Politica Economica_MAGAZZINO-14.Politica dei redditi e dei prezzi

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COSIMO MAGAZZINO 1

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COSIMO MAGAZZINO

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L’obiettivo della politica dei redditi (P.d.R.) è di evitare l’aumento del livello generale dei prezzi, attraverso qualche genere di controllo delle variabili distributive (il salario e il margine di profitto).

Produttività: rapporto tra la quantità di output e le quantità di uno o

più input utilizzati per la sua produzione. Viene calcolata con riferimento alla singola impresa, all’industria o più in generale al Paese. L’inflazione può essere vista come una gara competitiva per accrescere la

quota del reddito sociale. Essa viene meno se varie classi di percettori di reddito mantengono invariate le loro quote di reddito, ovvero se esse si accordano sul modo in cui le quote debbono variare, facendo corrispondere all’aumento di una, la pari riduzione dell’altra.

Cuneo fiscale: differenza tra costo del lavoro e reddito da lavoro, dovuta al prelievo fiscale.

Costo del Lavoro per Unità di Prodotto (CLUP) = (WL)/Y =

W/(Y/L) dove W: salario corrisposto, L: numero dei lavoratori impiegati, Y:

ammontare di produzione, Y/L=π: produttività media del lavoro. 2

In un sistema economico chiuso, in cui venga prodotto un solo bene, dove non esista capitale fisso e vi siano soltanto 2 categorie di percettori di reddito (salariati e capitalisti), il valore complessivo del prodotto è:

pY = W + R dove p: prezzo, Y: quantità, W: massa salariale, R: massa dei profitti. Inoltre,

W = wN dove w: salario unitario nominale, N: numero di occupati. Pertanto,

dividendo ambo i membri per Y abbiamo: W può essere espressa come funzione del saggio di profitto ovvero come

prodotto del margine di profitto sul costo di produzione per il costo stesso. In tal caso, poiché il costo di produzione è rappresentato solo da w, indicando con g il mark-up, si ha:

R = wNg la quale è l’equazione del mark-up, che esprime il “principio del costo

pieno”. 3

Considerando che la produttività media del lavoro è pari a:

= Y/N per sostituzione si ha: In termini dinamici, le variazioni del prezzo possono essere espresse così: Condizione sufficiente affinché non vi sia inflazione (p=0) è che w=

e che (1+g)=0. Cioè, non vi è p se il saggio di salario nominale varia nella stessa misura della produttività e il margine di profitto non muta. In essenza, questo è il contenuto della “Regola fondamentale di politica dei redditi”.

Se entrambe le condizioni succitate sono verificate, si ha costanza delle quote distributive. L’invarianza dei prezzi richiede determinati comportamenti da entrambe le

classi di percettori di reddito. Tuttavia, vi può essere invarianza dei prezzi ma variazione delle quote distributive: se w≠, ma (1+g)≠0, e compensi tale differenziale di crescita tra w e , crescendo in senso opposto. Es.: p=0, w=10%, =6% e (1+g)=-4%.

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Vi sono dei settori nei quali la dinamica di non è cresciuta e non crescerà per nulla nei secoli; BAUMOL mise in luce ciò in riferimento al settore delle arti dal vivo. Egli sottolineò che per suonare un quartetto di Mozart occorreranno in ogni tempo 4 musicisti, rimanendo invariati i tempi di esecuzione, di studio e di apprendimento. Similmente, per mettere in scena un’opera teatrale.

In altre parole, la produttività del lavoro di musicisti e attori non è per nulla cresciuta nel corso dei secoli. Ciononostante, sarebbe socialmente insostenibile l’implicazione che il salario di queste categorie di lavoratori non debba subire aumenti nel corso del tempo. In realtà, i compensi dei lavoratori di questi settori sono cresciuti in linea con quanto avvenuto per i compensi dei lavoratori di altri settori. Ciò però ha determinato un aumento dei costi medi di produzione nel settore delle arti dal vivo.

La tendenza all’aumento dei costi di produzione nei settori nei quali la produttività del lavoro è costante nel tempo è nota come “morbo dei costi di BAUMOL” (BAUMOL’s cost disease). La conclusione suggerita da BAUMOL è che l’aumento continuo dei costi di produzione, a causa di aumenti salariali non accompagnati da incrementi di produttività, si dovrebbe tradurre in un prezzo reale via via crescente del bene in questione, con l’ulteriore implicazione che la domanda diventi nulla.

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Dal punto di vista del carattere coercitivo assunto, le P.d.R. si

distinguono in: - dirigistiche: sono quelle che impongono ai salariati e/o capitalisti un determinato comportamento nella variazione del salario o del margine di profitto (misure di controllo diretto); - di mercato: consistono nella fissazione da parte dell’ente pubblico non di regole di comportamento, ma di un sistema di incentivi e/o disincentivi per orientare in senso antinflazionistico le scelte autonome dei percettori di reddito (accordo fra le parti sociali che assicuri l’invarianza dei prezzi è premiato con la concessione di sgravi fiscali); - istituzionali: tendono a trasformare in senso cooperativo le relazioni industriali, ossia le relazioni fra capitalisti e lavoratori in materia di salario e trattamenti normativi, mediante un insieme di istituzioni appropriate (procedure di arbitrato, patto sociale).

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In quanto misure di controllo diretto, le politiche dirigistiche dovrebbero

assicurare vantaggi di immediatezza degli effetti nonché di efficacia. Politiche limitate ai salari, raccomandabili per la loro maggiore facilità di

attuazione, non garantiscono un risultato antinflazionistico. Una regola riguardante i salari (ad esempio, loro crescita pari a quella

della produttività: w=) può non assicurare invarianza del prezzo, in presenza di possibili aumenti del margine di profitto.

La possibilità di aumenti dei prezzi, pur in presenza di limitazioni nella variazione dei salari, può essere esaltata dalle condizioni della realtà nelle quali si devono concretamente formulare le regole di P.d.R., in particolare dall’esistenza di diverse industrie con difforme andamento della produttività. In questo caso sono possibili 2 diverse regole: a) quella per cui in ogni industria il salario varia in misura pari alla variazione della produttività dell’industria stessa; b) quella per cui in tutte le industrie la variazione del salario è pari alla variazione della produttività media del sistema.

La prima regola si presta meglio a evitare variazioni di p. La seconda regola, pur essendo più equa, presenta maggiori problemi di efficacia.

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L’ingessamento delle quote distributive, oltre che difficile da ottenere, è

in stridente contrasto con le motivazioni e il modo di operare di un’economia di mercato.

La ragione normalmente addotta per limitarla ai redditi salariali sta nella semplicità di rilevazione del salario, che contrasta con la difficoltà di accertamento del profitto, possibile spesso soltanto a seguito di un approfondito esame di avvenimenti e dati aziendali gelosamente custoditi.

Questa difficoltà ha indotto a integrare la politica salariale con misure di controllo dei prezzi dei prodotti: se è difficile stare dietro ai margini di profitto, i prezzi dei prodotti sono invece visibili e accertabili.

In definitiva, può essere individuato un numero relativamente contenuto di merci i cui prezzi assumono un ruolo chiave per l’intera struttura dei prezzi, tale che un loro controllo penetrante potrebbe garantire il controllo del livello generale dei prezzi.

Tuttavia, le politiche di controllo dei prezzi danneggiano l’efficienza del sistema economico, ponendo vincoli alle forze di mercato.

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Vi sono due tipi di politiche dei redditi di mercato:

1. Un primo tipo si basa sull’idea che l’inflazione sia una sorta di diseconomia esterna, al pari dell’inquinamento. Quindi possono crearsi permessi all’aumento dei prezzi che potranno essere liberamente scambiati nel mercato. Tali politiche conciliano l’obiettivo macroeconomico della stabilità di p con la flessibilità microeconomica da parte delle imprese. Tuttavia in presenza di variazioni diversificate della produttività per settori e, in larga misura, indipendenti dalle condotte aziendali, questo tipo di politiche può penalizzare eccessivamente quei settori che già risultano svantaggiati da una bassa dinamica della produttività. Inoltre le difficoltà di attuare simili proposte sono rilevanti e almeno pari a quelle delle politiche dirigistiche. Ciò può contribuire a spiegare l’assenza di loro realizzazioni pratiche. 2. Un secondo tipo di politiche di mercato mira a creare incentivi per il mancato aumento dei prezzi e disincentivi per il loro aumento attraverso la leva fiscale (P.d.R. legate all’imposizione o tax-based income policies, TIP). Se gli incentivi concessi non p: TIP-carota. Se si sanzionano aumenti eccessivi di p attraverso imposte: TIP-bastone.

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Si può cercare di evitare le conseguenze inflazionistiche del conflitto distributivo con il fissare di alcune regole del gioco di tale conflitto, ossia con l’introdurre opportune norme e consuetudini di tipo cooperativo o tali da favorire la cooperazione.

Questo può avvenire in 3 modi: 1. Con l’introduzione di un obbligo esplicito di cooperazione o comunque con la previsione di una soluzione di cooperazione di ultima istanza (ad esempio con l’introduzione dell’arbitrato). 2. Con uno scambio economico che prevede, ad esempio, determinati livelli di imposte e sussidi in materia di redditi, politiche del lavoro e politiche industriali per le parti sociali che addivengano a un accordo non inflazionistico in materia salariale e che si comportino comunque in modo non inflazionistico. 3. Attraverso uno scambio politico consistente nella promessa, da parte del governo, di assumere taluni atteggiamenti in materie non puramente economiche tali da coinvolgere l’indirizzo politico generale del governo stesso, fino a giungere a una vera e propria stipulazione di un patto sociale che preveda orientamenti comunemente condivisi dalle parti sociali in materia economica e sociale.

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L’evoluzione della produttività condiziona la coerenza delle variazioni dei

redditi con la stabilità dei prezzi. Se ad esempio la produttività cresce del 2%, una pari variazione dei salari e l’invarianza dei margini di profitto assicurano la costanza dei prezzi. Se, invece, la produttività aumenta del 4% è possibile aumentare i salari, in misura superiore al 2% e/o il margine di profitto, senza che ne derivino effetti inflazionistici.

Si può pensare pertanto che il campo delle scelte di P.d.R. si allarghi se si adottano misure volte ad aumentare il tasso di crescita della produttività. Questa dipende da: a) fattori interni all’impresa: fattori controllati dai lavoratori (i ritmi di lavoro, la preparazione, la qualificazione professionale) e fattori controllati dall’impresa (la tecnologia, la formazione, l’organizzazione del lavoro) b) fattori esterni all’impresa, come i rapporti interaziendali e intersettoriali.

La produttività dell’insieme delle imprese industriali dipende, in particolare, dalla disponibilità di efficienti reti di trasporti e comunicazioni, istituzioni scolastiche e accademiche, centri di ricerca, servizi di informazione, servizi finanziari, etc.

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Per evitare la dispersione degli incrementi di produttività del lavoro

impiegato nelle produzioni dei vari beni rispetto all’incremento della produttività calcolato nella media dell’intera economia, si è proposto di proporzionare gli aumenti salariali agli incrementi di produttività che si registrano non a livello dell’economia nazionale, bensì a livello di aggregati di imprese più circoscritti, e quindi omogenei (Seconda Regola di P.d.R.). Tali aggregati potrebbero essere in ordine crescente di ampiezza: a) le singole industrie: ossia i singoli assiemi di imprese che producono lo stesso bene; b) i singoli rami di attività economica: ossia i singoli assiemi di industrie similari; c) i singoli settori produttivi: quello delle attività agricole, delle attività industriali e dei servizi; d) le singole regioni. L’aumento dei salari non sarebbe dunque uniforme per tutte le imprese

del sistema economico, come nel caso in cui fosse legato all’aumento della produttività nazionale. Tale aumento salariale sarebbe uniforme solo per le imprese appartenenti a uno stesso aggregato. Il fenomeno della dispersione sarebbe così attenuato. 12

La Terza Regola di P.d.R. consiste nell’accordare, ai lavoratori occupati presso le singole imprese, incrementi salariali nella stessa proporzione in cui aumenta la produttività delle rispettive imprese. Si tratta del criterio della massima differenziazione salariale. Rispetto alla Seconda Regola, che conserva l’uniformità salariale per le imprese dello stesso aggregato produttivo, questa Terza contempla invece la possibilità di aumenti salariali differenziati per ciascuna impresa del sistema.

Aumenti salariali uniformi costituiscono un importante stimolo per l’efficienza delle imprese. Dunque, la Seconda e ancor di più la Terza Regola creano una menomazione del principio di efficienza. Infatti, con aumenti salariali uniformi, ciascuna impresa potrà evitare un aumento del C.L.U.P. solo se riuscirà a far aumentare la produttività del proprio lavoro almeno in proporzione alla produttività media del lavoro.

Inoltre, la Terza Regola è in contrasto con un principio di equità tradizionalmente caro ai sindacati, quello che si traduce con l’espressione “paga eguale per eguale lavoro”. I lavoratori impiegati nelle stesse produzioni percepirebbero infatti salari diversi, più o meno elevati a seconda dell’incremento di produttività della specifica impresa presso cui sono occupati. Ciò darebbe origine a “effetti di imitazione” salariale tra i lavoratori delle diverse imprese. 13

Gli esseri umani non lavorano come dei computer: non possono

funzionare ad alte velocità e ininterrottamente, gestendo più programmi in contemporanea. Le persone danno il meglio quando alternano momenti di forte concentrazione ad altri in cui si ricaricano. I dipendenti, quindi, possono aumentare la propria efficienza praticando semplici rituali che alzano i loro livelli energetici, come fare una passeggiata quotidiana per “riprendere fiato” (emotivamente parlando) o spegnere il pc in momenti prestabiliti e potersi così concentrare su altro. Se le imprese non solo consentono, ma addirittura incoraggiano i dipendenti a creare e a praticare abitudini di questo tipo verranno premiate con una forza lavoro più impegnata, produttiva e concentrata.

Ecco quindi il paradosso della produttività: in un ambiente di lavoro è molto più remunerativo e premiante creare un ambiente rilassato, sereno, senza ritmi frenetici ma con la possibilità di prendere brevi e ricorrenti pause tra un task stressante e un altro per poter ricaricare le pile del corpo e della mente.

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Se indichiamo con F la felicità di un individuo (considerandola una

variabile misurabile cardinalmente), con Y il reddito (inteso come mezzi materiali), con R i “beni relazionali”, e ignoriamo altri elementi pur rilevanti, possiamo scrivere: F=f(Y,R). Possiamo esprimere cioè la felicità come una funzione del reddito individuale e dei beni relazionali. Se è vero e ragionevole supporre che l’effetto complessivo del reddito (Y) contribuisce direttamente alla felicità (soprattutto per bassi livelli di reddito), bisogna anche considerare che, dopo aver superato una certa soglia, questo può diventare negativo poiché l’impegno per aumentare il reddito (assoluto o relativo) può produrre sistematicamente effetti negativi sui beni relazionali, sulla qualità e quantità delle nostre relazioni (ad esempio a causa delle risorse eccessive che impieghiamo per aumentare il reddito e che sottraiamo ai rapporti umani e al tempo libero), e quindi, indirettamente, potrebbe smorzare se non ribaltare l’effetto totale diminuendo la felicità. Le diverse ipotesi prima illustrate, insieme ai nostri limiti cognitivi e ai condizionamenti sociali spiegano perché non ci comportiamo razionalmente e superiamo il punto critico.

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- ACOCELLA N., Politica economica e strategie aziendali, Carocci, Roma, 2011 (Capitolo 14). - CELLINI R., Politica Economica, McGraw-Hill, Milano, 2010 (Capitolo 12). - MARZANO A., Politica macroeconomica, U.T.E.T., Torino, 2006 (Capitoli 6 e 7).

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