Dall' "epistola" al "carme". Sul genere metrico-letterario dei "Sepolcri"

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FRANCESCO BAUSI

Dall’“Epistola” al “Carme”.Sul genere metrico-letterario dei «Sepolcri»

a mia madre Gina

Chi seppe tesser pria dell’uom la tela,ritesserla saprà ...

PINDEMONTE, I Sepolcri

Nelle lettere di e a Foscolo degli anni 1806-1807, i Sepolcri risultano quasi sem-pre designati come “epistola”. Di “carme” si comincia a parlare, e sporadica-mente, soltanto dopo la prima edizione, e certo per influenza di essa: carme de-finiscono infatti il componimento Saverio Bettinelli (nella poco tenera lettera alpoeta del 17 giugno 1807)1 e lo stesso Foscolo in una lettera all’abate Giusep-pe Bottelli (traduttore latino dei Sepolcri di Ugo e di quelli del Pindemonte,nonché del sermone foscoliano Pur minacciavi) del 27 novembre 18072. Il det-taglio non è irrilevante, giacché l’intitolazione epistola inscrive i Sepolcri nel-l’ambito di quel fortunato genere poetico – praticato in sciolti fin dal XVI se-colo – dai contorni e dai nomi piuttosto fluttuanti (epistola, sermone, satira),ma comunque caratterizzato sul piano dei contenuti da tematiche personali,quotidiane e morali, e su quello della forma dalla predilezione per uno stile pe-destre e “mezzano” e per un andamento discorsivo e riflessivo (con una apparenzadi prosasticità e di semplicità che solitamente dissimula una raffinata elabora-zione letteraria)3. Il dominante modello, poetico ed esistenziale, di Orazio, pre-

1 FOSCOLO, Epistolario, II, pp. 227-228.2 Ivi, II, p. 311.3 Cfr. MARIO MARTELLI, Le forme poetiche italiane dal Cinquecento ai nostri giorni, in Lette-

ratura italiana, diretta da ALBERTO ASOR ROSA, III. Le forme del testo.Teoria e poesia, Torino, Ei-naudi, 1984, pp. 519-620, alle pp. 564-574 (dove si sottolinea anche come una netta linea didemarcazione fra i vari generi praticati in sciolti sia spesso, fin dal XVII secolo, difficile da trac-ciare, e come tutti potrebbero essere di fatto compresi sotto l’etichetta di “poesia didascalica”).Quanto all’aggettivo pedestris, esso designava propriamente, presso i latini, la prosa (vedi DE

ROBERTIS 1955, p. 538), e per estensione le forme di poesia più dimesse nel tono e nello stile;per il Foscolo dell’epistola al Monti (vv. 17-18), il «fauno pedestre» poteva rimandare alla sati-ra (vedi HOR., Serm., II 6, 17: «quid prius inlustrem saturis musaque pedestri?»), o ai rozzi ver-si saturnii cantati dai Fauni, come diceva Ennio (DE ROBERTIS 1955, p. 539), ma in ogni caso

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siede anche alla bipartizione del genere – evidente fin dai suoi primordi – nellevarianti, peraltro talvolta mescidate e non sempre facilmente distinguibili, del-l’epistola (sentimentale e autobiografica) e del sermone (polemico e satirico, an-che se spesso più bonario, meno aggressivo e stilisticamente più “alto” della sa-tira vera e propria, che d’altronde, per i suoi persistenti legami e con la Com-media dantesca e con la tradizione del capitolo bernesco, continua in molti ca-si a servirsi della terza rima, fino a Parini, ad Alfieri e al medesimo Foscolo deitre capitoli fiorentini del 1813; l’intercambiabilità dei due metri è ancora benpresente a Monti, che traduce le sei satire di Persio alternatamente in terzine ein sciolti); anche se l’equivalenza sermone / satira, nell’epoca che ci interessa, eraormai da tempo passata in giudicato, e senza esitazioni la fanno propria, tra glialtri, Pindemonte, Foscolo e Leopardi4. Comunque sia, la distinzione epistola /sermone si presentava ben chiara, nei termini ora delineati, a poeti quali Mon-ti (rispettivamente con gli sciolti al Chigi e con il sermone sulla mitologia), Pin-demonte (autore di una raccola di Epistole e di una di Sermoni)5, il medesimo

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il Fauno costituisce un ulteriore abbassamento rispetto all’oraziana Musa. Va comunque rileva-to che la iunctura foscoliana è anche un omaggio al destinatario, posto che Monti, nella prefa-zione alla sua traduzione di Persio, aveva parlato di «pedestre idioma latino». «Pedestri compo-nimenti» aveva definito i sermoni Clementino Vannetti (prefazione al suo primo sermone a Pin-demonte, in Opere italiane e latine, VI, Venezia, Alvisopoli, 1831, p. 235; e «sermon pedestri»nel sermone a Ippolito Bevilacqua, v. 195); di «sermon pedestre» parla anche Manzoni nel suoprimo sermone (A Giovan Battista Pagani, 66).

4 Per il Pindemonte vedi Prose campestri, in PINDEMONTE 1990, p. 119 («la satira, o il sermoneche dir vogliamo»); per Leopardi, cfr. Memorie e disegni letterari, dove fra le opere progettate tro-viamo prima certe «epistole in versi», poi «sermoni, cioè satire» (Tutte le opere, con introduzionee a cura di WALTER BINNI, Firenze, Sansoni, 1969, I, p. 371); quanto a Foscolo, egli definirà sen-z’altro «satire» i suoi sermoni (vedi oltre, p. 100 e nota 11). Anche i sermoni di Gasparo Gozzirecano talora il titolo «satire», ad es. nell’ed. di Vercelli, Tipografia Patria, 1781, dove compaio-no insieme alle «epistole morali» di Saverio Mattei. Non ritiene invece del tutto fondata la di-stinzione tematica e stilistica fra satira, sermone ed epistola (pur riconoscendo che, se sermone esatira hanno generalmente carattere epistolare, l’epistola, viceversa, può anche non avere caratte-re satirico) Clementino Vannetti nelle sue Osservazioni sull’epistola I 7 di Orazio da lui stessovolgarizzata (del 1792, inOpere italiane e latine, cit., IV, 1827, pp. 115-118; ivi, pp. 5-114, si leg-ge l’importante discorso Sopra il sermone oraziano imitato dagl’italiani, pure del 1792, breve sto-ria del genere satirico-epistolare in Italia, i cui massimi esponenti vengono additati in Chiabrerae Gozzi, non senza però attribuire speciali lodi anche a Pindemonte, definito a p. 61 uno fra i «poe-ti nutriti anche essi del più eletto sugo de’ filosofici e liberali studi e grandi amici di Orazio»).

5 Quelli di Pindemonte sono veri e propri sermoni, e non satire, sull’esempio di Orazio e,tra i moderni, soprattutto di Chiabrera (dei cui sermoni curò un’ancora importante edizioneClementino Vannetti, grande amico di Ippolito, che nel 1788 gli indirizzò un’epistola in sciol-ti – compresa nelle Poesie campestri –, definendolo «del cadente onore / dell’italico stil fermo so-stegno» [PINDEMONTE 1990, p. 147, vv. 1-2]; al Vannetti, suo consigliere linguistico e lettera-rio, Pindemonte era solito affidare la revisione formale dei propri versi) e di Gozzi (lodato am-piamente da Ippolito negli Elogi di letterati italiani, Milano, Silvestri, 1829, II, pp. 234-289, do-ve fra l’altro il veneziano è definito, per i suoi sermoni, «emulo d’Orazio e vincitor del Chiabrera»;l’“elogio” del Pindemonte fu stampato anche dal Bettoni nel 1808 come prefazione a un’edizionedei sermoni gozziani).

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Foscolo (con l’epistola al Monti e il sermone Pur minacciavi, che Foscolo defi-nisce a sua volta senza esitazioni “satira”) e il giovane Manzoni (autore dell’epi-stola A Parteneide e di vari sermoni), per arrivare almeno fino a Leopardi (chesperimenterà il primo registro nell’epistola Al conte Carlo Pepoli e il secondo nel-la Palinodia a Gino Capponi)6; mentre nei più tardi cultori del genere – un Gia-como Zanella, ad esempio, o un Severino Ferrari – i confini tra le due variantisi fanno più incerti, pur rimanendo ancora sostanzialmente riconoscibili7.

A partire dal 1804, Foscolo, conclusa l’esperienza lirica dei sonetti e delleodi, imbocca nuove strade e si volge con decisione alla forma “aperta”, prati-cando quasi esclusivamente il verso sciolto (poco usato in gioventù, certo perla convinzione – allora comune – che lo voleva più “difficile” delle forme chiu-se)8 col chiaro proposito di sperimentarlo in tutti i generi cui lo adibiva la poe-tica neoclassica: dall’epistola al sermone satirico, dalla traduzione (quella del-l’Iliade), al poema didascalico (quello, rimasto allo stadio di progetto, sui ca-valli) e al poemetto storico-mitologico (il mai completato Alceo, di cui restasoltanto il lacerto cui il poeta assegnò poi il titolo di Inno alla nave delle Muse,e che lascerà il posto prima al disegno di una serie di Inni italiani e infine alleGrazie)9. Solo il teatro, dopo l’immatura prova del Tieste, risulta per il mo-mento accantonato (ma tornerà comunque ben presto al centro dell’interessedel poeta, tra 1811 e 1813, con l’Aiace e la Ricciarda). Per tutti questi generi,Ugo trovava in Monti e Pindemonte non solo i più autorevoli modelli viven-ti, ma anche le figure che meglio potevano accreditare presso il pubblico dei let-terati le sue nuove ambizioni poetiche. Nel settore di cui ci stiamo occupando,in particolare, Foscolo appare, fra 1804 e 1806, singolarmente attivo: a Mon-ti indirizza la celebre epistola; poi, sull’esempio della traduzione montiana diPersio, dei sermoni pariniani e dei primi sermoni di Pindemonte (quelli, coe-

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6 Secondo BLASUCCI 1996, p. 91, l’epistola al Pepoli (1826) è un «‘sermone’ moraleggiantedi tipo classico», sul modello dei sermoni del Gozzi, largamente antologizzati due anni doponella Crestomazia poetica; ma in realtà si tratta, propriamente, di un’epistola, come dimostra iltitolo originario (Epistola al conte Carlo Pepoli MDCCCXXVI nell’ed. bolognese dei Versi uscitanel 1826, dove il componimento è collocato in ultima sede; mentre nei Canti l’etichetta del “ge-nere” fu soppressa e l’intitolazione divenne semplicemente Al conte Carlo Pepoli); un vero e pro-prio sermone-satira è invece la Palinodia a Gino Capponi, che chiude l’ed. Starita, del 1835 (cfr.BLASUCCI 1996, pp. 162-176). Ricordo inoltre le epistole e i sermoni di Clementino Vannetti(in Opere italiane e latine, VI, cit., pp. 189-276; due sermoni sono indirizzati a Pindemonte),autore anche di una già menzionata traduzione in sciolti dell’epistola I 7 di Orazio (ivi, IV, cit.,pp. 225-233).

7 Epistole-sermoni sono quelle dello Zanella (A Fedele Lampertico, Ad Elena e Vittoria Aga-noor); al Ferrari si devono sia epistole (come quella A Giovanni Marradi), sia sermoni veri e pro-pri (come quelli A Guido Mazzoni e Il ceppo, indirizzato ad Alfredo Straccali, benché il Ferraridefinisca esplicitamente «sermone» solo il primo).

8 Cfr. LONGHI 2006.9 Vedi qui più avanti, p. 114, nota 60.

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vi, del Manzoni difficilmente potevano essergli noti), tenta la via della satira(col citato sermone Pur minacciavi e con i numerosi abbozzi a noi giunti dicomponimenti analoghi); infine, nel 1806, le conversazioni orali ed epistolaricon lo stesso Pindemonte (e con la Teotochi Albrizzi) lo inducono a concepi-re e a stendere l’epistola Dei sepolcri.

Questi ultimi, come ha sottolineato Vincenzo Di Benedetto, nascono ineffetti da una “crisi” dei progetti satirici messi in cantiere nei mesi preceden-ti10: nella lettera a Isabella del 24 novembre 1806, Ugo affermava di aver «da-ta una sorella» alle sue satire, «la più oscura forse, ma la migliore» (alludendoal sermone Pur minacciavi, l’unico da lui portato a termine, e ad altri testi dicui Isabella doveva essere a conoscenza), e di un’altra satira, forse il medesimosermone, aveva parlato al Pindemonte il 26 luglio («preparatemi un pezzo diOdissea, ed io vi darò la Satira»)11. Umori satirici, dunque, certo innescati an-che dalla recente esperienza della traduzione sterniana, dal citato Persio mon-tiano (apparso nel 1803) e in generale da un sentimento di crescente delusio-ne e disillusione politica, che induce Foscolo a mettere da parte – come si leg-ge nella dedica al Niccolini della Chioma di Berenice – gli «argomenti perico-losi» a favore prima degli studi eruditi (nel 1802-1803 si colloca il lavoro, pre-sto interrotto, sul poema lucreziano; al 1803 risale la stesura della Chioma,pubblicata nel novembre di quell’anno) e poi di quella satira che, come leg-giamo nel Discorso quarto della medesima Chioma, egli considerava una formadi «poesia ragionatrice [...] ove l’acre malignità cara all’umano orecchio quan-do specialmente è condita dal ridicolo può talor dilettare» e il cui fine consistenell’«istillare ne’ popoli la filosofia de’ costumi»; una forma di poesia certo in-feriore alla lirica e all’epica, ma che gli appariva la più consona a un’epoca ra-zionalistica e filosofica come la sua, in cui il progresso delle scienze contribui-va – sono sempre parole del Discorso quarto – a «rompere […] il velo dell’illu-sione da cui traspare un mondo di belle e care immaginazioni»12. Ma si tratta-va, in sostanza, di ripieghi, per chi dello scopo e dell’istituto della poesia avevaben altra opinione; cosicché non meraviglia che, scrivendo a Pindemonte il 27giugno 1806, Foscolo amaramente constatasse (di fronte all’ammirazione che

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10 DI BENEDETTO 1990, pp. 119-138.11 FOSCOLO, Epistolario, II, rispettivamente p. 140 e p. 151. «Satira» definisce il suo sermo-

ne Foscolo anche nella lettera all’abate Bottelli del 30 gennaio 1808 (ivi, p. 367); su questo com-ponimento vedi ora DEL VENTO 2003, pp. 259-273.

12 FOSCOLO, Chioma di Berenice, IV, pp. 301 e 304. Pietro Borsieri, recensendo sul «Concilia-tore» (n. 80, domenica 6 giugno 1819) la prima edizione, appena uscita a Verona, dei Sermoni pin-demontiani, così esordiva: «L’alta lirica è la poesia de’ tempi eroici e virtuosi. Ma quando la societàè già vecchia, debole l’entusiasmo, forte l’interesse, lungo e frequente il martirio della virtù, allora lasola poesia sociale, quella che viene in soccorso de’ costumi e si fa cooperatrice della legislazione, èla poesia drammatica e la satirica». Cito da Il Conciliatore. Foglio scientifico-letterario, a cura di VIT-TORE BRANCA, II, a. 2 (gennaio-giugno 1819), Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 691-695: 691.

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suscitavano il lui il montiano Bardo e l’Odissea dello stesso Ippolito) l’inaridi-mento della propria vena poetica: «Beato voi, amico mio! e me pure gradiva-no le vergini Muse, e anch’io sospiro la sacra solitudine; ma l’animo va invec-chiando per le sciagure; e l’ingegno irrigidito, e le Grazie mute per me»13.

Rispetto a questa situazione di stallo e di incertezza, i Sepolcri rappresenta-no una decisa svolta, nella cui maturazione giocò certo un ruolo fondamenta-le proprio la consuetudine con Ippolito Pindemonte, che, fattasi stretta a par-tire dalla primavera del 1806, spinse Ugo a gettarsi in più ambiziosi progetti:e se il disegno del poema didattico sui cavalli fu presto abbandonato, è indub-bio che il lavoro versorio da poco intrapreso dal cavaliere veronese sull’Odisseafu decisivo per la ripresa della traduzione dell’Iliade, e che anche i Sepolcri so-no largamente debitori, nella loro prima concezione, delle suggestioni pinde-montiane. Quelle dei Cimiteri, certo, e delle conversazioni intrattenute sul-l’argomento con Ippolito e Isabella, ma anche e soprattutto quelle delle Epistole,che, apparse a stampa appena un anno prima (nel 1805), Foscolo apprezzò alpunto da proporre all’amico, nell’aprile del 1807, di ripubblicarle – onde assi-curar loro maggiore diffusione «a Milano e più a Torino, ove rivivono gli ono-ri delle Muse italiane – presso il medesimo tipografo Bettoni che da pochi gior-ni aveva edito i Sepolcri e l’Esperimento di traduzione dell’Iliade14. Benché la cri-tica abbia insistito soprattutto sul rapporto fra Cimiteri e Sepolcri, è evidenteche il carme foscoliano presenta ben maggiori affinità con le Epistole di Pinde-monte, sotto l’aspetto non solo metrico, ma anche tematico, stilistico e strut-turale, posto che le trentotto ottave a noi giunte dei Cimiteri adottano il vetu-sto impianto della visione15, mentre le Epistole (nelle quali il tema funebre è pre-

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13 FOSCOLO, Epistolario, II, p. 119. Già nel 1803, all’epilogo della stagione delle odi e deisonetti, Foscolo aveva proclamato l’inaridimento della sua vena lirica nel sonetto Alla Musa (do-ve, alla «copia alma di canto» degli anni giovanili, sono contrapposte le «rade» e «operose rime»del presente: e l’aggettivo operose alluderà al carattere “ragionativo” ed “erudito” dei componi-menti in sciolti che Foscolo stava allora progettando, e che rientrano nel novero delle «fatichedotte» menzionate nel sonetto XII 7).

14 FOSCOLO, Epistolario, II, pp. 195-196 (ma il progetto foscoliano non andò in porto). Pri-ma delle dodici epistole edite nel 1805 (Verona, Gambaretti), ma composte fra 1800 e 1803, al-tre otto epistole pindemontiane in sciolti erano apparse fra i Versi di Polidete Melpomenio (1784)e altre due fra le Poesie campestri (1788); altre ancora (quelle Ad Omero e AVirgilio, ispirate nel-la concezione alle epistole antiquis illustrioribus che costituiscono il XXIV libro delle Familiarespetrarchesche) apparvero nel 1809, insieme alla Traduzione de’ due primi canti dell’«Odissea» e dialcune parti delle «Georgiche», edita sempre da Gambaretti a Verona. Grande fu comunque la for-tuna delle epistole, che (nella silloge del 1805) conobbero ben sette edizioni fra 1805 e 1817(PINDEMONTE 1858, pp. 81-156). Non ho potuto consultare (perché non ancora catalogatapresso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) la recente tesi di dottorato di SALVATORE

PUGGIONI, Ippolito Pindemonte, Epistole e Sermoni: edizione commentata, discussa presso la Fa-coltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova nel 2008 (relatore Guido Baldassarri).

15 Forse anche per suggestione dell’allora celebre poemetto A Night-Piece on Death di Tho-mas Purnell (1722), tradotto in sciolti da Angelo Mazza (cfr. BERTAZZOLI 2002, p. 32).

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ponderante, ben cinque essendo i componimenti indirizzati a personaggi de-funti, mentre un sesto, l’epistola a Giovanni Dal Pozzo, è una consolatoria inmorte della moglie di lui) conducono una meditazione sulla morte dai tonicommossi e variegati, alternando la pur prevalente dimensione elegiaca conspunti di satira e di poesia civile16. Né devono trascurarsi altri testi poetici pin-demontiani ben noti a Foscolo: ad esempio, il lungo sermone sui Viaggi (del1793), concluso da un ampio brano sui sepolcri come luogo degli affetti chelegano i vivi agli estinti (e basta leggerne gli ultimi tre versi: «le non ambizïo-se ossa, che stanche / dagl’infortuni son più che dagli anni, / rozzo difenda, esenza nome un sasso», per cogliere le sue palesi corrispondenze col carme diUgo)17; o la terza parte, La sera, foscoliana fin dal titolo, del poemetto in otta-ve Le quattro parti del giorno (compreso nelle Poesie campestri), dove leggiamofra l’altro versi di questo tenore: «Forse per questi ameni colli un giorno / Mo-verà Spirto amico il tardo passo, / E chiedendo di me, del mio soggiorno, / Solgli fia mostro senza nome un sasso / Sotto quell’elce [...]» (XIII 1-5)18.

Voglio dire che se la conversazione veneziana a tre del maggio 1806 sul te-ma delle sepolture (con Isabella e Ippolito) fu la causa occasionale che indusseFoscolo a progettare e comporre i Sepolcri, l’argomento in questione era datempo fra i più cari a Pindemonte, e trattarlo poteva dunque configurarsi an-che come un omaggio nei suoi confronti; non a caso, definendo la poesia del-l’amico proprio in apertura dei Sepolcri, Ugo ne indica la caratteristica pecu-liare nella sua «mesta armonia», ossia, appunto, nella elegiaca meditazione (fu-nebre e non solo). E a questo proposito è opportuno, a mio avviso, prenderele distanze da due convincimenti ancor oggi diffusi. Il primo è quello che ac-credita l’immagine di un Foscolo astuto e subdolo “usurpatore” dell’idea se-polcrale ai danni del mite Ippolito, con Ugo poco nobilmente intento, fral’estate e l’autunno del 1806, a distogliere l’amico dai Cimiteri (per timore, co-me scrive Franco Gavazzeni, dell’«inflazione tematica»)19, incitandolo alla ver-sione omerica e facendogli credere, tramite l’Albrizzi, di aver già concluso isuoi Sepolcri all’inizio di settembre. Ma, data la vastissima popolarità europeadella tematica sepolcrale in quegli anni, l’uscita dei Cimiteri non avrebbe cer-to modificato il quadro a danno di Foscolo, e anzi, se il poemetto pindemon-tiano fosse apparso prima del carme foscoliano, la novità e l’originalità di que-

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16 Vedi LONGHI 2006, pp. 427-445; e qui più avanti, pp. 121-122.17 Il sermone (apprezzato da Foscolo: lettera a Giambattista Giovio del 27 agosto 1807, in

FOSCOLO, Epistolario, II, p. 262) fu poi rimaneggiato dall’autore (che, per la sua ampiezza, lo de-finiva piuttosto «poemetto») e apparve in redazione definitiva nella silloge dei Sermoni, editanel 1819. Identico argomento e identico titolo (I viaggi) presenta anche l’ampia satira IX (arti-colata in due capitoli) di Vittorio Alfieri.

18 PINDEMONTE 1990, pp. 184-185: prima ed. nel Saggio di poesie campestri, Parma, RealeStamperia, 1788.

19 GAVAZZENI 1987, p. 366.

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st’ultimo ne sarebbero riuscite per contrasto esaltate; cosicché è da credere cheUgo abbia scoraggiato Ippolito – se davvero lo fece – a fin di bene, ossia per-ché vedeva nei Cimiteri quegli stessi limiti di concezione e di stile sottolineatidal Cesarotti (col quale fra l’altro condivideva l’avversione nei confronti del-l’ottava)20 e perché, come scrisse a Isabella il 16-17 giugno 1806, riteneva re-almente prioritaria, per Pindemonte e per la letteratura italiana, la traduzionedell’Odissea21.

Il secondo convincimento cui accennavo, strettamente connesso al primo,è fatto proprio da quanti parlano, già a quest’altezza cronologica, di una sortadi dissidio, contrasto o comunque freddezza fra i due poeti,22 laddove le nu-merose lettere di questo periodo testimoniano viceversa di una sincera amici-zia e di una intensa collaborazione letteraria. La distanza che sotto vari aspettiindubbiamente divideva – e che sempre più avrebbe diviso in seguito – il ma-turo cavaliere veronese («compito e degno gentiluomo», come Ugo stesso eb-be a definirlo) dal giovane, audace e intraprendente esule greco (distanza do-vuta alla differenza d’età, di carattere, di formazione culturale, di orientamen-ti ideali e politici) non fu ostacolo, almeno in quegli anni, alla cordialità dei rap-porti e alla reciproca stima23: Pindemonte riconosceva il grande ingegno delFoscolo, e questi, in un momento di disorientamento creativo, vedeva in Ip-polito un punto di riferimento, un maestro e anche un’auctoritas che – comesi diceva – avrebbe potuto, insieme a quella di Monti, fare da “garante” dei

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20 Il giudizio del Cesarotti sui Cimiteri è riportato ultimamente da NICOLETTI 1995, p. 76.Contro l’ottava – e in particolare contro il suo uso da parte del Monti – Foscolo si pronuncianelle Osservazioni sul poema del «Bardo», del 1806 (FOSCOLO 1972, pp. 474-476); nella letteraal Fabre, del 1814 (FOSCOLO, Esperimenti, I, pp. 230-232); e in una lettera a Isabella del 24 no-vembre 1806 (FOSCOLO, Epistolario, II, p. 151). Cultore abbastanza assiduo di questo metro fuinvece Pindemonte: oltre ai Cimiteri, vedi PINDEMONTE 1858, pp. 466-502.

21 FOSCOLO, Epistolario, II, p. 115, dove Foscolo esorta l’amica a consigliare e comandare alPindemonte di «continuare questa traduzione di cui manca l’Italia», giacché egli «di cose tenuie volanti stampò, se non molto, certo abbastanza; e per la tragedia non è nato, ché eleganza enerbo, affetto e passione sono cose diverse» (e «tenue» designerà qui, come nei latini [vedi ad es.MARZIALE, Epig., X 103, 5 e VERG., Buc., VI 8], un genere di poesia umile, quale è quello checaratterizza sia le Poesie campestri che le Epistole).

22 Da ultimo, si muove lungo questa linea (in un saggio peraltro ricco di osservazioni pre-gevoli) PIZZAMIGLIO 2006.

23 Cfr. CIMMINO 1968, I, p. 67. Al Cimmino, ivi, pp. 67-86, si deve una buona ed equili-brata ricostruzione dei rapporti fra i due poeti, che si deteriorarono solo dopo l’uscita, nel 1810,dello scritto foscoliano Sulla traduzione dell’Odissea, giudicato dallo studioso «una vera e propriacattiva azione nei riguardi del Pindemonte» (p. 82). L’equanimità di quest’ultimo è fra l’altro di-mostrata dalla sua risposta al Bettinelli (lettera del 4 dicembre 1807, ivi, II, p. 521), che avevasottolineato le differenze tra i Sepolcri di Ippolito e quelli di Ugo: «Certo io scrivo, o cerco di scri-vere in una maniera diversa da quella del nostro amico, ma ciò non fa che io non ammiri e nonlodi, quando trovo ingegno grande, e grandi e mirabili cose» (parole che inducono a ridimen-sionare anche il malumore e il risentimento generati nel Pindemonte dalla pubblicazione delcarme foscoliano).

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suoi ambiziosi disegni letterari24. E così, Pindemonte legge a Foscolo la suaOdissea e i suoi Cimiteri, mentre Ugo gli sottopone il sermone e la sua Iliade;e i due si scambiano suggerimenti e galanti omaggi poetici, a base di sottili al-lusioni e rispondenze, come quelle che legano da un lato l’ulisside greco Foscoloalla produzione di Pindemonte (autore in gioventù di una tragedia Ulisse e im-pegnato ora nella versione dell’Odissea), dall’altro il cavaliere Ippolito – grandeamante, fra l’altro, dell’equitazione e dei cavalli – alla progettazione di un poe-ma ippico da parte di Ugo25 e, come si accennava, alla composizione di un’epi-stola funebre sul modello di tante epistole pindemontiane. Né dovrà conside-rarsi segno di disistima la definizione del Foscolo fornita da Ippolito a Betti-nelli nella lettera dell’11 agosto 1806 («ingegno grande, benché bizzarro»), al-la luce sia di quanto tien dietro nella medesima lettera («ma bizzarri sono ap-punto il più delle volte gli ingegni grandi»)26, sia del fatto che «cervello bizzarroe stravagante» si definisce l’autobiografico protagonista dell’Ortis (e anche ilMonti parlava di Ugo nel 1806 come di un «acuto e ingegnoso matto»)27.

Le lettere alla Albrizzi documentano come Foscolo, nel concepire i Sepol-cri, si premurasse, in obbedienza alle convenzioni dell’epistola in versi, di sin-tonizzarsi affettivamente, culturalmente e poeticamente col destinatario. Scri-vendo all’amica il 6 settembre 1806, Ugo, alludendo alle discordi opinioni inmerito all’ufficio delle sepolture emerse nella più volte ricordata conversazio-ne veneziana, afferma di aver indirizzato i Sepolcri a Pindemonte «ricordando-mi de’ suoi lamenti e de’ vostri; e per fare ammenda del mio sdegno un po’

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24 Cfr. MARIA ANTONIETTA TERZOLI, Ugo Foscolo, in Storia della letteratura italiana, direttada ENRICO MALATO, VII/1 (Il primo Ottocento. Tra neoclassicismo e romanticismo), Roma, Saler-no Editrice, 1998, p. 428.

25 Fu Pindemonte a suggerire a Foscolo l’idea di un poemetto sui cavalli: vedi la sua letteradel 20 luglio 1806, cui Ugo rispose il 26 dello stesso mese (FOSCOLO, Epistolario, II, pp. 129-130 e 139, e GAVAZZENI 1987, pp. 358-360 e 369, con citazione di altre lettere foscoliane e diuna testimonianza di Mario Pieri). Anche Ippolito praticò il genere didascalico, componendo ilpoemetto La fata Morgana (edito nel 1782, e poi nuovamente nel 1784 fra i Versi di Polidete Mel-pomenio: cfr. PINDEMONTE 1858, pp. 40-57) e iniziando, nel 1828, il poemetto La giraffa (ivi,pp. 496-497). Sull’amore di Pindemonte per i cavalli (passione che lo accomunava all’Alfieri,detto per questo «ippofilo»: vedi PAOLA AZZOLINI, Alfieri, «il conte ippofilo in sommo grado», inMARCHI-VIOLA 2005, pp. 41-53) cfr. le ottave VIII-X del poemetto La sera, in PINDEMONTE

1858, pp. 28-29 (PINDEMONTE 1990, pp. 183-184). Fra l’altro, l’unica volta in cui l’amico èchiamato da Foscolo per nome nel carme (FOSCOLO, Sepolcri, 213-214: «Felice te che il regnoampio de’ venti, / Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi»), ciò avviene solo pochi versi dopo la men-zione dei «cavalli accorrenti» della battaglia di Maratona (ivi, 210), con un evidente nesso ancheetimologico (Ippolito è colui “che scioglie i cavalli”); «e fu fortuna di Ippolito aver nome grecosì bello» (come scrive RAMAT 1946, p. 106) e per questo così idoneo a comparire in apertura del-la conclusiva sezione “greca” dei Sepolcri (mentre nelle due precedenti occasioni, ai vv. 16 e 152,del Cavaliere ricorreva non a caso il cognome).

26 La lettera è edita da CIMMINO 1968, II, p. 479.27 Cfr. rispettivamente FOSCOLO, Ortis [1997], p. 35; e la lettera di Monti a Ferdinando

Marescalchi del 30 agosto 1806 (MONTI, Epistolario, III, p. 51).

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troppo politico»28; il 24 novembre, analogamente, le scrive: «Ricordate voi piùla questione nostra su’ sepolcri domestici? Io ho fatto in quel giorno il filoso-fo indifferente», riconducendo dunque la genesi del carme al desiderio di «fa-re ammenda» delle troppo drastiche posizioni assunte in quella circostanza, epresentandolo pertanto come una sorta di almeno parziale “palinodia” (più ap-parente che reale, di fatto, giacché esercitata sulla forma più che sui contenu-ti). Il seguito di questa stessa lettera è degno di speciale attenzione:

Ho diretto una epistola al Cavaliere – un po’ triste forse come il soggetto; ma parmid’avere osservato che i muscoli del mio volto si movono difficilmente al riso; pure il ri-so e il sorriso aggiungono qualche cosa alla brevità di questa vita mortale – ma s’io nonrido è più colpa della mia natura che mia; onde ho cantati i sepolcri: e ho tentato difare la corte all’opinione, al cuore ed allo stile d’Ippolito.

La maschera del Foscolo aghèlastos vuole alludere per metafora all’abbandonodella poesia satirica, con il passaggio dal riso di Democrito al pianto di Eracli-to (i due possibili ed equivalenti atteggiamenti del saggio di fronte alle miserieumane, giusta l’alternativa leopardiana: «Non so se il riso o la pietà prevale»)29,ossia al tema funebre dei sepolcri, e quindi – in termini di generi letterari – dalsermone all’epistola; un passaggio che Ugo lascia chiaramente intendere de-terminato dall’esempio di Pindemonte e dalla volontà di accostarsi («fare lacorte») alle sue idee, ai suoi sentimenti, al suo modo di poetare. In effetti, i Se-polcri brulicano di citazioni e riferimenti all’amico e alla sua arte, a ulteriore te-stimonianza della corrispondenza d’amicali e letterari sensi che allora li legava30;solo le opere del Monti (l’altro mentore di Foscolo in questi anni) risultano, nelcarme, “saccheggiate” in proporzioni analoghe31. Ippolito è introdotto come«dolce amico» fin dal v. 8, con un grazioso omaggio (secondo quanto già so-

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28 FOSCOLO, Epistolario, II, p. 143.29 Cfr. MARIO MARTELLI, Zapping di varia letteratura. Verifica filologica, definizione critica,

teoria estetica, Prato, Gli Ori, 2007, pp. 162-166 (scheda L).30 DI BENEDETTO 1990, p. 126, parla, a proposito dei Sepolcri, di «una zona di contatto con

il Pindemonte su punti fondamentali» (inerenti tanto il piano ideologico-tematico, quanto quel-lo stilistico-poetico), e osserva che con il suo carme Foscolo compie consapevolmente «una ope-razione di avvicinamento alla cultura del Pindemonte (p. 128; alle pp. 148-151, lo studiosoelenca certi «punti di contatto tra il Foscolo e il Pindemonte per ciò che riguarda l’uso di alcu-ni moduli propri del genere letterario dell’epistola [l’epistola non satirica] quale era stata colti-vata dal Pindemonte»: p. 148); mentre NICOLETTI 1995, p. 78, rimarca «lo strategico rilievo diun incontro [...] e comunque di un ritrovato rapporto anche epistolare durante il quale l’auto-re dell’Ortis seppe entrare in dialettica sintonia non solo con i convincimenti del Pindemontein materia di sepolcri, ma anche col suo stesso mondo poetico e di affetti». E RAMAT 1946, p.81, scriveva finemente: «Né è occasionale il fatto che il Carme si inizi come epistola poetica enasca sotto gli auspici dell’amicizia: poiché ciò serve a creare un’umana difesa di affetti gentili,un’aura di conforto sodale di contro al vero razionale: quasi una passionale opposizione roman-tica alla freddezza illuministica dell’arida, meccanica legge».

31 Cfr. BRUNI 2007, pp. 183-212.

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pra ricordato) alla «mesta armonia» dei suoi componimenti: allusione, secon-do quanto Foscolo specifica nelle sue note, alle Epistole e alle Poesie campestri,fra le quali ultime troviamo la celebre canzonetta La melanconia, poi splendi-damente musicata da Vincenzo Bellini32. La nota malinconica, come lo stessoPindemonte sottolinea a più riprese, è quella che domina nei suoi versi («anti-ca del mio cor regina» egli definirà la malinconia nel più tardo poemetto di-dascalico-morale Il colpo di martello, del 1820)33; e anche in ossequio ad essa iSepolcri si aprono con un’ampia sezione elegiaca, adeguandosi al carattere e aigusti del destinatario, secondo le regole del commercio epistolare, cui Ugo di-chiara – nella lettera al Bartholdy, del 29 settembre 1808 – di essersi attenutoanche nell’Ortis, dove il protagonista «scriveva ora a sua madre, ora a Teresa, oraal padre di lei, ed esprimeva le sue diverse passioni secondando i caratteri e gliinteressi delle persone alle quali parlava»34. Inoltre, sempre in obbedienza alleconvenzioni del genere, non mancano allusioni agli incontri privati fra i dueamici, nei quali Ippolito leggeva a Foscolo i suoi versi (v. 8: «né da te, dolce ami-co, udrò più il verso» ecc.) ed essi confrontavano le loro differenti opinioni inmerito all’aldilà e ai sepolcri (v. 16: «Vero è ben, Pindemonte» ecc.); e più avan-ti (vv. 213 ss.) Ugo accenna anche a un episodio della biografia del destinata-rio, ricordando il suo giovanile viaggio del 1779 nel Mediterraneo meridiona-le, fra la Calabria, la Sicilia e Malta, del quale poteva aver appreso sia dalla boc-ca di lui, sia dai suoi versi (in particolare da un passo del poemetto didascali-co La fata Morgana, del 1782, chiaramente riecheggiato da Foscolo)35.

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32 PINDEMONTE 1990, pp. 162-164.33 PINDEMONTE 1858, p. 371, v. 738. E vedi anche Sermoni, VII (La mia apologia), 56-59:

«Bello o no, dal cor mio viene il mio verso. / Se molta in lui malinconìa ripose / Natura, e il ver-so da lui solo io traggo, / Come allegro il trarrò?» (ivi, p. 302). Tutte nel segno della malinconiasi snodano anche le Prose campestri, per le quali Pindemonte adottò (traducendolo dall’inglesedell’amato Thomas Gray) il termine «leucocolia», ossia – in antitesi all’etimologico «umor ne-ro» della malinconia – “malinconia bianca”, o, come egli stesso la definisce, «dolce melanconia»o «bianca tristezza» (p. 73, con la nota 5 della Ferraris in PINDEMONTE 1990, alle pp. 74-75);termine già presente nella lettera di Ippolito al Vannetti del 14 luglio 1785 (edita da CIMMINO

1968, II, p. 67), dove esso è riferito alla canzonetta La campagna, poi divenuta – dopo una so-stanziale revisione suggerita dal roveretano – La melanconia. Per la “malinconia” settecentesca,sorta di “malattia professionale” del letterato ancien régime, cfr. BERTAZZOLI 2002, pp. 45-57, eanche ARTURO GRAF, La malinconia. I giardini inglesi, in IDEM, L’anglomania e l’influsso inglesein Italia nel secolo XVIII, Torino, Loscher, 1911, pp. 330-351.

34 La lettera a Jakob Salomo Bartholdy (Milano, 29 settembre 1808) è da ultimo tra le Ap-pendici di Foscolo, Ortis [1997], pp. 249-255: il passo in questione è a p. 252.

35 FOSCOLO, Sepolcri, 213-214: «Felice te che il regno ampio de’ venti, / Ippolito, a’ tuoi ver-di anni correvi!»: La fata morgana, 12-15: «Io pien correa de le memorie antiche / L’onda Sica-na, or con Ulisse, Ulisse / Cui cinsi il piè d’italïan coturno, / Giovane audace, or con Enea var-cando» (e, per «il regno ampio de’ venti», v. 85: «pei deserti ampli del cielo»). Di Ippolito cfr.anche il sonetto Partendo dalla Sicilia e navigando nel Mediterraneo (in PINDEMONTE 1858, p.443); Il mattino, XV 1-2 (in PINDEMONTE 1990, p. 173): «Di sì vago e mirabile orïente / Spes-so godei, quand’io solcava il mare»; e i vv. 106-108 dei Sepolcri (redazione del 1807): «Foscolo,

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Sul piano più strettamente letterario, ricorderò solo alcuni spunti, fra i mol-ti che si potrebbero segnalare. L’attacco dei Sepolcri è probabilmente memoredei versi finali dell’ultima epistola di Ippolito, indirizzata Ad Apollo, dove ilpoeta si rivolge alla sua cetra: «[...] e quando chiusi / All’azzurro del ciel, [Se-polcri, 3: il Sole], de’ colli al verde, [ivi, 5: bella d’erbe famiglia], / E ai volti ami-ci avrò per sempre gli occhi, [ivi, 8: Né da te, dolce amico, udrò più il verso]/ Di vïole intrecciata e di giacinti / Scender meco dovrà nel buio eterno / Del-la tacita tomba, e il sonno stesso [ivi, 2-3: il sonno della morte] / Dormir conme sotto lo stesso marmo». La cruda immagine del cadavere di Parini che, inuna fossa comune, giace forse sepolto accanto alla testa mozzata di un ladro giu-stiziato, ricalca scene pressoché identiche reperibili nei Cimiteri (dove si biasi-ma il fatto che nel camposanto di Verona siano sepolti insieme vergini e pro-stitute, stolti e saggi, uomini vili e non venali poeti):

Stendesi dentro alla mia patria un campo,Di rozze mura ignobilmente cinto,Ove, sparito della vita il lampo,Ciascun sotterra a farsi polve è spinto.Sesso, età, grado non ha quindi scampo,Questo corpo con quel giace indistinto:Ignoranza o saver, colpa o virtudeUna sola vil tomba inghiotte e chiude.

Vergine forse, a cui beltà fiorivaPura e celeste per le membra intatte,Nella faccia ancora lubrica e lascivaDella più infame Taide s’abbatte.Colui che una vulgar madre nutrivaDi stoltezza e viltà più che di latte,Dorme appo il Saggio illustre, o il non venaleCantor, che al cielo alzò voce immortale36;

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è vero, il regno ampio de’ venti / Io corsi a’ miei verdi anni, e il mar Sicano / Solcai non una vol-ta» (PINDEMONTE 2002, p. 28). Versi poi così rielaborati (ivi, p. 61, vv. 114-116): «Di veder va-go, e di saper, solcai / Non una volta le Sicane spume / Nell’april de’ miei giorni». Sempre nel-la Fata morgana, Pindemonte, sulla scorta di Fozio, narra un prodigio (dopo la battaglia sottole mura di Roma tra gli Sciti e l’imperatore Valentiniano, morti tutti i soldati dell’una e dell’al-tra parte, si continuarono per tre giorni a vedere i loro spiriti che combattevano, con valore nonminore di quello dei vivi) analogo a quello cui fa riferimento Foscolo – seguendo Pausania – aivv. 210-212 dei Sepolcri («Nel campo di Maratona [...] tutte le notti vi s’intende un nitrir di ca-valli, e veggonsi fantasmi di combattenti»: così il poeta stesso nella sua nota ad loc.); e i versi diIppolito devono aggiungersi al novero delle fonti letterarie e poetiche elencate da Longoni, inrelazione a questo passo, nel suo commento al carme (FOSCOLO 1994, pp. 517-519).

36 PINDEMONTE 2002, pp. 39-41, vv. 9-24 (testo della prima redazione, con modifiche allapunteggiatura). Analogamente si esprime Ippolito nell’avvertenza Al cortese lettore premessa aisuoi Sepolcri (ivi, p. 23: «L’idea di tal Poema fu in me destata dal Camposanto, ch’io vedea, nonsenza un certo sdegno, in Verona. [...] quello increscevami della mia Patria, perché distinzione

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e soprattutto nell’epistola in morte di Alessandra Lubomirski (1801), ghi-gliottinata dai rivoluzionari a Parigi e seppellita in una fossa comune:

[...] Una profana terra,Che Natura ha in orrore, e il cui sanguignoGrembo di scellerati uomini è tomba,Te pure inghiottì avara: umane membraD’ogni delitto ricoperte e lordeToccar dovevi, e l’oltraggiata, io credo,Tua carne pura ne guizzò sdegnosa37.

E ancora, spigolando qua e là: il celeberrimo makarismòs dei Sepolcri, 213-214(«Felice te, che il regno ampio de’ venti, / Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!»)ricalca un modulo frequentissimo nel Pindemonte (cito soltanto Poesie campe-stri, La sera, XIV 5-8: «Felice te, dirà fors’ei, che scorto / Per una strada, è ver,solinga e muta, / Ma donde in altro suol meglio si varca, / Giungesti quasi adingennar la Parca!»; Epistole, VIII, A Scipione Maffei, 5-7: «Felice te! che nonvedesti il nembo, / Onde Italia, che tanto erati cara, / Tutta fu avvolta»)38; la«Celeste [...] / Corrispondenza d’amorosi sensi» dei Sepolcri (29-30) provienedirettamente da due epistole pindemontiane, quella al Bertòla (V, 19-20, do-ve allo stesso modo si parla del «secreto [...] / D’amor commercio tra l’un mon-do e l’altro», ossia tra vivi e defunti) e quella a Isotta Landi (X, 54, dove il le-game fraterno è definito «Riverberar di amici sensi alterno»)39; l’immagine diOmero che (vv. 279-282 dei Sepolcri) erra sotto le ombre delle palme e dei ci-pressi di Troia e brancolando penetra negli avelli, non sembra immemore diquella di Orfeo che (nell’epistola IV a Giovanni Dal Pozzo, vv. 127-128), per-duta definitivamente Euridice, «indarno / Gìa brancolando, e brancicandol’ombre»40; l’appellativo di Pimplee assegnato alle Muse da Foscolo al v. 232 –per il quale i commenti non rinviano ad alcun precedente specifico – compa-

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alcuna non v’era tra fossa e fossa, perché una lapida non v’appariva» (ivi, p. 23); e nella letteraa Isabella Teotochi Albrizzi da Verona del 5 ottobre 1805, in PINDEMONTE 2000, p. 157: «E pu-re avrei di belli argomenti, di quelli che mi toccano il cuore; poiché a me è ora impossibile loscriver di cosa, che il cuor non mi tocchi. Il nostro Campo Santo ne sarebbe uno. Non una so-la pietra, non il più picciolo segno sul cadavere seppellito, non la facoltà di andarvi a spargereuna lagrima sopra». Per questo spunto vedi anche oltre, p. 110, nota 46.

37 PINDEMONTE 1858, p. 112, vv. 109-115; su questa epistola vedi LONGHI 2006, pp. 438-439. L’analogia fu prontamente rilevata da BIANCHI 1808, pp. 553-575: 561.

38 Nell’ordine PINDEMONTE 1990, p. 185, PINDEMONTE 1858, p. 113. Un precedente an-che nell’epistola XIII dell’Algarotti a Voltaire, 112-113 (Opere scelte, Milano, Società tipografi-ca de’ classici italiani, II, 1823, p. 496): «Felice te! che la robusta prosa / Guidi del pari, e il nu-mero sonante»; e – meno calzante – nel Giorno, Il meriggio, 153 (PARINI 1988, I, p. 150: «Feli-ce te, se mesta o disdegnosa»). Vedi anche la lettera di Foscolo a Pindemonte del 27 giugno 1806qui cit. a p. 101.

39 PINDEMONTE 1858, p. 101 e p. 124.40 Ivi, p. 99.

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riva nel prologo della recente tragedia Arminio (pubblicata da Ippolito nel1804)41, dove le selve delle Muse sono appellate «Pimplee foreste» (v. 29); la de-scrizione dei giardini e dei cimiteri inglesi ai vv. 130-136 del carme (per la qua-le l’autore rinvia nelle sue note al saggio di Ercole Silva Dell’arte dei giardini in-glesi, uscito a Milano nel 1801), colma di ammirazione per le civilissime usan-ze funebri di quel popolo – in antitesi ai degradati costumi della corrotta Ita-lia – e conclusa dall’accenno al prode Orazio Nelson, costituisce un ennesimoomaggio al dedicatario, che nel 1792 aveva composto una lunga Dissertazionesui giardini inglesi (argomento di cui tratterà ampiamente anche nei suoi Se-polcri) e che della cultura e in genere della civiltà inglese era profondo cono-scitore e grande ammiratore42; così come un omaggio a Pindemonte tradutto-re dell’Odissea è la parte finale del carme, omerica nella materia e nell’intona-zione, e soprattutto percorsa da un’implicita condanna delle guerre (culmi-nante nella pietosa glorificazione finale dei “vinti”, ossia dei Troiani e di Etto-re) che la avvicina al dichiarato “pacifismo” di Ippolito, uno dei motivi domi-nanti delle sue Epistole, coraggiosamente dichiarato fin dalla prefazione e as-sunto circolarmente a tema del primo e dell’ultimo componimento (sulla scor-ta del sermone pariniano Sopra la guerra). Quel “pacifismo” che emerge anchein altre opere di Pindemonte, e che, fra l’altro, lo indusse a tradurre di Ome-ro non l’Iliade ma l’Odissea, e di Virgilio non l’Eneide ma le Georgiche. Né man-cano nei Sepolcri ammiccamenti proprio alla versione dell’Odissea, cui Ippoli-to stava allora lavorando e della quale aveva letto ad Ugo alcune parti nel giu-gno 1806: la definizione della morte quale «giusta dispensiera» di gloria rie-cheggia infatti il sintagma «saggia dispensiera» (Odissea, I 193, detto della ser-va che reca il pane a Pallade ospite di Telemaco ad Itaca)43, mentre ai vv. 15 e17-18 del carme («Ossa che in terra e in mar semina morte»; «e involve / Tut-te cose l’obblio nella sua notte») si avvertono armoniche da Odissea, I 221-223,dove Telemaco definisce il padre Ulisse «tal, le cui bianche ossa in qualche ter-ra / giacciono a imputridir sotto la pioggia, / o le volve nel mare il negro flut-to». E numerosi sono anche i punti di contatto – soprattutto a livello micro-

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41 Verona, Giuliari.42 Sull’argomento vedi BRUNO BASILE, Ippolito Pindemonte e i giardini inglesi, in «Filologia

e critica», 6 (1981), 3, pp. 329-365, poi in IDEM, L’elisio effimero. Scrittori in giardino, Bologna,Il Mulino, 1993, pp. 107-165; ma si può ancora consultare utilmente il saggio di GIACOMO

ZANELLA, Ippolito Pindemonte e gl’inglesi, in ZANELLA 1884, pp. 215-241. Ampie lodi e pitto-resche descrizioni dei giardini inglesi si leggono anche nelle Prose campestri (PINDEMONTE 1990,pp. 77-78, 91). Quanto ai Sepolcri pindemontiani, Carducci osserva giustamente che in essi,propriamente, non si tocca «degli orti de’ suburbani avelli, ma de’ parchi delle ville private» (CAR-DUCCI, Foscolo e i Sepolcri, pp. 149-150).

43 Rarissimi, stando ai lessici, gli esempi precedenti dell’uso figurato del termine. Ma vedianche PIND., Olymp., XIII 7, dove Irene è detta «dispensatrice di ricchezze agli uomini» (tam…’¢ndr£si ploÚtou il vocabolo tam…h, “dispensiera”, è il medesimo che ricorre in HOM., Od., I 139,verso di cui abbiamo appena ricordato a testo la traduzione pindemontiana), e PIND., Pyth., II89, dove il dio «dispensa ampia gloria» (œdwken mšga kàdoj).

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testuale – con i Cimiteri, a conferma del fatto che (e sarebbe stato strano il con-trario, dati gli stretti rapporti fra i due poeti in quel torno di tempo) il primoabbozzo del poemetto fu letto o fatto leggere da Ippolito all’amico44.

Sul piano, invece, delle opinioni, nel suo carme Foscolo abbandona le po-sizioni astrattamente democratiche e rigidamente materialistiche che dovevaavere sostenuto, in modo un po’ provocatorio, nella conversazione del maggio1806, accostandosi (con il Ma del v. 23) a idee pindemontiane quali il valoreaffettivo dei sepolcri, la sopravvivenza dei defunti nella memoria dei vivi e lanecessità di assicurare degna e distinta sepoltura ai grandi uomini, affinché sia-no di esempio alle generazioni future; idee riconducibili, in quanto tali, a un“moderatismo” ideologico e politico post-rivoluzionario condiviso nel 1806 daIppolito (che dopo i giovanili entusiasmi democratici e massonici era approdatoa una dura condanna della Rivoluzione e dei suoi eccessi)45 ma fondamental-mente estraneo a Ugo, che piega queste stesse idee, nell’atto di recuperarle, asignificati e a fini ben diversi46. Infatti, come ancora una volta è nella logica enelle regole del genere epistolare, con il suo interlocutore Foscolo instaura unrapporto che non è solo di adesione, ma è anche dialettico, benché le divergenzedi opinione siano espresse in modo sempre garbato e amichevole, e non assu-mano mai la neppur minima sfumatura polemica. La divergenza più impor-

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44 Vedi qui l’Appendice I in calce al presente contributo.45 Per l’evoluzione delle idee politiche pindemontiane cfr. EROS MARIA LUZZITELLI, Il viag-

gio d’Ippolito Pindemonte verso la “virtù” ed i suoi esiti moderati. I rapporti epistolari con Bartolo-meo Benincasa, in «Critica storica», 19 (1982), pp. 545-640; LUCIANI, Postfazione, pp. XXIX-XLIII;ARNALDO DI BENEDETTO, Pindemonte nell’Ottantanove, in IDEM, Tra Sette e Ottocento. Poesia,letteratura e politica, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1991, pp. 31-41. Troppo sbilanciata, a mioavviso, in direzione “attualizzante” la prospettiva di GINO BENZONI, Ai bordi della rivoluzione,in MARCHI-VIOLA 2005, pp. 79-113, e di ANGELO FABRIZI, Alfieri e Pindemonte dinanzi allaRivoluzione francese, ivi, pp. 249-279. Per la condanna della Rivoluzione e dei suoi eccessi da par-te di Ippolito, cfr. in particolare PINDEMONTE, Epistole, VII (Ad Alessandra Lubomirski) e IX (ABenedetto di Châteauneuf), il sermone I viaggi (dove la Rivoluzione è definita «procella tremen-da») e i sonetti in morte di Luigi XVI e di Maria Antonietta (in PINDEMONTE 1858, pp. 310-342, 434-435); mentre testi giovanili filo-rivoluzionari come il poemetto La Francia e l’accesaode Sopra i sepolcri dei re di Francia nella chiesa di San Dionigi, entrambi del 1789, furono poirinnegati dall’autore, anche per sfuggire alla censura del governo veneto. L’itinerario ideologicodi Pindemonte, sotto questo aspetto, non è d’altronde molto dissimile da quello alfieriano.

46 Come scrive DI BENEDETTO 1990, p. 175, «il tema dell’indistinzione delle tombe era di-ventato di moda nel clima di restaurazione morale e politica proprio del periodo post-termido-riano», e ricorre nelle opere, certo note a Pindemonte come a Foscolo, di DELILLE (L’imagina-tion) e LEGOUVÉ 1802 (La sépulture). A questo filone di cultura “moderata” può dunque ben ri-condursi la parte iniziale dei Sepolcri (vv. 1-50, «con la rivendicazione del vivere del defunto aldi là della morte attraverso l’eredità di affetti che ha come punto di riferimento la tomba»: ivi,p. 179), dove il motivo politico-civile è assente, e tutto si gioca sul piano degli affetti e dei sen-timenti che legano le persone care anche dopo la morte; ma Foscolo, se in qualche misura guar-da a quella coeva cultura francese antirivoluzionaria cui Pindemonte si sentiva allora vicino, cer-to non ne sposa le posizioni antidemocratiche e non ne condivide il cristianesimo consolatorio(NICOLETTI 1995, p. 113).

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tante, com’è noto, è quella che contrappone lo spiritualismo cattolico del Ca-valiere al sostanziale materialismo foscoliano, disposto a riconoscere alla reli-gione, e quindi anche al culto dei defunti, soltanto un valore umano, etico, ci-vile e politico47; ma nelle maglie del testo emergono altri minori punti di im-plicito e bonario dissenso fra i due amici. Mi riferisco, ad esempio, alla con-danna illuministica e già pariniana dell’evirazione dei cantanti (laddove Pin-demonte, nei suoi scritti, mostra invece più volte di apprezzare le doti canoredei castrati)48 e al tema del viaggio, che nei Sepolcri sembra accomunare auto-re e destinatario, ma che in realtà marca la forte distanza tra le loro esperienze,giacché quelli di Ippolito – secondo quanto egli stesso narra nel citato sermo-ne sui Viaggi – erano stati i tipici tours di un allora giovin signore settecente-sco, mentre Ugo si dipinge, alla stregua dell’Alfieri, come un «vagabondo co-atto»49 che quasi nuovo Ulisse e nuovo Dante va fuggendo di gente in gente (ela contrapposizione è sottolineata con enfasi e con arte negli attacchi degli ul-timi due “periodi” del carme: «Felice te, che il regno ampio de’ venti, | Ippoli-to, a’ tuoi verdi anni correvi!»; e poi: «E me, che i tempi ed il desio d’onore |fan per diversa gente ir fuggitivo»)50. La stessa desolata chiusa del carme, conquel sole che sempre (come già nell’Ortis zurighese, parte prima, lettera del 29aprile, dove «il Sole illumina da per tutto ed ogni anno i medesimi guai su laterra») «risplenderà su le sciagure umane», sembra instaurare un allusivo con-trocanto all’ottimistica conclusione delle Prose campestri di Pindemonte, dove– nell’ambito di una pacificata visione dell’universo come “cosmo” ordinato

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47 Sotto questo aspetto, i Sepolcri non fanno altro che trasporre in forme e in immagini poe-tiche il pensiero (di derivazione vichiana) sviluppato nel fondamentale Discorso quarto dellaChioma di Berenice, dove parimenti Foscolo aveva rifiutato il radicalismo ateo della critica epi-curea all’illusione religiosa, ribadendo il valore etico, civile e politico della religione e del mito(FOSCOLO 1972, pp. 301-311). Parimenti, è ormai assodato che il carme si configura come larealizzazione dell’idea di poesia “lirica” (in senso “greco”) delineata nella Chioma.

48 Vedi qui l’Appendice II.49 Così definisce Alfieri la LUCIANI, Postfazione, p. IX. Nella parte finale del sermone I viag-

gi, Pindemonte manifesterà fastidio per i viaggi e considererà con distacco e pentimento (defi-nendolo un errore) il suo giovanile «desio delle lontane cose».

50 Anche i Sepolcri, a ben vedere, descrivono un viaggio, non turistico però, bensì esistenziale,poetico e culturale; un viaggio che, inversamente a quanto accade nell’Inno alla nave delle Mu-se, conduce dall’Italia (e prima, in Italia, dalla corrotta e amorale Milano alla bella e grande Fi-renze, bella per la natura e l’arte, grande perché custodisce le urne dei forti italiani in Santa Cro-ce) alla Grecia, culla e motore della civiltà europea; un viaggio rigeneratore dell’individuo (l’uo-mo Foscolo, che idealmente recupera le sue radici e legittima le sue ambizioni di nuovo Ome-ro) e dell’intero Occidente moderno. Cosicché i Sepolcri potrebbero considerarsi l’orazione (macerto non picciola) del nuovo Ulisse, capace con la poesia di fare idealmente ritorno – insiemeal Pindemonte, che a Ulisse aveva dedicato una giovanile tragedia e che stava traducendo l’Odis-sea, e a quanti altri vorranno seguirlo – in quella patria comune che i fati non gli consentono dirivedere. Sul diverso “viaggiare” di Foscolo e Pindemonte nei Sepolcri, vedi anche ALESSANDRA

DI RICCO, Tra idillio arcadico e idillio filosofico: studi sulla letteratura campestre del ’700, Lucca,Pacini Fazzi, 1995, pp. 120-121.

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dalla sapienza di Dio – il sole «illumina, feconda e governa tutti que’ Mondi,che gli danzano intorno», e l’uomo si erge al di sopra di esso in virtù della «di-vina scintilla, da cui è animato» e che gli assicura una «bella sorte» già sulla ter-ra, consentendogli di intravedere dentro e fuori di sé la la gloria del Creatore.

I Sepolcri sono dunque un’epistola in versi? Sì, se guardiamo alla forma me-trica, alle dimensioni, all’impianto colloquiale e dialogico (frequente in com-ponimenti di questo genere, in particolare, è, come nei Sepolcri, l’inizio conuna serie di interrogative – talora, come nel caso nostro, retoriche – rivolte aldestinatario)51, ai risvolti autobiografici, al suo legame con l’attualità (nella fat-tispecie, la polemica contro la «nuova legge» sulle sepolture), alla sua capacitàdi “provocare” in risposta altri analoghi testi (quali i Sepolcri pindemontiani e,poi, quelli di Giovan Battista Torti, editi insieme ai primi due nel 1808 dalBettoni e apprezzati da Foscolo)52. Ma, al di là di questi connotati esterni, il ge-nere di riferimento tradizionale, in apparenza adottato dal poeta e almeno ini-zialmente rispettato nei suoi canonici tratti distintivi, viene gradualmente di-sgregato e per così dire “svuotato” dall’interno, riducendosi di fatto a poco piùche un “contenitore” di una materia e di una forma ad esso, nell’insieme, irri-ducibili (Carducci distingue al riguardo tra la «forma esterna» del carme, cioèquella epistolare, e la sua «forma interna», che è invece «epica-lirica»)53. L’aba-te Guillon, muovendosi nel solco di un rigido classicismo e invocando il pre-cetto oraziano uni reddatur formae, riteneva che un’epistola in sciolti di argo-mento sepolcrale si inscrivesse ipso facto nel genere dell’elegia e da quello nondovesse esorbitare: definisce infatti i Sepolcri un «canto elegiaco», ossia «un poe-ma che non deve respirar altro che una dolce, religiosa e consolante malinco-nia», sul modello, da lui citato, dei «commoventi» e «consolanti» poeti sepol-

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51 Così avviene, ad es., anche in varie epistole pindemontiane, come la XI, al Fracastoro, ecome quelle a Girolamo Lucchesini e a Clementino Vannetti, edite rispettivamente fra i Versi diPolidete Melpomenio e fra le Poesie campestri (PINDEMONTE 1858, pp. 148-150); così accadrànell’epistola leopardiana al conte Pepoli; e così accadeva già nell’Ars poetica di Orazio, la cui par-te iniziale, per quanto attiene alla struttura, è tenuta ben presente nella sezione d’apertura deiSepolcri (DI BENEDETTO 1990, p. 133; ivi, pp. 135-136, si evidenziano anche gli spunti orazia-ni riscontrabili, fin dall’attacco, nell’epistola in sciolti a Vincenzo Monti).

52 L’epistola è d’altronde un frammento di un più ampio “discorso” (insieme scritto e orale)di cui fa parte e che al tempo stesso presuppone; e in questo articolato contesto – letterario, maanche storico e biografico – esige di essere attentamente ricollocata, affinché se ne possano og-gi cogliere quei sottintesi e quelle allusioni che solo per gli interlocutori e per i loro sodali era-no, in quel momento, immediatamente decifrabili. Sui Sepolcri del Torti (leggibili moderna-mente nell’approssimativa edizione inclusa in FOSCOLO-PINDEMONTE-TORTI, Trilogia sepolcra-le, a cura di MARIQUITA GALLI NORIS, Parma, Scuola Tipografica Benedettina, 1970, pp. 95-127)cfr. ALBERTO BENISCELLI, Torti: la poesia sepolcrale, tra Foscolo e Pindemonte, in Giovanni Torti(1774-1852) tra letteratura ed impegno patriottico. Atti del Convegno (Genova, 22 giugno 2007),a cura di STEFANO VERDINO, Genova, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 2007, pp. 101-118.

53 CARDUCCI, Foscolo e i Sepolcri, p. 134.

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crali inglesi54. Lo disturbavano, perciò, gli scarti tematici e stilistici, gli insertisatirici, l’argomento e il tono epico dell’ultima parte del carme, l’asprezza deipensieri e della versificazione che presto (deludendo l’orizzonte d’attesa del let-tore medio, quale egli era) subentra all’iniziale dolcezza dell’elegia: tutti ele-menti dai quali a suo avviso derivava inoltre al carme quella generale “oscuri-tà” di cui da più parti, fin da subito, i Sepolcri vennero com’è ben noto accu-sati (non diversamente, d’altronde, dall’Ortis)55. La replica di Foscolo non la-scia dubbi sulle sue intenzioni: per lui, i Sepolcri non sono elegia ma lirica56, nonepistola ma carme, e i suoi modelli non devono ricercarsi negli elegiaci né tan-to meno nei poeti cimiteriali inglesi, bensì in Pindaro, esempio supremo diuna poesia lirica classicamente intesa – secondo quanto Ugo afferma in più se-di, dal Discorso quarto della Chioma alle Osservazioni sul Bardo montiano, fi-no al breve articolo Della poesia lirica, del 1811 – non come poesia d’amore(questa appartenendo piuttosto al genere elegiaco), ma come poesia che «can-ta con entusiasmo le lodi de’ numi e degli eroi», prefiggendosi un fine pretta-mente politico-civile, percuotendo «le menti col meraviglioso ed il cuore conle passioni», e dunque avvicinandosi per molti aspetti alla tragedia e all’epica57.

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54 Guillon cita espressamente Thomas Gray (per la ElegyWritten in a Country Church Yard),Edward Young (per il poema The Complaint or Night-Thoughts) e James Hervey (per le Medita-tions among the Tombs), e da questi testi – prontamente tradotti in francese e in italiano, nonché,con numerosi altri del medesimo genere, imitati da legioni di poeti – deriva la sua idea di poesiasepolcrale, ascrivendola senz’altro al genere elegiaco. Le citazioni sono desunte dall’articolo delGuillon sui Sepolcri apparso nel «Giornale Italiano» il 22 giugno 1807 (ora in FOSCOLO 1972, pp.504-518, con le note e la lettera di risposta del Foscolo, datata 26 giugno 1807 e pubblicata a Bre-scia dal Bettoni). Alla replica foscoliana il Guillon controreplicò a sua volta il 16 luglio dello stes-so anno, con un secondo articolo compreso nel suo opuscolo Uno contro più, ovvero risposte delsig. Guill... [...] ai libercoli successivamente pubblicati contro certi suoi articoli inseriti nel «GiornaleItaliano», stampato a Milano dalla Tipografia di Giovanni Silvestri (ivi, pp. 524-534). Al riguar-do vedi LUCCHINI 2006; e, in questi stessi Atti, il contributo di Enzo Neppi, pp. 137-160.

55 Sulle accuse di oscurità e disorganicità da taluni rivolte all’Ortis per i suoi salti stilistici eper l’intima «dissonanza» tra passione amorosa e passione politica, vedi il paragrafo V della No-tizia bibliografica inclusa da Foscolo nell’ed. zurighese del 1816 (cfr. FOSCOLO, Ortis [1997],cit., soprattutto pp. 267-283). Foscolo si difese affermando che nel romanzo «il disordine for-ma un tutto che si direbbe composto armonicamente di dissonanze», che «l’unità del sentimentoè sempre piena, intera, crescente», e che «la diversità degli elementi» non conta, «se tutti fannouna maniera sola e coerente in ogni parte a sé sola» (ivi, p. 275). Inoltre, come anche nella let-tera al Bartholdy (ivi, p. 252), l’autore ribadì la sua precisa volontà di praticare nell’Ortis la mi-stione dei generi, alla ricerca di una varietà che allontanasse il romanzo dalla severa unità del Wer-ther, tutto giocato sulla sola passione amorosa.

56 «Ove l’autore avesse mirato al patetico avrebbe amplificati questi affetti [scil. quelli di Cas-sandra, nella sequenza finale del carme]; mirava invece al sublime, e li ha concentrati» (FOSCO-LO 1972, p. 513); e in una delle note apposte al primo articolo dell’abate francese: «S’ella pren-de per elegia una poesia lirica, la colpa non è dell’autore: né Pindaro, perché spesso pianga osferzi, sarà men lirico» (ivi, p. 516).

57 Per la Chioma, ivi, pp. 301-311 (Discorso quarto. Della ragione poetica di Callimaco; le pa-role cit. a testo sono a p. 302); per il saggio Della poesia lirica vedi FOSCOLO, Lezioni, pp. 325-

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«Ho desunto questo modo di poesia da’ Greci i quali dalle antiche tradizionitraevano sentenze morali e politiche presentandole non al sillogismo de’ letto-ri, ma alla fantasia ed al cuore»: così scrive il greco Foscolo nelle poche righeda lui premesse alle note illustrative del carme. E in effetti, al fondamento del-la concezione e dell’esecuzione dei Sepolcri stanno soprattutto Pindaro e Ome-ro, letti alla luce del trattatello Del sublime (citato per tre volte da Ugo nelle no-te della sua replica al Guillon). Pindaro è per lui – del tutto tradizionalmente– il maestro delle ardue transizioni, strumento principe di una poesia che, af-ferrando le idee cardinali e trascurando quelle intermedie, non «proceda argo-mentando» (sono ancora parole del Discorso quarto), ma piuttosto «idoleggicon allegorie» le «cose fisiche e civili»58; e, secondo quanto scrive lo stesso Fo-scolo, a proposito delle Grazie, nei Frammenti abbozzati della ragione poetica,del sistema e dell’architettura del carme, da Pindaro – nonché dagli inni omeri-ci e da quelli di Callimaco – è specificamente desunta «questa novità di me-scolare il didattico, l’epico e il lirico in un solo genere» (come Ugo stesso d’al-tronde sottolinea nelle polemiche note da lui apposte al primo articolo delGuillon)59, unitamente all’accostamento del «mirabile antico necessario allapoesia» con «la verità delle cose contemporanee che si dipingono» e alla tecni-ca che consiste nel piegare i miti a precise destinazioni e finalità politiche60. Esi tenga presente che alcune odi di Pindaro si configurano quasi come “episto-le poetiche” inviate a un preciso destinatario (il personaggio celebrato o il com-mittente), e sotto questo aspetto potevano quindi apparire a Foscolo affini al

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330. E cfr. in merito ROBERTO CARDINI, A proposito del commento foscoliano alla «Chioma di Be-renice», in «Lettere italiane», 33 (1981), pp. 329-439, soprattutto alle pp. 344-345.

58 FOSCOLO 1972, p. 302.59 Vedi qui sopra, p. 113, nota 56. Carducci (Dello svolgimento dell’ode in Italia [1901], in

Opere, Edizione Nazionale, XV, Bologna, Zanichelli, 1944, p. 79), scrive che Foscolo seppe «nelcarme introdurre insieme co’ i vaporamenti già innanzi al nome romantici della presenzienteanima sua il movimento pindarico della fantasia».

60 I Frammenti si leggono in UGO FOSCOLO, Opere edite e postume, XII, Appendice a cura diGIUSEPPE CHIARINI, Firenze, Le Monnier, 1890, pp. 308-325 (i passi da me citati o parafrasatia testo sono alle pp. 309-310 e 314-315). Sull’argomento, importanti considerazioni in ALBER-TO CORBELLINI, Il Foscolo e Pindaro (appunti), in Studi su Ugo Foscolo editi a cura della R. Uni-versità di Pavia nel primo centenario della morte del Poeta, Torino, Chiantore, 1927, pp. 143-214, soprattutto alle pp. 154-157 (alle pp. 156-157, lo studioso evidenzia inoltre nelle Grazie«la compagine di elementi mitologici e storici e attuali»); e vedi anche BENEDETTO 2006, pp.283-287; MACRÌ 1995, pp. 128-134. Lo studio di Pindaro occupò il Foscolo soprattutto neglianni compresi fra il 1802 e il 1810 (BENEDETTO 2006, p. 283); nel progetto, delineato nel di-cembre 1808 (lettera al Monti, in Epistolario, II, pp. 544-545), degli Inni italiani (che avrebbe-ro dovuto essere «scritti con la ragione morale e poetica de’ Sepolcri»), l’ultimo posto spettava al-l’inno A Pindaro, l’unico «in metro rimato, e a strofi, antistrofi, epodi alla greca», che avrebbedovuto trattare «della divinità della poesia lirica e delle virtù e de’ vizi de’ poeti che la maneg-giarono». E si ricordi anche che Didimo «cantava, e s’intendeva da per sé, quattro odi di Pin-daro» (Notizia intorno a Didimo Chierico, in FOSCOLO 1979, p. 180).

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genere, antico e moderno, dell’epistola in versi61. Quanto a Omero, i suoi poe-mi, e soprattutto l’Iliade, vengono presentati dallo Pseudo-Longino quali mas-simi esempi di “sublime” poetico (a conseguire il quale valgono a suo avviso cin-que elementi: capacità di grandi concezioni, passione violenta e ispirata, im-piego sapiente delle figure di parola e di pensiero, nobiltà di stile, disposizionesolenne ed elevata delle parole)62; ma non bisogna dimenticare che per gli an-tichi (e anche per il Poliziano della selva Ambra, ben conosciuta da Foscolo eda lui messa a frutto nei Sepolcri prima e nelle Grazie poi) Omero è inoltre pa-dre e principe di ogni genere poetico, giacché nei suoi poemi egli realizza unamirabile alternanza e compresenza di tutte le possibili forme di poesia63. Pro-prio questa alternanza e questa compresenza caratterizzano i Sepolcri, conl’obiettivo di dar vita a una sorta di poesia “totale” unificata dal calor biancodell’entusiasmo lirico e dal pervasivo intento civile e politico.

Si direbbe in effetti che i Sepolcri si propongano di sintetizzare e quasi di“bruciare” nel breve spazio di meno di trecento versi tutti quei molteplici ge-neri e registri (epistola, poemetto didascalico, satira, sermone, epica, tragedia,traduzione) che la tradizione consentiva di travasare – e talora anche, in qual-che misura, di contaminare – nelle ampie volute dell’endecasillabo sciolto64.Delle quattro sezioni in cui Foscolo, nella sua risposta al Guillon, suddivide ilcarme, la prima (vv. 1-90, sui sepolcri come sede di affetti privati) presenta uncarattere elegiaco (e spesseggia non a caso di reminiscenze della celebre elegiadi Thomas Gray, fatta italiana, fra gli altri, dal Cesarotti e molto ammirata dal

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61 Cfr. ALBERTO TEDESCHI, L’invio del carme nella poesia lirica arcaica: Pindaro e Bacchilide,in «Studi italiani di filologia classica», 78 (1985), pp. 29-54, dove si sottolinea e si dimostra ilcarattere di “epistola poetica” proprio di varie odi dei due lirici presi in esame.

62 Per l’omerismo dei Sepolcri, cfr. LONGONI 2006 e soprattutto BRUNI 2007. Per il Fosco-lo della Chioma di Berenice, Omero è il massimo poeta-teologo (FOSCOLO 1972, p. 309).

63 Cfr. in particolare QUINT., Inst. or., X 1, 46: «Hic enim [scil. Homerus], quem ad modumex Oceano dicit ipse amnium fontiumque cursus initium capere [HOM. Il., XXI 195-197], om-nibus eloquentiae partibus exemplum et ortum dedit». Quanto a Poliziano, vedi Ambra, 476-574, in Poesie, a cura di FRANCESCO BAUSI, Torino, UTET, 2006, pp. 656-666. Questa silva, ol-tre che nelle stampe quattro-cinquecentesche degli opera omnia polizianeschi, si poteva allora leg-gere nell’edizione pubblicata e annotata da Melchiorre Cesarotti (col titolo Ambra sive Homerus.Idylium) in appendice alla sua traduzione dell’Iliade (CESAROTTI 1798-1802, I, pp. 322-343) ein quella uscita a Roma nel 1803, presso Caetani, con trad. it. in sciolti di Francesco Battistini(l’arcade Megete Inopeo), che ripropone le note cesarottiane. Per la sicura conoscenza dell’Am-bra da parte del Foscolo vedi MARIO MARTELLI, Foscolo fiorentino tra Poliziano e Machiavelli, in«Interpres», 3 (1980), pp. 193-244, alle pp. 236-242; e già MARIO POMILIO, Una fonte quattro-centesca dei «Sepolcri», in «Delta», 5 (1953), pp. 51-58. E cfr. qui più avanti p. 118, nota 74.

64 Che la mistione dei generi e degli stili costituisca la peculiarità maggiore dei Sepolcri ap-parve chiaro già a Carducci, secondo il quale nel carme «si confondono in un solo e stupendoconcento gli accenti del sermone e dell’inno, dell’elegia e della satira, della tragedia e dell’epo-pea» (A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni [1873], in Opere, Edizione Nazionale,XX, Bologna, Zanichelli, 1943, p. 321). Dal canto suo, il RAMAT 1946, p. 82, parla, per il car-me, di «concordia discors dell’elegia con la tragedia».

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Pindemonte)65, mentre l’ultima (vv. 213-295, dominati dalla materia omericae post-omerica) si innalza decisamente verso l’epica; ma al loro interno nonmancano elementi allotri, facenti capo rispettivamente alla satira (nella pole-mica contro il «lombardo Sardanapalo», contro la corrotta Milano e control’indegna sepoltura del Parini; ma una satirica memoria di Persio percorre giàl’interrogativa d’apertura)66 e alla tragedia (tragica, per l’ispirazione e per lefonti usufruite, è infatti in buona parte la conclusiva sequenza di Cassandra)67.Le due sezioni centrali, poi, denotano una ancora più ardita mescidanza stili-stica e tematica: la seconda (vv. 91-150) muove dal motivo civile – di ascen-denza vichiana – dell’«istituzione delle sepolture nata col patto sociale»68, maassume poi un andamento più didascalico (descrivendo in ordine inverso, epolemicamente contrapponendo, i «diversi riti» sepolcrali dell’antichità paga-na e del Medioevo cristiano), torna per un attimo al registro elegiaco iniziale(con l’evocazione dei giardini inglesi) e chiude infine con la satira contro lacorruzione dell’Italia contemporanea e in particolare del Regno italico e dellasua classe dirigente; mentre la terza sezione (vv. 151-212) si apre ancora con ac-centi di poesia civile («le reliquie degli Eroi destano a nobili imprese, e nobili-tano le città che le raccolgono»), recuperando poi di nuovo, nell’elenco deigrandi italiani, movenze quasi didascaliche (si pensi all’Invito a Lesbia Cidoniae al primo canto della Mascheroniana, ma anche all’epistola di Pindemonte alFracastoro, con la descrizione delle statue dei grandi veronesi che dovrebberoaccendere gli animi forti a egregie cose), e concludendo con la leggenda di Ma-ratona riferita da Pausania, che prepara lo scatto epico e omerico del finale.

Un finale omerico, quello dei Sepolcri, che si lega strettamente alla versio-ne del primo libro dell’Iliade, condotta in parallelo al carme e pubblicata dalmedesimo tipografo (all’interno dell’Esperimento) solo pochi giorni più tardi;particolare non irrilevante e soprattutto non casuale, giacché sappiamo che Fo-scolo si oppose alla proposta del Bettoni di far uscire in un medesimo volumei due lavori, e anzi fece di tutto perché i Sepolcri apparissero con un certo an-ticipo rispetto alla traduzione omerica (nei suoi voti, infatti, la pubblicazionedel carme sarebbe dovuta cadere alla fine del 1806)69. I Sepolcri potrebbero

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65 Al riguardo vedi qui l’Appendice III.66 Vedi DI BENEDETTO 1990, p. 144, con rinvio ai vv. 36-37 della prima satira persiana.67 NADIA EBANI, Postilla ai «Sepolcri»: «Ho desunto questo modo di poesia...», in «Filologia e

critica», 5 (1980), pp. 380-387, in particolare pp. 383 e 385; e le numerose fonti tragiche ad-ditate nel commento del Longoni, in FOSCOLO 1994, p. 531, per la sezione finale del carme.

68 Parole (come anche, poco oltre, quelle da me usate per descrivere il contenuto della terzasezione) che desumo dal sommario del carme contenuto nella replica foscoliana al Guillon (FO-SCOLO 1972, p. 510).

69 Vedi la lettera a Isabella del 27 dicembre 1806 (FOSCOLO, Epistolario, II, p. 159): «Ho tar-dato a rispondere sperando di farvi leggere stampata l’Epistola, e di mandarla a voi ed al Cava-liere per dono geniale dell’anno nuovo. Ma lo stampatore ed io siam due persone, ed i miei de-

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dunque considerarsi una sorta di poetica epistola comitatoria della versionedell’Iliade, sul modello a lui quanto altri mai familiare di Catullo, che aveva in-viato ad Ortalo la sua traduzione in distici del carme callimacheo sulla chiomadi Berenice accompagnandola con un’epistola nel medesimo metro; ma credopiù probabile che l’autore volesse farli apparire piuttosto come un “preludio”all’Iliade, ossia che per Foscolo il carme dovesse “preludere” alla sua traduzio-ne omerica (di cui l’Esperimento offriva solo un primo saggio), nell’accezionemetaforica e letteraria che questo verbo assume, ad esempio, all’inizio del-l’Achilleide di Stazio, dove il poeta afferma che il suo poemetto su Achille fun-ge da preludio e arra di lavori più alti e impegnativi (nella fattispecie, un poe-ma sulle gesta di Domiziano70; propriamente, si dicevano infatti praeludi glispettacoli introduttivi che precedevano i veri e propri ludi circensi: donde l’ideadi proporre un testo “minore” – nelle dimensioni e nello stile – quale prodro-mo, anticipazione e promessa di un’opera “maggiore” ancora di là da venirema già progettata, se non già messa in cantiere dallo stesso autore). Una no-zione, questa del preludere, che Foscolo trovava anche in altri testi a lui ben no-ti, quali le Silvae staziane, le Stanze e la selva Manto del Poliziano, nonché il Cu-lex (citato proprio per questo nella dedica della Chioma di Berenice, dove Ugodichiara il lavoro erudito della Chioma stessa preparatorio a scritti più ardui eprofondi cui i tempi non gli consentono per il momento di dedicarsi)71: tuttitesti nei quali, come nell’Achilleide, si specifica che l’opera maggiore cui la mi-nore prelude è un poema epico.

E il miglior modo per “preludere” a Omero era ovviamente imitarlo, anzi,per meglio dire, emularlo in chiave moderna e attualizzante, come appunto sifa nella parte finale dei Sepolcri, ancora seguendo i dettami dello Pseudo-Lon-gino, secondo il quale una delle vie che porta al sublime è proprio l’emulazio-ne dei grandi scrittori e poeti del passato, che consiste nel gareggiare con loro,traendo ispirazione dalla loro grandezza e quasi sfidandoli sul loro stesso ter-reno. Non a caso, i Sepolcri si concludono con una sequenza che sembra inca-ricata di aprire la strada all’imminente Esperimento, conferendo al carme un

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creti sono intromessi dal suo veto. Mandandogli da stampare un canto d’Omero [...] il Padronede’ torchi disse al Padrone de’ versi ch’egli invece di un opuscoletto, avrebbe voluto fare un li-bro elegante, e pregandomi, ed adulandomi e seducendomi, mi deliberò ad unire all’epistola lemie poesie già stampate, e la versione del primo canto di Omero».

70 Vv. 14-19, in particolare vv. 18-19: «[...] Te longo necdum fidente paratu / molimur ma-gnusque tibi praeludit Achilles».

71 FOSCOLO 1972, p. 271: «‘Posterius graviore sono tibi musa loquetur / Nostra: dabuntcum securos mihi tempora fructus’» [Culex, 8-9, dove il poeta si rivolge al non meglio identifi-cato Ottavio cui dedica il poemetto]. Se non che de’ nostri studj, come di tutte le mortali cose,tocca a decidere più alla fortuna che a noi». E prima, a p. 270: «Né mi sarei accinto a farla dacommentatore se in questa infelice stagione non avessi bisogno di distrarre come per medicinala mente ed il cuore dagli argomenti pericolosi a’ quali attendo per istituto».

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carattere grecizzante e omerizzante che lo proietta verso la traduzione dell’Iliade,quasi visibilmente “agganciandolo” ad essa. Nell’ultima sezione, infatti, Fo-scolo si pone quale estremo erede e continuatore di Omero, proseguendo lasua opera nel solco della a lui ben nota letteratura post-omerica72 (esattamen-te come aveva fatto, ancora una volta, Poliziano nell’Ambra), ossia lavorandocon gusto alessandrino nelle pieghe dei miti73, con l’ausilio di altre fonti – perlo più tarde e peregrine, come Pausania, Apollodoro e gli scolii di GiovanniTzetze all’Alexandra di Licofrone – che consentono di aggiungere un filo allagrande trama di quegli immortali poemi. E il modello dell’Ambra sembra quiparticolarmente pertinente, se pensiamo che la selva polizianesca nacque comeprolusione accademica in esametri a un corso sui poemi di Omero («in poetaeHomeri enarratione pronuntiata», recita il titolo), e che anche il suo autore –come Foscolo aveva appreso da Tiraboschi e Roscoe, nonché dalle Stanze del-lo stesso Poliziano – si era misurato con la traduzione poetica (latina) dell’Ilia-de74. Lo stretto rapporto fra Sepolcri ed Esperimento è evidenziato anche dalladecisione del poeta di corredare di note il carme, presentato dunque implici-

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72 Nelle liste dei libri fiorentini e milanesi di Foscolo erano compresi vari testi della lettera-tura post-omerica (Quinto Smirneo, Trifiodoro, Filostrato, Colluto di Licopoli): cfr. LONGONI

2006, pp. 317-318 e 324, e GIUSEPPE NICOLETTI, La biblioteca fiorentina del Foscolo nella Bi-blioteca Marucelliana, Firenze, S.P.E.S, 1978, pp. 92-105. Inoltre, alcuni di questi testi, fino al-l’Ambra di Poliziano, erano stati editi da Cesarotti a complemento della sua traduzione del-l’Iliade.

73 Come osserva DI BENEDETTO 1990, p. 239, «il segno più evidente della libertà con cui ilFoscolo si poneva di fronte al testo di Omero è dato dal fatto che Elettra non è menzionata neipoemi omerici» (l’episodio della sua morte è invenzione foscoliana di tipo post-omerico, co-struita sulla base dell’episodio di Tetide e Zeus nel primo dell’Iliade); e l’intera parte finale delcarme non è fondata su Omero, ma sulle tradizioni post-omeriche (vedi LONGONI 2006, p. 326;e il suo commento al carme, in FOSCOLO 1994, p. 531: «Omero ignora il dono profetico diCassandra e la leggenda della profetessa che predice la caduta di Troia appartiene a mitografi, co-me Apollodoro, piuttosto tardi: l’episodio va perciò considerato estensione della tradizione ac-colta da Virgilio nel passo menzionato dal Foscolo nella sua nota [...] e risalente, per quanto ciè dato sapere, all’eschileo Agamennone»).

74 In particolare, dall’Ambra sembrano provenire – con precisi contatti testuali – due im-portanti spunti della parte conclusiva del carme: quello di Omero che, evocandole dal sepolcro,interroga le ombre degli eroi e da essi apprende le loro gesta, rendendole poi immortali con lasua poesia (Ambra, vv. 260-298, che si fondano sugli scolii di Ermia Alessandrino al Fedro pla-tonico e sull’Eroico di Filostrato, XLIII 10-16; in forme meno elaborate, lo spunto ricorre tut-tavia anche in testi più vicini, dalla Malinconia di Legouvé – come osserva RAFFAELLA BERTAZ-ZOLI, La tradizione della poesia sepolcrale e i versi di Ugo Foscolo, in BARBARISI-SPAGGIARI 2006,I, pp. 9-62, a p. 61 – all’ode premessa da Antoine Houdar de La Motte alla sua traduzione fran-cese dell’Iliade, e riportata da Cesarotti in appendice alla sua versione del poema); e quello di Cas-sandra che profetizza l’avvento di un poeta (Omero, appunto) capace di eternare la memoria deiguerrieri greci e troiani (nel poemetto polizianesco, vv. 132-179, Giove analogamente annun-cia a Tetide – addolorata per la sorte del figlio Achille – la nascita di un grande poeta che gli da-rà gloria immortale). Anche per la preghiera di Elettra a Giove l’Ambra è modello importante,ma alla base di entrambi i testi stanno i vv. 503-530 del primo dell’Iliade (vedi il commento delLongoni, in FOSCOLO 1994, pp. 527-528).

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tamente come un “classico” meritevole e bisognoso – al pari dell’Iliade e, pri-ma, del poemetto di Callimaco-Catullo sulla chioma di Berenice – di chioseerudite e esplicative75; e di nuovo si può fare il nome del Poliziano, che non di-versamente si era comportato con alcune delle sue dottissime silvae – fra cuil’Ambra –, commentandole e facendole oggetto di esegesi grammaticale ed eru-dita, sullo stesso piano dei classici greci e latini, nella prima centuria dei suoiMiscellanea (citati da Foscolo nella Chioma)76.

Foscolo, come abbiamo appena ricordato, afferma, riguardo ai Sepolcri, diaver desunto questo modo di poesia dai Greci, senza dunque rivendicare un’ori-ginalità che per la sua formazione classica egli stesso ripetutamente dichiaraimpossibile in letteratura77. Tace, però, non solo su certi esempi latini (quellitibulliani ricordati da Antonio Bianchi)78, quanto soprattutto – come sono so-liti fare gli scrittori – sugli esempi più prossimi, e in particolare su alcuni pre-cedenti modernissimi che certamente esercitarono una qualche suggestione sulprogetto dei Sepolcri. In primo luogo le due Pindaric Odes di Thomas Gray(del 1757), segnatamente la seconda, The Bard 79, in più occasioni elogiata daFoscolo, che su di essa – nelle sue Osservazioni critiche in merito alla traduzio-ne italiana eseguitane dal Berchet – scrisse nel 1808 parole per noi illuminan-ti, lodandone l’autore (definito l’unico lirico moderno «che pareggi se non lafecondità, certo il vigore di Pindaro»), affermando che il suo stile «sente il pin-darico e lo scritturale», e altamente apprezzandone il «sublime mistero», le«transizioni rapidissime e impercettibili quasi», i «pensieri arditi», l’«armonia se-

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75 Sulle note foscoliane al carme vedi LONGONI 2000, pp. 49-83, alle pp. 68-74. Analogorapporto (peraltro tipicamente “umanistico”, e in quanto tale caratteristico di una ben precisalinea della nostra letteratura, da Petrarca a Pascoli) fra studi filogico-eruditi e attività poetica sirinviene anche nel giovane Pindemonte, che nel 1776 pubblicò la traduzione degli Argonauticadi Valerio Flacco del prozio Marcantonio corredandola di due saggi (uno sull’uso della mitolo-gia nel poema, l’altro sul volgarizzamento della Tebaide eseguito da Cornelio Bentivoglio), e cheaccompagnò la sua giovanile tragedia Ulisse – edita nel 1778 – con apposite Osservazioni criti-co-erudite (cfr. CIMMINO 1968, I, pp. 17, 209-210, 276-282).

76 Le note dimostrano che Foscolo intendeva presentare i Sepolcri come poesia dotta e riflessa,e anche, almeno in qualche misura, come un’operazione erudita (non a caso, le sue note verto-no tutte o quasi sulle sole fonti classiche del carme). Siamo lungo la linea che condurrà ai Con-viviali ma soprattutto alle Canzoni di re Enzio del Pascoli, sommi esempi moderni di poesia eru-dita, e perciò dotata dall’autore di note esegetiche, linguistiche e sulle fonti; ma anche Leopar-di appose ampie note di questo genere all’edizione bolognese delle sue dieci Canzoni, apparsa nel1824 (note più essenziali, e per questo aspetto più vicine a quelle dei Sepolcri, caratterizzano in-vece l’edizione Starita).

77 In proposito, il passo più noto è quello contenuto nella lettera al Guillon (FOSCOLO 1972,p. 509); ma cfr. anche FOSCOLO, Il «Bardo» di Tommaso Gray (del 1807; ivi, p. 712); la letteraal Bartholdy (ed. cit., p. 253: «L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rap-presentare con novità»); e la Notizia bibliografica nell’Ortis zurighese del 1816 (FOSCOLO, Ortis[1995], pp. 288-289).

78 BIANCHI 1808, pp. 558-559.79 GRAY 1930, pp. 18-25.

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vera» e quell’uso sapiente della storia che «va sempre applicata all’alta lirica, laquale senza fatti grandi, sieno storici o mitologici, riescirà sempre nuda d’im-magini e di passioni»80. In quella stessa sede, Foscolo sottolineava come all’odedi Gray si fossero ispirati in Italia tanto l’Alfieri, quanto soprattutto il Montinel primo canto del suo Bardo della Selva Nera, apparso nel giugno 1806, po-co prima che balenasse in Ugo l’idea del carme, e subito da lui salutato comeesempio illustre di «mirabile» poetico, cioè di un nuovo genere capace di tem-perare il suono della corda lirica con la maestà dell’epopea e la grandiosità del-la tragedia, realizzando così una mistione di sublime, maraviglioso, bello, te-nue e patetico, un «chiaroscuro di sentimenti, di scene e di passioni» che già ciproietta nell’officina dei nascenti Sepolcri e nella loro polimorfa natura epico-lirica81. E accanto a Monti, anche (e ancor più, data l’affinità dei generi), ilgiovanissimo Alessandro Manzoni e Ippolito Pindemonte, non a caso gli uni-ci poeti viventi citati da Foscolo nelle sue note ai Sepolcri. Il Manzoni deglisciolti In morte di Carlo Imbonati, che (oltre a giocare un ruolo non seconda-rio nel carme, in virtù dell’inserto su Omero – riportato da Foscolo nelle notecon parole di elogio per il suo autore – e di altri significativi spunti, evidenziatirecentemente da Arnaldo Bruni)82 realizzano, pur adottando il logoro espe-diente della visione, una non banale contaminazione di stili, muovendosi – en-tro dimensioni solo di poco inferiori a quelle dei Sepolcri – tra elegia, satira,

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80 FOSCOLO, Il «Bardo» di Tommaso Gray, pp. 709-711. In questo breve scritto, inoltre, Fo-scolo sottolinea l’ispirazione pindarica (dalla quarta Pitica) dell’ode, e ne fornisce una descri-zione («le transizioni sono rapidissime e impercettibili quasi; i pensieri arditi; l’armonia severa;e tutto il poema è adombrato da quel sublime mistero nemico de’ nostri lettori di Metastasio edi Boileau, ma gratissimo agl’intelletti [...] curiosi della storia che va sempre applicata all’alta li-rica»: ivi, pp. 710-711) che si attaglia perfettamente anche ai Sepolcri. Dell’ode del Gray (pri-mamente tradotta in italiano da Marco Lastri nel 1784) condusse nel 1879 una ancora ineditatraduzione prosastica Giosue Carducci, facendola seguire da alcune osservazioni storico-critiche(Bologna, Biblioteca di Casa Carducci, cart. LVI 5, I, cc. 3v-12v). Vedi GIOVANNA CORDIBEL-LA, Carducci traduttore di antichi e di moderni (con un’appendice di versioni inedite da Virgilio),in «Atti e Memorie dell’Accademia Nazionale Virgiliana di Scienze, Lettere e Arti», n.s., 75(2007), pp. 279-303, a p. 280.

81 FOSCOLO, Osservazioni sul poema del «Bardo», pp. 467-479. In questo importante scritto(che uscì anonimo sul «Giornale Italiano» dall’1 all’8 luglio 1806, proprio quando stava pren-dendo forma il progetto dei Sepolcri), Foscolo loda il poema montiano come un «nuovo sentie-ro» che collega «l’epopea alla lirica», realizzando così un perfetto esempio di «mirabile» moder-no, nel quale «i tre attori del poema [il bardo Ullino, sua figlia Malvina e il guerriero franceseTerigi] servono tutti alla lirica, alla drammatica ed all’epopea. Aggiungasi l’episodio della madreitaliana di Terigi, della morte di lei, del sepolcro della moglie del bardo, e si vedrà che l’Autoreha sviscerato il sublime, il maraviglioso, il bello, il tenue ed il patetico, e li ha tutti ingegnosa-mente impastati nella sua tavolozza» (p. 470). Per «tenue» vedi qui p. 103, nota 21.

82 ARNALDO BRUNI, Le «Grazie» da Manzoni a Foscolo, in IDEM, Belle vergini. «Le Grazie» traCanova e Foscolo, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 72-77. L’influenza del carme manzoniano suiSepolcri, che era stata enfatizzata da Giuseppe Rovani, fu, com’è noto, polemicamente ridimen-sionata da Carducci nel cit. saggio A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni, pp. 320-321.

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poesia didascalica e civile; e il Pindemonte delle Epistole (uscite a stampa, ripeto,nel 1805), che, pur dominate dalla tonalità elegiaca, non disdegnano frequen-ti incursioni in altri territori, facendo posto ora alla polemica contro il tempopresente (e segnatamente, come si diceva, contro le guerre), ora alla satira let-teraria e di costume, ora all’invettiva politica (contro le violenze della Rivolu-zione e i trafugamenti di opere d’arte compiuti dai Francesi in Italia), ora allapoesia civile (col richiamo agli Italiani affinché traggano ispirazione dai gran-di del passato per riscattare la presente decadenza). Anche Ippolito, dal cantosuo, era un amante di Pindaro, come si evince dal suo sermone Il Parnaso, do-ve i primi quattro poeti da lui incontrati sono Omero, Virgilio, Pindaro e Ora-zio, e dove quest’ultimo – presentato come un più cauto e timoroso seguace delcigno tebano – gli porge uno specchio nel quale Pindemonte vede non il pro-prio volto, ma appunto i volti degli stessi Orazio e Pindaro, indicati quindiquali modelli primari della sua arte. Non a caso, nei suoi Sepolcri (scritti a tam-bur battente in risposta a quelli di Ugo) Pindemonte, peraltro molto garbata-mente, criticherà del carme dell’amico non – a differenza del Guillon e delTorti – la pluralità dei registri e dei temi, ma solo l’oscurità di certe parti e ildotto inserimento, nell’ultima sezione, di personaggi ed eventi antichi, a suoavviso sconvenienti in un genere “mezzano” e discorsivo come l’epistola («es-ser potevate forse – scrive Ippolito a Foscolo nella lettera del 15 aprile 1807 –men dotto e antico, e un po’ più chiaro e moderno»)83.

D’altronde, anche quando, in seguito, l’amicizia fra i due si incrinò e lasciòil posto a incomprensioni e risentimenti, Foscolo ebbe a lodare (nel pur agro-dolce e complessivamente supercilioso capitoletto su Pindemonte compresoall’interno del Saggio sulla letteratura italiana contemporanea, pubblicato inlingua inglese nel 1818) le non comuni doti poetiche di Ippolito, additandonelle Epistole la sua opera di maggior pregio, e sottolineando in esse proprioquella varietas di contenuti e di toni cui accennavo poc’anzi, e che evidente-mente costituiva per Ugo l’aspetto più interessante e originale di questi testi:

Alcune sue liriche, e in modo particolare le sue epistole in versi che rappresentano unfelice risultato di qualità molteplici e di non facile combinazione, sono le opere più ap-prezzate di Pindemonte. Gli Italiani vi riconoscono l’amenità di Orazio, la soavità delPetrarca e un’austerità dei sentimenti e delle idee che il Pindemonte deve forse allapoesia inglese, che il Mazza frequentò, tentando un trasporto del nostro stile nella suapoesia.84

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83 FOSCOLO, Epistolario, II, p. 191 (e vedi qui l’Appendice IV). Va sottolineato anche il fat-to che Ippolito, a differenza del Guillon e del Torti, non biasima se non indirettamente e larva-tamente (nei suoi Sepolcri) il materialismo del carme foscoliano: altro indizio della benevolenzae dell’amicizia con cui allora Pindemonte guardava al più giovane Ugo.

84 FOSCOLO, Essay, p. 1482.

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Ma è indubbio che Pindemonte, nelle Epistole come nei Sepolcri, rimanga nelcomplesso molto più fedele di Foscolo alle convenzioni del genere poetico epi-stolare, conservando quella medietas tonale e quella organicità tematica che i Se-polcri clamorosamente infrangono (giacché nelle Epistole di Ippolito l’alter-nanza dei registri si realizza non tanto all’interno dei singoli componimenti,quanto, per lo più, tra un componimento e l’altro)85. Un segno, minimo masignificativo, di questa volontà di “rottura” è la rinuncia, da parte di Foscolo,a far precedere il carme da una prefazione prosastica (accantonando anche quel-la appositamente stesa per lui dal Monti negli ultimi giorni di febbraio del1807)86, prefazione che invece il Pindemonte, del tutto tradizionalmente, ap-pone sia alle Epistole che ai Sepolcri e ai Sermoni, osservando come essa bene siaddica a quelle forme di poesia più vicine alla dimessa discorsività della prosa87.Quella dimessa discorsività che i Sepolcri foscoliani si prefiggono di original-mente innalzare alla sublimità della lirica e dell’epica greca, sostituendo il mo-dello oraziano con quelli di Omero e di Pindaro, e compiendo così l’ardimen-toso tragitto dall’epistola al carme88, nell’ambizioso e innovativo intento dicangiare (come avrebbe detto Montale) in inno l’elegia.

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85 Sotto questo aspetto, è indicativo che nei suoi Sepolcri Ippolito, dopo aver a lungo e continte forti descritto le catacombe dei Cappuccini a Palermo, muti registro, quasi scusandosi diaver introdotto in una “epistola” elegiaca un inserto giocato su toni ad essa poco confacenti:«Ma stringer troppo e scompigliar qualche alma / Questa scena potria» (red. del 1807, vv. 161-162): PINDEMONTE 2002, p. 30. Sulla diversità di genere tra i due Sepolcri, il Foscolo insistenella lettera al Bottelli del 27 novembre 1807 (FOSCOLO, Epistolario, II, p. 311); e Ignazio Mar-tignoni, analogamente, ascrisse i Sepolcri pindemontiani alla categoria del Bello, innalzando quel-li foscoliani alla sfera del Sublime (Del bello e del sublime, Milano, Mussi, 1810, cit. da LUCCHI-NI 2006, p. 678). Con la consueta lucida esattezza CARDUCCI, Foscolo e i Sepolcri, p. 134: «Il Fo-scolo prese forse l’idea della forma dei Sepolcri dalle epistole del Pindemonte: come quelle, svol-ge un concetto morale. [...] Ma poi ne riuscì tutt’altro che un’epistola».

86 Per questo cfr. GAVAZZENI 1987, pp. 365-366.87 Nella prefazione ai Sermoni, Pindemonte afferma esplicitamente che in un genere come

il sermone («men lontano dal favellar comune, che sente non poco del filosofico, e in cui certa-mente la riflessione domina più che l’inspirazione») non è sconveniente anteporre ai testi poe-tici una prefazione in prosa. Su quest’uso vedi anche le osservazioni foscoliane al Bardo montiano,dove si sostiene che Monti, nella prosa che precede il poema, riprende l’antica consuetudine di«innestare la prefazione nella dedicatoria» mentre «i Greci e i Latini dedicavano l’opera co’ pri-mi versi, esempio lasciatoci da Virgilio nelle Georgiche, da Lucano, da Teognide ed Esiodo e datanti altri imitati dai nostri e segnatamente dall’Ariosto» (FOSCOLO, Osservazioni sul poema del«Bardo», p. 478).

88 PIZZAMIGLIO 2006, p. 212, parla, di contro all’«accezione patetica e sentimentale» in cuiPindemonte declina il modello epistolare oraziano, della decisa virata di Foscolo verso quei «to-ni epici e civili che connotano il “sublime” foscoliano, e suggeriranno poi il definitivo inserimentodell’epistola Dei sepolcri nel nuovo e più alto genere letterario, del tutto personale, del carme»;anche se non manca di sottolineare, nelle epistole pindemontiane, gli elementi di novità cheavrebbero potuto in qualche misura spingere Foscolo in questa rivoluzionaria direzione.

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APPENDICI

I. Pindemonte nei «Sepolcri» (vedi qui pp. 109-110)

Oltre ai contatti segnalati nelle pagine precedenti, cfr. in particolare Cimiteri, 26-28: «Né un marmo sol, né una sentenza sola, / Il passeggier concittadino sguardo /Fermando, le dolenti Ombre consola» (PINDEMONTE 2002, p. 41: cfr. FOSCOLO, Se-polcri, 40: «Le ceneri di molli ombre consoli», con identico ritmo del v. 28 dei Cimi-teri e identica sinalefe “foscoliana” fra gli accenti ribattuti in sesta e settima sede; e an-che ivi, v. 49: «Né passeggier solingo oda il sospiro»); vv. 31-32: «Ahi sciagurata età,quando men caro / Il viver torna, ed il morir più amaro!» (PINDEMONTE 2002, p. 41:cfr. FOSCOLO, Sepolcri, 1-3: «All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / Confortate dipianto è forse il sonno / Della morte men duro?»; ma aggiungi di Pindemonte anchePoesie campestri, Lamento d’Aristo, VI 6-8 [PINDEMONTE 1858, p. 36]: «È morte cosìfier tormento? / È l’arrestarsi nell’uman vïaggio / Duro così? Non è, risponde, al Sag-gio»); vv. 113-120, dove uno dei defunti lamenta di essere stato ucciso da un ladro chelo aveva derubato e che, a sua volta morto, ora si trova al suo fianco nel cimitero di Ve-rona (FOSCOLO, Sepolcri, 75-77, dove al cadavere di Parini «forse l’ossa / Col mozzo ca-po gl’insanguina il ladro / Che lasciò sul patibolo i delitti»); vv. 173-174: «Se ricovrarsi vietò a noi nel fondo / Del tempio sin che il giorno ultimo arrive» (FOSCOLO, Sepolcri,45-46: «O ricovrarsi sotto le grandi ale / Del perdono d’Iddio»); v. 275: «si volle il ca-ro estinto a noi vicino» (FOSCOLO, Sepolcri, 32-33: «Per lei si vive con l’amico estinto,/ E l’estinto con noi»). Quanto ad altri scritti del cavaliere veronese, DI BENEDETTO

1990, pp. 151 e 252, ricorda La sera, VI 5 (Poesie campestri, in PINDEMONTE 1858,p. 28: «E il crin, che ambrosia piove a larghe stillle») per FOSCOLO, Sepolcri, 252 («Pio-vea dai crini ambrosia su la Ninfa») e XIII 6 (ivi, p. 29: «Per dar ristoro al fianco er-rante e lasso»: sasso) per FOSCOLO, Sepolcri, 13 («Qual fia ristoro a’ dì perduti un sas-so»); e a p. 197 osserva come l’elogio di Firenze contenuto nei Sepolcri si trovasse già,in termini analoghi e con notevoli affinità testuali, nell’epistola a Guglielmo Parsons(1788, poi edita nel Saggio di prose e poesie campestri del 1795), dove si accenna anchealle tombe dei grandi sepolti a Firenze e si cantano le lodi di Galileo, presentato comeprecursore di Newton (PINDEMONTE 1858, pp. 507-511). Possiamo aggiungere che an-che le Poesie campestri lasciano tracce nei Sepolcri (il che non meraviglia, essendo espres-samente ricordate da Foscolo nelle sue note al carme): per FOSCOLO, Sepolcri, 5 («Bel-la d’erbe famiglia e d’animali») cfr. La solitudine, 112 (con analoga struttura sintatticafondata sull’iperbato, PINDEMONTE 1858, p. 8: «E per l’ampia degli astri aurea fami-glia», non diversamente da Sermoni, La mia apologia, 116-117 (ivi, p. 304): «Quel bel-lo d’arte e di pietà romana / Monumento»), e soprattutto La sera, XII, 7-8 (ivi, p. 29:«Né il prato, e la gentil sua varia prole / Rivedrò più»). Al v. 39 di FOSCOLO, Sepolcriper «odorata» nell’accezione di ‘odorosa’ («odorata arbore») i commenti rinviano soloa precedenti latini, ma vedi anche l’epistola al Parsons, 21 (PINDEMONTE 1858, p. 508:«aere odorato», e già nell’Epitalamio per le nozze Giuliari-Dal Pozzo [1784], 9: «odo-rata persa» [ivi, p. 72]; i lessici, prima di Pindemonte, riportano solo un esempio tre-centesco e vari esempi cinque-seicenteschi, ma l’agg. ricorreva anche al v. 114 della fo-

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scoliana traduzione della Chioma di Berenice di Catullo: «odorati unguenti»); ai vv. 17-18 di FOSCOLO, Sepolcri («e involve / Tutte cose l’obblio nella sua notte»), un’eco deLa sera, IX 8 (PINDEMONTE 1858, p. 29: «e la via tutta involve»). Infine, osservo chela polemica antifrancese dei vv. 180-186 di FOSCOLO, Sepolcri («Ma piú beata che inun tempio accolte / Serbi l’Itale glorie, uniche forse / Da che le mal vietate Alpi e l’al-terna / Onnipotenza delle umane sorti / Armi e sostanze t’invadeano ed are / E patriae, tranne la memoria, tutto») è uno dei motivi conduttori delle epistole pindemontia-ne, giacché ricorre nella VIII (a Scipione Maffei, del 1801), nella IX (a Benedetto diChâteauneuf, del 1802) e nella XI (a Girolamo Fracastoro, del 1803), dove il poetaaspramente si scaglia contro le spoliazioni napoleoniche delle opere d’arte italiane: PIN-DEMONTE 1858, pp. 113-122, 126-131.

II. I «canori elefanti» (vedi qui p. 111)

L’apprezzamento del Pindemonte per le doti canore dei castrati – di contro allacondanna foscoliana – emerge chiaramente da almeno tre suoi testi: il poemetto La not-te (in PINDEMONTE 1858, p. 31), IV 5-6 («Qui non s’ascolta, è ver, sospiri e rime / Danon virile uscir musico petto»; e nelle ottave successive il canto dei castrati, unitamentea quello femminile, alla danza, ai balli e ai conviti, viene incluso fra tutto ciò che è«mirabile» e che «dal mondo gentil tanto s’apprezza» [VI 1-2: ibidem]); il sermone III(La buona risoluzione), che, rimpiangendo i tempi in cui si poteva chiaramente udiresulle scene «la voce del canoro Eunuco» e deplorando la «melodìa corrotta» «dal pue-rile / Desir del nuovo», polemizza duramente contro il melodramma contemporaneodi gusto romantico, scritto «con penna / Vandala o Gota» e definito con disprezzo daIppolito «lago di note e di contrari suoni» (ivi, pp. 275-277); e il sermone IX (Le opi-nioni politiche: ivi, pp. 306-310), che nel verso finale menziona con ammirazione Gio-van Battista Velluti (1780-1861), l’ultimo dei grandi castrati. Quanto a Parini, che, co-me è noto, conduce la sua dura polemica contro i castrati nel capitolo Il teatro (67-96,in PARINI 1965, pp. 90-91, con citazione dei celebri Farinelli [al secolo Carlo Broschi]e Giovanni Carestini) e nell’ode La musica (1-2, in PARINI 1975, p. 81: «Aborro in sula scena / Un canoro elefante»), vedi da ultimo GIUSEPPE NICOLETTI, Prove di satira neisermoni pariniani, in IDEM, Dall’Arcadia a Leopardi. Studi di poesia, Roma, Edizioni diStoria e Letteratura, 2005, pp. 77-91, alle pp. 84-86. Un accenno polemico ai castra-ti si legge anche nel sermone-satira I funerali di Giovanni Berchet (Milano, Cairo eC., 1808), dove l’autore, ai vv. 212-213, stigmatizza «il lezïoso / degli immani eviratieterno trillo» che si ode durante le opulente esequie del ricco (il componimento, nonimmemore né dei Sepolcri foscoliani né di quelli del Pindemonte, si legge in Opere edi-te e inedite, pubblicate da FRANCESCO CUSANI, Milano, Pirotta e Comp., 1863, pp. 15-23; i vv. cit. sono a p. 21); proprio l’usanza di far cantare gli evirati durante i funeralipiù sontuosi e solenni (ancora Alessandro Moreschi, l’ultimo castrato della storia, si esi-birà ai funerali di Napoleone III e di Umberto I) spiega perché Foscolo ne abbia in-trodotto la menzione – altrimenti difficilmente giustificabile – ai vv. 73-74 dei Sepol-cri, dove i castrati sono evidentemente il simbolo del vano sfarzo con cui Milano, «la-sciva / D’evirati cantori allettatrice», suole celebrare le esequie dei ricchi e dei potenti(di cui più esplicitamente in seguito, ai vv. 137-145, il poeta biasimerà con forza gli

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inutilmente pomposi monumenti funebri), mentre ha vergognosamente trascurato diconcedere degna sepoltura al grande Parini. Si ricordi tuttavia che l’Alfieri, nella sati-ra XI (La filantropinerìa), si scaglia contro gli illuministi “volteriani” francesi, i quali,fra le altre “riforme”, intendevano imporre d’autorità l’abolizione dei castrati: «L’ungrida: Ecco perché l’Italia è inerme: / Codarda, or volge il barbaro coltello / Solo atroncar de’ suoi Cantor lo sperme»; «Per te, serbato alla comune Parca / Avrà l’italo mu-sico il suo intero, / A viril vita ricondotto e parca» (vv. 19-21 e 82-84; in VITTORIO AL-FIERI, Scritti politici e morali, III, a cura di CLEMENTE MAZZOTTA, Asti, Casa d’Alfie-ri, 1984, pp. 160 e 163).

III. L’«Elegy» di Thomas Gray tra Foscolo e Pindemonte (vedi qui pp. 115-116)

I principali debiti foscoliani nei confronti dell’Elegy sono segnalati nei miglioricommenti al carme89. Aggiungo solo che a Foscolo erano certamente note, oltre a quel-la del Cesarotti, anche altre traduzioni dell’elegia, da quella latina di Giovanni Costa(un segmento della quale, come è noto, fu adottato quale epigrafe dell’Ortis fin dal-l’edizione del 1798: «Naturae clamat ab ipso vox tumulo»; si tratta del secondo emisti-chio del v. 91 e dell’attacco del v. 92, che riecheggiano anche ai vv. 49-50 dei Sepolcri)a quelle italiane di Giuseppe Gennari e GiuseppeTorelli. I vv. 121-123 del carme (FO-SCOLO, Sepolcri, p. 128: «Perché gli occhi dell’uom cercan morendo / Il Sole; e tutti l’ul-timo sospiro / Mandano i petti alla fuggente luce») sembrano infatti più vicini alla tra-duzione in terzine del Gennari (edita insieme alla latinizzazione del Costa a Padova,Comino, 1772), vv. 130-132 («E chi mai tra’ mortali oggi può tanto, / che lasci i vivirai del Sol fiammante / senza un sospir, senza un segnal di pianto?») che a quella di Ce-sarotti, vv. 134-136 («Chi del vivido giorno i rai sereni / abbandonò, senza lasciarsi in-dietro / un suo languente e sospiroso sguardo»); mentre ai vv. 36-38 dei Sepolcri («sa-cre le reliquie renda / Dall’insultar de’ nembi e dal profano / Piede del vulgo, e serbiun sasso il nome») si percepisce un’eco dai vv. 77-78 dell’elegia del Gray («Yet eventhese bones from insult to protect / some frail memorial still erected nigh») non tan-to nella versione cesarottiana (vv. 119-121: «Ora a guardar le fredde ignobili ossa /Dalle ingiurie del ciel, qui presso eretto / Di fragil terra un monumento [...]»), quan-to piuttosto in quella eseguita in quartine a rima alterna (il medesimo metro dell’ori-ginale) da GiuseppeTorelli (che cito dalla prima edizione, Verona, Per gli eredi di Ago-stino Carattoni, 1776, con testo originale a fronte, p. XVII), l’unico che intepreta l’in-sult di Gray come la profanazione compiuta da uomini rozzi e irriguardosi (vv. 77-78:«Pur a difender da villano insulto / quest’ossa [...]» = «dal profano / Piede del vulgo»,FOSCOLO, Sepolcri, 37-38). Che Foscolo ben conoscesse (tanto da citarne alcuni versia memoria in due lettere degli anni 1807-1808) la traduzione del Torelli, e che l’abbiautilizzata nei Sepolcri e altrove, dimostra LONGONI 2000, pp. 77-83 (e inoltre vediBERTAZZOLI 2002, pp. 80-81, e pp. 57-58 per le numerose traduzioni italiane sette-ottocentesche dell’elegia di Gray), e lo aveva intuito già CARDUCCI, Foscolo e i Sepol-

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89 GRAY 1930, pp. 34-38.

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cri, pp. 119-128, secondo cui «il germe dei Sepolcri» (ivi, p. 128) sta in due strofe del-l’elegia di Gray [vv. 85-92] nella traduzione del Torelli, che egli trascrive (ivi, p. 138).La traduzione del letterato e matematico veronese Giuseppe Torelli (uscita nel 1776,ma composta alcuni anni prima e precedente quella del Cesarotti: vedi GIACOMO ZA-NELLA, Tommaso Gray e Ugo Foscolo, in ZANELLA 1884, p. 186, e LONGONI 2000, pp.77-78) è lodata da Pindemonte (che per la morte del Torelli, nel 1781, compose il po-limetrico Lamento d’Aristo, compreso, in ultima sede, nelle Poesie campestri, e che nefece l’interlocutore – intrattenendo con lui un dialogo immaginario sulla morte – del-la penultima delle Prose campestri) nel primo e più ampio dei due elogi di lui compre-si negli Elogi di letterati italiani, cit., p. 107: «La traduzione, per altro, da cui riportòmaggior lode, sembra essere stata quella famosa Elegia di Gray sopra un cimitero dicampagna; elegia che rapidamente sparse per tutta Europa, che ne restò penetrata, ladolce, profonda e filosofica sua tristezza» (è la «philosophic melancholy» di JAMES

THOMSON, Autumn, 1005)90.

IV. “Oscurità” e “erudizione” nei «Sepolcri» foscoliani (vedi qui p. 121)

Dei pindemontiani Sepolcri (nell’ed. del 1807) si vedano in proposito i vv. 328-343(PINDEMONTE 2002, p. 35), dove il Cavaliere critica l’oscurità del carme foscoliano(«Perché talor con la Febèa favella / Sì ti nascondi, ch’io ti cerco indarno?»), anche seammette che esso «a poco a poco» si fa «più lucente» agli occhi del lettore (come il Ro-dano, che esce cilestro dal lago di Ginevra, poi scorre sotterraneo per un tratto e infi-ne riemerge dalle profondità della terra con le sue chiare onde sonanti); e si ricordi checontro i moderni poeti “oscuri” Ippolito scrisse il sarcastico sermone II (In lode del-l’oscurità della Poesia), biasimando l’abuso «di detti ambigui, d’intralciate frasi, / Biz-zarre inversïon, periodi eterni, / Vecchie voci o straniere, e di pensieri / O confusi, osottili o fuor del Mondo» (vv. 117-120: PINDEMONTE 1858, p. 274), e ironizzando suquella «Caligin sacra, che sì grande acquista / Ai versi incomprensibili virtude» (vv. 21-22: ivi, p. 271). Quanto alla critica di scarsa modernità, Pindemonte non approva (vv.343-355; PINDEMONTE 2002, pp. 35-36) che nella parte finale il carme passi a tratta-re della Grecia, di Troia e di antiche storie, giacché a suo parere sarebbe stato più op-portuno toccare «men lontani oggetti», in ossequio al detto per cui antica deve esserel’arte, ma non l’argomento (vv. 351-352). Nella prima parte dei Sepolcri, dunque, Pin-demonte (come egli stesso scrive nella lettera al Bettinelli del 16 aprile 1808: in CIM-MINO 1968, II, p. 533) non ne approva l’oscurità, nella seconda la materia antica, eru-dita ed epica, da lui ritenuta non adatta allo stile e al genere “mezzano” dell’epistola poe-tica, e considerata ormai troppo convenzionale (vv. 344-350: «Perché tra l’ombre del-la vecchia etade / Stendi lunge da noi voli si lunghi? / Chi d’Ettòr non cantò? Veneroanch’io / Ilio raso due volte e due risorto [FOSCOLO, Sepolcri, 285], / L’erba ov’era Mi-cene e i sassi ov’Argo: / Ma non potrò da men lontani oggetti / Trar fuori ancor poe-tiche scintille?» (PINDEMONTE 2002, p. 35); rimprovero sul quale sono da vedere le os-

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90 THOMSON 1891, p. 142.

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servazioni di Leopardi nello Zibaldone, 4449-4450, 1 febbraio 1829 [LEOPARDI 1991,III, pp. 2526-2527], e quelle, fortemente critiche, di CARDUCCI, Foscolo e i Sepolcri, p.161). Infatti, i suoi Sepolcri (nell’ed. del 1807) si chiudono con lo struggente com-pianto elegiaco dell’amica Elisabetta Mosconi, da poco defunta; tuttavia, nelle succes-sive stesure del componimento (che, lasciate inedite dal poeta e conservate manoscrit-te presso la Biblioteca Civica di Verona, sono siglate S1 e S2 in PINDEMONTE 2002), Ip-polito, contravvenendo al suo stesso precetto e forse influenzato dal carme foscoliano,inserirà gli esempi antichi di Cicerone e di Artemisia, pentendosene però subito dopo(vv. 291-92, secondo la redazione S1: «Perché agli esempi dell’età rimote / Risalgo conpensieri?» [ivi, p. 71]; Idem, con qualche variante, in S2, vv. 290-291: ivi, p. 95), e tor-nando quindi agli esempi moderni (nella fattispecie, quello di Maria Cristina d’Austria,sposa del principe Alberto di Sassonia, morta nel 1798, il cui monumento funebre fuscolpito dal Canova per la Augustinerkirche di Vienna). Il Cavaliere, insomma, ben col-se, non approvandolo, il salto che i Sepolcri foscoliani compiono dall’epistola al carme;non per nulla, nella parte finale Foscolo abbandona il tono epistolare e non si rivolgepiù all’amico (nominato per l’ultima volta al v. 214), mentre Pindemonte, nei suoi Se-polcri, dialoga con Ugo sino alla fine, per tutta l’estensione del componimento.

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