“Le implicazioni per la politica di difesa e lo strumento militare”, In S.M. Torelli e...

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L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

A cura di Stefano M. Torelli e Arturo Varvelli

ISBN 978-88-98014-69-9 (edizione Pdf)

© 2015 Edizioni Epoké

Prima edizione: 2015

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Nato ottant’anni fa, l’ISPI è un think tank indipendente dedicato

allo studio delle dinamiche internazionali, con l’obiettivo di favo-

rire la consapevolezza del ruolo dell’Italia in un contesto globale

in continua evoluzione.

È l’unico istituto italiano – e fra i pochissimi in Europa – ad af-

fiancare all’attività di ricerca un altrettanto significativo impegno

nella formazione, nella convegnistica e nelle attività specifiche di

analisi e orientamento sugli scenari internazionali per imprese ed

enti.

Tutta l’attività è caratterizzata da un approccio interdisciplinare -

assicurato dalla stretta collaborazione tra specialisti in studi eco-

nomici, politici, giuridici, storici e strategici, provenienti anche da

ambiti non accademici - e dalla partnership con analoghe istituzio-

ni di tutto il mondo.

Indice

Introduzione,

Paolo Magri .................................................................................... 7

Parte prima – Gli scenari geopolitici e gli interessi italiani

1. Da al-Qaida alle nuove formazioni:

la minaccia jihadista cambia

Paolo Maggiolini .......................................................................... 17

2. Libia: la sfida dello Stato Islamico

Laurentina Cizza, Karim Mezran ................................................. 43

3. L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia:

gli interessi italiani

Stefano M. Torelli ......................................................................... 57

4. Non solo Sinai, l’estremismo di matrice islamica in Egitto

Wolfgang Pusztai .......................................................................... 77

5. “Siraq” tra terrorismo e guerriglia

Andrea Beccaro ............................................................................ 93

6. AfPak: i rischi del broader disengagement

Riccardo Redaelli ....................................................................... 105

7. I pericoli di una spirale balcanica

Giovanni Giacalone .................................................................... 115

6 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Parte seconda – Quali implicazioni per l’Italia

8. Le implicazioni per la politica estera

Arturo Varvelli ............................................................................ 129

9. Le implicazioni per la politica di difesa

e lo strumento militare

Fabrizio Coticchia ...................................................................... 143

10. Le implicazioni per l’intelligence

Marco Minniti ............................................................................. 159

11. Le implicazioni per la politica

degli aiuti e dell’immigrazione

Lia Quartapelle .......................................................................... 167

Gli Autori .................................................................................... 177

Introduzione

L’ascesa dello Stato Islamico (IS) in un vasto territorio tra Siria e

Iraq e la competizione innescatasi all’interno della galassia jihadi-

sta della vecchia al-Qaida sembrano attivare dinamiche di concor-

renza/coesistenza che hanno conseguenze molto rischiose per

un’intera area geopolitica affetta da una situazione d’instabilità

che già costituiva un terreno fertile per la proliferazione di gruppi

radicali. La minaccia sembra coinvolgere in particolare un vasto

spazio di prossimità – che va dai Balcani sino al Maghreb – alta-

mente rilevante per gli interessi europei e soprattutto italiani. Que-

sta rilevanza è data non solamente dalla constatazione che il Medi-

terraneo e il Medio Oriente rappresentano per l’Italia quell’area di

primario interesse politico-strategico incluso in un raggio che dai

vicini Balcani oltrepassa la Turchia verso la sponda sud del Medi-

terraneo fino all’Atlantico, ma anche per evidenti motivazioni

economico-commerciali e di politica energetica. I fenomeni legati

all’emergere di quest’arco d’instabilità regionale, quindi, coinvol-

gono direttamente l’interesse nazionale dell’Italia in tutte le sue

sfaccettature.

Le nuove forme di terrorismo islamico, che tentano di assume-

re una forma proto-statuale, sembrano stravolgere i parametri poli-

tici del passato poiché presentano una vocazione universalista e

intransigente che esercita un innegabile fascino, soprattutto sulle

nuove generazioni. Questa nuova minaccia ha chiaramente una

duplicità che la vecchia al-Qaida non aveva: è un network terrori-

stico e continua ad avere una dimensione ideologica, ma si tra-

sforma anche in qualcosa di concreto e visibile. Proprio per la ca-

ratterizzazione territoriale e per la sua necessità “globale” e “uni-

versale”, la nuova minaccia è caratterizzata, dal punto di vista

8 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

geopolitico, da una visione militare espansiva che considera quale

suo primo nemico i vicini, siano essi i regimi o i rappresentanti

della vecchia élite politica, le minoranze cristiane o le comunità

sciite, accusate di travisare la visione “ortodossa” dell’islam.

Anche per queste ragioni, tale minaccia costituisce qualcosa di

molto diverso da quelle terroristiche del recente passato: non so-

lamente perché Roma, quale centro della cristianità, sembra rap-

presentare oggi un obiettivo simbolico dell’ondata propagandistica

di IS, ma anche perché l’emergere del fenomeno “vicino a casa”

obbliga l’Italia a un profondo ripensamento della propria politica

estera e degli strumenti necessari al mantenimento degli interessi

internazionali, a cominciare da una revisione delle relazioni con il

“vecchio” Medio Oriente. Questo sforzo sembra rendersi necessa-

rio tanto più ora che “guerra/lotta al terrorismo” ed “esportazione

della democrazia” (divenuti in breve tempo i fari della proiezione

strategica occidentale a guida statunitense nella fase post-11 set-

tembre) e le guerre scaturite da questo approccio – Afghanistan

(2001) e Iraq (2003) – non solo si sono rivelate fallimentari, ma

sembrano esse stesse concausa del nuovo revival dell’islam radi-

cale. Infatti, nonostante il dispiegamento permanente degli eserciti

occidentali, la minaccia jihadista non solamente è sopravvissuta

ma si è anche rigenerata e sviluppata nel nuovo caos post Primave-

re arabe.

Sullo sfondo di tali trasformazioni, obiettivo di questo Rappor-

to è principalmente quello di analizzare la natura di questa rinno-

vata minaccia e la sua reale portata, ripulendola degli effetti me-

diatici della propaganda, osservando le aree geopolitiche di per-

meabilità alla stessa in relazione agli attori locali e agli interessi

italiani ed europei. Oltre a quello di approfondire le implicazioni

per la nostra politica estera e di difesa e sicurezza in senso ampio,

cercando di fornire alcuni spunti di policy nell’ottica dell’azione

internazionale dell’Italia.

Il contributo di Paolo Maggiolini sull’evoluzione della minac-

cia jihadista apre il nostro Rapporto. Una ricognizione del feno-

meno e di come questo sia cambiato nel corso degli ultimi anni:

una storia caratterizzata da un costante percorso trasformativo e

Introduzione 9

adattativo. Il concetto di resilienza appare davvero opportuno per

descrivere un fenomeno che è stato in grado di portare a termine

importanti operazioni su vari livelli, ma anche di metabolizzare

frequenti sconfitte che, tuttavia, non l’hanno mai del tutto piegato

ed eliminato. Aspetto tra più problematici dal punto di vista anali-

tico risulta essere quello di sistematizzare le diverse tipologie di

sfide e minacce provenienti da questa galassia jihadista in quanto

potenzialmente in grado di avanzare in sincrono. Questo non già

per l’esistenza di una o due grandi organizzazioni di riferimento

(IS e al-Qaida), ma per la notevole diffusione e atomizzazione del

concetto di jihad: dimensione globale, regionale e locale possono

facilmente inter-scambiarsi e sincronizzarsi. Da qui nasce un ri-

schio e una sfida che impone un’ancor maggiore livello di coordi-

namento tra il piano politico, quello militare e gli apparati di sicu-

rezza e polizia nazionale.

A seguire, vi sono interventi di analisi dei singoli contesti loca-

li e regionali. Il contributo di Karim Mezran tratta di un tema di

straordinaria rilevanza per il nostro paese: la crisi libica e la pro-

gressiva penetrazione dello Stato Islamico e di altre formazioni

radicali nell’instabile e violento panorama politico e militare del

paese. La presenza dello Stato Islamico in Libia ha sollevato timo-

ri a livello internazionale per la possibile nascita in Nord Africa di

una provincia del “califfato” sorto fra Iraq e Siria. Paesi come

l’Italia devono certamente temere le conseguenze di questo poten-

ziale sviluppo, che intacca interessi politici ed economici, anche se

lo scenario sopra delineato appare un’eventualità lontana, almeno

per il momento. Lo Stato Islamico ha limitate possibilità di trovare

terreno fertile in Libia per due motivi principali: in primo luogo la

natura della battaglia appare locale e non ideologica; in secondo

luogo, i libici sono piuttosto moderati per tradizione e religiosa-

mente omogenei, storicamente riluttanti a seguire gli appelli e i

gruppi del radicalismo islamico. Tuttavia l’espansione di IS in Li-

bia appare strettamente legata a una stabilizzazione del paese che

diviene progressivamente sempre più difficile e improbabile.

Gli attentati di Tunisi, avvenuti mentre si redigeva questo Rap-

porto, sembrano ribadire la necessità che l’Italia prenda coscienza

10 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

della minaccia presente in Tunisia e nella vicina Algeria. Analiz-

zando il panorama jihadista in questi due paesi, Stefano Torelli so-

stiene che il fatto stesso che non si tratti di stati falliti o semi-

falliti, come nel caso della Libia, rende paradossalmente i movi-

menti e i singoli jihadisti presenti in quelle aree potenzialmente

più pericolosi per i teatri esterni. Non è un caso che la Tunisia for-

nisca un altissimo numero di foreign fighters, dal momento che gli

elementi radicalizzati in loco non hanno spesso la possibilità di

mettere in pratica il jihad in casa propria. Come conseguenza, vi è

la tendenza a cercare altri teatri di operazione e questo fattore,

contestualmente alla forte impronta anti-occidentale dell’ideologia

jihadista propria di IS e dei suoi gruppi affiliati, può costituire un

innesco per tentare d’infiltrare l’Occidente.

Elementi analoghi sembrano caratterizzare l’Egitto. Wolfgang

Pusztai esamina l’attuale contesto in cui operano i numerosi grup-

pi estremisti attivi nel paese, in particolare nel Sinai, regione poco

controllata dal governo del Cairo. Alcuni di questi si sono recen-

temente affiliati all’IS. L’Egitto ha rappresentato un paese chiave

nell’evidente fallimento del processo delle Primavere arabe e

nell’“istituzionalizzazione” della Fratellanza musulmana quale

gruppo politico legittimo. La sua criminalizzazione ha spinto di-

versi membri nell’ombra e li ha avvicinati ai gruppi militanti. È

probabile che alcuni di questi si siano uniti in una lotta armata

contro il governo, conducendo atti di violenza contro le forze di

sicurezza come risposta alla repressione delle proteste pubbliche.

In prospettiva futura il successo di queste formazioni in Egitto,

paese cardine per la regione e fondamentale anche per gli interessi

italiani, appare strettamente connesso al grado di legittimità demo-

cratica e inclusività politica del paese.

Un capitolo, quello di Andrea Beccaro, è interamente dedicato

all’evoluzione della situazione in “Siraq”, come può essere defini-

ta l’area di primario sviluppo di IS, alle sue dinamiche, agli even-

tuali effetti di spillover regionali, in particolare in Libano, e agli

interessi italiani ed europei. L’analisi di questo scenario rende evi-

denti le cause settarie alla base dell’ascesa del “califfato” e riman-

da alle possibili sistemazioni politiche dell’area: la spaccatura tra

Introduzione 11

sunniti e sciiti è radicata e inficia profondamente non solo le capa-

cità operative dell’esercito iracheno, che si vorrebbe nazionale, ma

anche quelle d’influenza politica di Baghdad in cui il controllo

sciita è forte e visto con sospetto dalla minoranza sunnita. La-

sciando da parte i bombardamenti aerei condotti dall’eterogenea

alleanza anti-IS, il futuro appare segnato dalle interrelazioni di

numerosi gruppi di attori, non omogenei al loro interno, che com-

battono sul terreno: dai curdi, alle milizie sciite, alle forze del re-

gime di Assad, che rendono assai nebuloso il quadro e sembrano

continuare a reiterare le condizioni di successo di IS.

L’area AfPak continua a essere un altro scenario di grande rile-

vanza per gli interessi europei e occidentali. Riccardo Redaelli lo

spiega osservando come questo rappresenti simbolicamente anche

una cartina di torna-sole dell’impegno internazionale – e italiano –

nel fronteggiare la minaccia jihadista. Tuttavia questo quadrante

sembra subire un processo di riduzione del senso di priorità, al

quale contribuisce il tentativo di disimpegno statunitense, ma an-

che la trasformazione dei Taliban in una galassia molto più artico-

lata e spesso lontana dal movimento originario, strettamente legato

al jihadismo globale, e la “derubricazione” del conflitto in Afgha-

nistan in conflitto “nazionale”, che sembra rimandare a soluzioni

più politiche che militari.

Infine, per la volontà di focalizzarsi sugli interessi italiani, il

Rapporto assegna specifico rilievo anche al quadro in evoluzione

nei Balcani, dove le difficili condizioni socio-economiche di alcu-

ne zone permettono all’ideologia jihadista, come descrive Giovan-

ni Giacalone, di far breccia nelle menti dei giovani, portando la

cosiddetta “spirale balcanica” a una nuova fase, quella

dell’esportazione di combattenti all’estero e alla costruzione di

network estremisti specializzati nella propaganda radicale e nel

reclutamento: un fenomeno che non può assolutamente essere sot-

tovalutato e che comporta seri rischi per il nostro paese.

Ad aprire la seconda parte del volume dedicata alle specifiche

conseguenze per l’Italia è Arturo Varvelli che focalizza la propria

analisi sulle implicazioni per la politica estera italiana. Il contribu-

to si sviluppa dalle premesse del nuovo sistema internazionale nel

12 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

quale l’Italia si trova a operare e, prendendo in considerazione le

cause profonde della recente ascesa di IS, cerca di proporre una

riflessione su un necessario riadattamento della sua politica: la

stabilizzazione dell’area deve essere un obiettivo prioritario

dell’azione italiana, ma questa non può basarsi in via esclusiva su

un appoggio a regimi autoritari, poco inclusivi e settari. È facile

comprendere come un nuovo e rinnovato appoggio a paesi di que-

sto tipo possa contribuire a riprodurre i medesimi meccanismi che

hanno portato alla destabilizzazione della regione pochi anni fa.

Fabrizio Coticchia delinea le implicazioni per la politica di di-

fesa e lo strumento militare. L’analisi degli interventi militari che

hanno visto le Forze armate italiane contrastare gruppi armati ter-

roristici permette di comprendere l’importanza dell’addestramento

delle forze locali e della più generale ricostruzione delle capacità

delle istituzioni dei paesi interessati. Un processo che appare com-

plicato, soprattutto in assenza di una chiara pianificazione strategi-

ca e di una convincente narrazione che giustifichi un impegno

oneroso. Ma più di tutto anche le Forze armate si sono rese conto

dell’importanza di altri strumenti per “vincere” un conflitto non

tradizionale, a partire dal fondamentale processo d’isolamento dei

gruppi terroristici, parallelo a un percorso inclusivo di condivisio-

ne del potere tra gli altri attori coinvolti e al rafforzamento delle

capacità d’intelligence.

Proprio della risposta dell’intelligence tratta il capitolo di Mar-

co Minniti, Sottosegretario di Stato e Autorità Delegata per la Si-

curezza della Repubblica. Partendo dal presupposto che l’Europa e

l’Italia debbano avere la capacità di rispondere come grandi de-

mocrazie, non limitando drasticamente le libertà fondamentali, la

risposta al terrorismo deve, al contempo, muoversi sia sul terreno

militare, sia su quello della prevenzione e dei valori. Bisogna pun-

tare a isolare e colpire la minaccia quando è ancora nel suo stato

d’incubazione, cercando cioè di anticipare la soglia di prevenzione

per diminuire il tasso d’imprevedibilità.

Nel capitolo conclusivo Lia Quartapelle traccia alcune linee

guida sulla questione degli aiuti allo sviluppo e sulla gestione del

fenomeno migratorio. L’Italia deve al più presto adeguare le sue

Introduzione 13

politiche di cooperazione internazionale alla sfida jihadista, essen-

zialmente con due tipi d’intervento: da un lato dotandosi di linee

di azione a sostegno delle istituzioni, sia come interventi di svi-

luppo, sia all’interno di una riflessione sulla cooperazione civile e

militare; dall’altro lato influenzando la costruzione di una politica

migratoria europea che attraverso azioni di reinsediamento con-

tenga i rischi e i costi dei rifugiati nei paesi con istituzioni messe a

dura prova dagli avvenimenti degli ultimi anni.

Paolo Magri,

vice-presidente esecutivo e direttore dell’Ispi

Parte prima – Gli scenari geopolitici

e gli interessi italiani

1. Da al-Qaida alle nuove formazioni: la minaccia jihadista cambia

Paolo Maggiolini

A partire dagli attacchi del settembre 2001, analisti, politici, gior-

nalisti e opinione pubblica si sono progressivamente abituati a do-

ver fare i conti con il rischio del terrorismo internazionale di ma-

trice islamica, sempre più definito attraverso il termine jihadismo

sotto le insegne di al-Qaida. Come sempre lo sguardo storico ci

ricorda che tale fenomeno aveva già imboccato la strada del suo

“destino” qualche decade prima, come ad esempio gli scritti di

Abdullah Yusuf Azzam1 avevano in parte preconizzato. Nutrita e

incubata dai molteplici teatri del “nuovo jihad” in Afghanistan,

Algeria e nell’ex-Jugoslavia la minaccia jihadista aveva assunto

contorni sempre più delineati e precisi, a dispetto di un’attenzione

di media e agenzie di sicurezza non consona alla sua portata.

A quasi quindici anni dagli attacchi sul suolo statunitense, la

galassia jihadista ha dimostrato di saper cambiare e adattarsi al

mutare delle condizioni internazionali e regionali. Una realtà resi-

liente sia dal punto di vista tattico-strategico sia da quello organiz-

zativo.

Senza snaturare o contraddire i suoi principi e orientamenti

dottrinali, il jihadismo ha prima pervaso la dimensione globale, o

si è almeno imposto su tale piano, divenendo poi sempre più una

realtà profondamente inserita nei molteplici fronti di crisi locali

che si sono aperti nel corso di questi anni, come testimoniato dalla

1 Abdullah Yusuf Azzam (1941-1989), studioso e teologo islamico di origine palesti-nese, è ritenuto tra i primi ideologi del jihad globale contemporaneo.

18 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

nascita dei vari al-Qaida nel Maghreb, nella Penisola Araba e in

Iraq2.

Naturalmente le due dimensioni, locale e globale, non si sono

sostituite, bensì sovrapposte come egualmente necessarie e possi-

bili. L’Occidente è rimasto il “nemico lontano”, da colpire in

quanto considerato occupante e aggressore del cosiddetto mondo

musulmano. Al tempo stesso, il movimento verso il territorio e

l’ancoraggio locale hanno rafforzato in molti soggetti la retorica

del “nemico vicino”, dando corpo a uno scontro senza esclusioni

di colpi nei confronti tanto della dimensione non-musulmana

quanto di quella musulmana, laddove non corrispondente ai canoni

dell’ortodossia e dell’ortoprassi jihadista e alla sua narrativa.

La recente ascesa dello Stato islamico in Iraq e Levante (Isis),

ormai conosciuto come Stato Islamico (IS) dopo l’auto-

proclamazione del califfato, getta nuova luce e solleva ulteriori

domande circa questa parabola evolutiva. Non più solamente lotta

globale, non solo insurrezione, ma ora anche pretesa statualità sot-

to l’immediata e unica responsabilità di quest’organizzazione.

Una differenza, questa, che pare notevole rispetto a passate

esperienze, come ad esempio in Afghanistan con il connubio qai-

dista.

Al tempo stesso anche il contesto internazionale e regionale è

profondamente mutato. Tra gli eventi più significativi che si sono

rincorsi in queste decadi emerge sicuramente la cosiddetta “Pri-

mavera araba” che ha messo in discussione non solo il rapporto tra

potere centrale e cittadinanza, ma la tenuta stessa di molti sistemi

statuali. Su questo percorso, inoltre, pesano le incognite di natura

geopolitica, geoeconomica e demografica. Sfide che già erano ben

chiare nella proiezione delle analisi di lungo periodo rispetto a

questi contesti.

Le pagine che seguono si propongono di analizzare brevemente

il cambiamento della natura della minaccia jihadista alla luce di

questo complesso quadro di trasformazioni. La prospettiva è quel-

la dell’Europa e dell’Italia, mentre lo snodo su cui ci si sofferma è

2 New and (Old) Patterns of Jihadism: al-Qa‘ida, the Islamic State and Beyond, a cura di A. Plebani, Milano, ISPI, settembre 2014.

Da al-Qaida alle nuove formazioni 19

il passaggio da un movimento dominato da al-Qaida a una situa-

zione più fluida e articolata come quella attuale. Un panorama che

vede la galassia jihadista frammentata tra soggetti che si distin-

guono per tattiche e strategie differenti. Tra essi spicca IS, che

cerca di accreditarsi sempre più come vera e propria alternativa al

modello qaidista.

Principali Organizzazioni e Aree di Operazione.

■ Network di al-Qaida

1 al-Qaida nella penisola araba (AQAP)/Ansar al-Shari’a (Yemen) 2 al-Shabaab (Somalia) 3 Brigate Abd Allah’Azzam (Libano) 4 Emirato Islamico del Caucaso (Russia) 5 Fronte al-Nusra (Siria) 6 al-Qaida in Magreb (AQIM) e alleati (MUJAO, al-Mourabitoun) (Algeria, Mali, Tunisia, Niger) 7 Ansar al-Shari’a (Libia) 8 Tehrik-I-Taliban/al-Qa’ida Khurasan (Pakistan, Afghanistan) 9 Katibat’Uqba Ibn Nafi (Tunisia) 10 Jemaah Islamiyah (Indonesia)

■ Stato Islamico/Gruppi e Province

(Wilayat) 11 Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (ISIS) (Siria, Iraq) 12 Ansar Bayt al-Maqdis - Wilayat Sina' 13 Stato Islamico della Libia - Wilayat Barqa, Tarabulus (Libia) 14 Boko Haram - Wilayat al Sudan al-Gharb (Nigeria, Ciad, Camerun) 15 Jund al-Khilafa - Wilayat al-Jazair (Al-geria, Tunisia) 16 Abu Sayyaf Group - Nessun Wilayat creato (Filippine*) * giuramento di fedeltà (bay'ah) non ancora accettato

Fonti: Jihadology (Aaron Zelin), Esperti

20 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Il contesto storico

Per poter evidenziare quali possano essere i profili delle minacce

che il più recente corso dei movimenti jihadisti pone all’Europa e

all’Italia è importante riconsiderare la storia recente che ha visto la

nascita e l’affermazione di queste realtà. Una ricognizione che non

pretende di approfondire e abbracciare tutti gli eventi che si sono

rincorsi durante le ultime due decadi, ma che serve per inquadrare

e collocare brevemente le profonde e multiformi trasformazioni

che si sono succedute. È infatti lungo questo orizzonte che si sta-

glia il percorso che ci conduce alla nascita di IS e allo sviluppo

delle altre formazioni jihadiste che ora dominano la scena regiona-

le e internazionale.

Al-Qaida dà il via alle sue operazioni proprio nel cuore degli

anni Novanta fino a imporsi all’opinione pubblica con la realizza-

zione degli attacchi sul suolo statunitense. È così che

l’organizzazione guidata da Osama bin Laden assurge nei primi

anni del nuovo secolo a principale pericolo da contrastare, dive-

nendo in breve tempo la nemesi politica della superpotenza statu-

nitense. Questo gruppo è stato così considerato l’espressione pla-

stica del nuovo orizzonte di minacce che l’Occidente avrebbe do-

vuto affrontare nel secolo che si apriva davanti ai suoi occhi, orfa-

no delle logiche e delle consuetudini di una Guerra fredda ormai

archiviata da circa un decennio. Un mondo che si dischiudeva alla

globalizzazione con fiducia e speranza si è così trovato ad affron-

tare un nemico paradossalmente “a misura” di questo ideale. Al-

Qaida si è presentato come una realtà de-territorializzata, tragica-

mente calata dal cielo, concentrata sulla lotta internazionalista da

parte di un’avanguardia preparata e potenzialmente presente in

ogni luogo. Tale percezione è paradossalmente racchiusa nel suo

stesso nome. Al-Qaida (la base), quasi come se l’Occidente avesse

individuato consapevolmente o meno in questa realtà il terminale

ultimo e unico di un’idea di coordinamento e di una visione

d’insieme alla guida del fenomeno jihadista “globalizzato”. Lotta

al jihadismo ed esportazione della democrazia sono in breve tem-

po divenuti i fari della proiezione strategica occidentale a guida

statunitense. Ne sono seguite, così, la guerra in Afghanistan (otto-

Da al-Qaida alle nuove formazioni 21

bre 2001), il “covo” della minaccia qaidista, e poi quella in Iraq

(2003), i cui strascichi sono tutt’ora evidenti. A queste operazioni

hanno fatto seguito molti episodi di “risposta” da parte delle diver-

se formazioni qaidiste, come ad esempio a Madrid (2004) e Lon-

dra (2005), ma anche Bali, Istanbul e Casablanca.

Nonostante il dispiegamento permanente degli eserciti occiden-

tali in Afghanistan e in Iraq, la minaccia jihadista non è solamente

sopravvissuta ma si è anche sviluppata.

È infatti nell’arco di questi pochi anni che, mentre sempre

maggiori fronti di crisi si aprivano, al-Qaida ha iniziato a mutare,

o forse più pericolosamente ha proseguito a svilupparsi su quella

linea preconizzata, prima, da Azzam e, poi, attuata da bin Laden.

Internazionalismo, ma anche attenzione al contesto, alla pene-

trazione e al radicamento sono quindi divenute ben presto le di-

mensioni della minaccia di al-Qaida, legando la sfera del terrori-

smo globale a quella dell’insurrezione.

È così che prende forma e corpo nei primi anni Duemila sem-

pre più Tanzim al-Qaida (l’organizzazione di al-Qaida secondo il

nome utilizzato da Osama bin Laden) con le sue diverse ramifica-

zioni regionali che hanno contribuito a ridefinire l’orizzonte del

rischio sia nella prospettiva del suo cosiddetto “nemico lontano”,

l’Occidente, sia di quello “vicino”, i vecchi regimi dei paesi me-

diorientali instauratisi nel periodo della Guerra fredda.

In tutto questo, contesti come l’Iraq e lo stesso Afghanistan so-

no divenuti dopo le diverse “guerre di liberazione” veri e propri

incubatori di questa trasformazione. I fronti all’interno dei quali

sperimentare e mettere alla prova la resilienza e l’efficacia della

strategia jihadista.

Contestualmente, l’Occidente, che guardava preoccupato alla

minaccia qaidista, non ha colto che si erano messi in moto proces-

si di ancora più ampia portata e differente significato. Sulla scia di

un malessere sempre più diffuso, di scioperi soffocati, di opposi-

zioni tacitate e libertà negate stava di fatto prendendo forma una

vasta massa critica d’insoddisfazione nell’area mediorientale e in

quella nordafricana. Alla fine del 2010 le piazze iniziarono a

riempirsi. Prima in Tunisia e poi con un effetto domino in Egitto,

22 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Bahrein, Siria, Libia e Yemen, solo per citare i casi più rilevanti,

le popolazioni arabe hanno dimostrato di voler affrontare di petto

il proprio “passato”.

La “Primavera araba” (2011), come nuovamente l’Occidente

ha inteso chiamare questo momento di “risveglio” e sollevamento

popolare (intifada), ha proiettato l’intera regione lungo una nuova

direzione. È così che un mondo focalizzato su al-Qaida ha pensato

che la storia e la volontà del popolo avessero lasciato indietro que-

sta minaccia. Una sfida ormai superata e resa quasi anacronistica

dall’eliminazione delle primule rosse del jihadismo internazionale

ma, soprattutto, dalle richieste di manifestanti che invocavano li-

bertà, giustizia, perequazione sociale ed economica, tralasciando

slogan anti-americani o contrari all’Occidente.

Eventi di questa portata hanno diviso, e tuttora polarizzano, i

giudizi di analisti e commentatori. Da una parte gli entusiasti, i

molti felici di veder contraddetto l’adagio di un mondo arabo, ma

non solo, destinato all’insoddisfazione e al controllo. Dall’altra gli

scettici che hanno invece assistito con preoccupazione a questa

nuova fase di rimescolamento e imprevedibile cambiamento.

Il punto centrale, al di là delle opinioni e degli schieramenti, è

che queste dinamiche di trasformazione non hanno semplicemente

messo in discussione i vecchi regimi, sopravvissuti alla fine della

Guerra fredda attraverso successioni o percorsi di riforma interna

rivelatisi poi spesso prettamente estetici, ma hanno chiaramente

scosso le fondamenta delle costruzioni statuali e i principi del pat-

to sociale all’interno della vasta regione mediorientale. Da questo

punto di vista possono essere definiti evidentemente “rivoluziona-

ri”3, seppur rimane ancora poco chiaro quale sia l’epilogo e la di-

rezione ultima di tale percorso. Ed è proprio su questa “incertezza”

che oggi si staglia l’attuale sfida jihadista nella regione.

3 La scelta di racchiudere il termine rivoluzione tra virgolette non ha nessuna valore di opinione o espressione di diminuzione verso quegli eventi, bensì rispecchia l’idea che sia necessario in una prospettiva analitica mantenere una certa sospensione di giudizio sulla portata di eventi certamente dal grande impatto trasformativo ma che ancora devono confermare il loro valore rivoluzionario in ambito sociale, economi-co e politico.

Da al-Qaida alle nuove formazioni 23

Al tempo stesso, all’interno di questa fase di ribellione e cam-

biamento si sono riversate anche le tensioni geopolitiche che an-

davano sempre più prendendo forma nell’area. La contrapposizio-

ne tra Iran e Arabia Saudita, le tensioni tra quest’ultima e il Qatar,

il desiderio di giocare un ruolo egemone da parte della Turchia

nell’area mediorientale e mediterranea e, infine, le scomposte poli-

tiche di alcune potenze europee hanno contribuito ad aumentare la

propensione entropica delle dinamiche in atto.

Di conseguenza, sia nei paesi in cui le piazze sono riuscite a

determinare un cambio di regime (Egitto, Tunisia, Libia e Yemen)

sia laddove, a maggior ragione, ciò non è avvenuto (Siria e Bah-

rein) la complessità e la profondità delle sfide in campo non hanno

tardato a manifestarsi. La prova di tale difficoltà è stata incarnata

dalla vicenda politica delle formazioni islamiste, in particolare in

Egitto, e della loro performance alla guida dei paesi post-2011.

Tralasciando per il momento il contesto siriano, sprofondato in

una guerra civile che dura ancora oggi, l’ascesa del cosiddetto

islam politico, del modello dei Fratelli musulmani, ha contraddi-

stinto di fatto il primo passaggio alle urne nei paesi in cui le piazze

sono riuscite a determinare un cambio di regime o l’adozione di

riforme costituzionali. Confermando l’appeal di tali formazioni e

della loro organizzazione dal punto di vista della capacità di con-

vogliare e indirizzare il consenso, a fronte invece di una tendenzia-

le impreparazione degli schieramenti laici o secolari, i partiti isla-

misti hanno però in breve tempo sperimentato la difficoltà di tra-

sformare il consenso popolare in risultati politici concreti. È così

che ben presto si è manifestato uno dei problemi centrali di ogni

processo di apertura e “democratizzazione”, ovvero la difficoltà di

articolare in modo bilanciato il rapporto tra maggioranza e mino-

ranza, evitando d’interpretare l’esito delle urne come una carta

bianca per governare unilateralmente senza compromesso e me-

diazione. In breve tempo si è così diffusa la percezione di un “raf-

freddamento” della spinta al cambiamento a cui ha fatto seguito

l’immagine della “rivoluzione tradita”.

24 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

L’epilogo di questa fase è noto ed è culminato in Egitto con

l’estromissione di Morsi da parte dei militari, esemplare monito

per gli altri paesi della regione.

Da questo momento, fatta eccezione per la Tunisia, su vari

fronti la situazione politica è parsa rimescolarsi con rapidità, of-

frendo lo spazio e le condizioni per un rilancio della causa jihadi-

sta, mai sopita, all’interno del contesto mediorientale. In tale fran-

gente, il fallimento dell’islam politico ha giovato alla causa jihadi-

sta, che dopo tutto aveva sì applaudito alle iniziative popolari, ma

aveva anche duramente criticato la decisione della Fratellanza e

dei partiti di orientamento salafita di partecipare alle elezioni4.

Di fatto, durante tutti questi eventi al-Qaida ha proseguito nel

suo percorso di adattamento ed evoluzione. Dal corpo centrale (al-

Qaida core, come è stata rinominata) si erano già sviluppate e dif-

fuse diverse terminazioni locali sempre più autonome nella defini-

zione del proprio modus operandi, che hanno poi potuto ulterior-

mente introdursi negli interstizi e nelle debolezze di contesti sta-

tuali e sociali fortemente provati dalle forze sprigionate dalla co-

siddetta “Primavera araba”.

A ciò si deve aggiungere l’uccisione di Osama bin Laden

(2011) cui ha fatto seguito la successione di Ayman al-Zawahiri,

determinando così un altro passaggio importante nel modo di con-

cepire e indirizzare il fronte jihadista sotto la bandiera di al-Qaida.

E proprio durante questo periodo sembrerebbe compiersi il pas-

saggio tra il concetto di Tanzim al-Qaida e l’idea di Qaida al-

jihad (la base del jihad)5. Una transizione che rimane ancora da

verificare con certezza, ma che pare voler sottintendere l’ormai

chiara formazione di una galassia jihadista ampia, diffusa e su

molteplici livelli. Una realtà che può essere al più guidata ideolo-

gicamente sotto l’insegna condivisa della necessità del jihad, piut-

tosto che realmente controllata e influenzata nei diversi contesti in

cui opera.

4 O. Ashour, Collusion to Crackdown: Islamist-Military Relations in Egypt, Analysis Paper, Brookings, 5 marzo 2015. 5 N. Lahoud, M. al-‘Ubaydi, Jihadi Discourse in the Wake of the Arab Spring, Combating Terrorism Center, 2013, p. 12.

Da al-Qaida alle nuove formazioni 25

In uno di questi, l’Iraq, tale fenomeno ha preso un corso parti-

colarmente spedito e autonomo, alimentandosi delle specifiche

debolezze di un territorio segnato da anni di guerra. È qui che al-

Zarqawi ha aperto la strada alla lotta jihadista che oggi ha preso il

nome di Stato Islamico (IS). Ed è da qui che al-Baghdadi decide di

riversarsi nel contesto siriano in piena guerra civile, trovando così

il teatro ideale per affermare definitivamente tale progetto.

È alla luce di questa breve ricognizione storica che si manifesta

la complessità di un fenomeno jihadista non più riconducibile a

quell’unico qaidista dei primi anni Duemila e di una minaccia che

si articola solo lungo le due direttrici del terrorismo e

dell’insurrezione, ma che ambisce direttamente alla statualità, su-

perando le attuali divisioni “nazionali”. La galassia jihadista non

esprime quindi solo la molteplicità delle capacità e della possibili-

tà degli obiettivi da colpire, ma anche una distinzione nella natura

e nella ratio della sua strategia e visione.

Jihad globale e territorio

A ben vedere il fenomeno al-Qaida, dopo essersi manifestato in

tutta la sua spettacolarità con gli attacchi del 2001, proietta quasi

immediatamente la sua sfida globale nella prospettiva locale. Un

esempio di tale percorso può essere ritrovato in Arabia Saudita.

Tra il 2002 e il 2004, infatti, la sua terminazione saudita si concen-

tra sulla realizzazione di un ampio programma di destabilizzazione

nel regno, cercando di colpire infrastrutture e figure politiche e mi-

litari di rilievo. In questo momento, però, tale direzione rimane

strettamente ancorata alla prospettiva di una guerra di risposta

contro l’Occidente e i suoi alleati, ovunque questi possano essere

raggiunti grazie all’impegno di un’avanguardia ideologicamente e

militarmente pronta6.

6 B. Wilkinson, J. Barclay, The Language of Jihad. Narratives and Strategies of al-Qa‘ida in the Arabian Peninsula and UK Responses, Whitehall Report, Rusi, dicembre 2011, pp. 4-11.

26 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Resistenza contro l’“occupante” e “risveglio” della comunità

islamica (umma) sono tra i concetti chiave che danno corpo a que-

sta fase di jihad globale, senza confini e barriere. È una fase chia-

ramente conseguente al programma qaidista e, al tempo stesso,

importante per affinare e sviluppare il proprio concetto strategico e

operativo. Sulla base di successi e altrettanti fallimenti, la grand

strategy dell’organizzazione prende quindi sempre più corpo an-

che grazie all’apertura del fronte iracheno che le offre un nuovo

inaspettato teatro d’azione.

Il “primo” contatto con il territorio non è però semplice.

Da una parte, in seguito alle contromisure messe in campo dal-

le forze saudite, la frangia jihadista si riposiziona sempre più in

Yemen, che da lì a pochi anni diverrà teatro privilegiato di al-

Qaida nella Penisola Araba (Aqap) fino alla fusione (2009) delle

realtà provenienti dalla cosiddetta ard al-haramain (la terra dei

due santuari, l’Arabia Saudita). In tale contesto, il regime di Salah

e la presenza statunitense divengono gli obiettivi principali del

movimento, in attesa di un forte rilancio della propaganda in favo-

re del jihad globale che giungerà l’anno seguente proprio da que-

sto territorio.

Dall’altra, al-Zarqawi assurge a leader della causa jihadista in

Iraq, guidando la formazione di al-Qaida in Iraq. Con lui la pres-

sione sul territorio, la spinta alla polarizzazione settaria e la dispo-

nibilità a portare tale scontro anche in una prospettiva regionale, si

manifestano prepotentemente, come denotano gli attacchi ad Am-

man nel 2005.

Al-Zarqawi rimane la figura di riferimento fino alla sua ucci-

sione nel 2006, divenendo in seguito ispirazione dell’attuale IS. Lo

stesso anno, l’avvio del movimento del “risveglio” (sahwa)7 nel

paese determinò una significativa botta d’arresto del progetto Aqi

(al-Qaida in Iraq), mettendo a nudo le contraddizioni di una strate-

gia eccessivamente dura nei confronti della popolazione locale, in

7 Sahwa è stato un movimento a base tribale che ha giocato un ruolo centrale nell’operazione statunitense denominata “surge”. Grazie alla combinazione di un maggior impegno militare di Washington e del supporto delle tribù arabe dell’Iraq il livello di violenza all’interno del paese fu notevolmente ridotto.

Da al-Qaida alle nuove formazioni 27

particolare della componente tribale sunnita8. Un’importante espe-

rienza per il fronte jihadista. Una lezione da cui si è poi sviluppata

una maggior attenzione verso le alleanze locali e la realizzazione

di programmi di sostituzione allo stato nei servizi alla popolazio-

ne, che attualmente caratterizza la presenza jihadista.

Contestuale a questa fase di diffusione nella sfera mediorienta-

le, quindi non più realtà legata al solo settore afghano-pakistano,

nel 2007 il gruppo salafita per la Predicazione e il Combattimento

(Gspc) annuncia la sua entrata nella sfera qaidista proclamando la

creazione di al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim).

Con il senno di poi, a pochi anni dall’avvio della “Primavera

araba” i profili della minaccia jihadista contemporanea sono in

parte già ben evidenti. Al-Qaida si diffonde e penetra in diverse

regioni, idealmente occupando l’ampio arco mediorientale e medi-

terraneo che guarda all’Europa. Il territorio diviene progressiva-

mente qualcosa di più che un safe haven, un luogo protetto in cui

addestrarsi ideologicamente e militarmente, attirando nuove reclu-

te, e si consolida come fronte ulteriore e coerente della lotta jiha-

dista in cui colpire le forze dei regimi “apostati” (filo Occidentali)

e realizzare le prime forme di applicazione della sharia e quindi di

controllo sociale e politico, proseguendo nel contempo nella pro-

mozione e ispirazione di operazioni terroristiche internazionali.

Da questo punto di vista, a partire dal 2009 la crescita del peso

specifico di Aqap ha dimostrato la capacità di riuscire a veicolare

questo duplice sforzo verso il territorio9. La causa qaidista prose-

gue, quindi, sia nell’ottica della guerra per fronti, le terminazioni

locali facenti capo alla base centrale, sia attraverso la promozione

di una sorta di atomizzazione e individualizzazione del jihad arma-

8 M.M. Eisenstadt, “Tribal Engagement: Lessons Learned”, Military Review, settem-bre-ottobre 2007. 9 La lotta contro Ali Abdullah Saleh e la presenza statunitense nell’area; la sperimen-tazione di formule di controllo territoriale con Abiyan e Zinjibar; l’ispirazione di operazioni terroristiche individuali sul suolo occidentale attraverso la rivista Inspire. Non è da tralasciare tutto il dibattito rispetto all’autenticità e alla rilevanza di questo periodico, la cui ultima uscita risale a dicembre 2014. Non essendo qui il luogo per approfondire tale confronto, risulta comunque rilevante inserire tale strumento all’interno della strategia operativa di Aqap e quindi della più ampia galassia jihadista.

28 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

to globale10

. È così che a partire da quegli anni al-Qaida chiama

all’azione e alla mobilitazione non solo cellule e gruppi chiara-

mente affiliati ma anche singole persone secondo proprie capacità

e possibilità, con micro-azioni diffuse11

.

Guerra di emorragia all’Occidente – occupato nella costante at-

tività di controllo e sicurezza – come è stata descritta, e assalto

agli apparati statuali dei regimi regionali alleati per stimolare ulte-

riormente polarizzazione e conflittualità.

Contemporaneamente, si delinea in modo chiaro e strutturato

l’altra dimensione, da sempre presente ma ora sotto l’attenzione di

tutti, quella della guerra psicologica. L’utilizzo dei nuovi strumen-

ti di comunicazione e di una strategia ad hoc permette ad al-Qaida

di sistematizzare una vastità di materiale già abbondantemente

presente in rete. Come ricordato in precedenza, la diffusione del

concetto di Qaida al-jihad può ben rappresentare la sensazione di

un coordinamento su una galassia varia ed eterogenea già formata-

si, in qualche modo ormai ben ancorata a determinati territori, uni-

ta dal comune sentire del jihad armato seppur già proiettata verso

differenti orientamenti strategici. L’attuale IS nasce integralmente

da questo percorso, dalle sue contraddizioni e dalle sue intuizioni.

Aspetto importante è il fatto che quest’organizzazione non elimina

alcuni dei profili di rischio precedentemente menzionati, ma ne

aggiunge di nuovi tra cui il più evidente è quello di una pretesa

statualità che, con la sua esistenza e le sue attività, denuncia pub-

blicamente l’ostilità non solo verso i regimi “apostati”, ma contro

lo stesso assetto degli stati della regione.

Cambi di regime e sfida jihadista

L’avvio delle proteste di piazza nei diversi paesi arabi ha rappre-

sentato un momento rilevante nella parabola evolutiva del feno-

meno jihadista. Ciò evidentemente non per una connessione più o

meno diretta tra queste due realtà, cosa che non è avvenuta nean-

11 B. Wilkinson, J. Barclay, (2011), p. 20.

Da al-Qaida alle nuove formazioni 29

che nella prospettiva del fenomeno dell’islam politico, ma per la

ridefinizione del quadro politico regionale e dei paesi arabi. Que-

sto è l’ambiente in cui si muovono attualmente tali gruppi.

L’aspetto importante è che a partire dalla fine del 2010, al-Qaida e

la galassia jihadista hanno dovuto riflettere sulla loro missione e

organizzazione, riposizionandosi in relazione all’avvio di questa

fase di trasformazione.

Di fatto, se da una parte le popolazioni arabe si sono ribellate e

sollevate proprio contro quei regimi che il qaidismo ha da sempre

dichiarato “apostati”, dall’altra non hanno abbracciato il progetto

jihadista bensì al più, per quanto vicini all’ideale della necessità di

un ruolo dell’islam in politica, hanno guardato alle formazioni

ispirate alla Fratellanza musulmana e al conservatorismo salafita. I

Fratelli musulmani e alcune frange salafite hanno, infatti, accettato

di costituire partiti giuridicamente riconosciuti scegliendo le urne

come via per la realizzazione dei propri programmi. Ciò ha evi-

dentemente colto in contropiede la galassia jihadista dato che

l’idea del riscatto e quella dell’emancipazione tanto attese e pro-

spettate si sono realizzate lungo direttrici da sempre contestate e

combattute.

Allo stesso tempo, l’andamento ondivago di queste dinamiche

di ribellione12

ha ulteriormente rimescolato la situazione, offrendo

alle formazioni jihadiste inaspettati nuovi fronti d’azione in cui

proseguire, rinnovate, la loro lotta.

Ciò che appare interessante non è tanto la naturale instabilità

che la “Primavera araba” ha determinato nel promuovere la transi-

zione dai regimi autocratici a sistemi ispirati ai principi democrati-

ci e più perequativi13

, bensì è importante constatare che le aperture

12 È importante ricordare il numero di eventi che si sono verificati in questi anni, tra i cambiamenti di regime realizzati in Tunisia ed Egitto (in modo molto meno evi-dente anche in Yemen con il passaggio dei poteri da Ali Abdullah Saleh a Abd Rab-buh Mansour Hadi), il rapido precipitare della situazione egiziana con l’intervento dei militari, la promozione di riforme come via d’uscita dalle proteste in Giordania e Marocco e, infine, la fiera resistenza da parte del regime al potere come in Siria, con il conseguente scoppio di una guerra civile che ancora perdura. 13 Ricordiamo ad esempio l’uccisione di Chukri Belaid e Muhamed Brahmi (Tunisia 2013); la deposizione di Morsi (Egitto 2013); l’uccisione dell’ambasciatore statuni-

30 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

conseguite durante questi anni hanno favorito una nuova fase di

filiazione di nuovi soggetti jihadisti, alcuni dei quali più o meno

pubblicamente legati ad al-Qaida. Dato che l’analisi sistematica

dei singoli casi è sviluppata nel corso del volume, è qui importante

sottolineare brevemente alcune delle sfide legate a tale fase di evo-

luzione.

Di fatto, a partire dal 2011 si assiste alla proliferazione e repli-

cazione di gruppi radicali jihadisti che si concentrano sulla dimen-

sione della da‘wa (predicazione), piuttosto che sulla lotta armata.

Tra i più famosi ritroviamo Ansar al-Shari‘a (i partigiani della sha-

ria), in particolare in Yemen, Libia e Tunisia14

. Tralasciando il ca-

so yemenita poiché esula dall’obiettivo specifico del volume, no-

nostante sia ormai in corso una vera e propria guerra civile, queste

formazioni hanno cercato di creare dei nuovi contenitori per rein-

dirizzare la causa jihadista nel quadro post-rivoluzionario. Questi

sembrano permettere di mantenere inalterata la connessione alla

prospettiva della lotta jihadista globale, tendenzialmente evitando

il richiamo a operazioni militari all’interno dei territori di riferi-

mento in modo tale da concentrarsi in particolare sull’erogazione

di servizi alla popolazione e sulla da‘wa. Sono movimenti che

ambiscono quindi a creare sfere pubbliche alternative e separate

rispetto a quelle ufficiali, potendo contare su una chiara divisione

di compiti all’interno del gruppo15

.

Sebbene sia ancora da appurare con certezza come questa espe-

rienza evolverà nei vari contesti d’azione, Ansar al-Shari‘a pare

proseguire lungo la linea di evoluzione verso un rapporto più

proattivo da parte del fenomeno jihadista nei confronti del territo-

tense Chris Stevens (Libia 2012) e di Abdul Salam al-Musmari (Libia, 2013) e, infine, la tensione tra la Fratellanza musulmana e le formazioni laiche (attuale crisi libica). 14 D. Gartenstein-Ross, Ansar al-Sharia Tunisia’s Long Game: Dawa, Hisba, and Jihad, ICCT Research Paper, 2013 and Raising the Stakes: Ansar al-Sharia in Tunisia’s Shift to Jihad, ICCT Research Paper, 2014. A. Zelin, “Meeting Tunisia’s Ansar al-Sharia”, Foreign Policy, 2013. S.M. Torelli, F. Merone, F. Cavatorta, “Salafism in Tunisia: Chal-lenges and Opportunities for Democratization”, Middle East Policy, vol. 19, n. 4, 2012, p. 150. 15 A. Plebani, “The Unfolding Legacy of al-Qa‘ida in Iraq”, in New (and Old) Patterns of Jihadism: al-Qa‘ida, the Islamic State and Beyond, a cura di A. Plebani, Milano, ISPI, 2014.

Da al-Qaida alle nuove formazioni 31

rio e delle popolazioni locali. Inoltre, essa sembra anche rappre-

sentare una sorta di bacino da cui i diversi fronti qaidisti potrebbe-

ro attingere, come sembra aver prospettato Aqim nel richiamare la

gioventù tunisina, che guardava al jihad siriano, a rimanere nella

regione piuttosto che partire16

.

Nella sfera egiziana, la “Primavera araba” e la conseguente fa-

se d’instabilità che è culminata con l’intervento dell’esercito, ha in

qualche modo favorito la proliferazione di differenti sigle jihadiste

sia nella penisola del Sinai, con legami alla dimensione di Gaza,

sia nel cuore del territorio egiziano. In questo contesto la situazio-

ne pare essere molto più confusa rispetto al contesto tunisino. Da

una parte sono rintracciabili organizzazioni che evitano di riferirsi

direttamente ad al-Qaida, pur rinnovando il loro supporto alla cau-

sa jihadista globale. Al tempo stesso esse non praticano la lotta

armata, dimostrando l’intenzione piuttosto di radicarsi sul territo-

rio e tra la popolazione sulla base chiara del rifiuto di ogni com-

promesso con il potere e le leggi dello stato.

Dall’altra, una realtà come Ansar Bait al-Maqdis ha realizzato

diverse operazioni militari nel Sinai, rispecchiando formule classi-

che della lotta jihadista, nonostante oscilli tutt’ora tra una compo-

nente che si schiera con il sedicente Stato Islamico e una che se

n’è discostata riferendosi ancora ad al-Qaida.

La presenza di tali gruppi nel contesto egiziano non rappresen-

ta solamente una minaccia di per sé, ma si collega alle molteplici

sfide che il paese deve attualmente affrontare. Esiste, infatti, il

problema del controllo dei confini e dei territori periferici sia in

direzione della Libia sia del Sinai dove diverse tipologie di attività

parallele e illegali possono liberamente proliferare. In questi con-

testi non si pone solo un problema di sicurezza, ma anche di ritor-

no dello stato e dei suoi servizi alla popolazione. Inoltre, però, ri-

mane la questione del rapporto con i Fratelli musulmani che ri-

mangono una forza ben radicata nel paese, nonostante le misure di

contenimento adottate dal nuovo corso politico di al-Sisi. Infine, in

un quadro più generale restano aperte questioni di fondamentale

importanza come quella della gestione delle acque del Nilo in rap-

16 N. Lahoud, M. al-‘Ubaydi, (2013).

32 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

porto ai progetti di sbarramento annunciati dall’Etiopia e da altri

paesi rivieraschi a monte di questo bacino fluviale. Di fatto, questi

sono punti di debolezza che potrebbero colpire gli strati più deboli

della popolazione egiziana, un mondo che alcune delle attuali

formazioni jihadiste hanno già individuato come obiettivo della

loro missione.

Di fronte a tale situazione, nuovamente il dato rilevante risulta

essere il rapporto tra questi gruppi, il territorio e le popolazioni lo-

cali. In questo senso non si registra solamente uno scarto nella

propensione e attenzione, ma una vera e propria riconfigurazione

dell’obiettivo immediato.

Dato il perdurante stato d’instabilità di contesti di primaria im-

portanza nella prospettiva europea, non solo per la prossimità geo-

grafica, è evidente che tali realtà possono rappresentare una sorta

d’ipoteca pendente pronta a riscuotere i frutti di politiche poco bi-

lanciate e lungimiranti. La conquista dei “cuori” o delle “pance” in

competizione con una struttura statale non in grado di assistere la

propria popolazione può infatti rappresentare una sfida molto più

grande di quella militare.

Inoltre, il collegamento con la dimensione qaidista non deve

essere sottovalutato, così come sarebbe erroneo pensare che la

maggior attenzione nei confronti della da‘wa manifesti

un’irreversibile rinuncia alla lotta armata, scelta che per ora appare

tattica piuttosto che strategica o frutto di una riconfigurazione

ideologica ancora ben lungi dall’essere compiuta. A ciò si deve

aggiungere l’esistenza di nuovi soggetti già impegnati sul fronte

militare che, nonostante si concentrino sulla dimensione eminen-

temente locale, si rifanno internazionalmente a realtà quali al-

Qaida e IS17

.

Questo movimento aggiuntivo nel territorio segna quindi un ul-

teriore avanzamento di una propensione che abbiamo visto essere

già in atto da tempo. Se da queste realtà non è prevedibile una

proiezione militare internazionale, la loro capacità operativa locale

17 A.Y. Zelin, The War between ISIS and al-Qaeda for Supremacy of the Global Jihadist Movement, Research Notes, The Washington Institute For Near East Policy, H.20, giugno 2014.

Da al-Qaida alle nuove formazioni 33

può rappresentare una minaccia chiara per l’Europa e per i suoi

interessi economici ed energetici nella regione.

Fallimenti politici e un “nuovo” paradigma jihadista: lo state making

La “Primavera araba” o meglio le dinamiche politiche che si sono

susseguite a partire dal 2010 non hanno avanzato solo la proble-

matica del cambio dei regimi e del temporaneo indebolimento dei

sistemi statuali di fronte alla fase di transizione. Per varie e spesso

differenti ragioni, in contesti come Iraq, Siria e Libia si è assistito

a un vero e proprio fallimento delle proposte politiche, delle stra-

tegie e delle risposte avanzate per affrontare le sfide del momento.

Ciò è il risultato di un numero elevato di variabili che si sono

combinate nel peggior modo possibile e che attengono

all’influenza esterna giocata dai principali attori regionali,

all’atteggiamento delle classi politiche al potere18

e infine

all’incerta posizione tenuta dall’Occidente.

La nascita e affermazione di IS tra Raqqa (Siria) e Mosul (Iraq)

ne è la più evidente manifestazione, così come l’attuale situazione

di profondo disordine interno al contesto libico. Per la nostra ana-

lisi però le dinamiche più rilevanti riguardano il contesto del Vi-

cino Oriente, e che solo recentemente sembrano cercare una loro

via nell’area nordafricana, nutrendosi delle debolezze e delle con-

traddizioni di un paese che non ha ancora trovato una via credibile

al post-Gheddafi.

Nel 2010 in concomitanza con il ritiro delle truppe statunitensi

in Iraq la situazione poteva essere giudicata con speranza. Ormai

orfana da anni del suo leader al-Zarqawi, Aqi era in arretramento,

obbligata a ripiegare e ritirarsi nelle aree di Ninive grazie agli

sforzi militari statunitensi, ma ancor più in conseguenza al succes-

18 Ricordiamo, ad esempio, in Siria con Bashar al-Assad e la decisione di rispondere alle manifestazioni con la violenza, sprofondando il paese nella guerra civile e in Iraq con Nuri al-Maliki e la sua deriva settaria.

34 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

so della sahwa a guida tribale sunnita19

. Nello spazio di pochi mesi

si era acceso però il settore siriano. Le piazze di Deraa si sono

riempite così come quelle degli altri centri urbani del paese. La ri-

sposta del regime è ben nota. Come in una riproposizione delle lo-

giche e degli schemi di Hama del 1982, pur senza riuscire a rista-

bilire l’ordine, l’apparato di sicurezza si è mosso con decisione.

Nel rapido susseguirsi di pochi mesi il paese si è così trovato dra-

sticamente diviso e polarizzato fino a cadere nell’attuale guerra

civile volutamente settarizzata. Inoltre, nel breve volgere di questi

eventi, dall’Iraq vennero inviate forze fresche per combattere il

regime di al-Assad. Fu l’intuizione di Abu Bakr al-Baghdadi, già

leader dello Stato Islamico dell’Iraq, che permise di ripensare e

riproporre lo schema dello scontro settario applicato in precedenza

nel contesto iracheno, prospettando l’unione del fronte iracheno e

di quello siriano che si andava delineando. L’Iraq, nel frattempo,

si è mosso inesorabilmente lungo un piano inclinato che lo ha

condotto a una nuova fase di scontro interno anche a causa della

deriva settaria adottata dal premier Nuri al-Maliki. Nel paese si è

diffuso così un nuovo clima di polarizzazione tra la dimensione

sciita e quella sunnita, che ha permesso il contestuale rilancio della

causa jihadista20

.

Da qui si dipana il percorso che ci conduce fino all’auto-

proclamazione del califfato nell’estate del 2014, che ha segnato

non solo una recrudescenza del fenomeno jihadista, ma anche

l’affermazione di due nuovi orientamenti: Jabhat al-Nusra (JN; Si-

ria) e l’auto-proclamato “Stato Islamico” (IS; Siria-Iraq).

In questo senso, stati falliti e fallimenti politici non hanno sem-

plicemente riproposto la questione dell’implosione di singoli si-

stemi socio-politici ma, data la molteplicità di fronti d’instabilità,

hanno generato una nuova sfida. Dalla gestione di spillover si è

ora passati a sfide transnazionali con organizzazioni posizionate in

più contesti contigui tra loro. Ciò naturalmente complica il piano

19 B. Fishman, “After Zarqawi: the Dilemmas and Future of Al Qaeda in Iraq”, The Washington Quarterly, vol. 29, n. 4, autunno 2006. 20 P. Halaka, Iraq’s deadly spiral toward a civil war, European Parliament, Directorate General for External Policies – Policy Department, Policy Briefing, ottobre 2013.

Da al-Qaida alle nuove formazioni 35

del confronto. Da una parte c’è un’unica fonte da contrastare ben

localizzata. Dall’altra questa minaccia si alimenta di problemati-

che differenti richiedendo quindi soluzioni ad hoc altamente cali-

brate sul contesto. Queste, inoltre, sono rese sempre più necessarie

proprio per la presenza di organizzazioni che pongono la sfida

nell’ordine militare, sociale ed economico, sia nella dimensione

locale sia in quella globale.

Tra il 2011 e il 2013 JN ha conquistato la scena siriana, dimo-

strando significative capacità operative e una marcata sensibilità al

contesto locale e alle esigenze della guerra civile in corso. Lo ha

fatto collaborando con le altre forze ribelli, concentrandosi

sull’arruolamento in loco, beneficiando inoltre dei primi arrivi

dall’estero e ritagliandosi spazi in cui riprodurre un sistema di

controllo alternativo a quello del regime di al-Assad, con

l’erogazione di servizi alla popolazione e l’amministrazione della

giustizia. È così che JN è emerso come attore di spicco nel fronte

delle opposizioni, articolando già un modello alternativo rispetto

alle precedenti esperienze jihadiste.

In qualche modo JN ha dimostrato di non essere più semplice

“insurrezione”. In questo ha pesato sicuramente la dinamica di una

guerra civile in piena regola che ha consentito ampi margini di

manovra.

A partire dalla primavera del 2013, però, qualcosa ha iniziato a

muoversi. Le forze di al-Baghdadi, rinominate Isis, hanno recla-

mato sempre più la guida del fronte siro-iracheno, richiedendo

formalmente un atto di riconoscimento della sua leadership su un

fronte che doveva essere sempre di più quello dei due stati. Ciò ha

evidenziato il suo chiaro rifiuto a ogni tipo di divisione territoriale

che assecondasse gli antichi progetti coloniali occidentali, mentre

al-Zawahiri invitava JN a concentrarsi sul contesto siriano e Isis su

quello iracheno21

. La scissione si è compiuta di lì a poco, non sen-

za mostrare una certa dose d’ironia di fronte alle esitazioni della

guida di al-Qaida centrale, che non è riuscito a ricomporre il fron-

te, limitandosi paradossalmente a proporre una ripartizione fun-

21 W. McCants, “How Zawahiri Lost al Qaeda. Global Jihad Turns on Itself”, Foreign Affairs, 19 novembre 2013.

36 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

zionale tra i due gruppi proprio in ragione di quelle divisioni di

campo contro cui il fenomeno jihadista combatte da sempre.

In seguito, mentre nell’aprile JN abbandonava Raqqa, il mese

successivo Isis consolidava la sua presenza nella città, eleggendola

a cuore politico di un progetto che guardava già a qualcosa di dif-

ferente rispetto al solo controllo del territorio e della popolazione,

come ha dimostrato la successiva divulgazione di un bayan al-

hudud (dichiarazione con cui stabiliva le leggi vigenti nella città),

replicato poi con la presa di Mosul del 201422

.

Da questi eventi, l’ascesa di Isis è stata costante sia nel conte-

sto siriano sia in quello iracheno. Sottomettendo altri gruppi mili-

tanti, conquistando importanti dotazioni militari sul campo, con-

trollando risorse e canali di finanziamento sempre più significativi,

rinsaldando legami con le autorità tribali, integrando al suo interno

ex-ufficiali baathisti iracheni e spingendo con decisione su una

campagna di reclutamento all’estero dei cosiddetti foreign

fighters, Isis ha costruito efficacemente la sua forza e si è proietta-

to sul territorio. L’estate del 2014 ha rappresentato il coronamento

di questa fase conclusasi con la conquista della seconda città ira-

chena per peso demografico, Mosul, l’auto-proclamazione del ca-

liffato e l’assunzione definitiva dell’appellativo di Stato Islamico.

L’idea del fronte tramonta, la battaglia è così rilanciata in tutta

un’altra dimensione che è globale, regionale e naturalmente locale

secondo il modello della statualità e non più quello qaidista

dell’organizzazione. Mai prima d’allora una formazione jihadista

aveva pensato a tanto. La linea di frattura con al-Qaida si manife-

sta definitivamente e in qualche modo una storia nella storia del

jihadismo globale prende corpo.

In questo senso, JN rappresenta un’esperienza di grande inte-

resse che sembra sviluppare al massimo la dimensione della pene-

trazione e dell’identificazione con le istanze del territorio e anche

con la disponibilità alla cooperazione nel quadro di un fronte più

22 H.H. al-Qarawee, “Il modus operandi di Isis: il messaggio politico, la propaganda e l’indottrinamento”, in Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, a cura di M. Maggioni e P. Magri, Milano, Edizioni Epoké - ISPI, p. 167.

Da al-Qaida alle nuove formazioni 37

ampio23

. IS, invece, ha ribaltato completamente tale visione, rifiu-

tando non solo le limitazioni specifiche del territorio e della que-

stione locale, ma attaccando qualsiasi soggetto che si fosse rifiuta-

to di piegarsi e soggiacere alla sua causa. Lo ha fatto sulla base

dell’esercizio di un’autorità effettiva sia sotto il profilo statuale sia

sotto quello teologico. Nel compiere tale operazione le logiche

dello scontro e la pretesa di avanzare un programma di state-

building autonomo corrono di pari passo. Il califfato è proclamato

e con ciò IS ha affermato la sua pretesa superiorità politica e teo-

logica su tutto il fronte jihadista e la comunità islamica senza limi-

ti o barriere24

. La lotta al nemico, sia esso vicino o lontano, interno

oppure esterno, diviene quindi parte di qualcosa che va oltre, al-

meno nella propaganda, la strategia e la tattica. L’idea è quella

della creazione di un sistema sociale e politico nuovo, in sostitu-

zione totale rispetto a tutto quello che lo precede. Di qui la distru-

zione esibita della storia di questi territori, il violento massacro di

comunità non-musulmane o considerate eterodosse e, infine, la

chiamata alla hijra (emigrazione) verso il califfato non solo per

possibili nuovi militanti, ma per qualsiasi professionista capace di

contribuire alla macchina statale e amministrativa di IS25

. È evi-

dente che propaganda e autocelebrazione amplificano tale narra-

zione, che l’analisi sul campo deve ancora valutare nella sua com-

pleta veridicità. L’uso spinto della comunicazione e dei media in

effetti sta moltiplicando il prestigio di quest’organizzazione26

.

Al tempo stesso, è necessario comprendere gli elementi di “no-

vità” che IS sta cercando d’imprimere nella storia del jihadismo27

.

Un cambiamento che si somma alle linee di minaccia e sfida che

23 J. Caffarella, “Jabhat al-Nusra in Syria: an Islamic Emirate for al-Qaeda”, Middle East Security Report, Institute for the Study of War, n. 25, dicembre 2014, p. 14. 24 P. Maggiolini, A. Plebani, “La centralità del nemico nel califfato di al-Baghdadi”, in Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, a cura di M. Maggioni, P. Magri, Milano, ISPI, 2015, pp. 29-51. 25 “A Call to Hijra”, Dabiq, al-Hayat Media Center, n. 3, 2014, p. 32. 26 B. Wilkinson, J. Barclay, (2011). 27 E. Brooking, “The ISIS Propaganda Machine Is Horrifying and Effective. How Does It Work?”, Defense in Depth, 21 agosto 2014, http://blogs.cfr.org/davidson/2014/08/21/the-isis-propaganda-machine-is-horrifying-and-effective-how-does-it-work/.

38 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

permangono lungo direzioni più tradizionali e conosciute. Non è

in atto una sostituzione, ma un’ulteriore moltiplicazione e diffu-

sione all’interno della sfera dello state making, pur nell’ottica

dell’immutata causa jihadista globale. Inoltre, se la questione dei

foreign fighters è ormai ben nota, permane il problema di come

gestirli e valutare la possibilità che un loro rientro consenta una

diffusione della minaccia di IS secondo i canoni già “esplorati” da

al-Qaida. Parallelamente, rimane pressante la necessità di verifica-

re come IS stia cercando di tenere fede al suo proclama «rimarre-

mo e ci espanderemo». Se da una parte si osserva un tendenziale

rallentamento della spinta militare di IS nel contesto siro-iracheno,

ciò non rappresenta ancora una notizia del tutto rassicurante. La

questione del radicamento e la possibilità d’integrare con successo

la popolazione, o almeno una parte di essa, rimane infatti la mi-

naccia più significativa. Questo aumenta la responsabilità delle

scelte politiche che verranno adottate per dar soluzione alle crisi in

Iraq, ancora scosso dalla polarizzazione settaria, e in Siria, dove

rimane la questione di come rapportarsi con il regime di al-Assad.

La sfida di IS complica la situazione non solo sul piano milita-

re, ma soprattutto su quello politico. Al tempo stesso, l’opa lancia-

ta da IS sul fronte jihadista sembra prendere sempre più corpo e

sulla scia dei suoi successi differenti formazioni stanno ricono-

scendo la sua autorità. È il prosieguo di quella competizione in se-

no a questo mondo che vede contrapposti al-Qaida e IS. Se da un

Da al-Qaida alle nuove formazioni 39

punto di vista generale, come abbiamo visto la galassia jihadista è

già cambiata e in qualche modo rispecchia da tempo alcuni dei

tratti evidenziati in questa sezione, il pericolo che dai proclami si

possa passare credibilmente alla realizzazione in diversi contesti

del progetto di IS è una minaccia da studiare e considerare con at-

tenzione. Per ora ciò che sembra essersi realizzato è l’adozione

della retorica di questo gruppo che prevede non tanto

l’associazione della “q” al nominativo specifico di un gruppo terri-

toriale (Aqap, Aqim, la stessa Aqi), secondo l’idea qaidista, ma

quella di wilaya (provincia), a sottintendere l’espansione dello Sta-

to Islamico.

Il caso libico è in questo senso interessante in quanto pare of-

frire tutte le condizioni d’instabilità e polarizzazione interna. Sep-

pur profondamente differenti da quelle del Vicino Oriente, esso

sembra offrire il teatro ideale su cui testare l’adattabilità di questo

progetto. Rimane quindi da valutare se IS sarà in grado di apporta-

re modifiche strategiche e tattiche nella costruzione degli equilibri

interni di divisione delle risorse e delle rendite a misura delle “esi-

genze” libiche, rimanendo ovviamente nel quadro di una retorica

ideologica incarnata dall’adesione al califfato. Anche nella situa-

zione in cui ciò non si realizzasse immediatamente, è chiaro che in

una congiuntura che vede gli stati centrali fortemente indeboliti, la

proposta di IS può essere particolarmente critica. Un pericolo che

nasce dalla scelta di puntare sulla sostituzione e riscossa di quelle

realtà escluse e ai margini con la promessa che ciò possa realizzar-

si ora e immediatamente.

Conclusioni

Questa breve ricognizione nella sfera del fenomeno jihadista e di

come esso sia cambiato nel corso di questi anni ha cercato di evi-

denziare il costante percorso trasformativo e quasi adattativo che

ne ha caratterizzato la storia quasi fin dalla sua imposizione

all’attenzione generale. Il concetto di resilienza ha davvero ragio-

ne nel cogliere un tratto di un mondo in grado di portare a termine

importanti operazioni su vari livelli, ma anche di metabolizzare

40 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

più frequenti sconfitte che ciononostante non l’hanno mai del tutto

piegato ed eliminato dalla storia. Una minaccia che sta ormai sem-

pre più riposizionandosi dal settore afghano-pakistano nella vasta

regione del Mediterraneo allargato, cercando di radicarsi in territo-

ri d’indubbia importanza simbolica e dalla chiara rilevanza geopo-

litica, geoeconomica ed energetica.

Attualmente, l’aspetto più problematico dal punto di vista ana-

litico è riuscire a sistematizzare le diverse tipologie di sfide e mi-

nacce provenienti da questa galassia jihadista in quanto poten-

zialmente in grado di avanzare in sincrono. Questo non già per

l’esistenza di una o due grandi organizzazioni di riferimento, ma

per la notevole diffusione, atomizzazione e individualizzazione del

concetto di jihad dove dimensione globale, regionale e locale pos-

sono facilmente inter-scambiarsi e sincronizzarsi. Il risultato è che

attualmente la galassia jihadista non descrive più solamente

un’ampia pluralità di attori, ma anche una vasta area di specializ-

zazione della minaccia che può essere portata avanti da soggetti

più o meno capaci di muoversi su più piani, ma che comunque si

riferiscono allo stesso immaginario. Da qui nasce un rischio e una

sfida che impone un ancor maggiore livello di coordinamento tra il

piano politico, quello militare e degli apparati di sicurezza e poli-

zia nazionale.

In tutto questo, comunicazione e guerra psicologica divengono

sempre più strumenti fondamentali per alimentare e ispirare

quest’ampia e diffusa sfera ideologica, senza la necessità

d’investire eccessivamente su una reale struttura di coordinamen-

to. Naturalmente, il quadro non va esagerato cadendo nella trappo-

la delle percezioni e delle soggezioni. Il nodo centrale, come visto

in queste pagine, non è solo legato a una capacità autonoma di

leggere le situazioni politiche e geopolitiche da parte del fenome-

no jihadista, ma è più frequentemente connesso a come attori sta-

tuali regionali e internazionali proiettano le loro politiche.

L’instabilità e i fallimenti registrati negli ultimi anni sono infatti

conseguenza di tale dimensione, piuttosto che della presenza di

cellule od organizzazioni jihadiste. La nuova natura che queste pe-

rò paiono assumere suggerisce che la risposta dovrà essere calibra-

Da al-Qaida alle nuove formazioni 41

ta su un arco temporale medio lungo, passando ancor più attraver-

so la popolazione, il territorio e la dimensione del patto sociale ed

economico tra questi e il potere centrale.

Per l’Italia ovviamente si presenta la necessità di leggere atten-

tamente il posizionamento e la direzione che la minaccia jihadista

sta assumendo nei contesti regionali in cui è presente con propri

contingenti o attività economiche ed energetiche, come il Rappor-

to analizza sistematicamente. Al tempo stesso, permangono i ri-

schi a livello globale o internazionale con la combinazione del fe-

nomeno dei cosiddetti “lupi solitari” e dei foreign fighters da cui il

nostro paese non può dirsi immune. In questo senso, l’Italia deve

proseguire lungo la via della ridefinizione dei propri strumenti le-

gislativi e di sicurezza, come ha recentemente fatto, preparandosi a

gestire la questione dei “rientrati”28

. Ciò anche in ragione del fatto

che IS non si focalizza più solamente sulla dimensione

dell’avanguardia, preparata dottrinalmente e militarmente, ma ha

esteso la sua chiamata all’intera comunità islamica e in particolare

alle giovani generazioni. Tutto ciò sarebbe necessario poterlo di-

scutere nella dimensione europea. In particolare, l’UE dovrebbe

fortemente rivedere le proprie politiche per il Mediterraneo, non

già nella prospettiva del fenomeno jihadista che evidentemente

non attiene direttamente a questa sfera, ma in quella delle sfide po-

litiche e di tenuta del sistema statuale che l’attuale arco di crisi sta

manifestando con chiarezza. Nel compiere tale operazione, l’Italia

dovrebbe stimolare a livello europeo una seria valutazione

dell’efficacia dei propri programmi in relazione ad altre potenze

regionali che stanno realizzando analoghe iniziative con disponibi-

lità economiche assai maggiori. Questo elemento è vitale proprio

in ragione delle conseguenze che la competizione tra potenze a li-

vello regionale ha prodotto. Al tempo stesso ciò è necessario per

evitare di vedere annullati nei fatti gli obiettivi che ci si propone,

con effetti distorsivi non previsti che vadano ad alimentare i mol-

teplici livelli possibili su cui l’attuale fenomeno jihadista sembra

concentrarsi.

28 Aa. Vv., L’Italia e il terrorismo in casa: che fare?, a cura di L. Vidino, Milano, ISPI, 2014.

2. Libia: la sfida dello Stato Islamico

Laurentina Cizza, Karim Mezran

La presenza dello Stato Islamico (IS) in Libia ha sollevato timori a

livello internazionale per la possibile nascita in Nord Africa di una

provincia del “califfato” sullo stile di quello sorto fra Iraq e Siria. I

paesi confinanti, come l’Italia, dovrebbero temere le conseguenze

di questo potenziale sviluppo, che intacca i loro interessi politici

ed economici nello stato nordafricano e l’interesse dell’Italia a vi-

vere in una regione stabile. Tuttavia l’istituzione di un “califfato”

in Libia è un’eventualità remota, almeno per il momento. Lo Stato

Islamico ha scarse possibilità di trovare terreno fertile in Libia per

due motivi principali: in primo luogo la natura dello scontro in Li-

bia è locale e non ideologica; in secondo luogo, i libici sono mode-

rati per tradizione e religiosamente omogenei, storicamente rilut-

tanti a seguire gli appelli e i gruppi del radicalismo islamico.

Nel contestualizzare la guerra civile libica, gli analisti hanno

convenzionalmente e inaccuratamente diviso i governi rivali lungo

la linea del confronto tra l’islamismo (Tripoli) e l’anti-islamismo

(Tobruk). Ma al cuore della battaglia libica vi è la protezione degli

interessi locali, tribali e regionali, e non solo un disaccordo sul

ruolo dell’islam in politica. Fin dal 2011 la società libica si è divi-

sa lungo linee sociali, militari, tribali e religiose, rafforzando la

tendenza della popolazione a identificarsi con la città e la tribù. Le

città hanno iniziato a essere amministrate come fossero “città sta-

to” e hanno scelto di sostenere dal punto di vista militare e politico

uno o l’altro dei due schieramenti contrapposti – in una rete di al-

leanze non contigua dal punto di vista geografico. I sostenitori

pro-Tobruk includono ufficiali del vecchio regime, tribù dell’est

del paese, federalisti e milizie della città occidentale di Zintan e

44 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

condividono tutti il timore della presa di potere degli islamisti. Il

blocco cosiddetto “islamista” include invece la Misurata led al-

liance (Mla), milizie di varie città della costa occidentale, islamisti

moderati e jihadisti armati: forze che condividono l’intenzione di

escludere dal governo figure compromesse con il vecchio regime.

Fin dal lancio nel maggio 2014 dell’iniziativa anti-islamista nota

con il nome di Operazione Dignità, i combattimenti si sono con-

centrati su aeroporti, porti e giacimenti d’idrocarburi, danneggian-

do pesantemente le infrastrutture più importanti del paese.

A differenza che in Siria e in Iraq, lo Stato Islamico in Libia

non può sfruttare le divisioni settarie, poiché il paese è al 90 per

cento musulmano sunnita. Nonostante la notevole crescita urbana

e la colonizzazione da parte degli italiani, la società libica ha stori-

camente preservato la sua natura tribale, tradizionale e moderata.

L’incapacità dell’islamismo di mettere radici nel paese come mo-

vimento di massa è un’attestazione di questa tendenza storica.

L’insurrezione ventennale di Omar al-Mukhtar contro gli italiani

ha dimostrato che l’islam è stato un potente strumento di resisten-

za nella storia della Libia, ma anche che, come si è visto dal falli-

mento degli islamisti nel conquistare un sostegno generalizzato

durante e dopo il regime di Gheddafi, l’islamismo come ideologia

politica non ha mai goduto di un supporto di massa.

Con la sua ideologia islamista e transnazionale lo Stato Islami-

co è un attore esterno, uno spoiler, la cui ambizione all’egemonia

del califfato è incompatibile con gli obiettivi e gli interessi delle

fazioni libiche in lotta. Come provato dalla defezione degli islami-

sti radicali a Derna, lo Stato Islamico potrebbe riuscire ad attrarre

gli elementi più radicalizzati della coalizione Alba Libica. Ma per

espandersi lo Stato Islamico avrà bisogno di ottenere il controllo

degli idrocarburi e delle infrastrutture strategiche del paese – an-

dando a intaccare gli interessi delle milizie libiche, che a quel pun-

to combatteranno tra di loro e contro l’intruso. Per l’Italia questo

significherebbe un accesso ridotto alle risorse energetiche e un

aumento nel flusso di migranti. Come suggerisce lo stesso slogan

Libia: la sfida dello Stato Islamico 45

del gruppo, baqiyya wa tatamattad1, l’obiettivo è prima quello di

stabilizzarsi e poi quello di espandersi. Lo Stato Islamico sarà più

impegnato a rafforzare le sue conquiste in Libia che a mandare mi-

litanti a Roma.

Gli islamisti durante il regime di Gheddafi

Quando era al potere, Gheddafi ha affrontato l’opposizione di tre

diversi gruppi islamisti: i Fratelli musulmani, i jihadisti del Grup-

po dei Combattenti Islamici Libici (Lifg) e il movimento decentra-

lizzato dei salafiti. La draconiana repressione contro i dissidenti –

sia reale che percepita – esercitata dal regime, ha reso difficile per

il movimento islamista guadagnare il sostegno popolare. Inoltre, i

libici, tradizionalisti e moderati, non hanno mai percepito il mes-

saggio di islamisti e jihadisti come particolarmente nuovo, soprat-

tutto considerando che Gheddafi aveva assimilato alcuni aspetti

della sharia nella sua ideologia. Perfino nella Libia orientale dove

Lifg ha la sua base operativa, gran parte della popolazione non si è

arruolata nelle sue fila e non ha sfidato Gheddafi. Al contrario, gli

islamisti e i jihadisti stessi hanno iniziato a negoziare con il regi-

me.

La Fratellanza musulmana è approdata per la prima volta in Li-

bia nel 1949, quando il principe Idris al-Senussi accolse alcuni

membri egiziani del gruppo in fuga dalle persecuzioni di Nasser al

Cairo. In Libia la Fratellanza musulmana è riuscita a radunare il

supporto delle giovani élite, ma ha fallito nel costruire un ampio

sostegno di base presso la popolazione libica più tradizionale e tri-

bale, rimasta sospettosa di ogni ideologia importata dall’estero.

Nella Libia conservatrice del re Idris la Fratellanza musulmana

non poteva mostrare per contrasto un’immagine pia e devota, co-

me quella che l’aveva rafforzata agli occhi delle masse impoverite

dell’Egitto secolarizzato di Nasser. Quando nel 1974 Gheddafi

bandì la Fratellanza musulmana dalla Libia, il gruppo era ancora

1 A.Y. Zelin, “The Islamic State’s Model”, The Washington Post, 28 gennaio 2015, http://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/the-islamic-states-model.

46 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

in fase embrionale. Il movimento della Fratellanza fiorì fuori dal

paese, tra gli emigrati libici per i quali era diventato accessibile

pagare per poter studiare negli Stati Uniti o in Europa dopo il

boom del prezzo del petrolio negli anni Settanta2.

La repressione brutale e prolungata inflitta ai Fratelli musul-

mani impedì al gruppo di sviluppare una base di supporto che si

estendesse al di là dell’intellighenzia. L’effetto asfissiante della

Jamahiriya sulla società civile impedì alla Fratellanza della Libia

di svolgere quel ruolo sociale che le avrebbe invece permesso di

resistere alla repressione3. Solo nei primi anni Duemila i Fratelli

musulmani libici iniziarono a dialogare con il regime tramite il fi-

glio di Gheddafi, Saif al-Islam, che era disponibile a tollerare la

loro presenza in cambio del silenzio e della rinuncia alla resistenza

armata4. Allo scoppiare della rivoluzione nel 2011 i Fratelli mu-

sulmani avevano già sviluppato un rapporto di collaborazione con

il regime di Gheddafi. I membri più anziani della Fratellanza erano

ritornati a vivere in Libia e molti di loro lavoravano con la Ghed-

dafi Charitable Foundation di Saif al-Islam, contribuendo ai nego-

ziati con Lifg5.

Nonostante le veementi critiche, inizialmente rivolte contro i

gruppi jihadisti che erano stati riabilitati dal regime, anche il

Gruppo dei combattenti islamici libici alla fine concluse un accor-

do simile con i Gheddafi. Lifg era stato creato nel 1989 dai muja-

heddin libici di ritorno dall’Afghanistan, con l’obiettivo dichiarato

di far cadere Gheddafi. La base di Lifg in Cirenaica era riuscita a

rimanere nascosta alle forze governative fino al 1995. La scoperta

casuale di una cellula del gruppo a Bengasi portò alla dichiarazio-

2 A. Pargeter, “Qadhafi and Political Islam in Libya”, in Libya since 1969: Qadhafi’s Revolution Revisited, a cura di D. Vandewalle, Basingstoke, England, Palgrave Macmil-lan, 2011, pp. 85-86. 3 Ibidem, p. 90. 4 O. Ashour, Libya’s Islamists Unpacked: Rise, Transformation, and Future, Policy Brief, Brookings Doha Center, maggio 2012, http://www.brookings.edu/~/media/research/files/papers/2012/5/02%20libya%20ashour/omar%20ashour%20policy%20briefing%20english.pdf. 5 N. Benotman, J. Pack, J. Brandon, “Islamists”, in The 2011 Libyan Uprisings and the Struggle for the Post-Qadhafi Future, a cura di J. Pack, New York, Palgrave Macmillan, 2013.

Libia: la sfida dello Stato Islamico 47

ne dello stato di emergenza in tutto l’est del paese, cui Lifg rispose

con un’insurrezione armata di tre anni, prima di essere sconfitto ed

espulso dalla Cirenaica nel 19986.

Agli inizi della guerra degli Usa ai Taliban, Saif al-Islam prese

l’iniziativa di evacuare le famiglie arabe dall’Afghanistan, inclusi

molti membri Lifg e le loro famiglie – un fatto che ebbe un forte

impatto sui jihadisti, portandoli a riconsiderare le loro opinioni

negative sul regime. Per rinforzare la propria posizione all’interno

della famiglia Gheddafi e della società libica più in generale, Saif

al-Islam diede avvio a un processo di riforme con alcuni membri

di Lifg arrestati nel 2007. Questo processo culminò con la pubbli-

cazione nel 2010 di un libro a firma Lifg in cui il gruppo rinuncia-

va all’insurrezione armata e faceva un appello alla tolleranza. Le

rivolte del 2011 esplosero proprio mentre il regime stava rila-

sciando l’ultimo gruppo di combattenti detenuti del Lifg. A quel

punto i militanti del gruppo erano pochi e la sua situazione eco-

nomica disastrosa, tuttavia con tutti i combattenti fuori dal carcere

Lifg era libero d’imbracciare le armi senza il timore di rappresa-

glie da parte del regime sui militanti arrestati7.

La diffusione negli anni Settanta del wahabismo d’ispirazione

saudita pose una minaccia più sottile e permanente al regime di

Gheddafi di quanto non avessero fatto i Fratelli musulmani o il

Lifg. Il wahabismo saudita lanciava una sfida implicita al regime,

condannando il socialismo e aderendo a una definizione restrittiva

di governo legittimo, che non si estendeva alla Jamahiriya di

Gheddafi. Durante gli anni Settanta e Ottanta la società libica di-

venne più conservatrice sotto il profilo religioso man mano che

l’opera di proselitismo dei sauditi andò a fondersi con il revival

islamico innescato dalla rivoluzione islamica dell’Iran e

dall’invasione sovietica dell’Afghanistan. I ragazzi dei campus

universitari libici iniziarono a indossare il thawb di stile saudita e

si fecero crescere la barba – le ragazze invece a indossare hijab e

niqab. Presto i campus universitari libici divennero lo spazio non

solo di una passiva resistenza religiosa, ma di un dichiarato attivi-

6 Ibidem, p. 202. 7 Ibidem, p. 206.

48 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

smo anti regime. La sfida implicita del salafismo alle credenziali

politiche e religiose del regime di Gheddafi attraeva la gioventù

libica, frustrata e asfissiata dalla mano pesante del regime. Inoltre,

l’aderenza al salafismo e al wahabismo come forma di dissidenza

era difficile da riconoscere rispetto al senso religioso che lo stesso

Gheddafi promuoveva. In una società in cui tutte le forme di asso-

ciazione erano state soppresse, la Moschea divenne una sorta di

riparo dall’intrusione dello stato8.

Nonostante i timori di Gheddafi, il movimento salafita in Libia

rimase fortemente localizzato, apolitico e non sviluppò mai una

leadership a livello nazionale. Il salafismo ripudiò l’impegno poli-

tico come una fonte di fitna (divisione tra i credenti). Quindi

nell’ultima metà del suo governo Gheddafi riuscì ad assicurarsi la

neutralità dei salafiti. Nel 2011 i salafiti continuarono a denunciare

le rivolte come forza divisiva e proibita dall’islam fino a quando

un’importante figura degli ulama sauditi dichiarò ufficialmente il

regime di Gheddafi illegittimo9.

La reazione islamista alla rivoluzione del 2011

Allo scoppiare della rivoluzione l’opposizione islamista libica sta-

va ancora sostenendo tacitamente il regime e rispose in maniera

esitante ai cambiamenti che stavano sconvolgendo la Libia nel

febbraio 2011. Man mano che il regime collassava sotto la spinta

degli eventi, gli islamisti si unirono alla rivoluzione, ognuno dan-

do un contributo secondo le proprie capacità. Gli ex combattenti

Lifg fondarono e addestrarono diverse brigate grazie ai fondi del

Qatar, e nonostante la loro forza militare non abbia mai raggiunto

quella delle milizie tribali di Zintan o Misurata, il loro apporto mi-

litare fu comunque importante. Allo stesso tempo, il Gruppo Isla-

mico Libico (Lig) – un ramo dei Fratelli musulmani – aveva raf-

forzato la propria presenza nella società libica attraverso la conse-

gna di servizi sociali di base, assicurandosi un’influenza significa-

8 Ibidem, p. 198. 9 Ibidem, p. 220.

Libia: la sfida dello Stato Islamico 49

tiva nel Consiglio Nazionale di Transizione, il governo de facto

della Libia, che aveva amministrato il paese nei dieci mesi seguen-

ti la caduta di Gheddafi10

.

Nel luglio del 2012 il popolo libico aveva eletto il suo primo

Parlamento, il Congresso Nazionale Generale (Gnc). La coalizione

islamista, composta da affiliati dei Fratelli musulmani e del Lifg

non ebbe molto successo rispetto alla più liberale Alleanza delle

Forze Nazionali (Nfa). Il leader del Nfa, Mahmoud Jibril, forma-

tosi negli Stati Uniti, era in grado di capire abbastanza bene i valo-

ri tribali e tradizionali della Libia da accettare la sharia come una

delle fonti fondamentali per la legislatura della sua coalizione.

Inoltre i libici avevano iniziato a guardare con sospetto gli islami-

sti per gli aiuti militari e finanziari ricevuti durante le rivolte11

.

Tuttavia, nonostante la vittoria iniziale dei partiti laici, i gruppi

islamisti, più organizzati e più uniti, erano stati in grado di domi-

nare il parlamento per tutto il 2013. La rivalità tra queste due fa-

zioni politiche ha condotto il paese a una progressiva polarizza-

zione, un processo aggravato dall’intervento, dall’uso della vio-

lenza e dal condizionamento della dinamica politica da parte delle

milizie fedeli alle due fazioni rivali. Quest’erosione della sicurezza

politica e i numerosi omicidi hanno portato alla grave crisi cui as-

sistiamo oggi.

A causa dell’aggressività delle milizie, soprattutto nella città di

Bengasi, l’ex generale Khalifa Haftar nel maggio 2014 lancia un

attacco mirante a espellere tutti i gruppi islamisti dal paese. Un in-

sieme di gruppi laici, milizie tribali e soldati del vecchio regime

rispose alla chiamata alle armi. Tuttavia il considerare tutti gli

islamisti come un fronte unico, ha fatto sì che le milizie di Bengasi

si unissero tra loro e con gruppi simili a Tripoli o Misurata e lan-

ciassero l’operazione Alba Libica, un contrattacco coordinato non

solo a Bengasi ma in buona parte della Libia occidentale. Con il

sostegno delle potenti milizie di Misurata, le brigate islamiste

hanno costretto il neo-eletto parlamento, ampiamente laico, a cer-

10 Ibidem, p. 221. 11 N. Jebnoun, “Tribal Loyalties Supersede National Identity in Libya Vote”, Al Akhbar english, 20 luglio 2012, http://english.al-akhbar.com/node/10058.

50 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

care rifugio nella città orientale di Tobruk, sotto la protezione del-

le truppe del generale Haftar. Dall’estate del 2014 la Libia è para-

lizzata da una guerra civile tra due fazioni contrapposte, ognuna

delle quali sostiene un parlamento e un governo diversi.

Lo Stato Islamico in Libia

Il lancio dell’Operazione Dignità ha avuto l’effetto inatteso di ri-

chiamare nella madrepatria i miliziani libici impegnati in Siria o

Iraq. Tra loro anche al-Battar Battalion, sostenitore dello Stato

Islamico, che ha probabilmente facilitato l’arrivo di suoi emissari

a Derna dall’Arabia Saudita e dallo Yemen12

. Il 20 agosto la pre-

senza dello Stato Islamico in Libia è diventata palese, quando il

gruppo Majlis Shura Shabab al-Islam (Mssi) di Derna ha mostrato

la bandiera nera nel video dell’esecuzione di un cittadino egiziano.

A metà ottobre il Mssi di Derna ha giurato fedeltà al gruppo e dato

avvio a un tribunale islamico sotto la guida di emissari dello Stato

Islamico, arrivati con l’esplicito proposito di stabilire la Wilayat

al-Barqa13

.

Da allora in poi lo Stato Islamico sta replicando in Libia il mo-

dello d’espansione utilizzato in Siria e in Iraq, seppure in scala

minore. IS ha esteso le sue attività a Bengasi, Sirte, Tripoli e in al-

tre aree della Libia meridionale. Il gruppo ha rivendicato gli atten-

tati all’esterno del Security Directorate di Ajdabiya (1 dicembre),

del Diplomatic Security Headquarters di Tripoli (27 dicembre),

della Camera dei deputati a Tobruk (30 dicembre) e

dell’ambasciata algerina (17 gennaio). Nello stesso periodo lo Sta-

to Islamico ha anche portato a termine una serie di rapimenti e de-

capitazioni, compresa l’uccisione di due giornalisti tunisini, e il

rapimento di 21 egiziani copti. L’attacco all’Hotel Corinthia di

12 F. Wehrey, Mosul on the Mediterranean? The Islamic State in Libya and U.S. Counterter-rorism Dilemmas, Carnegie Endowment for International Peace, 17 dicembre 2014, http://carnegieendowment.org/2014/12/17/islamic-state-in-libya-and-u.s.-counterterrorism-dilemmas. 13 Islamic State Activity in Libya, Kalam Institute for Network Science, 2 febbraio 2015, http://www.slideshare.net/movelibyaforward/islamic-state-activity-in-libya.

Libia: la sfida dello Stato Islamico 51

Tripoli il 27 gennaio da parte di affiliati dello Stato Islamico ha

sollevato timori internazionali sul fatto che il gruppo possa diveni-

re un serio contendente nel conflitto libico. Timori che si sono ul-

teriormente rafforzati quando gli affiliati dello Stato Islamico han-

no annunciato la presa di Sirte e la decapitazione dei ventuno

ostaggi copti, il 12 febbraio14

.

Lo Stato Islamico ha unito alla sua caratteristica brutalità alcu-

ne attività culturali attinenti all’“imposizione morale” e al proseli-

tismo. Gli uffici stampa del gruppo hanno diffuso immagini dei

combattenti impegnati nella distruzione di stecche di sigarette, di

caramelle ai bambini, di aiuto ai poveri e nella chiusura forzata di

attività commerciali durante le ore di preghiera15

. L’attenzione

dello Stato Islamico alle pubbliche relazioni potrebbe derivare dal-

la necessità del gruppo di competere con una moltitudine di mili-

zie libiche e di fazioni in lotta per il supporto delle popolazioni lo-

cali. Finora, comunque, gli sforzi di proselitismo a Derna sono sta-

ti accolti con una fredda reazione. Secondo fonti locali, una confe-

renza sponsorizzata dallo Stato Islamico sul califfato ha raccolto

un interesse scarso o nullo da parte dei locali. Dopo il giuramento

del Mssi a ottobre, una fazione locale ribelle, la brigata dei martiri

Abu Salim, ha reagito duramente. I report successivi al giuramento

mostrano cittadini arrabbiati per la presenza di coloro che percepi-

scono come stranieri, provenienti da Iraq, Siria e Tunisia16

.

Parte del disinteresse potrebbe derivare dal fatto che, a diffe-

renza che in Iraq e in Siria, lo Stato Islamico in Libia non può pun-

tare sulle rivalità settarie tra sunniti e sciiti. Il conflitto tra i due

parlamenti libici e le loro rispettive coalizioni di militanti è forte-

mente radicato nelle rivalità locali per il potere e il controllo delle

14 A. Engel, The Islamic State’s Expansion in Libya, The Washington Institute for Near East Policy, Policy Analysis, Policywatch 2371, 11 febbraio 2015, http://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/the-islamic-states-expansion-in-libya. 15 R. Lefèvre, “Is the Islamic State on the Rise in North Africa?”, The Journal of North Africa Studies, vol. 19, n. 5, 2014, p. 855. 16 F. Wehrey, “The Battle for Benghazi”, The Atlantic, 28 febbraio 2014, http://www.theatlantic.com/international/archive/2014/02/the-battle-for-benghazi/284102/.

52 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

risorse strategiche17

. Temprate dai combattimenti, le fazioni libi-

che saranno probabilmente in grado di resistere a perdite di territo-

rio significative a favore dei nuovi arrivati stranieri, come lo Stato

Islamico e i suoi adepti locali. Senza grande sorpresa dunque, lo

Stato Islamico ha evitato di confrontarsi direttamente con le fazio-

ni in lotta, approfittando piuttosto dell’anarchia libica e

dell’inclinazione storica di Derna a favore della resistenza jihadi-

sta per stabilire la sua presenza nella Libia orientale.

Per ora il controllo dello Stato Islamico sul territorio in Libia

rimane limitato. Gli affiliati dello Stato Islamico non controllano

totalmente nessuna delle città libiche a cui hanno esteso le proprie

attività, inclusa Derna. Ma l’ampiezza della presenza dello Stato

Islamico in Libia potrebbe dipendere non tanto dalla popolarità

presso i libici quanto dall’abilità del gruppo di cooptare jihadisti

locali. Abbandonando al-Qaida e presentandosi come affiliato del-

lo Stato Islamico, Mssi si è distinto dal punto di vista ideologico

rispetto ai rivali locali, come la Brigata Martiri Abu Salim, e ad

altre branche di al-Qaida18

. Alla luce di ciò il giuramento di Derna

è un segnale preoccupante del potere di attrazione globale dello

Stato Islamico. La crescita delle affiliazioni nel Nord Africa po-

trebbe rappresentare il modello futuro delle conquiste territoriali di

IS19

.

Il cambiamento di alleanza del Mssi è emblematico di come la

competizione tra IS e al-Qaida per il controllo del jihad globale

stia impattando sulle alleanze delle milizie in Nord Africa. Nel

Maghreb lo Stato Islamico ha fatto appello ai combattenti di Ansar

al-Shariʻa affinché abbandonino al-Qaida così come ha incorag-

17 E. Fowler, “From Raqqa to Derna: Exceptionalism in Expansionism”, Jadaliyya, Arab Studies Institute, 4 dicembre 2014, http://reviews.jadaliyya.com/pages/index/20182/from-raqqa-to-derna_exceptionalism-in-expansionism. 18 A.Y. Zelin, The Islamic State’s First Colony in Libya, The Washington Institute for Near East Policy, Policy Analysis, Policywatch 2325, 10 ottobre 2015, http://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/the-islamic-states-first-colony-in-libya. 19 B. Faucon, “Islamic State Gained Strength in Libya by Co-Opting Local Ji-hadists”, Wall Street Journal, 17 febbraio 2015, http://www.wsj.com/articles/islamic-state-gained-strength-in-libya-by-co-opting-local-jihadists-1424217492.

Libia: la sfida dello Stato Islamico 53

giato i combattenti di Jabhat al-Nusra a fare altrettanto in Siria.

Sempre di più sembra che gli appelli dello Stato Islamico non stia-

no cadendo nel vuoto. Il 3 febbraio un ex affiliato di al-Qaida nel

Maghreb Islamico (Aqim), la brigata Tarek Ibn Ziyad, ha lanciato

un attacco al giacimento di petrolio al Mabrook in nome dello Sta-

to Islamico. Nel 2012 l’intervento militare francese nel nord del

Mali ha smantellato la brigata dal sud del Sahara spingendola tra

le braccia di Ansar al-Shariʻa in Libia, altro affiliato di Aqim.

Come suggerisce l’attacco del 3 febbraio, gli affiliati e gli alleati

di Ansar al Shariʻa stanno iniziando a rispondere agli appelli dello

Stato Islamico20

.

Nonostante Ansar al Shariʻa non abbia ufficialmente giurato

fedeltà allo Stato Islamico, i legami e le manifestazioni di simpatia

stanno iniziando a emergere da parte degli affiliati minori. Sia in

Tunisia sia in Libia il gruppo ha diffuso propaganda a favore dello

Stato Islamico21

, mentre stanno emergendo altri resoconti sui pro-

grammi di addestramento dei combattenti di Ansar al-Shariʻa da

parte dello Stato Islamico22

. Riuscire a reclutare combattenti

esperti di Ansar al-Shariʻa rappresenterebbe il primo passo di una

strategia a lungo termine verso l’egemonia dello Stato Islamico23

.

Poiché la rivalità tra Stato Islamico e Jabhat al-Nusra/al-Qaida

è esplosa in Siria, Aqim ha fatto appello alla riconciliazione e ha

tentato di rimanere neutrale. In ogni caso, hanno cominciato a

emergere divisioni tra i ranghi più elevati e più bassi di Aqim. A

giugno, Abdelmalek Droukdel, capo di Aqim, ha condannato

l’approccio unilaterale con cui lo Stato Islamico si è impossessato

dei territori in Iraq e in Siria, chiedendo un maggiore coordina-

20 A.Y. Zelin, The War between ISIS and Al-Qaeda for Supremacy of the Global Jihadist Movement, The Washington Institute for Near East Policy, Policy Analysis, Research Notes, n. 20, giugno 2014, http://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/the-war-between-isis-and-al-qaeda-for-supremacy-of-the-global-jihadist. 21 A. Engel, Libya as a Failed State, The Washington Institute for Near East Policy, Policy Analysis, Research Notes, n. 24, novembre 2014, http://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/libya-as-a-failed-state-causes-consequences-options (22 febbraio 2015); A.Y. Zelin, (2014). 22 A. Engel, (2015). 23 R. Lefèvre, (2014), p. 854.

54 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

mento con al-Qaida. Ma a luglio, un giudice islamico di alto grado

nelle gerarchie Aqim, Abdullah Othman al-Assimi, ha difeso il

leader dello Stato Islamico, accusando i critici d’invidia e malevo-

lenza24

. Il fatto che il giudice si sia schierato con l’emiro dello Sta-

to Islamico ha indebolito la pretesa di legittimità da parte di

Droukdel. Negli ultimi mesi, solo pochi affiliati di Aqim hanno

disertato verso lo Stato Islamico, compreso Jund al-Khalifa, che ha

decapitato in Algeria un turista francese a settembre25

. In ogni ca-

so al-Qaida è lontana dal perdere il sostegno degli affiliati nella

regione del Sahel e del Maghreb. Mokhtar Belmokhtar, il capo dei

Murabitun, importante ramo di al-Qaida nel Sahara, si è schierato

con decisione a fianco della vecchia guardia.

Conclusioni - Implicazioni

Per stabilire il califfato lo Stato Islamico ha necessità di conquista-

re territorio e sottomettere la popolazione libica attraverso una

campagna persistente d’inimmaginabile violenza, che consegue

presentandosi come l’opzione da temere maggiormente e costrin-

gendo le persone ad accettare il controllo da parte sua o pagare

con la morte. IS cerca di spodestare i governi di Tobruk e Tripoli,

affermando la propria influenza e scalzando le fazioni al potere.

Lo Stato Islamico spera anche di ergersi a difensore delle terre

e dei valori dell’islam contro l’intervento esterno. L’orribile ucci-

sione degli egiziani copti, che ha condotto a una rapida rappresa-

glia da parte dell’Egitto e agli appelli di Abdullah al-Thani per una

risposta internazionale, rientra perfettamente nella strategia di IS

per attirare gli eserciti stranieri. Lo Stato Islamico userebbe allora

il jihad contro l’intervento esterno per radunare nuove reclute.

Un terzo importante aspetto della strategia dello Stato Islamico

è quello di garantirsi il controllo del territorio. Per ora i suoi soste-

nitori e le sue milizie hanno stabilito delle roccaforti nelle città

lungo la costa mediterranea. Queste basi sul litorale permettono un

24 Ibidem. 25 Ibidem.

Libia: la sfida dello Stato Islamico 55

facile afflusso di uomini e di beni dal levante. IS vuole unire Der-

na e Bengasi a est, Sirte nel centro e Tripoli a ovest in un territorio

più esteso; ha già iniziato a mettere in atto questa strategia entran-

do a Ben Jawad, un’area a circa 140 km a est di Sirte, cui si può

avere accesso solo attraverso le principali strade costiere e da cui

IS può controllare tutti i movimenti tra Sirte e Ben Jawad. Per

spostarsi efficacemente all’interno della Libia, il gruppo tenterà di

collegare tutte le sue basi in questo modo. L’attacco ai giacimenti

di petrolio di al Mabrook indica che lo Stato Islamico ha già mes-

so gli occhi sulle risorse petrolifere della Libia e che impedirà a

ogni altro attore di ottenerle.

Lo Stato Islamico è effettivamente un’organizzazione pericolo-

sa ma, per adesso, ancora gestibile. Se la comunità internazionale

deciderà d’impiegare tutte le sue forze e la sua reputazione nelle

negoziazioni guidate dall’Onu, la crisi libica e il fenomeno jihadi-

sta potranno essere risolti. Le due fazioni di Tobruk e Tripoli do-

vranno giungere a un accordo e dar vita a un governo di unità na-

zionale che possa ristabilire l’ordine e la sicurezza in tutto il paese,

con la collaborazione di forze internazionali e delle milizie libiche.

Una risposta internazionale coordinata ridurrà le opportunità a

disposizione dello Stato Islamico, rendendo le diserzioni da Alba

Libica minori e meno significative. Inoltre, una risposta interna-

zionale regolerebbe le interferenze esterne, evitando che la Libia

diventi preda dei politici autoritari della regione. La rappresaglia

egiziana per il brutale assassinio dei copti ha pesato sulla remota

speranza che la minaccia di IS potesse unire i partiti rivali. I bom-

bardamenti di al-Sisi hanno ufficializzato il sostegno dell’Egitto al

governo di Tobruk, spostando l’equilibrio di forze sul campo a fa-

vore delle truppe del generale Haftar e riducendo quindi la dispo-

nibilità di queste ultime al negoziato e al compromesso. Interventi

unilaterali di questo tipo da parte di politici autoritari apertamente

anti-islamisti come al-Sisi non faranno che esasperare la rivalità

tra Tobruk e Tripoli. Molte prove dimostrano la contro produttivi-

tà dei bombardamenti nel ridurre il potere di attrazione dei gruppi

terroristi: una ragione in più per perseguire uno sforzo coordinato

con gli attori libici.

56 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

L’Italia è il paese che, rispetto a tutti gli altri stati europei, ri-

schia di essere più danneggiato dal collasso della Libia.

L’aumento dell’afflusso di migranti metterà a dura prova le deboli

strutture di accoglienza italiane: senza dubbio una minaccia alla

sicurezza nazionale. La possibilità che terroristi si nascondano tra

gli arrivi di migranti è un’ipotesi possibile, ma remota. Dal punto

di vista economico, il collasso della Libia darebbe un colpo rile-

vante alla sicurezza energetica italiana, al settore del petrolio e ad

altre aree economiche duramente colpite dalla crisi. È quindi

nell’interesse nazionale italiano studiare un possibile intervento in

coordinamento con gli altri stati europei che possa condurre al ri-

stabilimento dell’ordine pubblico e della sicurezza in Libia. Più

dello Stato Islamico e dei suoi raccapriccianti sogni di stabilire un

califfato nel Medio Oriente, è l’instabilità della Libia a essere una

minaccia per l’Italia.

3. L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani

Stefano M. Torelli

L’attentato contro il Museo del Bardo a Tunisi del 18 marzo 2015,

che ha causato la morte di 24 persone, quasi tutti turisti, e di cui

quattro di nazionalità italiana, avveniva quando il presente capito-

lo era già stato concluso. I fatti di Tunisi non fanno altro che riba-

dire la necessità che l’Italia prenda coscienza della minaccia jiha-

dista presente anche al confine tra Algeria e Tunisia e di tutte le

misure necessarie per tutelare i propri interessi, di natura econo-

mica e di sicurezza, in questa parte del Nord Africa. Il quadro nor-

dafricano, infatti, interessa direttamente l’Italia e in generale tutti i

paesi dell’Europa meridionale che si affacciano sul Mediterraneo.

Soprattutto a partire dalla seconda metà del 2014, però, è stata la

Libia a diventare il paese su cui l’Italia ha concentrato maggior-

mente la propria l’attenzione in tema di sicurezza. Di tutte le realtà

del Nord Africa, infatti, si tratta del contesto più instabile e che è

stato testimone, in maniera sicuramente superiore rispetto ad altri

paesi, dell’emergere di forze islamiste radicali di stampo jihadista.

Inoltre, è qui che risiedono i maggiori interessi italiani strategici,

economici e finanziari. Tuttavia, la realtà del Nord Africa è molto

eterogenea; dal 2011 in poi – anno delle cosiddette Primavere ara-

be, che hanno segnato uno spartiacque all’interno dello sviluppo

storico-politico del mondo arabo e musulmano – i paesi che ne

fanno parte hanno intrapreso nuovi percorsi istituzionali e hanno

visto la nascita di nuovi attori non statali, potenzialmente forieri di

minacce alla stessa sicurezza italiana. In particolar modo, la Tuni-

sia e l’Algeria rivestono oggi un’importanza di primo piano

all’interno delle dinamiche di sicurezza della regione mediterra-

58 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

nea. La composita galassia dei movimenti jihadisti, la cui attività

si è notevolmente intensificata dopo il 2011, è oggi composta an-

che da nuovi attori, alcuni dei quali agiscono proprio al confine tra

questi due paesi, determinando una situazione d’instabilità ai no-

stri confini, che potenzialmente può minacciare lo stesso territorio

europeo.

Dal punto di vista strutturale, Algeria e Tunisia hanno pochi

aspetti che le accomunano. Sotto il profilo economico, la differen-

za più sostanziale riguarda la presenza in Algeria d’ingenti risorse

naturali, soprattutto petrolio e gas1. Se da un lato questo aspetto

rende l’Algeria relativamente ricca2, dall’altro comporta proble-

matiche di lungo termine (mancata diversificazione economica e

un’eccessiva dipendenza da un’unica fonte di rendita), anche dal

punto di vista politico-istituzionale. Il fatto che l’Algeria possa in

parte sfruttare la propria ricchezza per decidere deliberatamente

come redistribuirla tra la popolazione e, dunque, usandola come

calmiere per eventuali richieste di riforme socio-economiche, fa sì

che il paese non sia ancora riuscito a sviluppare delle reali dinami-

che politiche di democratizzazione. Nel caso dell’Algeria, così

come era stato per la Libia fino al 2011, ed è tuttora nelle monar-

chie arabe del Golfo, gli idrocarburi rappresentano paradossalmen-

te un freno allo sviluppo politico e sociale. Lo stesso non si può

dire per la Tunisia, la quale, proprio in virtù di una società civile

sicuramente più sviluppata e di un panorama socio-politico più

composito di quello algerino, è riuscita a incamminarsi verso un

percorso di transizione politica che, a partire dal 2011, sta portan-

do il paese a diventare il primo e unico caso di successo rispetto a

tutti gli altri contesti in cui si è manifestata la “Primavera araba”.

Altre differenze strutturali tra Algeria e Tunisia – in parte ricondu-

cibili alle diversità appena delineate – riguardano i livelli di svi-

1 L’Algeria è il nono produttore al mondo di gas naturale, con più di 80 miliardi di metri cubi l’anno, e il primo in Africa. Con quasi 2 milioni di barili al giorno, è anche il quindicesimo produttore di petrolio al mondo e il secondo in Africa, dietro la Ni-geria. Dati: BP e Iea. 2 Si tratta del paese con il più alto Pil del Maghreb, con 208 miliardi di dollari nel 2014. La Tunisia ha un Pil di 46 miliardi di dollari. Dati: International Monetary Fund.

L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani 59

luppo e benessere sociale. Sebbene la stessa Tunisia non possa dir-

si in assoluto un paese ricco o benestante, è indubbio che i mag-

giori indicatori di sviluppo facciano registrare rendimenti molto

più elevati in questo contesto, piuttosto che in quello algerino. E,

probabilmente, è stata proprio questa differenza di fondo a far sì

che le rivolte tunisine assumessero le caratteristiche di un rove-

sciamento sistemico, mentre quelle algerine sono rientrate in se-

guito alle misure economiche prese dal governo di Bouteflika nel

2011. Ciò detto, nel contesto attuale Tunisia e Algeria sono acco-

munate da un elemento che riguarda proprio il fattore sicurezza e

la diffusione di gruppi lungo una nuova direttrice, vale a dire quel-

la del loro confine condiviso. La questione del jihadismo in

quest’area assume rilevanza per gli interessi italiani in quanto que-

sti due paesi, per motivazioni differenti, sono legati all’Italia da

rapporti di tipo economico, culturale e geopolitico, rispetto ai quali

l’attività terroristica che interessa tali contesti – e che da tali con-

testi può fuoriuscire fino a toccare direttamente l’Italia e l’Europa

– si pone come un elemento destabilizzante.

Algeria: tra nuove traiettorie di Aqim e sicurezza energetica

Sebbene la letteratura specialistica, l’opinione pubblica italiana e,

talvolta, le stesse analisi di policy non diano la necessaria rilevan-

za a questo attore statale, l’Algeria è uno dei perni della politica

estera e di sicurezza italiana. Dall’Algeria proviene una parte si-

gnificativa dell’approvvigionamento energetico italiano3 e, poten-

zialmente, qualsiasi sconvolgimento di tipo politico e di sicurezza

in questo paese si tradurrebbe immediatamente in una minaccia

diretta alla sicurezza italiana. Soprattutto in un momento in cui le

altre due fonti principali di approvvigionamento energetico italia-

no – Russia e Libia – sono a rischio per via degli sviluppi geopoli-

3 Il discorso è valido soprattutto per l’approvvigionamento di gas naturale, del quale l’Italia ha importato nel 2014 dall’Algeria 6,8 miliardi di metri cubi (ovvero il 13 per cento del totale delle importazioni italiane di gas). Dati: Snam Rete Gas.

60 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

tici e del parziale deterioramento delle relazioni con questi due at-

tori, la sicurezza dell’Algeria risulta quanto mai determinante per

gli interessi nazionali italiani. Senza dubbio, tra gli elementi che

concorrono a minacciare la stabilità algerina – oltre all’incertezza

sulla possibile successione all’attuale presidente Bouteflika – vi è

proprio la presenza di gruppi jihadisti radicati da anni in Algeria e

ai suoi diretti confini. Il jihadismo algerino ha sperimentato diver-

se fasi nella sua storia e ha le sue radici nella guerra civile degli

anni Novanta, che conta più di 200.000 vittime. Il maggiore grup-

po islamista presente in quegli anni era il Gruppo Salafita per la

Predicazione e il Combattimento (Gspc), che in seguito avrebbe

cambiato nome dopo la sua affiliazione ad al-Qaida, diventando

quello che ancora oggi è conosciuto come al-Qaida nel Maghreb

Islamico (nell’acronimo inglese, Aqim). Nato ufficialmente nel

2007, il movimento ha avuto sempre come principale obiettivo lo

stesso governo algerino, puntando direttamente alla costituzione di

uno stato islamico all’interno dei confini algerini. Quello che, ini-

zialmente, era ritenuto essere il gruppo più attivo e “ricco” tra tutti

i movimenti jihadisti affiliati ad al-Qaida, ha però subìto una serie

di mutamenti tattici, strategici e strutturali, che lo hanno in parte

indebolito, ma d’altro canto ne hanno espanso il raggio d’azione,

rendendolo potenzialmente più pericoloso anche per altri paesi

dell’area4. Il primo riferimento è alla cosiddetta fascia saheliana,

che comprende la Mauritania, il Mali e il Niger, lambendo anche il

Ciad. Si possono individuare alcune motivazioni alla base della

cosiddetta “regionalizzazione” di Aqim lungo la direttrice del Sa-

hel:

la necessità emersa dalle operazioni delle Forze di sicurezza

algerine, che hanno spinto Aqim fuori i confini algerini;

le condizioni strutturali di paesi in cui il controllo del territorio

è più difficilmente effettuato;

4 Si veda anche S.M. Torelli, A. Varvelli, Il nuovo Jihadismo in Nord Africa e nel Sahel, in Osservatorio di politica internazionale, n. 75, Roma, Senato della Repubblica, mag-gio 2013.

L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani 61

una sorta di ritirata strategica, volta a riorganizzare le proprie

forze, in vista di nuovi attacchi all’Algeria.

Come conseguenza di questa nuova tattica da parte di Aqim, vota-

ta più alla propria riorganizzazione interna, che agli attacchi con-

tro il nemico (l’Algeria), l’organizzazione qaidista aveva comin-

ciato a intraprendere tutta una serie di attività cui solitamente i

gruppi jihadisti non erano dediti fino alla metà degli anni Duemila:

traffico di armi;

traffico di stupefacenti e merci contraffatte;

controllo delle rotte dell’immigrazione sulla direttrice Sud-

Nord;

rapimento di civili, spesso occidentali, per ottenere il paga-

mento di riscatti.

Il conflitto scoppiato in Mali tra il 2011 e il 2012, influenzato an-

che dal flusso di armi ed elementi tuareg dalla Libia a seguito del-

la guerra civile libica, ha costituito un primo momento di divisione

all’interno di Aqim. La parte dirigente del gruppo, infatti, non si

trovava in accordo con gli elementi di Aqim che hanno appoggiato

la costituzione di un sedicente Stato Islamico nel Nord del Mali,

da parte del Movimento per l’Unicità e il Jihad in Africa Occiden-

tale (Mujao). Agli occhi della dirigenza di Aqim l’obiettivo ultimo

sarebbe dovuto rimanere il jihad in Algeria e, in quest’ottica,

l’ingresso nelle dinamiche interne del Mali avrebbe potuto disto-

gliere le forze dall’obiettivo principale. Allo stesso tempo, un’altra

divisione stava prendendo piede: quella rappresentata dalla fazione

riunitasi intorno alla figura di Mokhtar Belmokhtar. Quest’ultimo

aveva creato una propria sacca di autonomia proprio grazie (an-

che) ai traffici di merci contraffatte e sigarette di contrabbando,

fino a entrare in conflitto con la leadership di Aqim, di cui for-

malmente faceva parte. La spaccatura interna al movimento qaidi-

sta nordafricano ha provocato un effetto immediato sulla stessa

sicurezza dell’Algeria, determinando nuovi fattori di rischio. È

stato proprio il gruppo di Belmokhtar, infatti, a effettuare lo spet-

tacolare attacco contro gli impianti di gas naturale di In Amenas,

nel Sud-Ovest dell’Algeria, nel gennaio 2013. L’attacco, che ha

62 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

provocato la morte di 37 lavoratori stranieri, tra cui molti occiden-

tali, ha segnato una svolta tattico-strategica del jihadismo algerino

– seppure non di Aqim – dal momento che ha colpito direttamente

il cuore dell’economia e dell’industria del paese, vale a dire quella

degli idrocarburi. La potenziale minaccia derivante da attentati di

questo tipo, rispetto alle operazioni tipiche del Gspc e in seguito di

Aqim, concentrate esclusivamente contro obiettivi militari e istitu-

zionali algerini, va invece a colpire anche altri settori. Conseguen-

temente, il livello di tale minaccia coinvolge in maniera maggiore

anche l’Occidente, per due ordini di motivi: gli obiettivi stessi de-

gli attentati possono essere cittadini occidentali che lavorano nel

settore degli idrocarburi in Algeria; eventuali danni all’industria

petrolchimica algerina potrebbero ripercuotersi sulla sicurezza

energetica dei paesi della sponda Nord del Mediterraneo, in primis

Spagna, Italia e Francia.

La stessa Algeria, però, non è stata immune neppure

dall’ascesa ideologica di IS (Stato Islamico) e, come accaduto in

altri contesti arabi e mediorientali, anche in Algeria si sta verifi-

cando una polarizzazione del panorama jihadista, con la nascita di

gruppi affiliati al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. È questo il

caso del movimento sorto nel settembre 2014 da una scissione in-

terna ad Aqim e chiamato Jund al-Khilafa. Il gruppo era guidato

da Abdelmalek Gouri, un ex comandante di Aqim che ha succes-

sivamente deciso di dichiarare la propria affiliazione a IS. Tale

scissione testimonia la tendenza diffusa in tutto il mondo arabo e

musulmano (anche in Africa), che vede il monopolio della scena

jihadista di al-Qaida messo in discussione dalla “nuova generazio-

ne” di jihadisti afferenti a IS. A differenza di al-Qaida, l’IS si di-

stingue per metodi molto più violenti, che prevedono anche un at-

tacco più indiscriminato contro cittadini occidentali o, in generale,

ritenuti “infedeli”, ricorrendo in maniera radicale alla pratica del

takfir5. Nel caso di Jund al-Khilafa, ad esempio, tale caratteristica

5 Il termine takfir identifica l’atto di dichiarare infedele (kafir, da cui comporre il ter-mine takfir) una persona o una pratica. Per l’islam, la dichiarazione di takfir rappre-senta una grave accusa e comporta delle serie conseguenze sia per l’accusatore, il quale può vedersi rivolgere la medesima accusa qualora la sua dichiarazione fosse

L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani 63

è emersa chiaramente con l’uccisione tramite decapitazione del

cittadino francese Hervé Gourdel, guida alpina rapita dal gruppo il

21 settembre 2014. A oggi, è difficile fare una stima delle reali for-

ze in campo di Jund al-Khilafa, che secondo alcune fonti non ecce-

derebbero il centinaio di persone. Il leader Abdelmalek Gouri è sta-

to ucciso in un raid aereo dell’esercito algerino nel dicembre 20146

e non è chiaro chi abbia assunto la leadership del gruppo. Tuttavia,

l’emergere di Jund al-Khilafa è sintomatico della graduale presa

dell’ideologia di IS anche in Nord Africa e, insieme alle operazioni

condotte dai gruppi affiliati a Belmokhtar, diventa una nuova fonte

di pericolo per l’Algeria. Rimane comunque la “tradizionale” mi-

naccia rappresentata da Aqim che, a sua volta, sembra aver ripreso

in parte le attività in Algeria e, soprattutto, sembra essersi infiltrata

in maniera abbastanza efficace nella vicina Tunisia.

Tunisia: una minaccia trascurata?

Proprio la Tunisia rappresenta, dal punto di vista cronologico,

l’ultimo territorio d’espansione delle forze jihadiste legate ad

Aqim in Nord Africa. Il paese, fino alla caduta di Ben ‘Ali, era

stato praticamente immune da manifestazioni d’islamismo radicale

e di salafismo di tipo jihadista. Alcuni sporadici episodi, a dire il

vero, avevano già messo in evidenza la presenza di gruppi jihadisti

in Tunisia tra il 2006 e il 20077, ma la loro attività non era mai ar-

rivata a minacciare seriamente la stabilità e la sicurezza tunisine.

Dal 2012 e, con maggiore evidenza, dal 2013, gruppi salafiti jiha-

disti sono apparsi anche in Tunisia, ponendo una minaccia diretta

giudicata falsa, sia per l’accusato, passibile di morte. Secondo l’interpretazione mili-tante jihadista, la questione del takfir viene direttamente all’interno della dimensione musulmana divenendo lo strumento per legittimare l’uccisione di fedeli musulmani giudicati empi o negatori della “vera” fede posta, si veda P. Maggiolini, A. Plebani, “La centralità del nemico nel califfato di al-Baghdadi”, in Twitter e jihad: la comunica-zione dell’Isis, a cura di M. Maggioni, P. Magri, Milano, ISPI, 2015, nota a p. 29. 6 “Leader of Algerian ‘beheading group’ killed”, Al-Jazeera, 23 dicembre 2014. 7 Si veda anche J. Garçon, “Fusillades à répétition dans la Tunisie tranquille de Ben Ali”, Libération, 4 gennaio 2007.

64 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

al processo di transizione politica del paese a seguito della caduta

di Ben ‘Ali nel 2011. Allo stesso tempo, la radicalizzazione dei

giovani tunisini non minaccia solo il piano interno, ma ha le po-

tenzialità di porre una seria sfida anche al di fuori dei confini na-

zionali: più di 3.000 sarebbero i tunisini partiti per combattere in

Siria e Iraq, mentre connessioni tra jihadismo locale ed elementi

tunisini si riscontrano nella vicina Libia, ma anche in Occidente8.

Ed è per questo tipo di considerazioni che l’Italia deve porre

grande attenzione nel monitorare l’evoluzione del jihadismo in

Tunisia, fenomeno che non ha ancora contorni molto chiari e che

potrebbe espandersi nel breve-medio periodo. Inoltre, un equivoco

– più o meno voluto da parte delle stesse autorità tunisine – che

riguarda la natura dei gruppi salafiti nati dopo il 2011 e, in manie-

ra particolare, le attività di Ansar al-Shari‘a in Tunisia (Ast) con-

tribuisce ad accrescere la confusione sullo stato dei movimenti ji-

hadisti nel paese. Quest’ultimo è un movimento salafita che, for-

matosi ufficialmente nel marzo del 2011, non poteva definirsi co-

me gruppo salafita di tipo jihadista, in quanto né le proprie azioni,

né lo stesso messaggio di cui si faceva portatore, potevano essere

ricondotti alla pratica del jihadismo. Sebbene il suo leader e fonda-

tore Abu ‘Ayyadh avesse un passato da muhajid in Afghanistan,

egli stesso sembrava aver adottato nuove strategie ed essere passa-

to a proclamare e sostenere un salafismo di tipo quietista e “socia-

le”, piuttosto che politico o addirittura violento9. Ast è riuscita in

breve tempo a raccogliere attorno a sé la maggioranza delle perso-

ne che hanno abbracciato l’ideologia salafita e, in poco tempo, è

riuscita a organizzarsi in movimento ben strutturato, con “bran-

che” locali presenti in molte aree della Tunisia, anche le meno svi-

luppate e geograficamente più remote rispetto ai tradizionali centri

urbani. Allo stesso tempo, tra il 2011 e il 2012 ha raggiunto un li-

vello di visibilità piuttosto alto, grazie alle manifestazioni organiz-

8 Si veda anche J. Githens-Mazer, R. Serrano, T. Dalrymple, “The curious case of the Tunisian 3,000”, Open Democracy, 19 luglio 2014. 9 S.M. Torelli, “A Portrait of Tunisia’s Ansar al- Shariʻa Leader Abu Iyad al-Tunisi: His Strategy on Jihad”, Militant Leadership Monitor, Washington DC, The Jamestown Foundation, vol. 4, n. 8, 2013, pp. 9-11.

L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani 65

zate in supporto alla sharia, ai raduni annuali che teneva nella città

santa di Kairouan e all’organizzazione di convogli destinati ad aiu-

tare le famiglie più bisognose nelle aree povere del paese e nei

sobborghi della stessa Tunisi. La posizione di Ast è divenuta più

ambigua dopo i fatti del settembre 2012, quando un gruppo di ap-

partenenti al movimento ha attaccato l’Ambasciata statunitense di

Tunisi, provocando, negli scontri che sono seguiti con le Forze di

sicurezza, la morte di quattro persone. Questo episodio ha segnato

due importanti novità per il movimento: prima di tutto, per la pri-

ma volta, Ast si è resa protagonista di veri e propri scontri con le

Forze di sicurezza tunisine; in secondo luogo ha preso di mira un

obiettivo occidentale. La conseguenza diretta degli scontri, invece,

è stata la fuga del leader Abu ‘Ayyadh, da quel momento divenuto

uno degli uomini più ricercati di tutta la Tunisia, e un primo giro

di vite del governo alle attività del movimento.

La situazione si è fatta più tesa con i due omicidi politici di

esponenti dell’opposizione Chokri Beklaid e Muhammad Brahmi

rispettivamente nel febbraio e nel luglio 2013, la cui responsabilità

– sebbene gli omicidi non fossero stati rivendicati – fu fatta ricade-

re su Ast. Infine, nel 2013 hanno cominciato a verificarsi i primi

episodi di terrorismo di matrice jihadista contro le forze

dell’ordine tunisine, soprattutto membri dell’esercito e della Guar-

dia Nazionale, quasi esclusivamente nell’area dello Jebel Chaam-

bi, al confine con l’Algeria. I due fenomeni, sia quello della radi-

calizzazione di centinaia di ragazzi tunisini che decidono di partire

per combattere il jihad in Iraq e Siria, sia quello della comparsa

del jihadismo direttamente all’interno del territorio tunisino, non

sono da leggere come due fenomeni automaticamente collegati. È

in questo discorso che s’inserisce anche l’analisi della natura e

della provenienza dei gruppi jihadisti che attualmente operano in

Tunisia. Sebbene inizialmente le autorità tunisine e i media main-

stream avessero additato Ast come responsabile degli attacchi

condotti nello Jebel Chaambi, tale versione non sembrava essere

suffragata da sufficienti prove. Al contrario, secondo la ricostru-

zione dei fatti e l’analisi di fonti di intelligence algerine, sembrava

prendere piede l’ipotesi che dietro gli attentati in Tunisia non vi

66 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

fossero elementi afferenti al jihadismo autoctono – e Ast è un mo-

vimento salafita tunisino –, quanto piuttosto che esistessero delle

connessioni con ambienti jihadisti algerini. Nello specifico, diver-

se fonti sembravano giungere alla conclusione che l’apparizione

del jihadismo in Tunisia fosse il risultato di un tentativo di Aqim

di espandere il proprio raggio d’azione non soltanto sulla direttrice

saheliana, come già visto, ma anche verso Est, proprio attraverso

la Tunisia.

La pista algerina e l’infiltrazione di Aqim in Tunisia

Più di una volta i servizi d’intelligence algerini avrebbero allertato

il governo tunisino dei tentativi d’infiltrazione di alcuni guerriglie-

ri riconducibili ad Aqim, dall’Algeria fin dentro la stessa Tunisia.

Dal 2013 in poi si sono registrati diversi attacchi, di cui molti pro-

prio nell’area montuosa dello Jebel Chaambi, al confine con

l’Algeria, fino all’attentato di Tunisi del marzo 201510

:

Data Luogo Tipo di attacco Vittime

6 giugno 2013 Jebel Chaambi Ordigno

improvvisato 2 soldati

29 luglio 2013 Jebel Chaambi Attacco armato 8 soldati

4 agosto 2013 Jebel Chaambi Ordigno

improvvisato 2 soldati

17 ottobre 2013 Goubellat Attacco armato 2 guardie nazionali

23 ottobre 2013 Sidi Ali Ben

Aoun Attacco armato

6 soldati; 1 poliziotto

23 ottobre 2013 Menzel

Bourguiba Attacco armato 1 poliziotto

2 dicembre 2013 Jebel Chaambi Ordigno

improvvisato 1 soldato

3 febbraio 2014 Raoued (Tunisi) Scontro a fuoco 1 guardia nazionale

10 Nella tabella sono riportati soltanto gli attacchi che hanno provocato delle vittime. Oltre a quelli qui riportati, ve ne sono stati altri che non hanno causato vittime.

L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani 67

16 febbraio 2014 Ouled Manaa Finto posto di blocco

4 guardie nazionali

18 aprile 2014 Jebel Chaambi Attacco armato 1 soldato

23 maggio 2014 Jebel Chaambi Attacco armato 1 soldato

16 luglio 2014 Jebel Chaambi Attacco armato 14 soldati

5 novembre 2014

Kef Attacco armato 5 soldati

1° dicembre 2014

Kef Attacco armato 1 guardia nazionale

18 febbraio 2015 Boulaabad Attacco armato 4 soldati

18 marzo 2015 Tunisi

(Museo Bardo) Attacco armato 24 vittime

23 marzo 2015 Kef Ordigno

improvvisato 1 soldato

A parte la contiguità geografica tra i due paesi, che renderebbe

plausibile l’ipotesi che dietro gli attacchi contro le Forze di sicu-

rezza tunisine possano esservi soggetti algerini, tale ipotesi è stata

avvalorata da alcuni elementi, in particolare:

la presenza stessa di jihadisti di nazionalità algerina nei terri-

tori in cui sono stati effettuati attacchi, riscontrata dopo

l’arresto, o l’uccisione, di alcuni di loro;

lo stile di alcuni attacchi, effettuati con tattiche molto simili a

quelle utilizzate da jihadisti algerini durante la guerra civile

degli anni Novanta; incluso l’utilizzo di uniformi rubate e finti

posti di blocco, tattica privilegiata dai jihadisti algerini.

In effetti, così come le accuse contro Ast di essere responsabile

degli attentati e degli assassinii politici avvenuti in Tunisia non

erano inizialmente corroborate da prove certe, la presenza di alge-

rini nei commandi che operavano nello Jebel Chaambi era invece

una costante. Ad esempio, la cellula che ha organizzato l’attacco

del 29 luglio 2013 sarebbe stata guidata da Kamal Ben Arbiya, ji-

hadista algerino arrestato proprio due giorni prima dell’attacco (il

68 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

che farebbe ipotizzare lo stesso attentato come una risposta

all’arresto di Ben Arbiya). Secondo altre fonti, lo stesso attentato

del luglio 2013 sarebbe stato orchestrato da Abu ‘Abd al-Rahman,

un jihadista algerino appartenente alla rete di Aqim e in contatto

diretto con ‘Abd al-Malik Droukdel. Allo stesso modo, secondo

l’intelligence algerina, soltanto nella prima metà del 2013 vi sa-

rebbero stati più di 80 tentativi d’infiltrazione in Algeria dal terri-

torio tunisino, un chiaro segnale della relazione tra gruppi algerini

e tunisini. Infine, nel giugno 2014, per la prima volta, Aqim stessa

ha rivendicato direttamente un attacco avvenuto in Tunisia, speci-

ficamente quello contro l’abitazione dell’allora ministro degli In-

terni, Lotfi Ben Jeddou, che aveva provocato la morte di quattro

poliziotti il 27 maggio del 2014 a Kasserine.

La Brigata ‘Uqba ibn Nafi‘: il jihad spaccato?

Nel corso del 2014, è divenuto chiaro che in Tunisia non agissero

soltanto jihadisti infiltrati dall’Algeria, ma che si stesse realizzan-

do la radicalizzazione di elementi interni. Se non è chiaro quanto i

singoli jihadisti tunisini – che da un lato, come già visto, diventa-

no dei foreign fighters, ma dall’altro, in misura minore, si unisco-

no ai gruppi jihadisti che già operano nel paese – possano essere

direttamente ricollegati ad Ast o meno, ciò che sembra assodato è

invece la nascita di un nuovo gruppo, la Brigata ‘Uqba ibn Nafi‘.

La natura più prettamente tunisina di questo gruppo, rispetto alle

cellule legate ad Aqim, con cui almeno inizialmente ‘Uqba ibn

Nafi‘ sembrava avere contatti, è evidenziata dal nome stesso del

movimento. ‘Uqba ibn Nafi‘, infatti, era il generale arabo che nel

VII secolo aveva conquistato l’Africa del Nord, tra cui l’attuale

Tunisia, islamizzandola e arabizzandola, e il fondatore della città

santa di Kairouan, in cui ancora oggi sorge la moschea a lui dedi-

cata. Le fonti sul gruppo jihadista sono poche, ma già dal dicem-

bre del 2012 questo nome aveva cominciato a circolare e l’allora

ministro degli Interni Ali Laarayedh aveva individuato il gruppo

come responsabile degli attacchi sullo Jebel Chaambi, dichiarando

L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani 69

che avesse legami con Aqim11

. Nel settembre 2014, però, il grup-

po ha ufficialmente ammesso la propria affiliazione allo Stato

Islamico (IS) e al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, riproducendo

anche in Tunisia le dinamiche di divisione interna alla galassia ji-

hadista che si sono verificate sia a livello globale tra al-Qaida e IS,

sia in altri contesti locali12

. I collegamenti tra IS e ‘Uqba ibn Na-

fi‘ sono sembrati evidenti anche dall’analisi di alcuni episodi av-

venuti nella seconda metà del 2014 e, a differenza di altre “dichia-

razioni di sottomissione” (bay‘a, in lingua araba e nella termino-

logia storica del califfato) di gruppi come Boko Haram, sembrano

esservi dei legami diretti tra il califfato e il movimento jihadista

tunisino. Da un lato, vi sono le prove del fatto che diversi tunisini

si siano arruolati nelle fila di IS, dall’altro un jihadista tunisino,

Abu Bakr al-Hakim, ha postato in rete nel dicembre 2014 un video

girato in Iraq in cui – da membro d’IS – rivendica per la prima

volta l’uccisione di Chokri Belaid e Muhammad Brahmi, minac-

ciando la Tunisia stessa. Osservando, inoltre, il trend di attentati e

uccisioni nel paese, proprio come accaduto in Algeria con il caso

dell’ostaggio francese Hervé Gourdel, si nota una recrudescenza

nella violenza che richiama le azioni di IS, come confermato dalla

decapitazione di un membro della Guardia Nazionale, avvenuta il

1° dicembre 2014. Infine, va comunque sottolineato che, sebbene i

jihadisti della brigata ‘Uqba ibn Nafi‘ sarebbero in gran parte di

origine autoctona tunisina, a coordinare le loro azioni vi sarebbe

un jihadista algerino, Lokman Abu Sakhr. Questo elemento, che

dimostra come i movimenti jihadisti in Nord Africa (con riferi-

mento anche alla Libia) siano sempre più connessi tra di loro, met-

te in evidenza come sia necessario, per poter contrastare le attività

terroristiche, un coordinamento anche da parte dei governi degli

stessi paesi interessati.

11 “Une cellule d’Al Qaïda démantelée en Tunisie: 16 terroristes arrêtés et 18 recher-chés”, Leaders, 21 dicembre 2012. 12 “Tunisie: Kabibat Okba Ibn Nafaa, pro-Aqmi, aurait déclaré son soutien à l’Etat islamique”, Webdo.tn, 20 settembre 2014.

70 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Quali minacce dirette per l’Italia?

Alla luce del quadro appena delineato, è lecito chiedersi quali sia-

no – se vi sono – i fattori di minaccia per la sicurezza dell’Italia e

come dovrebbe agire il governo di Roma nei confronti di tali sce-

nari. Per ciò che concerne gli aspetti che riguardano in maniera di-

retta la sicurezza italiana, la presenza di elementi e gruppi jihadisti

in Tunisia sembra essere più preoccupante rispetto al contesto al-

gerino. Tale considerazione avviene alla luce di diversi fattori:

la vicinanza geografica della Tunisia ai confini italiani;

la tendenza dei jihadisti tunisini a espandere le proprie reti del

network jihadista al di fuori dei confini della Tunisia;

la relativa inesperienza delle autorità e delle forze di sicurezza

tunisine ad affrontare la minaccia jihadista;

la storica presenza di elementi di nazionalità tunisina in Italia

e la precedente attività di network di jihadisti tunisini

all’interno del territorio italiano;

la maggiore esposizione di persone di nazionalità italiana in

Tunisia.

Ancora prima degli attentati dell’11 settembre 2001 a New

York e Washington, nel corso delle indagini della magistratura ita-

liana era emersa la connessione tra una cellula qaidista composta

da elementi tunisini e la rete del jihadismo europeo. Uno dei lea-

der della cellula appartenente a un gruppo terrorista chiamato

Gruppo Combattente Tunisino (Gct), Sami bin Khamis bin Salih

Essid, sarebbe stato un punto di connessione tra la stessa leader-

ship di al-Qaida e un gruppo di tunisini che pianificava un attenta-

to all’Ambasciata statunitense di Roma. A sua volta, Essid sarebbe

stato in contatto con un altro tunisino con cittadinanza belga, Ta-

rek Maaroufi, accusato di essere uno dei leader della rete qaidista

in Europa e di avere avuto rapporti con lo stesso bin Laden13

. A

distanza di anni, dopo la caduta di Ben ‘Ali, entrambi sono tornati

liberi in Tunisia e hanno stretto contatti con Abu ‘Ayyadh, fonda-

13 “Maaroufi, latitante in fuga perché il Belgio non collabora”, Il Corriere della Sera, 14 dicembre 2001.

L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani 71

tore di Ansar al-Shari‘a in Tunisia ed ex leader dello stesso Gct. A

maggio del 2002, inoltre, il tribunale di Milano aveva condannato

tre tunisini che avevano avuto rapporti con Essid per attività terro-

ristiche. Sebbene tali rapporti non provino l’attuale esistenza di

una rete di jihadisti che porta in Italia, le connessioni tra i jihadisti

tunisini ed eventuali contatti in Italia non risultano improbabili.

Tra le nove persone espulse dall’Italia a gennaio 2015, dopo gli

attentati di Parigi contro la sede del giornale satirico Charlie Heb-

do, ad esempio, ben cinque erano di nazionalità tunisina. Esten-

dendo il raggio di analisi, anche uno degli stessi attentatori di Pa-

rigi, Chérif Kouachi, era stato in contatto con il già menzionato

Abu Bakr al-Hakim, jihadista tunisino ora presumibilmente in

Iraq.

La comunità tunisina in Italia è una delle più numerose, con più

di 122.000 persone regolarmente registrate, secondo i dati Istat del

2014, mentre i cittadini algerini sono poco meno di 30.000. Ov-

viamente, ciò non si traduce automaticamente in una minaccia di-

retta all’Italia, ma allo stesso tempo la presenza di una cospicua

comunità tunisina rende potenzialmente l’Italia (dopo la Francia, il

secondo paese per presenza di tunisini all’estero) un obiettivo più

facilmente raggiungibile da eventuali foreign fighters tunisini (il

cui numero è di per sé molto alto) che volessero esportare il jihad

in Europa. Allo stesso tempo, qualora i gruppi jihadisti tunisini

pianificassero attacchi contro obiettivi occidentali in Tunisia, il

settore turistico potrebbe essere uno dei più esposti, come dimo-

strato dall’attacco suicida compiuto nell’ottobre 2013 in un resort

di Sousse e il più recente attentato al Museo del Bardo. Anche in

questo caso, la presenza di italiani è abbastanza significativa: se-

condo i dati Istat, infatti, la Tunisia è la seconda meta turistica de-

gli italiani al di fuori dell’Unione Europea, dietro gli Stati Uniti. In

termini numerici, ciò si traduce in più di 560.000 italiani che nel

2013 si sono recati in Tunisia. Di fronte a tali cifre e alle dinami-

che di radicalizzazione presenti in Tunisia, è lecito che l’Italia as-

suma tutte le precauzioni necessarie per controllare il flusso

d’informazioni e persone e che agisca in cooperazione con le isti-

tuzioni tunisine per prevenire e affrontare la minaccia jihadista in

72 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Tunisia. Anche alla luce delle carenze strutturali delle Forze di si-

curezza tunisine di fronte a una minaccia che negli anni passati

non si era mai manifestata con tale enfasi, è interesse dei governi

europei e dello stesso governo italiano assistere la Tunisia, for-

nendole mezzi e know-how per far fronte alla minaccia terroristica.

In questo quadro, rientra anche la cooperazione con l’Algeria, la

quale ha peraltro avviato programmi congiunti con Tunisi in mate-

ria di anti-terrorismo.

Infine, non si può trascurare la connessione sempre più eviden-

te tra elementi afferenti a gruppi jihadisti tunisini e i movimenti

jihadisti in Libia. Molti tunisini avrebbero trovato rifugio in Libia,

come dimostrato dall’attacco all’hotel Corinthia di Tripoli avvenu-

to il 28 gennaio 2015, perpetrato da due affiliati allo Stato Islami-

co in Libia, di cui uno, Abu Ibrahim al-Tunisi, di nazionalità tuni-

sina. Sempre per ciò che concerne il passaggio dalla Tunisia alla

Libia, inoltre, la questione dei flussi migratori rimane da tenere

sotto osservazione. Sebbene non vi siano evidenze della correla-

zione tra i flussi migratori provenienti dalla Libia verso l’Italia e la

minaccia terroristica, l’opzione di possibili infiltrazioni non è del

L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani 73

tutto da escludere. In quest’ottica, occorre prestare attenzione alle

indicazioni fornite dall’agenzia dell’Unione Europea Frontex, se-

condo la quale il flusso di profughi che dalla Siria arriva in Europa

segue soprattutto la rotta che, via aerea, porta dalla Turchia

all’Algeria, per poi proseguire via terra verso la Libia, transitando

anche per la Tunisia. Qualora i gruppi jihadisti che operano in Li-

bia intendessero realmente sfruttare il traffico di migranti per lu-

crare, le aree orientali e meridionali dell’Algeria e della Tunisia

potrebbero risultare strategiche.

Per ciò che concerne l’Algeria, a differenza della Tunisia, le

possibili minacce per l’Italia derivanti dall’espansione di gruppi

jihadisti sono sostanzialmente di carattere geo-economico. Soprat-

tutto in un momento in cui l’approvvigionamento energetico ita-

liano ha già sperimentato una carenza al riguardo dalla Libia e ha

nella Russia un fattore di potenziale incertezza, l’Algeria è un

partner fondamentale per gli interessi italiani ed europei in genera-

le. D’altro canto, l’esercito algerino, con le sue forze anti-

terrorismo, è probabilmente il più efficace tra tutti quelli dell’area

nordafricana in termini di lotta al jihadismo. Se da un lato tale

considerazione rende la minaccia potenzialmente meno grave,

dall’altro la nascita di nuovi gruppi legati allo Stato Islamico e i

tentativi di Aqim d’infiltrarsi in Tunisia fanno intendere quanto la

situazione algerina sia ancora delicata. Ciò risulta ancora più vero

alla luce dell’incertezza circa la successione a Bouteflika, la cui

scomparsa dalla scena pubblica rischierebbe di creare un nuovo

clima d’instabilità di cui le forze jihadiste potrebbero cercare di

approfittare.

Conclusioni

Nel quadro della lotta al terrorismo e del contrasto alla radicaliz-

zazione e alla presenza di nuovi gruppi di estrazione jihadista, il

contesto nordafricano è quello che riguarda in maniera più diretta

l’interesse strategico italiano. Sebbene la Libia costituisca la fonte

di minaccia maggiore, l’Algeria e soprattutto la Tunisia non pos-

sono essere trascurate. Ciò è vero alla luce di due fattori: che tali

74 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

contesti sono legati allo stesso scenario libico e in parte lo influen-

zano; sia la Tunisia, sia l’Algeria, sperimentano dinamiche di tipo

politico, sociale, economico e di sicurezza che si ricollegano diret-

tamente agli interessi italiani. La presenza di gruppi jihadisti in

Algeria e l’adozione di nuove tattiche volte a colpire il settore de-

gli idrocarburi nel paese, ad esempio, innescano minacce che ri-

guardano direttamente l’Europa del Sud e l’Italia stessa, mettendo

potenzialmente a rischio una delle nostre principali fonti di ap-

provvigionamento. D’altro canto il fatto che la Tunisia, le cui co-

ste si trovano a poche decine di chilometri da quelle italiane, sia il

paese più interessato al mondo dal fenomeno dei cosiddetti foreign

fighters e dalle dinamiche di radicalizzazione e, contestualmente,

che vi sia uno storico legame tra la comunità tunisina all’estero e il

territorio italiano, costituisce un motivo ulteriore di allerta per la

nostra sicurezza. Non si possono, infine, trascurare i legami del

jihadismo nordafricano con quello della fascia del Sahel, dai quali

i gruppi operanti in Nord Africa potrebbero trarre beneficio. Per

contrastare tali sviluppi, alcuni governi europei – in primis la

Francia – e gli Stati Uniti si sono già attivati14

.

Nel caso dell’Algeria e della Tunisia, il fatto che non si tratti di

stati falliti o semi-falliti (come nel caso della Libia), né di territori

a scarso controllo da parte dell’autorità centrale (come accade nei

paesi del Sahel), rende i movimenti e i singoli jihadisti presenti in

quelle aree potenzialmente più pericolosi per i teatri esterni. Non è

un caso che la Tunisia fornisca un altissimo numero di foreign

fighters, dal momento che gli elementi radicalizzati in loco non

hanno spesso la possibilità di mettere in pratica il jihad in casa

propria. Come conseguenza, vi è la tendenza a cercare altri teatri

di operazione e questo fattore, contestualmente alla forte impronta

anti-occidentale dell’ideologia jihadista propria di IS e dei suoi

gruppi affiliati, può costituire un innesco per tentare d’infiltrare

l’Occidente. Per tali motivazioni, occorre un costante monitorag-

gio delle azioni che avvengono oltre il Mediterraneo, per tentare

14 Si veda “How is DOD Responding to Emerging Security Challenges in Europe?”, testimonianza del sotto-segretario alla Difesa Christine Wormuth, U.S. Department of Defense House Armed Services Committee Hearing, 25 febbraio 2015.

L’ascesa del jihadismo in Algeria e Tunisia: gli interessi italiani 75

un’opera di prevenzione dell’espansione del jihadismo verso

l’Italia e l’Europa meridionale.

4. Non solo Sinai, l’estremismo di matrice islamica in Egitto

Wolfgang Pusztai

Il 29 gennaio 2015 un’ondata di attacchi coordinati con colpi di

mortaio, autobombe e armi da fuoco di piccolo calibro sono stati

compiuti in Egitto dal gruppo estremista islamico, Ansar Bayt al-

Maqdis. Gli attacchi hanno colpito diversi obiettivi nel nord del

Sinai – tra cui una base militare, una stazione di polizia, un hotel,

la sede di un giornale e alcuni checkpoint nei pressi di al-Arish,

Port Said e Suez – causando 29 morti e 58 feriti, sebbene fonti uf-

ficiose riportino dati più alti (74 feriti e la morte di 45 persone1).

L’estremismo islamico non è un fenomeno nuovo in Egitto: qui

hanno proliferato i gruppi islamici estremisti come Jihad Islamica

Egiziana e al-Gamaʻa al-Islamiyya – responsabili dell’assassinio

del presidente egiziano Anwar al-Sadat (1981) – e sempre nel pae-

se nordafricano è nato l’attuale leader di al-Qaida, Ayman al-

Zawahiri, il quale in gioventù (1965) entrò a far parte

dell’organizzazione dei Fratelli musulmani.

Recentemente, sembra che il fenomeno nel paese stia risorgen-

do.

Il quadro strategico e i fattori di rischio

La posizione di rilevanza geostrategica dell’Egitto, localizzato

nell’intersezione delle storiche rotte commerciali e delle moderne

1 “45 dead in Sinai and Ansar Bayt al-Maqdis takes responsibility” (in arabo), Al Jazeera, 30 gennaio 2015, http://goo.gl/wt15Ht.

78 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

linee di comunicazione, la vicinanza a Israele e il ruolo giocato nel

processo di pace mediorientale assicurano al paese costante atten-

zione da parte delle grandi potenze. L’Egitto, grazie al canale di

Suez, che con i suoi 167 km di lunghezza fornisce la via più breve

alle navi che viaggiano dal Golfo Persico e dall’Asia meridionale

verso l’Europa, si trova al centro delle più importanti rotte com-

merciali del mondo. Solo nel 2014 il Canale è stato, infatti, attra-

versato da 16.744 navi per un carico totale di 784.191.000 tonnel-

late2.

Dal punto di vista ambientale, la più grave minaccia, non solo

per la qualità della vita della popolazione egiziana ma anche per

l’intera economia del paese, è rappresentata dal degrado ambienta-

le, provocato dalla riduzione delle terre destinate all’agricoltura,

dall’inquinamento da idrocarburi, che mette in serio pericolo

l’ecosistema marino, dall’inquinamento delle falde acquifere, cau-

sato dall’uso di pesticidi agricoli, dai liquami e dagli scarichi indu-

striali. Le emissioni di quasi cinque milioni di macchine che attra-

versano ogni giorno le strade del Cairo, la combustione dei rifiuti

e i gas inquinanti delle attività industriali contribuiscono a rendere

la capitale egiziana una delle città più inquinate del pianeta.

Dal punto di vista energetico, il paese possiede riserve di petro-

lio accertate per 4,4 miliardi di barili (contro i 50 miliardi della

Libia) e nel 2013 ha esportato circa 189.000 metri cubi di greggio

al giorno. Nonostante l’Egitto vanti il più grande settore della raf-

finazione in Africa, dal 2011 la produzione nazionale è scesa al di

sotto dei consumi e per soddisfare la propria domanda interna si è

resa necessaria l’importazione. Con 77 miliardi di metri cubi di

riserve di gas naturale accertate, l’Egitto gode della quarta mag-

giore riserva dell’Africa e nuovi giacimenti vengono scoperti ogni

anno3. Così come per il petrolio, gran parte del gas estratto viene

utilizzato per il consumo interno, in particolare per alimentare le

centrali elettriche, l’aumento della domanda interna ha comporta-

2 Suez Canal Authority, Brief Fiscal Year Statistical Report, http://www.suezcanal.gov.eg/TRstat.aspx?reportId=9. 3 U.S. Energy Information Administration, “Country Analysis Brief: Egypt”, 14 ago-sto 2014, http://www.eia.gov/countries/analysisbriefs/Egypt/egypt.pdf.

Non solo Sinai, l’estremismo di matrice islamica in Egitto 79

to, a partire dal 2010, un calo delle esportazioni. Poiché l’Egitto ha

stabilito prezzi molto bassi che vengono pagati alle compagnie

straniere per l’abbattimento, possibili nuovi progetti

d’investimento risultano commercialmente poco attrattivi.

Dal punto di vista economico, la principale fonte di valuta este-

ra del paese proviene dal Canale di Suez, che solo nel 2014 ha

portato nelle casse dell’Egitto 5,5 miliardi di dollari4. La costru-

zione attualmente in atto di un canale parallelo e l’allargamento di

quello esistente, ne aumenteranno la capacità per consentire la na-

vigazione a doppio senso di un tratto più lungo, portando in questo

modo a un aumento degli introiti di circa 9 miliardi di dollari

l’anno, nel corso dei prossimi dieci anni. Un’altra importante fonte

di riserva estera è rappresentata dal turismo, un settore che, nel

momento in cui la situazione politica dovesse stabilizzarsi, potreb-

be presentare grandi prospettive di crescita. Una componente vita-

le dell’economia del paese è sempre stata rappresentata

dall’agricoltura, settore che impiega la quota più cospicua di forza

lavoro egiziana (quasi il 30 per cento). Tuttavia, a causa della ra-

pida crescita della popolazione e della riduzione dei terreni agrico-

li, l’Egitto ha perduto la propria autosufficienza alimentare.

Le infrastrutture sono ben sviluppate rispetto ai paesi limitrofi,

ma il settore soffre di una mancanza cronica di investimenti. Gli

incidenti ferroviari sono frequenti e la mancanza di manutenzione

ai sistemi idrici ha gravi ripercussioni sulla qualità dell’acqua po-

tabile. L’inadeguatezza dei generatori di corrente elettrica, che so-

prattutto durante i mesi estivi si traduce in numerosi black-out, ha

contribuito negativamente da un lato alla contrazione della produ-

zione industriale e dall’altro al crescente malcontento nei confronti

delle autorità. A febbraio del 2015, durante la visita del presidente

russo Vladimir Putin, al Cairo è stato firmato un progetto per lo

4 M. Georgy, “Suez Canal revenues forecast to hit record $5.5 bln this year”, Reuters, 20 marzo 2014, http://in.reuters.com/article/2014/03/20/egypt-canal-idINL6N0MH4T720140320.

80 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

sviluppo di una centrale nucleare con un impianto di desalinizza-

zione che dovrebbe migliorare significativamente la situazione5.

Mentre, durante l’amministrazione Morsi, il Qatar è stato

l’unico paese del Consiglio di Cooperazione del Golfo a sostenere

l’Egitto, al momento Il Cairo è quasi interamente dipendente dagli

aiuti provenienti da Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uni-

ti. Questi stati, allarmati dall’ascesa dei Fratelli musulmani, stanno

aiutando il governo egiziano a mantenere i sussidi alimentari ed

energetici fino a che il ripristino della fiducia degli investitori e i

conseguenti finanziamenti esteri possano far ritrovare al paese una

certa indipendenza finanziaria.

Circa il 40 per cento delle esportazioni egiziane è diretto

all’Unione Europea e, se si considerano i 28 singolarmente, l’Italia

rappresenta la principale destinazione (6,7 per cento nel 2013).

Nel 2014 il Pil è cresciuto del 3 per cento, più lentamente ri-

spetto al 5,2 del 20106, ma nel medio termine si stima che il tasso

di crescita economica torni ad aumentare, grazie anche allo stimo-

lo che l’attività economica dovrebbe ricevere attraverso l’avvio di

grandi progetti infrastrutturali. Nonostante ciò, è improbabile che

l’Egitto sarà in grado di affrontare autonomamente tutti i problemi

economici in tempi brevi.

Dal punto di vista demografico, è prevista una crescita allar-

mante della popolazione (98 per cento arabi egiziani) che, secondo

le stime raggiungerà i 95,6 milioni entro 2026, rappresenta il mag-

gior aumento tra le regioni più povere. Il 49,9 per cento della po-

polazione è di età inferiore ai 25 anni e il tasso di disoccupazione

ha raggiunto il 13,4 per cento7. Le divisioni sociali e culturali sono

acuite dall’aumento della disuguaglianza nella ricchezza in una

società in cui, le élite liberali e occidentalizzate si trovano ad af-

frontare la maggioranza della società egiziana religiosamente più

conservatrice, che non si è ancora appropriata della propria fetta di

ricchezza del paese.

5 “Egypt, Russian Federation: Egypt, Russia to Collaborate for Nuclear Power Plant Project”, MENA, 13 febbraio 2015. 6 “Egypt 2014”, Oxford Analytica Ltd, Oxford, 17 settembre 2014. 7 Central Intelligence Agency, CIA Factbook, Egypt, 2014.

Non solo Sinai, l’estremismo di matrice islamica in Egitto 81

Dal punto di vista religioso, la popolazione egiziana appartiene

in prevalenza alla corrente sunnita dell’islam, mentre si conta solo

una risicata minoranza sciita nell’area del delta del Nilo. Non solo

al Cairo ha sede l’Università di al-Azhar, centro principale della

letteratura araba e cultura islamica nel mondo, ma nel paese vi so-

no rappresentate tre delle quattro principali scuole giuridiche sun-

nite (Hanafi nel delta del Nilo, nel deserto occidentale e nel nord

del Sinai; Shafi’i nella valle del Nilo, nel deserto orientale e nel

Sinai meridionale; Maliki nel sud). La tradizione mistica interna

all’islam del sufismo è molto popolare in Egitto tanto da contare

tra i 6 e i 15 milioni di seguaci. Inoltre, sta diventando sempre più

importante il movimento salafita, che al contrario considera le pra-

tiche sufi “non islamiche”.

Sebbene la popolazione sia prevalentemente musulmana, esiste

anche un’importante minoranza cristiana copta a cui appartiene il

6-15 per cento della popolazione, di cui la maggioranza fa parte

dell’antica chiesa ortodossa copta, la più grande comunità cristiana

nel mondo arabo. La tutela della comunità copta in Egitto ha rap-

presentato una questione di bassa priorità sia per Mubarak sia per

Morsi e, dal momento che la Costituzione del 2012 non è riuscita a

proteggerne adeguatamente i diritti e la libertà religiosa, essa ha

fortemente sostenuto la destituzione del presidente Morsi. Come

conseguenza, si è registrato un aumento del numero di attacchi ri-

volti contro chiese, abitazioni e attività commerciali.

Nonostante i rispettivi leader religiosi tendano a negare, esisto-

no divisioni significative tra cristiani e musulmani, in particolar

modo con il movimento salafita, che possono sfociare in atti di

violenza innescati da questioni riguardanti conversioni forzate,

stupri imputati e dispute sulla terra.

Dal punto di vista della sicurezza, una delle principali questioni

che destano preoccupazione è la guerra civile in corso in Libia,

poiché il territorio confinante viene utilizzato sia per

l’addestramento dei terroristi sia come base da cui far partire gli

attacchi. Inoltre, il contrabbando di armi e la riuscita infiltrazione

di jihadisti oltre il confine libico potrebbero contribuire in maniera

significativa alla destabilizzazione del paese. Per tale ragione, è

82 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

intenzione dell’Egitto nel prossimo futuro impedire la creazione di

uno Stato Islamico fondamentalista lungo il confine occidentale,

garantendo il proprio sostegno alla coalizione anti-islamista del

governo riconosciuto a livello internazionale, a prescindere da chi

ne sarà alla guida. Infine, l’esercito egiziano potrebbe in ultima

istanza intervenire direttamente entro i confini libici.

A livello interno, le Forze armate egiziane sono intervenute per

ben due volte negli ultimi anni: nel febbraio 2011, per rimuovere

Mubarak, dopo averne ritirato l’appoggio, e, nel luglio 2013, per

sospendere la costituzione e deporre il presidente Morsi. Ufficial-

mente le Forze armate in Egitto non sembrano interessate ad as-

sumere il potere su base permanente, ma si considerano il princi-

pale garante della sicurezza nazionale e arbitro di ultima istanza a

livello politico. Per questo motivo, sono intervenute nel maggio-

giugno 2012 e nel maggio 2014 con l’obiettivo di agevolare lo

svolgimento delle elezioni presidenziali democratiche.

Sebbene agli islamisti o ai sospetti islamisti sia vietato servire

nelle Forze armate, poiché è stato applicato un regime di tolleran-

za zero, peraltro non accolto favorevolmente da tutti i coscritti, si

può presumere che ci siano migliaia di soldati, in particolare pro-

venienti dalle aree rurali, con un background religioso di stampo

conservatore. Inoltre, dalla deposizione di Morsi, tutti i coscritti

identificati come “simpatizzanti” sono stati estromessi

dall’esercito.

L’Egitto possiede il comparto della difesa più grande del mon-

do arabo e questo è interamente sotto il controllo militare. Oltre

alle attività puramente militari, l’esercito gestisce diverse aziende

che spaziano dalla produzione agricola, alla costruzione,

all’immobiliare e vari settori industriali che a differenza delle im-

prese civili sono esenti da alcune tasse governative.

Dal quadro strategico precedentemente delineato, è quindi pos-

sibile identificare tre fattori di rischio:

Con le prossime elezioni politiche potrebbero innescarsi foco-

lai di protesta, in particolare nelle aree in cui è ancora forte il

sostegno verso i Fratelli musulmani. Una strategia di successo

per ridurre al minimo l’escalation di violenze e gli eventuali

Non solo Sinai, l’estremismo di matrice islamica in Egitto 83

danni alle proprietà sarà probabilmente garantita da una mas-

siccia presenza delle Forze di sicurezza.

Sebbene l’insurrezione islamista rappresenti una crescente

fonte di minaccia, non saranno sufficienti i soli atti terroristici

a destabilizzare l’intero paese. Il pericolo principale del terro-

rismo è se questo dovesse essere rivolto oltre che contro le

Forze di sicurezza, anche contro le infrastrutture, le attività

economiche e gli obiettivi civili. Un altro fattore d’instabilità

potrebbe essere rappresentato dalla diffusione del fenomeno

terroristico al di fuori del Sinai e più precisamente verso la

valle del fiume Nilo, acuendo le difficoltà economiche in cui

già versa il paese.

La principale minaccia per la stabilità del paese è rappresenta-

ta dal malcontento socio-economico. Qualora le riforme venis-

sero mal gestite, l’aumento della disoccupazione, la riduzione

dei sussidi, l’aumento dei prezzi, la scarsità di energia e più in

generale la delusione delle aspettative economiche e politiche

della popolazione potrebbero sfociare in disordini destabiliz-

zanti.

Analisi dei gruppi islamisti

I Fratelli musulmani (MB, al-Ikhwan al-Muslimun) costituiscono

attualmente il movimento islamista più influente. Nato in Egitto

nel 1928 come movimento anti-coloniale diretto contro

l’imperialismo e contro la costituzione dello stato d’Israele, si è in

seguito diffuso in diversi altri paesi della regione. L’ideologia del

movimento, che segue un programma pan-islamico, politico e so-

ciale ben diverso da quello salafita, ha ispirato molti partiti islami-

ci e organizzazioni terroristiche tra cui Hamas e al-Qaida. In molti

paesi, invece, i Fratelli musulmani sono stati dominati dalla classe

media e la maggior parte di essi ha adottato una politica di riforme

non violenta.

Dopo che Mohamed Morsi è stato estromesso dal potere, i Fra-

telli musulmani in Egitto sono stati considerati un’organizzazione

terroristica e sono stati ufficialmente messi al bando: le attività

84 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

delle organizzazioni a questi affiliate sono state congelate e molti

dei membri, tra cui la leadership, sono stati imprigionati.

Il ramo egiziano dei Fratelli musulmani conta tra 100.000 e

600.000 membri8 e ciò li rende il più grande gruppo politico in

Egitto. Nonostante non rappresenti una posizione maggioritaria

dell’Islam, la forza del gruppo, determinata dalla fedeltà dei suoi

membri e dalla potenza organizzativa, rende i Fratelli musulmani

la principale opposizione politica al governo del presidente al-Sisi.

In futuro i sostenitori dei Fratelli musulmani potrebbero cercare di

sfruttare a proprio vantaggio un eventuale aumento del malconten-

to popolare.

Ayman al-Zawahiri ha assunto il ruolo di capo di al-Qaida

(AQ) nel maggio 2011 durante uno dei periodi di cambiamento

più significativi nel mondo arabo. Durante la “Primavera araba”,

che ha fornito un’occasione non sufficientemente sfruttata da AQ,

al-Zawahiri ha rilasciato più di una dozzina di messaggi diretta-

mente indirizzati alle rivolte, tra cui lodi ed elogi per gli attacchi

ripetuti contro il gasdotto nel Sinai, Arab Gas Pipeline. Questa

particolare attenzione rivolta da al-Zawahiri verso il proprio paese

d’origine dipende dal fatto che il leader di al-Qaida ritiene il futuro

dell’Egitto fondamentale per il destino di tutto il mondo musul-

mano.

Esistono numerosi gruppi estremisti islamici attualmente attivi

in Egitto, ma poiché la maggior parte degli attacchi non viene re-

clamata, è difficile stabilire l’effettiva pericolosità di ciascuno di

essi. La criminalizzazione dei Fratelli musulmani ha spinto i suoi

membri nell’ombra e li ha avvicinati ai gruppi militanti. È proba-

bile che alcuni di questi gruppi si siano uniti in una lotta armata

contro il governo, conducendo atti di violenza contro le Forze di

sicurezza come risposta alla repressione delle proteste pubbliche.

Nella zona del Sinai molti estremisti hanno cercato di unirsi al-

le tribù beduine, che da sempre hanno un rapporto ambivalente

con il governo, generato dalla storica assenza dello stato nella re-

gione. In alcune occasioni, invece, i leader beduini più moderati

8 A oggi non esistono dati ufficiali circa il numero di affiliati nella confraternita dei Fratelli musulmani.

Non solo Sinai, l’estremismo di matrice islamica in Egitto 85

sono stati attaccati e uccisi dai terroristi, che, durante e dopo le ri-

volte del 2011 e del 2013, hanno beneficiato del ritiro delle Forze

di sicurezza verso Il Cairo. Anche tra i beduini, comunque, è dif-

fusa la percezione che la reazione dello stato verso gli attacchi ter-

roristici avvenga in maniera casuale e con un uso eccessivo della

forza.

Jamaat Ansar al-Bayt Maqdis (Abm, Partigiani di Gerusalem-

me) ha annunciato “ufficialmente” la propria esistenza il 24 luglio

2012, rivendicando la responsabilità di 13 attacchi effettuati a par-

tire dal febbraio 2011 contro il gasdotto tra Egitto e Israele. La

campagna di Abm si è intensificata in seguito alla destituzione del

presidente Morsi (luglio 2013) e il gruppo in alcune occasioni ha

espresso la propria solidarietà verso i Fratelli musulmani per le

proteste contro il nuovo governo. Si pensa che i leader più rilevan-

ti di Abm siano Ahmed Salam Mabruk, un estremista islamico di

lunga data, che intrattiene legami con al-Qaida, e Abu Osama al-

Masri, che ha dichiarato fedeltà ad Abu Bakr al Baghdadi, il “ca-

liffo” dello Stato Islamico.

I Partigiani di Gerusalemme aderiscono a un’ideologia jihadi-

sta salafita, concentrando le proprie attività a livello locale. Se

l’obiettivo primario del gruppo è l’istituzione di uno stato islamico

fondamentalista in Egitto, nel lungo periodo questo ha posto come

suo target finale la conquista di Gerusalemme. Per tale ragione,

Abm non mostra alcun interesse a partecipare al processo politico.

Anzi, così come molti altri gruppi estremisti islamici, considera la

fine della presidenza Morsi la prova che il processo democratico

sia un fallimento, poiché qualsiasi processo che concede il potere

di fare le leggi senza far direttamente riferimento alla sharia non è

di per sé accettabile.

Abm non ha collegamenti diretti con altri stati, ma coordina le

proprie attività con alcuni gruppi attivi nella Striscia di Gaza, co-

me il Comitato di Resistenza Popolare e i Mujahidin Shura Coun-

cil in the Environs of Jerusalem, – altra organizzazione entrata

nell’orbita di IS – e molto probabilmente ha contatti con le sigle

jihadiste salafite in Libia.

86 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

A livello operativo, l’attenzione è concentrata nel Sinai centro-

settentrionale e lungo il confine con Israele, ma sono stati condotti

frequenti attacchi anche nella parte meridionale della penisola, nel

delta del Nilo, lungo il canale di Suez, al Cairo, nel distretto della

capitale e nella parte occidentale del paese vicino al confine libico.

Dal momento in cui le attività si sono diffuse in altre parti del pae-

se, affianco al nucleo del gruppo composto da membri di tribù be-

duine del Sinai, che attualmente conta fino a 1.000 membri, sono

stati reclutati anche egiziani non beduini.

Fin dall’inizio Abm ha condotto attacchi armati transfrontalieri

contro Israele, principalmente tramite razzi e in rare occasioni con

rapide incursioni terrestri. In Egitto, invece, i principali target sono

le forze di sicurezza, i funzionari governativi e vari obiettivi di na-

tura economica, in particolare oleodotti e gasdotti, diverse struttu-

re di approvvigionamento energetico e le infrastrutture del settore

turistico. A livello tattico, tali offensive vengono portate a termine

attraverso attacchi coordinati su larga scala, attentati suicidi, im-

boscate, omicidi e rapimenti utilizzando sia ordigni esplosivi a

tempo o con controllo remoto sia armi di piccolo calibro. Il gruppo

ha inoltre a propria disposizione un numero limitato di ManPads

(Man-Portable Air-Defense Systems – sistema missilistico antiae-

reo a corto raggio trasportabile a spalla), probabilmente giunti di

contrabbando oltreconfine dalla Libia.

L’origine dei finanziamenti del gruppo non è tuttora chiara,

sebbene sia evidente che una parte di essi derivi dal pagamento dei

riscatti.

A novembre del 2014 il gruppo ha giurato fedeltà allo Stato

Islamico e ciò dovrebbe contribuire a facilitare l’integrazione di

altri estremisti islamisti, a diffondere la violenza e ad aumentare

gli obiettivi futuri in modo tale da includere individui e risorse oc-

cidentali in linea con la strategia di IS. Per tale ragione, si prevede

un aumento degli attacchi al di fuori del Sinai e uno spostamento

dell’attenzione dalle Forze di sicurezza agli obiettivi di rilevanza

economica.

Pertanto Abm rappresenta e continuerà a rappresentare il grup-

po estremista più attivo e letale in Egitto.

Non solo Sinai, l’estremismo di matrice islamica in Egitto 87

A gennaio del 2012, il nuovo gruppo jihadista Ansar al-Jihad

(chiamato anche al-Qaida nella penisola del Sinai) guidato dall’ex

medico di Osama bin Laden, Ramzi Mahmoud al-Mawafi, ha giu-

rato fedeltà ad al-Zawahiri. Nonostante non vi sia certezza dei re-

sponsabili del massacro, il gruppo, concentrato nel Sinai, è salito

alla ribalta il 19 agosto 2013 in seguito a un brutale attacco a Ra-

fah, durante il quale sono stati giustiziati 25 soldati. Poiché recen-

temente non sono state registrate attività del gruppo, si pensa si sia

unito al gruppo Ansar al-Bayt Maqdis.

Ajnad Misr (Soldati d’Egitto) è il gruppo terrorista più attivo

che opera al di fuori del Sinai. È attivo dall’inizio del 2014

nell’area della capitale, dove ha rivendicato diversi attacchi effet-

tuati contro le forze di sicurezza attraverso Ied (Improvised Explo-

sive Device – ordigni esplosivi improvvisati) e armi di piccolo ca-

libro. Il gruppo, sebbene non insista sulla creazione di un califfato,

segue un’ideologia jihadista salafita ed è collegato in maniera vaga

e indefinita ad Abm.

Anche il gruppo di Ansar al-Shariʻa fi Ard al-Kinanah (Ansar

al-Shariʽa in Egitto) ha condotto alcuni attacchi nel Sinai, ma dopo

l’arresto di un alto comandante del gruppo non si sono registrate

molte altre attività.

Kataib al-Furqan (Brigate al-Furqan) è un gruppo collegato alle

Brigate al-Qassam a Gaza che ha condotto numerose imboscate

contro le Forze di sicurezza in tutto il paese, in particolare lungo il

Canale di Suez e al Cairo. Le Brigate al-Furqan hanno anche con-

dotto attacchi utilizzando lanciarazzi (Rpg, Rocket Propelled Gre-

nade) contro una nave cisterna che costeggiava il canale e una sta-

zione di comunicazione satellitare Satcom al Cairo.

Muhammed Jamal è un militante islamista egiziano con alle

spalle importanti esperienze jihadiste in Afghanistan ed Egitto.

Negli anni Jamal ha sempre mantenuto stretti legami con AQ

(compreso il suo leader Ayman al-Zawahiri), Aqim, Aqap e vari

altri affiliati ad AQ core. Rilasciato dalle autorità egiziane nel

2011, Muhammed Jamal ha creato una propria organizzazione

islamista (Mohammed Jamal Network - Mjn) e grazie a finanzia-

menti provenienti da Aqap ha istituito alcuni campi di addestra-

88 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

mento per jihadisti in Egitto e Libia. Jamal e altri 25 membri della

sua cellula sono stati arrestati nel mese di novembre 2012, Jamal è

stato accusato dalle autorità egiziane di voler stabilire una cellula

terroristica nel Cairo, in particolare nel distretto di Nasr City. Da

qui appunto deriva la ragione del nome dell’organizzazione Nasr

City Cell. I fondatori di questa cellula sarebbero stati lo stesso Ja-

mal, Sheikh Adel Shehato (ex membro del jihad islamico egiziano

e co-fondatore del Mjn) e Tariq Abu-al-Azm (un ex ufficiale

dell’aeronautica arrestato nel 2002 sotto il regime di Mubarak con

l’accusa di terrorismo). Dopo l’arresto dei suoi leader e di altri

membri del gruppo nel novembre 2012, non vi è alcuna conferma

che la cellula sia ancora attiva.

In Egitto esistono inoltre molti altri gruppi estremisti meno ri-

levanti quali ad esempio al-Takfir wa al-Hijra, Jund al-Islam, al-

Salafiyya al-Jihadiyya Fi Sina e Tawhid wal-Jihad.

La strategia che guida tutti questi gruppi estremisti islamisti

mira, in prima fase, a indebolire le Forze di sicurezza in alcune

aree specifiche e, più in generale, a colpire l’economia del paese.

Da quando l’esercito ha destituito il presidente Morsi nel luglio

2013, i principali obiettivi degli attacchi terroristici sono diventati

le tre maggiori fonti di valuta estera per il paese, ovvero il canale

di Suez, gli idrocarburi e il turismo. Inoltre, è anche parte della

strategia di questi gruppi provocare la dura reazione delle Forze di

sicurezza in modo tale da renderle ostili agli occhi della popola-

zione. Ciò, unito al peggioramento della situazione socio-

economica, dovrebbe preparare il terreno alle proteste di massa e a

una rivolta pubblica che condurrà al rovesciamento del governo in

carica.

La situazione attuale e i possibili sviluppi futuri

Nonostante le difficoltà economiche in cui versa al momento il

paese, la crisi energetica, la forte repressione degli oppositori e, in

assenza di un parlamento, i pieni poteri legislativi ancora concen-

trati nelle proprie mani (dall’elezione del maggio 2014 avvenuta

con il 97 per cento dei voti), la popolarità del carismatico presi-

Non solo Sinai, l’estremismo di matrice islamica in Egitto 89

dente Abdel Fattah al-Sisi è attualmente all’apice. Con la promes-

sa di un miglioramento del tenore di vita entro i prossimi due anni,

al-Sisi esorta costantemente gli egiziani a sostenere il suo operato

e ad attendere con pazienza la ripresa. Inoltre, la maggioranza del-

la popolazione sembra sostenere la campagna di soppressione dei

movimenti islamisti e l’assertività dimostrata in risposta agli atten-

tati terroristici, il cui numero è aumentato a livelli senza preceden-

ti.

La continuità del sostegno finanziario da parte di Arabia Saudi-

ta, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti nei prossimi anni sarà cruciale

per la sopravvivenza economica del governo di al-Sisi, al punto da

limitarne il margine di manovra nel trattare con i Fratelli musul-

mani, con cui al momento ogni compromesso politico risulterebbe

irrealistico.

Con Israele al-Sisi manterrà probabilmente buone relazioni e

una continua cooperazione nella lotta al terrorismo, al fine di con-

tenere l’insurrezione nel Sinai. Per tale ragione, la Striscia di Gaza

resta di fondamentale importanza nella politica estera dell’Egitto.

Gli estremisti islamici continueranno a rivolgere i propri attac-

chi contro le Forze di sicurezza, ma si prevede un aumento degli

attentati rivolti verso le infrastrutture statali (oleodotti, impianti di

energia e infrastrutture ferroviarie), verso i civili e verso le struttu-

re turistiche. Poiché durante i primi due mesi dell’anno sono stati

già compiuti più di 100 attentati (contro i 400 totali del 2014) è

previsto per il 2015 un ulteriore aumento. È probabile poi che i

gruppi più piccoli si andranno a consolidare attorno ad Ansar al-

Bayt Maqdis e allo Stato Islamico. Nonostante ciò, è poco proba-

bile che a breve termine i militanti islamisti attraverso i soli attac-

chi terroristici siano in grado di minare la stabilità dello stato.

Un problema sarà ancora rappresentato dalla violenza settaria,

che si manifesterà attraverso focolai sporadici di attacchi terrori-

stici e di aggressioni a livello locale contro la comunità cristiana

copta e nei quartieri misti, in particolare nelle aree povere delle

grandi città.

La minaccia più grande sarà invece rappresentata dal possibile

sfruttamento da parte degli islamisti delle mobilitazioni di massa e

90 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

dalle agitazioni sociali che potrebbero scaturire dal malcontento

economico per la mancanza di soddisfazione delle aspettative del-

la popolazione da parte del governo.

Conclusioni

L’Italia nutre in Egitto interessi strategici significativi. Sul fronte

della sicurezza, è elevata la preoccupazione per la possibile diffu-

sione degli attacchi terroristici e la perdita del controllo delle mi-

grazioni verso le sponde italiane; sul fronte economico,

un’eventuale interruzione delle attività del Canale di Suez potreb-

be avere gravi ripercussioni sull’Italia, in quanto potenza maritti-

ma mediterranea, poiché quasi 160 milioni di tonnellate di merci

che ogni anno passano attraverso il Canale sono provenienti o de-

stinate ai paesi del versante nord del Mediterraneo9.

Attraverso la fornitura di pattugliatori, la Marina Militare Ita-

liana contribuisce attivamente alla Multinational Force and Obser-

ver (Mfo)10

che è stanziata nel Sinai settentrionale ad al-Gorah.

Dall’inizio delle rivolte del 2011 la Mfo è stata oggetto di numero-

si attacchi terroristici.

L’Italia ha inoltre in Egitto anche importanti interessi economi-

ci. Nel 2014 103 imprese italiane sono state attivamente coinvolte

nel paese, in diversi settori quali l’agricoltura, il turismo, le tele-

comunicazioni e gli idrocarburi11

. In quest’ultimo settore, in parti-

colare dal 1954, l’azienda italiana Eni è fortemente coinvolta

nell’esplorazione e nella produzione sia di gas sia di petrolio e, at-

traverso le sue società, con una produzione complessiva nel 2014

di 451.662 barili equivalente di petrolio al giorno, rappresentando

9 Suez Canal Authority, “Cargo Ton by Region”, http://www.suezcanal.gov.eg/TRstat.aspx?reportId=6. 10 La Mfo è una forza di peacekeeping internazionale istituita nel 1981 a seguito degli accordi di Camp David del 1978-79 firmati da Egitto e Israele. 11 Ice, “Presenza Economica Italiana in Egitto,” aprile 2014, http://www.ice.gov.it/paesi/africa/egitto/upload/110/Presenza%20Economia%20Italiana%20in%20Egitto%20-%20Aprile%202014.pdf.

Non solo Sinai, l’estremismo di matrice islamica in Egitto 91

il principale attore energetico internazionale in Egitto12

. Attual-

mente la Ieoc (International Egyptian Oil Company) interamente

posseduta da Eni, con una quota del 28 per cento (in particolare,

30 per cento di liquidi e 27 per cento di gas), è il primo produttore

di idrocarburi del paese.

Il progetto di ampliamento del Canale di Suez, del valore di 8

miliardi di dollari, offre nuove e significative opportunità

d’investimento per le imprese italiane.

La costruzione della democrazia in Egitto sarà di fondamentale

importanza per avere stabilità nel lungo termine. Per far in modo

che ciò accada saranno necessari: una comprensione di base del

concetto di “democrazia” (“come funziona la democrazia”), esi-

stenza di strutture su cui la democrazia possa poggiarsi (ammini-

strazione, polizia, strutture giuridiche/stato di diritto, partiti demo-

cratici); un certo grado di stabilità e sicurezza; prospettive econo-

miche e volontà della popolazione, al momento la democrazia è

solo al terzo posto per importanza nelle priorità di molti cittadini.

Considerando la situazione attuale dell’Egitto è difficile imma-

ginare che la democrazia rappresentativa secondo il modello occi-

dentale sia davvero la soluzione migliore per il paese. È necessario

trovare dei compromessi e per far ciò è essenziale il contributo

dell’Unione Europea.

I problemi relativi alla sicurezza sono solamente i “sintomi del-

la malattia”. È importante che anche questi vengano “trattati”, ma

la chiave del successo sta nell’affrontare ciò che sta alla base del

problema, ovvero la difficile situazione socio-economica.

L’Egitto necessita fortemente del sostegno internazionale per

risolvere i propri problemi interni, in particolare quelli relativi alla

minaccia rappresentata dall’estremismo islamico. Per far ciò è ne-

cessario influenzare l’ambiente strategico, che è in parte responsa-

bile dell’origine del terrorismo. Bisogna mantenere elevata, e gra-

12 Eni, “Eni has been awarded 3 new exploration licenses in Egypt”, 25 settembre 2014, http://www.eni.com/en_IT/media/press-releases/2014/09/2014-09-25-eni-egypt.shtml?shortUrl=yes; ENI, “ENI in Egypt”, novembre 2014, https://www.eni.com/it_IT/attachments/documentazione/brochure/eni_egitto_2014.pdf.

92 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

dualmente soddisfare, la fiducia della popolazione egiziana nel

governo e la speranza di migliori condizioni di vita e maggior oc-

cupazione, così dovranno essere garantite le libertà individuali e i

diritti umani.

L’Italia dovrà svolgere un ruolo significativo nella questione

tenendo a mente i propri interessi strategici.

5. “Siraq” tra terrorismo e guerriglia

Andrea Beccaro

L’area tra Iraq, Siria e Libano è oggi scossa da profondi mutamen-

ti politici che non solo stanno trasformando la sistemazione geopo-

litica nata dopo la Prima guerra mondiale, ma pongono anche seri

problemi di sicurezza all’interno del bacino del Mediterraneo e

dunque all’Italia e all’Europa. In questo contributo descriveremo

prima tale minaccia soffermandoci in particolar modo sullo Stato

Islamico (IS) per poi offrire un quadro il più dettagliato possibile

dei paesi in esame.

Terrorismo o guerriglia?

In questa particolare congiuntura internazionale IS rappresenta la

minaccia più consistente anche a causa della sua pericolosità fuori

area, come dimostrano le sue propaggini in Sinai, Libia e non solo.

Non si dimentichi però che molte delle sue caratteristiche operati-

ve valgono anche, con le dovute diversità, per gruppi simili

dell’area.

Offrire una definizione precisa della minaccia è difficile, poi-

ché ormai il concetto stesso di guerra è radicalmente mutato, a tale

trasformazione però non è corrisposta una condivisa visione del

fenomeno da parte degli specialisti. Una delle definizioni più cal-

zanti per IS e gruppi affini è Hybrid Warfare, concetto proposto da

Hoffman1 nel 2006 in occasione del conflitto tra Israele ed Hez-

bollah, che descrive una situazione bellica generalmente tra uno

1 F. Hoffman, Conflict in the 21st Century: the Rise of Hybrid Wars, Arlington, Potomac Institute for Policy Studies, 2007.

94 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

stato e un gruppo di irregolari i quali adottano una combinazione

di tattiche. Da un lato troviamo elementi della guerriglia classica:

alta mobilità, conoscenza del terreno, velocità d’azione, sfrutta-

mento dell’elemento sorpresa, nonché tattiche prettamente terrori-

stiche. Queste ultime sono sempre state centrali nelle guerre irre-

golari e come sostiene Metz: «È più accurato considerare il terro-

rismo come una tattica o un metodo operativo che può essere uti-

lizzato all’interno di una varietà di strategie compresa quella di

un’insorgenza. I movimenti puramente terroristici sono quasi

sempre incapaci d’implementare una completa strategia

d’insorgenza»2. Dall’altro lato però troviamo elementi tipici degli

eserciti statuali: addestramento all’impiego di esplosivi e di armi

avanzate, impiego di movimento tattico tipico della fanteria o an-

che delle Sof (Special Operation Forces), uso di armi tecnologi-

camente avanzate come missili contro carro, mezzi corazzati, arti-

glieria. Da questa commistione nasce il concetto di “hybrid” e ciò

porta a due ulteriori riflessioni.

Primo, tali combattenti non si limitano alla sfera puramente

violenta dei conflitti, ma agiscono anche, e con sempre maggiore

efficacia, sui media e sui social network3. Tali aspetti sono parte

integrante della loro strategia e servono per portare a termine al-

cuni obiettivi come il reclutamento di nuove leve (qui IS ha co-

struito molta della sua forza, basti pensare al ruolo dei cosiddetti

foreign fighters4) e la promozione della propaganda con il duplice

risultato di compattare le proprie fila e di colpire la volontà del

nemico di combattere5. Secondo, il campo di battaglia si è ormai

allargato alla sfera mediatica e social, poiché la propaganda che si

2 S. Mets, Rethinking insurgency, in, The Routledge Handbook of insurgency and Counterinsur-gency, a cura di P.B. Rich, I. Duyvesteyn, New York, Routledge, 2012, p. 38. 3 C. Winter, How the Islamic State Makes Sure You Pay Attention to It, http://warontherocks.com/2015/02/how-the-islamic-state-makes-sure-you-pay-attention-to-it/. 4 D. Byman, J. Shapiro, Be Afraid. Be A Little Afraid: The Threat of Terrorism from West-ern Foreign Fighters in Syria and Iraq, Policy Paper, n. 34, novembre 2014, http://www.brookings.edu/~/media/research/files/papers/2014/11/western-foreign-fighters-in-syria-and-iraq-byman-shapiro/be-afraid--web.pdf. 5 Si veda Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis, a cura di M. Maggioni, P. Magri, Mila-no, Edizioni Epoké - ISPI, 2015.

“Siraq” tra terrorismo e guerriglia 95

sviluppa in quei contesti è parte integrante del conflitto. Le imma-

gini diffuse da IS e i reali combattimenti sul campo sono elementi

che vanno letti e interpretati in modo complementare, sono la stes-

sa battaglia combattuta con strumenti e mezzi diversi. Il campo di

battaglia su cui IS e gruppi similari agiscono è dunque fluido: da

un lato, grazie all’impiego di tattiche terroristiche tali organizza-

zioni possono con grande facilità colpire anche fuori dalla zona

operativa come dimostrano i recenti attacchi in Francia, Belgio,

Australia e Canada; dall’altro, anche in Iraq e Siria il “fronte” si

sposta rapidamente, non è delineato e ciò rende molto difficile

analizzare il conflitto e il suo andamento.

Il quadro geopolitico

La denominazione IS nasce il 29 giugno 2014 quando il suo lea-

der, Abu Bakr al-Baghdadi, dichiara la creazione del califfato, do-

po aver conquistato un terzo del territorio iracheno oltre a quello

che già aveva sotto il suo controllo in Siria, ma in realtà il gruppo

è attivo con vari nomi e leader almeno dal 1999. Pur nascendo

come emanazione di al-Qaida, cui si è affiliato nel 2004, esiste una

profonda frattura a livello operativo ancora oggi rilevante per

comprendere le dinamiche tra IS e Jabat al-Nusra (JN). L’impiego

di tattiche eccessivamente violente del gruppo, e in particolare

l’impiego massiccio di attentatori suicidi e Ied (Improvised Explo-

sive Device) contro i civili iracheni principalmente sciiti, fu criticato

da al-Qaida, ciò sottolineava una diversa visione degli obiettivi della

lotta: lo scopo di Zarqawi era di creare le condizioni per una guerra

civile tra sunniti e sciiti, mentre al-Qaida invitava a colpire le forze

occidentali. Grazie alla dottrina della Counter-insurgency e al mo-

vimento dell’Awakening6, si riuscì tra il 2007 e il 2008 a ridurre si-

gnificativamente la violenza nel paese7 e le capacità operative del

6 A. Beccaro, La guerra in Iraq, Bologna, il Mulino, 2013. 7 B. Price, D. Milton, M. al-ʻUbaydi, N.Y. Lahoud, The Group That Calls Itself a State: Understanding the Evolution and Challenges of the Islamic State, CTC Sentinel, Combating Terrorism Center, West Point, 2014, p. 21.

96 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

gruppo, ma fu una vittoria di Pirro per due diverse ragioni. Da un

lato, la politica settaria portata avanti dal premier Maliki fece sì che

i sunniti tornassero sempre più verso posizioni d’opposizione al go-

verno centrale. Dall’altro lato la congiuntura geopolitica regionale

stava profondamente mutando con la guerra civile in Siria che per-

mise all’IS, seppur con modalità e tempistiche diverse, di conqui-

starsi spazio e di procedere con la sua stabilizzazione. Bisogna però

ricordare che dal punto di vista militare IS si trova in una situazione

complessa, infatti la forza che gli ha permesso di conquistare il terri-

torio tra Iraq e Siria risiedeva sia nella sua alta mobilità sia

nell’effetto sorpresa che riusciva a ottenere, con la fine dell’estate il

gruppo, ormai solidificato, ha acquisito una postura più statica.

IS dunque rappresenta a tutti gli effetti un attore regionale im-

portante, il fatto di non essere uno stato nel senso occidentale e

moderno del termine non deve essere un pretesto per non ricono-

scerne lo status che si è guadagnato sul campo, anche perché al

suo fianco abbiamo attori dalle stesse caratteristiche e del tutto re-

frattari al concetto di confine. IS opera indifferentemente in Siria e

in Iraq senza contare le sue varie province – Wilayat, in Sinai, Li-

bia e altrove. I Peshmerga curdi godono ormai di una più o meno

ampia indipendenza dal 1991, vengono armati e addestrati anche

da paesi europei in funzione anti-IS ma un domani, nemmeno

troppo lontano, potrebbero diventare una forza trainante per un

Kurdistan più ambizioso. Hezbollah in quanto emanazione della

politica estera iraniana gioca in tutta l’area dal Libano all’Iraq,

passando per la Siria, un ruolo centrale sia dal punto di vista mili-

tare (il suo supporto ad Assad è stato determinante per evitare il

crollo del regime) sia dal punto di vista politico. JN è fortemente

radicata in Siria e ha propaggini in Libano. Dunque qualunque

strategia d’intervento nell’area deve prendere realisticamente in

considerazione questo aspetto e non può ragionare in termini spa-

ziali ormai superati dagli eventi8.

8 A.Y. Zelin, “The Islamic State’s model”, The Washington Post, 28 gennaio 2015, http://www.washingtonpost.com/blogs/monkey-cage/wp/2015/01/28/the-islamic-states-model/.

“Siraq” tra terrorismo e guerriglia 97

Qui affronteremo separatamente i tre paesi, poiché tale suddi-

visione semplifica l’esposizione, invitiamo però il lettore a tenere

presente quanto appena esposto e a cercare di vedere le intercon-

nessioni presenti tra le diverse aree.

Iraq

Dal giugno 2014 l’IS è stato in grado di ampliare notevolmente il

territorio sotto il suo controllo conquistando la città di Mosul, le

province di Ninive e Anbar oltre a varie altre aree del paese. Al

momento IS ha perduto la spinta offensiva che aveva mantenuto

fino all’autunno scorso. Ciò però non significa che la milizia sia

stata sconfitta. È vero che alcune aree sono oggi più stabili (come

la provincia di Diyala a nord della capitale), ma non per questo

fuori pericolo, anche perché fino al mese di febbraio IS ha mante-

nuto quasi inalterate le sue posizioni. Tale situazione è lievemente

mutata a seguito dell’operazione per liberare Tikrit. A metà marzo,

due settimane dopo l’inizio dell’offensiva, le truppe irachene e le

milizie sciite appoggiate dall’Iran sono penetrate in città, ma non

sono ancora riuscite a controllare completamente il centro. Il pro-

blema però non è tanto se riusciranno o meno a liberare la città,

quanto, e se, siano in grado di controllare lo spazio conquistato e

quindi di tenere fuori IS, un fatto che potremo verificare solo nei

prossimi mesi.

La violenza nel paese resta comunque altissima se si pensa che,

secondo la United Nations Assistance Mission for Iraq (Unami), a

febbraio ci sono state 1100 vittime, un dato che non prende in con-

siderazione il territorio controllato dall’IS. Ciò dimostra come le

stesse aree “liberate”, o che non sono sotto il suo diretto controllo,

sono costantemente sotto attacco come Ramadi e Baghdad. Ben-

ché il premier al-Abadi abbia deciso a inizio febbraio di togliere il

coprifuoco nella capitale, che ormai durava da anni, un tentativo,

per sua stessa ammissione, di normalizzare la vita degli iracheni

più che il risultato di una maggiore sicurezza e infatti pochi giorni

dopo l’annuncio si sono verificati tre attacchi suicidi. Altra area

cruciale e più volte dichiarata sicura, ma in realtà fortemente con-

98 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

tesa, è quella di Baji e della sua raffineria liberata a novembre e

riconquistata in parte a dicembre da IS, teatro di aspri scontri tra

gennaio e febbraio. Oppure la cittadina di al-Baghdadi nella pro-

vincia di Anbar che ha registrato diversi attacchi tra novembre e

dicembre per via della sua collocazione strategica, ma che era stata

dichiarata sicura il 12 gennaio. Il 13 febbraio IS con un attacco a

sorpresa è riuscito a conquistarla, mettendo così in grave pericolo

la vicina base aerea di al-Asad dove circa 320 soldati americani

sono impegnati in operazioni di addestramento. Tale operazione

dimostra sia la capacità di resistenza e di adattamento di IS, sia la

scarsa efficacia dell’operazione aerea e la debolezza strutturale

delle forze irachene.

Il problema però non è quanto o se si riesce a far retrocedere IS

o sconfiggerlo, bensì, in Iraq come in Siria, cui prodest? La spac-

catura tra sunniti e sciiti è radicata e inficia profondamente non

solo le capacità operative dell’esercito che si vorrebbe nazionale,

ma anche quelle d’influenza politica di Baghdad in cui il controllo

sciita è forte e visto con sospetto dalla minoranza sunnita. La-

sciando da parte i bombardamenti aerei condotti da un’eterogenea

alleanza, possiamo individuare almeno tre gruppi di attori, non

omogenei al loro interno, che combattono sul terreno, facendo così

emergere il problema di come verrà gestito il territorio iracheno

nel caso di una sconfitta di IS. Le Forze di sicurezza irachene,

avendo perduto le regioni in cui erano meno radicate e dove il

malcontento verso il governo centrale era più forte, grazie al so-

stegno del potere aereo americano, possono essere uno strumento

più efficace di lotta, ma non è detto che siano realisticamente in

grado di riconquistare il terreno perduto, anche perché si trattereb-

be di condurre complesse operazioni urbane. I Peshmerga curdi

sono stati la prima linea di difesa dopo lo sfaldamento delle forze

regolari, e sia l’Italia (circa 60 militari a Erbil con compiti di adde-

stramento più un contingente di circa 400 uomini in Kuwait utili

per far operare quattro Tornado, due Predator e un aereo cisterna)

sia altri paesi occidentali hanno inviato loro armi e altro materiale

bellico. I curdi però hanno approfittato della crisi creata da IS per

entrare a Kirkuk e non sembrano intenzionati a lasciare la città.

“Siraq” tra terrorismo e guerriglia 99

Bisogna poi prendere in considerazione l’influenza iraniana sia sul

governo di Baghdad sia sulle milizie che si sono dimostrate molto

capaci sul terreno, diventando un attore della politica interna ira-

chena temibile e al contempo un’ulteriore ragione di preoccupa-

zione per una spaccatura del paese. Tra i gruppi sciiti più attivi

possiamo indicare Asaib Ahl al-Haq (La lega dei giusti) che ha

avuto un ruolo determinante nella zona di Babil, è anche uno dei

gruppi iracheni che combattono in Siria, a ulteriore dimostrazione

di una crescente integrazione delle aree; Kata’ib Hizbollah (I bat-

taglioni del partito di Dio) hanno sempre combattuto la presenza

americana in Iraq e ora sono al fianco dell’esercito regolare sin

dall’inizio della crisi con IS. Fino a poco tempo fa le loro opera-

zioni si erano limitate alla difesa dei luoghi santi e delle aree a

maggioranza sciita, ma recentemente alcuni elementi sono attivi

nella provincia di Anbar, il che ha sollevato dubbi e resistenze da

parte dei sunniti. Esse pongono seri problemi al futuro dell’Iraq

non solo per il loro forte legame con l’Iran, ma anche perché si

sono macchiate di pesanti ritorsioni contro la popolazione sunnita

delle aree in cui operano, perpetuando così la lotta interna tra sun-

niti e sciiti9. Infine, il lato sunnita non è rappresentato dal solo IS,

ma è sfaccettato in una pluralità di gruppi che in parte sono legati

al califfo, in parte, invece, si schierano in opposizione anche se

non per forza di cose a favore del governo di Baghdad.

Siria

La situazione siriana è probabilmente ancor più complicata e flui-

da con una guerra civile che ormai si trascina da quattro anni e che

nei soli ultimi 12 mesi ha causato la morte di circa 76.000 persone,

senza prendere in considerazione l’enorme numero di rifugiati. Sul

campo si scontrano molteplici milizie che rendono la comprensio-

ne del conflitto particolarmente complessa, ma che in realtà ri-

specchiano sia i diversi interessi in gioco degli attori regionali

(Turchia, Siria, Iran, Arabia Saudita, Iraq, Qatar) sia le spaccature

9 http://iswiraq.blogspot.de/2015/02/iranian-backed-militias-cause-political.html.

100 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

etnico-religiose del Medio Oriente (sunniti, sciiti, curdi su tutte).

La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che si contano

migliaia di combattenti stranieri. Accanto alle forze lealiste di As-

sad appoggiate in modo diretto anche da Hezbollah10

troviamo tra

gli attori principali IS e Jabat al-Nusra, ovvero la sigla locale di al-

Qaida più una serie di altre milizie11

. L’esercito regolare ha chia-

ramente alcuni problemi, le defezioni, le diserzioni e circa 44.000

perdite ne hanno ridotto gli effettivi da 325.000 a circa 150.000

uomini12

. Inoltre avendo perduto alcune basi strategiche

nell’interno del paese non sembra in grado di riconquistare ampi

spazi di ciò che fu la Siria, questo però non significa che non pos-

sa tenere testa alle milizie nelle zone che ancora controlla oppure

di organizzare offensive più limitate, come infatti è avvenuto a

febbraio ad Aleppo (un’avanzata che preoccupa non poco la Tur-

chia) e in diverse zone nei pressi di Damasco.

La vittoria curda di Kobane non deve far pensare a un IS in riti-

rata, anche se i curdi sono stati in grado di ampliare le zone con-

trollate. Sicuramente il fatto di non aver conquistato la città dopo

che se n’era fatto un emblema della forza militare del califfato è

uno smacco mediatico notevole (controbilanciato però dal video in

cui il pilota giordano viene arso vivo e dal recente rafforzamento

in Libia), ma resta il fatto che l’IS controlla ancora saldamente

ampi territori della Siria centro orientale e le annesse risorse petro-

lifere che insieme a quelle irachene rappresentano una porzione

importante della sua economia.

JN è un altro attore importante in Siria radicato soprattutto nel

nord-ovest del paese. Fino alla primavera del 2014 combatteva al

fianco di IS, ma poi quest’ultimo ha rotto la collaborazione riu-

scendo a scalzare al-Qaida dal suo ruolo di leader del movimento

10 P.P. Smyth, The Shiite Jihad in Syria and its Regional Effects, Policy Focus 138, The Washington Institute for Near East Policy, febbraio 2015. 11 Per un’analisi più dettagliata dei vari gruppi si veda Syria: A.Y. Zelin, Syria: The Epicenter of Future Jihad, Policy Analysis, Policywatch 2278, The Washington Institute for Near East Policy, 30 giugno 2014. 12 C. Kozak, The Assad Regime Under Stress: Conscription and Protest among Alawite and Minority Populations in Syria, http://iswsyria.blogspot.de/2014/12/the-assad-regime-under-stress.html.

“Siraq” tra terrorismo e guerriglia 101

jihadista sia sul campo sia dal punto di vista mediatico grazie a

una campagna che purtroppo conosciamo fin troppo bene. JN in-

torno al 14 dicembre, insieme ad altre milizie, ha conquistato le

basi militari di Wadi al-Deif e al-Hamidiyah nei pressi di Idlib,

così facendo ha fortemente indebolito la presenza lealista nell’area

e attraverso le sue abilità tattiche e di pianificazione operativa, al

fine di condurre offensive simultanee e coordinate, ha dimostrato

la sua forza e la sua influenza. Con l’inizio del nuovo anno si sono

registrate tensioni con altri gruppi ribelli sia ad Aleppo sia nel sud

della provincia di Idbil il che potrebbe indicare un crescente mal-

contento verso le azioni offensive di JN. A gennaio però il gruppo

è stato anche in grado di conquistare un’altra base siriana vicino a

Sheikh Miskin nel sud della provincia di Dera’a. La risposta a tali

attacchi si è registrata a febbraio quando Hezbollah ha guidato

un’offensiva con elementi dell’esercito regolare proprio per bloc-

care l’avanzata e ripristinare i collegamenti.

I colloqui tenutisi a fine gennaio a Mosca non rappresentano un

vero passo avanti nella risoluzione della crisi siriana, ma potrebbe-

ro aver ulteriormente rafforzato la posizione russa nell’area. Gli

accordi firmati a febbraio tra Stati Uniti e Turchia per

l’addestramento dei ribelli siriani filo-occidentali non solo sono

una mossa tardiva, ma prevedono un’operazione talmente limitata

nei numeri che difficilmente potrà avere un impatto nel breve pe-

riodo.

Libano

La questione libanese è quanto mai delicata per svariate ragioni:

confina con Israele e in passato si è arrivati più volte allo scontro

aperto; è un paese profondamente diviso e con una pluralità di

confessioni che in un quadro regionale così instabile rappresenta-

no un potenziale rischio futuro; ha una presenza militare occiden-

tale e in particolare di soldati italiani inquadrati nella missione

Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) (1100 uomini

della Brigata Meccanizzata “Pinerolo”). Il paese è però da decenni

parzialmente in mano alle milizie di Hezbollah che da lì sono poi

102 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

partite per aiutare Assad in Siria. Inoltre, dopo un periodo di rela-

tiva calma, nella seconda parte di gennaio il confine con Israele si

è di nuovo fatto rovente a causa di una serie di attacchi e ritorsioni

tra Hezbollah e Idf (Israel Defense Forces) che hanno causato al-

cuni morti da entrambe le parti più quella di un Casco Blu. Quello

che emerge però è che anche sulle Alture del Golan non si tratta

più di un confronto tra queste due forze, da mesi ormai vi opera

anche Jabat al-Nusra, e questo ha fatto sì che sia le milizie sciite

sia Teheran alzassero il loro livello di guardia. Almeno secondo il

comando italiano responsabile dell’area però la situazione pur tesa

resta sotto controllo13

, anche se non è escluso che con la primavera

gli scontri possano intensificarsi.

Le milizie di Hezbollah non sono le uniche presenti,

nell’ultimo anno specie nella zona nord del paese nella regione di

Arsal si sono registrati aspri scontri tra l’esercito regolare e gruppi

sunniti variamente legati a JN o IS. Per evitare scontri aperti che

potrebbero degenerare e portare il paese al collasso, le Forze arma-

te hanno cercato d’isolare l’area. In questo modo però il Libano si

presenta spaccato in tre parti con un nord particolarmente perico-

loso dove è forte, anche se non maggioritaria, la presenza di grup-

pi sunniti jihadisti, un centro relativamente pacifico e un sud in

mano a Hezbollah. Bisogna inoltre ricordare che la stabilità del

paese è resa estremamente più debole dall’enorme flusso di rifu-

giati siriani in fuga dalla guerra.

È sintomatico che nel gennaio 2015 il generale iraniano Qasem

Soleimani abbia compiuto una visita a Beirut. Soleimani è

l’eminenza grigia della politica estera e militare iraniana nella re-

gione, è stato più volte visto in Iraq (dove ha guidato anche

l’operazione a Tikrit) dove ha stretto rapporti con le milizie sciite

locali, in Siria e anche in Yemen, è la persona a cui Teheran dele-

ga il processo di decision-making sul campo. La tempistica della

visita, di cui però s’ignorano i contenuti, è significativa visto che è

avvenuta poco dopo lo scontro sul confine tra Israele ed Hezbol-

lah.

13http://www.analisidifesa.it/2015/02/libano-sullorlo-della-guerra-parla-il-generale-portolano/.

“Siraq” tra terrorismo e guerriglia 103

Conclusioni

L’intera regione è quindi estremamente instabile e le prospettive di

breve/medio termine non sono migliori. Siria e Iraq, seppur in

modi diversi, possono essere considerati degli stati falliti che non

controllano più ampi spazi del loro territorio, molti altri attori sono

attivi in quegli spazi con le proprie agende politiche. Tra questi

l’IS rappresenta sicuramente la minaccia maggiore, poiché ha mo-

strato la capacità e la volontà di alterare l’ordine internazionale e

in particolare quello dell’area del Mediterraneo. Questo aspetto

interessa da vicino l’Italia non solo per la sua collocazione geogra-

fica, ma anche perché il nostro paese da anni investe risorse politi-

che e militari sia in Libano, dove siamo al comando della missione

Unifil dal 2007, sia in Iraq, dove le Forze armate sono state forte-

mente impegnate tra il 2003 e il 2006, e ora nuovamente altri mili-

tari italiani sono attivi sul campo.

6. AfPak: i rischi del broader disengagement

Riccardo Redaelli

La “scomparsa” dello scenario afghano

Sembrerebbe a prima vista paradossale che il tentativo più ambi-

zioso e più impegnativo dal punto di vista umano, economico e

organizzativo della Nato e della comunità internazionale – vale a

dire la stabilizzazione dell’Afghanistan post-2001 – sia entrata in

un profondo “cono d’ombra” mediatico. Di Afghanistan si parla

pochissimo ormai, nonostante sia ancora presente un forte contin-

gente Nato, anche dopo la fine della Missione di assistenza alla

stabilizzazione di quel paese (la più che decennale missione Isaf –

International Security Assistance Force), sostituita, come vedre-

mo, dal nuovo impegno militare di Resolute Support. E nello stes-

so cono d’ombra sembrano essere finite anche le abbinate strategie

counter-insurgency (contro i Taliban) e counter-terrorism (nei

confronti dei movimenti jihadisti) nell’AfPak (la dizione ormai in-

valsa per identificare la regione afghano-pakistana).

Certo, vi sono ormai ben altri scenari di crisi, molto più vicini

all’Europa, che focalizzano la nostra attenzione, in particolare con

l’ascesa del movimento jihadista post-qaidista dello Stato Islamico

(IS). IS ha non solo calamitato l’attenzione in Levante e nel Medi-

terraneo, ma ha anche innovato il frame concettuale e operativo

dell’attivismo islamico violento1, apparentemente marginalizzando

il modello di al-Qaida e il suo leader al-Zawahiri. I colpi subiti da

1 Cfr. New (and Old) Patterns of Jihadism: al-Qa’ida, the Islamic State and Beyond, a cura di A. Plebani, Milano, ISPI, 2014.

106 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

al-Qaida e la trasformazione di quella struttura, per sopravvivere a

quasi quindici anni di lotta al terrore statunitense e occidentale,

fanno oggi apparire come meno prioritario lo scacchiere

dell’AfPak, e in particolare quello afghano, mentre cresce in peri-

colosità quello pakistano, con l’aumento della violenza del movi-

mento Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp – si veda il paragrafo a p.

109).

A contribuire alla riduzione del senso di priorità di questo qua-

drante vi è anche la trasformazione del movimento dei Taliban in

una galassia molto più articolata e spesso lontana dal movimento

originario, strettamente legato al jihadismo globale, e la “derubri-

cazione” del conflitto in Afghanistan in un conflitto “nazionale”,

per il quale esistono soluzioni più politiche che militari.

Da Isaf a Resolut Support

Per capire lo scenario attuale e valutare il rischio rappresentato dai

movimenti del jihad globale regionali, occorre tuttavia partire da

un bilancio complessivo di Isaf, conclusasi nel dicembre 2014 do-

po oltre un decennio di attività. Se si dovesse sintetizzare in modo

estremo, si potrebbe dire: molti sforzi, molti errori. L’impegno in-

ternazionale di Isaf, sotto la guida Nato, ha coinvolto quasi 60

paesi (ben oltre quindi i 28 paesi dell’Alleanza Atlantica) a partire

dal 2003 con decine di migliaia di soldati impiegati, arrivando a

un massimo di 140.000 uomini dislocati nel paese durante il 2011,

per poi scendere progressivamente fino ai 35.000 di quest’anno. A

essi vanno aggiunte decine di migliaia di civili che hanno lavorato

negli innumerevoli progetti di sviluppo. Non esistono cifre sicure

riguardo ai costi totali di quest’impegno verso l’Afghanistan, ma

le stime più accurate superano i mille miliardi di dollari nell’arco

di 13 anni. Di questi fondi, più del 99 per cento sarebbe stato in-

ghiottito dallo sforzo militare per combattere i Taliban e addestra-

re le truppe nazionali afghane. Per l’impegno umanitario, non sa-

AfPak: i rischi del broader disengagement 107

rebbero rimaste che le briciole, meno dell’1 per cento2. Una cifra

che, da sola, dice molto sulle enormi difficoltà nel mettere in sicu-

rezza il paese.

È vero che al-Qaida non ha più potuto usare quella regione

come proprio rifugio sicuro e i guerriglieri islamisti sono stati cac-

ciati da Kabul, ma il terrorismo di matrice islamista in questi anni

è ben lungi dall’essere sconfitto, come dimostrano le tristi crona-

che di questi ultimi mesi. E i Taliban continuano a minacciare la

fragile democrazia afghana; hanno anzi infettato il vicino Pakistan

che si era illuso di usarli per i propri obiettivi strategici; Islamabad

è invece stata colpita dagli stessi demoni del radicalismo che ave-

va colpevolmente evocato.

Parte di questi risultati deludenti è anche dovuta agli errori di

prospettiva, alla distrazione (causa Iraq) e alla mancanza di coor-

dinamento dei paesi impegnati in Afghanistan. È solo dopo il 2009

che Isaf ha iniziato a cambiare strategia, rafforzando il coordina-

mento interno e incrementando il training delle truppe nazionali,

per “afghanizzare” la lotta contro gli insorti, riducendo progressi-

vamente il proprio impegno diretto nelle battaglie sul terreno.

L’Italia è stata certo uno dei principali protagonisti di questo

sforzo: per anni abbiamo impegnato in Afghanistan migliaia di

uomini, guidando uno dei quattro comandi regionali di Isaf, quello

di Herat, nell’Ovest. Un impegno pagato con la vita di più di 50

nostri soldati, ma i cui frutti in tema di stabilità militare e di svi-

luppo economico e sociale vengono sempre sottolineati dagli stes-

si afghani.

Nonostante errori e fallimenti, il cambiamento sociale e cultu-

rale dell’Afghanistan è comunque impressionante: oggi gli stessi

Taliban accettano le tante scuole femminili aperte nel paese (e che

loro consideravano anti-islamiche), esistono giornali e tivù delle

più varie tendenze, le università sono in forte crescita, così come

le organizzazioni non governative. Il paese si è trasformato da

questo punto di vista e nessuno immagina possa accettare di torna-

2 S. Perlo-Freeman, C. Solmirano, “The economic costs of the Afghanistan and Iraq wars”, Yearbook 2012. Armaments, Disarmaments and International Security, SIPRI, Ox-ford, 2012.

108 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

re indietro al tetro fanatismo del Mullah Omar. Un’evoluzione so-

ciale che ha contagiato gli stessi insorti islamisti, spesso in disac-

cordo con la vecchia guardia dei Taliban apparentemente più di-

sponibili a un compromesso politico3.

Si sarebbe potuto ottenere molto di più, se non fosse stato per

la piaga spaventosa dell’inefficienza e della corruzione, rappresen-

tata dagli otto fallimentari anni di potere dell’ex presidente Hamid

Karzai. Ministri e alti funzionari hanno saccheggiato i fondi desti-

nati allo sviluppo, rubando decine di miliardi di dollari (ora depo-

sitati per lo più nelle compiacenti banche di Dubai). Le enormi e

sfacciate malversazioni hanno umiliato la popolazione afghana,

contribuendo a spegnere gli entusiasmi e a favorire la propaganda

degli insorti. Il nuovo presidente, il pashtun Asharf Ghani – salito

al potere dopo uno stallo di mesi per i brogli elettorali nelle ele-

zioni dell’estate 2014 – guida un governo di coalizione con il riva-

le Abdullah Abdullah e sta cercando di ridurre le inefficienze e la

corruzione.

A gennaio 2015, con la fine di Isaf, inizia Resolute Support,

una missione che deve assicurare il training degli oltre 350.000

soldati e poliziotti afghani (i cui salari sono pagati pressoché to-

talmente dalla comunità internazionale) e che è composta da al-

meno 13.000 soldati di decine di paesi diversi, senza però alcun

ruolo attivo nei combattimenti4. Un numero che non soddisfa mol-

to gli afghani, timorosi che il nostro sostegno sia molto meno che

“risoluto”. Dovrà invece aumentare l’impegno finanziario e uma-

nitario per migliorare la vita quotidiana della popolazione e per

rafforzare la capacità gestionale del governo di Kabul (senza farsi

troppe illusioni). Ma il problema di Resolute Support sembra so-

prattutto essere quello di una mancanza di chiarezza circa i veri

obiettivi della missione e la loro prioritarizzazione e soprattutto di

un’ambiguità di fondo. Così come Isaf, anche RS punta soprattutto

sul training e il mentoring per la stabilità e le best practices; eppu-

re, il comandante generale di RS – come per Isaf – mantiene il

3 Cfr. A. Gopal, “Serious Leadership Rifts Emerge in Afghan Taliban”, CTC Sentinel, vol. 5, n. 11-12, novembre 2012. 4 Dati forniti nel corso di colloqui al Nato HQ, Bruxelles, 17 ottobre 2014.

AfPak: i rischi del broader disengagement 109

doppio cappello di comandante di una forza multinazionale per la

stabilità e di comandante della missione US contro-terrorismo, da

gennaio battezzata Operation Freedom’s Sentinel¸ che riproduce

l’ambiguità degli interessi e degli obiettivi di cui l’azione Nato ha

sofferto in passato.

Taliban e terrorismo: le possibili trasformazioni nell’AfPak

Dall’altra parte, il decennio abbondante di lotta ha profondamente

modificato anche il fronte dei Taliban, che oggi sembrano più una

“galassia” che un movimento ben strutturato.

Sotto quest’etichetta vi è infatti una pluralità di gruppi, spesso

con agende e prospettive divergenti. Da un lato vi è la vecchia

guardia ideologica legata al leader storico, Mullah Mohamad

Omar, a capo della cosiddetta Quetta Shura, che riunisce veterani

pashtun del movimento Taliban e ha legami con il cosiddetto

Haqqani Network (creato dal comandante mujaheddin Jalaluddin

Haqqani – che godette di corposi aiuti dagli Stati Uniti negli anni

Ottanta), un’altra organizzazione estremista attiva nell’AfPak,

spesso collegata ai grandi attentati con l’uso di volontari suicidi,

che tuttavia appare operativamente autonoma rispetto alla Quetta

Shura5. Quest’ultima, a lungo protetta dalle autorità pakistane, ap-

pare ora indebolita dalle uccisioni mirate dei droni statunitensi e

da rapporti più tesi con le forze armate pakistane. Importante an-

che la Peshawar Shura, il secondo dei consigli politico-militari dei

Taliban (i rimanenti consigli sono basati a Miranshah nel Nord

Waziristan e a Karachi), molto attiva nei combattimenti

nell’Afghanistan orientale e che beneficia della protezione dei

centri religiosi del network Haqqani.

Vi è poi una moltitudine di comandanti militari attivi lungo la

frontiera, pressoché tutti pashtun, i quali – negli ultimi anni – han-

no mostrano minore coesione e fedeltà ai vertici storici del movi-

5 A. Siddique, “The Quetta Shura: Understanding the Afghan Taliban’s Leadership”, Terrorism Monitor, vol. 12, n. 4, febbraio 2014.

110 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

mento (tanto che essi vengono fatti ruotare sul terreno, con un sen-

sibile peggioramento dell’efficienza militare delle loro unità).

L’elemento scatenante di questa frammentazione è stato il combi-

nato degli attacchi mirati US/Nato contro i comandanti Taliban sul

terreno e l’avvio dei negoziati di pace con il governo di Kabul. Chi

rischia la vita sul campo, e si espone alla possibilità concreta di

essere eliminato dalla tecnologia militare occidentale, è scoraggia-

to dall’intensificarsi delle trattative, dato che esse sembrano rende-

re quasi inutile il loro sacrificio6.

Altri comandanti, soprattutto quelli con forti legami tribali lo-

cali, diventano così meno intransigenti e disposti al compromesso

(tacito o meno) con il governo centrale, che negli ultimi anni ha

negoziato accordi e tregue informali con singoli gruppi di insorti.

Infine, è cresciuto il numero di gruppi militari che adottano

l’etichetta di Taliban, ma che rappresentano per lo più o istanze

estremamente locali o, peggio ancora, sono di fatto semplici grup-

pi criminali dediti ai traffici illeciti che prosperano nella regione

dell’Asia centro-meridionale (traffico di droga in primis), al bri-

gantaggio, rapimenti ed estorsioni.

Vi sono poi i movimenti che operano in Pakistan e che vedono

tra le proprie file prevalere i pashtun pakistani (definiti come pa-

than) rispetto a quelli afghani. Ponte fra queste due realtà è il già

citato Haqqani Network, che mantiene profondi legami con gli

ambigui servizi segreti militari pakistani (il potentissimo e famige-

rato Inter-Service Intelligence, Isi), con il nucleo centrale di al-

Qaida e con i gruppi jihadisti pakistani, soprattutto quelli confluiti

con il Ttp. Il peggioramento dello scenario di sicurezza pakistano

e l’accentuarsi della crisi negli ambigui “rapporti” fra Forze arma-

te pakistane e la galassia talibana e jihadista hanno portato al lan-

cio, negli ultimi anni, di alcune campagne militari nelle Tribal

areas della North-West Frontier Province contro la presenza tali-

bana e degli Haqqani. Campagne in ogni caso risultate non decisi-

ve; per qualche analista, anzi, sono sostanzialmente state opera-

zioni di facciata per ridurre la crescente irritazione statunitense e

6 A. Giustozzi, S. Mangal, “Violence, the Taliban, and the Afghanistan’s 2014 Elec-tions”, USIP – PeaceWorks, issue 103, dicembre 2014.

AfPak: i rischi del broader disengagement 111

Nato, esasperati dal doppiogiochismo dei militari e dei politici pa-

kistani.

Quanto al Ttp, si tratta di una coalizione di movimenti jihadisti

e islamisti radicali come il Lashkar-e Jhangvi (Esercito di Jhang-

vi), il Jaish-e Mohammad (Esercito di Muhammad) e il Sipah-e

Sahaba Pakistan (Esercito dei Compagni [del Profeta] in Pakistan),

con la partecipazione anche di militanti della resistenza islamista

anti-indiana in Kashmir7. Fondato nel 2007 da Baitullah Mehsud

(ucciso nel 2009), il Ttp rappresenta uno dei principali problemi di

sicurezza del Pakistan, dato che da anni colpisce obiettivi politici e

militari, non disdegnando le stragi spettacoli di tipo qaidista (come

l’infame attacco alle scuole frequentate dai figli dei militari a Pe-

shawar nel dicembre 2014). La violenza dei loro attacchi, che

hanno provocato la morte di migliaia di poliziotti, soldati e civili,

ha finito per incrinare i legami con i Taliban afghani, contrari a

colpire uno stato che li ha a lungo protetti, finanziati e armati.

Al contrario, si sono rafforzati i rapporti operativi con al-

Qaida: oltre ad addestrarsi assieme, i militanti di Ttp e quelli qai-

disti sembrano condividere rifugi e basi operative, gli esperti di

esplosivo e parte dei meccanismi di finanziamento. Questa cre-

scente sinergia preoccupa gli analisti di anti-terrorismo, dato che

sono comprovati anche i legami con altre organizzazioni regionali,

soprattutto con il Movimento islamico uzbeko. Vi è quindi il ri-

schio che il Ttp possa progressivamente trasformarsi da fenomeno

eminentemente locale, che privilegia la lotta contro lo stato paki-

stano rispetto al jihad globale, a hub macro-regionale per

l’addestramento e la formazione di cellule jihadiste, seguendo lo

schema già verificatosi nei decenni scorsi nell’AfPak, con cata-

strofiche conseguenze per lo scenario di sicurezza internazionale.

Proprio la violenza degli attacchi e la ferocia con cui Ttp ha

colpito i gangli sensibili dello stato pakistano sembrano aver raf-

forzato la determinazione delle Forze di sicurezza del paese nel

combattere l’organizzazione, ponendo fine a quell’ambiguità nelle

politiche counter-terrorism e counter-insurgency che così tante

7 T. Ruttig, “The Other Side: Dimensions of the Afghan Insurgency: Causes, Actors and Approaches to ‘Talks’”, Afghan Analysts Network, luglio 2009, p. 24.

112 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

critiche hanno attirato contro il governo d’Islamabad. Un cambio

di rotta che è la premessa necessaria per recuperare credibilità in-

ternazionale (e ottenere il rafforzamento della politica di aiuti eco-

nomici e militari occidentali) e per attenuare il clima di sfiducia e

ostilità con il vicino Afghanistan. Nel 2014 le operazioni militari

delle Forze armate pakistane nelle aree tribali sono andate in que-

sta direzione, con attacchi più risoluti ed efficaci contro le milizie

talibane e jihadiste. Il 2015 sarà, da questo punto di vista,

un’importante cartina di tornasole, dato che si tratta del primo an-

no post-Isaf in Afghanistan.

Conclusioni

A distanza di oltre un decennio dall’inizio delle operazioni militari

di Enduring Freedom, che dovevano portare alla distruzione dei

Taliban e di al-Qaida, il bilancio è certamente deludente, dato che

la comunità internazionale ha raggiunto solo una parte degli obiet-

tivi che si era troppo ottimisticamente data.

Il punto cruciale è tuttavia rappresentato oggi dalla distanza fra

la retorica dell’impegno internazionale – e US in particolare – e la

realtà della strategia dei paesi Nato. Se retoricamente continuiamo

a sottolineare l’impegno per la stabilizzazione dell’area

dell’AfPak, la verità è che tutti gli indicatori parlano di un “broa-

der disengagement” da quel quadrante strategico8. Questo perché

l’interesse primario del paese che maggiormente ha investito mili-

tarmente nell’AfPak, ossia gli Stati Uniti, era ed è concentrato

nell’area di contro-terrorismo, più che nella stabilizzazione. E da

questo punto di vista, sia pure con molti distinguo e cautele, è evi-

dente come la presenza US e Nato negli ultimi tre lustri abbia for-

temente indebolito il network terroristico di al-Qaida nella regio-

ne. Al punto che il presidente Obama ha potuto affermare che la

guerra in Afghanistan è riuscita nel «devastating the core al-Qaida

8 Cfr. A.H. Cordesman, “Transition in Afghnistan: Losing the Forgotten War? The Need to Reshape US Strategy in Afghanistan, Pakistan and Central Asia”, Center for Strategic and International Studies, Washington, 23 febbraio 2015.

AfPak: i rischi del broader disengagement 113

leadership, delivering justice to Osama bin Laden, disrupting ter-

rorist plots and saving countless American lives» pur dovendo

ammettere che «Afghanistan remains a dangerous place, and the

Afghan people and their security forces continue to make tremen-

dous sacrifices in defense of their country»9.

Un’affermazione, quella del presidente statunitense, non priva

di verità. Ma quanto appare evidente è l’aleatorietà dei risultati

raggiunti, soprattutto per quanto riguarda il post-conflict institu-

tion building. È quindi importante che il disengagement non fini-

sca per divenire disinteresse del quadrante dell’AfPak, se voglia-

mo tutelare gli interessi occidentali nel lungo periodo e se voglia-

mo rendere credibile lo shift operativo attuato in questi anni. Pas-

sando cioè, da un’azione diretta contro i network dell’estremismo

islamista a un approccio più indiretto tramite il training, il mento-

ring, la partnership e l’assistenza alle forze di sicurezza globali.

Il nostro successo nella distruzione dei canali di collegamento

della cupola qaidista nell’AfPak ha portato a una frammentazione

del terrorismo jihadista e alla sua dispersione. Non alla sua distru-

zione. Come affermato più volte dall’ex comandante generale di

Isaf, il generale Stanley McChrystal: «It takes networks to defeat

networks». Quindi dobbiamo mantenere lo sforzo per un approc-

cio collaborativo, multi-laterale alla lotta al terrorismo che coin-

volga (e motivi) tanto gli attori locali quanto quelli regionali e in-

ternazionali. Infine andrebbero ancor meglio distinti i meccanismi

d’intervento e le politiche tese alla stabilizzazione politico-sociale

o economica da quelli finalizzati alla lotta al terrore.

Tutto ciò è fondamentale non solo per la stabilizzazione di un

quadrante di grande importanza strategica, ma soprattutto indiret-

tamente per evitare i contraccolpi politici e psicologici di un falli-

mento del nostro impegno pluridecennale in Afghanistan. Un col-

lasso del “nuovo Afghanistan” o la ripresa dei network jihadisti

suonerebbe come una sconfitta e un indebolimento dell’immagine

9 The White House, Office of the Press Secretary, “Statement by the President on the End of the Combat Mission in Afghanistan”, 28 dicembre 2014, http://www.whitehouse.gov/the-pressoffice/2014/12/28/statement-president-end-combat-mission-afghanistan.

114 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

della Nato, e spingerebbe i governi e l’opinione pubblica – in par-

ticolare quelli europei – a rafforzare la loro contrarietà a politiche

proattive e d’intervento negli scenari d’instabilità mediorientali,

come già evidenziatosi con le crisi nel Levante e in Libia.

Una perdita di fiducia nei processi di post conflict institution-

building e d’interventi counter-terrorism che sarebbe estremamen-

te pericolosa per la sicurezza di un paese geograficamente sovra-

esposto agli effetti dell’instabilità mediorientale come l’Italia. An-

cor più di altri paesi, infatti, la nostra penisola non può evitare di

“tenere alto” il baricentro delle politiche di sicurezza verso il Me-

dio Oriente. Continuare l’impegno nell’AfPak, quindi, lungi

dall’essere una distrazione d’attenzione e risorse verso scenari più

prossimi a noi, è cruciale per mantenere il più possibile proattive

le nostre politiche di sicurezza, evitando di cedere all’illusione che

la “fortezza Europa” si possa difendere solo dall’interno del conti-

nente, senza impegnarsi nei quadranti di crisi euroasiatici e medi-

terranei.

7. I pericoli di una spirale balcanica

Giovanni Giacalone

La minaccia jihadista oggi va ben oltre il raggio d’azione medio-

rientale, coinvolgendo anche aree prossime all’Italia; una di queste

è l’area balcanica occidentale, dove le difficili condizioni socio-

economiche di alcune zone permettono all’ideologia jihadista di

far breccia nelle menti dei giovani, portando la cosiddetta “spirale

balcanica” a una nuova fase, quella dell’esportazione di combat-

tenti all’estero. Un fenomeno che non può assolutamente essere

sottovalutato e che comporta seri rischi per il nostro paese.

Con il termine “spirale balcanica” s’intende un processo di ra-

dicalizzazione ben preciso che ebbe inizio nei primi anni Novanta

in concomitanza con l’afflusso in Bosnia di jihadisti stranieri, mol-

ti dei quali reduci dalla guerra in Afghanistan, per combattere a

fianco dei musulmani autoctoni contro serbi e croati. In breve

tempo, e grazie anche al ruolo di varie organizzazioni caritatevoli

e Ong, venne creata l’unità El-Mujahid1, formata in gran parte da

combattenti arabi.

Dopo gli accordi di Dayton del 1995 molti di loro restarono in

Bosnia, sposarono donne del posto, ottennero la cittadinanza bo-

sniaca e diedero vita a delle vere e proprie enclaves in zone come

quella di Zepce, Zenica, Bihac, Teslic, Gornja Maoca. In queste

zone vivono oggi numerose famiglie che seguono alla lettera

l’ideologia salafita e applicano la sharia in modo letterale; non si

mescolano con i “miscredenti” e l’accesso ai loro villaggi è asso-

1 Formato ufficialmente il 13 agosto 1993 dall’esercito bosniaco con l’obiettivo di controllare il crescente numero di jihadisti stranieri che affluivano nel paese.

116 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

lutamente precluso a chiunque non sia un salafita e non sia refe-

renziato.

Col tempo, in Bosnia si sono sviluppate delle vere e proprie reti

gestite da predicatori radicali come Jusuf Barcić, Nusret Imamo-

vić, Bilal Bosnić, Muhamed Fadil Porca (alcuni dei quali ex com-

battenti dell’unità El-Mujahid) che hanno saputo far leva sulle

giovani generazioni soggette a una difficile situazione socio-

economica e a precarie aspettative per il futuro, attirando un co-

spicuo numero di seguaci pronti a passare all’azione in nome del

jihad, tessendo legami anche in Europa, con particolare attenzione

all’Austria, luogo di notevole diaspora balcanica e dove operano

alcuni imam radicali bosniaci2.

Il fenomeno ha fatto breccia anche al di fuori dei confini bo-

sniaci, coinvolgendo Kosovo, Albania, Macedonia e Sangiaccato

serbo; tutte zone nelle quali, negli ultimi dieci anni, si è registrato

un incremento degli episodi d’intolleranza, non soltanto nei con-

fronti dei cosiddetti “nemici dell’islam”, ma anche nei confronti di

alcune branche dell’islam tradizionale, considerato dai salafiti

troppo laico e in alcuni casi “fuorviante” a causa di pratiche da lo-

ro ferocemente avversate.

È interessante notare come nonostante questi salafiti vivano

senza telefoni o televisioni, siano però molto attivi su internet, in

particolare sui social network e in siti e canali YouTube come

www.putvjernika.com (Il cammino dei Credenti),

www.studiotewhid.it.gg e www.sahwa.info, nonché il canale

Muzdaxx, che raccoglie numerosissimi filmati di Bosnić.

Bosnia

La prima comunità salafita in Bosnia venne fondata dall’imam

Jusuf Barcić nel villaggio di Bocinje, ed era principalmente com-

posta da arabi ex combattenti dell’unità El-Mujahid. Barcić si ri-

fiutò di riconoscere leggi e istituzioni bosniache e creò una vera e

propria società parallela fondata sulla sharia. Secondo

2 Tra cui Fadil Porca e Misrad Omerovic “Ebu Tejma”.

I pericoli di una spirale balcanica 117

l’establishment religioso bosniaco ufficiale, l’attività di Barcić ve-

niva finanziata da Muhamed Fadil Porca3, un religioso bosniaco e

capo della moschea di Al-Tawhid, con sede a Vienna, col quale

aveva studiato in Arabia Saudita. In seguito alla morte di Barcić

nel 2007, la leadership passò in mano a Nusret Imamović4.

Nusret Imamović, classe 1971 e successore di Jusuf Barcić, bo-

sniaco naturalizzato austriaco, veterano della guerra di Bosnia ed

ex imam della moschea King Fahd di Sarajevo, ha fatto per un cer-

to periodo la spola tra Vienna e Gornja Maoca. Imamović divenne

meglio conosciuto al grande pubblico bosniaco quando, assieme

ad altri sei salafiti, tre dei quali cittadini austriaci, aggredì il serbo-

bosniaco Mihajlo Kisić a Brcko, nel 20065. Dopo un breve proces-

so, i sette vennero condannati a pene simboliche in libertà vigilata

e alcuni di loro ritornarono a Vienna. Imamović venne poi arresta-

to e rilasciato nuovamente nel febbraio 2010 assieme ad alcuni

suoi seguaci, tra cui Edis Bosnić, cittadino statunitense di origine6

bosniaca, considerato dagli Usa vicino ad al-Qaida e ricomparso

anche recentemente nell’area di Gornja Maoca7.

3 Muhamed Fadil Porca, residente in Austria, imam del centro islamico Tewhid di Vienna. Secondo alcuni funzionari della Comunità islamica di Bosnia, Porca sarebbe tra gli organizzatori di viaggi in Bosnia per i musulmani radicali provenienti da Ger-mania e Austria. Secondo documentazioni del governo austriaco, Asim Cjvanović, il quarantunenne bosniaco che nell’ottobre del 2007 cercò d’infiltrarsi all’interno dell’ambasciata statunitense di Vienna con uno zaino imbottito di esplosivo, al mo-mento dell’arresto aveva con sé un testo, Namaz u Islamu pubblicato proprio dal cen-tro islamico Tewhid di Fadil Porca. 4 Come documentato ampiamente in: A. Ceresnjes, R. Green, “The Global Jihad Movement in Bosnia. A time bomb in the heart of Europe”, Middle East Media Re-search Institute (Memri), 2012 e dal rapporto del Parlamento europeo, Direttorato Generale per le Politiche Estere dell’Unione: “Salafist Wahhabbite support to educa-tional, social and religious institutions”, 2013, http://www.europarl.europa.eu/Reg/Data/etudes/etudes/join/2013/457136/EXPO-AFET_ET(2013)457136_EN.pdf. 5 http://www.isn.ethz.ch/Digital-Library/Articles/Detail/?lng=en&id=98336. 6 http://gudmundson.blogspot.it/2012/06/bosnisk-jihad-i-norrkoping.html?m=1. 7 https://search.wikileaks.org/gifiles/?viewemailid=765133; http://www.islamicpluralism.org/1977/bosnia-re-arrests-top-wahhabi-plotter-after-us;_http://intelwire.egoplex.com/2010_02_09_blogarchive.html; https://www.ansa.it/nuova_europa/it/notizie/rubriche/altrenews/2015/03/11/isi

118 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Il 28 ottobre 2011 Mevlid Jasarević si presentò davanti

all’ambasciata statunitense di Sarajevo e sparò un centinaio di col-

pi di Kalashnikov verso l’edificio prima di essere neutralizzato e

arrestato dalle forze speciali bosniache. S’ipotizzò subito il coin-

volgimento di Nusret Imamović e di una sua possibile influenza

nei confronti di Jasarević. In particolare risultò di estremo interes-

se per gli investigatori la permanenza dell’attentatore a Gornja

Maoca, roccaforte di Imamović8. Quest’ultimo prese però le di-

stanze dall’attentato, affermando che fatti di questo tipo non fanno

altro che danneggiare la comunità di Gornja Maoca9.

Fonti bosniache hanno recentemente messo in evidenza come

Nusret Imamović, all’interno del conflitto siriano, si sia schierato

con Jabat al-Nusra, a differenza di Bilal Bosnić che ha invece di-

chiarato fedeltà all’Isis. Secondo quanto affermato da alcuni pa-

renti di jihadisti bosniaci partiti per la Siria, sarebbe stato proprio

Imamović ad averli reclutati10

.

L’esponente che ha però fatto più parlare di sé negli ultimi me-

si, anche per legami con l’Italia, è Bilal Bosnić, originario della

zona di Buzim, vicino al confine croato e ben noto in Bosnia e

all’estero per i suoi sermoni nei quali fa affermazioni del tipo:

«tutto ciò che va da Prijedor al Sangiaccato appartiene ai musul-

mani... Un giorno anche il Vaticano sarà musulmano». In un altro

sermone il predicatore salafita ha incitato i suoi seguaci ad «amare

s-stampa-croata-bosnia-principale-centro-reclutamento_ba2fb855-2718-40c3-84cc-2129019ed035.html. Edis Bosnić risultava attivo nella traduzione di materiale qaedista dall’inglese al bo-sniaco.http://www.slobodna-bosna.ba/vijest/275/gornja_maocha_je_tranzit_za _vehabije_koje_odlaze_u_sveti_rat.html. 8 http://www.theguardian.com/world/2011/oct/28/us-embassy-bosnia-gunman; http://www.sarajevotimes.com/mevlid-jasarevic-is-sentenced-to-18-years-in-prison/. 9 http://www.islamicpluralism.org/1977/bosnia-re-arrests-top-wahhabi-plotter-after-us; http://bportal.ba/nusret-imamovi%C4%87-mevlid-ja%C5%A1arevi%C4%87-nanio-nam-je-%C5%A1tetu-takav-postupak-ne-mo%C5%BEe-se-opravdati-video/; https://www.youtube.com/watch?v=21RFF4vKY2w. 10 http://www.vecernji.ba/nusret-imamovic-medu-najtrazenijim-teroristima-svijeta-963255; http://www.rferl.org/content/syria-balkan-militants-join-rebel-cause/25011213.html.

I pericoli di una spirale balcanica 119

tutti coloro che amano Allah e odiare tutti coloro che odiano Al-

lah; odiare gli infedeli, anche se sono nostri vicini o vivono nelle

nostre case». A luglio del 2011 venne inoltre pubblicato in rete un

video, ripreso anche dal Memri (Middle East Media Research In-

stitute), nel quale si vede Bosnić mentre canta: «con l’esplosivo

sul nostro petto prepariamo la nostra strada verso il paradiso… La

splendida jihad si è innalzata sulla Bosnia… Se Allah vuole

l’America sarà distrutta dalle sue fondamenta»11

.

Bosnić è ben noto anche per i suoi tour che attirano numerosi

seguaci in Austria, Germania, Svizzera, Olanda, Belgio e anche in

Italia dove è stato ospite di alcune comunità islamiche tra cui a

Pordenone, Bergamo, Siena, Cremona e Roma, con tanto di video

pubblicati dai suoi seguaci su YouTube12

.

Ritratto in diverse foto nell’estate del 2014, assieme ad alcuni

seguaci, davanti alla bandiera di IS, il predicatore ha poi dichiarato

in un’intervista al Corriere della Sera di aver conosciuto Ismar

Mesinović, l’imbianchino bosniaco, residente a Longarone e mor-

to in Siria nel gennaio dello scorso anno mentre combatteva nelle

file di IS. Mesinović aveva portato con sé anche il figlio di tre an-

ni, apparso successivamente in alcune foto, presumibilmente nella

zona di Aleppo, accompagnato da alcuni jihadisti13

.

Vi sono poi due cittadini macedoni, Munifer Karamaleski ed

Elmir Avmedoski, rispettivamente residenti a Chies d’Aplago e

Gorizia, recatisi in Siria a combattere, dopo essere entrati in con-

tatto con Bilal Bosnić in uno dei suoi viaggi italiani, come quello a

Pordenone nel giugno del 201314

.

11 http://www.memrijttm.org/bosnian-salafi-preacher-bilal-bosni-sings-songs-of-jihadwith-explosives-on-our-chests-we-pave-the-way-to-paradise.html; http://acdemocracy.org/the-ideology-of-militant-islamism-in-southeastern-europe/#_edn20; http://rogersparkbench.blogspot.it/2012/06/with-explosives-on-our-chests-we-pave.html. 12 https://www.youtube.com/watch?v=ei4y1w40u1M; https://www.youtube.com/watch?v=cw9qKK2u2ZM. 13 http://bergamo.corriere.it/notizie/cronaca/14_agosto_26/propaganda-choc-dell-imam-in-italia-tante-reclute-jihadiste-d758bf6c-2ceb-11e4-b2cb-83c2802e5fb4.shtml. 14 http://serbianna.com/analysis/archives/2929.

120 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Il 3 settembre 2014 Bilal Bosnić e quindici suoi seguaci venne-

ro arrestati in Bosnia dagli agenti della Sipa. Le operazioni coin-

volsero diciassette differenti località della Bosnia-Erzegovina, tra

cui Sarajevo, Zenica, Buzim e Teslić. Durante le perquisizioni è

stata rinvenuta una notevole quantità di armi, munizioni, attrezza-

ture militari, tessere sim, computer ed altre apparecchiature infor-

matiche. Alla fine di dicembre 2014 un tribunale bosniaco ha con-

validato la custodia cautelare per Bilal Bosnić fino a dicembre

2016 e lo scorso 11 febbraio è iniziato il processo a suo carico15

.

Kosovo

Il radicalismo di matrice islamica è progressivamente cresciuto nel

tempo anche in Kosovo, partendo dall’immediato dopoguerra

(1999) in maniera ridotta, fino a diventare una notevole minaccia

per la sicurezza dell’area. Lo scorso 10 marzo il segretario della

Comunità Islamica del Kosovo, Resul Rexhepi, ha affermato che

IS offrirebbe ai giovani kosovari uno stipendio di 20-30 mila euro

per andare a combattere in Siria e Iraq. Una proposta estremamen-

te allettante per una generazione in difficoltà a causa della difficile

situazione economica e dell’alto tasso di disoccupazione che han-

no portato molti ragazzi ad abbracciare l’estremismo islamico16

.

Il direttore esecutivo del Kosovo Center for Security Studies,

Florian Qehaja, ha spiegato come l’islam politico faccia fatica ad

allargare ulteriormente il proprio raggio d’influenza sulla società

kosovara; ragion per cui si fa dunque ricorso alla violenza e al ji-

had. Sempre secondo Qehaja, i gruppi estremisti in Kosovo sono

molto ben organizzati e finanziati. Il potenziale ritorno di jihadisti

15 http://balkans.aljazeera.net/vijesti/produzen-pritvor-huseinu-bilalu-bosnicu; http://www.balkaneu.com/salafi-leader-trial-continues/; http://uk.reuters.com/article/2015/02/11/uk-mideast-crisis-bosnia-cleric-idUKKBN0LF20R20150211; http://www.haaretz.com/news/middle-east/middle-east-updates/1.641980. 16 http://opozita.com/2015/03/18/shqiptaret-i-bashkohen-isis-per-30-mije-euro/.

I pericoli di una spirale balcanica 121

kosovari attualmente in Medio Oriente diventerebbe un rischio per

la stabilità e la sicurezza dell’area17

.

Fulcro del radicalismo islamista in Kosovo è Rastelica, città di

4.700 abitanti situata nel sud della regione, in una fascia che si

estende a sud di Prizren. Tra agosto e settembre 2014 le Forze di

sicurezza kosovare hanno messo in atto una serie di operazioni an-

ti-terrorismo che ha portato all’arresto di una quarantina di perso-

ne in diverse località kosovare, tutte sospettate di essere coinvolte

a supportare e reclutare volontari per il jihad. Tra gli arrestati figu-

rano anche dodici imam tra cui Shefqet Krasniqi, Idriz Bilibani e

Mazllam Mazllami, tre volti noti alle autorità italiane in quanto

ospitati in centri islamici, rispettivamente a Grosseto, Siena e

Cremona18

.

Bilibani, noto anche come “Ebu Usama”, nel 2010 fu arrestato

nella zona di Prizren assieme ad alcuni militanti; il gruppo venne

trovato in possesso di armi e munizioni19

. Nel 2012 Bilibani appa-

re in un video girato presso il Centro Islamico “Rastelica” di Mon-

teroni d’Arbia (SI), assieme a Bilal Bosnić20

. Il “Rastelica”, fre-

quentato principalmente da kosovari-albanesi, viene gestito

dall’imam kosovaro Sead Bajraktar, noto sia alle autorità italiane

che kosovare per frequenti viaggi in patria, dove s’incontra con

altri esponenti dell’islam radicale. Nel luglio del 2012 venne arre-

stato, assieme ad altri esponenti della moschea di Monteroni

d’Arbia, tra le montagne di Dargas mentre partecipava a un “cam-

peggio islamico” che ricordava molto lo stile paramilitare, anche

se la polizia non trovò armi.

17 http://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kosovo-estremismo-religioso-in-crescita-155153. 18 http://friendsofkosovo.com/tag/imams/; http://www.telegraf.rs/vesti/773249-kosovski-dobrovoljci-ratuju-u-siriji. 19 Secondo la stampa serba il gruppo, composto da tre albanesi con passaporto bo-sniaco (incluso Bilibani) e due albanesi della zona di Prizren, aveva anche fondato una società dal nome “Sincerità” (Sinqeriteti), http://serbianna.com/blogs/bozinovich/archives/615. 20 https://www.youtube.com/watch?v=7hqultvzrqw.

122 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Albania

Un altro scenario di estremo interesse per quanto riguarda il pano-

rama jihadista dei Balcani è quello albanese; anche nel “paese del-

le aquile” si è infatti registrato un progressivo incremento della

presenza salafita, in particolare nelle aree più disagiate di Tirana e

nelle zone di Elbasan, Cerrik e Librazhd. I predicatori di turno,

spesso legati ad ambienti criminali, anche in questo caso fanno le-

va su giovani in condizioni di forte disagio economico, per indot-

trinarli all’ideologia del terrore, convincendoli a partire per il jihad

e fornendo loro i mezzi logistici e finanziari per raggiungere il

fronte.

Nel marzo 2014 la polizia albanese ha emesso mandati di cattu-

ra per dodici membri21

di un’organizzazione facente base

all’interno di una moschea della capitale; tra gli arrestati anche

due imam, Genci Balla e Bujar Hysa, accusati di essere a capo

dell’organizzazione e di aver reclutato più di settanta volontari per

il jihad in Siria e Iraq. Le operazioni hanno coinvolto diverse loca-

lità dell’Albania tra cui Tirana, Elbasan e Pogradec e le Forze di

sicurezza hanno recuperato notevoli quantità di armi, esplosivi,

munizioni, mimetiche, telefonini con schede sim, documenti in

arabo e apparati radio. Secondo gli inquirenti albanesi, il gruppo

finanziava i viaggi in Turchia dei jihadisti, i quali venivano a loro

volta preparati in loco per essere poi trasportati oltre il confine con

la Siria.

Il raggio d’azione dell’organizzazione andava ben oltre i confi-

ni albanesi, coinvolgendo anche l’Italia, come nel caso di Maria

Giulia Sergio e del marito albanese Aldo Kobuzi, entrambi partiti

per il jihad in Siria grazie al supporto dell’organizzazione di Balla

e Hysa.

Aldo Kobuzi ha vissuto per diverso tempo nel grossetano, dove

ha frequentato un centro islamico locale, ma non è il primo della

famiglia a radicalizzarsi; sua madre Donika infatti, anche lei resi-

dente in zona per un certo periodo, è stata la prima a sposare

21 Tra gli arrestati ci sono Genci Balla, Bujar Hysa, Edmond Balla, Zeqir Imeri, Ver-di Morava, Fadil Muslimani, Astrit Tola.

I pericoli di una spirale balcanica 123

l’ideologia islamista, seguita poi dalla figlia Serjola che ha a sua

volta sposato Mariglen Dervishllari, albanese di Pogradec, morto

in Siria mentre combatteva nelle file dei jihadisti. Secondo fonti

albanesi, anche Donika e Serjola si troverebbero attualmente in

Siria assieme a Maria Giulia Sergio. Tempo addietro, la polizia

albanese aveva intercettato una conversazione telefonica tra Der-

vishllari e Hysa, nella quale il miliziano riferiva al predicatore di

aver dato il suo contatto ad Aldo Kobuzi: «Ti sto mandando mio

cognato, gli ho dato il tuo numero».

Bujar Hysa, imam della moschea di Mezezit, è senza dubbio

uno dei predicatori di spicco dell’estremismo islamico locale, noto

anche presso la diaspora albanese in Italia e avrebbe persino ope-

rato come insegnante di Corano per i bambini presso alcune mo-

schee della periferia di Tirana. Fonti albanesi parlano addirittura di

possibile reclutamento di minori da mandare a combattere22

. Il 17

marzo 2015 per nove degli arrestati è iniziato il processo, con le

accuse di reclutamento, indottrinamento e finanziamento a favore

di organizzazioni terroriste23

.

Macedonia

L’infiltrazione salafita in Macedonia ebbe inizio a fine anni No-

vanta, dopo gli accordi di Dayton che posero fine alla guerra in

Bosnia. Durante il conflitto macedone del 2001 fu segnalata la

presenza di un battaglione di jihadisti noto come “Imran Elezi”,

composto da circa un centinaio di mujaheddin e operante nella re-

gione di Kumanovo, Tetovo e Skopje24

. I salafiti non tardarono a

prendere il controllo di numerose moschee del paese e in partico-

22 http://www.panorama.com.al/shkolla-sekrete-brenda-ne-xhami-pranga-dy-imameve-qe-rekrutuan-70-shqiptare-per-ne-siri/. 23 http://www.durreslajm.com/aktualitet/%E2%80%9Cna-mbron-allahu%E2%80%9D-t%C3%AB-akuzuarit-p%C3%ABr-rekrutimet-e-siris%C3%AB-nuk-pranojn%C3%AB-avokat. 24 http://dl.fzf.ukim.edu.mk/index.php/sd/article/download/892/897; http://www.ab.xlibx.com/1economy/1662-8-thesis-the-spread-islamic-extremism-the-republic-macedonia-ata.php.

124 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

lare nella capitale, come quelle di Yahya Pasha, Sultan Murat,

Hatundzik e Aladja. Dai primi anni Duemila sono inoltre aumenta-

ti gli episodi d’intolleranza nei confronti dei sufi, storicamente

presenti sul territorio. Nel 2002 ad esempio, una tekke Bektashi di

Tetovo venne invasa e occupata da alcuni estremisti salafiti dopo

aver minacciato gli occupanti e nel dicembre 2010 un’altra tekke

Bektashi fu data alle fiamme, tanto che la leadership sufi fu co-

stretta a contattare le autorità statunitensi presenti in Macedonia

affinché facessero pressione sul governo macedone per far allon-

tanare i jihadisti25

.

L’islam radicale cerca di strumentalizzare i pesanti attriti tra

albanesi e macedoni, sfociati anche recentemente in violenti scon-

tri26

, per diffondere la propria ideologia tra gli albanesi, di religio-

ne musulmana, contrapponendoli ai macedoni ortodossi. Alle ul-

time manifestazioni di Skopje sono infatti iniziate ad apparire

bandiere islamiste affianco di quelle albanesi; vessilli neri o verdi,

con la shahada. In realtà non è la prima volta che l’ideologia sala-

fita penetra nelle manifestazioni di piazza in Macedonia; secondo

alcune fonti la prima apparizione in pubblico sarebbe avvenuta nel

2006, in seguito alle proteste per i fumetti raffiguranti il profeta

Maometto, pubblicati su un giornale danese. All’epoca, circa mille

manifestanti si riunirono fuori della moschea Yahya Pasha di Sko-

pje al grido «Allah è grande», con bandiere islamiste; stessa scena

anche a Tetovo. Secondo gli apparati di sicurezza macedoni, la

maggior parte dei manifestanti era formata da giovani studenti, fa-

cili prede della propaganda jihadista.

25 http://www.islamicpluralism.org/415/when-wahhabis-attack-the-case-of-the-harabati-tekke; http://www.islamicpluralism.org/2340/the-bektashi-alevi-continuum-from-the-balkans-to; http://www.state.gov/j/drl/rls/irf/2010_5/168324.htm. 26 Il 4 luglio 2014 alcune migliaia di manifestanti di etnia albanese hanno messo a ferro e fuoco le strade di Skopje al grido: «Non siamo terroristi, vogliamo giustizia» e «Vogliamo la Grande Albania». Il corteo ha cercato di raggiungere i palazzi governa-tivi e la polizia macedone è stata costretta a intervenire in forze con gas lacrimogeni, e spray urticanti. Le proteste sono scoppiate in seguito al verdetto di un tribunale di Skopje che aveva condannato all’ergastolo sei estremisti albanesi per l’omicidio di cinque cittadini macedoni durante la Pasqua Ortodossa del 2012.

I pericoli di una spirale balcanica 125

Il possibile ritorno dei jihadisti dalla Siria e la presenza di cit-

tadini macedoni che combattono tra le file dello Stato Islamico in

Siria e Iraq sono elementi di grande preoccupazione per il governo

macedone che ha recentemente introdotto pene severe per chi do-

vesse decidere di recarsi all’estero per combattere. Il ministro de-

gli Interni, Gordana Jankulovska, ha sottolineato il pericolo di un

loro potenziale ritorno, aggiungendo che il governo non ha una

stima precisa del numero di macedoni presenti in Siria, ma per ora

quattro risultano deceduti27

. Lo scorso marzo, Zekiri Muhammad e

Immer Bunjamin Gërçec, due jihadisti macedoni, assieme a un cit-

tadino kosovaro, erano stati accusati di aver assassinato tre agenti

di polizia nel sud della Turchia28

. Il 12 giugno, in un video pubbli-

cato su YouTube, apparivano alcuni jihadisti dello Stato Islamico

mentre mostravano i propri passaporti macedoni. Macedoni erano

poi Munifer Karamaleski ed Elmir Avmedoski, entrambi partiti

dal nord-est dell’Italia per unirsi ai jihadisti in Siria. Nella zona

nord-occidentale della Macedonia sono concentrate diverse rocca-

forti salafite e la vicinanza con il Kosovo e il Sangiaccato serbo,

altre zone ad alta presenza radicale islamista, non fanno che rende-

re il tutto più pericoloso.

Conclusioni

Le aree territoriali caratterizzate da instabilità politica ed econo-

mica sono particolarmente sensibili alle infiltrazioni jihadiste, co-

me illustra anche Vlado Azinović, esperto di sicurezza nei Balcani

e autore del libro Al-Qaeda’s presence in Bosnia-Herzegovina; un

paese con istituzioni assenti, in preda a una forte crisi politica, do-

ve vige un indebolimento dei valori morali, diventa terreno fertile

per la propaganda degli imam radicali, e purtroppo i fatti dimo-

strano che è esattamente ciò che sta accadendo29

.

27 http://www.balkaninsight.com/en/article/jihadists-in-syria-pose-threat-for-europe. 28 http://friendsofkosovo.com/2014/03/28/macedonia-set-to-imprison-jihadists-who-fight-in-syria/. 29 http://www.rferl.org/content/bosnia-islamists/24916517.html.

126 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

È la prima volta che un numero così elevato di musulmani pro-

venienti dai Balcani si mobilita per andare a combattere guerre in

Medio Oriente, con tutti i relativi rischi di un loro potenziale rien-

tro. Secondo alcune stime della Central Intelligence Agency circa

350 jihadisti bosniaci sarebbero presenti in Siria e Iraq, 150 dal

Kosovo, 140 dall’Albania e 20 dalla Macedonia30

.

I Balcani sono la porta sud-orientale dell’Europa e l’Italia ha

tutte le ragioni per preoccuparsi vista la prossimità territoriale (ben

più vicina della Libia), come dimostrano i collegamenti con alcune

reti e gli sviluppi di alcuni casi che hanno visto coinvolti predica-

tori e jihadisti su suolo italiano.

30 http://www.agenzianova.com/a/546626c9b612a5.41394587/885863/2014-11-14/terrorismo-usa-inviano-70-procuratori-di-stato-nei-balcani-in-medio-oriente-e-nord-africa-6; http://voiceofserbia.org/it/content/kosovo-%E2%80%93-la-porta-principale-l%E2%80%99islam-radicale-europa; http://www.balkaninsight.com/en/article/hundreds-of-balkan-jihadist-reportedly-joined-isis.

Parte seconda – Quali implicazioni per l’Italia

8. Le implicazioni per la politica estera

Arturo Varvelli

Lo scenario internazionale e l’Italia, il “ventre molle” dell’Europa?

L’ascesa del radicalismo islamico in Medio Oriente e Nord Africa,

costituisce l’evento politico internazionale che maggiormente de-

sta preoccupazioni e impone sfide all’Italia nel corso della sua re-

cente storia. Questa rilevanza è data non solamente dalla constata-

zione che il Mediterraneo e il Medio Oriente rappresentino per

l’Italia quell’area di primario interesse politico-strategico incluso

in un ipotetico raggio che, partendo dai vicini Balcani, oltrepassa

la Turchia verso la sponda sud del Mediterraneo fino all’Atlantico,

ma anche per evidenti motivazioni economico-commerciali e di

politica energetica. I fenomeni manifestatisi con l’emergere di un

arco d’instabilità regionale coinvolgono direttamente l’interesse

nazionale dell’Italia in tutte le sue sfaccettature.

In presenza di un sistema internazionale più fluido rispetto al

passato, e con un evidente disimpegno statunitense nell’area, il

Mediterraneo e il Medio Oriente hanno vissuto negli ultimi anni

una molteplicità di episodi destabilizzanti dell’ordine precostituito

ai quali gli attori internazionali, compresi i partner europei

dell’Italia, hanno risposto in modo disorganizzato, spesso su base

unilaterale anziché in un consesso multilaterale, cercando di sal-

vaguardare ognuno i propri interessi nazionali. L’Unione Europea

ha affrontato questi fenomeni con un atteggiamento piuttosto pas-

sivo, incapace di essere artefice di politiche attive, facendo recen-

temente leva solamente su un abbozzato tentativo dell’alto rappre-

130 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

sentante Federica Mogherini di un maggior coordinamento tra i

principali attori europei.

Il contesto internazionale degli ultimi anni sembra inoltre met-

tere in evidenza che i compiti di gendarmeria internazionale, for-

ma di “politica delle cannoniere” su scala collettiva invece che in-

dividuale, affidati sino a pochi anni fa essenzialmente agli Stati

Uniti, potranno essere gradualmente assunti anche da altri paesi, in

primo luogo da quelli europei e arabi. L’intervento da parte statu-

nitense contro l’insorgenza dello Stato Islamico (IS) tra Siria e

Iraq, a difesa del fragile alleato iracheno e atto a favorire la crea-

zione di una coalizione internazionale, non sembra far venir meno

i presupposti della “ritirata strategica” statunitense dai pericoli di

over-streching nell’area mediorientale, con un più attento eserci-

zio degli impegni rispetto alle risorse. Questa riduzione degli ob-

blighi è sembrata chiaramente l’obiettivo dell’intervento in Libia

nel 2011 (il “leading from behind”) ed è stato il presupposto della

mancata azione militare contro il governo siriano di Assad nel

2013. L’ascesa di IS pare costringere gli Stati Uniti, sempre più

egemone riluttante, a rimandare, ma non annullare, la “ritirata” da

questi quadranti1.

All’Italia in particolare, per la sua configurazione geostrategi-

ca, dovrebbero “naturalmente” spettare compiti crescenti, se non

fosse che queste nuove minacce e instabilità hanno colto e colgono

il nostro paese in un momento particolarmente difficile sia dal

punto di vista economico, per il protrarsi di una crisi che ancora

non è conclusa, sia dal punto di vista politico, per l’involuzione

del quadro interno e le difficoltà legate alle stabilità dei nostri ese-

cutivi, dlle quali sembra per ora sfuggire l’attuale governo Renzi.

A questa situazione va aggiunta la progressiva perdita di rilevanza

strategica che l’Italia ha assunto agli occhi dell’alleato statunitense

nell’ultimo ventennio. Se, infatti, l’Italia durante l’epoca bipolare

1 Per un’analisi approfondita dell’attuale sistema internazionale si veda A. Colombo, “La crisi generale dell’ordine internazionale” in In mezzo al guado. Scenari globali e l’Italia. Rapporto 2015, a cura di A. Colombo, P. Magri, Milano, Edizioni Epoké - ISPI, http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/rapporto-2015-mezzo-al-guado-scenari-globali-e-litalia-12145.

Le implicazioni per la politica estera 131

si trovava ai confini della sfera d’influenza di Washington – avan-

guardia e insieme barriera degli interessi e dei valori occidentali in

Europa e nel Mediterraneo nel costante confronto con la minaccia

sovietica – nel ventennio seguente ha perduto questa centralità

geopolitica, “superata” dallo spostamento a est del baricentro eu-

ropeo e dall’asimmetrica guerra al terrorismo.

La gestione delle vicende del Medio Oriente e del Mediterra-

neo nell’ultimo quinquennio da parte dell’Italia ha mostrato tutte

le costanti, e insieme, tutti i difetti della politica estera italiana, a

cominciare dal carattere reattivo dell’azione che ha finito spesso

per sembrare un adattamento tardivo all’evolversi della situazione

internazionale2. Non sola, e neppure ultima, tra i paesi occidentali

a rimanere “sorpresa” dalle rivolte nei paesi arabi, l’Italia ha mani-

festato evidenti oscillazioni strategiche, anche e soprattutto per ef-

fetto dell’ulteriore e drastico deterioramento della vulnerabilità

esterna e interna del paese, esaltate mediaticamente dalle minacce

di IS nei confronti di Roma, che sembrano descrivere e ricordare

l’Italia quale “ventre molle” dell’Europa.

Quindi, al possibile maggior spazio d’azione per l’Italia deri-

vante dall’attuale conformazione del sistema internazionale, e alle

crescenti minacce in un’area di prioritario interesse nazionale,

sembra corrispondere un diminuito potenziale d’intervento del no-

stro paese, tale da far riflettere sull’attuale validità della descrizio-

ne dell’Italia quale media potenza3. Altri attori emergenti, in parti-

colare quelli del Golfo Persico, sembrano acquisire sia politica-

mente sia economicamente un ruolo nuovo e attivo nella regione

del Medio Oriente allargato e nelle relazioni con l’Europa.

L’Italia, sostanzialmente, si trova oggi costretta ad affrontare in

maniera più sistematica la propria politica estera, rivedendo i tra-

dizionali parametri d’azione nei quali si è mossa, anche negli ulti-

mi vent’anni.

2 Si veda A. Varvelli, “L’Italia, l’Europa e la primavera araba”, in Panorama 2012, a cura di N. Pedde, K. Mezran e V. Cassar, GAN, 2012. 3 Sul concetto di “media potenza” e l’Italia si veda C.M. Santoro, La politica estera di una media potenza: L’Italia dall’Unita ad oggi, Bologna, il Mulino, 1991.

132 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Tre miti sull’Italia e il rischio terrorismo

Nell’approccio al terrorismo internazionale di oggi l’Italia ri-

ceve in eredità alcune convinzioni che possiamo definire “miti”. Il

relativo basso numero di tentativi di attentati e attacchi condotti ai

danni del nostro paese, su suolo italiano o all’estero – verso i no-

stri interessi, le nostre rappresentanze o i nostri contingenti militari

– sembra avvalorare la tesi che l’Italia non sia storicamente tra i

maggiori obiettivi delle formazioni islamiste militanti. Gli elemen-

ti a favore di questa visione risiedono essenzialmente nella perce-

zione dell’Italia quale paese dalla limitata propensione interventi-

sta, una delle maggiori cause di rivendicazione di attacchi violenti

contro i nostri partner occidentali, dagli Stati Uniti, alla Gran Bre-

tagna, alla Francia. Senza intervenire qui in merito alla nostra sto-

ria coloniale, questa percezione appare comunque ammantata del

mito autoindulgente degli “italiani brava gente” con il quale anco-

ra spesso il nostro paese ama ritrarsi. In realtà negli ultimi quindici

anni l’Italia ha preso parte, spesso in prima linea, con un’alta

esposizione politica, a tutte le missioni internazionali nell’area

mediorientale, dall’Afghanistan, all’Iraq, al Libano, fino alla Li-

bia, anche nel tentativo di compensare agli occhi del principale al-

leato americano la progressiva perdita di rilevanza geo-strategica,

di cui abbiamo detto, con un presenzialismo che è andato anche

oltre le aree storiche di stretto interesse nazionale.

A questo primo mito, poi, se ne somma un secondo: quello di

una sorta d’immunità da attacchi su suolo italiano che i nostri go-

verni avrebbero pattuito con le organizzazioni terroristiche inter-

nazionali negli anni Settanta e Ottanta. Secondo quest’ipotesi, un

patto, firmato dall’allora presidente del Consiglio Aldo Moro (“lo-

do Moro”), garantiva, in particolare ai palestinesi, la possibilità di

far passare nel nostro paese flussi d’armi, destinati a cellule terro-

riste presenti in Europa, e la liberazione dei terroristi detenuti nelle

carceri italiane. In cambio, i militanti non avrebbero colpito gli ita-

liani e avrebbero lasciato il nostro paese immune da attacchi e atti

Le implicazioni per la politica estera 133

terroristici4. Da allora l’Italia per le organizzazioni terroristiche

sarebbe divenuta, più che un obiettivo sensibile, un comodo paese

di transito nel quale procurarsi documenti falsi o armi, una sorta di

hub per le proprie attività logistiche in preparazione ad attacchi e

attentati da condursi altrove. La “tradizione” si sarebbe protratta

nel tempo anche con le nuove forme terroristiche di stampo isla-

mico radicale5. Se, da una parte, questa teoria di un accordo cer-

tamente non può essere dimostrata e deve essere confinata nel

campo delle speculazioni, dall’altra è vero che la difficoltà di con-

trollo dell’Italia di gran parte delle proprie frontiere e la presenza

del crimine organizzato possano favorire questa “specializzazio-

ne”. Diverse inchieste, l’ultima quella condotta dai magistrati della

procura di Napoli, confermerebbero il suolo italiano come una

tappa, o luogo di transito, per molti personaggi di spicco del terro-

rismo islamico. Napoli stessa, per esempio, costituirebbe una delle

principali centrali europee di produzione e distribuzione dei do-

cumenti falsi6. Tuttavia questa caratterizzazione non può escludere

che l’Italia non sia nel mirino delle nuove forme jihadiste o del

network di al-Qaida. Anzi, IS sembra dimostrare un’attenzione

marcata per l’Italia, indicata chiaramente come obiettivo, non so-

lamente nella ormai celebre copertina della rivista jihadista Dabiq

4 Si veda per esempio G. Pellegrino, presidente Commissione Stragi 1994-2001, http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/video/il-lodo-moro/1944/default.aspx. 5 Relativamente alla percezione dell’Italia quale paese di transito si vedano diverse dichiarazioni di esponenti istituzionali, quali Francesco Rutelli, presidente del Copa-sir: «L’Italia è stato ed è un luogo di transito e di reclutamento per organizzazione terroristiche di tipo jihadistico, ma non un luogo in cui si sono fatti degli attentati», http://www.alleanzaperlitalia.it/articolo/?id=6026&I=Terrorismo__Rutelli__Italia_paese_di_transito_e_reclutamento. Oppure Emma Bonino, ministro degli Esteri: «Tra milioni di rifugiati, tra donne e bambini trova facile nascondiglio tutta una serie di altri signori. Si tratta di un problema europeo perché l’Italia è un paese di transito e dove vanno a finire le cellule dormienti è una questione europea», http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/2014/notizia/terrorismo-allarme-della-bonino-cellule-dormienti-tra-i-rifugiati-_2022237.shtml. 6 A. De Simone, “Napoli crocevia internazionale per la falsificazione di documenti destinati ai terroristi”, Corriere della Sera, http://www.corriere.it/inchieste/napoli-crocevia-internazionale-la-falsificazione-documenti-destinati-terroristi/858428e4-9f22-11e4-9ffe-303918e77b90.shtml.

134 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

che proponeva un Vaticano sotto la bandiera dello Stato Islamico7,

ma anche nella frequenza dei messaggi, proposti per la prima volta

anche in lingua italiana8. L’Italia nell’attuale congiuntura interna-

zionale non appare quindi per nulla immune dal divenire un im-

portante obiettivo delle nuove formazioni radicali.

Un terzo mito è sembrato invece progressivamente sgretolarsi

con l’ascesa dello Stato Islamico tra Siria e Iraq: la convinzione

che l’esistenza di safe haven in Medio Oriente potessero fungere

da catalizzatore di elementi radicali pericolosi che altrimenti risie-

derebbero in Europa e in Italia, costituendo un fattore di rischio. In

realtà questa percezione – presente anche in apparati di sicurezza

sino a poco tempo fa – è stata rapidamente abbandonata. Consenti-

re ampie zone di rifugio ai jihadisti “lontano da casa” si è dimo-

strato a più riprese contro-producente. L’ascesa di IS ha chiara-

mente dimostrato come la sicurezza internazionale o “esterna” di

un paese sia sempre più legata alla sicurezza nazionale o “interna”

e viceversa, tanto che appare sempre più complesso scinderle. Il

fenomeno dei cosiddetti foreign fighters costituisce il segnale più

evidente di questo legame. Chi parte per combattere sul fronte ira-

cheno e siriano può ritornare un giorno in patria sia con

un’accresciuta capacità operativa, poiché acquisita sul campo di

battaglia, sia con convinzioni più estreme, venendo a contatto con

forme di islam radicale che possono anche non appartenere alla

cultura d’origine. Perciò l’elemento di territorialità e il programma

di state-building di IS, atto a istituzionalizzare la sua presenza

nell’area, costituisce una minaccia grave agli interessi europei e

dell’Italia dal momento che si dimostra potenzialmente capace di

trasformarsi da semplice ideologia a regime totalitario, come ana-

lizzato nel primo capitolo da Paolo Maggiolini.

7 Per un’analisi completa della propaganda del “califfato” di veda Twitter e Corano. La comunicazione dell’ISIS, a cura di M. Maggioni, P. Magri, Milano, ISPI, febbraio 2015. 8 M. Lombardi, “Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare”, il do-cumento di IS in italiano, http://www.itstime.it/w/lo-stato-islamico-una-realta-che-ti-vorrebbe-comunicare-il-documento-di-is-in-italiano-by-marco-lombardi/.

Le implicazioni per la politica estera 135

La politica estera italiana e il fenomeno del terrorismo tra dimensione repressiva e preventiva

Come evidenziato nella prima parte di questo rapporto la minaccia

jihadista si sta sempre più riposizionando dal settore afghano-

pakistano alla regione del Mediterraneo allargato, finendo quindi

con l’interessare territori di grande rilevanza geopolitica, geo-

economica ed energetica per l’Europa e per l’Italia. Uno degli

aspetti più problematici dal punto di vista analitico, e di conse-

guenza nella valutazione delle opzioni politiche, è quello di riusci-

re a sistematizzare le diverse tipologie di sfide e minacce prove-

nienti da questa galassia jihadista, e in particolare di come conci-

liare la doppia natura simmetrica (la presenza territoriale dello Sta-

to Islamico) e asimmetrica (la minaccia terroristica).

Analizzando le possibili implicazioni per la politica estera ita-

liana, non si può non partire dalle molteplici root-causes alla base

dell’insorgenza del fenomeno: alcune interne alla dimensione

islamica, altre certamente legate alle azioni militari Usa e occiden-

tali in Afghanistan e Iraq, nella progressiva e protratta instabilità

regionale tra Siria e Iraq, oltre che nel “grande gioco” che le due

potenze d’area – Iran e Arabia Saudita – hanno intrapreso in ma-

niera crescente nell’ultimo ventennio, e che proprio in questa in-

stabilità ha trovato il suo humus ideale. Più di ogni altra cosa però,

su questa radicalizzazione progressiva di alcune fasce della società

– in particolare le più giovani – ha pesato il fallimento del modello

sociale, politico ed economico sul quale le società mediorientali si

reggevano.

Possiamo partire da alcuni dati molto semplici. Più del 40 per

cento della popolazione complessiva del mondo islamico vive sul-

la o al di sotto della soglia di povertà di 2 dollari al giorno. In Ye-

men è il 62 per cento degli abitanti, in Sudan è il 69 per cento. In

Egitto, uno dei paesi al centro delle Primavere arabe e il più popo-

loso del mondo arabo con circa 80 milioni di abitanti, parliamo del

40 per cento circa della popolazione9. Nella grande maggioranza

9 Si vedano i dati forniti dalla Word Bank, http://www.worldbank.org/en/topic/poverty/overview.

136 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

dei paesi mediorientali la classe media è limitata, l’economia è ge-

stita principalmente dallo stato di concerto con pochi monopolisti,

e da decenni regimi corrotti e clientelari mantengono il proprio po-

tere attraverso la repressione politica e la restrizione delle libertà

civili. Se uniamo questo modello fallimentare alla crescita demo-

grafica che accomuna praticamente tutte le società regionali, pos-

siamo capire perché queste siano altamente instabili e come alcune

fasce sociali siano particolarmente esposte alla radicalizzazione.

Questa chiave di lettura ci permette di comprendere come

l’Occidente, che di questi regimi di fatto era il modello e l’alleato,

sia indirettamente diventato anch’esso “nemico”, facile oggetto di

odio da parte delle frange più integraliste.

Su questo pesa anche l’estrema eterogeneità settaria, e in alcuni

casi etnica, che indebolisce l’autorità statuale di molti paesi me-

diorientali. La questione della divisione interna al mondo musul-

mano è senz’altro centrale. Il terrorismo islamico colpisce soprat-

tutto i musulmani e rappresenta uno scontro tra le diverse fazioni

sunnite da un lato e, dall’altro, tra sunniti e sciiti. Il mondo arabo

musulmano, quello sunnita in particolare, appare alla chiara ricer-

ca di nuove formule identitarie, alle quali IS sembra offrire

un’evidente risposta.

La base d’azione della politica estera italiana, e di quella euro-

pea, dovrebbe trovare fondamento su questi presupposti. Se osser-

viamo la mappa dei regimi falliti, degli stati fragili, o di quelli che

non hanno pieno controllo territoriale, possiamo notare una straor-

dinaria sovrapposizione con le aree di emersione di IS e di altre

forme di islamismo radicale. Facilmente ne possiamo derivare che

la stabilizzazione dell’area sia un obiettivo prioritario dell’azione

italiana, tuttavia questa non può basarsi in via esclusiva su un ap-

poggio a regimi autoritari, poco inclusivi e settari. È facile com-

prendere come un nuovo e rinnovato appoggio a paesi di questo

tipo possa contribuire a riprodurre i medesimi meccanismi che

hanno portato alla destabilizzazione della regione registrata a par-

tire dal 2011.

Bisognerebbe quindi essere in grado di distinguere tra una di-

mensione “repressiva” o militare della politica estera (di cui la co-

Le implicazioni per la politica estera 137

siddetta “guerra” al terrorismo è uno degli esempi più chiari) che

talvolta può essere utile e necessaria, ma che non può rappresenta-

re una sorta di scorciatoia al contrasto del fenomeno (che spesso si

concretizza in interventi armati o, di nuovo, nell’appoggio incon-

dizionato a regimi forti ma non inclusivi) e una dimensione pre-

ventiva più profonda, o più propriamente “politica”, che sia di

contrasto all’emersione delle cause. Certamente si tratta di un più

lungo e laborioso tentativo da parte dell’Italia – da attuarsi in si-

nergia con la UE e i partner europei – di ri-consolidamento dei re-

gimi fragili. In questo senso una rinnovata attenzione agli stru-

menti di nation-building e state-building dovrebbe costituire una

chiave di volta della politica estera europea.

Scegliersi gli amici e gestire le crisi

La nuova retorica anti-terroristica dei paesi occidentali sta ridu-

cendo progressivamente il “leverage” degli stessi sui paesi arabi,

impedendo di fare su questi reali pressioni per portare avanti ri-

forme che possano affrontare le cause profonde della radicalizza-

zione. In Egitto, per esempio, gli Stati Uniti hanno facilitato i tra-

sferimenti di armi avanzate, come aerei ed elicotteri, per aiutare il

regime contro possibili insurrezioni jihadiste, senza riuscire però a

premere su al-Sisi perché non faccia “terra bruciata” intorno a sé

di tutti gli avversari politici e dei critici10

. I partner arabi mettono

spesso in bella vista programmi di “contro-radicalizzazione”, che

hanno lo scopo di evitare riforme atte ad affrontare le cause pro-

fonde dell’esistenza di ideologie radicali. Arabia Saudita, Emirati

Arabi Uniti ed Egitto spesso utilizzano questi programmi di con-

tro-ideologia che cercano di minare lo Stato Islamico su basi teo-

logiche, come copertura per evitare riforme politiche, giuridiche

ed economiche più sostanziali. Le figure religiose che si fanno

10 M. Dunne, F. Wehrey, Three risks of US cooperation with its Arab partners, Carnegie Endowment for International Peace, 4 novembre 2014, http://carnegieendowment.org/2014/11/04/three-risks-of-u.s.-cooperation-with-arab-allies-against-islamic-state.

138 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

portatrici di tali messaggi vengono finanziate dai regimi, ma la

mancanza di una legittimità di questi agli occhi dell’opinione pub-

blica, soprattutto giovani emarginati, può inficiare questa batta-

glia.

L’intervento militare a guida saudita in Yemen nel marzo scor-

so sembra testimoniare la perduta capacità statunitense di esercita-

re influenza determinante presso gli alleati storici e una corrispon-

dente rinuncia a essere l’attore militare preponderante negli inter-

venti regionali. Inoltre, l’azione militare rende evidente l’emergere

di nuovi sistemi di alleanze nell’area mediorientale con un conso-

lidamento del fronte sunnita sotto la leadership saudita11

. Queste

evoluzioni sembrano spingere alcuni paesi europei, Italia inclusa,

a cercare un rapporto privilegiato con questo fronte. In realtà, co-

me visto, questa scelta nasconde insidie di lungo termine. Pensare

infatti che l’Italia possa avere capacità d’influenza su questi paesi,

quando neppure gli Stati Uniti sembrano dimostrare di averne, ap-

pare piuttosto illusorio. L’Italia dovrebbe invece tentare di premia-

re, con realismo e pragmatismo, le politiche inclusive, appoggian-

do i gruppi che dimostrano volontà di partecipazione politica in

senso democratico, al di là delle tendenze politiche, ed evitare di

contribuire ad alimentare visioni manichee. In questo senso, sia la

politica estera dell’Egitto, schierato sul fronte anti-islamismo (in-

teso in senso estensivo e soprattutto anti-Fratellanza musulmana)

sia quella della Turchia, sul fronte opposto, appaiono più un pro-

blema che un’opportunità o soluzione. L’Italia è nella posizione,

politica ed economica, di poter contribuire a essere un elemento di

decompressione di queste rivalità, in particolare dal momento che

a trovarsi in contrasto sono storici partner regionali. Questa politi-

ca contribuirebbe a un contenimento delle frizioni e dei contrasti

all’interno dell’area mediterranea e mediorientale che hanno

un’importante incidenza sull’instabilità di diversi paesi e che, con-

11 G. Friedman, The Middle Eastern Balance of Power Matures, Stratford Global Intelli-gence, 31 marzo 2015, https://www.stratfor.com/weekly/middle-eastern-balance-power-matures?utm_source=freelist-f&utm_medium=email&utm_term= Gweekly&utm_campaign=20150331.

Le implicazioni per la politica estera 139

seguentemente, alimentano le cause dell’emersione dell’islam ra-

dicale e violento.

Il caso della crisi libica è piuttosto esemplificativo sia

dell’impellenza dei rischi che l’Italia corre, sia della necessità di

sostenere politiche il più inclusive possibili. I tentativi di media-

zione tra le parti, condotti sinora sotto l’egida delle Nazioni Unite,

non sono riusciti a ottenere i risultati sperati, essenzialmente per-

ché hanno come presupposto di legittimità le passate elezioni e

quindi il riconoscimento della debole Camera dei Rappresentanti

come unico organo rappresentativo del paese. Se questa argomen-

tazione è corretta dal punto di vista formale non lo è dal punto di

vista sostanziale12

. È nell’interesse italiano sorreggere con con-

vinzione la mediazione dell’inviato Onu, non fornendo tuttavia

“patenti di legittimità” a nessuna delle due parti.

Allo stesso tempo le preoccupazioni, principalmente egiziane,

ma anche europee e statunitensi, di una Libia in mano a estremisti

islamici costituiscono un vincolo importante tra l’azione politica e

quella diplomatica che si riverbera fortemente sulla capacità

d’indicare un punto di equilibrio tra le forze in campo nel paese. In

pratica sembra difficile conciliare due esigenze percorrendole in-

sieme: un cessate-il-fuoco con l’attivazione di un dialogo vero tra

le parti (e la formazione di un governo unitario) e il contempora-

neo contenimento della minaccia jihadista.

Solamente scorporando la questione del contrasto alle forma-

zioni islamico-radicali dal più complessivo tentativo di avvio di

dialogo tra le parti in lotta si può immaginare, a livello internazio-

nale, di contenere le pulsioni egiziane (e francesi nel Fezzan) ver-

so un intervento unilaterale indiscriminato, che metterebbe defini-

tivamente in crisi ogni residua speranza di ricomposizione pacifica

del paese e aprirebbe inquietanti scenari di conflitto su scala re-

gionale. Se la crisi legata a una minaccia jihadista in Libia fosse

internazionalizzata, magari con la creazione di una coalizione si-

12 F. Wehrey, W. Lacher, “Libya’s Legitimacy Crisis: The Danger of Picking Sides in the Post-Qaddafi Chaos”, Foreign Affairs, 6 ottobre 2014, http://www.foreignaffairs.com/articles/142138/frederic-wehrey-and-wolfram-lacher/libyas-legitimacy-crisis.

140 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

mile a quella anti-IS operante in Iraq e Siria, o con la sua estensio-

ne sulla Libia, l’Italia e l’Europa avrebbero certamente in mano

carte più rilevanti per contenere gli attori regionali coinvolti e con-

seguentemente creare un nuovo discrimine tra le parti in causa –

nell’adesione alla lotta all’IS – che consentirebbe di rimodulare il

fronte politico.

È evidente che un nuovo intervento militare – proprio come per

Iraq e Siria – non possa essere risolutivo per sconfiggere le forze

radicali sul campo; contemporaneamente, infatti, sarebbe necessa-

rio ricostruire una nuova legittimità del paese. Questa chance è

probabilmente offerta dalla stesura della Costituzione che dovrà

essere il più condivisa possibile e dovrà trovare una sintesi tra le

forze politiche che rispettivamente si sentono attualmente legitti-

mate dalle elezioni o dall’aver preso parte alla rivoluzione. A que-

sto proposito è utile che cadano le pregiudiziali sinora operanti

contro una partecipazione ai negoziati di milizie e gruppi armati.

La Tunisia, d’altronde, può fornire un esempio di modello per

la conduzione di una politica inclusiva in tutta l’area. La Tunisia

appare, a oggi, l’unico paese dell’area mediorientale e nordafrica-

na a portare avanti un lineare processo di transizione politica dopo

le rivolte. Il partito islamico al-Nahda è partecipativo del sistema

parlamentare quale forza politica capace di governare in coalizio-

ne o scendere a compromessi13

. Il recente attacco terroristico ha

dimostrato quanto le forze jihadiste siano disposte a colpire que-

sto modello e quanto la comunità internazionale debba necessa-

riamente sorreggerlo, anche quale elemento altamente simbolico.

Infine, risulta inevitabile che la politica estera e di sicurezza

dell’Italia debba prevedere, rispetto al passato, misure che tenga-

no conto di fattori di riduzione/controllo dei rischi della protratta

instabilità degli stati dell’area, a cominciare da operazioni di con-

trollo delle acque territoriali fino al necessario ri-orientamento dei

13 S.M. Torelli, La transizione politica in Tunisia: opportunità e sfide, Note, n. 54, gennaio 2015, Osservatorio di politica internazionale, Senato della Repubblica, Camera dei deputati e Ministero degli Affari Esteri, http://www.ispionline.it/sites/default/files/pubblicazioni/note_tunisia_012015pdf.pdf.

Le implicazioni per la politica estera 141

referenti della nostra politica estera: dagli attori statuali a quelli

sub-statuali. Gruppi politici, comunità locali e tribali, per esempio,

soprattutto quando divengono elementi d’influenza politica e mili-

tare o controllano parte degli interessi economici italiani (pozzi di

petrolio, infrastrutture strategiche, via di comunicazione o traffici),

acquisiscono una rilevanza che non deve essere sottostimata.

Conclusioni

L’Italia, che si trova ad affrontare un periodo d’instabilità che non

si risolverà a breve, deve necessariamente riadattare la propria po-

litica estera. In un contesto internazionale caratterizzato

dall’ascesa di alcuni attori regionali a scapito del tradizionale

egemone americano, al nostro paese è richiesta una nuova capacità

di salvaguardia degli interessi nazionali attraverso l’intervento del-

la diplomazia, ma anche con l’utilizzo dello strumento militare. La

sfida più importante è relativa al fatto che la dimensione repressi-

va del fenomeno terroristico non debba andare a scapito della di-

mensione “politica”. Contrastare le cause profonde del revival

dell’islamismo radicale – in chiave proto-statuale – dovrebbe ri-

manere una priorità da perseguire sul piano bilaterale, ma soprat-

tutto su quello multilaterale. Questo interesse comune con gli altri

partner potrebbe essere fondamentale per un rilancio della politica

estera europea di cui l’Italia potrebbe farsi promotrice.

9. Le implicazioni per la politica di difesa e lo strumento militare

Fabrizio Coticchia

Le Forze armate italiane sono da anni impiegate nel contesto in-

ternazionale per affrontare quelle che sono percepite e definite

quali “nuove minacce”, non puramente militari. In una concezione

multidimensionale della sicurezza nazionale, fenomeni quali im-

migrazione clandestina, terrorismo internazionale, criminalità or-

ganizzata, pirateria, “stati falliti”, crisi regionali e disastri ambien-

tali sono stati affrontati facendo ricorso anche allo strumento mili-

tare. Nello scenario post-bipolare le minacce alla sicurezza nazio-

nale non provengono principalmente da attori statuali e da Forze

armate regolari. Non è più prioritario garantire la difesa dei confini

nazionali come avveniva durante la Guerra fredda. Pertanto si è

passati da una concezione statica dello strumento militare a una

modalità dinamica di continua proiezione esterna delle forze, tesa

a garantire la stabilità in aree di crisi, dalle quali possono emergere

nuove e complesse sfide per la sicurezza nazionale.

Il coinvolgimento in molteplici missioni all’estero rappresenta

il fattore di maggiore continuità della politica di difesa italiana

nello scenario post-bipolare. Grazie al crollo dei constraints inter-

ni e internazionali che avevano di fatto bloccato la Difesa italiana

per decenni, l’Italia ha perseguito una politica bipartisan molto at-

tiva dal punto di vista militare. Dalle operazioni nei Balcani negli

anni Novanta ai più complessi interventi di stabilizzazione, contro-

insorgenza e nation-building del nuovo secolo, il percorso di evo-

luzione compiuto dalle Forze armate italiane è stato davvero con-

siderevole. Tale trasformazione ha riguardato non solo le missioni

sul campo ma anche la struttura della difesa, riformata a più ripre-

144 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

se, e l’atteggiamento della pubblica opinione nei confronti delle

Forze armate, una delle istituzioni più apprezzate dagli italiani.

Un elemento cruciale di questo complessivo processo di evolu-

zione è rappresentato dal cambiamento dottrinale con il quale

l’Italia ha affrontato la sua sicurezza. La natura multidimensionale

della minaccia, e le modalità con le quali farvi fronte, sono al cen-

tro della riflessione strategica degli ultimi decenni. In particolare,

dal 2001 in poi, l’attenzione è stata diretta verso le sfide poste dal

terrorismo internazionale e dal crescente ruolo svolto da attori

non-statuali.

Alla luce delle lezioni apprese durante gli anni della war on

terror, delle operazioni in Afghanistan e Iraq e della lotta globale

al terrorismo, occorre oggi ripensare modalità di azioni e strumenti

impiegati per affrontare tali minacce. L’emergere dello Stato Isla-

mico (IS) e la sua crescente influenza in altri contesti geografici,

rappresenta l’ultimo fenomeno rilevante di un lungo processo sto-

rico che vede confrontarsi stati nazionali con nuove forme di sfide

alla propria sicurezza.

Dall’instabilità regionale ai foreign fighters, dalle connessioni

tra gruppi armati radicali e criminalità organizzata, dalla guerra

psicologica al fronte mediatico, le implicazioni per il futuro della

politica estera e di difesa italiana sono molteplici. Scopo del pre-

sente capitolo è illustrare il percorso di evoluzione della riflessione

strategica nazionale in materia di minacce multidimensionali, ana-

lizzare le lezioni apprese sul terreno nelle azioni di prevenzione e

contrasto al terrorismo internazionale e mettere in luce, infine, lo

sforzo attuale per combattere i gruppi jihadisti di IS. Il focus speci-

fico riguarderà l’ambito della Difesa italiana e il suo complesso

processo di trasformazione (dottrinale e strutturale) volto a con-

frontare nel modo più efficace ed efficiente la minaccia del terrori-

smo jihadista. La dimensione esterna (e non quella della sicurezza

interna e della homeland security) sarà quindi al centro di

quest’analisi. Attraverso l’uso di fonti primarie (quali documenti

ufficiali) e secondarie, la disamina permetterà di ricostruire un

quadro ampio e dettagliato del caso italiano e di avanzare alcune

Le implicazioni per la politica di difesa e lo strumento militare 145

raccomandazioni di policy relative ad approcci e modalità

d’impiego dello strumento militare.

Le minacce alla sicurezza nazionale: la riflessione strategica nazionale

L’analisi della riflessione strategica nazionale relativa alle minac-

ce poste dal terrorismo internazionale e alle possibili azioni di

contrasto attraverso la proiezione esterna delle Forze armate non

può essere scollegata dal processo di rielaborazione dottrinale av-

venuto a livello internazionale in materia di sicurezza.

L’idea stessa di minaccia asimmetrica è stata posta stabilmente

al centro del dibattito globale soprattutto in seguito agli attentati

terroristici dell’11 settembre 20011. La Quadriennal Defense Re-

view (Qdr), presentata al Congresso degli Stati Uniti nel settembre

2001 enfatizza proprio il concetto di asimmetria come logica di

base della dottrina militare statunitense.

La European Security Strategy (Ess) del 2003 evidenzia invece

il carattere transnazionale delle sfide contemporanee, ponendo

l’accento sui rischi, fra loro interconnessi, legati a conflitti regio-

nali, stati falliti, crimine organizzato, armi di distruzione di massa

e terrorismo. Anche il “Concetto Strategico” della Nato del 2010

sottolinea la centralità di minacce ambientali, economiche e socia-

li. Parallelamente, di fronte al proliferare delle sfide non-militari

alla sicurezza, il focus principale della letteratura registra un note-

vole spostamento, muovendo dal concetto di deterrenza a quello di

vulnerabilità. La trasformazione del sistema internazionale rappre-

senta così la premessa all’affermazione di un crescente “spazio

cognitivo”2 nel quale si sviluppano nuovi orientamenti e sistemi di

riferimento concettuale in materia di sicurezza.

1 Dal punto di vista terminologico occorre chiarire come generalmente ogni conflit-to tenda a essere asimmetrico per sua stessa natura, poiché ogni parte cerca di otte-nere un vantaggio sull’avversario al fine d’imporre la propria volontà. La parte “de-bole” punta inevitabilmente ad alterare il livello di densità del confronto. 2 J. Prezelj, “Challenges in conceptualizing and providing Human Security”, HUM-SEC Journal, n. 2, 2008, pp. 23-45.

146 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

La metamorfosi del contesto globale, caratterizzato

dall’impraticabilità di nuove grandi guerre interstatali, ha influen-

zato profondamente non solo la riflessione strategica e la diffusio-

ne di norme e valori, ma ha condizionato l’evoluzione stessa degli

interventi militari. Rupert Smith definisce i conflitti odierni come

«war amongst the people»3, ovvero di guerra tra le gente, in quan-

to la popolazione rappresenta l’obiettivo e il fulcro del confronto,

ben più della mera conquista territoriale. Si tratta del più recente

sviluppo di un processo che trova le sue origini nella guerriglia

spagnola contro Napoleone e prosegue durante la Guerra fredda in

Algeria, Vietnam e in molti altri teatri. Secondo Smith la forza mi-

litare è oggi considerata come soluzione di una serie di problemi

per i quali non è stata originariamente configurata, né ipotizzata.

Il dibattito contemporaneo, in seguito alle difficoltà incontrate

in Iraq e Afghanistan nelle azioni di contrasto a gruppi armati irre-

golari si è concentrato proprio sull’irregular warfare, guerra a

“bassa intensità”, e sul concetto di counterinsurgency. Il manuale

U.S. Army and Marine Corps Counterinsurgency Field Manual 3-

244, elaborato in prima battuta dal generale David Petraeus, che ne

ha poi applicato i dettami in Iraq e successivamente in Afghani-

stan, ha contribuito ad alimentare un’attenzione sulla contro-

insorgenza (Coin). Lo studio di tali operazioni ha messo in luce

come i fattori centrali nelle operazioni di counterinsurgency non

riguardino tanto la distruzione diretta del nemico, ma siano legati a

un approccio indiretto volto a separare la popolazione dagli insor-

ti, garantirne la sicurezza e conquistarne “cuori e menti”. I gruppi

armati che i soldati italiani hanno combattuto in Somalia, Iran e

Afghanistan sono ampiamente riconducibili all’idea di una rete

non unitaria di attori, un network decentralizzato e flessibile.

I fattori sopra descritti illustrano il processo di evoluzione della

sicurezza internazionale che ha caratterizzato i decenni successivi

alla caduta del Muro di Berlino e ha imposto una radicale revisio-

3 R. Smith, The Utility of Force, Allen Lane, 2005. 4 “FM 3-24/Marine Corps Warfighting Publication (MCWP), 3-33.5”, Counterinsur-gency, Washington DC, Headquarters, Department of the Army, and Headquarters, U.S. Marine Corps, 2006, p. 1.

Le implicazioni per la politica di difesa e lo strumento militare 147

ne concettuale e operativa al fine di affrontare al meglio le nuove

sfide e opportunità.

Dal punto di vista della riflessione strategica, occorre osservare

in primis quanto prodotto dall’Italia nei primi anni Novanta. Il mi-

nistro della Difesa Virginio Rognoni presentò il “Nuovo Modello

di Difesa” nel novembre del 1991, subito dopo l’operazione Desert

Storm in Iraq. Il punto-chiave dell’intero documento è

l’identificazione tra la sicurezza nazionale e la salvaguardia degli

interessi politici ed economici all’estero, attraverso una nuova ca-

pacità di power projection dello strumento militare. Squilibri eco-

nomici, nazionalismo, fondamentalismo religioso e terrorismo so-

no descritti come i maggiori elementi d’incertezza del contesto

post-bipolare. Il dispositivo militare italiano è così chiamato a dare

un contributo importante per la gestione delle crisi internazionali.

Non essendoci più bisogno di assicurare la presenza avanzata di

fronte alla possibile invasione sovietica, viene auspicato un gene-

rale processo di ristrutturazione riduttiva delle forze convenzionali

per assicurare flessibilità e mobilità e rispondere a nuove sfide.

Già allora si riteneva la fascia d’instabilità che affligge in partico-

lare Mediterraneo e Medio Oriente foriera di conseguenze dirette

sulla sicurezza europea non più sottoposta a una minaccia di tipo

tradizionale. Il passaggio dalla semplice necessità di difesa al

“mantenimento della stabilità”5 sembra così evidenziare uno dei

fattori ricorrenti nell’approccio nazionale alle crisi, ovvero la per-

cezione della natura multidimensionale della minaccia.

Il Libro Bianco (2002), che risente inevitabilmente del contesto

internazionale emerso in seguito agli attentati dell’11 settembre

2001, illustra una «nuova realtà della sicurezza planetaria»6 nella

quale si auspica che una rinnovata coesione atlantica contrasti ef-

ficacemente la minaccia del terrorismo. Proprio al fine di adattarsi

a scenari in continua trasformazione il “Concetto Strategico del

Capo di Stato Maggiore” (2005) mette poi in luce il bisogno di

5 Ministero della Difesa, Modello di Difesa. Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni

ʼ90, Roma, Stato Maggiore della Difesa, 1991, p. 13. 6 Ministero della Difesa, Libro Bianco della Difesa, Roma, Stato Maggiore della Difesa, 2002, p. 11.

148 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

sposare appieno una logica di flessibilità e interoperabilità delle

forze, sia a livello nazionale che internazionale. Le sfide alla sicu-

rezza del XXI secolo vengono individuate proprio nella minaccia

terroristica, nel potenziale utilizzo di armi di distruzione di massa

e nell’instabilità regionale. Ancora una volta emerge la percezione

diffusa di una natura multidimensionale della minaccia. Il Concet-

to Strategico sottolinea poi la necessità di una forza expeditionary,

che possa cioè intervenire anche a grande distanza dai confini na-

zionali, per «far fronte dinamicamente alla minaccia laddove essa

si alimenta»7.

In conclusione, quindi, la minaccia del terrorismo internaziona-

le e le crisi regionali che possono minare la stabilità internazionale

appaiono come i rischi più concreti che l’Italia dovrà affrontare

nel nuovo contesto post-bipolare. In attesa del nuovo Libro Bianco

(previsto per la primavera 2015), occorre esaminare la modalità

con la quale le Forze armate italiane hanno interpretato la dottrina

nazionale nelle missioni oltre confine. Il prossimo paragrafo illu-

strerà alcune lezioni apprese derivanti dall’impiego dello strumen-

to militare in scenari operativi complessi, nei quali le Forze armate

si sono confrontate con milizie irregolari, insorti e jihadisti.

La politica di difesa italiana e la minaccia jihadista. Operazioni militari e lezioni apprese

Dopo la fine della Guerra fredda l’Italia ha avviato una ristruttura-

zione del proprio sistema difensivo, creato per affrontare la mi-

naccia sovietica, adattandolo a una nuova realtà. Come già sottoli-

neato, il fattore maggiormente innovativo all’interno di questo

processo di trasformazione è rappresentato dalla costante presenza

di Forze armate oltre confine. Molti autori hanno collegato

l’impiego dello strumento militare all’estero con la necessità di

adattarsi al mutato contesto strategico e di proteggere l’interesse

7 Ministero della Difesa, Il concetto Strategico del Capo di Stato Maggiore, Roma, Stato Maggiore della Difesa, 2005, p. 11.

Le implicazioni per la politica di difesa e lo strumento militare 149

nazionale da nuove e vecchie minacce8. Secondo tale prospettiva,

è proprio la natura multidimensionale delle sfide contemporanee

(dal crimine transnazionale al terrorismo globale) a richiedere una

costante capacità di proiettabilità delle forze oltre confine.

Come illustrato dai documenti strategici, la minaccia posta dai

network terroristici e dall’instabilità regionale, in particolare dal

2001 in poi, è stata considerata la sfida principale dalla Difesa ita-

liana nel nuovo secolo. Molto spesso le analisi delle azioni di anti-

terrorismo si concentrano, giustamente, sulla dimensione interna,

sull’homeland security e sulle cruciali attività di prevenzione, at-

traverso l’uso di strumenti quali intelligence e forze di polizia.

Cercheremo qui di capire, invece, la modalità con la quale le Forze

armate italiane hanno contrastato attori non statuali, quali gruppi

armati radicali, che impiegavano anche tattiche di tipo terroristico

per raggiungere i propri scopi militari e politici. In altre parole, gli

esempi di Iraq (2003-2006) e Afghanistan (2001-2014) aiutano a

comprendere importanti lezioni apprese alla luce del nuovo impe-

gno contro i gruppi di IS in Medio Oriente (e in Nord Africa).

In maniera sintetica, in base all’analisi della letteratura e dei

documenti ufficiali9, possiamo distinguere almeno quattro generali

lessons learnt.

Il primo elemento cruciale nel confronto sul campo con milizie

e gruppi armati jihadisti è rappresentato dall’appropriata pianifica-

zione strategica dell’operazione. Lo studio cross-time

dell’impegno militare rivela atteggiamenti distinti nella predispo-

sizione delle missioni italiane post-2001: approcci, strumenti e ca-

veat diversi ai quali sono corrisposti risultati divergenti sul terre-

8 Si vedano per esempio: G. Cucchi, “Gli interessi Vitali che l’Italia Protegge”, Rela-zioni Internazionali, Milano, ISPI, n. 22, 1993, pp. 66-70; V. Coralluzzo, “Le missioni italiane all’estero, problemi e prospettive”, in L’Italia fra nuove politiche di difesa e impegni internazionali, ISPI Studies, 2012, http,//www.ispionline.it/it/documents/ISPI%20StudiesItalia.htm. 9 Per un’analisi esaustiva delle operazioni militari italiane nell’era post-bipolare si veda F. Coticchia, Qualcosa è cambiato. L’evoluzione della politica di difesa italiana dall’Iraq alla Libia (1991-2011), Pisa, Pisa University Press, 2013. Per una disamina del pro-cesso di trasformazione militare e adattamento delle forze italiane nel contesto post-2001 si veda F. Coticchia, F.N. Moro, Adapt, Improvise, Overcome? The Transformation of Italian Armed Forces in Comparative Perspective, Ashgate, 2015 (in pubblicazione).

150 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

no. Alcune operazioni, infatti, sono state impostate in una logica

coerente con la retorica della “missione di pace”, ma aperte al ri-

schio di mission creep, a causa di un’eccessiva distanza tra piani-

ficazione e realtà (spesso assai ostile) sul terreno. Alcuni interven-

ti, sebbene in contesti conflittuali, hanno adottato un basso profilo,

influenzati da rigidi caveat e regole d’ingaggio (per esempio

“Nibbio” in Afghanistan nel 2003) o perché drammaticamente

privi di mezzi adeguati (come gli elicotteri “Mangusta” in Iraq).

Dopo il 2006-2008, invece, le truppe italiane in Afghanistan hanno

potuto disporre degli asset richiesti per portare a compimento

l’operazione, pur tra le mille difficoltà dello scenario bellico. In

altre parole, le operazioni che prevedono una parte combat devono

poter dispiegare sul terreno tutti i mezzi a disposizione, sia per ga-

rantire un’adeguata protezione dei soldati sia per l’efficacia com-

plessiva dell’intervento, che altrimenti si rivela controproducente e

sostanzialmente fallimentare, come nel caso di “Antica Babilo-

nia”. Le operazioni contemporanee richiedono una direzione stra-

tegica chiara e un’attenta valutazione politica che riduca la distan-

za tra retorica e realtà, tra ambizioni di prestigio e risorse effettive.

Di fronte a scenari in continuo mutamento, la fase post-bellica si

rivela ancora più importante della precedente, proprio per la ne-

cessità pressante di pianificare adeguatamente l’intervento, come

ben illustrato dal caos libico o iracheno.

Il secondo aspetto riguarda la capacità di rafforzare il controllo

del territorio e conquistare il “cuore e le menti della popolazione”

attraverso strumenti non militari. Il confronto con gruppi insurre-

zionali sub-statuali o transnazionali non avviene solo lungo la di-

mensione militare dello scontro armato. Al contrario, i recenti in-

terventi internazionali hanno attribuito una rilevanza crescente alla

sfera politica, economica e sociale. L’analisi delle missioni rivela

la capacità delle forze italiane di operare attraverso tre direttrici

fondamentali. La prima riguarda il ruolo della cooperazione civile-

militare nelle attività di ricostruzione. Un expertise ampiamente

sviluppato dai nostri contingenti, a partire dalle prime operazioni

post-bipolari in Africa e soprattutto nei Balcani. La seconda attie-

ne alla fondamentale azione di addestramento di Forze armate e di

Le implicazioni per la politica di difesa e lo strumento militare 151

sicurezza locali. Un aspetto sempre più importante nelle operazio-

ni contemporanee “tra la gente”, proprio per il valore aggiunto da-

to da attori locali nel rapportarsi con la popolazione e dalla conse-

guente maggiore capacità dello stato di controllare il territorio. In

tal senso, i carabinieri appaiono un asset estremamente richiesto e

apprezzato dai nostri alleati. La terza direttrice è infine quella del

tipo di approccio da tenere sul campo, tra il serrato confronto mili-

tare con gli insorti e il necessario dialogo con la popolazione civi-

le.

Da questo punto di vista “Nibbio” rappresenta un esempio mol-

to interessante. La missione svoltasi nella provincia orientale di

Paktia si poneva l’obiettivo d’interdire i tentativi di attraversamen-

to del confine tra Afghanistan e Pakistan da parte dei membri di

al-Qaida, limitandone la libertà di movimento e neutralizzandone i

“santuari”. Proprio quell’operazione, al di là della durata assai cir-

coscritta (pochi mesi) e del limitato coinvolgimento militare na-

zionale sul terreno rispetto agli alleati, evidenzia l’attenzione posta

dagli italiani al dialogo con gli elder dei villaggi, piuttosto che alle

azioni di search&destroy guidate dalle forze Usa. Queste ultime,

in seguito all’introduzione del manuale di Petraeus e alle nuove

direttive di McChrystal in Afghanistan, adotteranno solo anni do-

po un atteggiamento sul terreno simile a quello italiano, limitando

l’uso del fire power e aumentando gli sforzi per favorire dialogo e

ricostruzione.

In generale possiamo notare come da una parte, senza un effi-

cace controllo del territorio, le attività che le Forze armate com-

piono sul piano economico-sociale si rivelino inutili (come avve-

nuto in Iraq) o limitate (soprattutto se confrontiamo la sproporzio-

ne tra spese militari e non dei più recenti interventi internazionali).

Dall’altro, senza un processo d’inclusione politica degli attori

coinvolti nel conflitto, ogni azione si dimostra inefficace nel me-

dio-lungo periodo. Proprio per isolare le forze jihadiste e gli attori

più radicali legati a network terroristici globali, occorre dialogare

con tutte le componenti del conflitto interessate a una condivisione

del potere a livello nazionale. In Iraq la diminuzione della violenza

in seguito al surge e alla dottrina Petraeus creò le condizioni per

152 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

favorire il ritiro delle forze ma non per risolvere politicamente il

conflitto, come ben dimostrato dall’instabilità recente.

Il terzo elemento cruciale, proprio per agevolare il controllo del

territorio, promuovere il dialogo tra gli attori politici rilevanti e

portare avanti attività di targeting, contrasto e prevenzione di

gruppi terroristici, è l’intelligence. Parallelamente al dispiegarsi

delle truppe in molteplici contesti di crisi, i Servizi italiani hanno

svolto un compito delicato e preziosissimo. La raccolta

d’informazioni attendibili del contesto d’intervento, della natura,

delle risorse e degli obiettivi degli attori in conflitto rappresenta un

fattore decisivo nelle operazioni contemporanee. Al di là del cre-

scente peso di mezzi tecnologicamente avanzati (per esempio dro-

ni) che garantiscono un valore aggiunto in aree complesse, la di-

mensione della Humint (Human Intelligence) riveste

un’importanza cruciale negli attuali conflitti. In particolare lo

stretto connubio tra servizi informativi e forze speciali sul terreno

ha rappresentato uno strumento privilegiato per contrastare gruppi

terroristici e limitarne il possibile raggio d’azione e la capacità

d’influenza.

L’ultimo aspetto attiene al rapporto tra missioni volte a contra-

stare la minaccia terroristica e il grado di “tenuta domestica” nel

sostenerne i costi, umani ed economici. Senza un’efficace “narra-

zione strategica”, che sia coerente con valori e interessi nazionali,

consistente con la realtà sul terreno e chiara in termini di obiettivi

e risultati attesi, sarà complesso “preparare” adeguatamente

l’opinione pubblica e ottenere un consenso durevole. L’Italia non

ha mai portato a giustificazione di un proprio intervento militare

che lo scopo fosse quello di combattere il terrorismo internaziona-

le (nemmeno in Afghanistan), bensì che ci fosse la necessità di

contribuire alla sicurezza internazionale attraverso “missioni di

pace”. In altre parole, la scarsa chiarezza della retorica politica,

necessaria in parte per contare su un consenso bipartisan rispetto a

operazioni di questo tipo, non ha mai contribuito a delineare una

narrazione davvero efficace in relazione alla presunta minaccia

posta da organizzazioni terroristiche.

Le implicazioni per la politica di difesa e lo strumento militare 153

Le lezioni apprese dagli interventi degli ultimi anni, avvenuti

perlopiù in un contesto di grave crisi economica e finanziaria, ri-

velano la pericolosità della discrasia tra retorica e realtà e la cre-

scente difficoltà di sostenere onerose missioni di nation-building

in aree di crisi con molti soldati sul terreno, anche per la scarsa

possibilità di riuscita delle stesse. Ciò contribuisce a spiegare il

“prudente” atteggiamento occidentale verso le attuali crisi in Iraq e

Libia. Da una parte emerge chiaramente la centralità della dimen-

sione politica per risolvere le crisi attuali, dall’altra si è diffusa

gradualmente la convinzione che operazioni più mirate possano

evitare gli errori del passato e rivelarsi maggiormente incisive con-

tro gruppi terroristici.

L’emergere di IS pone però un nuovo dilemma ad attori come

l’Italia, stretti tra restrizioni di bilancio, revisione strategica e la

volontà di dare il proprio contributo per affrontare la minaccia. Il

prossimo paragrafo analizzerà sinteticamente il tipo di apporto

fornito finora dalle Forze armate italiane contro il sedicente calif-

fato.

L’ascesa di IS e l’impegno militare italiano

Nell’agosto 2014, dopo un’accesa discussione in Parlamento,

l’Italia ha deciso d’inviare armi in Iraq per contrastare la rapida

avanzata delle forze di IS. Le armi, perlopiù mitragliatrici, razzi

per Rpg e munizioni, sono state recapitate alle forze che sul terre-

no combattono contro le milizie jihadiste10

. Ma il maggior aiuto

che l’Italia porta alla coalizione internazionale che combatte IS in

Iraq e Siria è fornito dalla poco conosciuta missione “Prima Par-

10 Per un’analisi critica (rispetto alla scelta di mandare armi e in relazione al tipo di mezzi inviati) si vedano rispettivamente, dichiarazioni alla Camera del Ministro della Difesa Roberta Pinotti, “mandare armi e militari in Iraq peggiora la situazione”, Con-trollarmi. Rete italiana per il disarmo, 17 ottobre 2014, http://www.disarmo.org/rete/a/40837.html e G. Gaiani, “ecco la lista delle (poche) armi italiane ai curdi”, Analisi Difesa, 4 settembre 2014 http://www.analisidifesa.it/2014/09/ecco-la-lista-delle-poche-armi-italiane-ai-curdi/.

154 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

thica”. Assieme ad altri paesi l’Italia opera sulla base delle Risolu-

zioni n. 2170 del 15 agosto 2014 e n. 2178 del 27 settembre 2014,

in seguito alla richiesta di soccorso presentata dal rappresentante

permanente iracheno al presidente del Consiglio di Sicurezza

dell’Onu. Come evidenziato dal sito del Ministero della Difesa11

, i

compiti del contingente italiano sono i seguenti: contribuzione con

personale qualificato impiegato negli staff dei comandi della Coa-

lizione, attività Air-to-Air refueling a favore degli assetti della

Coalizione e attività di ricognizione e sorveglianza con aerei a pi-

lotaggio remoto e Tornado IDS. In altre parole, gli aerei italiani

non bombardano, ma hanno funzione di “ricognitori”. Dopo aver

garantito “supporto umanitario” ad agosto e inviato materiale bel-

lico alle Iraqi Security Forces (Isf) e alle milizie curde, l’Italia ha

costituito una Combined Joint Task Force a ottobre, dislocata tra

Kuwait, Qatar, Baghdad ed Erbil. Sempre a ottobre è stata creata

la Task Force Air (TF-A) con circa 190 unità in Kuwait. Sono lì

schierati due Predator, un velivolo da rifornimento in volo KC 767

e appunto quattro velivoli A-200 Tornado IDS. Tra forze aeree e

addestratori sul terreno l’impegno complessivo si quantifica in di-

verse centinaia di uomini.

Proprio le attività di training, come abbiamo visto, rappresen-

tano un dato costante nelle operazioni militari italiane intraprese

nel nuovo secolo. L’Italia assume spesso un ruolo-guida per

l’addestramento di Forze armate e di sicurezza locali in operazioni

multinazionali. Nel corso del tempo anche le modalità di training

si sono adattate al cambiamento degli scenari bellici, come dimo-

stra l’evoluzione compiuta dal complesso processo di training av-

venuto in Afghanistan. I recenti interventi evidenziano come il

processo di temporanea “decentralizzazione” delle responsabilità

di sicurezza (per esempio attraverso milizie di autodifesa) non do-

vrebbe mai minare il ruolo dello stato nel monopolio della violen-

za.

Nel caso dell’Iraq le attività di addestramento saranno princi-

palmente orientate sui sistemi d’arma contro carri e sulla neutra-

11http://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/Prima_Parthica/Pagine/default.aspx.

Le implicazioni per la politica di difesa e lo strumento militare 155

lizzazione di ordigni improvvisati, un ambito nel quale le Forze

armate italiane hanno sviluppato notevolissime competenze e le-

zioni apprese, in continuità con una delle migliori capacità svilup-

pate negli ultimi decenni, ovvero quello del mine-clearing. Come

riporta il sito del Ministero della Difesa, l’Italia «ha già iniziato lo

schieramento di un Centro di Addestramento finalizzato a coordi-

nare, armonizzare e condurre attività di training a favore delle uni-

tà dei Peshmerga»12

(forze curde nel nord dell’Iraq, coinvolte nelle

operazioni anti-IS). Nel complesso, la partecipazione nazionale

all’operazione a guida Usa Inherent Resolve sembra quindi foca-

lizzarsi su tre direttrici: l’addestramento, la ricognizione aerea e il

supporto umanitario.

È ipotizzabile che tali attività riusciranno a ottenere risultati

concreti solo nel medio periodo. Come ci insegnano le operazioni

intraprese dalle Forze armate italiane durante l’era della war-on-

terror, un efficace addestramento richiede tempo, e deve focaliz-

zarsi non solo sulla dimensione quantitativa (il numero delle unità

“addestrate”) ma soprattutto su quella qualitativa (sviluppando ef-

fettivamente gli adeguati skills richiesti), evitando al contempo i

rischi di pericolose infiltrazioni esterne (come avvenuto in Afgha-

nistan attraverso gli attacchi green on blue da parte di reclute con-

tro gli addestratori).

In generale, appare chiaro ai decisori politici nazionali che seb-

bene lo sforzo militare rappresenti una parte fondamentale

dell’operazione (diretta in particolar modo a sviluppare capacità di

combattimento delle forze locali), la dimensione politica gioca an-

cora una volta una parte fondamentale. Sia all’interno dell’Iraq,

per promuovere quel processo d’inclusione che non è mai stato

portato avanti negli anni di Iraqi Freedom e che ha contribuito ad

alimentare divisioni settarie, soprattutto nelle zone limitrofe o in

quelle adesso controllate da IS. Sia in Siria, dove permane la diffi-

coltà di avviare un processo di negoziazione che coinvolga gli at-

tori in gioco e dove i rapporti con il regime di Assad rimangono

naturalmente complessi. In questo scenario (al cui confine l’Italia

schiera centinaia di soldati all’interno della missione Unifil Liba-

12 Ibidem.

156 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

no) la frammentazione dei soggetti che operano sul terreno rende

molto difficile una soluzione a breve termine di una guerra dram-

matica. È proprio in tale contesto che emerge chiaramente la di-

mensione internazionale del conflitto, con il costante coinvolgi-

mento di potenze regionali. Inoltre, dal punto di vista militare, ci

troviamo di fronte a un paradosso: organizzazioni definite a livello

globale come “terroristiche”, quali Pkk e Hezbollah, sono le uni-

che formazioni che hanno inferto severe sconfitte alle milizie del

sedicente califfato. Al tempo stesso, alleati occidentali e membri

della Nato, come la Turchia, tengono da tempo un comportamento

ambiguo nei confronti di IS, come ben illustrato dalla gestione del-

le frontiere con la Siria.

Infine, in relazione alle possibili implicazioni dell’ascesa del

cosiddetto Stato Islamico per la politica di difesa italiana, occorre

prestare prioritaria attenzione al conflitto in Libia. Qui la presenza

di gruppi legati a IS suscita notevole preoccupazione, sebbene sia

al momento di difficile interpretazione per quanto riguarda i reali

rischi effettivi presenti. Certamente, l’instabilità e la guerra civile

tra le diverse milizie sono un dato di fatto che alimenta da mesi

l’instabilità dell’area, con tutte le potenziali conseguenze che ciò

potrebbe avere per l’Italia. Roma, dopo il riluttante coinvolgimen-

to nell’operazione Unified Protector nel 2011, aveva avviato alcu-

ni interventi (tesi proprio all’addestramento delle Forze di sicurez-

za). Ma, come ben illustrato anche dalla missione nazionale “Mare

Nostrum”, il coinvolgimento degli alleati europei è apparso limita-

to e sfilacciato. L’emergere della minaccia terroristica, così ben

propagandata da IS, dovrebbe spingere l’Italia a svolgere un ruolo

guida nel difficile processo negoziale tra le due principali fazioni

in lotta (le forze islamiste che controllano Tripoli e quelle del “go-

verno” di Tobruk), al fine d’isolare e circoscrivere la potenziale

ascesa dei jihadisti aderenti al “califfato”, senza propendere per

una soluzione militare al fianco dell’Egitto e dei suoi alleati locali.

Questo non vuol dire precludere un’azione puntuale, anche dal

punto di vista d’intelligence e militare, per prevenire e contrastare

ogni minaccia proveniente dalle coste libiche. Ma, come osservato

da Arturo Varvelli nel capitolo 8, ogni intervento dovrà essere

Le implicazioni per la politica di difesa e lo strumento militare 157

guidato da un’attenta pianificazione strategica che si colleghi a un

preciso disegno politico sul futuro della Libia, nella consapevolez-

za che una vasta missione di nation-building simile a quelle intra-

prese in Iraq e Afghanistan difficilmente riuscirà a ottenere risulta-

ti positivi, proprio come dimostrano le negative esperienze passa-

te.

Conclusioni

Osservando il percorso di cambiamento post-bipolare della politi-

ca di difesa italiana è possibile mettere in risalto almeno tre grandi

novità: il contributo alla sicurezza internazionale attraverso le mis-

sioni, le riforme interne (sospensione del servizio di leva, riforma

dei Vertici delle Forze armate, ristrutturazione complessiva del

Nuovo Modello di Difesa, ecc.) e la nuova immagine delle Forze

armate (concezione positiva da parte dell’opinione pubblica del

ruolo dei soldati come “attori di pace”). Al contempo si possono

evidenziare due considerevoli paradossi che ne hanno influenzato

(e ostacolato) il cammino: lo squilibrio del bilancio e della struttu-

ra delle forze e la paradossale rimozione della dimensione militare

nella retorica nazionale. Parziale conseguenza di quest’ultimo

aspetto è stato lo scarso dibattito strategico (l’ultimo Libro Bianco

risale al 2002) e la limitata sistematizzazione di lezioni apprese

durante gli ultimi 25 anni di interventi militari. La Difesa italiana,

al fine di contrastare la minaccia del terrorismo, deve invece poter

contare sul vasto bagaglio di esperienza accumulata nell’era post-

bipolare.

Dal punto di vista dottrinale, come abbiamo cercato di mettere

in luce, si è definitivamente affermata una concezione multidi-

mensionale di sicurezza, non più limitata alla difesa dei confini.

Per far fronte a sfide transazionali, l’Italia è stata costantemente

chiamata a svolgere allora un ruolo attivo a livello internazionale

attraverso le Forze armate. Nello scenario post-Guerra fredda il

tipo di minaccia affrontata dall’Italia non riguarda più un’entità

statuale che rappresenta un pericolo diretto ai confini, bensì crisi

158 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

regionali e conflitti intra-statali dai quali possono delinearsi nuove

sfide alla sicurezza nazionale.

Dal punto di vista operativo, l’analisi degli interventi militari

che hanno visto le Forze armate italiane contrastare gruppi armati

terroristici permette di delineare la centralità di un approccio basa-

to sull’addestramento delle forze locali e sulla più generale rico-

struzione delle capacità delle istituzioni dei paesi d’intervento. Un

processo che appare complicato, specie se in assenza di una chiara

pianificazione strategica e di una convincente narrazione che giu-

stifichi l’impegno oneroso. Ma più di tutto anche le Forze armate

si sono rese conto della priorità di altri strumenti per “vincere” un

conflitto non tradizionale, a partire dal fondamentale processo

d’isolamento dei gruppi terroristici, parallelo a un percorso inclu-

sivo di condivisione del potere tra gli altri attori coinvolti. Mante-

nere tale direzione, assieme al rafforzamento delle capacità di in-

telligence, appare fondamentale per contrastare le complesse sfide

attuali.

10. Le implicazioni per l’intelligence

Marco Minniti

La minaccia jihadista

Il terrorismo islamico continua a rappresentare una minaccia pri-

maria alla sicurezza internazionale e, anche alla luce di quanto av-

venuto nel 2014, costituisce una sfida con cui dovremo confron-

tarci ancora per un lungo periodo.

L’anno scorso si è assistito, infatti, all’affermazione dello Stato

Islamico (IS) nel mondo. Ciò ha segnato un assoluto cambio di

passo, determinando quella che i filosofi chiamano una rottura

epistemologica, perché, per la prima volta, un’organizzazione ter-

roristica si è dotata di un territorio ed è diventata “stato”. In questo

modo l’IS è stato in grado di realizzare ciò in cui nessuno era riu-

scito in passato: avere la capacità di muoversi, da un lato secondo i

canoni tipici di una guerra simmetrica, conducendo una campagna

militare con un vero e proprio esercito, conquistando una parte

della Siria, una parte dell’Iraq, mettendo in discussione il Kurdi-

stan, dall’altro su un piano tipicamente asimmetrico come ogni

gruppo terroristico. A questo si aggiunge anche il raggiungimento

di una capacità economica senza precedenti tra i gruppi terroristi-

ci, ottenuta attraverso molteplici attività a partire dal controllo di

risorse petrolifere.

L’IS rappresenta pertanto una minaccia irriducibile, non gesti-

bile diplomaticamente e che va sconfitta anche militarmente; que-

sto è il senso della grande coalizione internazionale cui l’Italia

partecipa.

Oltre all’IS, un elevato indice di rischio è legato ad al-Qaida

tanto in relazione al tentativo dell’organizzazione terroristica di

160 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

riaffermare il proprio ruolo di leader nel jihad globale, quanto per

eventuali convergenze con lo Stato Islamico in un’ottica antiocci-

dentale.

In questo quadro, le azioni terroristiche compiute a Parigi nel

gennaio 2015 e a Copenaghen nel mese di febbraio hanno ulte-

riormente evidenziato sia l’attualità e la concretezza della minac-

cia jihadista in Europa sia la pericolosità per il nostro continente

del fenomeno degli homegrown terrorists e dei foreign fighters.

I foreign fighters sono cittadini europei o immigrati che risie-

dono stabilmente in Europa, i quali spesso radicalizzatisi su inter-

net e, di sovente, inseriti in contesti di disagio personale, familiare

e socio-economico decidono di raggiungere i teatri di jihad per

“unirsi alla causa”, anche in un’ottica di riscatto personale.

È evidente la grande pericolosità dei militanti di ritorno

dall’esperienza combattente (returnees) che, rafforzatisi nelle pro-

prie posizioni estremiste e acquisito il know how necessario, pos-

sono alimentare circuiti estremisti o realizzare progettualità offen-

sive.

Tanto i returnees quanto i terroristi homegrown (singoli indivi-

dui o micro-cellule) che decidono di attivarsi (selfstarters) hanno

un tasso di pericolosità aggiuntiva dovuta all’elevata imprevedibi-

lità delle loro azioni. Manca, infatti, una centrale strategica, una

catena di comando che assegna l’obiettivo da colpire e poi ci sono

le cellule che eseguono. Al contrario c’è, a livello individuale, il

riconoscimento in un riferimento politico-culturale radicale con la

decisione di passare all’azione.

È il terrorismo molecolare, realizzato da piccoli gruppi o indi-

vidui, con una forte connotazione di spontaneismo. Proprio que-

sto, se ci si ferma a riflettere, è il comune denominatore che acco-

muna gli attacchi terroristici dell’ultimo anno in Occidente. Gli

attentati di Ottawa, Bruxelles, Sidney, Parigi e Copenaghen sono

azioni terroristiche fra loro profondamente diverse, ma che tuttavia

hanno un filo conduttore, costituito dal singolo individuo o dal

singolo gruppo che si attiva sulla scorta di un riferimento ideolo-

gico.

Le implicazioni per l’intelligence 161

In quest’ottica sono di estrema pericolosità, proprio per il ri-

schio di essere recepiti da una vasta platea di internauti radicali, i

numerosi messaggi di propaganda jihadista diffusi sul web in cui

si invitano i musulmani d’Occidente a raggiungere i teatri di jihad,

o a colpire i “miscredenti”, con ogni mezzo, nei loro paesi attra-

verso azioni di jihad individuale.

A tal proposito, il “successo” di azioni terroristiche attuate con

i più disparati strumenti (dall’arma da taglio all’automobile lancia-

ta contro un bersaglio) possono stimolare fenomeni emulativi, pe-

raltro estremamente difficili da prevenire anche perché fuori dagli

schemi tradizionali di valutazione delle capacità organizzative e

operative delle formazioni terroristiche.

Un profilo di particolare attenzione rimanda, inoltre, al flusso

di jihadisti che raggiungono il teatro siro-iracheno dal Nord Afri-

ca, ma che – per personali trascorsi in Europa, per collegamenti

con soggetti residenti nel vecchio continente o per contatti matura-

ti sul campo di battaglia – potrebbero raggiungere il territorio eu-

ropeo.

Anche per questi aspetti il quadrante nordafricano è costante-

mente monitorato dall’intelligence, specie per quel che concerne la

Libia, la cui situazione di sicurezza già fortemente critica, si è ul-

teriormente deteriorata per la presenza di una multiforme galassia

jihadista, nel cui ambito l’IS sta cercando di ritagliarsi visibilità e

spazi sul terreno.

Il peggioramento della situazione con il rischio di una “soma-

lizzazione” della Libia accresce il livello di rischio per il nostro

paese. Ciò impone l’obbligo per la comunità internazionale, e in

primis per l’Europa, di un forte impegno in ambito Onu finalizzato

a spingere le parti a creare un governo di unità nazionale capace di

stabilizzare il paese e di fare fronte comune contro l’IS.

La minaccia verso l’Italia

L’Italia rientra tra i potenziali obiettivi dell’azione terroristica, ol-

tre che per la sua partecipazione alla coalizione internazionale

contro l’IS, soprattutto per la sua centralità per il mondo cristiano.

162 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Esemplificativo in tal senso come la “conquista di Roma” sia

un tema ricorrente nella violenta campagna mediatica di IS e dei

suoi sostenitori. In proposito, tra gli altri, si ricordano: l’audio-

messaggio postato a luglio 2014 in cui l’autoproclamato califfo

dello Stato Islamico al Baghdadi invita i suoi seguaci a combattere

sotto la sua bandiera, così seguendo il suo consiglio «conquisterete

Roma e diventerete padroni del mondo, con la volontà di Allah»;

la copertina della rivista dello Stato Islamico, Dabiq, di ottobre

2014 con la foto della bandiera nera di IS che sventola

sull’obelisco di piazza San Pietro; il video postato sul web

all’indomani dell’attentato parigino alla rivista Charlie Hebdo in

cui si susseguono le immagini di campi di addestramento e quelle

di Roma (piazza San Pietro, Colosseo, Pantheon) con minacce

profferite in lingua araba; il messaggio del 26 gennaio 2015 del

portavoce di IS Abu Muhammad al-Adnani, in cui vengono incita-

ti i jihadisti a colpire in Europa e viene dato “appuntamento a Ro-

ma”; il video dell’IS postato il 15 febbraio 2015 che mostra la de-

capitazione di 21 ostaggi e contiene minaccia all’Italia «Ci avete

visto in Siria, ora siamo qui a sud di Roma»; il documento di mi-

naccia postato online dall’IS nel mese di febbraio in cui, tra l’altro,

s’incitano i lupi solitari a colpire.

Al momento, nel nostro paese sono sottoposti alla particolare

attenzione d’intelligence e Forze di polizia una cinquantina di fo-

reign fighters partiti dal territorio nazionale e comunque a vario

titolo collegati con l’Italia. Sono numeri contenuti rispetto al pano-

rama europeo, dove si stimano alcune migliaia di combattenti. In

ogni caso, però, il rischio di reducismo va valutato anche in rela-

zione all’arrivo nel nostro paese di foreign fighters partiti per la

Siria da altri paese europei o nordafricani.

Nonostante queste considerazioni, a oggi, non sono emersi

concreti segnali di pianificazioni offensive contro il nostro paese

da parte di IS, di al-Qaida o di homegrown terrorists.

In sostanza, a fronte di tre livelli di rischio terrorismo (possibi-

le, probabile, concreto), il nostro paese si colloca al livello del

“possibile”. Può, cioè, essere oggetto di un attentato terroristico. Il

livello di guardia è, però, altissimo, si ragiona quanto a dispositivi

Le implicazioni per l’intelligence 163

di sicurezza come se ci si trovasse di fronte a concrete e precise

situazioni di rischio. Questo è il modo per garantire il massimo

della prevenzione, stando, peraltro, molto attenti a non cadere nel-

la sindrome della paura che costituisce proprio un obiettivo delle

organizzazioni terroristiche.

Lo Stato Islamico, infatti, punta all’opinione pubblica attraver-

so un’attenta strategia comunicativa volta a seminare insicurezza,

terrore e soggezione psicologica e culturale. Si tratta di professio-

nisti della comunicazione, che operano scelte raffinate anche su

dettagli come il taglio delle fotografie: nulla è lasciato al caso. La

violenza esibita delle decapitazioni e, più in generale, delle esecu-

zioni è un pezzo di tutto ciò: ostentare spregio e sicurezza per

spargere terrore.

L’intelligence nell’attività di prevenzione e contrasto

La risposta al terrorismo deve avvenire su più piani.

In primo luogo, a livello militare nei confronti di IS. In tal sen-

so, come sopra ricordato, l’Italia fa parte della coalizione interna-

zionale contro lo Stato Islamico.

Il secondo livello di risposta si trova sul terreno della preven-

zione e, in tale ambito, è di primaria importanza il ruolo

dell’intelligence.

In materia di prevenzione l’Italia costituisce un punto di riferi-

mento, siamo tra i pochi che mettono in condivisione in tempo

reale tutte le informazioni di cui si sia in possesso. In particolare è

eccellente il coordinamento interno al comparto informativo, è sta-

ta ulteriormente rafforzata la cooperazione internazionale

d’intelligence e, attraverso il Comitato di Analisi Strategica Anti-

terrorismo (Casa), viene assicurata una perfetta sinergia tra Servizi

e Forze di polizia. Il Casa è un esercizio ormai consolidato nel no-

stro paese e potrebbe tranquillamente essere esportato come mo-

dello a livello europeo.

Nell’attività di prevenzione è massimo lo sforzo

dell’intelligence che deve avere la capacità d’impiegare al meglio

tutti gli strumenti di cui può disporre. Il contrasto al terrorismo

164 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

molecolare passa sicuramente attraverso l’utilizzo della tecnolo-

gia, specie in relazione al web (sulla cui centralità nelle dinamiche

di radicalizzazione individuale mi sono sopra soffermato), ma as-

sumono grande importanza l’Osint (Open Source Intelligence) e la

Humint (Human Intelligence). Quanto alla prima, oggi, su internet

è disponibile una grande quantità d’informazioni e l’intelligence

deve avere la capacità di enucleare quelle utili; per quel che con-

cerne la Humint, è fondamentale avere la conoscenza del territo-

rio, essere in grado d’infiltrarsi negli ambienti sospetti, avere un

controllo diretto in funzione preventiva di coloro che sono poten-

zialmente sospetti, conoscere le persone e avere anche la piena

collaborazione dell’opinione pubblica. Ciò non significa istituzio-

nalizzare la delazione o vivere in un clima di sospetto, ma la rispo-

sta della società civile è un’arma in più nella lotta al terrorismo. In

questo l’Italia ha già dato prova di grande maturità negli anni ’70-

’80 contro le Brigate Rosse. Un contributo di rilievo potrebbe ve-

nire dall’attivazione dell’islam moderato. In questo senso, è im-

portante promuovere il culto nelle moschee, in ambienti pubblici

trasparenti, perché i rischi maggiori si annidano nel culto cata-

combale o peggio sul web.

Dunque all’attività di prevenzione e contrasto messa in atto da

servizi, magistratura e forze dell’ordine devono contribuire anche i

singoli cittadini, magari segnalando eventuali situazioni sospette.

Nell’ambito di tali attività, particolare impegno viene profuso

dall’intelligence anche in merito alle forme di finanziamento delle

formazioni jihadiste, mirando a individuare fonti e canali di trasfe-

rimento delle risorse finanziarie.

Importante è anche l’adozione di provvedimenti normativi a li-

vello nazionale ed europeo in grado di rafforzare il sistema di con-

trasto e prevenzione.

Pienamente aderenti a tale principio sono le misure che il Go-

verno italiano ha adottato il 10 febbraio scorso, prevedendo nuove

condotte delittuose (tra cui la punibilità dell’auto-addestramento e

quella di reclutatori e reclutati), un’integrazione delle misure di

contrasto delle attività terroristiche condotte con mezzi informatici

e telematici, nuove norme in materia di misure di prevenzione per-

Le implicazioni per l’intelligence 165

sonali e di espulsione dello straniero per motivi di prevenzione del

terrorismo, nuove norme sui precursori di esplosivi, provvedimen-

ti che ampliano il perimetro giuridico entro cui l’intelligence ita-

liana può operare nell’attività di contro-terrorismo.

A livello europeo, è fortemente auspicabile l’adozione di prov-

vedimenti che garantiscano la libera circolazione all’interno

dell’UE, ma al contempo rafforzino il controllo sulle frontiere

esterne. Tra gli strumenti che possono sicuramente contribuire ad

agevolare il controllo di coloro che vogliono raggiungere le zone

di guerra e di coloro che tornano da tali aree e possono potenzial-

mente condurre azioni violente, rientrano l’implementazione del

Sistema d’informazione Schengen di seconda generazione (Sis II)

e la Direttiva Pnr (Passenger Name Record). Tale iniziativa, pre-

sentata dalla Commissione europea nel 2011, obbligherebbe i vet-

tori aerei a fornire alle autorità competenti (Forze di polizia e Ser-

vizi d’informazione) degli Stati membri i dati dei passeggeri che

entrano in Europa o che lasciano il territorio dell'Unione, per con-

trastare i reati gravi e il terrorismo, garantendo allo stesso tempo la

tutela della privacy. L’analisi dei dati forniti consentirebbe di fo-

calizzare la ricorrenza di voli di determinati passeggeri, ovvero di

tratte ripetutamente utilizzate, in modo da individuare le tratte po-

tenzialmente a rischio o i soggetti suscettibili di ulteriore interesse

informativo. Un segnale importante in questa direzione è rappre-

sentato dalla risoluzione sulla lotta al terrorismo adottata, a lar-

ghissima maggioranza, l’11 febbraio scorso dal Parlamento euro-

peo che prevede, tra l’altro, l’adozione della Direttiva Pnr entro

l’anno.

Il terzo livello di risposta al terrorismo jihadista – necessaria-

mente congiunto agli altri due (militare e prevenzione) – si pone

su un piano politico e dei valori. Deve essere sviluppata un’accorta

politica che eviti facili strumentalizzazioni e muova, al contrario,

verso una dimensione inclusiva e in grado di alleviare frustrazioni

o risolvere problemi di parti della popolazione che possono ali-

mentare scelte estremiste al di là della spinta puramente religiosa.

Il tutto affiancato da programmi di deradicalizzazione per insegna-

re ad apprezzare i valori europei.

166 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Conclusioni

Il terrorismo jihadista, come detto in esordio, è una minaccia irri-

ducibile con cui dovremo confrontarci per un lungo periodo.

L’Europa deve avere la capacità di rispondere come una grande

democrazia, non limitando drasticamente le libertà fondamentali

(come quella di movimento), ma usando tutte le armi tipiche della

democrazia, compresa l’opinione pubblica che, a mio parere, non

rappresenta un punto di debolezza – come ritenuto dalle organiz-

zazioni terroristiche – ma un punto di forza.

La risposta al terrorismo deve, al contempo, muoversi sul ter-

reno militare, della prevenzione e dei valori, puntando a isolare e

colpire la minaccia quando è ancora nel suo stato d’incubazione;

bisogna cioè anticipare la soglia di prevenzione per diminuire il

tasso d’imprevedibilità.

11. Le implicazioni per la politica degli aiuti e dell’immigrazione

Lia Quartapelle

Stati deboli, fragili, falliti, in crisi: un tema affrontato da anni dalla

letteratura internazionale sul nesso tra istituzioni e sviluppo, con

l’obiettivo di capire quali misure possano aiutare il rafforzamento

della capacità degli stati per fare fronte alle sfide multidimensiona-

li del sottosviluppo. Una problematica portata con violenza alla

ribalta del policy-making dalla minaccia jihadista: il terrorismo di

matrice fondamentalista cresce, si addestra, s’insedia in situazioni

di debolezza delle istituzioni statuali e questa debolezza istituzio-

nale ne rende il contrasto endogeno complicato. Al tempo stesso,

l’emergere di un attore che vorrebbe farsi stato come il sedicente

Stato Islamico (IS), o Daesh, avviene in contesti nei quali

l’assenza o lo sgretolarsi delle istituzioni centrali salda

un’ideologia fanatica ai bisogni dei cittadini, altrimenti non corri-

sposti, alimentando con il consenso un estremismo altrimenti de-

stinato a restare confinato in frange assolutamente minoritarie del-

la popolazione. Queste caratteristiche della relazione tra il terrori-

smo di matrice islamica e la fragilità delle istituzioni ha implica-

zioni in particolare per le nostre politiche di cooperazione interna-

zionale. Questo capitolo cercherà di evidenziare come, nel

contrasto al terrorismo, l’Italia debba elaborare strategie

d’intervento in contesti di fragilità che espandano i tradizionali

formati d’interventi di cooperazione internazionale e umanitaria

alla dimensione del sostegno delle istituzioni e alla gestione dei

flussi di migrazione.

168 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Terrorismo e politiche d’aiuto: un dibattito aperto

Gli attacchi dell’11 settembre avevano già presentato in modo

molto evidente che, nelle parole di Colin Powell, «il terrorismo

fiorisce in contesti di povertà, disperazione e mancanza di speran-

za, dove le persone non vedono un futuro. Dobbiamo dimostrare

alle persone che sono tentate dal terrorismo che c’è un altro siste-

ma»1. Per questo, a partire dal 2001, si è sviluppata una vasta lette-

ratura sul legame tra aiuti e terrorismo, con l’obiettivo di legare il

dibattito sull’efficacia degli aiuti al tema non solo della lotta con-

tro la povertà ma anche a quello del contrasto al terrorismo2.

La pratica della cooperazione internazionale, a parte alcune ec-

cezioni – tra cui ad esempio il meccanismo incentivante del Mil-

lennium Challenge Account varato dal presidente americano

George W. Bush – non ha però adattato la capacità d’intervento

alle sfide poste dall’emergere di fenomeni di terrorismo. Questo è

avvenuto per due ordini di fattori: da un lato perché si confidava in

un sicuro quanto lento “trickle down effect” degli aiuti sulle con-

dizioni di vita delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, che

avrebbe favorito il contrasto all’insorgere di fenomeni di estremi-

smo terrorista. Quindi, fintanto che si erogavano aiuti efficaci, si

riteneva che automaticamente questi avrebbero contrastato il terro-

rismo, migliorando le condizioni di vita delle popolazioni.

Dall’altro lato, non c’è stata reale riflessione su come favorire nel-

la pratica la complementarietà e le sinergie tra agenda della coope-

razione internazionale e agenda della lotta al terrorismo perché

condotte da attori molto diversi tra loro, spesso animati da recipro-

co scetticismo se non da diffidenza. Le esperienze di Civil-

Military-Cooperation in Afghanistan, ad esempio, sono state og-

getto di analisi e dibattito acceso non solo tra i practitioners, in vir-

tù proprio della commistione tra strumento militare e intervento

umanitario, che per definizione dovrebbe invece essere un interven-

1 T.S. Purdum, D.E. Sanger, “Forum in New York: The meeting. 2 Top Officials Offer Stern Talk On U.S. Policy”, The New York Times, 2 febbraio 2002. 2 J.P. Azam, A. Delacroix, “Aid and the delegated fight against anti-terrorism”, Re-view of Development Economics, vol. 10, n. 2, maggio 2006, pp. 330-344.

Le implicazioni per la politica degli aiuti e dell’immigrazione 169

to neutrale3. Le critiche più radicali contrastavano l’impianto stesso

della cooperazione civile-militare come modalità che indeboliva gli

effetti positivi di stabilizzazione nel lungo periodo degli aiuti, per-

ché se erogati in un meccanismo legato a interventi militari occiden-

tali questi avrebbero stimolato pulsioni e ideologie radicali piuttosto

che sopirle.

L’emergere del terrorismo jihadista nelle pieghe del fallimento

degli stati, come ulteriore fallimento delle Primavere arabe, ha pe-

rò spostato la necessità di ragionare sulle modalità d’intervento

della cooperazione nel contesto degli stati deboli o fragili. La coo-

perazione internazionale può essere un utile strumento di contrasto

al terrorismo non solo se produce condizioni di benessere econo-

mico che generano speranza, ma soprattutto se rafforza le istitu-

zioni statuali dei paesi a rischio di terrorismo o d’insediamento di

gruppi terroristici. La questione dell’aiuto pubblico allo sviluppo

come strumento di sostegno per le istituzioni non è quindi più un

elemento di discussione solo perché le istituzioni sono fondamen-

tali per la crescita, ma perché istituzioni funzionanti sono il mi-

glior deterrente, la migliore difesa contro minacce terroristiche,

che altrimenti devono essere affrontate dall’esterno con interventi

– non solo strettamente militari, ma anche d’intelligence (si pensi

ad esempio ai casi somalo o pakistano4) – che vengono vissuti più

come intrusione che come azione efficace. Inoltre, gli aiuti (am-

piamente intesi) possono essere uno strumento di leverage in que-

gli stati che sono ambigui nella gestione del fenomeno del terrori-

smo di matrice fondamentalista, come la vicenda nigeriana ha reso

evidente5.

3 D. Rieff, “How NGOs became pawns in the war on terrorism”, New Republic, http://www.newrepublic.com/blog/foreign-policy/76752/war-terrorism-ngo-perversion (12 marzo 2015). 4 V. Nasr, The Dispensable Nation: American Foreign Policy in Retreat, Doubleday, New York, 2013. 5 La gestione del contrasto a Boko Haram da parte del governo nigeriano ha solleva-to molte perplessità sia tra gli alleati regionali che tra i donatori tradizionali del paese, a partire dagli Stati Uniti. Vedi ad esempio J. Campbell, U.S. Policy to Counter Nigeria’s Boko Haram, Council Special Report, 2014, http://www.cfr.org/nigeria/us-policy-counter-nigerias-boko-haram/p33806 (26/03/2015).

170 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Le priorità italiane

Per l’Italia questa riflessione si fa ancora più stringente: la voca-

zione mediterranea del nostro paese pone in modo estremamente

evidente l’urgenza di approntare strumenti per interagire in conte-

sti fragili e in via d’indebolimento, come tutti quei contesti che si

confrontano con le conseguenze delle Primavere arabe. Le nostre

priorità geografiche sottolineano la necessità di elaborare al più

presto politiche d’intervento in situazioni di fragilità: dei venti

paesi prioritari della Cooperazione italiana , infatti, otto (Sudan,

Sud Sudan, Etiopia, Mozambico, Kenya, Somalia, Pakistan, Af-

ghanistan) sono classificati tra i primi venti paesi nell’indice degli

stati fragili, elaborato ogni anno dal Fund for Peace e pubblicato

da Foreign Policy, e sono presenti con sistematicità in altri indici e

studi sulla debolezza delle istituzioni. Inoltre, riteniamo prioritari

altri due paesi, il Libano e la Tunisia, che risentono in modo evi-

dente della situazione di fallimento di stati confinanti (rispettiva-

mente Siria e Libia). La metà dei paesi prioritari dei nostri inter-

venti di cooperazione quindi è interessata dalla problematica della

debolezza o del fallimento degli stati.

Nonostante nella normativa che disciplina la cooperazione in-

ternazionale, la legge 11 agosto 2014, n. 125, all’articolo 1, si dica

che:

La cooperazione allo sviluppo, nel riconoscere la centralità della

persona umana, nella sua dimensione individuale e comunitaria,

persegue, in conformità coi programmi e con le strategie inter-

nazionali definiti dalle Nazioni Unite, dalle altre organizzazioni

internazionali e dall’Unione europea, gli obiettivi fondamentali

volti a: (...)

b) tutelare e affermare i diritti umani, la dignità dell’individuo,

l’uguaglianza di genere, le pari opportunità e i princìpi di demo-

crazia e dello Stato di diritto;

prevenire i conflitti, sostenere i processi di pacificazione, di ri-

conciliazione, di stabilizzazione post-conflitto, di consolidamen-

to e rafforzamento delle istituzioni democratiche,

non è ancora stata sedimentata una riflessione operativa su come

l’Italia possa sostenere le istituzioni dei paesi beneficiari dei nostri

Le implicazioni per la politica degli aiuti e dell’immigrazione 171

interventi, soprattutto in situazioni di post-conflitto. La lacuna ita-

liana è ancora più evidente se si fa riferimento a quanto elaborato

dalla letteratura internazionale in questi anni: vi sono infatti molte

linee guida a proposito, a partire dai Dieci principi per gli stati fra-

gili dell’Oecd-Dac fino a una vasta letteratura “how-to” prodotta

(e utilizzata) soprattutto dal Dfid, il Dipartimento per la coopera-

zione internazionale del Regno Unito.

Il nostro paese si è invece mosso in modo più selettivo: l’Italia

da anni è impegnata a sostenere la crescita delle capacità delle isti-

tuzioni in alcuni ambiti specifici e prevalentemente tecnici. Il pri-

mo settore nel quale essa ha deciso, per esempio, di essere capofila

è quello dell’e-governance. Nel prossimo Documento di pro-

grammazione triennale 2015-2017 della Cooperazione italiana uno

dei settori d’intervento sarà il rafforzamento della capacità dei si-

stemi statistici.

Al di là del sostegno settoriale, c’è stato un intervento di raf-

forzamento istituzionale più propriamente inteso nei paesi post-

conflitto in cui l’Italia è presente. Anche in considerazione delle

ridotte risorse a disposizione della cooperazione internazionale,

l’Italia si è ritagliata un ruolo in alcuni paesi all’interno della divi-

sione del lavoro con gli altri partner internazionali nell’ambito del

rafforzamento delle istituzioni giudiziarie o carcerarie oppure de-

gli enti locali. L’esempio più di successo è il contributo italiano

alla riforma del sistema giudiziario in Afghanistan, dove il nostro

paese è stato capofila dell’intervento internazionale per ricostruire

uno stato di diritto nel paese. Ci sono poi stati gli interventi in

Mozambico nel settore della giustizia minorile, a partire dai primi

anni dopo la fine del conflitto civile, o l’aiuto offerto fin dal 2007

– cioè subito dopo l’avvio dell’operazione Unifil – agli enti locali

libanesi nell’ambito della finanza locale. Si è trattato di impegni

significativi per i risultati ottenuti per i paesi beneficiari e per

l’autorevolezza riconosciuta in loco alla Cooperazione italiana,

che però non ne ha fatto una linea di continuità prioritaria

d’intervento anche in altri paesi o contesti.

Un altro strumento utilizzato per il contrasto all’instabilità (e

quindi al terrorismo di matrice fondamentalista) è stato quello del

172 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

rafforzamento della cooperazione militare e del sostegno alle isti-

tuzioni militari di paesi in transizione, attraverso strumenti di coo-

perazione legati al Ministero della Difesa. L’Italia, insieme al Re-

gno Unito, è stato ad esempio l’unico paese a dare un contributo

alla creazione e all’addestramento di un vero esercito nazionale

libico, che provasse a integrare e amalgamare in un’istituzione na-

zionale le diverse articolazioni tribali e politiche in cui è mano a

mano andata frantumandosi la società libica. Il precipitare della

situazione in Libia ha però interrotto l’addestramento presso

l’accademia di Montecassino di alcune centinaia di soldati libici,

fermando un’azione che certamente avrebbe contribuito al raffor-

zamento di istituzioni unitarie e solide nel paese mediterraneo. La

vicenda della Nigeria è però paradigmatica delle difficoltà connes-

se con questo tipo di assistenza: nel corso della storia nigeriana,

l’esercito è stato un attore di primo piano. Così, negli anni Novan-

ta, sempre l’esercito nigeriano ha svolto un ruolo cruciale di stabi-

lizzazione della regione. Negli ultimi anni, però, questo stesso

esercito si è dimostrato profondamente deficitario e debole nel

contrasto a Boko Haram.

Ripensare la strategia di cooperazione: alcune proposte

L’esperienza nell’ambito del rafforzamento istituzionale della no-

stra cooperazione e le esigenze del contrasto al terrorismo in al-

meno metà dei paesi dove l’Italia è presente suggeriscono quindi

alcune linee d’azione che dovrebbero portare a un ripensamento

della strategia di cooperazione internazionale come tassello della

lotta al terrorismo globale:

l’Italia deve dotarsi al più presto di un documento di riflessio-

ne strategica su come si possa intervenire nei contesti di stati

fragili, deboli o di stati falliti, declinando gli impegni interna-

zionali in questo senso con le lezioni apprese dalla nostra

Cooperazione italiana in contesti quali Afghanistan, Libano e

Libia;

Le implicazioni per la politica degli aiuti e dell’immigrazione 173

in considerazione delle priorità geografiche della nostra coo-

perazione, del posizionamento geografico e della vocazione

mediterranea della nostra politica estera, nonché in considera-

zione delle relativamente ridotte risorse a disposizione della

cooperazione, l’Italia dovrebbe identificare nelle azioni di so-

stegno alle istituzioni una possibile area d’intervento priorita-

rio, con particolare riferimento alle azioni di sostegno al setto-

re della giustizia e a quello del rafforzamento delle capacità di

polizia interna;

l’esperienza italiana, sia politica sia di soluzioni giuridiche e

amministrative, rispetto a situazioni di forte spinta di autono-

mia locale dovrebbe poter essere messa a disposizione in quei

contesti in cui la statualità centrale viene continuamente inde-

bolita da spinte localistiche;

facendo leva sulla grande esperienza maturata in ambito di

peace-keeping internazionale, nel quale viene riconosciuto

uno specifico modo di lavorare italiano, che sa coniugare ope-

razioni militari con cooperazione civile, il nostro paese po-

trebbe produrre riflessioni poi estendibili ad altri paesi alleati

su come associare cooperazione e strumento militare in conte-

sti di fragilità.

Le istituzioni dei paesi del Mediterraneo sono però messe a dura

prova anche dalla gestione di una crisi umanitaria senza preceden-

ti. L’instabilità derivante dalla “Primavera araba” ha infatti deter-

minato movimenti di uomini e donne che sono epocali6 nella re-

gione del Mediterraneo e del Vicino Oriente. La confusione tra

immigrazione e terrorismo portata avanti da alcune forze populiste

europee non deve essere in alcun modo incoraggiata. Resta però il

fatto che la gestione di un’emergenza immigrati senza precedenti

sta pesando su istituzioni statuali già oberate da sforzi per il con-

trasto al terrorismo.

6 O. Karasapan, “The impact of Libyan middle-class refugees in Tunisia”, Brookings, http://www.brookings.edu/blogs/future-development/posts/2015/03/17-libyan-refugees-tunisia-karasapan (23/03/2015).

174 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

La crisi siriana, dichiarata la crisi umanitaria, politica e di svi-

luppo più difficile del nostro tempo da parte del sistema delle Na-

zioni Unite, è la situazione emergenziale più preoccupante: a quat-

tro anni dalle prime rivolte, 11,6 milioni di siriani non hanno ac-

cesso a fonti dirette di acqua corrente e quasi dieci milioni di cit-

tadini siriani hanno bisogno di assistenza alimentare. L’accesso

agli aiuti umanitari, nonostante siano aumentati i bisogni, si è ri-

dotto: rispetto al 2013, solo metà (circa 1,1 milioni) delle persone

che vivono nelle zone di guerra è riuscita ad avere accesso agli

aiuti rispetto al 2013 (2,9 milioni). Non sorprende nessuno quindi

se i rifugiati fuori dalla Siria sono ormai 3,9 milioni di persone,

mentre 7,6 milioni di cittadini hanno lasciato le loro case cercando

possibilità di sopravvivenza nei campi all’interno del paese.

La vicenda libica, in continuo peggioramento, ha prodotto

400mila rifugiati all’interno del paese, cui si sommano almeno

36mila rifugiati da altri paesi in transito verso l’Europa7, e

500mila rifugiati presenti in Tunisia, soprattutto di famiglie libiche

relativamente più abbienti della media tunisina. Il rafforzarsi del

Daesh in Iraq ha prodotto nella seconda metà del 2014 quasi due

milioni di rifugiati all’interno del paese.

La pressione di ondate straordinarie di rifugiati è a tutti gli ef-

fetti un fattore di ulteriore instabilità in contesti già compromessi.

I rifugiati libici, ad esempio, insistono per la maggior parte sul

contesto tunisino dove la loro presenza al momento, pure costi-

tuendo quasi il 10 per cento della popolazione tunisina, è meno

impattante di quanto potrebbe diventare, grazie alla loro capacità

di spesa. L’impatto dei rifugiati siriani in Turchia, Libano e Gior-

dania è invece più marcato: sia in Giordania che in Libano, un abi-

tante su cinque è un rifugiato siriano, con effetti particolarmente

rilevanti rispetto alle capacità di fornitura dei servizi pubblici es-

senziali (in Libano, uno scolaro su due è un rifugiato siriano), o

quello prodotto sulla finanza pubblica (la sola Turchia, ad esem-

pio, spende per i 600mila rifugiati siriani che ospita più del doppio

di quello che spende tutta l’Unione Europea per l’intera emergen-

7 UNHCR, Libya Factsheet, UNHCR Factsheet, febbraio 2015, http://www.unhcr.org/4c907ffe9.pdf (23/03/2015).

Le implicazioni per la politica degli aiuti e dell’immigrazione 175

za Siria, sia a sostegno dei campi profughi nel Vicino Oriente, sia

per l’accoglienza dei rifugiati siriani dentro i confini dell’Unione).

Le situazioni giordana e libanese sono quelle che destano più

preoccupazioni, non solo perché assorbono un numero estrema-

mente alto di rifugiati provenienti dalla Siria, ma perché sono due

paesi che nel passato hanno già dovuto fare i conti con l’ondata di

rifugiati palestinesi, e perché si destreggiano da anni con equilibri

interni molto delicati che tengono anche conto del peso relativo

dei rifugiati palestinesi. A quest’emergenza, che a quattro anni

dalle Primavere arabe si è sostanzialmente trasformata in dato di

fatto strutturale, l’Unione Europea ha risposto con un’operazione

di controllo dei confini, l’operazione Triton, e con l’annuncio di

una revisione delle politiche di accoglienza dei rifugiati che ren-

dano la gestione della problematica davvero europea. Sebbene

l’operazione Triton rappresenti comunque una svolta rispetto

all’operazione Mare Nostrum – solo italiana e che contraddiceva

quello che altri paesi europei facevano (Spagna, Grecia, molto duri

nel contrasto all’arrivo di barconi) –, perché con essa l’Unione Eu-

ropea si è assunta collettivamente la responsabilità delle proprie

frontiere, e quindi della gestione di chi le attraversa scappando da

situazioni inumane, sappiamo che non è abbastanza in termini di

gestione del fenomeno migratorio. L’annuncio di ripensare alle

politiche europee in materia d’immigrazione conferma la tendenza

inaugurata con Triton, ovvero quella di un’assunzione collettiva

europea di responsabilità sui rifugiati. Un impegno che, insieme

alle recenti sentenze della Corte europea dei diritti umani, di fatto

sta smantellando l’idea fondante del Trattato di Dublino, ovvero

che i rifugiati debbano essere gestiti dal primo paese in cui arriva-

no.

Il tema degli stati fragili dovrebbe diventare quindi importante

anche in materia di politiche europee dell’immigrazione. Perché

l’Unione Europea non può a questo punto gestire direttamente una

quota dei rifugiati del conflitto siriano, che scappano da IS, che

fuggono dal regime eritreo, aiutando i paesi limitrofi e gestendo da

lì il loro arrivo in Europa attraverso politiche di reinsediamento?

Sarebbe un gesto che da un lato alleggerirebbe il peso sostenuto in

176 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

questo momento da Turchia, Libano, Giordania, Tunisia ed Egitto,

alleati cruciali nel contrasto al terrorismo che rischiano di collassa-

re sotto il peso della gestione di un’emergenza complessa come

quella dei rifugiati. E sarebbe certamente un aiuto a stati con isti-

tuzioni già fragili, ma messe ancora più a rischio dalle conseguen-

ze delle guerre ai confini. La disponibilità a una più robusta acco-

glienza da parte dei paesi europei potrebbe poi essere un modo per

avere anche una leva nel rapporto con i paesi dell’area, chiedendo

loro maggiore impegno contro traffico e flussi illegali di migranti.

Conclusioni

Le conseguenze delle Primavere arabe sono state molteplici. Tra le

tante, è emerso in modo incontrovertibile il problema di avere a

che fare con attori statuali indeboliti o fragili. Si tratta di un ele-

mento che rende ogni tentativo di contrasto al terrorismo più diffi-

cile da essere perseguito. Le politiche di cooperazione in questi

anni hanno cercato di rispondere alla sfida della debolezza degli

stati come prerequisito per politiche efficaci di crescita e sviluppo

economico e sociale. È nel nesso tra politiche di cooperazione e

rafforzamento delle istituzioni che si apre uno spazio interessante

per l’azione dell’Italia nel contrasto al terrorismo jihadista nel lun-

go periodo. Una volta riconosciuto il problema, ovvero che il ter-

rorismo islamista s’insedia in situazioni di collasso o fragilità de-

gli stati, beneficia d’istituzioni deboli e può essere contrastato ef-

ficacemente solo da istituzioni nazionali comparativamente più

robuste, l’Italia dovrebbe al più presto adeguare le proprie politi-

che di cooperazione internazionale a questa sfida. Con due tipi

d’intervento: da un lato dotandosi di linee guida d’intervento a so-

stegno delle istituzioni, sia come interventi di sviluppo, sia

all’interno di una riflessione sulla cooperazione civile e militare.

Dall’altro, dovrebbe influenzare la costruzione di una politica mi-

gratoria europea che attraverso azioni di reinsediamento contenga

i rischi e i costi dei rifugiati nei paesi con istituzioni messe a dura

prova dalle Primavere arabe e nostri alleati nella lotta al terrori-

smo.

Gli Autori

Andrea Beccaro, Ph.D. in Scienze Strategiche, è DAAD Fellow

presso l’Otto-Suhr-Institut für Politikwissenschaft, Freie Univer-

sität di Berlino, già docente a contratto di Relazioni internazionali

(corso avanzato) presso la Scuola Universitaria Interfacoltà di

Scienze Strategiche di Torino. I suoi interessi di ricerca spaziano

dallo studio delle caratteristiche della conflittualità contempora-

nea, alla teoria strategica, dalla guerra irregolare ai conflitti medio-

rientali con particolare riferimento all’area irachena e siriana. Tre

le sue pubblicazioni principali: La guerra in Iraq, il Mulino 2013

e C.E. Callwell, Small Wars. Teoria e prassi dal XIX secolo

all’Afghanistan, LEG, 2012.

Laurentina Cizza studia Relazioni internazionali e i paesi del

Medio Oriente presso la Johns Hopkins School of Advanced In-

ternational Studies (Sais) a Washington DC. In passato ha lavorato

come assistente di ricerca presso il Middle East Institute (Mei), e

Global Policy Advisors (Gpa), società di consulenza sul rischio

politico a Washington DC.

Fabrizio Coticchia è Jean Monnet Fellow all’Istituto Universita-

rio Europeo (Eui) di Fiesole. In precedenza è stato Research Fel-

low alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Ha conseguito il tito-

lo di dottore di ricerca in Political Systems and Institutional Chan-

ge presso l’IMT, Lucca. È titolare di corsi di Teoria di Relazioni

Internazionali e Geopolitica in varie università italiane. I suoi temi

di ricerca riguardano in particolare la politica estera e di difesa ita-

liana, la trasformazione militare europea, il rapporto tra opinione

pubblica, retorica politica e operazioni militari. È editor del blog

dedicato ai temi della difesa e della sicurezza “Venus in Arms”.

178 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Giovanni Giacalone è sociologo e islamologo, MA in Islamic

Studies alla Trinity Saint David University of Wales, si occupa da

tempo di Islam politico e radicalismo di matrice religiosa in Italia,

nei Balcani e in Caucaso. Analista per Itstime, Rimse, Serbianna,

ha pubblicato diverse analisi e articoli per istituti e testate naziona-

li e internazionali.

Paolo Maggiolini, Ph.D. in Istituzioni e Politiche presso

l’Università Cattolica di Milano, è Ispi Research Fellow e collabo-

ra con l’Università Cattolica di Milano. Le sue ricerche si focaliz-

zano sul rapporto tra religione e politica in Medio Oriente, con

particolare attenzione alla dimensione del radicalismo islamico e

ai contesti di Israele, Giordania e Palestina.

Karim Mezran è Resident Senior Fellow presso il Rafik Hariri

Center for the Middle East dell’Atlantic Council di Wahington. Si

occupa di Libia, Nord Africa e di tematiche legate alla transizione

araba, alla democrazia e ai diritti umani, e più generalmente di te-

mi di politica e sicurezza del Medio Oriente. È stato a lungo diret-

tore del Centro studi americani di Roma e docente presso il Bolo-

gna Center della Johns Hopkins University e della John Cabot

University (Roma). Ha conseguito un master in Arab Studies pres-

so la Georgetown University (Washington) e un titolo di dottore di

ricerca in Relazioni internazionali presso la Johns Hopkins School

of Advanced International Studies (Sais) di Washington.

Marco Minniti è Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Con-

siglio – Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. È sta-

to Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio nel I Go-

verno D’Alema, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Con-

siglio con delega ai servizi per le informazioni e la sicurezza nel II

Governo D’Alema, Sottosegretario di Stato alla Difesa nel II Go-

verno Amato, Vice Ministro dell’Interno nel II Governo Prodi e

Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio – Autorità

delegata per la sicurezza della Repubblica nel Governo Letta.

Wolfgang Pusztai è colonnello dell’Esercito austriaco. Studioso

di tematiche legate alla politica e sicurezza del Nord Africa e del

Medio Oriente, collabora e scrive analisi per diversi think tank in-

Gli Autori 179

ternazionali, tra i quali Atlantic Council, ISPI e IAI, e varie impre-

se. È stato attachè militare per la Libia dal 2008 al 2012.

Lia Quartapelle è Associate Research Fellow del programma

Africa dell’ISPI di cui è stata ricercatrice residente fino al 2012.

Deputata della XVII Legislatura della Repubblica Italiana nella

circoscrizione III Lombardia per il Partito Democratico, fa parte

della Commissione Esteri, di cui è membro dell’Ufficio di presi-

denza. È inoltre membro dell’Assemblea nazionale del Partito

Democratico. È stata cultrice della materia presso la cattedra di

Storia e istituzioni dell’Africa dell’Università di Pavia, dove ha

insegnato presso il corso di Politiche per lo sviluppo. Ha lavorato

presso la Cooperazione Italiana in Mozambico.

Riccardo Redaelli è professore ordinario di Geopolitica e di Sto-

ria e istituzioni dell’Asia presso la Facoltà di Scienze Politiche e

Sociali dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, nonché

direttore del Centro di Ricerche sul Sistema Sud e il Mediterraneo

Allargato (CRiSSMA) dell’Ateneo. Direttore del master MIMES

(Master in Middle Eastern Studies) dell’Alta Scuola di Economia

e Relazioni Internazionali (ASERI) è inoltre coordinatore scienti-

fico del Centro di studi internazionale di Geopolitica (Cestingeo)

di Valenza e membro del Consiglio Scientifico di Asia Major.

Stefano M. Torelli, Ph.D. in Storia delle Relazioni internazionali

presso l’Università La Sapienza di Roma, è Research Fellow

dell’ISPI. Le sue ricerche si focalizzano sulla politica mediorienta-

le, i movimenti islamisti e le varie forme di islam politico, con

particolare riferimento al Nord Africa e alla Tunisia. È docente a

contratto di Storia e Istituzioni del Medio Oriente allo IULM di

Milano e collabora con la cattedra di Storia e Istituzioni dei paesi

islamici all’Università degli Studi di Milano. Coordina i cicli di

International Lecture per ISPI, dove insegna presso i corsi di for-

mazione sulle nuove forme di terrorismo. Ha pubblicato e curato

diversi volumi e articoli sull’islamismo nell’area nordafricana e

sull’evoluzione del processo di transizione politica in Tunisia, an-

che in chiave comparatistica, per riviste italiane e internazionali e

per l’Osservatorio di Politica Internazionale di Camera e Senato.

180 L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?

Arturo Varvelli è responsabile del Programma Terrorismo

dell’ISPI. È Ph.D. in Storia Internazionale presso l’Università de-

gli Studi di Milano. È docente a contratto di Storia e Istituzioni del

Medio Oriente allo IULM di Milano e coordinatore del corso di

formazione sulle nuove forme di terrorismo presso l’ISPI. Ha

pubblicato diversi volumi e articoli sulle relazioni italo-libiche,

sulla politica interna ed estera della Libia, sulla politica estera ita-

liana nelle regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente e sulle

formazioni terroristiche dell’area. Partecipa a progetti di ricerca e

analisi per l’ufficio studi di Camera e Senato, per il Ministero de-

gli Esteri e per il Parlamento europeo.