sono state usate per giustificare laviolenza e la guerra”. Il tenore delle affermazioni contenute nella

Dichiarazione di Siviglia lascia supporre che gliestensori del documento, in massima partepsicologi, medici ed etologi, avessero di mira comeobbiettivo polemico una certa versione della teorialorenziana dell’aggressività, accusata dirappresentare una forma di pessimismo biologico checondanna inesorabilmente l’uomo alla guerra. NellaDichiarazione si legge infatti che:

E’ scientificamente scorretto sostenere che abbiamoereditato una tendenza a fare la guerra dai nostriantenati preumani. (...)

76 Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana, cit., p. 410.

50

E’ scientificamente scorretto sostenere che laguerra o qualsiasi altro comportamento violento ègeneticamente programmato nella natura umana. (...)

E’ scientificamente scorretto sostenere che nelcorso dell’evoluzione umana si è verificata una maggiorselezione in favore dei comportamenti aggressivi che deglialtri comportamenti. (...) La violenza non è né nellanostra eredità evolutiva né nei nostri geni.77.

I contributi di alcuni degli studiosi che avevanopreso parte al convegno di Siviglia sono stati inseguito raccolti, nel 1989, in un volume, a curadello psicologo Jo Groebel e dell’etologo Robert A.Hinde, improntato ad una severa, quantunquetalvolta aprioristica critica delle posizioniespresse da Lorenz78. L’impressione che si ricavadalla lettura è che la natura delle censure mosse aLorenz sia piuttosto ideologica che scientifica,provenendo per lo più da autori che dimostrano dipossedere una conoscenza alquanto sommaria deilavori dell’etologo austriaco. A Lorenz viene, adesempio diffusamente attribuita l’affermazionesecondo la quale, poiché i nostri progenitori eranoesseri aggressivi, allora anche gli uomini devonocomportarsi aggressivamente79. Lorenz, tuttavia, non

77 Il testo della Dichiarazione di Siviglia sulla violenzaè riportato in J. Groebel, R. A. Hinde (a cura di), Aggressionand War. Their Biological and Social Bases, Cambridge, CambridgeUniversity Press, 1989, pp. XIII-XVI.

78 J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit.Singolarmente Eibl-Eibesfeldt non viene nemmeno citato,nonostante sia l’autore dell’unico trattato disponibile nelcampo dell’etologia umana, in cui, come si è visto, sviluppale teorie lorenziane, liberandole dalla loro primitivarigidità e sviluppandole in una costruzione teorica organicae coerente.

79 Cfr. ad esempio J. H. Goldstein, “Beliefs about humanaggression”, in J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit.,p. 12.

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ha mai sostenuto che esista qualcosa come unprogramma genetico che obblighi irresistibilmenteal comportamento aggressivo: l’aggressività è sìuna pulsione endogena, ma non è assolutamente unfattore che governa in maniera invincibile ilnostro modo di agire80. Un’obiezione più fondata è mossa da Felicity Ann

Huntingford e da Seymour Feshbach, i quali sisoffermano sul modo in cui Lorenz concettualizzal’aggressività, interpretandola come un principiointerno che si accumula spontaneamente fino aquando non trova sbocco nell’azione. Feshbach inparticolare sottolinea acutamente la contiguità trail modello esplicativo lorenziano e la visionefreudiana dell’interiorità come sede diincontenibili energie pulsionali: ciò che avvicinaLorenz a Freud è certamente il ricorso, comune adentrambi, ad immagini che traducono i processipsichici in un linguaggio mutuato dalle scienzefisiche. Questo dato è particolarmente evidenteproprio in rapporto al modello ‘psico-idraulico’ dispiegazione dell’aggressività – l’interpretazionedell’aggressività come una pulsione che si accumulacostantemente sino a rompere gli argini – in cui siesprime con chiarezza la tendenza di Lorenz aconcepire l’istinto, non diversamente da Freud,

80 D’altra parte, Patrick Bateson e Aubrey Manningaffermano con chiarezza che il corredo genetico influenzadecisamente il livello di aggressività. Manning, inparticolare, ritiene che la presenza di un moderato livellodi aggressività abbia rappresentato, presso i nostriprogenitori un carattere distintivo capace di accrescere lafitness globale degli individui che ne erano provvisti. Su ciòcfr. P. Bateson, “Is aggression instinctive ?”, in J.Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit., pp. 35-47; A.Manning, “The genetic bases of aggression”, in J. Groebel,R.A. Hinde, Aggression and War, cit., pp. 48-57.

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come un principio energetico incapace dimodificarsi in relazione alle circostanzeambientali. Le opinioni attuali sulla natura dell’istinto

sono senza dubbio ben diverse da quelle a suotempo sostenute da Lorenz: le versioni piùaggiornate della teoria dell’istinto, infatti,insistono a buon diritto sulle possibilità diintegrazione tra innato e appreso e sullamodificabilità dei patterns di comportamento acquisitiereditariamente81. D’altra parte, già Eibl-Eibesfeldt aveva apportato al concetto lorenzianodi istinto delle correzioni importanti,contribuendo ad una definizione più sfumata e menodogmatica, senza che peraltro venisse intaccata lasua visione complessiva dei problemidell’aggressività e della guerra82. In definitiva, non mi sembra che nel dibattito

etologico posteriore all’uscita di The Biology of Peaceand War siano emersi contributi di tale portata daconfigurare una reale alternativa alla propostateorica di Lorenz e Eibl-Eibesfeldt; è accadutoinvece che il quadro concettuale delineatodall’allievo di Lorenz abbia trovato indiretteconferme nei lavori di studiosi della generazioneposteriore i quali, partendo dalla ricerca in unsettore specifico, sono pervenuti a considerazionidi più vasto raggio. E’ questo il caso, ad esempio,

81 Cfr. F.A. Huntingford, “Animals fight, but do not makewar”, in J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit., pp.25-34; S. Feshbach, “The bases and development of individualaggression”, in J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War,cit., pp. 78-90. Ma si veda anche N. Tinbergen, Lo studiodell’istinto, cit.

82 Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, I fondamenti dell’etologia, cit., pp.43-4, 103-6.

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dell’opera di Frans de Waal, primatologo olandeseche ha conseguito negli ultimi anni una notevolepopolarità grazie ai suoi studi sul comportamentodelle scimmie antropomorfe. Nei suoi lavori de Waal ha approfondito

particolarmente il tema delle tecniche dipeacemaking attuate dalle varie specie di primati,giungendo alla conclusione che la propensione alcomportamento aggressivo e la tendenza aripristinare la pace sono tra loro intimamentelegate, sino a formare una profonda unitàfunzionale83. Le scimmie antropomorfe più evolutecome lo scimpanzé pigmeo, o bonobo (pan paniscus) – inassoluto la specie animale che possiede la maggioreaffinità con l’uomo a livello genetico84 –, sonoprovviste di una notevole aggressività che simanifesta soprattutto nei combattimenti fra imaschi all’interno del gruppo. Ma una volta che lacarica aggressiva si è esaurita sono ugualmentepronte alla riconciliazione, nel corso della qualevengono messi in atto rituali di pacificazionecomplessi e diversificati. E in questi rituali laridirezione dei moduli di comportamento derivatidalla sfera sessuale gioca un ruolo determinante.

83 Su ciò si veda F. de Waal, Peacemaking among Primates,Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1989, trad. it.Far la pace tra le scimmie, Milano, Rizzoli, 1990; Id., Naturalmentebuoni, cit.; F. de Waal et al., Primates and Philosophers, Princeton,Princeton University Press, 2006, trad. it. Primati e filosofi,Milano, Garzanti, 2008.

84 Studi recenti hanno messo in luce come il bonobocondivida con l’uomo un frammento di DNA assente nelloscimpanzé che è stato messo in relazione con il comportamentosociale. Cfr. E.A.D. Hammock, L.J. Young, “MicrosatelliteInstability Genrates Diversties in Brain and SociobehaviouralTraits”, Science, 308, 2005, pp. 1630-4.

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La conclusione di de Waal è che l’aggressività èparte integrante dei rapporti sociali: “essa nasceal loro interno e ne sovverte le dinamiche, e isuoi effetti nocivi possono essere neutralizzatimediante un contatto tranquillizzante”85. Percomprendere le cause dei comportamenti violenti èinutile postulare un’accumulazione di energiapulsionale: basta considerare il significatosociale che questi rivestono, il modo in cui lavita della comunità viene condizionata dalleaggressioni e dalle riconciliazioni. In questo modode Waal sembra recuperare l’intuizione di Lorenz,che collegava l’instaurarsi di vincoli individualiall’aggressività86. Ma al tempo stesso laspiegazione complessiva dell’etologo olandeseconferma anche l’ipotesi di Eibl-Eibesfeldt che lapresenza di legami tra adulti sia resa possibiledalla ritualizzazione degli schemi motori evolutisinell’ambito delle cure parentali, dal momento che icomportamenti di pacificazione si basano propriosull’impiego di gesti derivati dal rapporto madre-figlio oppure, nel caso del bonobo, dalcomportamento riproduttivo.La ricca documentazione fornita da de Waal

suggerisce una considerazione olistica del sistemacomportamentale che viene istituito dallapolarizzazione tra tendenze aggressive e necessitàdi riconciliazione. Aggressione e pacificazioneappaiono strettamente legate, due modelli dicomportamento che nella reciproca interrelazioneassolvono il compito di coordinare l’attività delgruppo e, in definitiva, di stabilire i confini trala sfera interna e quella esterna alla comunità.

85 Cfr. F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., p. 212.86 Cfr. F. de Waal et al., Primati e filosofi, cit., pp. 79-80.

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Nei rapporti tra i diversi gruppi vige infattipresso i primati un’aperta conflittualità, che nonpuò essere inibita dai rituali di pacificazione –che richiedono, per operare efficacemente, lapreesistenza di una conoscenza personale el’inserimento in una ‘tradizione culturale’ comune87

– e che può portare in molti casi, diversamente daquanto si credeva sino a non molti anni addietro,all’uccisione di membri dei gruppi rivali88.Come si vede, i risultati che emergono dalle

ricerche di de Waal confermano in larga misura ilquadro concettuale tracciato da Eibl-Eibesfeldt,facendo della guerra un fenomeno complesso in cuiun ruolo preponderante viene giocato dalletradizioni culturali e dai processi diriconoscimento-disconoscimento che da esse sonoinnescati. Tuttavia, la frattura creata dallebarriere culturali non è invalicabile poiché essesono soggette a revisione e a modifica e possonovenire deformate per consentire la fusione dicomunità diverse tra le quali si sia stabilita unaconoscenza diretta. L’esistenza di contatti faccia-a-faccia ha il potere, attivando l’operatività deimeccanismi innati di sottomissione, di bruciare ladistanza generata dalla pseudo-speciazioneculturale, innescando il riconoscimento

87 Già i primati superiori possiedono delle tradizioni,cioè delle usanze costanti, tipiche di una comunitàristretta, che si formano in conseguenza della ‘scoperta’ diun singolo individuo e vengono successivamente apprese perimitazione dagli altri membri del gruppo, tramandandosi cosìalle nuove generazioni.

88 Addirittura, de Waal riferisce dell’osservazione di veree proprie spedizioni condotte da scimpanzé maschi neiterritori limitrofi al fine di uccidere gli esemplaridominanti dei gruppi rivali. Su ciò si veda F. de Waal,Naturalmente buoni, cit., p. 45.

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dell’appartenenza ad un’identica specie biologica89.Su queste basi diviene forse possibile impostareuna strategia efficace per fronteggiare la minacciadella guerra e costruire le premesse per unavvicinamento tra le nazioni.

Per concludere vorrei ritornare sui cinquepunti che avevo enunciato al termine delladiscussione della teoria lorenzianadell’aggressività, in modo da presentare un quadrosintetico che tenga conto delle acquisizioni piùrecenti.

i) L’aggressività – affermava il primo punto – haun’origine endogena. Tuttavia, mentre Lorenz, in accordo alla suaversione della teoria dell’istinto, sottovalutava la possibilità che icomportamenti innati si modifichino in relazione alle situazioniambientali, attualmente si tende a privilegiare un concetto di istintopiù sfumato che restituisca gli aspetti relazionali dell’aggressività ela sua plasticità adattativa.

ii) Il secondo punto sottolineava che l’aggressività è unprodotto dell’evoluzione e come tale deve essere provvisto di unasua intrinseca funzionalità. Lorenz aveva sostenuto che il profilofunzionale del comportamento aggressivo va visto nella sua

89 De Waal ricorda che ”l’esperienza accumulata negliultimi due decenni in zoo organizzati secondo criteri diavanguardia (...) ha dimostrato che gli scimpanzé imparanopresto a vivere un’esistenza sana, sia fisicamente chesocialmente, in grande colonie in cattività, anche se questasituazione comporta l’abbandono della possibilità dipraticare la fusione e al successiva divisione dei gruppi”.In queste condizioni, per fronteggiare il rischio che lasovrappopolazione scateni lotte mortali la vita di gruppoviene considerevolmente intensificata, aumentando il tempodedicato al grooming reciproco e le spartizioni di cibo. Cfr.F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., pp. 217 e ss.

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capacità di accrescere la coesione del gruppo. Eibl-Eibesfeldt,invece, ha affermato che l’aggressività si è evoluta per consentireuna distribuzione efficiente sul territorio. De Waal, a sua volta, hain una certa misura recuperato la tesi di Lorenz, poiché nei suoilavori collega le manifestazioni di aggressività in seno al gruppoall’organizzazione della comunità.

iii) Nel terzo punto si stabiliva l’esistenza di meccanismifilogenetici di controllo dell’aggressività. In relazione a questoargomento non è necessario aggiungere ulteriori osservazioni.

iv) Un altro tema centrale nella teoria lorenzianadell’aggressività è quello della discrepanza tra le velocitàdell’evoluzione biologica e dell’evoluzione culturale. La rapiditàdell’evoluzione culturale, infatti, può generare un contrasto fra glischemi di comportamento innati e le norme sociali originatesi permezzo della ritualizzazione culturale. Questo aspetto è statoapprofondito, come si è visto, soprattutto da Eibl-Eibesfeldt, il qualeperaltro ha confermato nella sostanza le conclusioni di Lorenz,supportandole con un’abbondante documentazione etnologica.

v) L’ultimo punto introduceva la questione centrale in rapporto altema che mi sono proposto di svolgere. Lorenz e Eibl-Eibesfeldthanno sostenuto che alla base delle guerre si situa il fenomenodella pseudo-speciazione, l’opposizione tra gruppi che sonocaratterizzati da tradizioni culturali diverse. Sotto questo aspetto,l’evoluzione culturale replica quella biologica: nello stesso modo incui l’aggressività intraspecifica è funzionale – in base all’ipotesi diEibl-Eibesfeldt – alla distribuzione degli individui sul territorio,così la guerra permette – e in ciò va visto il suo profilo adattativo –un’allocazione ottimale delle risorse scarse tra le varie popolazioni.

5. Etologia e politica

Quali insegnamenti trarre dalla ricerca etologica ?L’esame dell’opera di Eibl-Eibesfeldt induce alcune

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riflessioni capaci di ribaltare, a mio avviso,taluni nessi accettati acriticamente e, al tempostesso, di introdurre un ripensamento intorno adimportanti categorie politiche. Come si è visto, il problema della guerra non è

legato univocamente alla carica pulsionaleaggressiva ma viene piuttosto a collocarsi nelpunto in cui si intersecano adattamentifilogenetici e sovrastrutture culturali.90 La guerranasce dalla diversificazione delle pseudo-specie eaffonda le sue radici tanto nell’istintivadiffidenza verso l’estraneo quanto nellealtrettanto innate propensioni alla socialità, allacooperazione con i membri del gruppo eall’obbedienza disciplinata ai comandi di un leader.D’altra parte, la predisposizione al comportamentocooperativo è segnata, nel momento stesso della suaremota genesi presso i nostri antenati pre-umani,da un sigillo di esclusività in relazioneall’appartenenza dell’individuo ad un gruppodeterminato, potenzialmente ostile verso lecomunità circostanti. Come ha sostenuto Frans deWaal infatti, cooperazione e aggressività sonocostitutivamente intrecciate, essendosi lasocialità, e quindi la cultura, evolute comeconseguenza della pratica della caccia91. Si affaccia dunque un nodo problematico di

grande spessore, potenzialmente capace, ritengo, di

90 Senza dimenticare che, almeno dopo la nascita delloStato moderno, molte guerre sono state decise a tavolino,come strumento per perseguire razionalmente una certapolitica. Cfr., per un’obiezione a Eibl-Eibesfeldt su questopunto, P.R. Ehrlich, Human Natures: Genes, Cultures, and the HumanProspect, Washington, Island Press, 2000, trad. it. Le natureumane. Geni, culture e prospettive, Torino, Codice, 2005, pp. 259 e ss.

91 Cfr. F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., pp. 187-9.

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ripercuotersi sui modelli tradizionalidell’associarsi politico. Vorrei tentare diesplorare il tema, infatti, del modo in cui lariflessione etologica possa indurre un ripensamentointorno al rapporto tra il paradigma aristotelico-scolastico della polis come comunità di natura, el’individualismo liberale moderno. Nella ricostruzione della biologia

evoluzionistica la genesi della comunità èconnotata da caratteri non dissimili da quelli chead essa attribuisce Aristotele nella Politica:l’associarsi dell’uomo in comunità non è visto comeun dato problematico bensì come un prodottoassolutamente naturale delle dinamiche evolutive,affermatosi in ragione del suo valore adattativo.L’uomo, non diversamente dagli altri primatisuperiori, è geneticamente predisposto alla vitasociale e tende spontaneamente alla formazione digruppi organizzati, i quali, nella lorostrutturazione interna, poggiano sull’estensionedei legami familiari ad una sfera di individui piùvasta. L’adozione del paradigma darwiniano sembrapertanto ripristinare il peculiare naturalismo edorganicismo aristotelici, in parziale coerenza conquegli approcci moderni che si caratterizzano comecomunitari92. Tuttavia, come è stato ampiamente discusso, la

propensione alla socialità trova un limite nellatendenza alla contrapposizione tra comunitàlimitrofe che hanno sviluppato sistemi culturaliindipendenti. L’associarsi degli uomini, quandodalla comunità ristretta, legata da vincoli diconoscenza diretta, si passa alla societàorganizzata, formata da svariati milioni dipersone, non è dunque un mero prodotto naturale, in

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quanto tale aproblematico, bensì consiste in unacreazione artificiale in cui trovano posto,strettamente intrecciati, pre-adattamenti biologicied elementi, ascrivibili alla sfera culturale. Inquesto senso la costruzione statuale rappresentaveramente, come riconosce anche Eibl-Eibesfeldt,una struttura che si sovrappone, in virtù didispositivi culturalmente ritualizzati, allepredisposizioni innate. La nascita dello Stato moderno costituisce un

evento sicuramente non naturale; non è il prodottodi una spontanea accumulazione di comunità minorima il frutto della violenza esercitata da un grupposugli altri e rivestita successivamente dai simboliculturali che dovrebbero consentirel’identificazione di tutti gli individui conl’organismo statuale. Lo Stato però rimane soggettoalla minaccia di una nuova esplosione di violenza,al riaccendersi delle ostilità tra le parti che sisono scontrate al momento della sua fondazione. Lapace, la sicurezza e la giustizia che lo Stato siincarica di garantire sono perpetuamente insidiate,come scrive Michel Foucault, dalla guerra chenascostamente “continua ad infuriare all’interno ditutti i meccanismi di potere”93.

92 Cfr. F. de Waal et al., Primati e filosofi, cit., pp. 23 e ss. Unaltro aspetto di tensione riguarda il modello antropologicosottostante. Mentre infatti il liberalismo sembrasottoscrivere una teoria gerarchico-dualistica del sogettopolitico – cfr. E. Santoro, Autonomia individuale, libertà e diritti. Unacritica dell’antropologia liberale, Pisa, ETS, 1999 – dalla ricercaetologica emerge una visione “continuista” del soggetto, incui, per esempio, le propensioni più elevate alla socialità ea ricambiare i favori ricevuti poggiano su uno stratorisalente di meccanismi empatici più semplici e piùimmediati. Cfr. Cfr. F. de Waal et al., Primati e filosofi, cit., pp.60-5.

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Si potrebbe essere portati a credere che lanatura fondante della guerra rispetto al poterepolitico e alla pace sia stata colta in primo luogodal modello contrattualistico hobbesiano. La guerradi cui parla Hobbes non è però una guerra reale,effettivamente combattuta, è soltanto unapossibilità logica di guerra, la proiezione delmodello antropologico elaborato dal filosofoinglese. La conflittualità insanabile checontraddistingue lo stato di natura è conseguenzadell’intrecciarsi di tre fattori: 1) l’illimitato desiderio di potere che sollecita

sempre nuove acquisizioni ; 2) la sostanziale uguaglianza tra gli individui

che impedisce il formarsi di un ordine stabilefondato sulla signoria del più forte ; 3) la difformità dei giudizi e delle passioni

che preclude la possibilità della percezione diun’identità comune94. L’individuo hobbesiano si risolve al contratto

sulla base della rappresentazione dei rapporti diforza tra i diversi soggetti, tutti ugualmenteanimati da una volontà acquisitiva illimitata. Inquesto contesto il potere politico si inserisce

93 Cfr. M. Foucault, “Il faut défendre la société”, Paris, Seuil-Gallimard, 1997, trad. it. “Bisogna difendere la società”, Milano,Feltrinelli, 1998, pp. 48 e ss. Foucault sostiene che dietrol’ordine e la pace e dietro l’immagine dello Stato comeorganismo gerarchicamente ordinato diffusa dai filosofi dellapolitica come Hobbes la società nasconda una strutturabinaria, in cui si fronteggiano due categorie di individui.Secondo Foucault, inoltre, la guerra che oppone questi duegruppi è in realtà “la guerra delle razze” che, attraversovarie forme di scontro sociale, si riproduce e si propaga neisecoli.

94 Cfr. D. D’Andrea, Prometeo e Ulisse, Roma, La Nuova ItaliaScientifica, 1997, pp. 113 e ss.

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pertanto come una costruzione artificiale cheprocede dal basso, dalla volontà concorde degliindividui, mossa dalla paura, senza che possanoincidere le contingenze della storia95. Hobbes, quindi, elimina dalla propria

interpretazione della genesi dello Stato ilriferimento alla guerra come evento storico persostituirvi una disposizione naturale alla guerrache non arriva mai a tradursi in un conflittoreale. Il risultato dell’operazione condotta dalfilosofo inglese consiste così nellaneutralizzazione del processo di costituzione dellasovranità rispetto alla concretezza delle vicendestoriche96. Il prezzo che Hobbes si trova però adover pagare per seguire la sua strategia diretta afondare lo Stato su basi razionali, consistenell’adozione di un modello antropologico che negala possibilità della formazione nello stato dinatura di comunità legate da un vincolo diverso daun pactum subjectionis. Hobbes, per dimostrare la necessità di affidarsi

a un potere sovrano, è portato a enfatizzare ilcarattere soggettivo delle passioni e dei giudizi,in modo da rendere impossibile la formazione di

95 Cfr. T. Hobbes, Leviathan (1651), Harmondsworth, Penguin,1968, cap. XIII, trad. it. Leviatano, Firenze, La Nuova Italia,1976, pp. 117 e ss.

96 Su ciò cfr. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit.,pp. 83-6. L’analisi di Foucault è volta a dimostrare che ledue diverse forme di sovranità considerate da Hobbes, lasovranità di istituzione e la sovranità di acquisizione,benché traggano origine, l’una dal contratto con cui si escedallo stato di natura, l’altra da una vera guerra, non sidifferenziano sostanzialmente dal momento che in entrambel’elemento qualitativamente indispensabile è rappresentatodalla volontà radicale dei sudditi che riconoscono, spintidalla paura, l’autorità del sovrano.

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un’identità di gruppo che funga da legante anche inassenza di strutture di potere. Ma, come ho cercatodi chiarire, l’etologia ha descritto l’uomo come unessere essenzialmente socievole, portatonaturalmente alla vita in gruppo; inoltre, lericerche condotte nei vari settori della biologiaevoluzionistica hanno messo in risalto come lastessa costituzione psico-fisica dell’uomo, le sueattitudini e le sue capacità attuali dipendano inlarga misura dal suo essere un ‘animale sociale’97.Per questi motivi ritengo che la ricostruzioneantropologica hobbesiana vada vista come unaconsapevole deformazione della natura umanamotivata dall’esigenza di perseguire un precisodisegno teorico-politico. D’altra parte, bisogna tenere presente che la

lezione di Hobbes ha condizionato in manieradecisiva la riflessione politica successiva e, inprimo luogo, l’analisi della politicainternazionale. Questa influenza è particolarmenteevidente, ad esempio, nel capostipite del realismointernazionalistico moderno, Hans Morgenthau, chein Politics Among Nations assume come categoriaesplicativa il concetto di potere, sulla base delpostulato che l’uomo è mosso costantemente dallaricerca del potere98, ma già in Ranke, Treitsche enegli altri teorici ottocenteschi della politica dipotenza l’eredità di Hobbes era chiaramente

97 Per esempio, è opinione assai diffusa che la spiegazionedella nascita del linguaggio vada collegata al bisogno discambiarsi informazioni tra i membri del gruppo in modo daaccrescere le capacità di cooperazione tra gli individui.

98 Cfr. H. Morgenthau, Politics Among Nations: The Struggle for Powerand Peace, New York, McGraw Hill, 1985, trad. it. Politica tra lenazioni. La lotta per il potere e la pace, il Bologna, Mulino, 1997, pp. 7e ss.

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percepibile. In sostanza, la teoria delle relazioniinternazionali ha costituito un’area disopravvivenza per una certa immagine della naturaumana, che ha potuto così perpetuarsi, facendovalere la sua prestigiosa ascendenza, almeno finoall’avvento del neorealismo di Waltz e di Keohane edella loro critica corrosiva all’elementarerealismo di Morgenthau99. Ho sostenuto che l’eredità hobbesiana ha

condizionato la tradizione del realismointernazionalistico sul piano dell’orientamentoantropologico soggiacente; da ciò è seguital’incapacità di una parte consistente della modernaanalisi politica internazionale a valutare ilrilievo dei meccanismi che veicolano l’appartenenzadegli individui ai gruppi di cui sono membri el’importanza dei legami che vengono così stabiliti.Da ciò deriva anche l’incomprensione del valoredelle simbologie, prodotte in via diritualizzazione culturale, in cui si compendial’identità delle comunità più vaste. Negli Stati moderni l’assolvimento dell’esigenza

di coesione è divenuto particolarmente difficoltosoin seguito all’eclissi delle ideologie e allacontemporanea diffusione delle societàmultirazziali. La fine delle ‘grandi narrazioni’,la crescente complessificazione della rete delleappartenenze, unitamente ai fenomeni diglobalizzazione e all’intensificarsi dei flussimigratorii ha trasformato radicalmente il substratosu cui deve esercitarsi la ritualizzazioneculturale. L’attuale egemonia del liberalismo, uno

99 Su ciò si può vedere K.N. Waltz, Theory of InternationalPolitics, New York, Newbery Award Records, 1979, trad. it. Teoriadella politica internazionale, Bologna, il Mulino, 1987; R. Keohane,Neorealism and Its Critics, New York, Columbia University Press, 1986.

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dei contrassegni teorici di più spiccata evidenzadella postmodernità, riflette chiaramente questasituazione: la tradizione liberale, che assume lapriorità assiologica dell’individuo e configura laposizione del cittadino rispetto all’ordinamentostatuale come un’adesione associativa, possiede unalimitata capacità di convogliare i processi diidentificazione, dimostrandosi inidonea, nelcomplesso, ad assolvere una funzione di collantesociale. E d’altra parte, l’insufficienza delleimmagini condivise idonee a servire come base perla costruzione di un’identità collettiva vincolantesi ripercuote anche sul versante della legittimitàdell’ordinamento, dal momento che l’esistenza diun’identità di gruppo costituisce una sorta dimetacondizione dello stare assieme politicamente100.Se dal livello statuale si passa a considerare il

sistema internazionale le difficoltà di individuarefonti di coesione si fanno ancora più evidenti.Allo stesso tempo diviene estremamente difficilerispondere alla questione se sia possibile,attraverso un’opportuna costruzione simbolica,edificare un legame identitario capace di legareuomini e donne di cultura ed etnia diverse,fungendo da supporto per la creazione di unordinamento internazionale. E’ chiaro che in questo caso l’eventuale identità

cosmopolitica dovrebbe collocarsi ad un livello diastrazione assai maggiore rispetto all’identitànazionale, dal momento che essa dovrebbeprescindere da qualsiasi elemento attinenteall’affinità di lingua, cultura o religione. Inquesta ottica pertanto, la riflessione della

100 Cfr. F. Cerutti, Identità e politica, in F. Cerutti (a curadi), Identità e politica, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 19 e ss.

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biologia evoluzionistica sembra inserirsiproficuamente in un ambito d’indagine che sicolloca al crocevia di discipline diverse, laddovela sociologia e la scienza politica si confrontanocon la filosofia della politica e del diritto,offrendo spunti interessanti per la tematizzazione,all’interno di un contesto alternativoall’individualismo liberale ma che non coincide conuna scontata riproposizione comunitariadell’aristotelismo, del nesso tra identità digruppo e politica, in vista anche dell’esplorazionedelle chances di un’identità sovranazionale. La possibilità di un’identità sovranazionale

cosmopolitica, riferibile al genere umano nella suatotalità, è legata all’esistenza di simboli chesiano riconoscibili da parte di tutti gli uomini eche siano preposti alla mediazione di significaticapaci di suscitare un’adesione emozionale. SecondoFurio Cerutti, per esempio, un’identitàsovranazionale è pensabile attualmente comeinterazione tra quattro elementi.1) L’interdipendenza fra gli attori nei settori

dell’economia, delle comunicazioni, degli stili divita e dei comportamenti dei consumatori.2) L’universalismo normativo dei diritti umani, cioè l’idea

che i diritti umani, di cui sono titolari i singoliindividui, possono, in quanto presupposto dellademocrazia, porre vincoli alla politica.3) Le sfide globali, ossia quei “problemi o minacce –

il riscaldamento del pianeta, il buco nella fasciadi ozono, il rischio nucleare – che non soltantoriguardano noi tutti, generazioni future incluse,in un modo che non discrimina tra gruppi edindividui, ma che possono essere affrontateefficacemente solo dallo sforzo comune di tutti gli

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attori, o almeno della loro stragrandemaggioranza”. 4) L’istituzionalizzazione di un ordine mondiale mediante la

codificazione di regole, sanzionabili daorganizzazioni internazionali, tali da soddisfarealle richieste dell’universalismo normativo101.Per Cerutti, dunque, la formazione di un’identità

sovranazionale segue dalla giustapposizione di unacomponente cognitiva – l’immagine di un mondointerdipendente – e di una emozionale emotivazionale – i rischi e le paure provocati dallesfide globali. Questo processo dovrebbe aver luogoentro la cornice di una ‘società civile globale’,uno spazio sociale ed economico caratterizzato daelevati standard di omogeneità, esteso in tutto ilmondo e potenzialmente idoneo a fungere da base perla creazione di istituzioni politiche mondiali. Quali difficoltà solleva questa impostazione del

problema dell’identità sovranazionale? E’accettabile dal punto di vista della ricercaetologica la previsione di una società civilemondiale, derivante dai fenomeni di integrazionenei settori economico, finanziario, scientifico,delle comunicazioni? Mi sembra evidente che lanozione cruciale sia proprio quella di societàcivile globale. Non ci sono dubbi che oggi leinterdipendenze tra attori che vivono in regionilontanissime del mondo siano distintamentepercepibili. Un diverso problema è quello distabilire se l’accresciuta consapevolezza di questeinterdipendenze abbia in sé la forza di generareun’effettiva omogeneità tra culture e sistemi divita in origine assai dissimili gli uni dagli

101 Ivi, pp. 31-8.

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altri, rendendo così possibile l’avvento di una‘democrazia transnazionale’. Non sono pochi gli autori – sociologi e filosofi

della politica – che guardano con sospetto aifenomeni di globalizzazione, mettendo in risaltocome non sia in corso un processo di integrazioneculturale quanto, piuttosto, una ‘creolizzazione’,un’assimilazione forzata da parte delle popolazionidei paesi economicamente più deboli dei contenutidi una tradizione culturale – quella occidentale,europea e nordamericana – ad esse totalmenteestranea102. Secondo Serge Latouche, ad esempio, lacolonizzazione culturale ed economicadell’Occidente procede impersonalmente strappandole masse dalla loro terra e dai loro legamisociali, senza peraltro sostituire alla perdutaidentità culturale tradizionale un nuovo modello diriferimento. Il processo di industrializzazione etecnicizzazione, in altri termini, aumenta ladifferenziazione funzionale e la specializzazionedel lavoro ma non è capace di promuovereun’effettiva integrazione, costruendo un nucleo divalori condivisi e un immaginario collettivocomune103.Ora, mi sembra evidente che, se si accettano le

conclusioni a cui perviene Latouche, diventaimpossibile continuare a considerare attuabile ilprogetto di un’identità sovranazionale. E d’altraparte il quadro tracciato dal sociologo francesecontiene indubbiamente degli aspetti persuasivi che

102 Su questo tema si può vedere D. Zolo, Cosmopolis,Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 160-73.

103 Cfr. S. Latouche, L’occidentalisation du monde. Essai sur lasignification, la portée e les limits de l’uniformisation planétaire, Paris,Editions La Découverte, 1989, trad. it. L’occidentalizzazione delmondo, Torino, Bollati-Boringhieri, 1992, pp. 65-88.

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non possono essere trascurati. Tuttavia, mi sembrache nel tratteggiare i pericoli dellaglobalizzazione si tenda per lo più a evidenziaregli aspetti di immobilità delle tradizioniculturali, invece di sottolinearne l’intrinsecodinamismo e la plasticità adattativa. Laconsiderazione che Latouche dimostra per ipatrimoni tradizionali dei popoli del cosiddetto‘terzo mondo’ esprime tipicamente il punto di vistadella benevolenza paternalistica del mondooccidentale nei confronti delle civiltà ritenutemeno progredite. Latouche, e come lui molti altricritici della globalizzazione, assumeideologicamente l’identità delle culture come unvalore da preservare ad ogni costo, scongiurando lospettro delle ibridazioni e delle contaminazionifra tradizioni reciprocamente estranee. In questomodo, però, dimentica che i sistemi culturaliposseggono naturalmente una tendenza ad evolvere ea modificarsi in relazione alle modificazionidell’ambiente e ai contatti con altre tradizioni;le culture non sono qualcosa di statico ma deicomplessi essenzialmente mutabili. Sostenere chel’Occidente ha il dovere di non trasformarel’identità culturale delle popolazioni dell’Africao del Sud Est asiatico significa percepire iprocessi di globalizzazione in un’ottica nondissimile da quella di certi ‘amici della natura’che vorrebbero congelare i biotopi attualmenteesistenti per impedire l’estinzione delle specieanimali in pericolo104.

104 Cfr. soprattutto J. Clifford, The Predicament of Culture:Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art, Cambridge, Mass.,Harvard University Press, 1988, trad. it. I frutti puri impazziscono.Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino, Boringhieri, 1993.

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Con questo non voglio certamente nascondere cheil processo di ‘occidentalizzazione del mondo’,procede attraverso trasformazioni che avvengono subasi di profonda ineguaglianza e che sancisconorelazioni di dipendenza internazionale; quello chevorrei sostenere è che, nonostante tutti i limitiche sono stati menzionati, i fenomeni diglobalizzazione mantengono la potenzialità dicreare, attraverso l’interazione fra tradizionilontane per storia e per contenuti, una classe dielementi simbolici provvisti di significato per gliesponenti di culture molto diverse fra loro.Inoltre, la ricezione di questi elementi non ènecessariamente passiva, ma può comportareun’assimilazione creativa degli emblemi dellacultura occidentale, se non un loro utilizzo inchiave di resistenza105. La mia opinione, in definitiva, è che i processi

di integrazione in corso possano condurre allaformazione di un universo simbolico capace dilegare, individui appartenenti ad etnie etradizioni fra loro lontanissimi. La ricezione disimboli appartenenti a culture diverse dovrebbecostituire in ogni caso un momento creativo, in cui

105 Cfr. J. Breidenbach, I. Zukrigl, Tanz der Kulturen. KulturelleIdentität in einer globalisierten Welt, München, Kunstmann, 1998, trad.it. Danza delle culture. L’identità culturale in un mondo globalizzato, Torino,Boringhieri, 2000, cap. 2. Si deve però notare che il fattostesso che questa dialettica si svolga nei terminipredisposti da una sola delle parti comporta quantomeno chequeste forme di discorso si presentino come subalterne rispettoa quelle alle quali si oppongono (per la nozione di«subalternità» cfr. R. Guha, G.C. Spivak (a cura di), SelectedSubaltern Studies, New York, Oxford University Press, 1988, trad.it. parz. Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Verona,ombre corte, 2002). In ogni caso, siamo molto lontanidall’implementazione di un dialogo paritetico.

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i contenuti estranei vengono assimilati emetabolizzati attraverso l’inserimento nel contestodella tradizione autoctona. In questo modo sidovrebbe produrre una variabilità regionaleall’interno di questo immaginario collettivo,positivamente correlata alle specifiche identitàlocali che con quell’immaginario si troverebbero adoversi confrontare. Anche Eibl-Eibesfeldt, come si è visto, ha

sostenuto che, per mezzo di un’appropriata“identificazione di simboli [l’uomo] è in grado diconsiderare come sua famiglia l’intera umanità”106.In base a questa considerazione l’etologo tedescoipotizzava che il progetto di uno Stato mondiale astruttura federale costituisse un traguardorealisticamente conseguibile. Tuttavia, credo che,se pure sia ragionevole pensare alla possibilità diun’identità sovranazionale, rimanga fortementedubbio se questa identità possa fungere da supportoad un a qualche istituzionalizzazione dell’umanitàcome corpo politico. Le mie perplessità si legano a due ordini di

considerazioni.1) L’eventuale emersione di un sentimento di

identità capace di legare, in una certa misura,individui di etnie e culture diverse non autorizzaa pensare che le identità nazionali e localirisultino automaticamente obliterate. Al contrario,un’identità sovranazionale è concepibile solo seinserita entro una struttura modulare, “in cuisezioni più astratte ed universalistiche (...) sicollocano – in maniera che non è necessariamente néarmonica né disgregante – accanto o sopra a sezioni

106 Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., p.230.

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più connesse con la nostra vita quotidiana nellacomunità locale”107.2) La fisionomia di un’ipotetica identità

cosmopolitica rischia, a mio avviso, di acquistareun profilo eccessivamente episodico e frammentariodal momento che viene a costituirsi a partire da unnucleo di simboli totalmente irrelati fra loro. Inaltre parole: mi sembra ragionevole supporre cheesistano delle immagini pregnanti, immediatamentecomprensibili da tutti – o almeno dalla stragrandemaggioranza degli esseri umani – in cui sicompendiano quelle sfide globali di cui parlaCerutti, tuttavia ritengo che il complesso diqueste immagini non sia idoneo a definire unconcetto di identità se non in un senso moltoastratto – e quindi politicamente inservibile – deltermine. Come esempio concreto di immagine simbolica

Cerutti cita in primo luogo l’ecatombe di Hiroshimae Nagasaki, emblema della minaccia della guerranucleare, ma aggiunge:

forse all’identità cosmopolitica corrisponde meglio untipo sublimato e davvero kantiano di simbolo: l’ideastessa di una legge fondamentale, i diritti umani, chevale per tutti gli uomini e tutte le donne e va rispettatae fatta rispettare ovunque108.

Certamente, se fosse possibile interpretarel’adesione generale degli Stati alla Dichiarazioneuniversale dei diritti dell’uomo come ilcorrispettivo osservabile di una realeassimilazione e condivisione da parte di tutti gliuomini di quei valori su cui la dichiarazione si

107 Cfr. F. Cerutti, Identità e politica, cit., p. 37.108 Ivi, p. 38.

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fonda, allora sarebbe lecito affermare a buondiritto che esiste a livello mondiale qualcosa comeun complesso di principi morali uniformementeaccolti e riconosciuti cogenti, e, su questa base,argomentare in favore della legittimità di unordinamento sovranazionale ispirato ad essi. Tuttavia, bisogna constatare come attualmente

persistano dubbi consistenti in merito alladiffusione dell’idea stessa di diritto soggettivopresso le tradizioni di molti popoli extraeuropei109;molti autori tendono a riconoscere che illinguaggio dei diritti, che appare oggi cosìradicato nella nostra immagine di civiltà e dicomunità socialmente ordinata, non è cheun’acquisizione specifica della culturaoccidentale110. Tutto ciò non può che indurci aconsiderare con scetticismo la tesi che l’ideadella validità universale dei diritti umani possaentrare a far parte dell’universo simbolico comuneall’intero genere umano. La persistenza di una pluralità di sfere

concentriche gerarchicamente ordinate da una parte,109 Vedi: A.A. An-Na‘im (a cura di), Human Rights in Cross-Cultural

Perspectives: A Quest for Consensus, University of Pennsylvania Press,Philadelphia, 1992; J.K. Cowan, M.B. Dembour, R. Wilson (acura di), Culture and Rights: Anthropological Perspectives, Cambridge,Cambridge University Press, 2001; E. Brems, Human Rights:Universality and Diversity, Martinus Nijhoff, The Hague, 2001. Sullasituazione della Cina, vedi: S.C. Angle, Human Rights and ChineseThought: A Cross-Cultural Inquiry, Cambridge University Press,Cambridge, 2002; M. Svensson, Debating Human Rights in China: AConceptual and Political History, Rowman & Littlefield, Lanham, 2002.Su diritti umani e Islam vedi invece A.E Mayer, Islam and HumanRights: Tradition and Politics, Westview Press, Boulder, 2007.

110 Anche parte di coloro che propendono comunque per la sua“universalizzazione”. Cfr., per esempio, J. Donnelly, UniversalHuman Rights in Theory and Practice, Ithaca, Cornell UniversityPress, 2002.

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la segmentazione dell’identità sovranazionaledall’altra, i due connotati che dovrebberocaratterizzare un’eventuale identità cosmopolitica,costituiscono probabilmente un impedimento perl’attuazione del disegno di un ordinamentosovranazionale che non voglia ridursi ad unatirannide su scala planetaria, dal momento che sirisolvono in un ostacolo per la genesi di unaweltbürgerliche Öffentlichkeit – un’opinione pubblicamondiale fatta di cittadini competenti – che daKant in poi appare come un requisito ineludibiledel metodo democratico.In conclusione la mia idea è che, per quanto sia

pensabile che i processi di globalizzazionecomportino l’individuazione di una qualche forma diinterazione simbolica capace di stabilire un legameal di sopra delle nazioni, le concrete modalità diquesta interazione e la tipologia del complesso disimboli ad essa associato rendono decisamenteproblematica una loro eventuale assunzioneall’interno del codice della comunicazionepolitica. Per questa ragione, credo che perriflettere sulla possibilità di un identitàsovranazionale sia necessario considerarla in basea quelle ‘sfide globali’ che in un certo senso necostituiscono il catalizzatore. Un’identità che sicostruisce in relazione a problemi quali il rischionucleare o la minaccia del dissesto ambientalemanca di una specifica valenza politica: puòsollecitare e legittimare una cooperazioneinternazionale, la realizzazione di un ordineminimo risultante dalla contrattazione tra diversiorganismi statali sovrani, ma non può essereinvocata a supporto di una istituzionalizzazionedell’umanità come corpo politico111.

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Se si accetta di pensare all’identitàcosmopolitica contestualizzandola all’interno delmodello gerarchico delle appartenenze si dovrebbeessere portati a concludere che, mano a mano che siamplia il raggio della sfera che racchiude i membridel gruppo stetti dal vincolo di identità,diminuiscono le aspettative e la pervasività degliobblighi che possono essere imposti in nome dellegame comunitario. Fatalmente, a una communitasmaxima non può che corrispondere un ordine minimo112.

111 L’opzione del diritto sovranazionale minimo ha dalla suaparte innanzitutto il vantaggio di rinunciare ad una‘imposizione della pace’. In questo senso è l’unicaprospettiva, a mio avviso, capace di salvaguardare ilsostanziale pluralismo delle visioni del mondo e delletradizioni culturali. Inoltre, dal momento che si proponeessenzialmente come ratifica giuridica di un apparato diregole già definito informalmente, garantisce anche che nonvenga smarrita la funzionalità genetica di quelle regole inquanto prodotti della ritualizzazione culturale.

112 La preferenza normativa per un diritto internazionaleminimo riflette la preferenza teorica per una interpretazionedei fenomeni di globalizzazione che faccia a meno dell’ideametafisica di progresso per tentare una comprensione delledinamiche auto-organizzative che operano a livello delsistema politico mondiale. A sua volta, questainterpretazione si raccomanda soprattutto perché noncontraddice la visione biologizzante dell’evoluzioneculturale come processo non teleologicamente orientato, nelquale tuttavia l’ordine può emergere spontaneamente daconfigurazioni precedenti altamente disordinate (l’idea che iprocessi di auto-organizzazione giochino un ruolodeterminante nell’evoluzione biologica è stata sostenuta daS.A. Kauffman (The Origins of Order. Self-Organization and Selection inEvolution, cit.). In questa sede considero una sua estensioneall’evoluzione culturale.

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