Genere e Precarieta'

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Genere e precarietà i GENERE E PRECARIETÀ Laura Fantone Collana CondivIdee © 2011 Copyright ScriptaWeb, Napoli

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Genere e precarietà i

GENERE E PRECARIETÀ Laura Fantone

Collana CondivIdee

© 2011 Copyright ScriptaWeb, Napoli

Genere e precarietà ii

Senza grandi imprese che ci garantiscono sicurezza, corriamo

assai più rischi rispetto alla classe dirigenziale e operaia

dell’era fordista. Viviamo e spesso produciamo da noi stessi

al lavoro e a casa, alti livelli di stress emozionale e mentale.

Aspiriamo alla flessibilità, ma poi abbiamo meno tempo per

dedicarci alle cose che vogliamo veramente. Le tecnologie che

avrebbero dovuto liberarci del lavoro hanno invaso la nostra

vita. [...]

I (nostri) valori, le attitudini e le aspirazioni si scontrano

inesorabilmente con quelli delle altre classi già affermate e

cominciano ad apparire importanti linee di frattura.

Richard Florida

Per raccontare chi siamo e non essere raccontati,

per vivere e non sopravvivere,

per stare insieme e non da soli.

Genere e precarietà iii

Non è più tempo solo di resistere,

ma di passare all’azione, un’azione comune, perché ormai si

è infranta l’illusione della salvezza individuale.

www.ilnostrotempoeadesso.it

Genere e precarietà iv

Indice

Saggi

femminismi e creatività

- Laura Fantone, Una precarietà differente: genere e generazioni,

aspirazioni e conflitti contemporanei

- Angela McRobbie, Riflessioni sul femminismo e il lavoro

immateriale nel regime post-fordista

corpi

- Gaia Giuliani, Dislocazione e transito perenne tra generi e

sessualità: una riflessione sulle vite precarie

lavoro

- Sconvegno, Focus Group sul lavoro precario

- Anna Lisa Murgia, Posizionare identità in/stabili: Storie di

egemonie e resistenze di genere nel lavoro atipico

- Sveva Magaraggia, Tempi sociali, condizione precaria e genere:

alleanze inedite?

techné

- Tiziana Terranova, Soft Control: Emergenza geni, lavoro e

spettacolo nella new economy

Raccontarsi

- Manuela Coppola, Lidia Curti, Marie Helene Laforest e

Susanna Poole, Focus group su Donne, Migrazioni e Precarietà

- Gruppo Sconvegno, Il Lato B della precarietà

Flash Creativi

Genere e precarietà v

- Roz (Rosella Simonari), THE PS (precarious scholar)

- Rete Prec@s, manifesto della precasapiens

- Ilaria la Precognitaria, Filastrocca

- Reti e Gruppi on-line

Genere e precarietà vi

Hanno contributo a questo volume le seguenti persone che

ringraziamo infinitamente::

Laura Balbo, Professore di Sociologia, Università di Padova.

CIRSPG, Università di Padova, nelle persone di Alisa del Re e

Lorenza Perini

Associazione PrecArt di Bologna

Alessandra Fasano, Manuela Galletto per le traduzioni e soprattutto

Gaia Giuliani e Chiara Martucci per la correzione di bozze

meticolosa e paziente

Domenico Baldari, per essere un editore saggio e innovativo

Feminist Review , dando spazio alle idee e alle giovani studiose, e

creando un‟occasione d i dialogo senza la quale questo libro non

avrebbe mai preso forma.

Le autrici che hanno risposto al Bando CondivIdee 2010 e ai nostri

inviti a condividere i propri scritti

Genere e precarietà vii

Genere e precarietà viii

Genere e precarietà 1

femminismi e creatività

Una precarietà differente: Conflitti generazionali e di genere nell’Italia

contemporanea

di Laura Fantone

Nell‟ultimo decennio alcuni movimenti sociali europei

hanno preso forma intorno al problema della

flessibilizzazione del lavoro, dando vita ad una forte

reazione al neoliberismo, al declino del welfare e dei

diritti sociali acquisiti durante il ventesimo secolo,

attraverso varie battaglie intraprese in grande e piccole

azioni, da lavoratori, studenti, migranti, genitori e

cittadini dei paesi industrializzati.1

Nel caso italiano, dal 2000, nuove leggi, misure fiscali e

modelli di gestione d‟impresa hanno trasformato

profondamente il lavoro in senso qualitativo e

quantitativo, in particolare con l‟introduzione di agenzie

private che forniscono lavoro interinale, e con la

diffusione di nuovi contratti a progetto (riforma del

lavoro in atto dal 2002, che in pochi anni ha investito

tutti i paesi della zona Euro). Vari studi e ricerche si

sono incentrate su come questi cambiamenti abbiano

influito sulla forza lavoro in generale (Tiddi, Zanini,

Chaincrew, Accornero), ma in questa sede ci

occuperemo dell‟intersezione tra precarietà e giovani

donne. Fino a pochi anni fa un approccio di genere è

1 Vedi, tra gli altri, Hobsbawn, Piven e Cloward, e in Italia tra le molte

ricerche storiche sul lavoro e saggi politici, tra questi, si vedano Negri, Virno,

Tronti, Fumagalli, Mancini.

Genere e precarietà 2

stato poco frequente (Allegrini 2005). Quando gli

studiosi si sono confrontanti con questo tema, hanno

spesso scelto un‟ottica macroscopica, fatta da grandi

scenari economici e sociali comparativi. Negli ultimi

tre anni il numero delle pubblicazioni e conferenze sulla

precarietà, e le sue implicazioni di genere e generazioni

si sono moltiplicate, e si è sviluppato un vocabolario

comune, utile per dialogare e costruire politiche

condivise.

Tuttavia, in questo scritto s‟intende analizzare la

precarietà e le sue forme molteplici in relazione al

genere e alle generazioni di giovani adulte

specificatamente, perché questi sono i gruppi sociali che

vivono le conseguenze nella quotidianità e nelle

prospettive di vita e lavoro, riflettendo una nuova

sensibilità che unisce creatività, lavoro flessibile, e una

visione critica della precarietà informata da precedenti

concezioni di ricerca femminista, unite all‟obiettivo

metodologico di evitare i riduzionismi che associano ad

essa una semplice condizione di lavoro negativa, o un

fenomeno puramente economico. Al contrario, in questo

articolo s‟intende mostrare come la flessibilità del

mercato del lavoro e la precarietà dei diritti siano

fenomeni correlati ma differenti, e non solamente

negativi per la generazione di giovani donne che

lavorano nella formazione e nei settori creativi, in età

compresa tra i trenta e i quarant‟anni. Se si pensa alla

precarietà in senso più ampio, esistenziale, il termine

può essere associato alla creatività, cosa che permette

un ribaltamento e un «riutilizzo» della precarietà come

condizione sua potenzialmente critica rispetto ai valori

tradizionali che molta parte della società italiana impone

alle giovani.

Genere e precarietà 3

In vari studi recenti, sociologi, economisti e filosofi

appartenenti ad una generazione che non ha vissuto la

precarietà strutturale, si spendono in giudizi ampi e

generali (sostenendo che la precarietà c‟è sempre stata,

e dunque non sia nulla di nuovo), che riducono la

complessità della vita precaria vissuta, e spesso

finiscono per riproporre un paradigma di paragone

negativo con le istanze emerse negli anni sessanta e

settanta: le lotte devono emergere nel luogo di lavoro,

ed organizzarsi secondo logiche sindacali di

rivendicazioni di diritti economici e di riforme

espansive dello stato sociale.

Invece, la precarietà non si legge qui solo come

condizione ma come lente che rende chiaro a tutti i

giovani uomini e donne europee i meccanismi che

perpetuano forme di sfruttamento nuove e antiche, in un

contesto economico postfordista. Per esempio, l‟ascesa

del settore dei servizi alla persona nell‟Europa

contemporanea e in generale nei paesi tardocapitalisti,

non ha liberato le donne dal peso del lavoro affettivo e

della riproduzione sociale; piuttosto queste forme di

lavoro vengono ridistribuite iniquamente tra donne

anziane, giovani e donne immigrate che svolgono i

lavori di cura sottopagato, in un mercato

deregolamentato.2

Al tempo stesso alcuni gruppi politici di donne vedono

con crescente scetticismo le idee di sicurezza e di

stabilità, come fondamento di un modello di vita

famigliare, matrimoniale ed economica tipicamente

italiano, che addossa alle donne molteplici

responsabilità, sia sul lavoro che in casa, senza peraltro

2 Vedi l‟ampia letteratura sul tema, ma soprattutto Hochshield e Ehrenreich in

Donne Globali, per un‟analisi che atttraversa differenze geografiche, di classe

e settori di impiego.

Genere e precarietà 4

dare riconoscimento sociale a questi impegni notevoli.

Tuttavia è importante chiarire fin dall‟inizio che, dal

punto di vista della generazione delle giovani, la

precarietà lavorativa, tipicamente neoliberista,

rappresenta una nuova forma di sfruttamento e di

erosione dei diritti sociali, alla quale si tenta di resistere

in modi nuovi. È chiaro che le varie esperienze di

instabilità delle giovani richiedono nuove strategie e

strumenti di analisi, che possono emergere solo da

un‟attenta osservazione dal basso e dell‟ascolto di chi

vive e partecipa della precarietà di vita. Quest‟analisi

nasce dalla premessa che per affrontare la precarietà sia

necessario ripensare le forme di solidarietà e le capacità

di fare rete tra gruppi diversi per genere, generazioni e

provenienza geografica, non semplicemente resistere la

precarizzazione di alcuni settori sulla base della difesa

di vecchi diritti limitati, o attraverso battaglie puramente

legali. Questo volume è stato concepito per dare

visibilità e voce alla conoscenza situata e «dal basso»

che le giovani precarie producono e scambiano per

sopravvivere, non solo perché è un fenomeno nuovo da

studiare, ma per evitare che si studi la precarietà dietro

una lente d‟ingrandimento che separara il soggetto

dall‟oggetto di studio, in una pretesa neutralità.

Le precarie si trovano a vivere e studiare

contemporaneamente la propria vita in mutamento, per

sopravvivere e lottare contro le forme sottili e pesanti di

sfruttamento che persistono anche in campo

accademico. Il movimento italiano degli studenti e

ricercatori precari, in grande espansione negli ultimi due

anni, dimostra come lo studio della precarietà e l‟azione

per constrastarla siano collegati sempre più

chiaramente. Soprattutto se pensiamo al tracollo

finanziario globale del 2008, e alla riforma del sistema

Genere e precarietà 5

universitario votata nel 2010 in Italia. In questa

sequenza di eventi emerge un nuovo movimento

studentesco che collega fortemente instanze di

precarietà e conoscenza, libero accesso a cultura e

informazione, unite alla frustrazione e disillusione sul

futuro, alla sovraqualificazione professionale, alla

consapevolezza dell‟insicurezza sociale, e alla denuncia

della gerontocrazia, e delle privatizzazioni. In

quest‟ottica è importante scrivere e parlare della

precarietà vissuta e studiata, dare spazio alle zone

indefinite di sovrapposizione tra biografia, politica e

soggettività sociale in fase emergente.

1. La precarietà come problema postindustriale:

il contesto europeo

I movimenti sociali che si sono formati intorno alla

precarietà nell‟ultimo decennio in Italia e in altre parti

d‟Europa, si muovono in un contesto sociale demarcato

da un aumento delle disuguaglianze economiche e di

disparità crescenti nei diritti di cittadinanza e di

partecipazione politica. I processi di negazione o

attribuzione di tali diritti ricalcano sempre più spesso

criteri che seguono le linee di differenziazione

identitaria, come l‟età, il colore della pelle, la

mascolinità (maschile e non, adulto e non, bianco e

non), e le origini geografiche (appartenenti al nord o al

sud del mondo). In questo contesto difficile, è

importante riconoscere che i movimenti sulla precarietà

rappresentano un nuovo scenario, e parlano un

linguaggio politico in grado di mobilitare una

generazione attraverso l‟Europa e a riportare il lavoro al

centro dei movimenti di sinistra, spesso disorientati nel

contesto postfordista. Il movimento europeo dei precari

Genere e precarietà 6

si configura come unico o peculiare, specialmente se

paragonato ad altri contesti post-industriali come quelli

nordamericano, dove la flessibilizzazione del lavoro è

già avvenuta in larga parte negli anni ottanta, senza

trovare una risposta nella sfera pubblica né

mobilitazioni di movimenti di massa.3 Infatti, i

movimenti dei precari mettono in luce problemi vitali

oggi per molti paesi europei che affrontano grandi

riforme del mercato del lavoro come l‟Italia, la Grecia,

la Spagna ma anche la Francia4, dove sono esplose

grandi ribellioni nella primavera del 2006, dal 2008 in

Grecia e nel 2011 la Spagna degli indignados. Le

analogie tra i movimenti esistono, oltre alle specificità e

sono tali che ne rendono palese persino un certo

eurocentrismo.

Non si può negare il fatto che i movimenti dei precari

abbiano messo in atto strategie nuove, utili a unificare

gruppi diversi tra loro creando un orizzonte condiviso.

Infatti, tale movimento si è appropriato di un termine

negativo, quasi tabù, la precarietà, e lo ha trasformato in

un elemento d‟identità politica unificante, facendolo

circolare ampiamente. Questo mutamento discorsivo va

riconosciuto come un successo, perché ha permesso la

3 Si deve chiarire che negli Stati Uniti le critiche alla new economy, e ai

contratti di lavoro temporaneo non sono mancate. In generale, molti studi e voci critiche hanno denunciato gli effetti devastanti del neoliberismo

dell‟epoca reaganiana e clintoniana, pur non raggiungendo mai un livello di

visibilità nei dibattiti politici predominanti negli anni ottanta. Dal punto di vista dei movimenti sociali, è importate ricordare le varie forme di resistenza

emerse negli scritti contro-culturali, negli anni ottanta e novanta. Tra questi,

le riviste Temp Slave o Processed World hanno avuto un ruolo cruciale nella diffusione e condivisione di forme di resistenza e rifiuto del lavoro

temporaneo e a lungo termine, coniugate ad una critica della vita quotidiana e

del lavoro informatizzato. 4 È utile ricordare le numerose statistiche riguardanti i paesi dell‟area

mediterranea e nell‟Unione Europea, come caratterizzati da dati sui salari più

bassi rispetto al resto dell‟Europa occidentale.

Genere e precarietà 7

creazione di un concetto politicamente utile a dar voce

alle richieste di nuovi diritti, ancora oggi in fase di

elaborazione5 (si pensi all‟idea di flexicurity, il libero

accesso ai saperi e alla cultura, i diritti alla casa e alla

libera circolazione). Tuttavia, qui di seguito s‟intende

descrivere anche alcuni limiti materiali e discorsivi del

movimento dei precari, assumendo un punto vista

situato e incentrato sul genere.

2. La specificità italiana: lavoro flessibile e

istituzioni inflessibili

Dati recenti raccolti dall‟European Commission for

Labor Affairs riportano che oltre quattro milioni di

italiani svolgono lavori precari sotto forma di lavoro

autonomo, temporaneo o parasubordinato.6 Di questi,

più di due milioni lavorano per enti pubblici, sia in

istituzioni statali che locali (scuole, regioni, province,

comuni, poste, unità sanitarie o media locali). Questi

quattro milioni di lavoratori sono chiamati «atipici»

(co.co.pro, collaboratore esterno, occasionale, di

seconda generazione, contingenti) o con altre

5 Un aspetto importante dei movimenti dei precari risiede nell‟intuizione

della necessità di auto-organizzarsi e sostituire il ruolo del sindacato, cioé

quello di fornire aiuto legale e strumenti concreti di aiuto ad una categoria di lavoratori che si sente spesso abbandonata dai sindacati tradizionali. 6 La cifra è soggetta a continue revisioni. Si deve tenere conto del un contesto

generale di aumento rapido in tutta l‟Europa continentale, dal 1996 al 2000 e al 2005 delle forme di lavoro temporaneo, che sembra coinvolgere

approssimativamente il 30% della forza lavoro. Il caso italiano sarebbe

ulteriormente aggravato dalle stime sul lavoro sommerso, che aggiungerebbero circa 4 milioni di lavoratori, chiaramente privi di tutele e

sicurezza (dati riassunti dalla relazione intitolata Precarity and Social

Integration della Commissione Europea, 2006).

Genere e precarietà 8

definizioni tecniche che rasentano l‟umorismo

involontario.7

Una ricerca comparativa svolta dalla CGIL nelle regioni

della Lombardia e dell‟Emilia Romagna (2005) ha

scoperto l‟esistenza di almeno 1.5 milioni di lavoratori

temporanei, che dopo due anni di occupazione presso lo

stesso datore di lavoro (dal 2002 al 2004), non avevano

avuto alcuna opportunità di accedere ad un contratto

migliore o ad un impiego a lungo termine. Se si

considera che nello scorso decennio, circa il 20% della

forza lavoro italiana è stata precarizzata, non sorprende

che il movimento dei precari abbia portato a

mobilitazioni di piazza dai numeri notevoli. Le

manifestazioni dell‟EuroMayday sono cresciute

gradualmente da 5,000 partecipanti a Milano nel 2001 a

50,000 nel 2005, come anche vari scioperi in

concomitanza del primo maggio a Barcellona, Parigi e

in Grecia che continuano fino ad oggi – vale la pena di

ricordare qui lo sciopero dei precari italiani dell‟aprile

2011.

Dunque il termine precarietà si è trasformato diventando

un‟idea chiave per pensare ai mutamenti economici e

sociali, specialmente importante in un contesto

caratterizzato da condizioni di lavoro che non facilitano

comunicazione, legami e unità tra i lavoratori, e dove i

sindacati non riescono ad elaborare strumenti capaci di

cambiamento. Per queste ragioni, il movimento dei

precari spesso agisce diversamente dai classici modi di

rivendicazione sindacale, facendo un uso sofisticato dei

media e delle forme di comunicazione dal basso,

7 Vedi alcune delle analisi più influenti elaborate da Bologna e Fumagalli, che già dagli anni novanta (1997) hanno contribuito a smascherare la

presunta neutralità di un vocabolario teso a ridefinire il lavoro salariato in

senso negativo.

Genere e precarietà 9

mantenendo un certa fluidità di confini, tanto da

permettere identificazioni multiple di soggetti variegati.

Un elemento che pure accomuna le tante parti del

movimento dei precari è l‟appartenenza generazionale.

In effetti i precari sono quasi tutti appartenenti a quella

generazione di età compresa tra i venti e i quarant‟anni,

anche se recentemente è emerso come la precarietà si

protragga fino alla soglia dei cinquanta. Per quanto

riguarda il settore del lavoro creativo e legato alla

formazione, si tratta per lo più di giovani che vivono in

città, politicizzati e scolarizzati, a volte

(sovra)qualificati, cresciuti con speranze di buone

prospettive di realizzazione professionale. Entro questa

definizione si trova un grande varietà di stili di vita,

forme di lavoro e appartenenza di classe, di provenienza

geografica, etnica, ma anche di genere, tutte coinvolte

nel meccanismo della precarietà. Per usare l‟espressione

di Pierre Bourdieu la generation précarie (1999) inizia

a vivere con risentimento la flessibilità lavorativa senza

sbocchi, e associa a questa condizione altre delusioni

per le istituzioni che fanno la società italiana in

generale, come già registrava il rapporto dell‟European

Foundation for the Development of Living and Working

(2000) e, più recentemente il demografo Micheli (2008).

Già da qualche tempo la flessibilità del lavoro e la

precarietà sono oggetto di studio e ricerche svolte nei

vari paesi europei, venendo a costituire una

problematica riconosciuta come centrale dall‟opinione

comune, un argomento di discussione sia per il cittadino

medio sia per politici in campagna elettorale. Eppure

tali discorsi predominanti assumono toni apocalittici,

che dipingono giovani lavoratori europei come figure

tragicamente passive, vittime di un meccanismo che li

esclude dalla sicurezza del lavoro e non valorizza le loro

Genere e precarietà 10

qualifiche professionali. La diffusione di questo

pessimismo ha certamente alimentato il movimento dei

precari, che è riuscito a canalizzare l‟energie negative in

azioni e manifestazioni collettive, capaci di legare

esperienze personali e generazionali, esprimendosi

attraverso un linguaggio accessibile a vari gruppi di

giovani e, al tempo stesso, sviluppando argomenti

importanti per pensare nuove politiche del lavoro e

sindacali.

3. Mercato post-industriale, valori e modelli pre-

industriali

Un aspetto tipicamente italiano della flessibilizzazione

del mercato del lavoro risiede nel forte contrasto con le

istituzioni predominanti, antiche e difficili da riformare.

Se si pensa a quanto la società italiana tenda a

riprodurre ruoli e funzioni sociali rigide, nella divisione

del lavoro sociale, nelle identità di genere, nel rispetto

per l‟età, è chiaro che nuove forme di lavoro e di scelte

di vita, di nuove forme di famiglie, che possono

apparire temporanee e instabili, vengono accolte con

scetticismo e timore (Micheli 2008). La precarietà ha

diverse implicazioni per le generazioni più giovani, ma

anche per gli adulti che potrebbero già avere esperienza

ed età maggiori. La combinazione dell‟instabilità

lavorativa, della mancanza di fondi pubblici che

promuovono l‟iniziativa giovanile e le condizioni

economiche generali di crisi, aggravatesi dal 2008,

hanno portato molti giovani professionisti a lasciare

l‟Italia, abbandonando i settori ad alta innovazione,

esasperati dalla mancanza di status, dalle burocrazie

inflessibili e dai salari bassi (Roggero 2005). In effetti è

comprovato che molti giovani che lavorano, possono

Genere e precarietà 11

sopravvivere ai limiti economici del lavoro precario

perché la famiglia di origine fornisce aiuto in varie

forme (Rapporto ISTAT 2010, Saraceno 1998). Un

esempio di questo fenomeno è leggibile attraverso il

dato sui luoghi di residenza di molti giovani italiani:

nella stragrande maggioranza la popolazione sotto i 35

anni d‟età vive entro trenta chilometri di distanza dalla

propria famiglia d‟origine. I rapporti ISTAT sulle

famiglie italiane (2008) rivelano anche che sotto

quarant‟anni d‟età, molti vedono i propri genitori più di

due volte a settimana e dichiarano di ricevere aiuti

materiali da questi. In effetti la povertà e lo stile di vita

dai consumi limitati, tipici di chi vive di lavori

temporanei (o dei working poor) non fanno parte

dell‟esperienza diretta di molti giovani che ricevono

appoggio dalla propria famiglia. I membri più anziani

aiutano i più giovani anche rinunciando al proprio

vantaggio economico, mentre i precari si trovano a

rinunciare alla propria indipendenza. Questo mix letale

di fattori, forza le famiglie di classe media a mobilitare

le proprie risorse umane e finanziarie distribuendole su

tre generazioni, i nonni, i genitori e i nipoti, spesso

faticando a mantenere gli standard di vita a cui erano

abituati negli ultimi decenni. In effetti, vari indicatori

economici mostrano come la classe media italiana stia

entrando in un‟economia di debito per la prima volta,

dilapidando i risparmi e quel pò di capitale accumulato

dalla generazione impiegata ai tempi del boom

economico seguente alla seconda guerra mondiale

(ISTAT 2009). Questo dato, visto insieme al

neoliberismo, alla globalizzazione e indirettamente alla

flessibilità lavorativa non è assolutamente secondario.

Dagli anni cinquanta in poi, molte famiglie di lavoratori

sono stati in grado di acquistare la propria prima casa,

Genere e precarietà 12

contando sui mutui pagabili con il proprio stipendio

garantito dal contratto a tempo indeterminato. Il lavoro

a vita garantiva a questa generazione anche una

pensione alla fine della propria carriera. Oggi questo

modello non si riproduce con le generazioni successive,

e le famiglie si trovano a dover intaccare i propri

risparmi. In un contesto economico e sociale di crisi, la

flessibilizzazione del lavoro è diventata un altro oggetto

di frustrazioni e scontento diffuso per le giovani donne

(Barazzetti 2007). Al di là delle percezioni, resta il dato

che la precarizzazione del lavoro abbia rinforzato

vecchie dinamiche di potere, ruoli tradizionali nella

famiglia, e differenze di classe. Dunque, a fronte di

grandi mutamenti economici e un impoverimento

dell‟offerta di servizi pubblici, la famiglia si è rivelata

una struttura capace di adattarsi e supplire ad altre

mancanze, come dimostrano molte ricerche

sociologiche (Bruning 1999; Frey 1998; Rapporto

ISTAT 2008). Pur non addentrandosi in questo settore

di ricerca già preminente, è importante ricordare che la

famiglia italiana è caratterizzata da dinamiche di genere

che reiterano disuguaglianze piuttosto forti, un tema che

verrà affrontato in seguito. In questa lettura, la

precarietà mostra la sua natura ambigua: da un lato

porta ad un aumento del rischio individuale, mentre

dall‟altro rafforza le istituzioni e i vecchi poteri, che

vengono mobilitati per sostenere il peso economico del

neoliberismo globale che schiaccia e riduce le risorse

societarie disponibili.

4. Paradossi della precarietà: rigidità e rischio

Negli anni ottanta e novanta, alcuni filosofi e sociologi

discutevano l‟emergenza della risk society, la società

Genere e precarietà 13

dell‟informazione e delle reti e del rischio diffuso

(Beck, Lash e Urry, Baumann, Castells) in un momento

storico di ascesa del neoliberismo e della

globalizzazione. Tali grandi cambiamenti necessitavano

di nuovi strumenti per comprenderne gli effetti, e molti

studiosi registravano un mutamento nelle logiche

predominanti della società, come il passaggio ad una

temporalità di breve termine o la necessità di riadattare

le informazioni e conoscenze continuamente per

rispondere alla complessità imprevedibile del

quotidiano. Se si pensano i livelli microsociale e macro

strutturale come inevitabilmente collegati e in fase di

coevoluzione, allora è necessario non pensare al rischio

come fondamentale per i sistemi ma sempre più come

elemento esternalizzato dal tardo capitalismo che ricade

sulle sfere sociale, privata e individuale, come illustra

Terranova nella sua discussione sulla creatività e il soft

control – controllo morbido – riportata in questo volume

(2004). In seguito al crack finanziario del 2008 e della

crisi dei mutui queste teorizzazioni appaiono molto

chiare e attuali, ma che sopratutto riflettono l‟esperienza

della generazione precaria, per la quale l‟incertezza è

quasi scontata e il rischio parte delle logiche che

regolano la propria vita, fondamentalmente

caratterizzata da insicurezza e pianificazioni a breve

termine (CENSIS 2005).

La generation précaire vive nell‟insicurezza economica,

lavora in orari e con tempi non-ortodossi, si adatta

volente o nolete al mercato del lavoro che muta

rapidamente, divendo parte fondamentale di quel

sistema di innovazione capace di sfruttare incertezza,

moltitudini acentriche e complessità per estrarne valore

(Terranova 2004).

Genere e precarietà 14

Ciò che sfugge spesso agli studiosi sono le difficoltà di

applicazione di queste logiche, nella società italiana e

nelle sue istituzioni, ma anche a livello quotidiano,

quelle difficoltà tipicamente espresse dalla generazione

che vive senza orizzonte di uscita dalla precarietà. Se i

precari italiani devono adattarsi rapidamente a

condizioni mutevoli, il loro sforzo non è conciliabile

con servizi pubblici inefficienti e lenti, specialmente in

luoghi e istituzioni che funzionano secondo logiche

antitetiche alla flessibilità e alla rapidità (Del Boca,

Pasqua et al. 2007). È utile ricordare qui che le

privatizzazioni degli enti italiani non hanno coinciso

con un aumento dei servizi, ma piuttosto con riduzione

nella qualità e nella disponibilità di questi, che restano

poco accessibili e non efficenti quanto prima (trasporti,

banche, poste, scuole, asili e doposcuola). Infatti, la

combinazione di una crescente burocratizzazione dei

processi e una nuova scarsità di risorse successiva alla

crisi economica del 2008, ha portato ad un modello

istituzionale del tutto inflessibile, contrastante con la

richiesta di flessibilità imposta ai lavoratori temporanei.

Insomma, per usare le parole di Sennet, alle

«conseguenze personali» del lavoro nel nuovo

capitalismo (1998), corrispondono anche conseguenze

sociali gravi, come l‟inefficienza generale,

l‟impoverimento e lo scontento tra i cittadini sempre più

impossibilitati a conciliare vita e lavoro (CENSIS-IRES

2003, ISTAT 2008), soprattutto le donne adulte.

Questi paradossi mostrano, dunque, l‟ambiguità della

precarietà, e offrono un‟opportunità di uscire da una

critica monolitica a questo fenomeno, già sfruttata e

incapace di proporre letture politicamente utili a

cambiarla. Osservando le ambiguità, si intravedono vari

modi in cui la precarietà incrina modelli sociali

Genere e precarietà 15

preesistenti, aprendo alla possibilità di cambiamenti

imprevedibili, contraddizioni di cui appropriarsi, da

tradurre e hackerare, seguendo una logica queer.

5. Precarietà tra genere e generazioni

Da un punto di vista di genere, la precarietà può essere

un termine utile per opporsi ai ruoli tradizionali

femminili ancora fortemente presenti nel constesto

italiano. La precarietà richiede una rottura con la rigidità

delle istituzioni italiane, da sempre incentrate sulla

famiglia e sulla scarsa mobilità geografica. Alcuni

gruppi di giovani donne, come Sconvegno, la rete

Prec@s e Sexyshock, rappresentati in questo volume, da

qualche anno discutono di precarietà a partire dalla

propria esperienza di lavoro intellettuale e dalla proprie

scelte di vita, nelle quali la precarietà assume a volte un

ruolo positivo, se sottoposto ad una politica discorsiva

fatta di rovesciamenti, di letture comiche e provocatorie,

ispirate alla queer theory.8 Questa critica alla precarietà

da parte di alcuni gruppi di donne (di età compresa tra i

trenta e i quarant‟anni circa – thirtysomething) non

riguarda solo la dimensione lavorativa o il mercato del

lavoro flessibile, ma molte altri aspetti della propria vita

poco flessibili, con cui le donne si confrontano: le

classiche tappe del matrimonio, della maternità, il

necessario lavoro di cura, il ruolo inevitabile di

consumatore, la fedeltà alle aziende, l‟ideale di una vita

pianificata intorno alla carriera e alla famiglia come

elementi stabili.

8 Vedi l‟articolo di Sconvegno in questo volume per una riflessione sui

mutamenti nella percezione della precarietà da parte di un gruppo di donne

nell‟arco di sette anni di vita.

Genere e precarietà 16

Se ci chiedono di essere flessibili, pronte a

cambiare piani nel breve termine, perché tutte

la società ci impone di essere fedeli, di

mantenere famiglie stabili, aspirare ad un

lavoro stabile e seguire orari fissi (dalla

mailing list Prec@s, 2007)?

Questa semplice domanda sottende una critica

fondamentale alle istituzioni statali e ai valori sociali

prevalenti, che non danno strumenti alle giovani per

comporre dai pezzi disparati una vita sensata (Piazza

2003). Non solo, questa critica evoca alcuni argomenti

delle femministe storiche, come l‟esperienza della

doppia presenza, nel lavoro di cura e nel lavoro salariato

(Balbo 1978), peraltro non riconosciuto adeguatamente

in entrambi i casi.

Oggi si deve registrare che la società italiana tende a

rinforzare ruoli tradizionali delle donne, legati alla

riproduzione e alla cura, solo in parte spiegabili dai

trend demografici di invecchiamento della popolazione

e dalla ridotta natalità (Saraceno 1998), o riconducibili

al fatto che solo la generazione precedente di donne

adulte e anziane oggi, è entrata in massa e per la prima

volta nel mercato del lavoro. Il cambiamento che questo

fenomeno ha comportato è grande e non sempre facile

da accettare. Nel settore industriale privato, che

dovrebbe essere aperto alle donne e alla flessibilità, è

diffusa ancora oggi una cultura aziendale

discriminatoria, che non incoraggia le donne a inseguire

una carriera ad alto profilo (Gherardi 2003).9

9 Uno degli indici utilizzati per comparare la presenza di donne nel mercato

del lavoro, il loro status e le loro prospettive di carriera rispetto ai lavoratori è la frequenza di contratti part-time. Nell‟Unione Europea, il numero di donne

impiegate con contratti part-time è quattro volte superiore a quello degli

uomini, mentre negli Stati Uniti solo doppio (CENSIS 1999). Anche il

Genere e precarietà 17

Quindi la precarietà, se opposta alla sicurezza

lavorativa, può avere un significato diverso per le

lavoratrici, e accettare questa molteplicità femminile di

letture della precarietà può essere una sfida sia al

modello economico neoliberista, che all‟universalismo

che spesso caratterizza i movimenti dei lavoratori.

Anche il movimento dei precari, nelle sue

manifestazioni più avanzate, come a Milano, Parigi, in

Grecia e in Spagna, è iniziato con discussioni e slogan

rivolti ad un idealtipo di lavoratore temporaneo,

generalmente corrispondente ad un giovane uomo, che

vive in grandi centri urbani (dell‟Italia centrale o

settentrionale) impiegato nel settore dei servizi, come

nelle grandi catene di distribuzione o nei call-center, che

svolge mansioni elementari e ripetitive. Nella sua

evoluzione, il movimento dei precari ha iniziato a

prendere in considerazione anche altri soggetti, che

hanno sposato l‟attenzione su alcuni limiti discorsivi e

su alcuni temi; nel caso delle donne, dando rilevanza al

lavoro affettivo, di cura e di mutamento della

riproduzione sociale ai tempi della flessibilità. In tempi

recenti, i volantini e le rivendicazioni dei precari hanno

menzionato il diritto alla maternità o al riconoscimento

ai congedi parentali di uomini e donne precarie

(documenti prodotti da Mayday 2005; Intelligence

Precaria 2009). Tuttavia, nell‟immaginario politico

italiano l‟idea diffusa del soggetto precario resta

incentrata sul lavoratore del call-center o della catena di

negozi multinazionale, che si ritrova già nella critica

fenomeno del «tetto di cristallo» è frequente: nelle 200 aziende più

importanti in Europa, le donne presenti in posizioni dirigenziali

rappresentano l‟8% del totale, e negli Stati Uniti ne rappresentano il 14%. Solo la Norvegia ha implementato quote che impongono agli enti pubblici di

avere almeno 40% di dirigenti donne, e ora sperimenta misure analoghe nel

settore privato (Newsweek, febbraio 2006).

Genere e precarietà 18

alla globalizzazione. Saskia Sassen registrava già nel

2001 alcune mancanze nell‟immaginario d‟opposizione

all‟economia globale:

l‟interpretazione più diffusa della globalizzazione

tende a dare per scontata l‟esistenza di un sistema

economico globale comune, che svolge una

funzione di potere delle aziende e delle

comunicazioni transnazionali […]. Ma se le

aziende transnazionali possono essere gestite,

coordinate e controllate su scala globale, ciò

accade perché quella capacità è stata prodotta.

Focalizzandosi sulla produzione di tale capacità si

sposta l‟accento sulle pratiche che costituiscono la

globalizzazione economica: il lavoro di produrre e

riprodurre l‟organizzazione e le funzioni direttive

di un sistema globale. Ampliando in questo modo

l‟analisi, non si nega l‟importanza

dell‟ipermobilità e del potere. Piuttosto si

riconosce che molte risorse necessarie alle attività

economiche globali non sono iper-mobili, ma al

contrario, profondamente radicate in un luogo, che

può essere una città globale o un‟area

d‟esportazione […]. Se recuperiamo la geografia

che sta dietro alla globalizzazione, ritroveremo

anche i lavoratori, le comunità e le culture del

lavoro dei singoli luoghi, non solo quelli delle

multinazionali […]. [P]ossiamo così studiare

come i processi globali trovano un‟organizzazione

specifica a seconda della localizzazione, come i

quartieri urbani, che ospitano insieme alla classe

professionale transnazionale le bambinaie e le

domestiche straniere […]. Nelle città del nord del

mondo, l‟economia informale serve a svalorizzare

una serie di attività per le quali esiste spesso una

crescente domanda locale. Parte del costo viene

Genere e precarietà 19

pagato soprattutto dalle donne immigrate (Sassen

2001, 236, in Erenreich e Hochshild 2004).

Seguire il collegamento proposto da Sassen, tra i

professionisti e le migranti donne che si che svolgono i

lavori di cura, permette di identificare le varietà di

gruppi coinvolti nella precarietà, e recuperare il lato

invisibile di quell‟immaginario costruito dal movimento

dei precari, che ne rivela la specificità storica,

androcentrica ed eurocentrica. Inoltre, guardare alle

differenze di genere nella precarietà, permette di

pensare la precarietà non solo come elemento

unificante, premonitore di una nuova classe operaia

europea e post-industriale (Mitroupulos 2004), ma di

una molteplice identità politica in grado di rispondere

alle nuove cittadinanze, alla de-industrializzazione e,

insieme, al declino del welfare e dell‟impiego. In effetti,

nell‟Europa contemporanea, ogni riflessione sulla

precarietà non può che tener conto dei soggetti differenti

che pure convivono malgrado le politiche della

«fortezza Europa», che tracciano confini e separazioni

nette.

6. Precarietà differenti

Una prima riflessione sui migranti, le donne e chi svolge

lavoro sommerso, specialmente in Italia meridionale, è

che già in passato hanno vissuto una condizione di

precarietà, di insicurezza e rischio. Come sostiene

Mitropoulos, l‟esperienza del lavoro caratterizzato da

impoverimento, guerre e precarietà fa parte della

memoria di varie generazioni in Europa, dalla nascita

del capitalismo. Infatti, l‟esperienza dell‟impiego

regolare, a lungo termine, caratteristico del fordismo, è

Genere e precarietà 20

una sorta di eccezione nella storia della capitalismo, che

ha sempre escluso il lavoro domestico, femminile e

quello dei soggetti sfruttati nelle colonie (2004, 92).

Oggi il lavoro domestico è svolto ancora da donne e

soggetti provenienti da ex-colonie, e segue quel

processo di svalorizzazione che descrive Sassen. Questi

ruoli mal pagati portano al centro di una lettura di

genere della precarietà anche lo sfruttamento legato alla

differenza etnica e razziale, e le differenze di classe

nelle condizioni di precarietà.

Le discussioni tra giovani donne precarie in Italia

riguardano chiaramente un‟esperienza molto diversa in

termini di classe, età e razza di quello delle domestiche

immigrate, o delle donne italiane che svolgono lavoro a

domicilio o «in nero».10 Nello specifico, si deve

guardare alla disponibilità di reddito, di capitale sociale,

ovvero di supporto familiare, come elementi chiave che

rendono l‟esperienza della precarietà molto differente

per vari gruppi sociali. Una giovane donna italiana che

lavora nel settore informazione e vive con i propri

genitori può contare su una certa stabilità rispetto ad

un‟immigrata clandestina, ma anche esperire un tipo di

alienazione da lavoro diversa dal un giovane che

abbandona la scuola superiore per lavorare in un fast

food o un centro commerciale. La precarietà femminile,

può essere comunque un utile punto di partenza per

dialogare attraverso le differenze, tenendo conto delle

posizioni di potere relativo che i diversi soggetti precari

possono avere nella società. A partire da queste

differenze, è possibile dar voce ad una critica di genere

alla struttura familiare italiana, ancora gerontocratica,

10 Vedi il dibatto in questo volume tra donne precarie e migranti, a cura di

Coppola e Fantone.

Genere e precarietà 21

opprimente sia per le donne che per gli uomini, e

ineguale nella divisione del lavoro di cura.

7. Vite precarie e creatività

Già dall‟ottocento, attraverso la presa di coscienza del

lavoro di riproduzione sociale e culturale, spesso svolto

dalle donne, le critiche femministe hanno identificato

modelli storicamente consolidati di sfruttamento, sia

nelle società capitalistiche che in quelle precedenti al

capitalismo, dove la divisione dei ruoli secondo il

genere obbligava le donne a gestire il lavoro materiale e

affettivo insieme. Negli ultimi trent‟anni, il capitale ha

tratto vantaggi dalle lotte del femminismo del

dopoguerra, dai rifiuti dei ruoli tradizionali di genere e

dallo sgretolamento della famiglia allargata. I

cambiamenti postbellici hanno creato un nuovo mercato

che risponde ai bisogni delle donne che lavorano fuori

casa, come i fast food e l‟industria della cura a

pagamento, settori precedentemente al di fuori del

mercato (EC 2001 e Balbo 2011). Nel modello post-

fordista contemporaneo, le qualità tradizionalmente

femminili e relazionali (come l‟essere accondiscendenti,

docili e versatili, essere in grado di lavorare ed anche

organizzare il buon funzionamento della casa), hanno

assunto crescente importanza, a causa dell‟erosione

della distinzione netta tra vita e lavoro, dell‟oscillazione

tra autorealizzazione e sfruttamento. Questa

femminilizzazione del lavoro, non ha coinciso però con

un miglioramento della condizione salariale né con una

rivalutazione dei valori sociali tipicamente femminili

(IRES 2003). Al contrario, ha portato ad una

proletarizzazione dei settori in cui sono richieste questi

tipi di capacità tipiche del lavoro affettivo – saper

Genere e precarietà 22

curare, rispondere gentilmente ai clienti, ma anche

essere desiderabili nell‟aspetto e in certi casi disponibili

sessualmente (vedi Hochshild e Ehrenreich 2004) .

Per contrastare le logica predominante che attribuisce

alla produzione di oggetti materiali e al lavoro

intellettuale un valore più alto della riproduzione

sociale, i movimenti femministi hanno rivendicato la

creatività attuata nella sfera della vita quotidiana.11

Una

delle argomentazioni di successo delle femministe, già

negli anni settanta, derivava da una semplice verità: che

il lavoro domestico e di cura non era fatto solo di

ripetizione e noia, ma conteneva spazi di creatività e di

autoriflessione sulla complessità della vita moderna

(Vishimidt 2004). Così la creatività diventa anche un

modo di costruire un‟identità femminile, mettendo

insieme pezzi disparati, ruoli apparentemente

incongruenti giocati dalle donne nella vita quotidiana

(Balbo 1986).

Se si guarda a queste concezioni di creatività e

resistenza quotidiana, si possono trovare strumenti

politici utili per le precarie, che spesso si concepiscono

solo come vittime passive della precarietà, senza spazi

di agentività – o agency, né forme creative capaci di

esprimere la propria vita professionale e personale.

Tanto più che, con la transizione nei paesi sviluppati

all‟economia avanzata del settore dei servizi, la

11 In alcuni casi, come nelle rivendicazioni sul lavoro domestico, lo scopo non era solo ottenere un riconoscimento pubblico per il lavoro di

riproduzione sociale, ma anche ottenere che lo Stato attribuisse un valore

adeguato a questo lavoro, come faceva per altre forme di produzione quantificate e salariate; è chiaro che tale domanda imponeva un cambiamento

societario ampio, che implicava rivoluzionare la divisione del lavoro tra i

generi (dalla Costa 1971). Un altro punto importante del femminismo marxista risiede nella rivendicazione del lavoro non salariato delle donne

come elemento che esula dalla logica capitalista del valore e del mercato

(Bettio 1988).

Genere e precarietà 23

creatività è diventata una merce preziosa, che può essere

valorizzata proprio nelle forme che assume nelle società

complesse, dove il lavoro creativo e immateriale si è

diffuso largamente.12

Insomma, il precariato oggi tende a vedersi troppo

spesso in termini eurocentrici, giocandosi un

immaginario che oscilla tra la nuova vittima universale

e il soggetto rivoluzionario di una nuova avanguardia

della forza lavoro. Tra questi due poli, si forma un

movimento che inizia a esprimersi trasversalmente

rispetto ai vari tipi di precarietà, e in questo progetto,

alcune delle strategie sviluppate dal femminismo

possono fornire strumenti e ispirazione. Se le precarie

spesso si confrontano con una falsa dicotomia, dovendo

scegliere tra un lavoro intellettuale, proletarizzato e

svalutato socialmente (anche trovandosi in

competizione con l‟ideale del giovane uomo free-lance,

creativo, artista, urbano) e un lavoro di riproduzione

sociale nel contesto familiare che rinforza ruoli di

genere tradizionali e statici, e rimanda al confronto

ideale con le figure della madre o della casalinga.

Questo dualismo nega il potenziale creativo delle vite

precarie, e la capacità di navigare contraddizioni e

differenze sociali già attestata dall‟esperienza

quotidiana delle donne. Inoltre, tale immaginario

polarizzato nega ogni identità articolata, in cui la

precaria può essere al tempo stesso impiegata nel settore

informazione, svolgere un lavoro creativo, e anche

casalinga o sex-worker, badante o scrittrice

12 La rivista statunitense Processed World, rappresenta un primo tentativo di

dar forma a questa riflessione in termini non accademici. Dagli anni ottanta

ha affrontato argomenti utili ai lavoratori dell‟informazione e ai creativi, insieme a quelli delle domestiche, dell‟industria del sesso, creando uno

spazio di dialogo proficuo e basato sulla quotidianità, sulle microforme di

resistenza che ciascun gruppo pone in essere.

Genere e precarietà 24

simultaneamente. Queste identità articolate sono sempre

più frequenti, e oscillano tra il lavoro immateriale e

quello di riproduzione sociale. Le giovani che vivono in

queste situazioni possono offrire letture della creative e

capaci di articolare la contraddittorietà delle vite

precarie.

8. Le reti di precarie: spazi per articolare nuove

lotte

Vari gruppi di giovani donne, che potrebbero definirsi

parte di un‟ondata post-femminista o di terza

generazione, third wave (Sexyshock, Fiorelle,

Sconvegno, Prec@s) discutono da alcuni anni la

precarietà come un‟esperienza che pone nuove sfide e

che non può essere affrontata solo con il vittimismo

nostalgico del passato fordista. Dato che chi scrive fa

parte di queste reti, non può fingere di scriverne qui in

maniera distaccata o neutrale, ma piuttosto tenta di

avvicinarsi a quel modello di sapere situato – situated

knowledge – suggerito da Sandra Harding e Donna

Haraway (1997, 2003), cioè di situare le analisi

politiche e sociologiche partendo dal proprio punto di

vista specifico.

Fondamentalmente, questi gruppi di trentenni sparse per

l‟Italia si sono aggregati intorno a istanze generazionali

e personali, come la mancanza di reddito adeguato, le

scelte di vita e vari problemi derivanti dall‟ingresso in

un mondo lavorativo flessibile, ma anche politicamente

gerontocratico e sessista. Nel caso della rete Prec@s, la

precarietà rappresenta un elemento di posizionamento

esistenziale, da cui pensare una soggettività politica

multipla, fatta di articolazioni complesse e ruoli

contradditori per le giovani: da un lato, soggette ad

Genere e precarietà 25

aspettative societarie tradizionali che limitano le

aspirazioni e accettano lo status socioeconomico basso

di una donna giovane13

, d‟altro canto, come lavoratrici

immateriali o creative, sono coscienti del loro privilegio

dovuto all‟accesso alla formazione e alle risorse

disponibili in un contesto famigliare di classe media.

Le reti di precarie hanno cercato attivamente un dialogo

con le generazioni di femministe precedenti sulla

precarietà, e tentano di aprire un confronto con le

migranti, per creare collegamenti che includano negli

approcci teorici e pratici al tema della precarietà le

differenze di età e di provenienza e di classe.

Dagli anni novanta, nel femminismo italiano si è posta

la questione difficile del dialogo intergenerazionale.

L‟emergenza di gruppi post-femministi e delle teorie

queer ha destabilizzato quella visione universalmente

comprendente del femminismo degli anni settanta.

Simmetricamente, i gruppi di quella generazione non

sembravano particolarmente interessati alle attività e ai

linguaggi emergenti dalle giovani, cosa che ha reso

l‟incontro tra generazioni spesso teso, fatto di mancati

riconoscimenti e difficili accettazioni delle nuove forme

di femminismo (Di Cori e Barazzetti 2001; Bertilotti,

Galasso e Lagorio 2006). A fronte di una scarsa

visibilità, alcuni gruppi post-femministi hanno

strategicamente collegato il tema della precarietà a

quello generazionale, riuscendo a esprimere necessità

proprie e ad uscire dalle tensioni intergenerazionali tra

femminismi, entrando in un dibattito concreto e

allargato, che dialoga con i movimenti dei precari.14

13 Si veda l‟analisi recente di Murgia, contenuta in questo volume. 14 Questo dimostra un rifiuto di identificarsi in una politica identitaria monodimensionale, dove un gruppo si definisce solo per opposizione ad

un‟istanza o lotta limitata. Questo può essere un esempio di «politica

dell‟articolazione» elaborata da Stuart Hall e ripresa nei Cultural Studies a

Genere e precarietà 26

Il contesto contemporaneo di precarietà rende le giovani

particolarmente coscienti del fatto che non potranno

ottenere quella stabilità, fatta di un lavoro fisso e

accesso al welfare, che aveva costituito un elemento

chiave nel modello di vita adulta delle loro madri. Non

solo, molte precarie affermano di non aspirare

necessariamente a quella sicurezza che avevano le

madri, constatando i limiti delle istituzioni stabili come

il matrimonio, la famiglia, e il lavoro fisso, che affidano

alle donne adulte ruoli socialmente poco riconosciuti,

insieme a molteplici responsabilità e impegni (Morini

2010; Piazza 2001). Forse non è superfluo ricordare che

oggi, sia nell‟Italia post-industriale che in gran parte del

mondo, le attività di cura quotidiana non sono divise

equamente tra uomini e donne adulte (Hochshild 1997 e

Morini 2004). In Italia in particolare, il difficile ingresso

dei giovani precari nel mercato del lavoro fa convivere

nella stessa famiglia tre generazioni: gli anziani, i

genitori che lavorano e i figli, cosa che aumenta il peso

del lavoro di cura a carico delle donne adulte, che si

trovano a vivere una quotidianità complicata (Piazza

2005).15

Spesso si tratta della generazione delle

cosiddette baby-boomers, che, dopo aver lavorato a

tempo pieno e in casa, si trovano a dedicare le proprie

giornate da neo-pensionate alle attività di cura, dei

nipoti come dei nonni. Se le donne della famiglia non

sono in grado di dedicarsi alle necessità familiari, si

aggiungono altre donne, spesso immigrate, pagate per

svolgere i lavori di cura (Ehrenreich e Hochshild 2004).

E dunque la generazione delle precarie percepisce il

partire da una rilettura di Gramsci (1978, vedi anche Grossberg 1996). 15 Si deve notare che alcune ricerche recenti sembrano dare un quadro più

equo della divisione del lavoro di cura tra i genitori giovani. Si veda in questo

volume l‟articolo di Magaraggia.

Genere e precarietà 27

proprio probabile destino di cura e assistenza ai parenti

anziani (data la crescente anzianità della popolazione

italiana) o ai figli piccoli come alternative inevitabili,

congiunte ad una condizione lavorativa frustrante. Le

precarie si trovano ad affrontare un insieme complesso

di fattori con esiti contraddittori: l‟accesso

all‟università, il lavoro intermittente, la dipendenza

dalla famiglia, problemi diversi che insieme

costituiscono un nuovo scenario. In particolare,

delineiamo qui di seguito tre punti che presentano

contraddizioni irrisolte e fondamentali nelle vite delle

precarie: la formazione, l‟autonomia e la sicurezza.16

8.1. La trappola della formazione

Alcune ricerche pubblicate nell‟ultimo decennio

mostrano che per una donna italiana la possibilità di

carriera lavorativa sono positivamente correlate al

livello di educazione solo in scarsa misura.17

Da un lato,

la flessibilizzazione e l‟aumento del settore dei servizi

hanno avuto esiti piuttosto negativi per le giovani, in

termini di qualità e quantità di lavoro; d‟altro canto,

l‟aumentato accesso delle giovani all‟università non ha

portato ai vantaggi economici e sociali che nelle

generazioni precedenti venivano correlati ad un alto

livello di scolarizzazione. Oggi, gli studenti universitari

sono in maggioranza donne e le studentesse riescono

spesso meglio dei loro colleghi (EFDLW 2000, ISTAT

16 Vedi l‟articolo di Scovegno pubblicato in questo volume. 17 In effetti il 57% della forza lavoro in Europa è femminile, e le donne

rappresentano più della metà dei laureati, eppure questi dati contrastano con

la bassa presenza femminile nei consigli di amministrazione e nelle alte cariche pubbliche, cosa soprattutto ricorrente nell‟Europa mediterranea,

rispetto alla frequenza nel nord Europa o nei paesi cosiddetti sviluppati in

generale (OECD 2005 e ILO 2010).

Genere e precarietà 28

2009). Eppure i dati raccolti dalle agenzie di lavoro

interinale mostrano che la giovane laureata risulta essere

il profilo più difficile da impiegare. In effetti, molte

agenzie interinali offrono posti nel settore tecnico-

meccanico delle piccole industrie, o lavori

amministrativi. Le precarie che utilizzano le agenzie

interinali spesso si trovano a lavorare in ruoli per i quali

sono sovraqualificate e senza prospettive di

miglioramento. Nel tempo, non acquisiscono quello

status sociale che i genitori speravano di dare alle

proprie figlie attraverso l‟opportunità di formazione e lo

studio. Dunque la percezione ancora diffusa che una

laurea garantisca l‟accesso ad un lavoro fisso nel settore

pubblico, anche senza prospettive ambiziose di carriera

e stipendi alti, non risponde alla realtà contemporanea.

La precarizzazione è avvenuta rapidamente e ha

investito il settore pubblico, che oggi assume in larga

parte collaboratori a progetto o temporanei, anche nelle

classiche professioni femminili di insegnante,

infermiera o impiegata.

8.2. La trappola dell’autonomia

Un altro effetto collaterale dell‟accesso alla formazione

è dato dalle aspirazioni e desideri ambiziosi alle

precarie. Lo studio e la consapevolezza di possedere

conoscenze e strumenti avanzati fomenta il desiderio di

lavorare nella ricerca o in altri ambiti innovativi, dove

sia possibile una crescita professionale constante, un

arricchimento culturale e compensi adeguati. In questo

senso, a fronte di un mercato del lavoro che dà poche

opportunità, la scelta di dedicarsi a lavori creativi o di

ricerca assume un significato di autonomia, riflettendo il

desiderio di non rinunciare almeno alla qualità del

Genere e precarietà 29

lavoro, a continuare ad imparare, e mantenere un

rapporto con il lavoro consono al proprio sviluppo

umano personale, anche a scapito delle aspirazioni alla

carriera (CGIL 2005). In questi casi, come è avvenuto in

generale per il lavoro creativo18

, la distinzione tra lavoro

e tempo libero, tra socialità e isolamento, tra tecnologia

e capacità personali vengono a sfumare (ENAIP 2002;

vedi anche Berardi 2001). Le passioni per la cultura

riempiono sia il tempo del lavoro che il tempo di vita,

rendendo le precarie sempre meno compatibili con gli

ambienti di lavoro rigidi, disciplinati e immutabili nel

tempo. In effetti, quello che è stato definito cognitariato

(Berardi 2001), ovvero i giovani che svolgono lavori di

comunicazione o ricerca, e, tra questi, le precarie

«creative», non aspira ad un lavoro fisso, ad orari

predefiniti da una stessa azienda per tutta la vita

(Barazzetti 2007). Dunque le precarie di questo tipo

affrontano la vita adulta come qualcosa di incerto ma

anche affascinante e innovativo, che dà loro più

autonomia progettuale rispetto alle generazioni

precedenti e una minore sicurezza a lungo termine

(CENSIS 2003 e ISTAT 2010).19

8.3. La trappola della stabilità

Gran parte dei discorsi espressi dal movimento dei

precari, riflette il passaggio da un primo sforzo di dare

visibilità ad un soggetto nuovo, verso la definizione di

obiettivi da attuare concretamente, cosa che implica

18 Richard Florida, ottimista rispetto all‟ascesa della classe dei creativi negli

Stati Uniti, sostiene che la creatività e l‟autonomia vengono scambiati, da

questa generazione di lavoratori, con la sicurezza dell‟impiego (Florida 2003). 19 Vedi l‟articolo di Giuliani in questo volume, sul transito perenne come

condizione di vita e di identità di genere e sessuale.

Genere e precarietà 30

comprendere cosa vogliono cambiare i lavoratori

flessibili. Finora, gli argomenti ricorrenti contro la

proliferazione dei lavori flessibili rimandano alla

mancanza conseguente di sicurezza economica,

lavorativa e sociale nel lungo periodo.

Il concetto mediatico di sicurezza è facilmente

criticabile, ma da un punto di vista di genere è

interessante elaborare anche una critica differente

all‟idea di sicurezza lavorativa e sociale. Lo spettro

dell‟insicurezza spesso prende forma attraverso discorsi

che vedono l‟emergere del lavoratore povero (o working

poor) come sintomo della marginalità di gran parte della

popolazione. In altri casi, la sicurezza viene invocata

attribuendo alla precarietà i cambiamenti nella famiglia,

come la diminuzione della percentuale di matrimoni, la

bassa natalità, la limitata propensione al risparmio e

all‟investimento, unite all‟esclusione sociale, allo stress

e alla devianza, come se le prime portassero

inevitabilmente all‟anomia sociale.

Similmente, alcune ricerche europee o svolte dai

sindacati, collegano il basso reddito dei lavoratori

temporanei con un aumento degli indici di

insoddisfazione dei cittadini (CGIL IRES 2005),

difendendo più o meno intenzionalmente gli aspetti

conservatori della sicurezza economica e lavorativa. Il

linguaggio assunto da questi studiosi evoca un modello

struttural-funzionalista della società moderna che non

può tornare in essere, ed evita le contraddizioni del

neoliberismo globale guardando al passato.20

In questo

20 Ad esempio, le richieste degli Intermitténtes francesi si esprimono in difesa

dei loro diritti proponendo l‟idea che i lavori artistici e creativi sono

fondamentali per il futuro dell‟economia francese. In generale, questi argomenti si fondano su concezioni predominanti nell‟Europa

contemporanea, che vedono questa zona del mondo assumere un ruolo

nell‟economia globale come meta del turismo culturale, o fornitore servizi

Genere e precarietà 31

tipo di critica che semplifica gli effetti sociali e culturali

della precarietà, manca un punto di vista di genere. Da

un punto di vista femminile, è possibile concepire la

famiglia, la maternità, la casa, o la pianificazione

economica a lungo termine come eventi non

necessariamente positivi a priori, ma anch‟essi da

valutare rispetto alle conseguenze che comportano per

le precarie, come la rinuncia all‟autonomia nei tempi di

lavoro di vita e l‟aumento del lavoro di cura non

retribuito. Se la sicurezza e la stabilità sembrano

garantire più opportunità alle donne e altri soggetti non-

egemonici, le istituzioni che in passato hanno

rappresentano la stabilità, come lo stato e i sindacati,

hanno comunque contribuito allo sfruttamento

femminile e alla svalutazione del lavoro affettivo e di

riproduzione sociale.

9. Precarietà femminile come intergenerazionale

e interetnica

I vari gruppi post-femministi che discutono di precarietà

(Sexyshock, Sconvegno, Amatrix, Prec@s)

s‟interrogano su proposte o campagne politiche che

rendano la precarietà vivibile, non certo anelando ad un

ritorno di una sicurezza nelle sue forme passate.

Radicandosi alle richieste della generazione del

femminismo degli anni settanta, pur con alcune

differenze, le precarie considerano come inevitabile il

confronto con un settore privato neoliberista ormai

avanzati basati sulla cultura, la storia e l‟innovazione artistica. Si registra qui un‟interessante confluenza degli interessi corporativi di un gruppo con il

paradigma economico predominante (che si sono tradotte in successo delle

lotte degli Intermitténtes).

Genere e precarietà 32

presente, al quale resistere nelle sue forme insidiose di

sfruttamento delle precarie (che concedono all‟idea di

conciliazione attraverso il tele-lavoro o il part-time, per

farne elementi ghettizzanti per le donne). Non solo,

nelle proprie pratiche, le precarie si confrontano con lo

stato e la famiglia italiana tradizionale, come istituzioni

attive e complici nell‟erosione dei diritti e della loro

autonomia, riallacciandosi alle lotte e alle strategie

utilizzate dai femminismi precedenti.21

In conclusione, la precarietà è certamente un orizzonte

di lavoro e di vita capace di mobilitare un forte

movimento europeo e globale, soprattutto perché la

flessibilizzazione del lavoro erode alcuni diritti sociali

già acquisiti e diffusi. Tuttavia, è importante distinguere

la precarietà di vita dalla sola flessibilità del mercato del

lavoro, e non appiattire le domande politiche dei precari

sulla seconda. Queste sono istanze diverse, in certi casi,

per le precarie di classe media, che hanno accesso ai

lavori intellettuali (ovvero le cognitarie come le

partecipanti alle reti Prec@s, o gruppi come Sexyshock

e Sconvegno), e la precarietà di vita può non essere un

fenomeno negativo. Dunque affermare una critica di

genere alla precarietà significa affrontare problemi

molteplici, e allargare la presenza di soggetti diversi nel

movimento dei precari. Al di là delle lotte dei lavoratori

per ottenere maggiore sicurezza del lavoro, si apre la

questione complessa della precarietà esistenziale, che

investe la riproduzione sociale, i valori della famiglia e

la vita quotidiana.22

Da questo punto di vista differente,

i discorsi sulla precarietà che predominano, spesso

rivolti ad una generazione specifica di lavoratori,

21 Si vedano le conclusioni dell‟articolo di McRobbie in questo volume. 22 Vedi l‟articolo di Sveva Magaraggia in questo volume sulla percezione

della genitorialità e del lavoro tra giovani coppie.

Genere e precarietà 33

appaiono trasformati e capaci di trasformare molti valori

conservatori della società italiana, ancora imposti alle

giovani come alle migranti e ad altri soggetti marginali.

In sintesi, l‟esperienza di precarietà e instabilità delle

giovani richiede nuove strategie e idee (A.V. 2005a). Le

riforme del welfare o eventuali nuove leggi che

regolamentino il lavoro devono essere stilate tenendo

presente non solo il giovane lavoratore europeo nel

settore dei servizi, ma anche i fenomeni di

svalorizzazione del lavoro affettivo e riproduttivo

sempre più delegato alle migranti.23

Le resistenze alla

precarietà devono essere attuate insieme alla resistenza

ai valori tradizionali della famiglia, alle disuguaglianze

praticate nel quotidiano, uno spazio fondamentale dove

la flessibilità continua a dare effetti negativi, come

l‟aumento dello sfruttamento femminile nei ruoli

tradizionali.

È importante concludere che la solidarietà tra precari di

diverse generazioni e provenienza geografica e sociale

sia oggi più importante che mai, come anche il

riconoscimento diffuso dei meccanismi che perpetuano

una divisione del lavoro sociale ineguale dal punto di

vista di genere.

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Genere e precarietà 38

Genere e precarietà 39

femminismi e creatività

Riflessioni su femminismo e lavoro

immateriale

nel regime post-fordista24

di Angela McRobbie

1. L’operaismo e i successi della lotta di classe?

Negli ultimi anni sono stati scritti tanti articoli e libri sul

post-fordismo e, in particolare, sul precariato, sul lavoro

immateriale e affettivo25

, ed è emersa una

preoccupazione prevalente per le questioni di classe, a

scapito dei tentativo di porre il genere in primo piano o,

quanto meno, di pensare la precarietà declinata sia nelle

differenze di genere sia di etnia. In questo articolo

propongo un‟impostazione differente, aperta agli effetti

combinati di genere ed etnia, analizzando alcuni dei

lavori più autorevoli in questo ambito. Mi concentrerò

sulle riflessioni di genere e sulle femministe e

sociologhe/i contemporanee/i che si occupano della

questione delle donne e dell‟occupazione.

Un elemento fondamentale in questo dibattito

femminista è la teoria della performatività e la radicale

denaturalizzazione del genere che ne deriva. Le

domande fondamentalmente poste in questo saggio sono

due. Quanto è importante la partecipazione delle

«donne» (di seguito senza le virgolette che questa

24 Traduzione in italiano di Alessandra Fasano. 25 Lazzarato definisce il lavoro immateriale come «il lavoro che produce il

contenuto informativo e culturale del prodotto» (Lazzarato 1997). Lavoro

affettivo è quello che richiede alti livelli di intimità, cura o sentimenti.

Genere e precarietà 40

categoria necessiterebbe) alla crescita della produzione

post-fordista?

Che ruolo svolgono oggi le donne, soprattutto giovani,

nelle nuove industrie culturali urbane?

Dando priorità al genere, ritengo che la transizione

verso il lavoro precario e quello immateriale oggi sia

profondamente sentita da un vasto numero di giovani,

soprattutto donne26

europee di età inferiore ai

quarant‟anni. Il punto di vista di genere mi permette di

dare importanza ad prospettiva più storicamente

informata, che pone attenzione sulle attività delle prime

generazioni di femministe, che già avevano mescolato

forme di lavoro nuove con attività politica e sociale,27

molto differenti da ciò che oggi chiamiamo l‟«impresa

sociale». Infine, mi propongo di criticare il discorso

politico di Virno e Hardt (1996) e di Negri e Hardt

(2000)28

per la scarsa visibilità del genere, dato che

all‟operaismo italiano che insiste sulla categoria di

classe come meta-concetto chiave per comprendere il

lavoro contemporaneo e per immaginare un futuro

politico radicale.

L‟invisibilità del genere nel discorso politico radicale

associato ad autori come Negri, Hardt e Virno si pone

come una negazione del femminismo critico

26 Penso alle giovani donne sia come testimoni, che come apprendiste e

navigatrici esperte dell‟enorme impatto emotivo e psicologico che questi

cambiamenti hanno portato nelle vite di intere generazioni. Si veda anche Laura Fantone (2007), tradotto in italiano in questo volume. 27 Per esempio: librerie gestite da donne e editoria, lavoro giovanile o

mädchenarbeit. N.d.t. Si tratta di percorsi di formazione incentrati sulla vita delle giovani donne al fine sviluppare autonomia e autostima e creare gruppi

nido alternativi, autogestiti dai genitori (in particolare mamme); inizialmente

erano siti in locali di negozi dismessi per il sostegno al lavoro di cura dei bambini e kinderladen. 28 Si vedano i seguenti scritti: Hardt (1999), di Hardt e Virno (1996), Hardt e

Negri (2000), Lazzarato (1997) e Virno (2001).

Genere e precarietà 41

sviluppatosi dalla fine degli anni settanta. Questo è

storicamente legato al movimento delle donne (ma va

ben oltre i confini del femminismo di per sé) ed elabora

una risposta critica al capitalismo, allo stato e alla

cultura del consumo, che negli anni ottanta e novanta

hanno ridefinito totalmente genere e sessualità,

attraverso varie strategie biopolitiche.

Sostanzialmente Negri e Hard mantengono un modello

di società-lavoro, in cui «il declino del lavoro» e lo

spostamento verso la sfera del non-lavoro è colpevole di

una vasta gamma di patologie contemporanee, compresa

«l‟opacità dei gruppi» e «la rovina del sé» (Virno 2001).

Anche se ritengo che attualmente la categoria della

classe vada mantenuta (soprattutto nella sua continua

articolazione con il genere ed l‟etnia), ammetto che essa

è paradossalmente in declino e accetto che venga

sostituita da altri concetti. Non voglio dire che la parola

classe sia una delle cosiddette «categorie zombie» di cui

parla Ulrich Beck piuttosto è soggetta ad un

cambiamento che ne diminuisce gradualmente

l‟importanza sociale e politica, permettendo un

avanzamento del genere come categoria convalidata.

Questo processo è parzialmente dovuto ai cambiamenti

dei media, dell‟effetto della cultura di massa sullo stile

di vita e dei programmi televisivi che rispecchiano le

aspirazioni di un particolare gruppo di consumatori,

soprattutto donne.29

29 Vedi il mio The Aftermath of Feminism. La recente serie Queen of Shops

della TV inglese BBC 2 mi pare interessante perché la protagonista, Mary

Portas, si accinge a rimodernare negozi fatiscenti, solitamente gestiti da donne proletarie. Mary Portas sottopone questi negozi e la loro gestione a una

ristrutturazione che li rende appetibili al ceto medio, eliminando tutte le

tracce del passato (vendita di cibo scadente, aspetto trasandato e atteggiamenti svogliati del personale), proponendo un nuovo regime

simbolico che pervade l‟intera organizzazione dello spazio del negozio, il suo

aspetto e la sua immagine, i suoi prodotti, mettendo in luce idee di atmosfera

Genere e precarietà 42

Questo scivolamento mostra una strategia politica che

evidenzia l‟importanza della classe, ma richiede anche

un modo diverso di pensarla e declinarla. Le forme di

governamentalità contemporanea si fondano sul

tentativo di «de-classificare» la società in nome di una

modernità incentrata sul genere (penso alla strategia

New Labour nel Regno Unito).

La classe non è né solo una variabile sociologica, né

solo una questione di identità sociale, ma soprattutto

una serie di relazioni antagonistiche formate dal

conflitto tra capitale e lavoro, tra stato e gruppi sociali

subordinati, la cui sottomissione comporta una

connessione specifica col lavoro. Eppure questi

antagonismi di classe oggi tendono verso una diversa

forma di lavoro che implica soggetti molto meno

impegnati come lavoratori che in passato. Chi sono oggi

i (non)soggetti della classe lavoratrice formati dal

processo del lavoro?

Forse, proprio il genere o l‟etnia di tali soggetti danno la

dimensione più significativa delle forme e dei

posizionamenti del conflitto attuale (Laclau e Mouffe

1985).30

Solo alla luce di questo le articolazioni della

vecchia classe possono in qualche modo essere

risvegliate e provocare un cambiamento radicale.

Questo non significa che la classe sia irrilevante; ma

può ancora avere la presa analitica fondamentale che

ritengono autori come Hardt, Lazzarato, Negri e Virno?

Questi autori insistono su un alto livello di astrazione,

poiché rielaborano termini derivanti dai Grundrisse di

à la Bourdieu, la donna istruisce i soggetti proletari in materia di stile, gusto e

raffinatezza. 30 Mi trovo ancora una volta d‟accordo con il concetto di classe post-strutturalista sviluppato da Laclau e Mouffe nell analisi post-marxista delle

lotte e delle catene di equivalenza che non vedono la classe come dominante

sociale.

Genere e precarietà 43

Marx, che si riferisce alla conoscenza astratta,

concretizzatasi nei macchinari di produzione (e oggi nei

codici informatici). Il cambiamento avviene a livello

delle relazioni della forza lavoro che dà importanza

crescente alla conoscenza astratta, e del general

intellect.31

Laddove le macchine o i computer assolvono

la maggior parte della produzione, si è persa la misura

standard del valore del lavoro condotto dalla reale forza

lavoro. Marx preannuncia che ciò conduce a una

scissione sociale generale e alla lotta di classe. Virno,

Hardt e Negri, invece, vedono nuove forme di sviluppo

di una soggettività non emergente all‟interno del posto

di lavoro, ma al di fuori: nella vita di tutti i giorni, o per

la strada, che diventa un luogo di «addestramento

urbano» (Virno 2001). Sono la frivolezza e la

superficialità di questi modi di pensare che conducono

Virno, ad esempio, a immaginare tale insoddisfazione in

quanto agente di trasformazione: come per magia,

attraverso una politica di disincanto, da questo stato

emerge una nuova soggettività politica. Ma il rischio qui

è di mettere in gioco una gerarchia di astrazioni,

riconfigurando il classico antagonismo tra la produzione

capitalistica e la sua forza lavoro subordinata.

La scelta di incentrarsi sui Grundrisse e il lavoro

astratto per comprendere la società contemporanea

relega ancora una volta le domande di genere al

margine, poiché «meno astratto».32

È sorprendente che

31 N.d.t. Traducibile letteralmente come «sapere diffuso», riteniamo corretto

lasciare il termine originale, general intellect, dai Grundrisse di Marx.

Questo concetto viene ripreso, soprattutto in rapporto alle analisi del capitalismo cognitivo, nei recenti libri di Negri, Hardt, Virno e Fumagalli,

Vercellone, Berardi, Roggero, Modugno e Rossiter. 32 Non possiamo riportare qui tutto il dibattito sul riduzionismo del concetto di classe portato avanti da Stuart Hall negli anni settanta e ottanta e da

Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, basti ricordare qui la necessità di

interrogare la classe come segno culturale e politico, spazio in cui potere e

Genere e precarietà 44

questa cecità rispetto al genere sia passata quasi

inosservata finora.

Negli ambiti delle attività in cui sembra che le donne

producono redditi considerevoli (come il nuovo settore

dei servizi o le nuove industrie creative e i nuovi media)

o in cui sono molto visibili e numerose, c‟è, per usare

una frase di Jean-Luc Nancy, una «forma di

uguaglianza» che diventa allettante per gli attivisti e per

i sociologi. Questi cedono ad un‟ampia

generalizzazione, per cui il genere non rappresenta più

un «problema» e, di conseguenza, non si sente

particolare bisogno di aprirsi alla critica femminista.

Tornando ai testi di Hardt e Negri consideriamo alcuni

degli argomenti chiave nei due volumi Radical Thought

in Italy e in Impero. Quest‟ultimo libro è stato al centro

di molti dibattiti sul lavoro e sull‟idea di lavoro

immateriale, come caratteristica distintiva del regime

post-fordista.

Qui troviamo tre elementi innovativi: anzitutto un

tentativo decisivo di proiettare in avanti, nel contesto

delle sconfitte della sinistra in Italia, di immaginare e di

considerare nuove potenzialità radicali attraverso

l‟analisi della soggettività contemporanea, e di ciò che

Virno chiama «stato emozionale». Secondo, questa

possibilità di radicalismo è basata su una forma di

politica di classe senza soggetto, adesso configurata dai

flussi, traiettorie di volo ed eventi; in terzo luogo nel

confrontare pienamente la scala di sconfitta attraverso

gli anni ottanta, anni che secondo Virno vedono la

crescita di uno stile di vita postmoderno.

Nonostante i cambiamenti introdotti ai concetti di

«differenza e ripetizione» di Deleuze e al concetto di

marginalità si esercitano nella vita quotidiana, per esempio nel parco giochi

della scuola. Si veda Willis (1978) e vari testi di Bourdieu.

Genere e precarietà 45

moltitudine, Hardt e Negri sono chiusi dentro un

modello di classe che non permette alcun spazio per

riflettere sul genere e sulla sessualità nell‟era post-

fordista, evitando di considerare il significato di ciò a

cui spesso si fa riferimento in termini di

femminilizzazione del lavoro.

In Impero si delinea un concetto di classe post-marxista

non-dialettico (e perciò non teleologico), pervaso da un

forte senso di capacità e di azione, attraverso il

ripensamento dell‟azione di classe, ricorrendo al

concetto di desiderio di Deleuze che, come ritenuto

dagli autori, è generativo, producendo ondate e varietà

di opposizioni e resistenze alle pratiche oppressive e di

sfruttamento del capitale. È quest‟idea di Deleuze che

permette nuove azioni di classe senza rappresentanti e

senza politica dell‟identità, al di là di ogni soggetto

stabile, detentore di un‟identità fissa.

Dunque, Impero è un deliberato tentativo di veicolare

un senso di vittoria sulla macchina capitalista, che

risulta sorprendente, in netto contrasto con la saggezza

prevalente nella sociologia e nella filosofia politica

degli ultimi trent‟anni, radicata nel drammatico declino

della politica di classe, dell‟emergere del thatcherismo e

poi del New Labour nel Regno Unito e del chiaro neo-

liberalismo rampante in Europa e sicuramente trionfante

negli Stati Uniti.33

Wendy Brown, Stuart Hall e Nikolas

Rose (tra vari altri studiosi in ambito anglo-americano)

hanno esaminato le forze che hanno screditato il lavoro

politico operaio e demonizzato la sinistra, i movimenti

femministi e quelli anti-razzisti. Sia attraverso le

campagne mediatiche, sia tramite le politiche e le idee

emergenti dai think tank, nuovo pensatoio di destra,

33 Si veda, ad esempio, il lavoro di Stuart Hall (1983; 1998), come anche

Brown (2003) e Boltanski, Chiapello (2007).

Genere e precarietà 46

questi autori descrivono con forza la delegittimazione

dei sindacati e la fine dei diritti sociali, della

ridistribuzione del benessere e dell‟abolire il sociale in

generale.

Rose, Brown e Hall criticano l‟ideologia dilagante della

responsabilità individuale, come elemento chiave per le

politiche di controllo, che vedono coincidere la rilettura

della condotta delle persone e l‟abolizione del welfare.

Tali forme di biopolitica stratificano la società in modi

più complessi di prima, assicurando allo stesso tempo il

mantenimento delle gerarchie sociali esistenti. Il neo-

liberismo aggressivo comporta un attacco tale agli

interessi della classe lavoratrice che molti diritti

sindacali sono andati distrutti.

Questa è l‟idea di «potenza» che dà a Virno (Hardt e

Virno 1996) così come a Negri e Hardt la possibilità di

articolare «concetti decentralizzati o di massa di forza e

potenza», capaci di attaccare il capitale al cuore (Hardt e

Virno 1996, 262). Per Virno e Negri il post-fordismo è

una risposta da parte del capitale a queste lotte della

classe lavoratrice, avvenute tra gli anni sessanta e

settanta: una risposta al «rifiuto del lavoro» da parte dei

giovani delle fabbriche italiane e francesi che non hanno

aderito alla disciplina del lavoro.

Nello specifico, ritengono che il capitale, in Italia, sia

stato costretto alla difensiva, poiché erano pochi i

giovani disposti a sottomettersi alla disciplina della

produzione fordista. Una delle concessioni accordate ai

lavoratori riguardava il controllo: il lavoro poteva

diventare più significativo e la forza lavoro poteva agire

in maniera più autonoma e avere maggiore capacità

decisionale sul posto di lavoro. Tale concessione, il

«permesso di pensare» slitta nella transizione alla

tecnologia post-fordista e verso nuove forme di

Genere e precarietà 47

produzione basate sulla comunicazione e

sull‟informazione. I successi della lotta di classe hanno

come risultato salari più alti e un ruolo più partecipativo

e intellettuale sul posto di lavoro. Inoltre, una volta

ottenuti orari e salari migliori, la classe lavoratrice ha

espresso nuovi desideri, nuovi sogni di stile di vita: i più

giovani dichiarano di aspirare a una vita differente e

migliore.

Negri, Virno e Hardt sottolineano come il capitalismo

sia stato costretto a cedere alle lotte dei lavoratori degli

anni settanta. La spiegazione più usuale è che fu sotto la

pressione per l‟aumento dei salari nazionali e la

competizione con i paesi in via di sviluppo con

abbondante eccedenza di lavoro a basso costo che le

aziende globali del Primo mondo operarono il passaggio

alla produzione post-fordista (nei settori della moda,

dell‟arredamento, della produzione di automobili, fino a

quella alimentare). Per riconquistare il predominio, le

grandi aziende devono dotare di novità e innovazione i

beni e i prodotti e concentrarsi sul design e sullo stile di

vita, in modo che consumatori benestanti possano

sentirsi lusingati di distinguersi dai loro pari, potendo

comprare beni che sono fatti solo in piccole quantità e,

perciò, più preziosi, rari o particolarmente curati nella

progettazione (design intensive) (Lash e Urry 1994).

Fondamentalmente, gli esponenti dell‟operaismo

offrono una diversa prospettiva che pone in primo piano

l‟azione della forza lavoro e la natura mutevole del

modello di produzione. Questo è di indiscutibile

importanza, poiché ridà centralità ai modi in cui i

giovani operai hanno espresso il loro desiderio di

«uscire dalle fabbriche». Il post-fordismo è, quindi, una

strategia incorporante e il capitale ne esce indebolito,

Genere e precarietà 48

poiché deve fare affidamento sulle capacità mentali

della forza lavoro come mai in passato.

Il cambiamento di modello di produzione capitalista si

riflette nella crescente necessità di capacità cognitiva e

di general intellect. La combinazione di queste capacità

e delle nuove tecnologie di comunicazione comporta

che il capitalismo riesca oggi a trasmettere alti gradi di

personalizzazione e ingegnerizzazione dei beni a gruppi

di consumatori (appartenenti all‟attuale classe operaia)

sempre più vari e consapevoli del proprio stile di vita.

Dato che i lavoratori sono in grado di esercitare i propri

cervelli, raggiungendo una sorta di spazio autonomo per

il pensiero e la riflessione critica, essi respingono il

dogma e il potere contemporaneo e il capitale resta

sempre un passo indietro rispetto a loro, poiché dipende

dalle loro idee e iniziative. Queste capacità mentali

producono una tendenza verso la cooperazione e la

collettività, qualità che sono richieste anche nei luoghi

di lavoro del capitalismo cognitivo. «Oggi la produzione

di ricchezza richiede cooperazione e interattività»

(Hardt e Negri 2002).

I lavoratori ora debbono parlare tra loro e prendere

decisioni collettive continuamente; possono discutere ed

esprimere le proprie opinioni riguardo a un prodotto o

un servizio fornito. Questa tipologia di interazione tra

lavoratori rende la classe lavoratrice più capace di ri-

immaginare forme solidaristiche di sostegno reciproco e

cooperazione. Lazzarato fa notare che i lavoratori stessi

oggi possono anche diventare imprenditori, non sono

visti solamente come dipendenti e come meri salariati.

Naturalmente, questo si sposa con la crescita del lavoro

autonomo o auto-impiego precario tra i giovani, o con

nuove forme di micro-imprenditorialità associate ai

Genere e precarietà 49

crescenti settori culturali, creativi e mediatici del

capitalismo avanzato.34

Tuttavia, restano alcune linee di differenza tra gli autori

dell‟operaismo in merito a fino a che punto questa

«potenza» possa essere forzata per prevedere tali

possibili forme di collettività o «di bene comune». Si

riscontra una discrepanza tra il contributo di Negri,

Hardt e Lazzarato e alcuni scritti oscuri di Virno e

Berardi. Le idee positive di collettività e di bene

comune o commons35

, si scontrano con un potente

regime ideologico che instilla cinismo e opportunismo.

Un esempio evidente è la cultura e la socialità della rete,

dove dominano relazioni auto-promozionali. Questo

ambiente culturale emergente, basato sull‟edonismo e

sui festeggiamenti all‟infinito, fa inorridire Virno, e

anche Berardi, spingendoli a parlare di psico-patologie

della soggettività contemporanea (Virno 2001 e Berardi

2004). Cancellate le nette distinzioni tra lavoro e tempo

libero, con quest‟ultimo che assume la valenza del

tempo lavorativo, essi vedono questa atmosfera festaiola

e le sue soggettività come se fossero state spostate

nell‟ambito del lavoro, infettandolo (Ross 2004).

Queste riflessioni invitano una domanda: Quanto e

quando sono di genere queste patologie? Come si

34 Alla fine degli anni ottanta, mi sono interessata del modo in cui i giovani

proletari ed esclusi dalla formazione universitaria si esprimono nelle culture

giovanili, diventando imprenditori subculturali, nel tentativo di conciliare ciò che fanno per divertimento nell‟ambito della cultura giovanile con la

necessità di guadagnarsi da vivere ed evitare la disoccupazione. Si vedano in

ambito italiano gli scritti di Sergio Bologna sullo spostamento del punto di sfruttamento per il lavoratore autonomo o per i nuovi piccoli imprenditori,

che ora sono in debito con le banche a causa dei prestiti per finanziare le loro

microimprese culturali. 35 N.d.t. Si veda il dibattito sull‟idea di bene comune o commons in Art

Forum, svoltosi tra Antonio Negri, Michael Hardt e David Harvey in

occasione dell‟uscita della pubblicazione di Hardt e Negri (2010).

Genere e precarietà 50

collegano le esperienze di giovani uomini e donne

precarie ai loro tentativi di crearsi una vita indipendente

nei campi del lavoro informale? Oltre la rabbia e

l‟opposizione alla constante richiesta dalla macchina

delle apparenze, del networking, delle pubbliche

relazioni, che stati emotivi si celano? Questo tema

rimane implicito negli scritti dell‟operaismo, e non

viene declinato dal punto di vista di genere.

2. Femminilizzazione del lavoro?

Hardt e Negri in Impero propongono un concetto

ampliato di classe operaia che diventa moltitudine, non

più legata a specifici stati nazione, e quindi inclusiva di

migranti e rifugiati che si muovono attraverso i

continenti seguendo un futuro migliore. Gli autori

accennano al movimento femminista nel ruolo chiave di

disgregare i fondamenti della famiglia nucleare.

Istigando le donne ad avere meno bambini, il

femminismo si oppone al capitale e al meccanismo più

affidabile che garantiva la disponibilità di forza lavoro

giovanile, la riproduzione. Tuttavia, gran parte delle

teoriche femministe e scienziate sociali, critichi e

protesti contro questo tipo di descrizione del

cambiamento del mondo del lavoro, incentrato

unicamente sulla categoria della classe e su una visione

essenzialista della differenza di genere. Nonostante le

possibili aperture all‟interno dell‟idea di moltitudine, il

genere rimane categoria inclusa in quella più vasta di

classe, così come lo sono razza ed etnia. Le femministe,

leggendo Impero si sentono trasportate in una specie di

flashback nel passato, di ritorno ai momenti in cui le

donne venivano legittimate solo se interpreti del lavoro

domestico e di riproduzione.

Genere e precarietà 51

Come Gayle Rubin ci ha ricordato, il marxismo (e anche

molto del femminismo marxista) spesso non è stato in

grado di comprendere e occuparsi criticamente delle più

ampie questioni della sessualità, che da tempo risuonano

in varie sfere della vita quotidiana, oltre che nel lavoro

(Rubin 1984). La centralità dei desideri della corporalità

e dei flussi libidinali di Deleuze, non risolve il problema

degli scritti di Hardt, al contrario. L‟idea di moltitudine

potrebbe essere più ampia di quella della classe,

diventare una sorta di categoria dell‟uomo o della donna

comune, ma a tutti gli effetti per Negri e Hardt resta

sinonimo di classe, concetto che, sebbene

apparentemente non declinato è, di fatto, implicitamente

maschile e bianco.

Questa versione del post-fordismo crea alcuni problemi

fondamentali. La collocazione della maggior parte delle

lotte prese in considerazione è, tradizionalmente, in

settori di produzione tipicamente maschili, come nelle

catene di montaggio di automobili e nell‟industria

automobilistica in generale. Anche la militanza

industriale, che gli autori sostengono abbia spinto a una

crisi del capitalismo, appare storicamente legata a settori

di predominanza maschile, come l‟industria estrattiva

del carbone nel Regno Unito. Quando gli autori si

riferiscono alle lotte di emancipazione dei neri degli

anni sessanta negli Stati Uniti, si concentrano

sull‟industria automobilistica e non sulla comunità che

rappresentava il punto nodale delle lotte per i diritti

civili, una scelta che contraddice gran parte degli studi

su questo movimento (Gilroy 1987). Similmente, il

rifiuto del lavoro e l‟uscita dalle fabbriche appare come

un agire principalmente maschile e bianco.

Va chiarito che durante gli anni sessanta e settanta, in

Europa occidentale e in altre nazioni sviluppate, le

Genere e precarietà 52

donne di classe operaia lavoravano soprattutto come

impiegate, come «colletti bianchi», e con contratti part-

time, mentre quelle di classe media iniziavano a entrare

nel mercato del lavoro in numeri significativi solo dalla

fine degli anni settanta. In quel periodo, infatti, i lavori

full-time nel settore pubblico e professionale sono

diventati i più vantaggiosi per le donne, soprattutto per

quelle che volevano continuare a lavorare pur avendo

figli. In quel periodo le donne di classe operaia e le

persone di colore sono state coinvolte nei conflitti

industriali solo raramente, anche per il loro basso livello

di iscrizione sindacale, che pure era spesso dovuto al

sessismo e alle esclusioni razziali perpetrate dagli stessi

sindacati.

I cambiamenti principali che hanno migliorato le

condizioni di lavoro femminile, dalla metà degli anni

settanta, sono stati il risultato di campagne per la parità

salariale e la legislazione anti-discriminazione,

soprattutto emerse dai movimenti femministi. In questa

prospettiva storica, ci chiediamo: come parlare del

genere del post-fordismo?

Ritengo che un elemento fondamentale da considerare

nel passaggio al post-fordismo è come sia aumentato in

modo straordinario l‟impiego di manodopera femminile

in molte nazioni. Soprattutto le zone più ricche hanno

avuto forti movimenti femministi degli anni sessanta,

per l‟uguaglianza di genere e per il diritto al lavoro e

l‟indipendenza economica dalla famiglia. Non è un caso

che il movimento femminista abbia raggiunto un picco

negli anni coincidenti con una crisi di redditività per

molte grandi aziende del mondo. Dal momento che la

struttura della società patriarcale in quel periodo aveva

prodotto mercati del lavoro segregati dal punto di vista

del genere (in cui gli uomini si trovavano nei settori

Genere e precarietà 53

meglio pagati e più altamente qualificati), il passaggio

ad un‟economia post-industriale ha inciso

sfavorevolmente sulle prospettive di impiego per la

classe operaia maschile, mentre ha avuto l‟effetto

opposto per le donne.36

La natura del lavoro in un‟economia post-fordista ha

favorito la manodopera altamente qualificata e la

flessibilità della forza lavoro femminile. Nel Regno

Unito, le donne sono confluite nel lavoro dalla metà

degli anni ottanta e hanno continuato a farlo da allora.

Questo paese ha visto la crescita delle tecniche di

produzione post-fordista in svariati settori, come la

vendita al dettaglio, la moda e l‟abbigliamento,

l‟arredamento e gli articoli per la casa, il fai-da-te (un

nuovo, ampio settore dei servizi che esplode soprattutto

a Londra e nel sud est del Regno Unito), poiché Londra

è diventata una città globale e un centro del settore

finanziario dagli anni ottanta. L‟impatto del

femminismo e della rivoluzione sessuale, che hanno

portata a maggior controllo delle nascite e a più

opportunità per le donne, si è anche tradotto in altre

aspirazioni delle giovani, che sono cresciute in maniera

esponenziale dalla fine degli anni settanta in poi. Queste

donne hanno potuto sempre più guadagnarsi da vivere e

raggiungere un reddito disponibile che,

successivamente, ha permesso loro di godersi le

comodità e le libertà di movimento (come le vacanze e i

viaggi), ma anche di ritardare l‟età di matrimonio e della

maternità. Tutto ciò si lega strettamente alla

femminilizzazione della forza lavoro, tanto da

36 Per un resoconto di questa prospettiva che scaglia il femminismo di ceto

medio contro gli interessi del proletariato industriale, si veda un articolo supervisionato da Anne Oakley e Juliet Mitchell. Le autrici si rivelano

ambivalenti rispetto al femminismo nel sui rapporto con la lotta operaia

(Mitchell e Oakley 1986).

Genere e precarietà 54

permettere di cogliere un rapporto stretto tra

l‟incremento dell‟indipendenza delle donne e la crescita

dei processi produttivi post-fordisti.

È stato dimostrato che nel Regno Unito, in Germania, in

Italia, in Francia e negli Stati Uniti sono avvenuti grandi

processi di slittamento e disgregazioni di classe che,

insieme a nuove forme di divisione sociale, hanno

aumentato le polarità di classe, inasprendo la povertà e

la disoccupazione da una parte e la ricchezza relativa

dall‟altra. In questo scenario, le donne incarnano vari

processi di transizione e mobilità sociale.

Per esempio, in Inghilterra, molte donne nere, madri e

figlie allo stesso tempo, si trovano a sostenere

economicamente intere famiglie, perché il mercato del

lavoro continua a discriminare i loro padri e fratelli, in

una dinamica di genere alquanto perversa. Alcune

ricorrono a lavori extra perché i loro mariti sono stati

licenziati. Come puntualizza Skeggs riferendosi al

Regno Unito, all‟interno di una cultura aggressivamente

conservatrice, le donne bianche della classe operaia

sono convinte che la loro provenienza sociale sia

deleteria per la loro femminilità e sessualità (Skeggs

1997). Infatti, la femminilità della classe operaia bianca

è ritenuta negativa e fallimentare e, di conseguenza,

queste donne sentono sempre più di doversi identificare

con stili più ambiziosi e attraenti, promossi

abbondantemente dal mondo dei media, in particolare

dalle televisione e dalle riviste (McRobbie 2008).

Essere femminili nel modo giusto significa anelare alla

rispettabilità del ceto medio o, altrimenti, mettere a

repentaglio la propria condizione sociale e identità

sessuale di donne operaie moderne. Questa logica

mostra chiaramente come il genere si articoli

direttamente con i più ampi processi di

Genere e precarietà 55

individualizzazione, arricchendo il significato di classe

sociale nel discorso politico quotidiano delle donne

(Baumann 1990).

Il lavoro della Skeggs mostra come la femminilità della

classe operaia inglese sia diventata oggetto di un forte

intervento governativo. La demonizzazione e il panico

morale delle donne «fuori controllo» dimostrano la

misura in cui il neo-liberismo ha cercato di creare una

classe operaia passiva, deferente e apparentemente

piena di opportunità di mobilità economica, soprattutto

per le donne che vengono invitate a diventare loro stesse

agenti di questo cambiamento. Se allora la classe resta

una potente fattore di agitazione sociale (e questo punto

è fondamentale per la mia risposta agli autori

dell‟operaismo) è altrettanto vero che le giovani donne

di classe operaia, attraverso i media e lo stile di vita

contemporanei, finiscono in grandissima parte per

disidentificarsi con la propria cultura di classe. Se le

mansioni che possono avere queste donne sono un posto

da direttore in negozi di moda come H&M o Benetton,

dove non c‟è alcuna prospettiva di sindacalizzazione,

cosa resta loro come spazio di lotta? Da questo punto di

vista, il capitale e lo stato complessivamente sembrano

essere riusciti a produrre una forza lavoro femminile

relativamente docile e ambiziosa, e dunque l‟idea di

opposizione nell‟ambito del lavoro risulta poco

realistica.

Allo stesso tempo, ci chiediamo se esistono altri ambiti

in cui queste donne diventano politicizzate, come ad

esempio la scolarizzazione per i loro bambini, la

fornitura di asili nido, le prestazioni sanitarie, la cura

degli anziani, la criminalità, i miglioramenti nell‟edilizia

popolare, la prevenzione del cancro al seno, l‟ambiente,

i gruppi di pressione politica. Forse che alle giovani

Genere e precarietà 56

viene solo data la possibilità di un ulteriore grado di

istruzione e della formazione continua (life long

learning)?37

In questa sfera, ciò quella che Beck chiama «politica di

vita», le donne sono sempre più coinvolte come soggetti

politici, non lavoratori ma pazienti, membri di famiglia,

genitori attivi, o come madri, ad esempio in gruppi

come Mothers Against Gun Crime (N.d.t. – madri

contro la criminalità armata), o come pensionate attive

in percorsi di partecipazione e apprendimento.

3. Lavoro Affettivo?

Negli ultimi anni si è aperto un vivace dibattito sul

lavoro affettivo e immateriale focalizzato

(implicitamente o esplicitamente) sulle donne, in cui

tuttavia si riscontrano sia un‟assenza di prospettiva

femminista, sia un eccessivo affidamento su lessici post-

fordisti – che, diffusi a partire dalla fine degli anni

settanta nel dibattito marxista-femminista, appaiono

oggi strumenti consunti e bisognosi di revisione. Molti

di questi autori si ispirano a Negri, Virno, Hardt e

Lazzarato, tenendo al margine l‟ottica di genere. Come

già detto nella sezione precedente, non credo che abbia

senso analizzare il campo post-fordista del lavoro

immateriale separandolo dalle questioni di genere.

Senza una teoria femminista riflessiva e aggiornata, gli

scritti di Wissinger (Wissinger 2007; 2009), Neff e

Zukin (Neff et al. 2005), sulle industrie della moda e

della bellezza, e in misura minore quelli di Weeks

(Weeks 2007), risultano depoliticizzati e

superficialmente celebrativi del significato

37 N.d.t. Per la letteratura in italiano sul tema, si veda Laura Balbo.

Genere e precarietà 57

contemporaneo di lavoro affettivo e immateriale.

Mentre questo tono ottimista potrebbe ispirarsi agli

scenari previsti dagli autori dell‟operaismo, manca una

concreta posizione di sinistra, e se mai gli scritti

mettono in luce le debolezze del pensiero post-fordista.

Chiaramente Negri, Hardt e Virno non possono essere

biasimati per coloro che selezionano aspetti del loro

pensiero per poi farsi sfuggire elementi fondamentali

come la lotta di classe e la politica rivoluzionaria,

centrali a tutta la loro riflessione teorica.

Tuttavia, la visibilità dei dibattiti sul lavoro immateriale,

insieme alla polemica sul post-fordismo visto come

«comunismo del capitale» (la socialità del general

intellect prima della «valorizzazione capitalista e del

mercato» – secondo Virno), dimostrano come sia

relativamente facile per altri autori avvicinarsi al

linguaggio post-fordista con interpretazioni spesso

ingenue della vitalità e dell‟evidente proto-comunismo

delle forme economiche contemporanee, ignorando le

politiche neo-liberali alla base del lavoro immateriale,

con le relative forme di biopolitica che modificano la

soggettività, formando ad una nuova società di

controllo.

Queste complessità si perdono quando l‟attenzione è

concentrata sulla presunta creatività della moltitudine.

Gli autori dell‟operaismo prevedono una nuova politica

immanente, dove i crack sono momenti o eventi del

divenire, un‟inarrestabile cooperazione permanente.

Questi sono, comunque, solo flash rapidi, rotture in un

paesaggio di dominio capitalista, che comporta nuovi

livelli e forme di sottomissione.38

Dove questi «flash»

sono sviluppati ulteriormente, ad esempio nell‟analisi di

38 Per un‟analisi dei crack si veda Braidotti (2008).

Genere e precarietà 58

Terranova della cooperazione peer to peer e nello

sviluppo di software open-source all‟interno di

comunità on-line, il radicalismo attribuito alle pratiche

creative e attiviste è ben diverso dalla semplice socialità

in rete, o nelle nuove industrie culturali (Terranova

2004).39

In un articolo apparso in «Ephemera» nel 2007, accanto

ad altri ben noti autori che lavorano nel campo del

lavoro affettivo, Wissinger espone il suo studio

etnografico delle top model a New York che lavorano

per le migliori agenzie nel mondo (soprattutto quella

associata a Kate Moss e altri nomi illustri) (Wissinger

2007). Per molti sociologi questo tipo lavoro è

considerato una carriera di élite all‟interno delle

industrie di moda e dell‟intrattenimento, paragonabile a

quello di attori di particolare successo. In Ephemera,

come anche in uno più recente sul «Journal of

Consumer Culture», Wissinger afferma che questa

tipologia di lavoro è «solitamente ben pagata» e ci

fornisce cifre che dimostrano i guadagni astronomici da

parte di alcune delle più famose top-model. Il punto

cruciale è che l‟autrice definisce questo lavoro come

precario, e rientrante pienamente nelle definizioni di

Hardt, Lazzarato e altri. Le top model «svolgono un

lavoro emotivo»: «creano comunità» con «la loro

vitalità e vivacità». Fungono da esempio principe per i

giovani lavoratori urbani creativi: devono investire nei

loro look dentro e fuori dal lavoro, devono andare alle

feste e devono «giocare sempre la loro parte». In un

altro articolo scritto con Neff e altri (2005), Wissinger

sostiene ancora che le modelle di New York

contribuiscono allo status di cool dei quartieri di New

39 Si veda anche il saggio di Terranova Soft Control in questo volume.

Genere e precarietà 59

York e dunque esse sono, agenti di riqualificazione

urbana. Leggendo queste autrici si ha l‟impressione che

le modelle siano state ingiustamente lasciate fuori dal

dibattito attuale sul lavoro precario nei nuovi settori

creativi, e che si debba rimediare a quest‟assenza,

tentando di persuadere il lettore sulla condizione di

precarietà delle top-model, che sono «meno manichini

di quanto si pensi e piuttosto direttori esecutivi di loro

stesse, come una società autonoma» (Wissinger 2007,

255).

Nell‟articolo sopra menzionato Wissinger spiega anche

che «il genere non rientra nel suo ambito di interesse»,

una piccola nota tra varie sviste, che conducono ad una

erronea visione di classe, condizione sociale e

precarietà. Anche la conclusione è paradossale, perché

le top model appaiono come parte del nuovo proletariato

allargato e simultaneamente, imprenditrici di sé stesse

estremamente facoltose. A questo punto, avendo

criticato la centralità della lotta di classe nel lavoro

dell‟operaismo a scapito del genere, è paradossale

ritrovarne una versione dell‟operaismo adottata da

Wissinger che trasforma in modo irriconoscibile l‟idea

di classe, tanto da collocare modelle in un nuovo

proletariato, essendo questo un lavoro irregolare e

precario, anche se di lusso. Le top model appaiono

detentrici di una creatività che può liberarsi verso altre

dimensioni sociali (o comunistiche).

Se Wissinger avesse guardato al ruolo delle modelle

femminili e all‟industria dell‟immagine da un punto di

vista di genere, si sarebbe accorta dell‟esplosione negli

ultimi due decenni di una cultura del consumatore

femminilizzata e iper-sessualizzata. In questo senso, le

top-model si collocano in rapporto chiave con le donne

(prevalentemente giovani) e precarie, consumatrici e s-

Genere e precarietà 60

oggetti globali dell‟industria della moda e della

bellezza. Allo stesso modo, un‟analisi femminista

avrebbe notato come la cultura di massa neo-liberale e

post-femminista, nel contesto della crescita del mercato

di consumo femminile abbia creato un‟atmosfera in cui

il femminismo è uncool o antiquato; il fascino della

professione della top model, ne fa un lavoro da sogno

(naturalmente irrealizzabile) per le giovani di classi

sociali diverse in tutto il mondo. Il tutto a scapito delle

scelte formative delle giovani, che non scelgono

professioni ben pagate e innovative, come quella

dell‟ingegnere, o della ricerca scientifica, ma anche quei

lavori sociali che ultimamente hanno perso il loro status.

In conclusione, la professione di modella non è

l‟esempio ideale per dimostrare l‟aumento del lavoro

affettivo, perché non è paragonabile al lavoro di cura o

riproduzione sociale. Vale la pena di notare che nello

stesso numero di «Ephemera», un articolo di Weeks

fornisce una risposta femminista al dibattito sul lavoro

affettivo (2007). Questo riporta la connessione iniziale

tra marxismo e femminismo in riferimento al lavoro

domestico, aggiungendo un‟analisi classicamente

sociologica del lavoro di Wright Mills sugli impiegati –

colletti bianchi – e sui modelli di personalità necessari

in questo settore di servizi. Weeks si collega al classico

studio delle assistenti di volo di Arlie Russell

Hochschild, rivedendo la categoria del lavoro affettivo e

parlando di lavoro emotivo. Secondo Weeks, in Wright

Mills la personalità assistenziale e premurosa, è

considerata in qualche modo un requisito del lavoro, ma

necessita una consumata falsità, mentre negli anni dello

studio di Hochschild, l‟idea di fondo era che per

comportarsi in modo premuroso e pieno di attenzioni

personali, le assistenti di volo dovessero essere motivate

Genere e precarietà 61

abbastanza da identificarsi positivamente in quel ruolo

(Hochschild 2006). Il settore dei servizi quindi produce

e richiede nuove soggettività affettive sul posto di

lavoro. Tuttavia, Weeks non si interroga

sufficientemente sulle conseguenze politiche delle

«tonalità emozionali» come requisito di lavoro

femminile (Hardt e Virno 1996).40

L‟autrice riconosce

che sono state superate le idee essenzialiste del «lavoro

delle donne», in primo luogo perché adesso anche gli

uomini sono impiegati nei servizi, rendendo la

segregazione di genere minore, e, in secondo luogo,

Weeks rileva che l‟idea del genere stessa si costruisce in

simili attività, riallacciandosi alle teorie del genere come

performance. La femminilità viene prodotta dalle

specifiche circostanze in cui la si rappresenta

ripetutamente fino a farne un requisito del lavoro.

Riguardo alle mutazioni del genere nel regime di lavoro

post-fordista (Weeks cita il lavoro di Donna Haraway)

ci troviamo davanti «sia all‟erosione sia

all‟intensificazione del genere». Mentre Weeks

riconosce la fine di un settore lavorativo blindato, che

escludeva le donne, non coglie quest‟occasione per

esaminare la ristrutturazione della posizione delle donne

nell‟ambito del lavoro flessibile, non coglie il completo

rovesciamento dai margini e della forza lavoro di riserva

al cuore delle nuove forme lavorative post-fordiste.

Dove la centralità contemporanea delle donne nella

produzione potrebbe dar vita a nuove forme di potere di

genere, questo potenziale politico viene negato da forme

di governamentalità biopolitica, incentrate sulle donne e

sui loro corpi (attraverso i media e le riviste), al punto

che che il loro potere legato al reddito viene assorbito

40 N.d. t. In originale emotional tonalities.

Genere e precarietà 62

immediatamente dalla cultura del consumo e dalle

promesse di soddisfazioni personali che questo

rappresenta.

4. Il Genere Precari@?

Gli studi recenti di sociologia femminista e studi

culturali sulla partecipazione delle giovani donne ai

nuovi settori economici culturali e creativi forniscono

molte dimensioni e variabili da analizzare (Gill 2007 e

Blimlinger 2008). Anzitutto, si tratta di giovani donne

molto istruite, prevalentemente laureate. Secondo, le

giovani precarie sono la generazione che ha ereditato le

vittorie del femminismo degli anni sessanta e settanta.

Sebbene quel femminismo sia familiare a loro, lo

vivono con una sorta di eredità assimilata attraverso le

madri, e poche di loro sembrano autodefinirsi

femministe o essere apertamente politicizzate ─ ad

eccezione di alcuni gruppi neo-femministi italiani,

descritti da Laura Fantone in questo volume41

, piccole

reti ed entità locali, organizzate intorno alla rete Prec@s

in Italia, attiva dal 2003.

Molte di queste giovani precarie istruite non sono

sposate né hanno bambini, e pare che stiano più o meno

deliberatamente procrastinando o evitando di averne,

perché si trovano a vivere in un alto grado di insicurezza

e precarietà nella loro vita affettiva e professione – fatta

di attività micro-imprenditoriali, educative o di ricerca,

pendolarismi estremi e lavori a distanza, e così via.

Durante un solo anno o due, molte di queste giovani

donne fanno qualcosa di completamente diverso dal

41 Si veda il saggio di Laura Fantone, Una Precarietà Differente, generazioni

e genere nel contesto italiano, in questo volume.

Genere e precarietà 63

mestiere precedente. Le università e le accademie di

belle arti hanno incoraggiato molte laureate a puntare

sui propri studi, feticizzando i lavori creativi e i progetti

freelance. I valori della fiducia in se stesse e

l‟ambizione di avere una certa autonomia nel reddito e

nel lavoro, magari fondando una propria piccola

impresa creativa non può essere separato dal tipo di

preparazione e di istruzione che queste giovani hanno

ricevuto. Così, in un certo senso, il vero cambiamento è

dato dal fatto che questa tipologia di lavoro è diventata

una nicchia più affollata del previsto: quanto più le

laureate entrano in questo tipo di lavoro, tanto più

questa diventa visibilmente femminile, poiché più

giovani donne completano corsi di laurea o

specializzazioni universitari che nel passato.

Nonostante queste donne abbiano successo nei loro

campi professionali, educativi e creativi, ed esprimano

soddisfazione per il lavoro, impegno e passione per

esso, c‟è la consapevolezza che queste carriere

freelance, sono caratterizzate da grande sfruttamento (e

auto-sfruttamento), oltre che da un cambiamento

costante.

Infine, è importante notare che le donne di queste reti

sono in prevalenza bianche e appartenenti alla classe

medie o alte. L‟accesso alla formazione continua e ai

più alti gradi d‟istruzione modifica la composizione

della classe delle giovani donne, che sono adesso capaci

di trarre vantaggio da queste risorse. Le laureate sono

ora socialmente più diversificate di prima, il che non

significa che non siano ancora in atto meccanismi (come

quelli del capitale sociale) che avvantaggiano chi

proviene da famiglie benestanti o di ceto medio. Questo

dato suggerirebbe che solo la già privilegiata giovane

donna bianca, risulterebbe essere abbastanza fiduciosa

Genere e precarietà 64

da rischiare, fare prestiti bancari per intraprendere

attività creative, e poi magari trovarsi a ripagare questa

scelta con grandi sforzi.

Il caso analizzato da Larner e Molloy (Larner e Molloy

2009), nel loro studio sulla nuova generazione delle

donne stiliste della Nuova Zelanda, offre un‟analogia

importante, dato che queste giovani donne emergono

come imprenditrici culturali, quindi considerate

essenziale per la crescita dell‟economia creativa in tutte

le città innovative del mondo. Inoltre, le precarie

creative riconoscono che questo tipo di lavoro sia

possibile anche grazie alle istanze femministe della

generazione precedente, che ha creato e opportunità per

le donne in affari. Le stiliste neozelandesi in particolare

sono state sostenute dal loro governo nel tentativo di

sviluppare il settore e guadagnare visibilità a livello

globale. Le stiliste producono abiti per «altre donne

lavoratrici indaffarate» la loro carriera le porta a

lavorare in proprio nei loro start-up, o per piccole

aziende per le quali è necessario svolgere sempre

incarichi diversi e passare da un progetto al successivo.

Quindi si tratta di donne altamente qualificate, che sono

diventate agenti fondamentali di un nuovo settore

creativo. La ricerca in questione dimostra che la

femminilizzazione della forza lavoro non implica

sempre accettare salari ridotti né una corsa verso il

basso imposta dell‟economia globale. Rimane però una

questione irrisolta da Carnera e Molloy: quale sarebbe la

politica femminista sottesa dalle attività imprenditoriali

delle donne? (Gray 2003).

Il testo manca di un confronto diretto con la realtà della

flessibilità post-fordista, come manca di un‟analisi

critica della cultura d‟impresa come nuovo strumento di

governamentalità, entrambe accelerate e intensificate

Genere e precarietà 65

dalla diffusione del neo-liberismo nella cultura politica

globale.

Cosa implica il fatto che sempre più giovani donne

diventino piccole imprenditrici culturali o creative? Ci

troviamo davanti ad un caso esteso di quello che

Lazzarato vede come un nuovo proletariato freelance

creativo (Lazzarato 1997), da considerarsi alla stregua

degli altri lavoratori precari?

Non so se Lazzarato abbia ragione a parlare in questi

termini dei giovani creativi. Forse queste imprese sono

da considerarsi, più convenzionalmente piccole aziende

che danno lavoro a poche lavoratrici ma che tuttavia

lasciano spazio alle donne nei ruoli di proprietarie e

direttrici a tutti gli effetti. Larner e Molloy scivolano su

questo terreno riferendosi all‟agire delle donne di affari

come meno aggressivo, e a volte più etico dei

businessmen. Questi autori collegano la concomitanza

delle lotte femministe e delle nuove politiche di governo

come produttive di una «soggettività neo-liberale di

genere», lasciando incerto il lettore su come interpretare

politicamente questo dato, dal momento che le imprese

e i risultati delle stiliste vengono celebrate e vagamente

trattate nelle dimensioni neo-liberali, che si manifestano

soltanto nello lavoro di design definito «radical-

intellettuale, dark e d‟avanguardia». Resta una

questione di fondo riguardante la «soggettività neo-

liberista del genere»: è positiva o negativa? Queste

donne sono forse solo ambasciatrici di un nuovo

capitalismo? O, semplicemente, lavoratrici flessibili

nella nuova economia creativa, nel mercato del lavoro

in «transizione permanente» che è stato oggetto di

attenzioni approfondite negli ultimi anni? Le stiliste

sono un esempio di un lavoro autonomo (come libero

professionista, o come piccola imprenditoria culturale)

Genere e precarietà 66

completamente diverso dal lavoro convenzionale

(McRobbie 1998)?

Larner e Molly suggeriscono come sia stata posta troppa

enfasi sulla durezza e sui fallimenti posta da vari studi,

tra cui il mio, e resta il dubbio se l‟economia creativa sia

un bene o un male per le donne. Nello stesso articolo,

Larner e Molloy non esitano a descrivere problemi

simili in cui si sono imbattute le stiliste in Nuova

Zelanda, confermando, effettivamente, la tesi iniziale

secondo cui gli stilisti indipendenti, preparati dalle

accademie delle belle arti, non siano tanto

amministratori delegati quanto piuttosto artisti

convenzionali, che fanno tanti sforzo per guadagnarsi la

vita con metodi fai-da-te o lavorando a domicilio,

cercando costantemente piccole somme per

investimenti, e vivendo tormentati dalla paura di dover

chiudere la loro attività.

Negli ultimi anni, sono aumentate molto le quantità di

articoli che esaminano il modo in cui vecchie gerarchie

di genere si siano riprodotte nei nuovi settori creativi e

dei media (Gill 2007 e Blimlinger 2008).42

Lisa Adkins,

ad esempio, dimostra come l‟imprenditorialità su

piccola scala spesso veda coppie sposate lavorare l‟uno

accanto all‟altra, in modo tale da riprodurre in questi

micro-business, la classica divisione di genere che vede

l‟uomo come più mobile e capace di viaggiare e seguire

contatti, mentre la donna, soprattutto se ha dei bambini,

si concentra su un ruolo dietro le quinte e di mero

sostegno (Adkins 2002). Tutto ciò induce Adkins a

parlare di una ri-tradizionalizzazione condizionata per le

donne, che nuocciono alla famiglia, se paragonate alle

42 Si veda anche il saggio di Laura Fantone in questo volume.

Genere e precarietà 67

aspettative di un normale lavoro retribuito con orari

stabiliti e diritti chiari.

Nel nuovo settore creativo, e in molti settori

professionali, emerge un‟apparente uguaglianza se si

parla di numeri totali di giovani donne con buone

qualifiche e con grandi quantità di energia e di

iniziativa. Tuttavia, come sostengono Gill e Scharff, le

regole informali della socialità in rete (Terranova 2004),

minano i diritti legalmente garantiti associati al «lavoro

normale» (Gill 2007 e Scharff 2011). Questo rende

difficile sollevare questioni di sessismo o razzismo,

perché c‟è una sorta di privatizzazione delle ingiustizie.

Come sostiene Scharff, le giovani donne cominciano a

vedere la discriminazione sessuale semplicemente come

un altro ostacolo che devono essere in grado di superare

individualmente, con assoluto coraggio e

determinazione. Niente di peggiore dell‟apparire

femministe in questi ambiti di lavoro creativo. Questa

stessa cultura privatizzata, e profondamente

individualista dà luogo a profondi malesseri come lo

stress mentale, i crolli fisici e la dipendenza da droghe e

alcool (Berardi 2009). In questi processi complessi

sembra che le giovani donne abbiano raggiunto una

sorta di uguaglianza, laddove, in realtà, questa è ancora

minata da dinamiche sottili e patriarcali, nascoste

dall‟apparentemente innocuo paradigma del cool, che

diventa un regime disciplinare nel lavoro e nel tempo

libero, crudele tiranno delle giovani donne.

Conclusione

Questi scenari delineano una tensione irrisolta

dell‟operaismo: l‟insistenza sulla centralità del luogo di

lavoro nella formazione di nuove politiche radicali. Gli

Genere e precarietà 68

autori riconoscono che non c‟è più una netta divisione

tra la vita lavorativa e il tempo libero nella quotidianità.

Lamentano i valori corrotti di una vita quotidiana

edonistica tipici del lavoro precario, cosicché il lavoro

diventa un‟estensione della vita sociale. Non rinnegano

l‟importanza politica delle istituzioni sociali e della vita

di tutti i giorni, ma le loro analisi seguono una traiettoria

che va dal luogo di lavoro all‟esterno, verso la «fabbrica

sociale». Questo è il punto in cui l‟operaismo si

distanzia da autorevoli analisi radicali nell‟ambito delle

scienze sociali e umanistiche recenti. Negli ultimi anni,

ad altri ambiti sono stati attribuiti forti significati

politici, al di là della fabbrica. Le scuole, le comunità, le

strade, gli spazi urbani, le prigioni, l‟ambito domestico,

le arti, la sessualità, la musica pop e di successo,

compreso quella emergente dalla cultura urbana black.

Questi ambiti non si sono deliberatamente etichettati

«fabbriche», per evitarne la riduzione ad uno spazio

gerarchico, per il lavoro retribuito e preminentemente

legato a politiche di classe. Gli altri spazi sono stati

riconosciuti come luoghi di potere altrettanto

fondamentali per la contestazione e la formazione di

movimenti di opposizione, soprattutto per quei settori

della popolazione (giovani, varie generazioni di persone

nere e asiatiche escluse da lavori regolari, donne che si

affidano al lavoro part-time) ai quali non è dato accesso

al lavoro retribuito e una vera carriera. Paul Gilroy,

nell‟ultimo capitolo di There Ain’t No Black in the

Union Jack ha chiaramente proposto questo modello per

uscire dal determinismo della fabbrica (1987), così

come gli studi post-coloniali, quelli culturali e il

femminismo.

In questo momento si pone un‟altra questione cruciale,

come possono le femministe che si occupano di studi

Genere e precarietà 69

culturali e sociologia a ridare centralità al luogo di

lavoro? È possibile superare le analisi precedenti su

«donne e occupazione» per dialogare pienamente con le

nuove forme di lavoro precario che stanno emergendo,

oltre alle più vecchie forme dell‟etnia e della classe?

E come farlo, con quale tipo di vocabolario critico?

Tutti gli autori qui menzionati hanno già facendo

progressi in questo senso, allontanandosi da macro-

analisi sulle donne e l‟occupazione che ha caratterizzato

gran parte degli studi femministi dagli anni settanta,

prendendo la direzione degli studi microsociologici di

carriere e percorsi di genere nel settore creativo e nel

precariato. La mia conclusione sugli studi femministi

incentrati sul genere e il lavoro precario è che sia

necessario esaminare i punti di tensione reali – come

l‟ansia, gli stati di sofferenza e di perenne incertezza ─

derivanti dalle imposizioni eccessive o addirittura

patologiche delle carriere multi-tasking. Questo nodo

complesso rappresenta un potenziale per la nascita di

una nuova collettività, che già si trova ad un punto di

rottura e non ritorno.

Forse possiamo ipotizzare piuttosto una dinamica

generazionale a venire. Ci possiamo interrogare sul se le

precarie, quando raggiungano la mezza età, avranno

ancora ambizioni di socializzare e fare networking dopo

lunghe ore di lavoro.43

I contributi femministi in questo dibattito sono

caratterizzati da un‟enfasi sulle pratiche reali di lavoro,

in netto contrasto con Negri e Hardt che, nel loro

desiderio di coniugare la filosofia post-marxista a

prospettive futuristiche utili a nuovi movimenti radicali,

lasciano poco spazio a ricerche o riferimento ai percorsi

43 Si veda il lavoro in corso di Zoe Romano su <www.edufashion.org> e su

<www.openwear.org>.

Genere e precarietà 70

di carriera specifici o tanto meno a reali esperienze di

vita lavorativa nei settori creativi. Lazzarato si avvicina

di più alle pratiche concrete, lavorando con Les

Intermittents du Spectacle parigini, facendo una

campagna per i diritti sindacali, ma anche nel suo caso i

riferimenti concreti restano frammentari.

È necessario notare come nel lavoro di Virno (2001), si

citi brevemente la Libreria delle Donne di Milano con

sguardo storico sugli anni ottanta, come un esempio di

lavoro cooperativo, dove i valori e le responsabilità

collettive della comunità hanno prevalso sul mercato.

Trovo piuttosto ironico che ricercando soggettività e

pratiche lavorative alternative, non già conquistate del

tutto dalla logica dell‟accelerazione fine a sé stessa,

venga in mente una libreria femminista, come esempio

di lavoro postmoderno e creativo. Simili esperimenti si

autodefinivano in termini di soddisfazione per un lavoro

fine a sé stesso, incentrato su sé stesso, piuttosto che

definito dal successo commerciale (Virno 2001).44

Questo è un punto utile far convergere i vari aspetti che

ho trattato in questo saggio e trarne alcune conclusioni.

La generazione caposaldo dell‟operaismo si è formata

sull‟onda delle attività politiche della fine degli anni

sessanta e degli inizi degli anni settanta, nonché in

opposizione alla repressione dello Stato. Ma accanto ai

pesanti conflitti – violenti e non violenti – di quel

periodo, si sono sviluppati migliaia di piccoli progetti

che alimentavano la «comunità alternativa»: dalle case

editrici femministe, alle cooperative di donne artigiane,

dagli asili radicali per bambini, ai gruppi di auto aiuto

per le giovani, ai maedchenarbeir45

tedeschi, fino ai

44 Per un interessante approfondimento sulle attività dei gruppi femministi oggi, si

veda al sito <www.casainternazionaledelledonne.org>. 45 Vedi nota 2.

Genere e precarietà 71

laboratori di fotografia per donne, ed altre forme di

attività auto-organizzate caratterizzate da una

dimensione economica. Malgrado fossero soggetti a

conflitti ideologici interni, questi modelli hanno creato

una possibilità di politica radicale di ridefinizione del

lavoro capace di adattarsi alla cultura delle piccole

imprese, con tutte le limitazioni che la caratterizzava.

Queste piccole imprese ad alto «valore sociale» ci

offrono un modello più forte di cooperazione, di

invenzione di nuove tipologie e tempi di lavoro, e di

radicale ridefinizione dell‟idea di lavoro sociale rispetto

ai modelli predominanti con cui pensiamo alle nuove

industrie creative oggi.

Infine, va riconosciuto che le donne che a partire dagli

anni settanta hanno organizzato queste iniziative, erano

già multi-taskers: attraverso queste, esse hanno potuto

dedicarsi interamente al loro lavoro facendone la

propria passione e hanno vissuto la cultura del lavoro

senza orari ante-litteram. Questo ruolo delle donne è

ancora troppo nascosto e, nella prospettiva storica

attuale rimane purtroppo marginale, quasi un‟assenza

nel dibattito contemporaneo sul genere e il lavoro

affettivo.

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Genere e precarietà 75

[manifesto per lo sciopero dei precari, Aprile 2009]

Genere e precarietà 76

Genere e precarietà 77

corpi

Dislocazione e transito perenne tra i

generi e le sessualità. Una riflessione sulle vite precarie

di Gaia Giuliani

Introduzione

La riflessione che propongo, originariamente nata da

uno scambio con Porpora Marcasciano, attivista del

movimento LGBT italiano e presidente del MIT

(Movimento Identità Transessuale), rappresenta una

prima considerazione sulle trasformazioni nella

percezione del corpo, dell‟identità di genere, della

sessualità e dell‟affettività nel contesto di quella che

possiamo definire in modo schematico l‟«età della

precarietà» in Italia. Essa è scaturita dal nostro

confrontarci in più occasioni su significati, forme e

obiettivi dell‟agire politico gendered, queer e trans-

gendered in Italia. Le riflessioni mie e di Marcasciano si

sono dunque mescolate per costituire il terreno stesso di

questo articolo. Seppur appartenenti a generazioni

differenti, veniamo entrambe dal milieu culturale e

politico della scena femminista e queer bolognese. Le

molte battaglie condivise tra il 2002 e il 2010 – in difesa

della legge sull‟aborto, nel movimento italiano creatosi

attorno ai temi della precarietà di vita e del lavoro, per il

reddito di cittadinanza e per la cittadinanza globale,

contro la legge italiana sulla Procreazione

Medicalmente Assistita (2005), per il riconoscimento

politico delle «affettività differenti» (in riferimento alla

Genere e precarietà 78

discussione per l‟approvazione dei D.I.C.O. tra il 2006 e

il 20071), contro la violenza di genere, transfobica e

omofobica, e per uno Stato italiano laico – hanno

dimostrato di essere in grado di ricombinare, per quanto

ancora con grandi difficoltà e rigidità, il patrimonio

critico di un certo femminismo e di un certo movimento

LGBT (lesbico, gay, bisex, trans). Questo è apparso

l‟esito della messa in discussione da parte, in un caso,

della critica queer e postcoloniale alla teoria femminista

«eterosessuale» e occidentale e, nell‟altro, della critica

transgender ai movimenti gay e lesbico tradizionale e

alle loro categorie fisse (Gay, Lesbica, Trans): entrambe

siamo testimoni della decostruzione di un soggetto che

sta coinvolgendo anche le soggettività critiche

femminista e omosessuale.

Ci siamo chieste se la frammentazione nelle pratiche

politiche e di vita, la ricombinazione fluida di

soggettività attraverso i molteplici network, la

sperimentazione di linguaggi creativi e provocatori non

siano tutti direttamente collegati al «divenire precario

del soggetto e della politica». E se la «precarietà di vita

e degli affetti» – dell‟exodus sessuale2, identitario,

cognitivo e territoriale insita da sempre nel percorso

transgender – non stia effettivamente fungendo da

magazzino degli attrezzi concettuali per una definizione,

o meglio un‟identificazione fluida, della condizione

1 DICO è la sigla che corrisponde a «DIritti e doveri delle persone stabilmente COnviventi» e viene riferita comunemente al disegno di legge,

presentato dal Governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi nel 2006-

2007 e redatto dalle ministre Livia Turco e Rosi Bindi. Esso era finalizzato al riconoscimento nell‟ordinamento giuridico italiano di taluni diritti e doveri

discendenti dai rapporti di «convivenza» registrati all‟anagrafe.

2 Il termine fu utilizzato da Marcasciano in questo contesto, la quale lo utilizzò per sottolineare la coralità e la multidimensionalità del transito tra i

generi nell‟esperienza trangender. Lo riprendo tenendo fede a questa

accezione.

Genere e precarietà 79

precaria che un numero crescente di persone esperisce

nel senso della scomposizione e moltiplicazione dei

processi di identificazione, delle esperienze affettive e

della forme della sessualità.

Gli spunti analitici e teorici sulla «condizione trans»

offerti da Marcasciano, mi servono per situare tale

condizione in senso storico e politico. Da qui, la mia

analisi si sposta verso una lettura femminista e queer

delle pratiche «precarie» del genere e della sessualità in

atto nella società italiana . Al centro dell‟analisi sono le

implicazioni sociali, politiche e culturali di tali pratiche,

che io definisco come in «transito continuo». Utilizzo in

un contesto più ampio la definizione propria

dell‟identità trans e la estendendo alle più generali

forme di (post) identità queer e identità precaria al fine

di cogliere il «continuo spostamento» sia simbolico, sia

corporeo, sia territoriale, da categorie fisse e binarie

(eterosessualità-omosessualità, uomo-donna, maschile-

femminile) ai «percorsi in transito» che le caratterizzano

(Butler 2004, 8, 37).

Con la mia ricollocazione e «presa a prestito» dal

transgender del concetto e dell‟esperienza del transito

intendo mettere in luce la capacità di operare forme di

agency – o esperienze di soggettivazione – nel reagire

alla scomposizione impressa dalla precarietà alle nostre

vite. La questione è, infatti, comprendere come la

destrutturazione delle identità binarie moderne – di

genere, quali quelle di uomo-donna e maschile-

femminile, o in riferimento alla sessualità, quali quelle

di eterosessuale-omosessuale, o in riferimento al lavoro

e alla cittadinanza, quali quelle di cittadino-noncittadino

o lavoratore-disoccupato – in un cumulo di frammenti

scompostamente riassemblati, si sia realizzata nelle

«identità precarie». E come tali «identità precarie» siano

Genere e precarietà 80

state o possano essere protagoniste di processi di

ricomposizione, di soggettivazione e di azione politica a

partire dall‟esperienze del «transito continuo». Tale

analisi, così come l‟oggetto di ricerca, sono situate in un

contesto sociale, politico e culturale segnato da forme

estreme di individualizzazione, dall‟auto-segregazione o

allontanamento «dal proprio corpo e da quello degli

altri» e dal ripiegamento nel privato come strategia di

sopravvivenza. L‟obiettivo è quello di comprendere se il

riconoscimento della natura molteplice e flessibile

dell‟identità precaria può essere il luogo di un nuovo

immaginario collettivo e il terreno di nuove lotte che

coinvolgano contemporaneamente i piani del genere,

della sessualità, dell‟affettività, del lavoro e della

cittadinanza.

Il mio intervento parte dalla considerazione che le

identità precarie si trovano nella condizione di usufruire

di materiali identitari molteplici e flessibili, risultato

della critica postmoderna, femminista e queer che dagli

anni settanta si è sviluppata nei confronti delle identità

binarie moderne, condizione che li rende

potenzialmente in grado di praticare un‟ulteriore

decostruzione dei modelli di mascolinità e femminilità e

di sessualità eteronormati, familisti e patriarcali. Oggi,

frammenti di tali narrazioni vengono utilizzati per

descrivere pratiche che rompono con un‟idea codificata

di sessualità e di affetto, e con la loro strutturazione in

formazioni sociali predefinite (coppia, famiglia). O

meglio, s‟intersecano, accompagnano, sono in tensione

con le pratiche che destrutturano concezioni codificate

del maschile e del femminile, senza però che l‟uso di

tali frammenti da parte di queste pratiche produca una

narrazione compiuta. Non vi è consapevolezza del

potenziale simbolico che una riarticolazione «in senso

Genere e precarietà 81

precario» di tali narrazioni potrebbe sprigionare. È raro,

infatti, che le narrazioni queer e transgender vengano

consapevolmente assunte come materiale politico dalle

identità precarie. Accade all‟interno di certe subculture

eterosessuali e omosessuali – quelle giovanili «Emo», o

transgenerazionali del BDSM, ad esempio, che mettono

in discussione di definizioni nette e statiche di

femminile e maschile3 – ma tale materiale non assurge

mai ad elemento politico e di rivendicazione. Le sue

ricombinazioni non danno vita ad un immaginario

comune in grado di porre la destrutturazione al centro di

un‟analisi complessiva dell‟identità precaria

contemporanea. L‟idea del transito perenne tra maschile

e femminile, tra le varie forme della sessualità, come

elemento assertivo e positivo viene assunta, infatti, per

lo più a livello individuale e occasionale, mentre nella

maggior parte dei casi la vita precaria come «vita in

assenza di approdo» (alle categorie moderne del lavoro

stabile, della famiglia, e delle corrispondenti posizioni

sociali, definite dal reddito, dalla rendita e dal consumo)

è ancora vissuta con sofferenza.

Se l‟idea di «transito perenne» può essere mutuata,

come categoria analitica e descrittiva, per comprendere

le pratiche individuali e collettive poste in essere dalle

identità precarie, e se la precarietà di vita e del lavoro

può essere considerata fattore stesso di quella

destrutturazione e ricomposizione delle pratiche sessuali

che richiede un‟estensione semantica del concetto di

transito, allora si potrebbe puntare ad un obiettivo

3 Nel senso della spiccata declinazione «femminile» dell‟estetica maschile

nell‟ambito della sottocultura «emo» (che enfatizza l‟uso di capi

d‟abbigliamento tradizionalmente associati all‟altro sesso e atteggiamenti estremamente «effemminati») e dello «switching» nelle pratiche BDSM che

implica non solo la disgiunzione tra ruoli dominanti e dominati

dall‟appartenenza di genere ma anche la loro continua inversione.

Genere e precarietà 82

politico più alto con il rivendicare la narrazione del

transito come narrazione politica della riconfigurazione

dell‟identità individuale e collettiva nell‟era della

precarietà.

Per poter fare ciò è necessario un recupero del «luogo-

corpo» sottratto alla «perdita di peso» di cui mi parlava

Marcasciano, descrivendo la de-corporazione

postmoderna, e che è pure alla base dell‟accelerazione e

delocalizzazione imposta dall‟ordine precario. Il luogo-

corpo e la perdita-recupero di peso, su cui s‟incentra la

mia analisi della condizione precaria nei termini di una

nuova fenomenologia della corporeità, divengono

nell‟età della precarietà una sorta di metafore

imprescindibili della destrutturazione delle categorie

moderne alla base dei processi identificativi individuali

e collettivi: fabbrica, famiglia, partito, chiesa.

Il recupero del peso non ha nulla a che vedere con il

ritorno a tali categorie (in tal senso stabilisco una

tensione con quanto sostenuto da Rich 1996, 15-22 e

Braidotti 2002, 75): al contrario, esso si riferisce alla

valorizzazione della dimensione del «qui e ora» da cui

ripartire per riconoscere ciò che accomuna, per dar vita

a nuove forme di solidarietà e condivisione di analisi e

lotte.

Solo attraverso un «situarsi» nell‟immanenza del «qui e

ora» che metta in luce differenze e similitudini tra le

diverse identità precarie, che le confronti a partire dalla

loro «posizione» in termini di genere, sessualità, colore,

classe, cultura, diritti di cittadinanza valorizzandone i

punti di contatto, si dà la possibilità di una

consapevolezza della condizione precaria e il terreno

per una soggettivazione allargata.

Solo attraverso una sottrazione dalla fuga in avanti

imposta dal tempo precario è possibile riconoscersi

Genere e precarietà 83

reciprocamente in quanto accomunati da quello che è un

«transito perenne» attraverso i confini dei generi, delle

classi, dei colori e delle culture (Appiah 1997; Lorde

1983). Solo avendo la capacità di ricomporre e

rappresentare la propria identità attraverso una

geometria flessibile che includa i diversi piani su cui

essa viene agita, l‟«hic et nunc» può rimandare al

futuro, ad una prospettiva che renda capaci le identità

precarie di recuperare quella relazione tra passato,

presente e futuro che il processo di

accelerazione/dislocazione ha ridotto in segmenti non

comunicanti. Questa discrasia tra i segmenti si dà nel

lavoro precario così come nella vita affettiva, la cui

moltiplicazione – diversi contratti, diverse collocazioni,

diversi partner, diverse forme di affettività – sembrano

non poter esser ricomposti in una trama individuale e

collettiva coerente. Translando in un contesto

lontanissimo ciò che Paul Gilroy ha suggerito in

riferimento alla dispora afro-americana ed alle

potenzialità di un‟identità collettiva fondata sul

riconoscimento della comune esperienza storica e

culturale (di schiavitù e subalternità), si può affermare

che la soggettivazione dei soggetti precari può darsi solo

come consapevolezza di una storia comune che produce

effetti nelle vite individuali e collettive nel tempo

presente.

Decelerazione, pesantezza/recupero del corpo,

solidarietà sulla base della comunanza, consapevolezza

della condizione precaria e immanenza: è attraverso

questi passaggi che l‟identità in transito perenne può

divenire il terreno della soggettivazione precaria.

La lettura da me proposta della condizione precaria

attraverso la categoria del «transito perenne» tralascia

Genere e precarietà 84

una più approfondita analisi del contesto economico,

sociale e culturale in cui si da la marketability delle

identità precarie, ossia la spendibilità sul mercato ma

anche la riorganizzazione della produzione a partire dai

bisogni espressi da identità di genere più flessibili. Mi

riferisco alle offerte dell‟industria culturale e non solo,

alla proliferazione di beni di consumo, ma anche alla

riorganizzazione del mercato del lavoro che sfruttano e

che riproducono la vita precaria, inserendola in un

regime di normalità che sottrae piani di soggettivazione

e reazione. Questo intervento non si soffermerà dunque

su di una disamina approfondita della circolarità tra

desiderio, spazio pubblico e mercato. Semplicemente

vorrà puntare l‟attenzione sulla agency esperita da

soggetti individuali e collettivi nella «narrazione» delle

proprie migrazioni across gender and sexuality lines a

partire da strumenti descrittivi provenienti dal

vocabolario queer e transgender.

1. Trans-siti. Una premessa sull’identità situata

del transgender, per un possibile paradigma

della precarietà. Note sulle riflessioni di Porpora

Marcasciano

Necessità, bisogni e desideri predispongono

l‟essere umano al viaggio, allo spostamento, al

cambiamento. La tendenza naturale è

un‟incessante ricerca di condizioni di vita

migliori o, se vogliamo, una profonda ed

atavica aspirazione alla felicità. A volte è la

ricerca dell‟acqua e di terra fertile da poter

coltivare o di un clima più favorevole, altre è la

In questo paragrafo le riflessioni di Porpora Marcasciano sono evidenziate

mediante l‟uso del corpo minore.

Genere e precarietà 85

fuga da guerre e violenza. Ma anche il desiderio

di conoscere, comunicare, socializzare e alla

base c‟è sempre e comunque un‟aspirazione, un

miglioramento della propria condizione

esistenziale, quella famosa «fame che aguzza

l‟ingegno» che sposta, riposiziona

continuamente popoli e persone,

sintonizzandoli con l‟eterno, incessante

mutamento a cui sottostà l‟universo tutto. La

ricerca di condizioni migliori di vita non

riguarda solo l‟ambiente fisico, sociale e

culturale, ma anche qualcosa di molto più

intimo e personale: essa, infatti, può riguardare

anche il corpo, involucro per qualcuno e per

altri un ingombro, composto dai quattro

elementi, attraverso il quale ogni individuo può

dirsi vivo. Si può intervenire sul proprio corpo,

curarlo, correggerlo, trasformarlo perché

malato, brutto, disarmonico o, molto

semplicemente perché è un corpo che non ci

appartiene.

Si nasce maschi e si diventa donne o viceversa

si nasce femmine e si diventa uomini, attraverso

un complesso e creativo movimento che prende

il nome di transessualismo (passaggio da un

sesso all‟altro) o transgender (passaggio da un

genere ad un altro). Sottolineo tale distinzione

perché le parole costruiscono la realtà delle

persone: i significati e significanti producono

senso, e questo senso, nella vita delle persone

trans, può tradursi in piena realizzazione di sé

o, all‟opposto, in esclusione. La ricerca riguarda

il corpo, l‟identità, il luogo in cui vivere, una

ricerca soggettiva di condizioni possibili oltre la

precarietà che i modelli culturali costruiscono

attorno all‟individuo. La differenza è tutta nella

desinenza che nel primo caso fa riferimento al

sesso, e quindi a qualcosa di fisico, mentre nel

Genere e precarietà 86

secondo rimanda al genere, e quindi a qualcosa

di più profondo e complesso.

I/le transessuali sono coloro che si identificano

con il sesso opposto a quello di nascita e

nutrono un desiderio intenso di cambiare la

propria conformazione sessuale per vivere in

sintonia con la percezione profonda di sè. Si

indica con il termine transessuale chi transita da

un sesso all‟altro e tutti coloro che pur

nascendo maschi si sentono femmine o

viceversa. Il DSM IV (Manuale Diagnostico e

statistico dei disturbi mentali) considera il

transessualismo come un disturbo o una disforia

dell‟identità di genere e lo indica con la sigla

DIG: nel caso della trasformazione sessuale,

quindi, la disciplina medica conferisce una

spiegazione scientifica alla ricerca e al

cambiamento operato dalla persone

transessuali. L‟esperienza transessuale ha

percorsi diversificati tra maschi e femmine: i

due transiti sono identificati a livello

internazionale attraverso una sigla, MtF (Male

to Female) e FtM (Female to Male). Per i

transessuali i propri genitali sono fonte di

imbarazzo e disagio, e anche il corpo, che

spesso non corrisponde a quello sognato,

rappresenta un ostacolo alla propria

realizzazione. Quando la persona transessuale

decide di armonizzare corpo e mente, di

sintonizzare sesso e genere, avvia un percorso

di adeguamento comunemente detto transito

che consiste in cure ormonali e ricorso alla

chirurgia plastica ed estetica. Il transito, e

quindi l‟esperienza transessuale, può

considerarsi concluso con l‟operazione di

cambio di sesso, effettuata la quale la persona

sarà riconosciuta con il sesso ed il genere «di

arrivo» (Del Pozzo e Scarlini 2006).

Genere e precarietà 87

Il termine transgender usato ormai in tutto il

mondo, è considerato il termine più corretto, sia

dal punto di vista scientifico che da quello

sociale e culturale per indicare l‟esperienza

trans.

Nei paesi anglofoni il termine si sovrappone, e

spesso sostituisce, quello di transessuale

ritenuto poco appropriato perché riferito

esclusivamente al sesso e non al genere di una

persona. Non è, infatti, l‟orientamento sessuale,

implicato solo trasversalmente nell‟esperienza

trans, a dover essere riconosciuto, ma l‟identità

di genere (AGEFORM 2002). Nonostante non

esista nessun termine corrispondente in lingua

italiana, possiamo considerare transito di

genere una traduzione approssimativa per

indicare l‟esperienza di chi si sente donna ed è

nato maschio o viceversa di chi si sente uomo

ed è nata femmina. La problematica è racchiusa

in una sfumatura sottile ma sostanziale tra il

significato di maschio/uomo e di

femmina/donna, dove i termini di maschio e

femmina si riferiscono al sesso e rimandano

quindi a qualcosa di strutturale e puramente

fisico, mentre quelli di uomo e donna si

riferiscono all‟identità e rimandano invece a

qualcosa di psicologico e culturale.

L‟esperienza trans come ridefinizione di sé è precarietà

agita: è precarietà in quanto spostamento semantico

continuo, ed è agita nel senso che si dà come agire

soggettivo. Exodus, spostamento, riposizionamento,

trasformazione, significati e significanti quindi del

«transito», il moto «da-a», da qualcosa di socialmente

determinato a qualcos‟altro di indeterminato. Se il

significato socialmente associato al termine

«determinatezza» è generalmente positivo, e negativo è

Genere e precarietà 88

quello associato all‟indeterminatezza, ciò che si vuole

sottolineare qui sono le potenzialità di quest‟ultima

come ambito della sperimentazione e della conoscenza.

In quanto exodus, il transito è sempre in atto,

non è mai concluso: esso necessariamente

confligge con la determinatezza del «sesso» e/o

di un genere «dato una volta per tutte», una

determinatezza che Monique Wittig chiama

«the straight mind» (Wittig 1994), Mario Mieli,

leggendola in chiave «frocia» (queer) definiva

«educastrazione» (Mieli 1977), e Nicoletta

Poidimani chiama «ordine veterosessuale»

(Poidimani 2006). L‟exodus trans, in quanto

ricerca, è ricchezza, in antitesi con quanti/e,

anche in ambito libertario, immaginano e

collocano l‟esistenza, compresa quella trans, tra

due punti: uno di partenza e uno di arrivo, che

dovrebbero coincidere più o meno con partenza

dal maschile e arrivo al femminile o viceversa.

L‟assillante logica di determinare, definire

sesso, genere, sessualità è propria di una cultura

eterosessuale/omoculturale, che è quella delle

persone «straight minded», appunto.

L‟esperienza trans decostruisce corpi, identità,

culture (Butler 2004): è l‟elemento acqua che

lambisce e tocca l‟elemento terra, è il mare che

nel suo moto perpetuo trasforma la linea di terra

(«Posse» 2002). Il transito è decostruzione di

genere e, in quanto tale, decostruzione dello

«straight mind», dell‟«ordine veterosessuale».

Si tratta di un processo, questo, che solo negli

ultimi anni è stato parzialmente riconosciuto dai

femminismi in Italia ed altrove, i quali per

decenni si sono generalmente limitati a lottare

contro il patriarcato senza scorgere

Genere e precarietà 89

nell‟eteronormatività il pendant del paradigma

patriarcale (Feinberg 1997; 2004).

Nella pratica di leggere e ricostruire il mondo e

se stess*, femministe e trans ritornano a parlare

di sé, con qualche contraddizione (forse) ma,

soprattutto, non in antitesi. Se nella storia il

femminismo ha scavato un solco tra un prima e

un dopo, la comparsa del soggetto trans ha

contribuito a vivacizzare quell‟orizzonte piatto

che divide il maschile dal femminile, ha

frastagliato il confine netto tra il celeste e il rosa

mettendone in risalto le sfumature.

L‟ibridazione ha investito un mondo pensato

dagli uomini ed è per questo che il celeste che

lo caratterizzava ne è risultato sicuramente più

sbiadito, mentre il rosa dell‟altra metà del cielo

ha vivacizzato le sue sfumature. L‟esperienza

trans ha attraversato il genere, il sesso, il

costume nella storia: essa è, infatti,

trans/genere, trans/sessuale, trans/vestita. Molto

semplicemente, e soprattutto orgogliosamente,

essa è Trans. Ottimo argomento di cui discutere

con le donne: di colori parlava il femminismo ai

suoi albori, di colori è fatta la bandiera

rainbow, il simbolo dei/delle trans

(Marcasciano 2006).

Negli anni ottanta in Italia, l‟esperienza trans ha

introdotto – e imposto – in modo sostanziale la

riflessione sul maschile e sul femminile, come elementi

culturali decorporeizzati e al contempo situati, ossia che

trovano articolazione compiuta solo nella performance

di essi che ogni singolo individuo pone in essere nella

sua esistenza situata. Il genere diviene quindi un

elemento culturale, la cui appropriazione s‟inserisce

Genere e precarietà 90

all‟interno di norme sessuali precise e imprescindibili

ma che è al contempo frutto stesso dell‟agency

individuale.

L‟exodus verso mascolinità e femminilità trans

può assumere concettualmente una doppia

valenza, una positiva, se visto come ricerca,

l‟altra negativa, se visto come precarietà di vita.

Forse sarebbe meglio dire, utilizzando la

simbologia buddista del Tao, che ricerca e

precarietà sono indissolubilmente legate. Ciò

che è certo è che perché l‟elemento negativo

non prenda il sopravvento e perché l‟esperienza

trans possa essere vissuta pienamente, la società

in cui essa si dà deve accogliere tale

precarietà/ricerca come ricchezza individuale e

collettiva. Al contrario, nelle società

caratterizzate dalla subordinazione di genere e

dall‟esclusione sociale e culturale della

transessualità e della diversità di orientamento

sessuale l‟elemento della precarietà – ossia

delle condizioni di vita precarie – assumono i

caratteri drammatici della sopravvivenza e

dell‟esposizione quotidiana alla morte.

In molti casi, infatti, una volta intrapreso il

proprio transito finalizzato all‟armonia tra

mente e corpo, la persona trans ne intraprende

un altro, se vogliamo più travagliato, per

scappare dai tanti, anzi troppi luoghi inospitali

dove le-i trans sono emarginate, perseguitate,

uccise. La precarietà trans è anche una

precarietà territoriale. I luoghi inospitali non

sono esclusivamente localizzabili su una cartina

geografica: essi tracciano una vera e propria

mappa culturale definita dalla linea retta della

«normalità», una linea oltre la quale vengono

ricacciati tutti i cosiddetti anormali o, nel caso

Genere e precarietà 91

trans, degenerati (letteralmente «fuori dai

generi»). Nella cartina del mondo i luoghi

inospitali sono molti, troppi e coincidono quasi

sempre con quelle zone dove alcune religioni

con il loro corredo di norme e valori

sostituiscono più o meno completamente uno

stato laico.

Il pregiudizio corre libero, molto più delle

persone, espressione di una visione del mondo

particolare e non certo universale, diffuso in

alcune zone ma ricorrente dappertutto, compresi

i luoghi apparentemente più avanzati come gran

parte dei ricchissimi Stati Uniti. Le persone

transessuali per loro natura, per loro scelta o

loro malgrado sono visibili, bersagli potenziali

facilmente identificabili e raggiungibili: per

questo motivo una delle loro aspirazioni è

mimetizzarsi, un‟operazione che risulta molto

più facile nelle grandi metropoli o nelle zone

ricche, dove le logiche del mercato si servono

di tutto e di tutti, e anche dei cosiddetti

«anormali». Nel nuovo contesto economico

trans, gay, lesbiche sono perfettamente

funzionali al sistema, forza lavoro e

consumatori di fette di mercato pensate

appositamente per loro. Eppure, laddove tale

mercato esiste, non senza paradosso, trans, gay

e lesbiche trovano migliori condizioni di vita.

Lo spostamento è dalla periferia al centro, dal

sud al nord, in un mondo che sembra diventato

un enorme piano inclinato, sulla superficie del

quale tutti i non garantiti delle zone periferiche,

prima o poi scivolano verso l‟occidente ricco ed

avanzato. Quel piano inclinato fa scivolare a

ovest transessuali, travestiti, ma anche gay,

lesbiche, donne in cerca di realizzazione

sociale, fisica, psicologica, in cerca di sicurezze

e garanzie. A scivolare verso l‟occidente sono

Genere e precarietà 92

sudamericane, magrebine, asiatiche [secondo i

calcoli delle associazioni basati su osservazioni,

ricerche e studi, in Italia ci sono circa 20.000

transessuali, suddivisi in due gruppi principali

MtF e FtM, dei quali circa 20% si prostituisce

(On the Road 2003)]».

Questa precarietà territoriale – che non necessariamente

vede nel luogo d‟approdo la meta raggiunta, ma che

spesso include una serie di luoghi e terre di mezzo –

accomuna migranti, migranti transessuali e persone

transessuali cittadine, con la specificità, nel caso di

migranti trans, per la quale la non appartenenza segnata

dal colore della pelle e/o dalla differenza linguistica è

un visible marker a cui si assomma lo stigma sessuale. E

allo stigma, nel caso di persone senza permesso di

soggiorno, quella endemica riduzione o negazione di

diritti che pertiene allo status giuridico di non cittadino.

Se volessimo utilizzare la distinzione baumaniana tra

turista e pellegrino potremmo dire che la persona

transgender condivide con il secondo le condizioni di

partenza, con il primo, nella sua accezione

ontologizzata, il «transito continuo», l‟assenza

simbolica di una meta stabilita una volta per tutte

(Bauman 1999). Questa, diremmo, «ontologia» imposta

pone la persona trans in una condizione di non

appartenenza rispetto a un mondo in cui la mobilità

territoriale compulsiva presuppone una stabilità sociale

definita secondo linee di genere, di colore e di classe –

ma anche dalle condizioni di salute dei soggetti,

l‟assenza della qual condizione nel caso delle persone

trans e gay è stata un ulteriore fattore di

marginalizzazione.

Genere e precarietà 93

Il corpo nell‟epoca pre-AIDS è diverso dal

corpo nell‟epoca post-AIDS: diversa è la sua

visione, diversa è la sua percezione, diverso è

l‟uso riflessivo di esso da parte del soggetto e

da parte degli altri. Esso ha smesso di produrre

sensazioni, fisicità, sudore, umori (sperma,

sangue, liquidi) dando inizio ad un suo

decadimento. Il corpo trans specialmente, su cui

s‟iscrivevano alcune delle principiali

tipizzazioni sociali considerate «a rischio» –

perché ad esse era associata la trasmissione

della cosiddetta «peste gay» – è stato sottoposto

alla pubblica condanna. Oltre agli omosessuali,

ai tossicomani, e alle prostitute, le persone trans

(poiché spesso dedite alla prostituzione e in

generale perché considerate come soggetti

inglobati nella più ampia categoria

dell‟omosessualità) rappresentavano

perfettamente lo stereotipo del soggetto a

rischio. Il corpo trans venne dunque

criminalizzato, inserito tra i corpi pericolosi,

semplicemente da evitare.

Ora, anche in questo contesto la polarizzazione è stata

tra possibilità di dare massima visibilità al transito –

completato o perenne – e quella di normalizzarne gli

elementi di approdo, stabilizzarne il percorso, codificare

il genere. La visibilità voluta, ricercata, rimarcata è

propria di quel percorso al cui interno la sessualità, anzi

la sensualità, occupa un posto essenziale. È

riconducibile necessariamente al percorso di tutte coloro

che hanno fatto di essa un mezzo di sussistenza e

sopravvivono grazie alla prostituzione. Nel loro caso il

corpo deve sedurre, affascinare, eccitare. Deve essere un

corpo dai segni forti: segni che proprio per essere tali lo

connotano in modo così marcato da cagionargli

Genere e precarietà 94

l‟esclusione dai circuiti produttivi e da rendergli la vita

«precaria».

Il percorso normalizzante è proprio di tutti/e

coloro a cui la visibilità, spesso coatta,

dell‟esperienza trans non piace, sta stretta,

blocca, esclude. È il percorso che ricerca la

normalità ai fini dell‟inclusione sociale. Il loro

corpo porta segni meno marcati, più

rassicuranti, che fungono da segmenti di‟unione

con il tessuto sociale circostante. La

sessualità/sensualità propria di questo percorso

è circoscritta, ricondotta alla sfera affettiva: il/la

trans non si configura come «sessualità

eccedente» ma chiude la propria performance

sessuale nel privato. (Foucault 1978; 1984)

In questo caso la sessualità, con le parole di Foucault, è

stata gettata in un universo fatto di linguaggio che

prescinde il corpo, risultandone così alienata, invece

che, all‟inverso, fosse il linguaggio ad essere erotizzato.

La normalizzazione è funzionale spesso alla

collocazione lavorativa al di fuori dell‟industria del

sesso. La precarietà «strutturale» determinata

dall‟exodus4 imprime alla condizione lavorativa una

precarietà «eventuale» che si riverbera altresì sulle vite

trans in modo sostanziale e determinante, obbligandole

alla perenne ricerca di lavoro e a spostamenti spaziali

continui nel tentativo di garantirsi migliori condizioni di

reddito e di sicurezza personale ed esistenziale. I luoghi

verso cui questi spostamenti approdano

temporaneamente sono quelli che spesso sono

caratterizzati da culture più libertarie e che garantiscono

4 Sul significato di exodus rimando alla nota 2.

Genere e precarietà 95

i basilari diritti sociali alle persone trans. In questa

circolarità, la ricerca della qualità della vita, la creatività

esperita nella marginalità emerge come una peculiarità

dissimile da qualsiasi altra forma di precarietà imposta

dal mercato. D‟altra parte, essa offre un paradigma

essenziale all‟analisi del presente precario che di questa

circolarità sembra esperire solo la seconda parte, ossia

mercato vs. vita. In realtà, è nella riappropriazione del

transito (così come dell‟idea di flessibilità elaborata dai

femminismi italiani negli anni settanta) come elemento

di vita che, a mio avviso, può esprimersi oggi la

soggettività dell‟individuo precario. È attraverso la

riappropriazione dell‟idea di molteplicità e movimento

come caratteristiche conchiuse nella vita precaria che si

può operare una sottrazione individuale e collettiva

dall‟esistente coazione alla precarietà.

2. Il «transito continuo» come elemento

descrittivo e di ricomposizione politica

dell’identità precaria

È connaturata alla condizione precaria una pratica del

corpo che lo pone in continuo movimento, e che lo

disloca su più livelli spazio-temporali simultanei o

diacronici. È il caso dei diversi lavori e luoghi di lavoro

i quali sono spesso dislocati in più città, regioni o stati,

resi obbligatori dal reddito scarso e non sufficiente che

ciascuna attività lavorativa produce. È il caso della

moltiplicazione delle relazioni affettive, risultato in

parte della dislocazione spaziale, ma anche

dell‟imprevisto biografico legato strutturalmente allo

spostamento. Questi fattori producono un regime

temporale diacronico che si discosta in modo

sostanziale dalla linearità delle biografie moderne (in

Genere e precarietà 96

riferimento alla creazione del nucleo famigliare e alla

genitorialità, all‟età lavorativa e post-lavorativa). Viene

meno la linearità del «produci (riproduci), consuma e

crepa», mentre è il transito continuo tra diverse forme

del lavoro, dell‟affettività e della riproduzione a dettare

legge e a suggerire narrazioni ricompositive difficili da

suggellare o profondamente conservatrici e frustranti.

In questo transitare senza approdo il corpo sembra

essere privato di quella pesantezza che nella modernità

lo aveva caratterizzato, irrigidito nelle forme del

disciplinamento «statico» impresso dalle istituzioni

sociali, produttive e politiche: sembra essere «senza

peso», riprendendo il concetto che Marcasciano ha

elaborato altrove («Feminist Review» 2008, 87), nel suo

spostamento continuo e velocissimo tra strutture

potenzialmente identificative che possono essere i

differenti contesti lavorativi, le svariate sfere affettive,

le famiglie e le innumerevoli attività produttive e

riproduttive in cui è coinvolto. La potenzialità

identificativa di queste strutture non ha la capacità di

diminuire né lo spiazzamento continuo del transito né la

leggerezza impressa dalla velocità dello spostamento: le

strutture sono troppe, collocate in differenti contesti e

dai significati tendenzialmente contraddittori, se lette

attraverso la lente delle identità binarie moderne.

La perdita di peso è anche una necessità introiettata, che

è normativa ma anche il risultato dello sforzo del

singolo per raggiungere in ognuna delle attività

dislocate lo standard di produttività e/o soddisfazione

più alto. Pur con a disposizione tempi ridotti e pur

dovendo con difficoltà conciliare tutti i diversi segmenti

che scandiscono la vita quotidiana, efficienza ed

efficacia sembrano dominare l‟atteggiamento precario:

la parcellizzazione del reddito, la moltiplicazione delle

Genere e precarietà 97

sfere della socialità e dell‟affettività richiedono

massimo risultato con minimo sforzo, per quanto la

razionalità che tende a tale risultato debba seguire non

una ma la molteplicità di regole dettate da ciascun piano

in cui la vita precaria si disloca. Non vi è più solo una

«razionalità strumentale» ma ve ne sono molte e spesso

discordanti. E tale molteplicità normativa impone

l‟assenza di coerenza identitaria, di una fonte unica e

certa di identità. Nessuno di questi ambiti, infatti, riesce

a dispensare l‟identità della persona precaria nella sua

interezza. È piuttosto vero il contrario: l‟identità

precaria non può prescindere da nessuno di questi

molteplici piani. È una sorta di puzzle di piastrine dai

contorni incerti. Allo stesso modo, il corpo, la cui

solidità e compattezza rispecchiava la moderna coerenza

identitaria, non è più in sé «elemento identificativo»

compiuto: le coordinate di spazio dislocato e tempo

velocizzato tagliano trasversalmente i body markers (i

generi, le sessualità, le appartenenze culturali e i colori)

complicandone i posizionamenti. Il corpo, piuttosto,

diviene «strumento performativo» in grado di

ricombinare il patrimonio identitario individuale al fine

della sua spendibilità sul mercato.

In questo senso esso perde peso. La perdita di peso è

anche il risultato della strategia di sottrazione che

l‟individuo precario opera dall‟«angoscia» derivante

dallo stesso spiazzamento e velocità. Si tratta di quella

sensazione che deriva al soggetto precario da quella

stessa impossibilità di ricomporsi in quanto identità a

partire dalle «tradizionali gerarchie di valori» (religiosi

o professionali, di genere o di classe, culturali o razziali)

o a partire da un sistema simbolico nuovo – che possa

essere altrettanto chiaro e definito che possa ricomporre

tutti i piani della vita. È quel sentimento descritto da

Genere e precarietà 98

Paolo Virno in riferimento alla moltitudine come in

opposizione all‟idea di un «soggetto plurale la cui

rappresentazione o autorappresentazione tende

all‟Uno». Una condizione esistenziale che non è solo

relativa al «fuori» sociale, all‟oggettività della vita

dislocata e veloce, ma attanaglia anche il «dentro», ossia

la percezione soggettiva di sé. È il risultato della

ricaduta soggettiva di quelle pratiche sempre più diffuse

che sono diretta derivazione del venir meno dei

contenitori famiglia-fabbrica-scuola-chiesa-partito e

dall‟assottigliarsi delle possibilità di reddito continuato

e sufficiente. Mi riferisco alle pratiche di convivenza

plurima, alle relazioni sentimentali contemporanee e

dislocate o alle temporalità affettive diversificate, alla

condivisione dell‟household così come di progetti di

vita con compagni e compagne «di viaggio» (Virno

2002b, 143-4). Queste pratiche possono includere anche

la peregrinazione tra esperienze affettive omodirette ed

eterodirette (ossia che privilegiano rapporti affettivi con

persone dello stesso o del sesso opposto) che vengono

«vissute» e «legittimate» partendo da un bagaglio di

«saperi esperienziali» o tecnologie e linguaggi non

eteronormati (Giuliani 2006a).

Queste pratiche penetrano il «privato» – inteso sia come

corpo sia come spazio di intimità attorno al corpo –

sfaldando definitivamente l‟idea della necessaria

corrispondenza tra affettività e forme di condivisione

«formalizzata» (o matrimoniale) tipiche della

modernità, tra femminile e riproduzione, tra maschile ed

autonomia, tra amore tra due persone e famiglia. Esse

creano instabilità e angoscia. È contro tale condizione

psicologica che i soggetti precari, invece di risignificare

la dislocazione precaria in termini di ricchezza e di

rivendicazione, tendono ad attuare una sorta di «corsa in

Genere e precarietà 99

avanti»: se la condizione oggettiva che risulta dalla

scomposizione postmoderna del soggetto tende ad

atomizzare, individualizzare e individuare

esclusivamente nel privato le strategie di rassicurazione

contro l‟instabilità e l‟insicurezza precarie, invece di

controagire tale condizione gli individui precari tendono

a farla propria incentivandone la deriva egoistica,

opportunistica e cinica, l‟accettazione dell‟incapacità a

rivendicarsi in quanto soggettività nuova e collettiva.

La leggerezza del corpo, la sua tensione alla

«massimizzazione del piacere» nel mero senso del

piacere materiale velocemente consumato, come se non

ci fosse un «domani», il rintanarsi nel privato – privo di

voce – delle proprie relazioni, dell‟individualismo che

rende impossibile una rappresentazione collettiva della

sua condizione, sono le caratteristiche che sembrano

connotare la vita quotidiana del soggetto precario

(Virno 2002a, 19). La riacquisizione del «peso» in

questo contesto è collegata a circostanze identificate

come disabilitanti: la malattia fisica o mentale, la

maternità (perché come la malattia limita gli individui

nello spostamento e sottrae tempo all‟attività produttiva

precaria) ma anche, e per gli stessi motivi, la creazione

di relazioni d‟amore stabili e vincolanti, che «limitando

l‟universo delle infinite possibilità» depotenziano la

macchina-corpo performativa e la ricollocano in una

temporalità più lenta.

Il corpo, quindi, non come «obiettivo», nel senso della

sua integrità fisica, psichica, relazionale, ma come

«strumento» presunto eternamente esente da

logoramento e inabilità. Il corpo non come «io», ma

sempre più come «cosa» dalla quale si irradiano

sensazioni, capacità, desideri e attraverso cui si creano

quelle relazioni che permettono il pieno sviluppo di

Genere e precarietà 100

queste ultime in vista della loro massima valorizzazione

simbolica ed economica.

Simile al «corpo desiderante» descritto da Teresa de

Lauretis (1999) quello di cui stiamo parlando è il corpo

di un soggetto «eccentrico», che per la sua complessità

ed eccedenza è esposto a mille contraddizioni e pericoli

di «de-corporeazione», e che, nel nostro caso specifico,

non riesce a raggiungere quella consapevolezza che è

necessaria alla sua soggettivazione.

Il soggetto precario fa fatica a narrarsi in modo coerente

e, per questo, si abbandona al riconoscimento parziale e

autonomo delle diverse rappresentazioni del sé

copresenti nella sua identità. In tal senso, l‟immagine

della scomposizione del corpo in parti, descritta da

Braidotti (Braidotti 2002, 150), o meccanismi facenti

parte di un organismo sempre scomponibile e

parcellizzabile, da parte sia del biopotere medico sia di

quello politico sia di quello economico, ben corrisponde

a tale rappresentazione: la totalità del corpo, la sua

organicità tendono a perdere soggettività e «peso»,

«tagliate dalle linee trasversali delle molteplici identità

disegnate sul corpo» e vengono sublimate nel corpo-

automobile, una «macchina pulita e leggera» (Haraway

1995, 45) scomponibile e sostituibile nelle sue parti non

funzionanti e diretto, con accelerazione costante, verso

il raggiungimento della «meta». Una meta che, per la

sua indeterminatezza, sembra non coincidere nemmeno

più con l‟auto-realizzazione del sé come persona, ma

piuttosto estinguersi nel tentativo stesso di tenere tutto

insieme.

Ciò che può risultare positivo è il fatto che il tragitto

quotidiano che il corpo è obbligato a percorrere è

segnato dall‟allontanamento e risignificazione da parte

degli individui dei modelli e delle categorie moderne

Genere e precarietà 101

ormai «zombificate» (Beck 1994), e dalla loro

intersezione con universi simbolici e narrazioni che

nella modernità erano considerate «marginali»,

«refrattarie», non «sussumibili» come quelle gay,

lesbiche, trans.

I meccanismi sociali dell‟identificazione sono ancora

diretti da categorie e istituzioni che ne plasmano i

confini secondo prospettive propriamente «moderne»

improntate alla codifica della differenziazione sessuale

in senso essenzialista e mirante alla subordinazione

femminile5, eteronormative, razziste e classiste. Eppure

le numerose infiltrazioni da parte di un immaginario

sempre più positivamente contraddittorio e molteplice e

la vicinanza a modelli di vita e narrazioni non

eterosessuali e critiche del fallogocentricentrismo

(Braidotti), permettono l‟emergere di soggetti

«eccentrici», che non solo «si disaffiliano alle loro

stesse appartenenze» ma che trovano anche spazi di

innovazione simbolica (de Lauretis 1999, 8, 27-28;

Staderlini 1998, 92; Ovidie 2003; Busi 2006; Giuliani

2006b). Donne e uomini che riconducono saperi,

pratiche e corpo alla propria «soggettività» in divenire e

dotata di irriducibile originalità.

In questo potrebbe essere stabilito un parallelismo con

l‟esodo descritto da Marcasciano per descrivere la

soggettività trans: le categorie binarie e statiche della

femminilità e della mascolinità, dell‟eterosessualità e

dell‟omosessualità vengono a «liquefarsi» per approdare

a «situazioni» di genere e sessualità dai contorni più

5 In tal senso il mio discorso si ricollega alle letture «di genere» proposte tra

gli anni settanta e novanta da Héléne Cixous, Julia Kristeva, Luce Irigaray e Colette Guillaumin, ma anche bell hooks, Audre Lorde e Gloria Anzaldua,

piuttosto che alle interpretazioni dei processi di costruzione del genere e dei

suoi immaginari proposte da Catharine MacKinnon o E. Dworkin.

Genere e precarietà 102

indefiniti e originali la cui ricomposizione individuale

racchiude in sé forme di agency.

Se questo soggetto postmoderno e precario, che

Braidotti chiama «nomade», concentra in sé universi

linguistici differenziati, esso trae gli elementi per una

nuova narrazione da universi simbolici che

appartengono ad immaginari di genere e sessualità non

eteronormate già esistenti ma che si ricombinano in

senso non identitario e nella forma del «transito

continuo».

In questo contesto, infatti, le pratiche sessuali e di

genere si posizionano oltre la linea che nella modernità

definiva lo stigma dell‟«innaturalità», della

«perversione», dell‟«immoralità» o della «promiscuità».

Come il «turista» descritto da Zygmunt Bauman (1999)

attraversa spazi e frontiere camminando senza meta e

«sulla superficie» delle contraddizioni che derivano da

tale attraversamento, i soggetti precari – cittadini e

cittadine, per lo più bianchi e dotati di un buon capitale

sociale e culturale – attraversano le frontiere delle

definizioni classiche derivate dalla codificazione del

maschile e del femminile e dalle pratiche affettive e

sessuali eterodirette o omodirette.

Definisco «originali» tali pratiche dell‟attraversamento

perché, pur traendo elementi esperienziali e narrativi dal

mondo omosessuale, lesbico e transgender (Lo Iacono

2005; Marcasciano 2002; Marcasciano e Di Folco

2002), lo sdoganamento di immaginari e pratiche di cui

si parlava sopra coinvolge e stravolge molte vite di

quello che era il soggetto moderno, eterosessuale e

bianco (Borghi 2006).

La peculiarità della condizione del transito continuo

risiede nel fatto che essa non si fa irretire dalla necessità

«strumentale» della definizione codificata attraverso cui

Genere e precarietà 103

i movimenti LGBT italiani ambiscono ad ottenere,

invece, quel riconoscimento da parte delle istituzioni e

della società civile necessario a divenire attori politici e

giuridici in grado di intervenire nei processi decisionali

e legislativi. La leggerezza e la fluidità di una

«situazione identitaria», che potrebbe essere identificata

con l‟aggettivo queer (per quanto esso non si annoveri

nel patrimonio delle definizioni da cui il soggetto

attinge per sé), rompe con le categorie statiche (de

Lauretis 1999, 107; hooks 1998, 40, 87; Gilroy 2000)

per agire una molteplicità di narrazioni e pratiche intese

come irriducibili, contraddittorie e mai definitivamente

codificabili (si veda Preciado 2002; 2005, 147-157).6

In tal senso, nella pratica della moltiplicazione e transito

continuo tra forme di mascolinità e femminilità e di

sessualità eterodirette e omodirette, colgo un dato

sociale strutturale della precarietà, intesa questa come

«dissoluzione» dei modelli di genere forti legati al

contesto sociale e lavorativo, famigliare e istituzionale

della modernità. Si tratta di un dato che ha poco a che

vedere con il più individualizzato desiderio di

sperimentazione e anticonformismo – che vuole

contraddire la condanna culturale e religiosa che ancora

vige nei confronti delle pratiche sessuali omodirette.

Esso potrebbe esser letto piuttosto come legittimazione

(spesso solo «privata» e individuale) delle forme

plurime di affettività in quanto possibili strategie di fuga

dall‟irrigidimento convenzionale e normativo delle

categorie sociali.

Questo non esclude che la messa in pratica di

mascolinità e femminilità non egemoni e desideri

6 Per uno sguardo alla queer theory da cui proviene il termine da me

utilizzato, si vedano Butler (1990), Jagose (1996), Halberstam (1998; 2005),

Ahmed (2006).

Genere e precarietà 104

sessuali non codificabili unilateralmente attraverso le

categorie di eterosessuale o omosessuale, possa far parte

dell‟identità precaria imposta dal mercato o che essa

possa ridursi ad una forma di valorizzazione delle

opzioni di consumo dei beni materiali e simbolici a

disposizione dei consumatori non-eterosessuali. Si pensi

in tal senso all‟industria della moda, di quella musicale

e del divertimento che sempre più offrono sul mercato

prodotti il cui target sono giovanissimi e che rincorrono

e riproducono idee di mascolinità differenti (o se

vogliamo «più femminili») o di femminilità differenti

(considerate «più maschili»). D‟altra parte essa può

anche coincidere con una forma di sottrazione

individuale/collettiva all‟omogeneizzazione culturale

interna al mondo gay e lesbico «dominante» e

«mercificato» che ne deriva ed essere vista come una

forma di scardinamento della norma (omosessuale) che

definisce e domina politicamente e giuridicamente sia le

culture sia le comunità non eterosessuali (Wittig 1994,

69-72; Tiqqun 2003). È il caso di quelle pratiche

culturali che recuperano alcuni elementi del punk, e che

disilludono i modelli dominanti di estetica o di socialità

gay e lesbica attraverso la valorizzazione di corpi ed

espressioni corporee differenti (ne sono un esempio i

Girlesque, ossia una versione femminile, queer e

femminista del Burlesque o i LadyFest che hanno luogo

in varie città d‟Italia una volta all‟anno da una decina

d‟anni). Tali pratiche diffuse, rompono il senso comune

creando lo spazio per una maggior «accettazione

sociale» dei comportamenti non eterosessuali e, di

conseguenza, per una sempre maggior accessibilità a

elementi culturali e discorsivi non eteronormati. Ciò può

rappresentare una forma di riattivazione di sé in quanto

«corpo desiderante» e nomade nei diversi contesti che

Genere e precarietà 105

vengono attraversati, permettendo la creazione di nuove

forme di «capitale affettivo» (post)identitario

fortemente inclusivo e poroso.

Ma perché ciò avvenga è necessario «tornare al corpo».

Se, infatti, la contaminazione tra esperienze, pratiche e

universi simbolici differenti legati all‟«eccentricità»

rispetto all‟eteronormatività è positiva – in sé – essa si

deve necessariamente tradurre nella riappropriazione

individuale e collettiva della «situazione corporea» che

ci colloca in un dato contesto: è solo con il

riconoscimento dell‟«hic et nunc» del corpo

desiderante, come esperienza collettiva, segnata dalla

memoria delle sofferenze e delle passate lotte per il

riconoscimento LGBT e dalla consapevolezza delle

potenzialità legate ad un‟auto-rappresentazione non

essenzialista che, in definitiva, la critica «queer» può ri-

significare la fluidificazione e la perdita di peso che

hanno portato il soggetto precario a sciogliersi dal nodo

delle categorie moderne. Il «corpo» va rimesso al centro

del discorso politico in quanto luogo della storia

individuale e collettiva, in cui è inscritta l‟esperienza

molteplice e consapevole di ciascuna vita precaria.

Se è vero che per un certo verso i processi di

identificazione «parziale» o «temporanea» di donne e

uomini precari possono essere rappresentati dalla «fuga

dall‟identità» degli individui contemporanei e

postmoderni, la cui vita è un «insieme di frammenti», di

esperienze tendenzialmente isolate e non cumulabili

(vedi Sennett 2000, 135), a mio avviso il ritorno al

corpo desiderante come luogo situato dell‟agire –

nell‟epoca post AIDS – permette una «narrazione

personale» di lunga durata, un‟introspezione

Genere e precarietà 106

consapevole che è l‟unico viatico possibile verso una

coscienza collettiva.46

La escluderebbe se tali processi venissero analizzati

attraverso le weberiane fabbriche moderne dell‟identità

(famiglia, scuola, fabbrica, chiesa, partito), ma se visti

nella loro attualità, essi vanno a comporre «situazioni»

identitarie instabili attraverso cui il soggetto-corpo, con

le sue protesi tecnologiche e le sue trasformazioni

linguistiche, può ritrovare la propria organicità ed

esercitare dunque la propria agency (Braidotti 2002, 31;

Braidotti 2002a, 32-33; Haraway 1995, 9-38).

3. Conclusione

In questa fase storica, l‟elemento forte del transito

perenne che caratterizza la vita precaria non esclude il

persistere di categorie identitarie rigide, né la protegge

dallo spaesamento che essa esperisce di fronte alle

domande di «finalizzazione esistenziale» (come una

collocazione professionale permanente o il matrimonio)

che hanno fissato temporalmente, durante la modernità,

le tappe obbligate dell‟esistenza di ciascuno

nell‟Occidente del benessere. È questo spaesamento che

produce da un lato l‟anelito alla normalizzazione (con

un parallelismo alla situazione descritta da Marcasciano

a proposito della ricerca di accettazione sociale da parte

delle persone trans), dall‟altro una forte spinta alla

consapevolezza dello stacco irreparabile che separa la

nostra contemporaneità dalla fase storica che la precede

(la modernità pre-precaria). Che si sia «normalizzato» o

meno, il soggetto precario lotta quotidianamente ed

instancabilmente (con «ironia», «infedeltà» e fatica,

7 In questo senso sono in disaccordo con quanto afferma Braidotti (2002,

146).

Genere e precarietà 107

come i cyborg di Haraway) alla ricerca di una propria

coerenza o, come direbbe de Lauretis, «di un‟auto-

collocazione» (de Lauretis 1999, 45).

Coerenza e auto-collocazione sono obiettivi

raggiungibili a mezzo di una risignificazione dello

spazio pubblico in cui le vite precarie si danno,

risignificazione che può aver luogo solo attraverso un

più alto grado di consapevolezza, e dunque una

rivendicazione pubblica e plurivocale, delle pratiche di

transito e dislocazione che caratterizzano le vite

precarie.

Questa consapevolezza ha necessariamente una ricaduta

sociale più ampia, derivante dall‟essere il paradigma

precario la «struttura» stessa dell‟organizzazione

sociale, culturale ed economica delle nostre società:

trovando, infatti, nell‟asserzione del transito come

elemento costitutivo della condizione precaria la propria

via alla soggettivazione, le vite precarie aprono uno

spazio per ripensare la cittadinanza in termini aperti,

accoglienti ed espansivi. Questa forma di coscienza in

Italia è ancora estremamente residuale, ma non mancano

forme di dibattito pubblico ed elaborazioni teoriche

originali e significative che possono essere considerate

vicine a tale approccio (vedi Bonini-Baraldi 2005;

precaria.org).

Nel rivendicare l‟attraversamento dei confini, il transito

continuo tra diversi elementi identitari, il discorso

precario pone al centro dell‟agire politico la comunanza

di esperienze, ma anche il comune che è la ricchezza

stessa delle vite precarie: si tratta di quell‟enorme

patrimonio di relazioni, conoscenze, forme di affettività,

di progettualità e di condivisione dei rischi legati alle

difficoltà dell‟esistenza precaria che viene messo «in

Genere e precarietà 108

comune» continuamente nelle forme più varie e

sincroniche.

Ma il riconoscimento del «comune» precario resta

possibile solo se il soggetto scomposto, delocalizzato,

reso liquido e versatile (Bauman 2002), affogato

nell‟incertezza che deriva dalle categorie che

disegnavano le identità moderne, si affaccia allo spazio

pubblico «con la complessità del proprio corpo “hic et

nunc”». È quando esso non vi rinuncia per sottostare ad

un‟auto-rappresentazione in senso rigido (moderno) o

alla sua stessa incessante accelerazione postmoderna,

che hanno luogo esperienze come la mobilitazione del

2005 sulle Procreazione Medicalmente Assistita; le

manifestazioni del gennaio e febbraio 2006 in difesa

della legge 194 sull‟interruzione volontaria di

gravidanza; la mobilitazione, nell‟inizio del 2007, in

sostegno della proposta di riconoscimento delle unioni

civili etero- e omosessuali (PACS) e in difesa di una

concezione laica della politica e dello Stato; la

manifestazione auto-organizzata contro la violenza di

genere che, nel novembre del 2007, ha visto scendere in

piazza a Roma centinaia di migliaia di donne; le

mobilitazioni milanesi del 1 maggio (Mayday Parade)

del 2008 e 2009 in cui migranti, gruppi precari e

soggettività femministe e queer hanno organizzato la

propria battaglia valorizzando la molteplicità semantica

della parola «precario»; la mobilitazione culminata nella

manifestazione del 13 febbraio 2011 in risposta agli

scandali sessuali del governo Berlusconi. Quest‟ultima

occasione è stata colta per ribadire l‟esistenza, nella

società italiana, di concezioni e pratiche del genere e

della sessualità difformi da quella sessista,

eteronormativa e degradante praticata, non solo dal

premier, ma dalla più ampia classe dirigente e riprodotta

Genere e precarietà 109

dal sistema mediatico ad essa sottoposta (Zapperi,

Guaraldo 2010, 71-78).

Le mobilitazioni che ho menzionato segnano una

stagione di lotte che potrebbe essere interpretata come

una lenta ma massiccia, estemporanea ma significativa

appropriazione dello spazio pubblico da parte di un

groviglio di istanze che corrispondono alla complessità

della soggettività precaria. Esse hanno connesso molte

facce del mondo precario in Italia, creando reti tra

persone che vivevano e vivono contesti culturali,

sociali, economici e giuridici apparentemente molto

distanti.

Esse hanno creato quella che, con le parole di Butler,

potremmo definire una «coalizione antifondazionista

post-identitaria», che non presuppone l‟identità di

genere e di orientamento come fattore prepolitico

fondativo né come obiettivo dell‟azione politica (Butler

2004, 20-21). Lo stesso vale per le mobilitazioni in

favore della legge per il riconoscimento delle coppie di

fatto (PACS). In quest‟ultimo caso, a spingere le

persone non-omosessuali alla partecipazione attiva non

è stata una sorta di filantropia pro-gay ma la

consapevolezza e l‟affermazione di pratiche sessuali e

affettive già esistenti e praticate dalla maggior parte

delle persone che si sono mobilitate. Ad essere

contrapposta all‟istanza conservatrice, soprattutto

espressa dalle gerarchie e dal mondo politico cattolico,

per la preservazione dell‟istituzione famiglia

eterosessuale e l‟intervento del legislativo in tal senso, è

stata l‟idea che chiunque si è trovato, si trova e può

trovarsi ad esperire percorsi di vita e di affettività non

tradizionali (eteronormate, matrimoniali). Ne sono una

prova il dibattito sui media italiani e la pubblicistica

sviluppatasi su questi temi e il proliferare di posizioni di

Genere e precarietà 110

apertura, se non di dichiarato sostegno alla causa nei

social network (Facebook) e nei blog personali non

direttamente affiliati alle associazioni LGBT.

Le persone che si sono mobilitate per il PACS e per le

PMA, ma anche in difesa della Legge 194 in materia di

interruzione volontaria di gravidanza8 hanno fatto

proprie quelle battaglie, riconoscendole come momento

di traduzione politica del «transito perpetuo» che

caratterizza la vita precaria.

L‟apparente pensiero «debole» precario si è espresso in

queste occasioni in modo forte, creativo e versatile, ma

anche estremamente vertenziale: perché si costituisca in

modo sostanziale e perché sappia costruirsi come

momento di ripensamento dei confini della cittadinanza

– connettendosi con chi questi confini li scardina

continuamente, come ad esempio i migranti, mediante le

provocazioni che essi innescano contro i confini

nazionali e rigidi della cittadinanza moderna – deve

superare le difficoltà legate ad un‟auto-narrazione che lo

confina all‟interno degli spazi separati del genere, della

classe e della cittadinanza (come hanno notato Ribeiro

Corossacz e Gribaldo 2010). Il riconoscimento del

transito perenne come elemento comune, rilocalizzato in

spazi semantici più ampi è la strada per stabilire un

piano di condivisione efficace e solido.

8 Questo ciclo di mobilitazioni lascia trasparire la molteplicità di istanze,

punti di vista e forme di aggregazione politica esistenti oggi sulle tematiche

legate al corpo e al biopotere. L‟irriducibilità di essi alla mera mobilitazione «difensiva» nei confronti della Legge 194 emerse nell‟occasione della

manifestazione nazionale milanese del 14 gennaio 2005 quando decine di

migliaia di persone si riversarono sulle strade del capoluogo partendo da riflessioni che avevano a che fare con l‟autodeterminazione della donna,

coniugata alla precarietà della vita e degli affetti, come dimostra il proliferare

attorno a quella data di gruppi, collettivi e progetti su tale tema.

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[immagine pagina successiva: WonderBra creato da Sexyshock per l‟Euro

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Genere e precarietà 115

[immagine di Sexyshock per l‟album di figurine della precarity May Day,

Milano 2005]

Genere e precarietà 116

Genere e precarietà 117

lavoro

Un’istantanea della precarietà: voci

prospettive dialoghi. Focus group su Donne, Lavoro e Precarietà1

a cura del Gruppo Sconvegno2

Introduzione

Nel discorso pubblico sul tema della

precarietà/flessibilità sembra difficile andare oltre la

contrapposizione che vede da una parte il totem del

lavoro fisso «da qui alla pensione» e dall‟altra la

precarietà nelle due varianti: come lo spettro della totale

assenza di tutele e diritti, o come la favola della

possibilità di scegliersi in autonomia i tempi, i modi e i

contenuti del proprio lavoro. Di fronte a grandi e

complesse trasformazioni, continuiamo di fatto a

leggere la realtà attraverso categorie rigide e

contrappositive, che faticano a rappresentare il

mutamento. La portata esplicativa di prospettive

1 Il focus group si è tenuto il 29 gennaio 2006 presso i locali della Libera

Università delle Donne di Milano. Hanno partecipato: Cristina Morini, giornalista e ricercatrice sociale, Andrea Fumagalli, docente di Economia

Politica dell‟Università di Pavia e attivista della rete Mayday, Cristina Tajani,

PhD in Studi del lavoro dell'Università di Milano e sindacalista della CGIL, Tiziana Vettor, docente di Diritto del Lavoro dell‟Università di Milano-

Bicocca e sostenitrice della Libreria della donne di Milano, Zoe, advertising

copywriter e attivista di Chainworkers, Marta Bonetti, ricercatrice autonoma e attivista della rete Prec@s. Il focus group è stato ideato, coordinato e

analizzato dal Gruppo Sconvegno. Il presente articolo è già stato pubblicato

in lingua inglese sul numero monografico sui femminismi italiani della rivista «Feminist Review», Special issue on Italian Feminisms, 87, 2007. 2 Il Gruppo Sconvegno è composto da Manuela Galetto, Chiara Lasala, Sveva

Magaraggia, Chiara Martucci, Elisabetta Onori e Francesca Pozzi.

Genere e precarietà 118

rigidamente dualistiche – fordismo/postfordismo, lavoro

tipico/atipico, autonomo/subordinato – si rivela spesso

insufficiente, tanto a livello epistemologico quanto a

livello politico.

Specifica di questa fase di passaggio è da un lato la

crescente indistinguibilità dei confini tra tempi di vita e

tempi di lavoro, e quindi l‟estensione della precarietà a

condizione esistenziale, dall‟altro il fenomeno della così

detta «femminilizzazione del lavoro».

Il focus group di Milano ha visto la partecipazione di

diversi soggetti che in questi ultimi anni hanno

ragionato, discusso e costruito azioni o iniziative sul

tema della precarietà di lavoro/vita. L‟articolo

restituisce i principali nodi emersi durante questa

occasione di confronto, mettendo in luce le differenti

elaborazioni e strategie di possibile trasformazione.

1. La femminilizzazione del lavoro: un concetto

ambivalente

Cosa intendiamo esattamente quando parliamo di

femminilizzazione del lavoro? Come emerge nel

dibattito che segue, le ambivalenze di questo processo

sono molteplici. Tiziana Vettor le riassume così:

dagli anni novanta con l‟espressione

«femminilizzazione del lavoro» si è inteso

significare almeno due realtà: da un lato, un

aumento delle donne nel mercato del lavoro in

ogni settore e in tutte le forme contrattuali (non

solo in quelle precarie)3; dall‟altro il lavoro di

3 C‟è una vocazione femminile al lavoro e non semplicemente alla precarietà.

Dati statistici ci dicono che a parità di titolo di studio, le donne sono più

Genere e precarietà 119

oggi, o cosiddetto post-fordista, in cui i

comportamenti femminili sono assunti a

modello della produzione, ovvero nel quale –

secondo Deleuze – si rintraccia il simbolico e il

corporeo femminile. Le aspettative, i desideri e

la presenza delle donne sono state infatti una

delle principali ragioni della trasformazione dei

modi di produzione nel passaggio dal fordismo

al postfordismo. Ed è proprio su quest‟ultimo

significato dell‟espressione di cui si discute che

credo si debba insistere, e cioè sul portato della

soggettività femminile nel processo di

trasformazione nel lavoro, piuttosto che sulla

maggiore percentuale di (delle) donne tra i

lavoratori precari.

La centralità dell‟aspetto qualitativo del lavoro delle

donne però va contestualizzata in un mercato del lavoro

penalizzate in termini di occupazione. Nel rapporto annuale presentato a Marzo del 2005, l‟Isfol ha rilevato che a lavorare di più sono le laureate

(75,3%, 5 punti percentuali in meno rispetto agli uomini con lo stesso titolo

di studio) e le settentrionali. L‟Italia infatti presenta ampie differenze territoriali: al Nord il tasso di occupazione femminile supera il 50% (con

picchi del 60% in Emilia Romagna), mentre nel Mezzogiorno solo 27 donne

su 100 lavorano. Per quante hanno conseguito il diploma, il tasso di occupazione si colloca sul 54,7%, con una differenza di 19 punti rispetto agli

uomini. Ai gradini più bassi di istruzione il gap si accentua, arrivando a superare i 34 punti percentuali. Le occupate con licenza media, infatti,

rappresentano solo il 34,3% e quelle con il titolo elementare appena il

18,7%. La differenza si rispecchia anche nel divario salariale che per le donne è mediamente del 15% in meno, con picchi del 35% in meno per le

qualifiche più alte (Eurostat, Labour Force Survey). La discriminazione

salariale, secondo un recente rapporto di Federmanager (Federazione Nazionale Dirigenti Aziende Industriali), è una della cause principali del

basso numero di donne dirigenti in Italia, dove il loro numero continua a

diminuire rispetto a quello dei colleghi maschi. Il «tetto di cristallo», metafora a cui si è ricorso in letteratura per indicare una sorta di blocco

all‟acceso eguale per uomini e donne ai livelli più alti delle carriere, sembra

dunque permanere.

Genere e precarietà 120

che non sembra essere ancora pronto a valorizzare

queste potenzialità, mentre ha imparato in fretta a

sfruttarle, come sottolinea Marta Bonetti:

non possiamo ignorare i dati quantitativi: le

forme più precarie del lavoro sono ancora e

soprattutto femminili. La femminilizzazione del

lavoro è un concetto ambiguo e pieno di

contraddizioni: comporta l‟introduzione e

l‟estensione del modello di disponibilità, che

caratterizza il lavoro di riproduzione, al

mercato del lavoro, la disponibilità ad entrare e

uscirne e la capacità – tipicamente femminile –

di gestire tempi complessi. Di qui il rischio che

la generatività del tempo delle donne diventi

funzionale, più che ai loro desideri, alle

esigenze delle imprese.

L‟ambivalenza interna al processo di femminilizzazione

del lavoro si traduce nella difficoltà di passare dal piano

teorico al piano politico, come sottolinea Cristina

Tajani:

nella femminilizzazione del lavoro, il concetto

di ambivalenza è euristicamente potentissimo,

ma politicamente muto in quanto tende a non

fornire l‟indicazione di pratica e di azione

politica. Come scegliere il crinale

dell‟ambivalenza su cui vogliamo stare e a

partire dal quale ci organizziamo per fare la

battaglia politica? Quando il lavoratore, non la

controparte, è libero di scegliere?

Genere e precarietà 121

Sebbene in Italia la risposta prevalente nel discorso

pubblico sulla precarietà invochi implicitamente un

ritorno a forme di lavoro tradizionali/fordiste,

sottolineando gli aspetti di miseria materiale e negativi

legati alla condizione precaria, c‟è chi guardando il

concetto di ambivalenza ne sottolinea gli aspetti invece

potenziali. Come dimostra, in risposta a quanto appena

detto, Cristina Morini:

per quanto il concetto di precarietà attenga a

campi semantici negativi (instabilità, labilità,

fragilità) esso è al contempo legato anche

all‟idea della rimessa in discussione, del

divenire, del futuro, della possibilità, concetti

che insieme contribuiscono alla costruzione

dell‟idea di un soggetto nomade e rizomatico.

La precarietà è una categoria trasversale a tutte

le professioni, gli status, i mestieri e le

condizioni. Il soggetto precario non ha punti

fermi e forse non ne vuole. È costretto a cercare

sempre nuovi percorsi di senso, a costruire

nuove narrazioni, a non dare mai niente per

scontato. Rispetto al concetto di classe statico e

fermo, a cui ci aveva abituato il passato

fordista, oggi siamo davanti a un soggetto

assolutamente resistente ad ogni forma di

assimilazione, difficile da rappresentare.

2. Le pratiche femministe al lavoro: un utile

approccio metodologico?

Uno degli aspetti legati al tema della precarietà discussi

nel focus group, è quello relativo alle potenzialità che

possono esprimere le donne nel mercato del lavoro

Genere e precarietà 122

contemporaneo: esiste un modo altro di vivere la

precarietà? Ci sono elaborazioni, pratiche attive e

creative, individuali e collettive, che portano con sé

potenziali elementi di trasformazione? Secondo Tiziana

Vettor,

le riflessioni e le pratiche femministe possono

rappresentare un importante elemento di rottura

rispetto alle teorie del lavoro. Ad esempio la

pratica consegnataci con il nome «partire da sé»

ha già orientato lo sviluppo di alcune

significative recenti ricerche sul lavoro. Esse,

infatti, suggeriscono una metodologia della

ricerca che si investe del primato

dell‟autonarrazione e, quindi, del primato delle

soggettività per l‟interpretazione della realtà. La

pratica dell‟autonarrazione – del dirsi insieme

ad altr* di cos‟è fatto il nostro rapporto col

lavoro, di quali bisogni e di quali desideri noi lo

investiamo, sia sul luogo di lavoro sia in altri

luoghi – si è dunque già rivelata feconda e

dirompente nell‟analisi delle trasformazioni del

lavoro. Questa pratica, del resto, io credo sia

ancora più dirompente di quella della

rivendicazione, e cioè rispetto a quella modalità

di azione che, invece, si fonda sulla mera

domanda di diritti; ciò poiché è solo dalla

pratica dell‟interrogazione dei vissuti di chi

lavora che possono emergere – proprio in virtù

della presa di coscienza della singola e, per

contagio collettiva – invenzioni di forme

giuridiche (legali e negoziali) e/o richieste di

una mediazione istituzionale efficace,

contestuale e pertinente.

Marta Bonetti avverte però che questo processo non è

esente da difficoltà e pericoli:

Genere e precarietà 123

ogni qual volta c‟è bisogno di ri-significare la

propria esperienza attingiamo al «partire da sé»,

pratica che, assumendo l‟ambiguità e

l‟ambivalenza come valore euristico, si rinnova

nel tempo contro e oltre visioni dicotomiche o

semplificatorie. L‟esperienza del lavoro delle

donne è carica e ricca di ambivalenza e

ambiguità. Come emerge da varie ricerche, e

come confermano i racconti di molte donne, il

lavoro può essere, per esempio, fonte di

identificazione. Da una parte la sua pratica

viene descritta come piacere, come «esperienza

di nascita» (Cigarini 1997), bellissima,

d‟amore. Dall‟altra, il rischio è di esserne

inglobate, in termini totali e totalizzanti, a causa

di un sovrainvestimento affettivo in cui le

donne rimangono incastrate (Nannicini 2002).4

Ma è proprio in questo rischio che Tiziana Vettor vede

piuttosto un investimento di civiltà da parte delle donne

nel lavoro, rappresentato dal loro porre al centro

dell‟esperienza lavorativa il primato della relazionalità:

in questo primato si rintraccia, infatti,

l‟elemento più dirompente della

femminilizzazione del lavoro, poiché tale

investimento relazionale, è quello che più

contrasta o «rompe» con la tradizione

identitaria degli uomini nel lavoro. E, infatti le

donne non accettano il lavoro per il mercato

(dove la misura di esso è il denaro), come

elemento fondamentale dell‟identità. Esse,

4 Adriana Nannicini (2002), evidenzia come spesso si attinga dal vocabolario

del discorso amoroso per descrivere un‟esperienza che non è quella del

rapporto sentimentale.

Genere e precarietà 124

semmai, stanno nel lavoro come un‟eccedenza,

ovvero riconoscendo al centro dell‟ambito

lavorativo le connessioni umane.

Il processo per cui questa eccedenza diventi realmente

conflittuale e potenzialmente trasformativa non è per

niente semplice e lineare. Come evidenzia Cristina

Morini,

nei nuovi processi produttivi le differenze

implicite nei soggetti nomadici, sfaccettati e

irriducibili vengono «messe a valore» e

divengono fattore produttivo. È vero che, da un

lato, i processi puntano alla standardizzazione

delle conoscenze, al rendere il sapere come

qualcosa di oggettivabile, immediatamente

trasmissibile e riducibile quasi a materia,

dall‟altro però ci sono connotati esperienziali ed

emozionali unici, che fanno le differenze tra gli

individui e che sono un portato imprescindibile

delle singolarità. Non a caso si può parlare di

soggettività al lavoro. In qualche misura tutti

questi atti dell‟economia informazionale

conservano il marchio della persona che lo

esercita, ed è in questo che si ha l‟aspetto di

eccedenza. Quando la differenza diviene

funzionale all‟accumulazione capitalistica perde

tendenzialmente il proprio valore antagonistico

primigenio e viene trasformata in un oggetto

interno ai processi di valorizzazione

capitalistica. D‟altra parte il tentativo dell‟intera

reificazione dell‟individuo mostra fin dalle

premesse una falla perché esclude la completa

standardizzazione della persona. I saperi, le

esperienze, le emozioni di una persona non

sono qualcosa di completamente trasmissibile al

di fuori del circuito dell‟esperienza stessa. In

Genere e precarietà 125

questo preciso punto può prendere corpo

l‟eccedenza e si possono aprire nuove forme di

sottrazione e di liberazione.

3. Soggettività al lavoro, identità precarie e

nuove forme di rappresentanza

Chi ha emesso i suoi primi vagiti all‟inizio degli anni

settanta, fa parte di una generazione che definiamo

«scollinante»: figlie dei baby-boomers – destinate, in

teoria, ad un welfare dalla culla alla pensione – nella

pratica, siamo entrate sin da subito in un mercato del

lavoro atipico e ci siamo ritrovate a fare i conti con

un‟esistenza quasi interamente precaria. Approfittando

di questo particolare punto di osservazione è possibile,

secondo noi, aprire spazi di trasformazione

dell‟esistente. Come sottolinea anche Cristina Tajani,

se è vero che il lavoro è precario senza

distinzione, è anche vero che c‟è una

generazione – quella dei/delle 30 something –

che entra con un DNA diverso, che vede il

lavoro e il sindacato solo con gli occhi della

precarietà. E questo è un dato di rottura.

Partendo da queste analisi ci siamo chieste se e di che

tipo di rappresentanza abbia senso parlare oggi, quale

ruolo possano avere i sindacati a partire da quella che

attualmente è la loro pratica concreta, come difendere e

riattualizzare i vecchi diritti, e come immaginare e

costruire quelli «nuovi».

È oramai palese che la tradizione della contrattazione

collettiva che attribuiva un primato al sindacato stia

Genere e precarietà 126

lasciando il posto a nuove forme di accordi5 e, insieme,

a nuove pratiche di lotta. Sempre secondo Cristina

Tajani,

chi ha pensato e organizzato per la prima volta

la Mayday6 ha colpito nel segno puntando su

quel dato di identificazione che sta nel mondo

dei giovani e dei precari, su una soggettività

generazionale e trasversale. La Mayday ha

saputo guardare, con successo, oltre le forme

organizzative proprie della politica e del

movimento. Il problema è quando si recede da

quel terreno: tu hai lanciato una pietra molto

avanti, hai sfondato l‟immaginario, sei riuscito

a interloquire con i soggetti con cui volevi farlo,

i problemi poi nascono quando vuoi far

ritornare le forme organizzative. Io vorrei

provare a capovolgere la questione della

rappresentanza usando piuttosto il termine

partecipazione. Come si può oggi creare

partecipazione intorno alle questioni del lavoro,

dell‟organizzazione o dell‟autorganizzazione o

della rappresentanza dei precari? Laddove si

riesce a far coincidere partecipazione e

rappresentanza, cade la problematicità di

quest‟ultima. Dove funziona la partecipazione è

più facile ragionare sul tema della

rappresentanza.

Ma sul rapporto partecipazione/rappresentanza le

posizioni teoriche e pratiche differiscono. Secondo Zoe,

5 Sempre più spesso la contrattazione e gli accordi sono individuali e non più

collettivi. Conoscere il proprio contratto e confrontare le esperienze con

altri/e lavoratori/trici per capirne differenze ed analogie è già un primo passo. Ciò permette di acquisire maggiore forza, consapevolezza e legittimità nella

contrattazione individuale, che ci vede tutte, volenti o nolenti, protagoniste. 6 www.euromayday.org.

Genere e precarietà 127

la rappresentanza fatta di ruoli, regole, vincoli

prestabiliti, rimane vuota proprio perché non

esiste la capacità di «far partecipare». Come

Chainworkers (CW)7 gestiamo un Punto San

Precario a Milano – in relazione con tanti altri

sparsi sul territorio italiano – e lavoriamo

proprio sulla partecipazione, cercando di

inventare e pensare insieme nuove forme e

strategie, nuove leve comunicative fuori e

dentro gli ambiti lavorativi. Per esempio: in due

cause che stiamo portando avanti, nonostante ci

fossero gli estremi per una vertenza, i

lavoratori/trici si sono rivolte/i a noi dato che

gli avvocati dei sindacati sembravano non aver

voglia di essere aggressivi e di mettere in atto

una vera e propria battaglia. Nell‟affrontare

queste stesse cause con gli avvocati del Punto

San Precario, consideriamo importante anche il

ruolo della comunicazione e dell‟immaginario.

Il punto non è semplicemente la battaglia in sé

(anche se magari ci farà vincere la causa per

dodici mesi di salario o per il reintegro), ma è

quello di riuscire ad unirsi e fare una battaglia

comune, perché solo così si può arrivare ad

ottenere qualcosa. Il lavoro di

«accompagnamento» che svolgiamo mira a

creare e amplificare la comunicazione fra le

persone: chiediamo loro di raccontare la propria

storia agli altri lavoratori/trici e all‟esterno,

anche attraverso l‟utilizzo dei media. Perché è

solo facendo tremare le aziende e dando

visibilità alle cause giuridiche, alle vertenze e

alle esperienze di lotta esistenti che si possono

sconfiggere la debolezza, la paura e la

frammentazione diffuse. L‟obiettivo è

7 www.chainworkers.org.

Genere e precarietà 128

trasformare la mentalità affinché, cambiando

luogo di lavoro, non si ripresenti la stessa

situazione. Trasformazione che passa appunto

anche attraverso la comunicazione: Il

linguaggio dei sindacati ci sembrava obsoleto

rispetto al linguaggio della «generazione

MTV», poiché spesso per loro combattere la

precarietà si traduce/riduce in un ritorno al

«posto fisso». Mentre la generazione dei

trentenni ha voglia di essere flessibile, ma

questo non significa che non vogliamo

sicurezze. Cosa significa «oggi precarietà,

domani lavoro»8 quando i precari/e lavorano

anche quando non lavorano perché cercano

lavoro? Sarebbe ora che i sindacati rinnovassero

le loro pratiche, e più che di «posto fisso»,

parlassero di continuità di reddito. È proprio la

mancanza di combattività e di comunicazione

dei sindacati a frenare la relazione con i/le

precari/e sin dall‟inizio: se non ci sono

soggettività che investono in un‟azione, che si

preoccupano della propria situazione, che non

hanno paura di rivendicare un reddito, non c‟è

possibilità di fare passi avanti.

Da queste narrazioni si percepisce come molti/e

precari/e siano già in relazione, sperimentando strategie

collettive per proteggersi e creare conflitto.9 Tuttavia si

oscilla tra la ricattabilità cui si è sottoposti/e se si agisce

da soli/e e la difficoltà di costruire alleanze per riuscire

8 La citazione è stato uno slogan di propaganda elettorale dei Democratici di Sinistra per le elezioni politiche dell‟aprile 2006. 9 Un‟esperienza importante in questo senso è stata quella di Serpica Naro

costruita da precari e precarie (www.serpicanaro.org). Serpica Naro è l‟anagramma di San Precario ed è il nome dato ad una stilista inventata dagli

attivisti. Ha partecipato con una sua collezione a conferenze stampa e sfilate

della prestigiosa settimana della moda milanese.

Genere e precarietà 129

ad ottenere un peso effettivo nei confronti della

controparte. Come ben argomenta Andrea Fumagalli,

l‟enorme frammentazione che esiste sui luoghi

di lavoro significa ricatto e paura. Oltre

all‟individualizzazione, però, c‟è l‟individualità,

che io intendo positivamente, come la ricchezza

personale che ognuno/a vorrebbe evidenziare e

mettere in ogni forma di cooperazione sociale e

collettiva. Credo che non basti più partire dal

singolo posto di lavoro per risolvere le

contraddizioni delle attività lavorative:

rimarrebbe questa un‟ottica rivendicativa

sindacale di stampo fordista. Si potrebbe parlare

di immaginari di conflittualità e immaginari

sindacali, qui sta il nesso tra partecipazione e

rappresentanza. Perché la partecipazione

avviene laddove esistono pratiche, forme di

organizzazione e di azione, che si sentono

congruenti con i propri bisogni e le proprie

aspirazioni; bisognerebbe sforzarsi di ripensare

la struttura sindacale e organizzare la

rappresentanza in maniera tale che veicoli la

partecipazione. Non si può dire a tavolino:

«creiamo la partecipazione». Il movimento l‟ha

saputa creare, ma la partecipazione senza

prospettive e sbocchi tende ad esaurirsi.

Bisogna forse fare in modo che si sviluppino

forme di «contropotere» sia nel senso dei

bisogni che dell‟immaginario, perché le due

forme di controllo sociale passano da lì.

4. Reddito di esistenza fra denaro, servizi e

territorio

Genere e precarietà 130

Per certi versi è proprio l‟estensione della precarietà

nella vita a 360 gradi ad obbligarci a inventare nuovi

terreni di sperimentazione: nella condivisione degli

spazi abitativi, nella ridefinizione delle relazioni

d‟amore, nelle forme di consumo e nella creazione di

inedite relazioni di fiducia e cooperazione. Questo

frammentario arcipelago di pratiche esiste e apre spazi a

nuove forme di libertà e autodeterminazione; ma rischia

di rimanere limitato alla sfera individuale, o di piccolo

gruppo, di non essere visto né percepito nella sua

valenza politica. D‟altra parte e contemporaneamente,

nonostante lavoriamo anche dodici ore al giorno, nella

nostra quotidiana lotta tra la scadenza delle bollette

(implacabilmente rigida) e la retribuzione

(variabilmente flessibile), quando bisogna dare garanzie

per il mutuo della casa, o per non finire in rosso sul

bancoposta, non ci resta che andare a chiedere aiuto a

mamma&papà (e naturalmente solo per chi se lo può

permettere). In quale modo di dare continuità alla

discontinuità? Solo il reddito fisso?

Cristina Tajani articola così la sua posizione:

come CGIL, insieme a soggettività territoriali

molto eterogenee, ho partecipato alla

sperimentazione di una proposta regionale sul

reddito di cittadinanza che tenta di coniugare

l‟aspetto monetario con l‟accesso ai servizi.10

Esserci riusciti è un portato dei movimenti di

questi anni, di un nuovo immaginario che si va

creando, del fatto che forse si sono rotti alcuni

tabù. Esiste oggi uno spazio politico più fluido

in cui soggetti diversi ragionano di lavoro e

10 Per approfondimenti sulle sperimentazioni sul reddito in Italia si veda il

sito www.sinistriprogetti.it e, per il caso lombardo,

www.redditolombardia.org.

Genere e precarietà 131

precarietà. Per uscire dalla contrapposizione di

«ciascuno nella sua casa a difendere la propria

posizione», è fondamentale la messa in comune

dei linguaggi: la capacità di giocare sul terreno

dell‟ apertura, della fluidificazione e delle

pratiche politiche.

In risposta a ciò, Zoe sottolinea l‟importanza di come

viene posta politicamente la questione del reddito nel

dibattito pubblico, questione che si presta a facili

fraintendimenti:

è importante stare molto attenti a porre

chiaramente il discorso sul reddito di

cittadinanza perché c‟è il rischio che si traduca

in una specie di «mancetta» che però comporta

una riduzione dei servizi. Vorrei che la

creatività e il simbolico che metto nel cambiare

l‟immaginario non fossero monetarizzati. Il

discorso di flexicurity11

punta a garantire, data

la flessibilità di vita e di lavoro, la continuità

nell‟accesso ai servizi, alle strutture, ai

trasporti; ovvero a rendere possibili le

connessioni che ci sono nella vita, nella città e

nel territorio.

Andrea Fumagalli conclude considerando come

11 Con flexicurity si definiscono politiche di welfare e del lavoro (oramai due

facce della stessa medaglia, che la politica tradizionale si ostina a tenere separate) finalizzate a coniugare sicurezza sociale e flessibilità (agita) per il

lavoro. Essa si basa su due principi base: la garanzia di continuità di reddito

(diretto, sotto forma monetaria) e indiretto (sotto forma dei servizi primari) e la semplificazione del mercato del lavoro (salario minimo orario per i non

contrattualizzati e riduzione delle tipologie contrattuali). Si tratta di misure

che poco o nulla hanno a che fare con il concetto accademico di flexsecurity, termine che nel linguaggio giornalistico fa riferimento a politiche

concertative, spesso finalizzate a politiche di workfare. Per approfondimenti

si veda Fumagalli (2005, 75-84).

Genere e precarietà 132

il territorio, in effetti, sia oggi il luogo di

produzione, come lo era la fabbrica trent‟anni

fa: è diventato, come rete di territori, il luogo

dei flussi di capitale materiale e immateriale, ed

è lì che è necessario creare una ricomposizione

radicata, capace di lanciare una «vertenza

sindacale» che divenga lotta per la garanzia di

reddito e per la qualità della vita (ambiente,

servizi, vivibilità, socialità, abitazione, accesso

alla comunicazione, ecc.). Credo che sia

imprescindibile muoversi verso la

rivendicazione di un nuovo welfare, con una

struttura – locale, nazionale o sovranazionale –

che permetta una continuità di reddito oltre la

soglia di povertà relativa. Un welfare che non

deve essere confuso con un sistema meramente

monetario, ma che sia garanzia di servizi,

perché è da questi che dipende la libertà di

gestire i propri tempi, di scegliere quale attività

professionale svolgere, cosa produrre. Il diritto

a scegliere il lavoro è oggi molto più dirimente

del diritto al lavoro. E qui c‟è lo snodo.

L‟opzione lavorista è pensare che il diritto al

lavoro sia il chiavistello per accedere ad altri

diritti e alle libertà effettive. Oggi penso che il

diritto di scelta di lavoro sia la chiave di volta

per avere diritti.

Bibliografia

Cigarini, L., 1997, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato

del lavoro, Milano, Nuove Pratiche Editrice.

Fumagalli, A., 2005, La proposta della flexicurity in Corbelli,

V. e Naletto, G. (a cura di), Atlante di un’altra economia,

Roma, Manifestolibri, pp. 75-84.

Genere e precarietà 133

Gruppo Sconvegno, 2007, A Snapshot of Precariousness:

Voices, Perspectives, Dialogues, «Feminist Review», n. 87,

special issue on Italian Feminisms, pp. 104-112.

Nannicini, A., 2002, Le parole per farlo. Donne al lavoro nel

Post fordismo, Roma, Derive e Approdi.

Genere e precarietà 134

Genere e precarietà 135

lavoro

Posizionare identità in/stabili. Storie di egemonie e resistenze di genere nel

lavoro atipico

di Annalisa Murgia

Introduzione

Gli studi sulle trasformazioni del lavoro contemporaneo

hanno da tempo messo in luce lo sviluppo di nuove

forme di lavoro e di organizzazione sociale nei paesi a

capitalismo avanzato. Un aspetto particolarmente

rilevante dei cambiamenti in corso fa riferimento ai

connotati di genere che li contraddistinguono, per

quanto riguarda sia le realtà del lavoro, sia le sue

rappresentazioni.

Con la presunta «femminilizzazione del mercato del

lavoro» (Adkins 1995) in letteratura si intende, da un

lato, l‟elevato incremento della partecipazione delle

donne al lavoro retribuito (una delle tendenze

maggiormente evidenti degli ultimi trent‟anni) e la

diffusione della loro presenza nei settori

tradizionalmente considerati maschili; dall‟altro,

l‟acquisita importanza nella nuova economia di capacità

di tipo comunicativo e relazionale, ritenendo che tali

competenze siano «naturalmente» possedute dalle

donne. Il concetto di femminilizzazione, peraltro, è stato

spesso utilizzato non tanto per descrivere l‟entrata delle

donne nel lavoro retribuito, ma il fenomeno

dell‟ingresso degli uomini nei lavori precari (Beck

1999). Sarebbe in questo senso la precarietà maschile a

Genere e precarietà 136

illuminare di riflesso quella femminile (Nannicini

2008).

Sebbene le dinamiche che innescano discriminazioni di

genere siano da tempo riconosciute nell‟analisi dei

percorsi professionali di uomini e donne (Kanter 1977,

Reskin 1984), la diffusione dei lavori instabili ne ha

accentuato alcune caratteristiche, talvolta in maniera

persino paradossale. Per tale ragione in questo

contributo ho deciso di concentrarmi sui modi in cui le

identità di genere di lavoratrici e lavoratori con contratti

a termine sono costruite attraverso pratiche sociali e

discorsive.

1. Posizionamenti di genere in/stabili nel lavoro

flessibile

La proliferazione di forme contrattuali e modalità

lavorative «atipiche» ha messo ulteriormente in

evidenza la persistenza di vecchi stereotipi di genere sia

per quanto riguarda la distribuzione degli impegni di

cura e domestici, sia per le possibilità di accesso e di

sviluppo della carriera professionale (Saraceno 2005).

Se negli ultimi anni abbiamo assistito alla progressiva

diffusione di studi che hanno esplorato i modi in cui le

trasformazioni del lavoro hanno influito sulle biografie

e sui processi di costruzione identitaria degli individui

(Sennett 1998; Beck 1999), sono relativamente poche le

ricerche che si sono concentrate sulla costruzione delle

identità di genere nelle forme di lavoro atipico

(Wajcman e Martin 2002). Per tale ragione in questo

contributo mi propongo di rivolgere l‟attenzione in

particolare ai processi di costruzione identitaria e ai

posizionamenti di genere nelle storie di uomini e donne

Genere e precarietà 137

che esperiscono quotidianamente una condizione di

instabilità lavorativa.

Il concetto di identità che intendo utilizzare fa

riferimento non ad una dimensione statica e individuale,

un «qualcosa che si è», ma piuttosto ad una dimensione

processuale e molteplice (Gergen 1991), un «qualcosa

che si fa» con gli altri (Poggio 2004) e che viene

performato in situazioni e luoghi specifici (Butler

1990). Ogni qualvolta un individuo parla della propria

vita, attraverso un‟interazione discorsiva, mette in atto

una pratica di costruzione biografica, che contribuisce

alla costruzione, alla modifica e al mantenimento del

proprio sé. Chi narra dà un ordine e attribuisce un senso

al proprio agire, costruendo in modo creativo e

dinamico non soltanto il contenuto del proprio racconto,

ma anche la propria o, meglio, le proprie identità

(Czarniawska 1997). Il raccontare la propria storia,

soprattutto nel momento in cui essa viene sollecitata

dall‟esterno, diventa quindi un importante contributo al

processo di costruzione identitaria (Poggio 2004).

Allo stesso modo l‟identità di genere non può essere

concettualizzata come un‟entità essenziale o un prodotto

unitario e definitivo del processo di socializzazione, ma

come costruita attraverso pratiche sociali e discorsive

che caratterizzano le relazioni tra gli attori sociali

(Gherardi 1995). Così come la nozione di identità

individuale, anche l‟identità di genere deve infatti essere

problematizzata (Butler 1990, Davies e Harré 1990) e

considerata in continua ricostruzione e ridefinizione.

Seguendo questa prospettiva, le storie e gli schemi

narrativi di uomini e donne non possono essere associati

in maniera automatica all‟appartenenza sessuale, ma

rappresentano piuttosto il medium dell‟interazione,

attraverso cui il genere viene costruito (Gherardi e

Genere e precarietà 138

Poggio 2003). In tal senso le narrazioni biografiche

possono essere lette come una ricca fonte di

negoziazione dell‟identità di genere (e non solo) in

quanto costruite attraverso e in relazione ai discorsi

normativi dominanti su uomini, donne, occupazione,

lavoro, affetti e altre dimensioni della vita (Violi 1992).

La storia di vita narrata da un individuo consente,

infatti, di connettere il racconto dell‟esperienza

individuale all‟analisi di specifiche pratiche culturali o

del mutamento di queste. La domanda che mi sono

posta, nello specifico, è stata: al progressivo

allontanamento dal modello di lavoro standard – che

vede protagonista un lavoratore dipendente, a tempo

pieno e indeterminato – è legato anche un cambiamento

dei modelli di genere dominanti nel mondo del lavoro?

Nel tentativo di rispondere a tale quesito illustrerò i

risultati di una ricerca qualitativa che ha raccolto le

storie di donne e uomini che svolgono un lavoro

temporaneo, con l‟obiettivo di mettere in luce non solo

come attraverso le narrazioni vengano costruiti i modelli

di genere dominanti sottesi all'instabilità lavorativa, ma

soprattutto come questi modelli vengano messi in

discussione e come le persone tentino di costruirne di

alternativi.

2. Contesto della ricerca e metodologia

Nell‟intento di comprendere i diversi processi di

costruzione identitaria di genere di chi lavora in modo

instabile presenterò alcuni risultati di una ricerca svolta

nella provincia di Trento nell‟ambito della pubblica

amministrazione e della distribuzione commerciale. Un

primo motivo che mi ha portato ad osservare questi due

mo(n)di lavorativi è legato da un lato all‟impiego

Genere e precarietà 139

piuttosto diffuso, in questi settori, di molte forme di

lavoro temporaneo (tecnici a contratto, collaboratori,

docenti a contratto, ecc. nel caso della pubblica

amministrazione; apprendistato, lavoro stagionale,

lavoro somministrato, ecc. nel caso della distribuzione

commerciale); dall'altro al tipo di rapporto di lavoro.

Tra le varie forme contrattuali che non offrono garanzie

di continuità nel tempo ho scelto di concentrare la mia

attenzione sulle collaborazioni coordinate e continuative

(nel pubblico impiego) e sul lavoro somministrato (nel

settore commerciale) – oggetto di varie ricerche sulle

trasformazioni in atto nel mercato del lavoro italiano

(Fullin 2004) – in quanto considerate come

rappresentative delle nuove forme di lavoro flessibile.

Il secondo motivo che mi ha spinto alla scelta di questi

ambiti professionali riguarda l‟elevata

sovrarappresentazione delle donne al loro interno,

caratteristica che mette in luce con chiarezza una delle

discriminazioni più evidenti del mercato del lavoro

italiano, ossia l‟elevata presenza femminile nei posti

maggiormente instabili e meno garantiti (Istat 2010).

Nonostante vi siano delle differenze sostanziali tra

collaboratori/trici e interinali, sia da un punto di vista

giuridico (contratto autonomo vs. contratto dipendente),

sia dal punto di vista del tipo di attività svolta (i/le

primi/e sono solitamente caratterizzati/e da alti profili

professionali e elevati titoli di studio, a differenza dei/lle

secondi/e), entrambi vivono l‟esperienza dell‟instabilità

professionale. L‟analisi della vulnerabilità lavorativa

che propongo si concentra infatti sui posizionamenti

identitari di chi lavora con un contratto atipico, piuttosto

che sul contenuto e la forma di impiego. Questa

posizione si basa sul rifiuto di un‟automatica

corrispondenza tra lavori atipici e lavori dequalificati o

Genere e precarietà 140

professionalmente insoddisfacenti, e su uno specifico

interesse per il crescente grado di precarietà esistenziale

legato alle nuove configurazioni lavorative, a

prescindere dall‟attività svolta e dalla forma

contrattuale.

I risultati della ricerca si basano sull‟analisi di cinquanta

interviste narrative realizzate con uomini e donne tra i

30 e i 50 anni che lavorano con contratti a termine nei

due settori oggetto della ricerca. Il luogo d‟incontro è

stato sempre stabilito dai soggetti intervistati, la cui

maggiore preoccupazione ha riguardato la discrezione e

l‟anonimato rispetto a colleghi e datori di lavoro. Le

interviste si sono svolte pertanto nelle loro case, in spazi

pubblici (al parco, piuttosto che in un angolo del bar),

all‟università e, molto raramente, sul luogo di lavoro (in

pausa pranzo o in tarda serata). Le conversazioni –

audio-registrate e trascritte integralmente – hanno avuto

una durata di circa un‟ora e mezza con alcune eccezioni,

il cui range è andato dai quaranta minuti alle due ore e

mezza. Ho scelto l‟utilizzo dell‟intervista narrativa

quale principale strumento di ricerca con l‟obiettivo di

comprendere i racconti di vita, i quali non solo

scandiscono il tempo e ricompongono il senso delle

biografie, ma rappresentano anche dei formidabili

strumenti per la costruzione identitaria (Poggio 2004).

Hannah Arendt suggerisce, infatti, che il pensiero basato

sull‟esperienza è necessariamente articolato in storie

(Young-Bruehl 1977). In questo senso la vita e la storia

di vita si configurano come inestricabilmente

interconnesse in un continuo fabbricare di sensi e

significati (Brockmeier e Harré 1997).

L‟approccio metodologico si è concentrato in

particolare sull‟analisi del posizionamento nella

narrazione (positioning analysis), attraverso cui è

Genere e precarietà 141

possibile analizzare la costruzione identitaria del

soggetto narrante (Davies e Harré 1990, Butler 1995). Si

tratta di una prospettiva innovativa di analisi che rivolge

l‟attenzione al tipo di posizionamento attraverso cui

l‟intervistato/a si situa nei confronti dei personaggi che

popolano la sua storia (Riessman 2001) e rispetto alle

narrazioni pubbliche (Somers e Gibson 1994) e ai

repertori culturali dominanti (Lamont 1992), costruendo

un‟identità che si allinea ad essi o cerca di collocarsi in

maniera alternativa, ma che non ne può in ogni caso

prescindere. Nello specifico rivolgerò la mia attenzione

all‟analisi dei posizionamenti di genere nelle pratiche

discorsive (Gherardi 1995), con l‟intento di dar conto

sia dell‟esperienza individuale, sia delle pratiche

narrative della cultura di riferimento. Concentrarsi sulle

storie personali consente inoltre di cogliere quella

soluzione di continuità rispetto al discorso dominante

«maschile» (Cigarini 2006) che per lungo tempo ha

caratterizzato la tradizione lavorista orientata verso il

modello del male breadwinner e verso la separazione

degli ambiti di vita e delle fasi che ne caratterizzano il

percorso.

3. Storie di egemonie e resistenze di genere nei

lavori atipici

Come ho sottolineato in precedenza, le relazioni di

genere – all‟interno della letteratura costruita intorno

all‟instabilità del lavoro – sono spesso state negate o

trattate in maniera del tutto marginale. Diversi studiosi/e

hanno rifiutato l‟assunto secondo cui il genere sia

irrilevante sul lavoro (Martin 2006), i lavori siano

gender free (Acker 1990) e le persone «lascino il genere

alla porta» quando entrano nei luoghi di lavoro (Gutek e

Genere e precarietà 142

Cohen 1987). Se da un lato sono stati studiati da diversi

punti di vista gli intrecci tra lavoro retribuito e non

retribuito (Adkins 1995, Crompton 1999), sono

relativamente poche le ricerche che si sono concentrate

sulle specifiche dinamiche e relazioni di genere che

connotano il processo di frammentazione delle carriere

professionali e delle organizzazioni entro cui si

articolano (Saraceno 2005, Bertolini 2006, Fudge e

Owens 2006, Nannicini 2006). Attraverso l‟analisi dei

posizionamenti di genere all‟interno delle narrazioni di

chi lavora in maniera instabile nella pubblica

amministrazione e nella distribuzione commerciale nella

provincia di Trento, ho individuato differenti tipi di

costruzione identitaria, sulla base delle storie che ho

potuto ascoltare nel corso delle interviste. La riflessione

proposta in questo contributo intende infatti mettere in

evidenza in qual modo vengano messe in atto pratiche

di egemonia e resistenza di genere, nell‟intento di

comprendere se lo scardinamento del tradizionale

modello lavorativo sia accompagnato da una medesima

erosione del modello di genere dominante su cui è

fondato.

La relazione tra i concetti di egemonia, resistenza e

genere è stata nel corso del tempo al centro di molte

riflessioni, che hanno cercato di mettere in luce

l‟esistenza, all‟interno di una molteplicità di tipi diversi,

di un idealtipo più legittimato di maschilità e di

femminilità che si impone sugli altri, definendo identità

e posizionamenti adeguati per uomini e donne

all‟interno di uno specifico ordine simbolico (Connell

1995). Gli individui possono quindi allinearsi e

conformarsi ad un «ordine naturale», che rende

essenziale una parzialità e cerca di ingabbiare nella

monocoltura del genere le soggettività e le pratiche che

Genere e precarietà 143

eccedono il sistema duale (Poidimani 2006); oppure

mettere in atto forme di resistenza, contribuendo alla

sua messa in discussione e al suo scardinamento.

3.1. Un capofamiglia... deve avere un reddito

sicuro

Il primo tipo di posizionamento che ho identificato tra le

interviste analizzate è associabile al modello di genere

dominante, il breadwinner model, che dà per scontato il

fatto che sia l‟uomo all‟interno di una famiglia a doversi

occupare dell‟aspetto economico, mentre il reddito della

donna, quando presente, viene considerato

sostanzialmente come un supporto. Questo tipo di

posizionamento viene messo in atto senza particolari

differenze sia da uomini che da donne, i/le quali

collaborano nel costruire un modello di genere di tipo

tradizionale.

Ad esempio una delle cose che mi ha sempre

angosciato è non riuscire a mantenere la mia

famiglia, che non ho, perché mi ha sempre

angosciato questa cosa. Per dire, più passa il

tempo più – mia madre è casalinga – e più

ammiro mio padre in maniera esagerata, perché

come cazzo ha fatto, quattro figli, ed ho

l‟angoscia di trovarmi in una situazione, che a

questo punto però non mi capiterà, avendo 38

anni io, non quattro figli, se ne ho uno è culo,

no? Obiettivamente bisogna guardare in faccia

alla realtà. Però mi ha sempre angosciato il

fatto di non riuscire a mantenere una famiglia

(U, 38, PA1).

È chiaro che questo tipo di contratto… cioè,

detta in parole povere, per fortuna io sono una

Genere e precarietà 144

donna sposata, ho un marito su cui contare,

quindi un reddito in famiglia c‟è. Chiaro che se

si parla di un capofamiglia la cosa è un pochino

più complicata. Ripeto, secondo me, questo

ruolo, questi contratti, per una donna sposata,

che comunque ha altri obiettivi nella vita, va

benissimo, altrimenti è un po‟ pericoloso (D,

39, DC).

Nel sostenere che un uomo deve mantenere la famiglia,

le persone intervistate costruiscono la propria identità,

così come quella del/la proprio/a compagno/a (presente

o ipotetica), in accordo con l‟attribuzione sociale di

genere dominante. Essa si allinea rispetto ad un modello

culturale che legittima la figura di un uomo che occupa

una posizione professionale stabile e ha un reddito

sicuro. Nelle narrazioni che riproducono questo tipo di

costruzione di genere, da un lato, gli uomini si sentono

in dovere di avere un lavoro che possa garantire il

benessere familiare, così come hanno fatto i loro padri –

presentati come degli esempi da emulare. Dall‟altro le

donne accettano la precarietà del lavoro perché c‟è «un

marito su cui contare». Si rileva, quindi, un ordine

simbolico di genere dominante che presuppone che le

donne siano femminili e gli uomini maschili (Martin

1990) ovvero che le une siano maggiormente coinvolte

nella sfera privata e nel lavoro di cura (non retribuito) e

gli altri nella sfera pubblica e nel lavoro retribuito.

3.2. Bisogna lavorare in due per forza di cose

Se nel primo tipo di posizionamento di genere i soggetti

narranti abbracciano e contribuiscono a riprodurre

l'ordine di genere dominante, in questo caso la

costruzione di genere che emerge dalle narrazioni di

Genere e precarietà 145

lavoratrici e lavoratori con contratti a termine sembra

sovvertire il modello tradizionale, che viene tuttavia

ricomposto attraverso diverse pratiche di riparazione

(Gherardi 1995). Si tratta in questo senso di una

costruzione dell‟identità e dei ruoli di genere

caratterizzata da una maggiore eterogeneità e da un

maggior intreccio tra pratiche di resistenza e pratiche di

egemonia.

Il fatto di spostarmi io rispetto alla mia ragazza

ovviamente è anche un po‟ una conseguenza

del lavoro, nel senso che siccome la mia

ragazza lavora in banca, a tempo indeterminato,

ho detto «Non è che faccio spostare lei, mi

sposto io». Avessi avuto io un lavoro a tempo

indeterminato sarebbe stato molto diversa la

cosa a quel punto. Sarebbe venuta su lei, ma

quello sicuramente ha inciso notevolmente, uno

deve fare i conti con la realtà (U, 30, PA).

In casa siamo costretti a lavorare in due, quindi

non c‟è più neanche quel tempo di prepararti e

di star là a metterti e cucinare, per quanto mi

piace cucinare non ho più il tempo per farlo,

una volta cucinavo sempre io a casa, adesso…

abbiam dovuto comprare il Bimby, perché

abbiamo avuto un bambino, per velocizzare la

cosa, insomma paga questo, paga quello…

bisogna lavorare in due per forza di cose (D,

45, DC).

In questi casi viene messo in discussione, perlomeno

parzialmente, l‟ordine di genere dominante che vede gli

uomini maggiormente coinvolti nella sfera pubblica e le

donne in quella privata. Tuttavia, nonostante siano

trame caratterizzate da una maggiore eterogeneità, viene

Genere e precarietà 146

comunque sottolineato il fatto che sia stata una scelta

obbligata. Nell‟affermare «uno deve fare i conti con la

realtà» o «bisogna lavorare in due per forza di cose» i

soggetti narranti spostano l‟agency completamente al di

fuori della propria responsabilità, assegnando uno status

di oggettività alle situazioni, come se dovessero

giustificare un ordine infranto. Le narrazioni, infatti,

non servono soltanto a descrivere gli eventi e le

transizioni vissute, ma anche a giustificarli e ricomporli

in modo armonico, e a produrre un senso di sé coerente

(Bruner 1990). Dall‟analisi dei modelli di

posizionamento emergenti dalle storie raggruppate in

questa categoria, non si trovano quindi delle nette prese

di distanza nei confronti del modello di genere

tradizionale. Si tratta piuttosto di pratiche di resistenza

contingenti, costruite sulla base di una situazione

temporanea e di «emergenza» che fa riferimento ai

cambiamenti imposti dalle trasformazioni del mercato

del lavoro, piuttosto che ad un cambiamento culturale

rispetto alle aspettative sociali legate ai tradizionali ruoli

di genere. I modelli di genere dominanti restano infatti

sullo sfondo dei racconti e continuano a rappresentare

un‟opzione che si vorrebbe praticare se la situazione

lavorativa lo consentisse.

Una peculiarità da sottolineare è inoltre il fatto che i

processi di costruzione dei rapporti di genere sia nel

caso in cui ripropongano un modello di genere

tradizionale (come illustrato nel primo tipo di

posizionamento di genere), sia nel caso in cui lo

mettano parzialmente in discussione (come in questo

caso), si configurano in maniera simile nei due settori

oggetto della ricerca, nonostante i differenti livelli di

istruzione e i diversi percorsi professionali (più elevati e

Genere e precarietà 147

coerenti tra le persone intervistate nel pubblico impiego,

più frammentati nella distribuzione commerciale).

3.3. L’unica cosa che ho in mano io è mostrare

agli uomini il contrario

Tra le narrazioni biografiche che ho ascoltato ci sono

però anche delle storie in cui chi narra sembra porsi in

esplicita opposizione ai modelli dominanti. Un primo

aspetto interessante riguarda l‟assenza di racconti di

uomini tra queste storie, mentre ci sono alcune donne

che si posizionano in maniera antagonista – o

quantomeno vorrebbero farlo – rispetto alle aspettative

sociali e culturali di genere, collocandosi in maniera più

o meno rivendicativa.

Ci hanno messo moltissimo a dirmi «sei in

gamba, sei brava e sai fare molto bene il tuo

lavoro». Ma ho imparato a difendermi, non con

mosse di karate, la mia difesa è nel far vedere

come lavoro e se vedo che ci sono dei

pregiudizi nei confronti del mondo femminile:

«Sei una donna, cosa vuoi sapere fare?» l‟unica

cosa che ho in mano io è mostrare agli uomini il

contrario (D, 31, PA).

Sul lavoro ammetto anche che sono anche

abbastanza dura, cioè dura, nel senso

abbastanza professionale, non è che… quindi ti

faccio anche scordare che sono donna (D, 28,

PA).

Mio marito fortunatamente ha lavorato sempre.

Poi ho i figli che danno una mano. Però se

lavorassi anch‟io fissa potrei fare altre cose,

Genere e precarietà 148

non stare sempre in affitto ad esempio (D, 45,

DC).

Gli estratti presentati mettono in luce una costruzione

identitaria di genere che si discosta dai modelli

egemoni, seppur attraverso posizionamenti molto

differenti. Nel primo racconto il posizionamento di

genere è performato attraverso la narrazione come una

sfida. Nonostante essere donna sia un ostacolo allo

sviluppo della sua carriera professionale, la narratrice

cerca di farvi fronte «mostrando agli uomini il

contrario». Si tratta tuttavia di una costruzione di genere

dicotomica, che situa le donne in opposizione agli

uomini, i quali hanno il potere di decidere e a cui

comunque le donne devono dimostrare la qualità del

loro lavoro. Nel secondo caso la strategia messa in atto

è invece quella di abbracciare pratiche tradizionalmente

intese come maschili. Vi è quindi una contestazione del

fatto che le donne siano meno competenti sul lavoro, ma

allo stesso tempo una riproduzione dello stereotipo che

vede gli uomini più «duri», dal momento che la

professionalità viene raggiunta «facendo scordare (ai

colleghi uomini) di essere donna».

Le pratiche di resistenza al modello di genere dominante

sono invece molto meno presenti tra le interviste di chi

lavora tramite agenzie di somministrazione di lavoro.

Nell‟ultimo estratto emerge un posizionamento che,

seppur in maniera meno rivendicativa, vorrebbe sfidare

l‟ordine di genere presente riuscendo a trovare un lavoro

stabile che garantisca una maggiore autonomia. Si tratta

in ogni caso di storie che resistono e talvolta cercano di

destabilizzare i modelli narrativi dominanti, rispetto ai

quali è difficile posizionarsi con voci ribelli e

dissonanti.

Genere e precarietà 149

3.4. Non sarebbe stato possibile se mia moglie

non avesse avuto un lavoro stabile

Tra i racconti delle persone che ho intervistato ci sono

degli aspetti relativi alla costruzione di genere che

riguardano in maniera specifica le persone intervistate

nel settore della pubblica amministrazione, che

svolgono nella quasi totalità dei casi un‟attività

intellettuale e/o di ricerca. Sono infatti diversi i casi in

cui il percorso instabile di un uomo viene consentito da

un lavoro stabile della compagna. Negli estratti di

intervista che seguono si osservano i racconti di uomini

che hanno potuto seguire le proprie passioni

professionali e/o costruire una famiglia grazie alla

sicurezza garantita dal contratto a tempo indeterminato

delle loro mogli.

Io mi son sposato nel settembre del „92, ho

avuto tre figli, e quindi come dire è stata anche

un‟esperienza familiare che è stata

contrassegnata in qualche modo da questa

precarietà, anche se mia moglie per carità

insegna, part-time per scelte familiari, quindi

c‟è sempre stata una sicurezza in casa. Questo

percorso lavorativo non sarebbe stato possibile

se mia moglie non avesse avuto un lavoro

stabile, fin dall‟inizio, perché evidentemente se

anche lei fosse stata nel precariato o non avesse

avuto un lavoro non era proponibile una cosa di

questo genere, io avrei dovuto trovare un

lavoro come un altro (U, 40, PA).

Io non ho mai preso in seria considerazione, se

non per un brevissimo periodo, l‟ipotesi di

cambiare lavoro, quindi questo è stato

Genere e precarietà 150

compreso, perché se volevo continuare a fare

questo lavoro, sono state fatte delle scelte,

purtroppo non molto facili. Mia moglie ha

trovato un lavoro a tempo indeterminato,

abbiamo trovato un nostro equilibrio in questo

senso (U, 38, PA).

In questo caso sono le donne ad avere un posto fisso e

gli uomini ad avere un posto precario, in un equilibrio

che, tuttavia, è comunque basato su un coinvolgimento

degli uomini nella sfera professionale e sul maggior

carico delle donne rispetto al lavoro domestico e di cura.

I percorsi di «cognitariato» – come viene definito il

precariato cognitivo (Moulier Butang 2002) – sono

infatti resi possibili per questi uomini dal

disinvestimento delle compagne sul lavoro per

privilegiare una forma contrattuale stabile. È

interessante d‟altra parte notare che non ho mai

riscontrato tale dinamica nelle storie delle donne che

hanno intrapreso percorsi post-laurea e svolgono lavori

di tipo intellettuale, le quali hanno quindi costruito il

proprio percorso professionale in maniera

completamente autonoma, non avendo goduto di alcuna

forma di supporto da parte del partner.

3.5. Il fatto che lo faccia una donna spesso non

viene capito

L‟ultimo tipo di narrazione relativa alle relazioni di

genere (anche in questo caso presente solo tra le

narrazioni di chi lavora in modo temporaneo nel

pubblico impiego) fa riferimento all‟essere single. Si

tratta di una condizione che riguarda soprattutto le

Genere e precarietà 151

donne intervistate, le quali raccontano la difficoltà di

posizionarsi all‟interno di una coppia svolgendo un

lavoro molto intenso e dai confini molto sfumati. Sono

storie in cui chi narra si posiziona in maniera nettamente

alternativa rispetto al modello tradizionale di genere,

scontrandosi tuttavia con delle difficoltà nella

costruzione di pratiche di genere differenti da quelle

egemoniche.

finché ero all‟università avevo un partner, una

volta laureata no, ho fatto difficoltà, non ho

avuto più relazioni serie. Vedo le mie colleghe

che come me, sono altre ragazze architetto o

ingegnere oppure laureate in economia, settori

abbastanza affini, io vedo che sono tutte single,

non ce n‟è una che abbia il fidanzato. Perché

l‟uomo italiano ha paura, almeno è l‟opinione

che ci siamo fatte noi, ha un po‟ paura di una

figura femminile forte ed indipendente, quindi

si relaziona poco con le donne laureate (D, 33,

PA).

Adesso come adesso sono tranquilla perché

sono single, ma in passato ho avuto dei

problemi. Il fatto che ogni tanto succeda che mi

fermo fino a tardi la sera per lavorare, il fatto

soprattutto che lo faccia una donna non è spesso

capito. Cioè nel senso che a volte alcuni

ragazzi, alcuni uomini, vedono come una cosa

strana che una donna abbia un lavoro da libera

professionista più o meno, nel senso come tipo

di impegno, di organizzazione (D, 28, PA).

La difficoltà di posizionarsi all‟interno di una coppia nel

caso in cui si investa in modo rilevante sul proprio

lavoro è richiamata da molte delle donne intervistate che

Genere e precarietà 152

lavorano nel pubblico impiego. Come già emerso da

altre ricerche in letteratura (Crespi 2005), per numerose

giovani donne la costruzione biografica non implica

soltanto l‟attenzione alla «conciliazione» dei tempi per

l‟attività professionale e dei tempi per la vita privata ed

affettiva. Risulta, infatti, prioritario salvaguardare un

«tempo proprio» per esprimere se stesse, le proprie

passioni, il proprio bisogno di auto-realizzazione

(Leccardi 2007). Il tempo per sé, nonostante sia

costruito intorno al lavoro, rappresenta comunque un

mutamento decisivo nella costruzione biografica che

non è più una «vita per gli altri», ma una «vita propria»

(Beck-Gernsheim 2002), al di fuori di ogni funzione

ancillare. Il lavoro acquista in questo caso un carattere

emancipatorio, soprattutto per le donne intervistate che

lo sovrappongono alle loro passioni, tra cui sono

ricorrenti le narrazioni in cui il tornare single viene

vissuto come un momento in cui è possibile dedicarsi

alla propria professione senza che questo crei

scombussolamenti nella propria vita privata. Si lamenta

tuttavia il fatto che talvolta siano gli stessi datori di

lavoro a non rispettare il tempo extra-lavorativo nel caso

in cui non si abbiano dei figli o non si abbia un

dichiarato rapporto di coppia.

Una volta dicendo che ero stanca e volevo

andare a casa, il mio capo mi ha detto: «Ma

cosa vai a fare a casa tu che tanto a casa non

c‟hai nessuno che ti aspetta?». Ecco, con questa

battuta lui ha inteso che io sono fuori sede

evidentemente perché non ho la famiglia qui,

non ho neppure un fidanzato al momento, ma

questi dovrebbero essere affari miei, non è che

vado a parlare col mio capo delle mie questioni

sentimentali. Diciamo che è un‟affermazione

Genere e precarietà 153

che ti fa sentire un po‟ sola al mondo, ti fa

vedere anche come vieni trattata (D, 28, PA).

In questo racconto, così come in quelli di altre

collaboratrici della pubblica amministrazione,

l‟organizzazione in cui si lavora viene posizionata

all‟interno dei racconti dei soggetti narranti come un

attore che in qualche modo tiene la vita privata dei suoi

membri in minor considerazione nel caso in cui non

abbiano dei figli e/o un partner.

Dalle diverse modalità di costruzione identitaria delle

persone intervistate emergono dei posizionamenti molto

differenti tra loro, i quali compongono in ogni caso delle

narrazioni che non sono neutre rispetto al genere. Ogni

storia esprime, infatti, delle identità di genere proprio

perché raccontare comporta anche il posizionare l‟io

narrante all‟interno delle categorizzazioni che le

pratiche discorsive e narrative della cultura di

riferimento rendono disponibili, tra cui anche la

dicotomia maschile/femminile (Poggio 2004). I processi

di costruzione identitaria attivati nelle narrazioni di

uomini e donne che lavorano con contratti a termine nei

due settori oggetto della ricerca, e le modalità di

performare specifici posizionamenti di genere, saranno

oggetto del prossimo, conclusivo, paragrafo.

Conclusione

I frammenti dei racconti presentati rappresentano

differenti modalità di costruzione identitaria e di

posizionamenti di genere da parte di soggetti che

esperiscono quotidianamente situazioni di instabilità

professionale. In particolare questo contributo vuole

mettere in luce il fatto che nel posizionarsi nei confronti

Genere e precarietà 154

della precarietà le persone costruiscono delle narrazioni

che non sono neutrali rispetto al genere. Ogni

narrazione viene performata, infatti, attraverso pratiche

discorsive rese disponibili dalla cultura di riferimento e

associate normativamente o stereotipicamente all‟uno o

l‟altro sesso: alcune pratiche sono viste come

appropriate solo per gli uomini, altre solo per le donne

(nonostante siano praticabili per entrambi) (Gherardi

1995; Martin 2006).

Le storie presentate collaborano in questo senso nel

costruire e mettere in atto un particolare tipo di

maschilità e femminilità. Nei primi due tipi di

posizionamento di genere i racconti di uomini e donne

cooperano nel costruire un modello di genere che

attribuisce caratteristiche e diversità sulla base del

carattere differentemente sessuato dei corpi, confinando

le donne ad una posizione subalterna rispetto al ruolo

dell‟uomo come principale percettore di reddito. Se nel

primo tipo sono state raggruppate le storie che

abbracciano totalmente l‟ordine di genere dominante,

anche nel secondo i modelli egemonici vengono messi

in discussione per questioni esclusivamente

economiche, che non sembrano essere legate ad un

cambiamento culturale rispetto alle relazioni di genere.

Per quanto la precarizzazione abbia ridotto le differenze

tra uomini e donne, seppure verso il basso (McDowell

1991; Beck 1999), ha d‟altra parte creato nuove forme

di patriarcato (Walby 1989), dal momento che le donne

che beneficiano dell‟ingresso nel mercato del lavoro

continuano a dover far fronte al lavoro non retribuito e a

quello per il mercato, per di più in una situazione di

progressiva crisi del welfare (McDowell 1991).

I due successivi tipi di posizionamenti di genere sono

invece caratterizzati da una (quantomeno apparente)

Genere e precarietà 155

destabilizzazione della cultura di genere dominante. Nel

primo caso emerge il tentativo da parte di alcune

intervistate di contestare gli stereotipi di genere,

nonostante venga messo in atto attraverso la

riproduzione di pratiche tradizionalmente riconosciute

come maschili. Nel secondo caso (che riguarda

esclusivamente la pubblica amministrazione) siamo

invece di fronte ad una dinamica di coppia in cui è lei ad

avere un posto fisso, mentre lui esperisce una

condizione di instabilità professionale. Si tratta tuttavia

di un cambiamento della posizione contrattuale, che non

intacca i modelli culturali di genere: gli uomini

continuano, infatti, ad investire maggiormente nella

carriera lavorativa e questo è consentito dal simmetrico

disinvestimento delle loro compagne nel proprio

progetto professionale (a prescindere dalla forma

contrattuale a tempo indeterminato) e da un più elevato

carico di lavoro non retribuito.

Soltanto nell‟ultimo tipo, in cui ho classificato alcune

storie di donne single che lavorano con un contratto di

collaborazione nel settore pubblico, trovano spazio delle

voci ribelli rispetto all‟ordine di genere dominante.

Tuttavia, se da un lato assistiamo ad un processo di

scardinamento delle dinamiche egemoni, d‟altra parte le

narratrici raccontano le difficoltà che comporta lo

svolgere un lavoro frammentario – sia nei tempi che nei

luoghi – soprattutto nella loro vita privata e di coppia,

nonché con lo stesso datore di lavoro.

Un aspetto, a mio avviso particolarmente rilevante,

riguarda le differenze tra i soggetti che lavorano nella

pubblica amministrazione e nella distribuzione

commerciale. Per chi lavora nei supermercati con un

contratto di lavoro somministrato i posizionamenti di

genere, per quanto compositi ed eterogenei, ricalcano i

Genere e precarietà 156

binari che legittimano l'attribuzione di ruoli e compiti

differenti sulla base del sesso biologico di appartenenza.

Il modello del male breadwinner, seppur rivisitato, resta

infatti la trama narrativa a cui poter attribuire senso e in

cui potersi riconoscere, mentre l'adesione a modelli di

genere alternativi viene vista come una situazione subita

e «atipica», così come «atipica» viene definita la propria

posizione lavorativa. Troviamo posizioni simili anche

tra collaboratori e collaboratrici della pubblica

amministrazione, in cui tuttavia sono più ricorrenti dei

posizionamenti di genere alternativi, che non vengono

collocati necessariamente in una condizione di

subordinazione rispetto al modello di genere dominante.

Soprattutto tra le donne che lavorano con un contratto di

co.co.co., infatti, la difficoltà di attribuzione di senso

non sta tanto nell‟impossibilità di mettere in atto dei

posizionamenti di genere che sfidano il modello

egemonico, quanto nella mancanza di legittimità sociale

che tali posizioni e costruzioni identitarie hanno.

I tipi di posizionamento di genere presentati in questo

contributo delineano un copione che prevede quasi

esclusivamente una netta divisione dei compiti tra

donne e uomini. Molte delle storie presentate

riconducono le trasformazioni dei modelli di genere a

situazioni contingenti e spesso legate a ragioni

strutturali ed economiche, piuttosto che alla sovversione

del piano culturale, all‟interno del quale sono radicati

gli stereotipi di genere e vengono costruite e negoziate

le dinamiche di potere tra uomini e donne. E per chi

davvero prende le distanze dagli script di genere

dominanti sembra emergere la forte difficoltà a proporre

soluzioni non conformi, senza necessariamente

disinvestire sul proprio lavoro e/o sulla propria vita

Genere e precarietà 157

affettiva, o senza riprodurre modelli comunque

asimmetrici.

In questo senso, tra chi lavora in maniera temporanea, i

diversi posizionamenti e rapporti di potere spesso

restano immutati se non addirittura rafforzati dalla

condizione di instabilità lavorativa, mentre raramente

prendono forma delle trame narrative in cui i soggetti

cercano di resistere al monologo della cultura

dominante. All‟interno del dibattito sul lavoro atipico,

penso quindi che potrebbe essere interessante cercare di

cogliere non solo in quale modo nelle e attraverso le

narrazioni le persone costruiscono un modello

dominante di precarietà, così come legittimano un

ordine simbolico di genere, ma soprattutto come questi

modelli vengano messi in discussione e come le persone

tentino di costruirne di alternativi.

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[vignetta di Pat Carra, 2007]

Genere e precarietà 163

Genere e precarietà 164

lavoro

Tempi sociali, condizione precaria e genere: alleanze inedite?

di Sveva Magaraggia

Introduzione

Le riflessioni presentate in questo testo sono iniziate

durante il mio lavoro di ricerca dottorale, e vogliono

mettere in luce le trasformazioni (di cui possiamo

sentire solamente i primi flebili vagiti) delle relazioni di

genere in un momento cruciale della biografia di molti

di noi: i primi mesi di vita di nostro/a figlio/a. Alcuni

giovani padri, infatti, sembrano iniziare a desiderare un

tempo multiplo e non regolamentato in primis dal lavoro

remunerato e sembrano essere maggiormente disposti e

desiderosi di essere coinvolti in una genitorialità attiva.

Il sorgere di questo desiderio, il conoscere una

temporalità meno prevedibile, meno rigida e più

precaria porta con sé una maggiore attenzione

relazionale verso il figlio/a e una conseguente voglia di

ridefinire il loro ruolo paterno. Gli adattamenti

strutturali che la condizione precaria implica sembrano

iniziare a fare intravedere un cambiamento culturale nel

modo di fare i padri.

Il tempo sociale maschile, infatti, una volta

irrigidimentato da orari di lavoro fissi, sembra iniziare a

guardare sempre più al tempo femminile, multiplo e

reticolare, come ad un possibile esempio di un tempo

capace di garantire una maggiore comunicazione tra le

diverse sfere di vita. Il lavoro di smascheramento della

finta universalità dei fenomeni sociali, promosso dalla

sociologia femminista, ha fatto sì che la differenza

Genere e precarietà 165

pensata dalle donne sia stata espressa, scritta e discussa

molto più che l‟esperienza maschile che «è rimasta non

detta, confusa con il sistema normativo patriarcale e con

la sua rappresentazione storica che ne nega (e ne

occulta) la parzialità» (Ciccone 2010, 10). Oggi, la

specificità delle esperienze femminili può essere una

utile chiave per comprendere meglio le trasformazioni

che ci investono tutti, uomini e donne, a partire da

quelle in corso nel mercato del lavoro. Quello prodotto

dalle studiose femministe è quindi un sapere da

utilizzare, una differenza da valorizzare per provare ad

immaginare un discorso (e quindi favorire i processi di

innovazione culturale) capace di democratizzare le

relazioni sociali, e di aumentare gli spazi simbolici in

cui possiamo costruire la nostra vita.

Il ruolo degli studi sul tempo delle donne va ben oltre il

suo portato scientifico, rappresentando, infatti, anche

una costruzione simbolica e politica critica nei confronti

del paradigma temporale patriarcale e capitalista. Questi

studi mettono in luce come il sistema dei tempi della

società industriale, tempi razionalizzati, calcolati,

cronometrati e funzionali unicamente al profitto e al

progresso abbia oscurato la pluralità dei tempi di vita e

di lavoro (remunerato e non) e soprattutto il tratto

creativo del tempo umano. Sottolineano come il

fordismo si sia potuto sviluppare principalmente

valendosi di un patto sociale fondato sull‟accettazione,

da parte delle donne, del carico del lavoro (gratuito) di

riproduzione. La specificità del tempo delle donne viene

quindi letta come elemento capace di sovvertire il

modello temporale egemone, quello scandito dal

mercato. Le numerose analisi degli ultimi decenni (si

vedano ad esempio Leccardi 2009 e Balbo 2011)

mettono in luce la relazione dinamica e creativa tra

Genere e precarietà 166

tempo e soggettività, nonché tra tempo e mondo sociale,

tutto ciò che era stato oscurato dai costrutti binari47

sin

qui dominanti nell‟analisi del tempo.

Si delinea, così, una vera e propria critica politica della

società capitalistica e patriarcale. Si mettono in luce

«nuove» esperienze temporali capaci di reinventare il

senso sociale attribuito al tempo e al lavoro. Oggi, il

tempo gerarchico maschile appare sempre più

inadeguato a fronteggiare le trasformazioni del lavoro

contemporaneo, mentre il tempo delle donne – plurale e

multiforme – ben si adatta a fare fronte alla complessità

della contemporaneità. Questi studi arrivano a proporre

una ri-concettualizzazione del tempo sociale, letto non

più solamente come un tempo piramidale, bensì come

plurale e multiforme.

Da questo veloce affresco si intuisce subito come il

rapporto tra le biografie femminili e il tempo sociale

dominante sia un rapporto conflittuale, e che l‟arena

dove si esplicita tale conflitto è il quotidiano, crocevia

dei molti tempi pubblici e privati presenti nella famiglia,

nonché luogo di continua mediazioni tra questi diversi

tempi. Nel quotidiano, la concretezza dei corpi –

impegnati nella cura – riporta l‟accento sulla

concretezza del tempo, rimossa dalla logica astratta

vigente nel mercato.

In questa sede voglio ragionare sulle trasformazioni

delle relazioni di genere, in particolare sulle differenze

femminili nel pensare il tempo e sui tentativi maschili di

uscire da una storica rigidità dei loro tempi, a partire da

una ricerca condotta in anni recenti sulla genitorialità.48

47 Ad esempio tempo pubblico vs tempo privato; tempo di lavoro vs tempo libero; tempo produttivo vs tempo riproduttivo. 48 Questa ricerca qualitativa si basa su quaranta interviste narrative raccolte

nella città di Milano nel 2008. Sono stati intervistati venti giovani donne e

Genere e precarietà 167

La nascita di un figlio e la cura per un neonato/a mi

sembrano essere, infatti, un case study privilegiato per

osservare le strategie che i giovani mettono in atto per

fronteggiare la discontinuità biografica, e sono

soprattutto un palco capace di mettere in luce le

differenze di genere, per diversi motivi; in primis la

nascita di un figlio/a è il momento che segna una

biforcazione sessuata nelle biografie. È l‟evento a

partire dal quale le vite lavorative di uomini e di donne

iniziano a differire maggiormente (basti qui ricordare

che l‟evento maternità causa una diminuzione di ben

dieci punti percentuali del tasso di occupazione

femminile, che passa dal 64% al 54% (Istat, 2010)]. È

l‟evento, quindi, capace di scatenare l‟emergere di

disuguaglianze di genere. È altresì un momento nella

vita di uomini e donne molto intenso, segnato da una

«povertà di tempo» (Gornick e Meyers 2009); è stato

definito da Bittman (2004) «rush hours of life», gli anni

più intensi della vita. Contemporaneamente, le giovani

coppie sono sottoposte spesso ad inedite tensioni

economiche. Infine, al pari delle altre pratiche della vita

sociale contemporanea, anche l‟essere genitori comporta

un impegno in termini di riflessività; quotidianamente

l‟agire in quanto genitori viene sottoposto ad analisi e

riflessione critica. Questo imparare, che avviene in un

contesto caratterizzato da un intenso mutamento sociale,

da inedite emergenze cui fare fronte, spesso porta con sé

una cristallizzazione dei ruoli di genere, come mettono

in luce molte ricerche (ad esempio si veda Fiori 2007).

Questo passaggio di vita ci permette quindi di vedere e

di comprendere le resistenze e i tentativi di innovazione

culturale che i giovani mettono in atto.

venti giovani uomini di età compresa tra i 21 e i 37 anni, con almeno un

figlio/a in età prescolare.

Genere e precarietà 168

Il materiale empirico utilizzato non include unicamente

interviste a giovani con contratti «atipici», poiché

ritengo che la condizione precaria stia filtrando oltre le

tipologie contrattuali, diventando oggi «una condizione

in primo luogo esistenziale che accomuna molteplici

condizioni di lavoro, dal lavoro migrante a quello di

cura, dal lavoro manuale a quello cognitivo e che viene,

tuttavia, percepita soggettivamente in modo

differenziato» (Fumagalli e Morini 2011). Come viene

ormai messo in luce in molti contesti politici49

, la

precarietà oggi è permanente, collettiva ed esistenziale.

Permanente perché incarna la condizione del lavoro

moderno, individualizzato e deregolamentato; collettiva

perché sempre più riguarda anche quei contratti che sino

a pochi anni fa offrivano garanzie reali; esistenziale,

perché oggi la differenza tra vita e lavoro va

assottigliandosi. La condizione di precarietà è percepita

in modo differenziato, come mettono in luce Fumagalli

e Morini, ma è di certo percepita da sempre più persone.

1. Tempi multipli: nuovi ritmi che impongono

una ridefinizione globale della relazione con i

tempi sociali. I primi mesi di vita del figlio/a

I racconti dei genitori, ed in particolare delle madri,

esemplificano bene l‟entità della trasformazione

esistenziale quando raccontano dei primi mesi di vita

dei loro figli. Una metafora esemplifica bene questa

condizione:

sei una macchina nei primi tre mesi, non hai un

orario, sembri un tabaccaio ventiquattr‟ore, nel

49 Si veda ad esempio quanto sostenuto nell‟articolo dello Sconvegno

contenuto in questo volume.

Genere e precarietà 169

senso, sempre aperto (Manuela, 29 anni,

insegnante, precaria).

La nascita di un figlio/a segna l‟inizio di un periodo di

vita non equamente condiviso da entrambi i genitori.

Sovente, i padri riescono a prendere solamente qualche

giorno di ferie a ridosso del parto, ma sono poi costretti

– spesso a malincuore – a tornare al lavoro. Per le

donne, invece, inizia un periodo di vita nuovo e intenso,

che le vede ritirarsi dal mercato del lavoro per accudire

il nuovo nato/a. L‟esperienza di Gianna, medico, mette

bene in luce le difficoltà che le madri devono affrontare.

Nonostante la presenza dei propri genitori, la sensazione

di insicurezza dovuta anche all‟impossibilità di

prevedere l‟andamento delle cose, la porta, nei primi

periodi di vita del bambino, a piangere tutte le sere:

chiaramente il primo figlio, uno non sa mai… i

primi mesi il papà era rimasto a casa dieci

giorni, poi è dovuto partire. Quindi io ho fatto

un periodo sola con lui (il figlio), sono stata

casa dei miei genitori, però ero molto insicura

di qualsiasi cosa, mi ricordo che la sera mi

veniva da piangere, perché non sapevo come

sarebbe stata la notte, cosa sarebbe successo.

Poi, piano piano ci siamo conosciuti ed è stato

un bel conoscersi insomma (Gianna, 30 anni,

architetta, precaria).

Nei primi mesi di vita dei figli, le donne devono fare i

conti con ritmi sonno/veglia completamente sfasati,

oltre che con l‟impossibilità di programmare il tempo

vista l‟imprevedibilità del comportamento dei neonati:

non c'è più tempo per se stessi, è lui (il figlio)

che organizza la mia giornata. A seconda dei

Genere e precarietà 170

suoi pianti, delle sue esigenze, qualsiasi

minimo mio programma viene sballato da lui.

Anche la cosa più stupida, esco a fare la spesa,

no: in quel momento magari io penso di avere

un‟ora di libertà perché dovrebbe dormire e poi

non dorme e quindi alla fine… non sei più

padrona del tuo tempo. Ecco, è lui che decide.

E questo non è facile. Soprattutto non sei

neanche padrona di riposare, questa è una cosa

che mi ha affaticato molto fisicamente

(Susanna, 33 anni, grafica, tempo

indeterminato).

Inoltre, in questo periodo di vita, si devono abituare ad

una nuova scansione temporale, ritmata

dall‟allattamento (naturale o artificiale) che il bambino

richiede. Le donne, principalmente, cercano di

«incastrare» tutte le attività di cura che gravano sulle

loro spalle e, in parallelo, di sintonizzarsi sui nuovi

ritmi. Come racconta Nora, una giovane madre molto

determinata a non abdicare del tutto alla propria

progettualità:

ma, sembrano anche delle cavolate, però se tu

conti che io alle otto allattavo fino alle otto e

mezza. A mezzogiorno allattavo fino a

mezzogiorno e mezzo, alle quattro allattavo

fino alle quattro e mezza e alle venti di nuovo,

e poi alla notte non dormirvi. Quando cucini?

Quando studi? Quando fai le altre cose? Mi

coincidevano tra l‟altro gli orari. Quelle tre ore

che mi avanzavano tra una cosa e l‟altra,

dovevo studiare. La spesa quando la fai? Anche

solo il pensiero di dover tornare per allattare,

non faccio in tempo neanche a fare la spesa. Sai

sono tante cose, e per me anche solo l‟idea di

Genere e precarietà 171

dovere cucinare, per me era un incubo (Nora,

25 anni, praticante avvocato, precaria).

«Per me era un incubo», dice Nora, mettendo bene in

luce cosa succede quando tempi diversi entrano in

collisione, quando la contraddizione tra piani temporali

diversi (qui i tempi dello studio e i tempi familiari)

diventa esplicita. Molte giovani madri intervistate

raccontano di perdere, da un giorno all‟altro, il controllo

sulla propria esistenza, di vivere un radicale

rivoluzionamento delle priorità esistenziali dovuto al

nuovo nato. Tutte le madri evidenziano le ambivalenze

di questa fase di vita, «sorprendentemente magnifica»

da un lato, ma anche «faticosa e difficile» dall‟altro.

Avevo l‟idea di una cosa più rilassata, invece

mi sono trovata in un turbine, con lui che poi

di notte non dormiva, quindi piangeva

sempre. Continue tutine da lavare, bodini da

lavare, tutto il giorno in casa da sola mentre

io ero abituata a lavorare tutto il giorno,

perché avevo un‟attività. Non riuscivo

neanche più a farmi una doccia, a truccarmi,

ero sempre con questa tuta, lui che piangeva

sempre, all‟inizio è stato un po‟ traumatico. E

quindi c‟è stata, io devo dire i primi cinque –

sei mesi un po‟ di… cioè ero contenta di

avere il bambino, a lui gli volevo bene, però

ero depressa, piangevo senza motivo (Elena,

33 anni, commessa, precaria).

Contrariamente a quanto di solito si ammette, abituarsi

a questo cambiamento radicale può essere molto

difficile per le donne. Spesso questa fatica resta

«indicibile» mascherata dal senso di istinto materno

Genere e precarietà 172

che le donne devono avere, e che tanto giustifica la

posizione defilata dei compagni.

I padri, soprattutto in questi primi mesi di vita, hanno

principalmente un ruolo di «supporto» sia - in parte -

perché fisicamente il bambino/a dipende dalla madre

per mangiare, sia perché la loro vita continua a

prevedere una prevalenza di momenti fuori di casa.

Sentono, nella maggioranza dei casi, di dover essere di

supporto alle partner, avvertendo la delicatezza della

situazione, ma si sentono al contempo impotenti:

diciamo che soprattutto nel primo periodo

molte, molte cose le ha fatte lei. Il papà,

secondo me, è più un sostegno quasi più morale

che fisico, perché sì, può tenere il bambino, ma

il bambino ricerca sempre la mamma alla

fine… quindi il più delle volte sta con la

mamma (Alessio, 33 anni, tecnico informatico,

tempo indeterminato).

Come si intuisce da queste parole di Alberto, quando

sono a casa i padri cercano di sbrigare i lavori di cura

più marginali, in modo da liberare del tempo alle mogli.

Questo tende a sopire il loro sentimento di

inadeguatezza:

io vengo utilizzato di più come spignattaro,

pulisco i piatti dopo i pasti, tengo lei, però

insomma ce la distribuiamo abbastanza

equamente. Forse è un po‟ più appannaggio suo

che il mio, però ecco io non mi tiro indietro

(Alberto, 35 anni, praticante medico, precario).

A parte la diminuzione delle ore di sonno, la

ristrutturazione della vita quotidiana dei padri sembra

Genere e precarietà 173

comunque decisamente più marginale di quella delle

madri che avviene, anche se accolta consapevolmente,

non senza difficoltà.

2. Una prima conseguenza dei nuovi tempi e dei

nuovi ritmi: una nuova organizzazione della vita

quotidiana. Condivisione del lavoro familiare

Questa fase di vita molto densa, come si è accennato,

vede la comparsa di nuove modalità di divisione del

lavoro domestico e di cura fra i genitori. La ricerca di

nuove forme relazionali costituisce un percorso che non

è riconosciuto socialmente, e che risulta faticoso per gli

individui che lo costruiscono più o meno

consapevolmente. In linea con quanto evidenziato dalle

ricerche, i tentativi di definire una «nuova» suddivisione

dei ruoli non viene sostenuta dai congedi parentali, che

sembrano giustificare una minore partecipazione

maschile alla routine quotidiana dei lavori di cura. Le

politiche di conciliazione sembrano, infatti, essere

costruite in modo tale da mantenere inalterato l‟ordine

di genere, fornendo alle neo madri la possibilità – e

l‟obbligo – di esser giocoliere tra la sfera privata e

quella pubblica, e mantenendo i giovani padri ai margini

della sfera privata.

Ecco che cosa afferma Elena in proposito:

e comunque credo che veramente il genitore sia

il ruolo più difficile del mondo. Poi secondo

me, almeno nel mio caso, il compito è proprio

addossato maggiormente sulla mamma. Che

alla fine è quella che ci vive le giornate, quella

che ci va al parco è la mamma, e quindi anche

nel ruolo educativo… sì poi subentra anche il

papà, però secondo me ha meno responsabilità.

Genere e precarietà 174

Poi dipende, magari ci sono coppie organizzate

anche diversamente. La mia è organizzata così,

perché mio marito lavora tanto e quindi a volte

arriva a casa anche alle otto e mezza di sera

(Elena, 33 anni, commessa, precaria).

Alcuni padri hanno aumentato il loro impegno in

ambito lavorativo, percependo, probabilmente, una

forte responsabilità di breadwinner. È stato

sottolineato da alcuni autori come, tenuto conto che il

valore simbolico del lavoro di cura non equivale a

quello del lavoro produttivo, il ruolo del good provider

rivesta tuttora una importanza fondamentale per

l‟identità maschile.

Emerge però anche la voglia di non esser solamente (o

sempre più) il breadwinner, bensì di godere della

possibilità di assaporare un tempo «un po‟ più

multiplo» e meno lineare e meno strutturato dal

mercato. Alcuni uomini non vogliono più aderire

unicamente ad una visione che mette al proprio vertice

il tempio del lavoro remunerato; si discostano da una

visione che permette al tempo del lavoro remunerato di

strutturare tutti gli altri tempi, e di renderli residuali.

La visione delle donne, come abbiamo visto, è una

visione del tempo come rete, e non come una piramide.

È un tempo fatto di tanti nodi, posizionati sullo stesso

piano dal punto di vista identitario. Sono nodi

interconnessi e con un peso specifico diverso a seconda

delle diverse fasi di vita.

Nelle testimonianze dei padri relative a questi primi

mesi di vita vengono evocate tanto le immagini della

presenza e della partecipazione paterna, quanto quelle,

contrastanti dell‟assenza e della «perifericità»

(Maggioni 2000). Finalmente la parzialità paterna su

cui ha riflettuto Ventimiglia (1996) inizia ad andare

Genere e precarietà 175

stretta ad alcuni padri, e con essa inizia ad andare

stretto anche un tempo gerarchico. Qualche padre

lavorerebbe volentieri di meno per potere passare più

tempo con i figli:

cioè, invidio un po‟ gli altri che possono stare

con lei, quelli che non lavorano o che lavorano

meno... non so, le nonne le invidio perché

possono stare con lei… però vabbè… ci sarà

tempo insomma. Diciamo che lavorerei

volentieri meno e con tempi più umani

(Gianmaria, 36 anni, medico, tempo

determinato).

Nella testimonianza che segue, questo padre

ventiseienne mette in luce un aspetto inusuale

dell‟esperienza paterna, che lascia intuire inediti

desideri paterni di intimità con il figlio/a. Alcuni padri,

in effetti, non hanno oggi paura di dichiarare la

necessità di vivere ritmi temporali differenti, meno

sbilanciati verso la sfera pubblica (il lavoro) in favore

di una più profonda relazione con il figlio/a:

lui (il figlio) alle otto e mezza va già a letto, ho

solo un‟oretta per giocare con lui. Infatti, anche

diciamo che, al di là che è una palla lavorare

otto ore, c‟è anche la voglia di stare a casa con

Niclas. Volentieri in questi primi anni lavorerei

mezza giornata e basta. Io, praticamente lo

vedo il week-end e basta, anche perché io esco

la mattina che dormono tutti (Marco, 26 anni,

operaio, tempo indeterminato).

Diversi tra i padri intervistati, magari non si spingono a

desiderare per se stessi una diversificazione temporale,

però iniziano almeno a rendersi conto delle

Genere e precarietà 176

trasformazioni radicali che avvengono nelle biografie

delle loro compagne. Inizia ad esserci, quindi, un

diffuso riconoscimento della peculiarità di questo

periodo di vita, e della complessità del ruolo materno

durante i primi mesi di vita dei figli; riconoscono che

per loro sarebbe molto difficile riuscire ad «esserci»

come fanno le madri:

però secondo me è meglio che sta la mamma

con il figlio […]. No, anche perché io non so se

ce la farei a stargli dietro tutto il giorno. Non so

se ce la farei, devo dirlo. Tutto il giorno con il

bambino… m‟innervosisce troppo. Ma io anche

se sto a casa, dopo un giorno o due giorni a casa

non ci sto più dentro, devo uscire, andare al

lavoro. Anche quando sono in malattia, due

giorni, tre giorni e poi non ce la faccio più,

voglio tornare al lavoro. Perché parli, ti svaghi,

ti passa di più. Invece a casa più di tanto non

puoi fare niente (Luca, 25 anni, magazziniere,

tempo determinato).

Vediamo un altro argomento utile a farci comprendere

meglio mutamenti ed ambivalenze dei giovani padri,

guidati, in parte, dal desiderio di ricalibrare

l‟investimento di sé stessi tra lavoro e vita privata.

2.1. La suddivisione dei compiti di cura:

paternità che cambia

In linea con quanto messo in luce da molte ricerche, e

come accennato nei paragrafi precedenti, i padri

sembrano specializzarsi in alcuni compiti, quali buttare

l‟immondizia, lavare i piatti, fare la spesa, occuparsi

degli aspetti burocratici (bollette, assicurazioni, conti

Genere e precarietà 177

correnti); in generale, si può affermare che hanno un

ruolo di esecutori di compiti loro assegnati dalle

compagne.

Mi occupo io dei rapporti con suocera e nonne,

baby sitter e tutte queste robe qua. Cioè lui è

più del tipo che io gli dico cosa fare lui la fa, io

gli dico di far la spesa, lui la fa, più spesso lui

di me, però lui non si accorge se manca il pane,

o il latte. Cioè devo fare la lista io e lui poi la

fa. Gli dico di andarlo prendere, ma lui non sa

oggi cosa fa nostro figlio, quale è il programma.

Cioè io so il programma e in base al

programma gli do dei compiti. E in questo

modo quindi di fatto io faccio più uno sforzo

generale di avere tutto sotto controllo e lui però

fa tante cose concretamente […]. E poi si,

effettivamente la regia organizzativa è molto

faticosa, ma veramente non conosco uomini che

la tengano. Conosco solo donne che la tengono

(Ada, 30 anni, ricercatrice, partita IVA).

Nonostante questa innegabile persistente asimmetria

nella condivisione delle responsabilità collegate al

lavoro domestico, si inizia ad intravedere un diverso

coinvolgimento per quanto riguarda i figli. La crescente

partecipazione maschile deve essere letta alla luce

(ancora oggi) delle trasformazioni del femminile, e al

maggiore potere contrattuale delle donne; le madri

iniziano a chiedere e a pretendere, e i partner si

dimostrano contenti di partecipare. Sono padri che si

lasciano contaminare dalle specificità del tempo

femminile, da una pluralità che piano piano inizia ad

esser riconosciuta e goduta dai padri. Quasi tutti i padri

intervistati, infatti, desidererebbero fare i padri, e non

solo essere padri:

Genere e precarietà 178

avere un figlio vuol dire avere anche il piacere

di crescerlo, per me per lo meno, anche forse

evitando magari gli errori che ritengo che

hanno fatto i miei genitori… Poi non sarà

facile, ma per certe cose… Cioè, adesso,

almeno adesso, penso che il rapporto del giorno

d‟oggi sia diverso, perché comunque certe cose

mio padre non le ha fatte e non le avrebbe mai

fatte. Sì, cambiava il pannolone, dai suoi

racconti, però non si alzava alle quattro di

mattina per aiutare mia mamma che doveva

allattarmi… dormiva, doveva lavorare, il suo

lavoro era quello di lavorare e, quindi io già ho

fatto qualcosa di diverso (Gianmaria, 36 anni,

medico, tempo determinato).

A prescindere dalla quantità di lavoro condiviso,

l‟impressione che si ricava dalle interviste è che a molti

padri manchi ancora una comprensione profonda

dell‟importanza di questi gesti. Sembra si arrestino

all‟aspetto pratico del pulire, coccolare o mettere a letto

il figlio/a, o all‟essere di aiuto e di sollievo per le mogli

o compagne, mentre solo raramente ne colgono

l‟importanza e la trasversalità da un punto di vista

relazionale ed affettivo. La dimensione della cura,

invece, rende possibile un terreno comune di incontro,

una serie di relazioni di fiducia e di attenzione. Nei

racconti dei padri, invece, riecheggia ciò che Eros,

diplomato, padre di un bimbo di sedici mesi, esplicita

con queste parole:

non è che non sono papà, però più che papà

sono diventato proprio… non so come dire… È

difficile da spiegare. Non mi sento papà, perché

ancora non ho messo in pratica niente. A parte

Genere e precarietà 179

dargli uno sberlettino quando lancia il biberon

contro il televisore, il mio ruolo di padre per

adesso non c‟è. Per dire, per me il padre, è

quello che ti dice «stai dritto con la schiena,

taglia la carne in quel modo. Buongiorno,

buonasera». Gli devo trasmettere qualcosa di

mio. Per adesso, a parte prenderlo in braccio,

farlo dormire, dargli la colazione così, non

faccio. Manca ancora la comunicazione.

Quando avrà due anni e mezzo o tre ne

riparleremo. Però in questo momento non mi

sento ancora al cento per cento papà (Eros, 24

anni, barista, tempo indeterminato).

Questo è forse l‟aspetto che manca alla cultura paterna

che, innegabilmente, sta mutando e si sta sempre più

lasciando coinvolgere nelle complesse forme e nei

molteplici significati simbolici che contraddistinguono

il lavoro di cura, scoprendo il piacere di vivere il

rapporto con i propri figli/e ed annullando le ritrosie

nell‟esplicitarlo. Manca ciò che Ventimiglia (1994)

aveva definito «paternalità». Manca la consapevolezza

che «i processi di costruzione delle identità e dei ruoli si

compongono attraverso le “piccole” e permanenti

condizioni di vita quotidiana, così come è attraverso

esse che si configura il senso valoriale che acquisiscono

le azioni e le reazioni interpersonali» (Ventimiglia 1994,

67). Non si può parlare di nuova paternità sino a che la

dimensione dell‟esercizio relazionale, dell‟intimità che è

nella trama dei lavori di cura non sia introiettata dai

padri.

D‟altra parte, gli studi mostrano come una maggiore

consapevolezza dei bisogni dei figli e una maggiore

capacità di comprenderne le richieste da parte dei

genitori si sviluppi proprio attraverso la pratica delle

Genere e precarietà 180

attività di routine nei primi anni di vita. Questo crea una

relazione più intima tra genitori e figli, che permane

mano a mano che i figli crescono. Gianni,

trentaquattrenne assistente sociale, esprime il bisogno

(comprendendone l‟importanza) di comunicare con sua

figlia anche attraverso i piccoli gesti quotidiani,

mettendo in luce una attenzione ancora scarsamente

diffusa tra i padri italiani:

l‟esempio che faccio quando ne parlo con altri

amici è… da subito nel momento

dell‟allattamento c‟è stata questa divisione, per

cui la mamma l‟allattava, io le facevo fare il

ruttino e il cambio post allattamento, ma non

c‟è stato bisogno di dircelo. Era ovvio che tutti

e due avevamo delle fatiche da condividere e

che avevamo bisogno di un momento di

relazione con la bambina da condividere, no?

Lei l‟ha fatto con il suo latte, io l‟ho fatto con la

cura, con la mano calda. Questa cosa è stata

assolutamente istintiva.

E continua,

come me, tutti i miei amici fanno in qualche

modo un lavoro precario, flessibile perciò

abbiamo tutti quanti le stesse sfighe e anche le

stesse possibilità, non ho nessun amico che ha il

cartellino da timbrare… forse questa

probabilmente la dice lunga sui cambiamenti

della nostra generazione. Dovessi avere il

cartellino da timbrare troverei tutto molto più

complicato, credo assolutamente tutto molto più

complicato. Io oggi mi consento dei tempi che

non potrei assolutamente, assolutamente avere e

sinceramente non so, preferisco così (Gianni,

34 anni, assistente sociale, precario).

Genere e precarietà 181

I padri più collaborativi raccontano con orgoglio di

essersi ritagliati alcuni momenti «esclusivi» con i figli/e,

in cui probabilmente loro stessi si sperimentano e

familiarizzano con relazioni «dense», da cui sin qui si

erano ed erano stati esclusi. Un momento

particolarmente importante per la relazione padre –

figlio/a è costituito dai rari momenti in cui la madre è

assente a causa di impegni lavorativi e i padri non

ricorrono (eccessivamente) alla presenza delle nonne;

sono quindi «felicemente costretti» a gestire

autonomamente il bambino/a e al contempo ad imparare

questa nuova relazionalità:

ma guarda io sono abbastanza rilassato, quindi,

anche perché appunto quando c'è mia moglie

invece, lei è molto energica, quindi facciamo

sempre che andiamo via, magari di qua di là.

Quindi quando stiamo da soli io me la prendo

molto con calma. Rispetto anche molto i suoi

tempi e siamo molto noi due. Facciamo dei

giretti o in bicicletta o con il passeggino, e poi

andiamo al parco dove ci sono gli altri bambini.

Spesso ne approfitto anche un po‟ e a pranzo e

a cena vado dai miei genitori, in modo che non

debba cucinare […]. Però ecco non è che

facciamo grandissimi cose, facciamo cose

molto quotidiane (Alberto, 35 anni, praticante

medico, precario).

Questa diversa scansione temporale imposta alle coppie

proprio dalla loro condizione di lavoratori e lavoratrici

precari sta iniziando ad aprire possibilità relazionali tra

padri – figli diverse. Una conseguenza di una

temporalità meno rigida e più precaria porta con sé una

maggiore attenzione relazionale verso il figlio/a e una

Genere e precarietà 182

voglia di ridefinire il loro modo di fare i padri.

Conclusione

Queste storie ci fanno intravedere come alcune

conseguenze della condizione precaria inizino ad aprire

spazi inediti di contrattazione tra i generi sul piano

culturale. Questi, sicuramente ancora pochi, padri

collaborativi non vogliono vivere un tempo organizzato

rigidamente dal mercato del lavoro, vogliono tempo per

trovare i modi per costruire una relazione con i propri

figli. Anche le biografie di questi padri fanno registrare

un rapporto conflittuale con il tempo sociale, lo scarto

che la nascita di un figlio produce inizia ad esser reale

anche nelle vite maschili, e non più unicamente in

quelle femminili. Questo maschile sembra voler essere

«benevolmente obbligato» ad affrontare le difficoltà e le

paure che la relazione con un nuovo nato comporta sia

perché chiamato in causa dalle proprie compagne sia

perché frustrato dalla parzialità maschile. Il modello

della doppia presenza strutturato sulla molteplicità e

sull‟«ibridazione» dei mondi pubblico e privato (Balbo

1978) si configura come l‟orizzonte capace di offrire

strategie per tenere insieme due presenze parziali. Un

orizzonte in cui le donne hanno expertise da vendere.

Probabilmente, il lavoratore precario, reso parziale nelle

modalità di presenza sul mercato del lavoro, ha oggi

maggiore spazio per conoscere i tempi della cura e per

costruire nuovi legami all‟interno della sfera privata.

Quindi, forse, possiamo affermare che serva una

«dittatura benevola» capace di imporre precise politiche

volte ad accelerare il processo di democratizzazione dei

generi. Le donne sono, come abbiamo visto nel primo

paragrafo, «benevolmente costrette» ad imparare a

Genere e precarietà 183

gestire questi nuovi tempi e compiti, mentre i loro

compagni no. La motivazione degli uomini a partecipare

alla cura e a modificare la loro gestione dei tempi

quotidiani è auto-imposta, o al massimo imposta dalle

loro compagne. Non c‟è una pressione normativa sugli

uomini ad essere care-giver, quindi la contrattazione

resta individuale, è lasciata alle coppie già messe sotto

pressione dalle dense e radicali trasformazioni che

vivono in questo passaggio da diade a triade.

Oggi siamo in un periodo storico dove la scommessa

sembra essere quella di capire cosa possa significare

un‟uguaglianza capace di tenere conto della differenza,

e non indirizzata unicamente verso una mera inclusione.

In altre parole, gli uomini devono imparare a muoversi

nella complessità della dimensione dei tempi e della

cura e devono trovare un loro modo di trasformare la

loro specificità di genere in un plusvalore. Le donne, di

contro, devono continuare a capire come trasformare le

loro differenze in punti di maggiore forza nel mercato

del lavoro. Queste trasformazioni crescono e si nutrono

di tempi di vita-lavoro flessibili, meno rigidamente

definiti da un‟organizzazione del lavoro di tipo fordista.

Insieme, dobbiamo trasformare il carattere uniforme e

prescrittivo delle aspirazioni e dei modi di vivere

socialmente validati e premiati; in altre parole, la

questione che abbiamo sul tavolo riguarda la

democratizzazione del nostro orizzonte sociale. Mettere

in luce le esperienze di paternità innovative che si

iniziano a registrare può essere un modo per «aprire

l‟ordine simbolico attuale» e per legittimare le paternità

più partecipative. Significa fare sì che non si debba più

utilizzare il termine ibrido «mammo» per descrivere

un‟effettiva e più rilevante presenza paterna, ma che si

modifichi il significato del termine padre.

Genere e precarietà 184

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Genere e precarietà 185

c

Genere e precarietà 186

Genere e precarità

187

techné

Soft control. Moltitudini acentriche, geni egoisti e lavoro

nella new economy

di Tiziana Terranova

Scrivendo nel 1934, pochi anni prima che il primo

computer digitale venisse assemblato negli Stati Uniti,

lo storico della tecnologia Lewis Mumford aveva

invocato la fine della tirannia della tecnologia

industriale a favore di una nuova età tecnologica –

libera dal dominio della razionalità meccanica

dell‟orologio e dalla mortifera influenza sensoriale di

materiali come ferro e carbone. Mumford pensava che il

futuro dello sviluppo tecnologico risiedesse nel ritorno

all‟organico, un ritorno che egli significativamente

considerava al cuore della ricerca sui moderni

massmedia (Mumford 1934, 163). Lo studio

dell‟orecchio, della gola e della lingua erano stati

fondamentali per lo sviluppo del fonografo, mentre la

ricerca sul moto di cavalli, buoi, tori, levrieri, cervi e

uccelli avrebbe fornito le basi per lo studio scientifico

del rapporto tra immagini e movimento che produsse il

cinema. Mumford affermò che, diversamente dal

modello baconiano, l‟innovazione tecnologica non è

intrinsecamente collegata al dominio della natura, ma

implica un rapporto più stretto con l‟artificialità del

mondo naturale. La tecnica umana non è solo

un‟elaborata estensione dell‟uomo, ma piuttosto rafforza

il suo rapporto con diversi livelli dell‟organizzazione

naturale. Questi livelli vengono estrapolati e ridispiegati

nel complesso delle macchine sociali all‟interno delle

Genere e precarità

188

quali si dispongono i segmenti umani e tecnici. La

natura che emerge da questa interazione non è solo

complessa, ma anche «artificiale», cioè creativa e

produttiva. Lungi dall‟essere sinonimo di un‟essenza

eterna e immutabile, il mondo naturale dà l‟impressione

di essere multiplo e complesso, dotato di una creatività

ingegnosa, adattabile e sovrumana.1 Questo perchè le

macchine, come avrebbero detto più tardi Georges

Canguilhelm e Felix Guattari, possono essere qualcosa

di più di meri meccanismi.

L‟appello di Mumford per una complicazione organica

del mondo delle macchine non suona fuori luogo in

un‟epoca nella quale i networks comunicativi vengono

spesso descritti come auto-regolati, evolutivi e

orizzontali. Soprattutto l‟esplosione del fenomeno

Internet ha marcato l‟inizio di una corsa al paragone tra

i suoi meccanismi e quelli di altri sistemi dotati di una

logica simile (dagli sciami ai mercati). Attingendo alle

intuizioni della biologia della popolazione, gli apologeti

del libero mercato e dei sistemi auto-regolati dal basso

privi di controllo centrale (bottom-up) hanno

sottolineato l‟ubiquità di questa logica nel regno

dell‟«artificiale e dell‟organico» (Kelly 1994).

I sostenitori della new economy affermavano di essere

stati ispirati dall‟ubiquità dei processi evolutivi e dalla

loro capacità non solo di discriminare tra l‟adatto e il

non adatto, ma anche di produrre la molteplicità della

vita in quanto tale. Quest‟uso della teoria

dell‟evoluzione evidenziava l‟esistenza di una natura

artificiale che si compone e decompone attraverso

tecniche specifiche e complesse che essa stessa produce

in maniera immanente e senza alcun piano o scopo

1 Sull‟artificialità del piano della natura, si veda l‟analisi di Parisi sulla

biologia molecolare contenuta in Abstract Sex.

Genere e precarità

189

prefissato. Ispirato dal lavoro di due formidabili pionieri

come John von Neumann e Stanislav Ulam, il campo

della computazione biologica si è confrontato con la

tecnicità della natura quale si manifesta nei processi

evolutivi e perciò è stato spesso accusato di essere un

tentativo fuorviante di naturalizzare le relazioni tecniche

e sociali – sostenendo così le tesi di coloro che pensano

che l‟auto-regolazione che è alla base di Internet sia

dovuta all‟azione benefica delle forze del libero

mercato. La computazione biologica, in effetti, è

fondamentalmente interessata all‟analisi dei fenomeni

organizzativi dal basso (bottom-up), simulando le

condizioni del loro emergere in un medium artificiale –

il computer digitale. Il termine «computazione

biologica» si riferisce ad un grappolo di sub-discipline

nelle scienze informatiche – come la vita artificiale (che

mira a evolvere dinamiche naturali nelle simulazioni

computerizzate); la mobotica (la progettazione di robot

mobili capaci di apprendere dai loro errori); e le reti

neurali (un approccio bottom-up all‟intelligenza

artificiale che inizia con semplici reti di neuroni invece

che da un gruppo di istruzioni dall‟alto o top-down).

Queste sotto-discipline condividono un comune

riferimento al lavoro di John von Neumann negli anni

cinquanta sugli automi cellulari – un gioco simile al

cinese «go» che prevede una scacchiera aperta e una

popolazione di quadratini vincolati solo da regole

d‟interazione locali. Gli automi cellulari di von

Neumann si sono dimostrati capaci di computazione

universale (proprio come la macchina universale di

Turing). Dai tempi di von Neumann, la computazione

biologica si è sviluppata in un campo di ricerca ben

finanziato e proficuo con importanti applicazioni in

diversi settori, dall‟animazione alla ricerca sul cancro.

Genere e precarità

190

La biologia computazionale ha assorbito le intuizioni

della teoria del caos, della biologia molecolare, della

demografia e naturalmente della teoria evoluzionista. Il

suo campo d‟interesse è quello della produzione di

fenomeni emergenti capaci di superare le istruzioni dei

programmatori. La computazione biologica esplora il

piano più ampio di macchine astratte di organizzazione

dal basso, di cui Internet appare specifica istanza e

prodotto. Ciò che contraddistingue queste macchine

astratte è la loro mancanza di qualità. Esse non sono

delle macchine tecniche più di quanto non siano delle

macchine naturali, né possono essere descritte come

macchine biologiche piuttosto che come macchine

sociali. La loro simulazione implica la descrizione di un

diagramma astratto che mette in relazione entità, leggi e

capacità quasi indefinite – moltitudini acentriche, regole

locali, dinamiche globali, la capacità di generare

fenomeni emergenti, la relativa imprevedibilità, la

refrattarietà al controllo. Ciò che la computazione

biologica si domanda è: come si formano questi sistemi?

Da che cosa sono composti? Quali regole li spiegano?

Come possono essere ricreati e quali modalità di

controllo si adattano meglio al loro immenso potenziale

e alla loro tendenza alla refrattarietà? Se la rete è un tipo

di «diagramma spaziale» per l‟età della comunicazione

globale, le macchine auto-regolate della computazione

biologica sussumono la rete non solo come una

formazione topologica astratta, ma come un nuovo tipo

di macchina di produzione. In questo senso, come

avremo modo di vedere, i processi studiati e riprodotti

dalla computazione biologica sono qualcosa di più

dell‟espressione tecno-ideologica del fondamentalismo

di mercato. La computazione biologica implica un

campo informazionale nel quale ogni punto è connesso

Genere e precarità

191

direttamente a quello più vicino (sul quale agisce e al

quale reagisce); e indirettamente, ma non meno

efficacemente, influenzato dai movimenti del tutto. Un

sistema auto-regolato che genera un comportamento

emergente (quel comportamento cioè che non è stato

esplicitamente programmato o controllato) è

l‟espressione di un modo di produzione caratterizzato da

un eccesso di valore – un eccesso che richiede strategie

flessibili di valorizzazione e di controllo. Nelle prossime

pagine andremo allora alla scoperta dell‟intreccio tra

organico e inorganico, tra il fisico e il biologico e il

naturale e il tecnologico, per riuscire a intravedere

l‟emergere di una specie di macchina astratta del

controllo soffice (soft control) – cioè di un diagramma

di potere che trova il proprio campo operativo nelle

capacità produttive dei molti iperconnessi. Ma prima di

questo inizieremo con il definire il profilo di ciò che il

passaggio alla computazione biologica comporta e della

sua relazione al più vasto campo della conoscenza

scientifica contemporanea.

La svolta biologica nella programmazione, con il suo

interesse per l‟organizzazione dei sistemi naturali e

artificiali auto-organizzati dal basso (bottom-up), può

essere pensata come parte di una più ampia

riconcettualizzazione tecno-scientifica della vita – ben

oltre le leggi meccaniche della scienza classica, ma

anche oltre le forme organizzate dell‟anatomia e della

biologia moderne. Per i teorici della vita artificiale,

come Charles Taylor e David Jefferson, tutta la vita

naturale può essere compresa in termini di

un‟interazione tra un gran numero di elementi a partire

dai livelli più elementari. L‟organismo vivente non è più

una singola e complessa macchina biochimica, ma viene

Genere e precarità

192

oggi inteso come il prodotto aggregato dell‟interazione

di un‟ampia popolazione di macchine relativamente

semplici (Langtong e Taylor 1992, 5). Queste

popolazioni di macchine semplici interagenti lavorano

ad ogni livello dell‟organizzazione biofisica della

materia. Sono attive a livello molecolare, a livello

cellulare, a livello organico e a livello dell‟ecosistema-

popolazione (Taylor e Jefferson 1992, 1). Di

conseguenza,

animare delle macchine [...] non significa dare

la vita ad una macchina, quanto piuttosto

organizzare una popolazione di macchine in

modo tale che la loro dinamica interattiva sia

«viva».2

2 Attingendo alla letteratura scientifica sull‟argomento, Manuel De Landa ha riassunto il passaggio dall‟«ideal-tipo» alla «popolazione». Il concetto di

«idealtipo» è di origine aristotelica e ha dominato la biologia per oltre

duemila anni. Nel concetto di «ideal-tipo», «una popolazione data di animali era concepita più o meno come un‟incarnazione imperfetta di un‟essenza

ideale». Possiamo comprenderla nozione di «ideal-tipo» seguendo anche i

principi della semiotica nella quale ciascun segno è composto da un «significante» (nell‟esempio di De Landa la parola «zebra») che si riferisce

ad un «significato» (la zebra «ideale» che si ritiene possedere le

caratteristiche essenziali della «zebrità»). Tutte le zebre reali (il referente nella terminologia saussuriana) sono dunque delle incarnazioni specifiche e

necessariamente imperfette dell‟ideal-tipo «zebra» che costituisce il significato o il concetto che è alla base del nome. La rivoluzione introdotta

dalla demografia negli anni trenta (un momento indispensabile nella

realizzazione dell‟attuale svolta biologica) è contrassegnata dall‟abbandono dell‟ideal-tipo (potremmo anche dire del segno), a favore della nozione di

«popolazione». Al centro della teoria evoluzionista non troviamo più un

animale ideale, composto da tutti quei tratti che gli permettono di evolvere e di sopravvivere in un ambiente specifico, ma una serie di tratti differenziali,

distribuiti in tutta la popolazione delle zebre, un sistema relativamente stabile

attraversato da variazioni continue. Il nuovo oggetto della teoria evoluzionista non è allora quello dell‟adattamento individuale, ma quello

della dinamica delle popolazioni. (CFC. De Landa 1998, ultimo accesso

20/05/2002).

Genere e precarità

193

Il Frankenstein di Mary Shelley partì dunque dalle

premesse sbagliate: se si vuole riprodurre la complessità

della vita, non bisogna partire dagli organi, cucirli

insieme e poi dargli una scossa per farli vivere. Bisogna

iniziare più umilmente e più modestamente dalla base,

cioè da una moltitudine di interazioni in un ambiente

liquido e aperto.

Il capitalismo della new economy si è molto occupato

del rapporto tra l‟organizzazione dei sistemi auto-

regolati dal basso (bottom-up) e la velocità e si è

soffermato sull‟importanza della fluidità come

condizione fisica. Ad un certo livello di velocità, in una

fase liquida semi-ordinata, a differenza degli enti solidi

e limitati, i grandi numeri sono soggetti a diversi tipi di

regole.

La scienza ha per molto tempo saputo che i

grandi numeri si comportano in maniera diversa

dai piccoli numeri. Le folle producono una

misura indispensabile di complessità per le

entità emergenti... La quantità totale di

interazioni possibili tra due o più membri si

accumula esponenzialmente man mano che

cresce il numero dei membri. Ad un alto livello

di connettività, e con un alto numero di

membri, prevale la dinamica delle folle. Il

numero fa la differenza (Kelly 1994, 12).

Il numero o la quantità, come sostiene Kevin Kelly, è

esplicitamente collegato al bisogno di una diversa logica

immanente dell‟organizzazione che impone nuove

strategie di controllo per trarre profitto dalla sua

produttività potenzialmente infinita e per arrestare il suo

potenziale catastrofico: non dovremmo quindi essere

Genere e precarità

194

sorpresi dal debito che la computazione biologica ha

contratto con la meccanica dei fluidi.

Il problema è di mantenere la produttività di uno spazio

fluido compreso tra gli estremi improduttivi della

solidità e del caos gassoso. O, come ha detto Tim

Berners-Lee, «abbiamo certamente bisogno di una

struttura che eviti queste due catastrofi: la monocultura

globale omogeneizzante di McDonald‟s e i culti isolati e

auto-referenziali che si capiscono solo tra di loro»

(Berners-Lee 2000, p. 203). Si tratta dunque di

individuare la velocità esatta che rende possibile

l‟attività:

per usare un po‟ il linguaggio antropomorfico:

la materia in equilibrio è «cieca», ma nelle

condizioni lontane dall‟equilibrio essa può

essere capace di percepire, prendere atto cioè

del loro modo di operare, delle differenze nel

mondo esterno (come la gravitazione debole o i

campi elettrici) (Prigogine e Stengers 1984, 14).

Uno stato fluido viene in questo modo definito come

una relazione di velocità che determina il livello di

connessione che collega liberamente una moltitudine di

corpi semplici o di macchine. Uno spazio fluido è

caratterizzato da una relazione semilibera tra molecole o

componenti che gli attribuiscono la capacità di deviare e

di produrre spontaneamente dei fenomeni di turbolenza.

Uno spazio di flussi genera fenomeni imprevisti ma non

garantisce che essi saranno sempre utili o anche

vantaggiosi allo sperimentatore o al programmatore

perché sono sempre soggetti a trasformazioni repentine

o a catastrofi. Dato che la pianificazione si rivolge solo

alle condizioni iniziali, i risultati prescelti possono

essere solo invocati ma non certo previsti. L‟emergenza

Genere e precarità

195

ha bisogno di essere attentamente raccolta e valorizzata

alla fine del processo con un pettine a denti molto

stretti, va analizzata ma solo allo scopo di sintetizzarla

di nuovo, sperimentando una serie di limiti che

facilitano questa operazione. Questo tipo particolare di

controllo è un controllo soffice (soft control). Non è

soffice perché è meno duro (spesso non c‟è nulla di

gentile in esso), ma perché è un esperimento sul

controllo dei sistemi che rispondono violentemente, e

spesso in maniera suicida, al controllo rigido.

1. Emergenza sociale

Il risultato dell‟esecuzione di un sistema cellulare non

viene allora predeterminato o pianificato nella sua

interezza (ed è come ha scritto Kevin Kelly «fuori

controllo»). Essere fuori controllo non significa essere

al di là di ogni tipo di controllo. Il controllo al quale

questa popolazione fluida risponde è piuttosto differente

da quello negativo degli organismi viventi auto-poietici

che si auto-riproducono entro dei limiti chiusi. La

fluidità delle popolazioni, il loro essere esposte alle

epidemie e al contagio, vengono considerati una risorsa:

ad un certo valore o ad una certa velocità

informazionale, il movimento della cellula diventa

liquido e questo stato, che viene considerato quello più

produttivo, genera strutture vorticali che sono sia stabili

che in divenire. Queste strutture dinamiche prodotte

dalla propagazione del movimento in un mondo di

automi cellulari, sono considerate computazionalmente

interessanti. Questo comportamento liquido è

tipicamente caratterizzato da una deviazione – quella tra

il momento in cui il modello viene costruito e il

momento in cui emergono forme utili o soddisfacenti. In

Genere e precarità

196

linea teorica, agli occhi dell‟osservatore umano, i

sistemi di automazione cellulare dovrebbero sempre

sorprendere o produrre risultati inattesi. Indurre i sistemi

cellulari alla computazione non è un‟impresa facile

perché richiedono una regolazione molto attenta. Le

regole che definiscono le funzioni della transizione tra i

diversi stati possibili della cellula devono essere definiti

con estrema cura. Questa precisa regolazione può essere

ottenuta solo attraverso una serie di esperimenti

successivi fino a quando è possibile individuare l‟esatto

livello computazionale che permette di portare a termine

il compito assegnato o task. Dall‟altra parte, il fatto che

il sistema di automazione cellulare sia capace in

principio di eseguire delle computazioni non significa

che lo farà in maniera spontanea. Ecco perché viene

introdotto un nuovo livello di controllo – non solo la

precisa regolazione delle condizioni iniziali, ma anche

la modulazione degli scopi finali e degli oggetti della

computazione.

La modulazione globale degli scopi viene eseguita

abitualmente nei sistemi di automazione cellulare

ricorrendo al modello dell‟«algoritmo genetico». Gli

algoritmi genetici sono un tipo particolare di «algoritmo

di ricerca», come quelli che gestiscono popolari motori

di ricerca come Google.

Gli algoritmi genetici, funzionano ricercando nello

spazio computazionale e misurando il tasso di successo

nei diversi sistemi di automazione cellulare (definiti dai

loro genotipi e dalle tavole di istruzioni) sulla base dei

loro fenotipi (cioè la prestazione effettiva prodotta dalle

istruzioni nel momento in cui partono da configurazioni

diverse dello stato dei nodi). Ciò che provoca il risultato

della competizione tra i sistemi di automazione cellulare

è una funzione di fitness o adattamento che attribuisce i

Genere e precarità

197

punteggi ai diversi sistemi. I sistemi inefficienti

vengono esclusi, mentre quelli più efficienti vengono

lasciati liberi di competere e anche di scambiarsi i tratti

distintivi a vicenda. Questo modello ha dimostrato di

essere altamente efficace nel determinare le soluzioni

ottimali per problemi specifici poiché questa

competizione termina spesso con il raggiungimento di

una zona ottimale dove il compito viene calcolato

efficacemente e con la minima perdita di tempo. I

genotipi di successo, i cui fenotipi si sono dimostrati

essere più resistenti di altri, vengono così selezionati per

l‟analisi o per un uso mirato.

Gli algoritmi genetici agiscono perciò come dei setacci

virtuali le cui maglie possono essere adattate agli scopi

specifici della simulazione. «Tutto quello che rimane

dopo questo processo sono le celle che non si sono

uniformate ai modelli e formano così i confini tra le

regioni di celle che invece lo hanno fatto» (Watts 1999,

186). Il comportamento di queste particelle attive di

confine viene allora analizzato per capire se possono

essere soggette a delle regole.

Se tale regola esiste (e può essere trovata),

allora il CA3

può essere spiegato [...]. Se questa

regola non esiste, allora il processo deve essere

ripetuto, provando ancora una volta ad estrarre

un modello dalla confusione delle particelle,

producendo forse delle meta-particelle e così

via.

L‟approccio dell‟algoritmo genetico ai sistemi di

automazione cellulare è stato criticato perché è incapace

di produrre una vera emergenza cioè quei fenomeni di

3 Automazione Cellulare [N.d.T.]. Si veda Watts 1999.

Genere e precarità

198

auto-organizzazione e di computazione che non

vengono programmati esplicitamente da un agente

umano. Il modello di controllo dell‟algoritmo genetico

viene quindi giudicato insufficiente da alcuni ricercatori

sulla vita artificiale. Se le funzioni di efficacia sono

troppo strette e troppo orientate allo scopo, i sistemi CA

possono elaborare un compito che gli viene imposto, ma

non possono produrre una novità autentica, cioè degli

eventi che non sono prescritti dalle regole e dalle

condizioni iniziali.4 L‟algoritmo genetico descrive

dunque una modalità del controllo e i suoi limiti (quelli

della «vera» emergenza, cioè di un potenziale di

trasformazione che non può essere programmato e

nemmeno guidato).

Il controllo delle moltitudini acentriche implica così

livelli diversi: la produzione di regole e istruzioni che

determinano i rapporti locali tra nodi contigui; la

selezione delle condizioni iniziali appropriate; e la

costrizione di scopi e di funzioni di fitness che operano

come dei setacci in uno spazio liquido, cercando

4 Una delle ambizioni delle ricerche sugli automi cellulari, infatti, non è solo quella di costruire una macchina astratta capace di superare i limiti della

macchina di Turing, ma anche quella di modellare la logica della vita. È

proprio la vita ad essere immaginata come una gigantesca macchina computazionale capace di programmare la materia e quindi di generare quella

grande molteplicità di forme che l‟evoluzione ha prodotto sulla terra. In particolare, partendo dalla prospettiva delle «popolazioni» (in questo caso

dalle popolazioni di cellule o di particelle), le ricerche sugli automi cellulari

aspirano a copiare la capacità meccanica della dinamica evoluzionista per inventare forme di vita totalmente nuove. Gli scienziati della vita artificiale

sono in particolarmente ansiosi di evidenziare che qui non si sta parlando di

vitalismo. Non credono che la vita sia una misteriosa qualità capace di produrre degli esseri viventi. Al contrario, come ha fatto notare Langton,

l‟analisi della dinamica evoluzionista nella ricerca sulla vita artificiale è

strettamente meccanicistica (sebbene anti-deterministica). La vita non è una qualità misteriosa che è scesa sulla terra dal Cielo, ma un processo emergente

che deriva dall‟interazione tra una moltitudine di elementi messi in relazione

da connessioni locali. Si veda Langton 1992.

Genere e precarità

199

letteralmente il nuovo e l‟utile. Questi setacci separano

quelle configurazioni che sembrano produrre risultati

statici da quelle particelle dinamiche che deviano di più

dalla struttura. Queste particelle dinamiche non

obbediscono alle leggi della regolarità statistica e

possono operare delle computazioni estremamente

difficili perché non rientrano nel regolare (o

nell‟ordinario). Allo stesso tempo a queste

configurazioni non viene permesso di passare

completamente nel caos, nella quale la turbolenza è così

forte da ostacolare alcun vero controllo. Le particelle

così selezionate iniziano a costituire una zona di confine

mobile e dinamica o un limite attivo capace di una

computazione emergente. Ciò che la macchina di von

Neumann rivela è il contenuto di una particolare

macchina cibernetica di controllo sociale: non una vita

fluttuante minacciata da forze entropiche (come nella

prima stagione della cibernetica), ma un livello di

produzione indeterminata affidata a moltitudini

acentriche che teoricamente non esauriscono mai

l‟energia. L‟oggetto di questo controllo non è una

popolazione intesa come massa a cui dev‟essere

impedito di incorrere in pericolose deviazioni, ma una

molteplicità di campi computazionali distribuiti in uno

spazio fluido e dinamico.

2. De/programmare la moltitudine

Nei tardi anni novanta, le tecniche «fuori controllo»

della computazione biologica trovarono un terreno

particolarmente fertile tra quelle imprese capitalistiche

che sono state sponsor importanti dell‟Artificial Life

Center dell‟Istituto di Santa Fé. Gli automi cellulari

modellano, infatti, con un grande livello di accuratezza i

Genere e precarità

200

margini caotici del socius – zone di estrema mobilità

come le mode, le tendenze, le borse – oltre a tutti i

campi informazionali diffusi e acentrici. La

computazione biologica agisce in parallelo a una serie di

tecniche sociali che provocano e controllano la

formazione di ambienti auto-organizzati dal basso.

Fuori dal medium informatico, cioè, la computazione

biologica esprime un diagramma sociotecnico di

controllo che produce degli effetti di emergenza

manipolando le regole e le configurazioni di un campo

dato.

Se dovessimo osservare gli esperimenti nei sistemi

umani di automazione cellulare, ad esempio, li

troveremmo nei modelli organizzativi della new

economy, come ha documentato l‟etnografia di Andrew

Ross su una azienda della «Silicon Alley» di New York,

la Razorfish. Per Ross, Razorfish, con i suoi uffici open-

plan e la sua forza-lavoro entusiasta che non percepiva

il proprio lavoro nei termini di un vero «lavoro», è stato

un importante esperimento per le sue modalità

organizzative alternative, in grado di capitalizzare le

capacità produttive di una generazione X altamente

alfabetizzata e altrettanto alienata. Razofirsh era

un‟azienda dinamica e turbolenta che si ampliò

esponenzialmente negli ultimi anni novanta, fiera del

suo stimolante ambiente di lavoro che garantiva un alto

livello di innovazione e di professionalità nel design

digitale. L‟ambiente lavorativo di Razorfish era a sua

volta il frutto dell‟incontro tra lo stile di vita

bohemienne della East Coast americana e l‟ecologia

start-up della Silicon Valley – il popolare modello di

produzione decentralizzata delle innovazioni

tecnologiche. In questo senso, l‟esperimento sociale

della new economy, come la stessa computazione

Genere e precarità

201

biologica, era l‟espressione dell‟incontro tra le vette

innovative dell‟economia capitalistica e il riflusso della

controcultura degli anni sessanta con il suo rifiuto delle

forme ripetitive e deprimenti del lavoro.

La descrizione degli uffici della Razorfish fatta da Lev

Manovitch può illustrare ancora meglio questo punto:

quei grandi spazi aperti ospitavano delle

postazioni di lavoro sparse con quasi venti

impiegati […] Lui [il manager] faceva notare

con orgoglio che i lavoratori condividevano lo

spazio indipendentemente dalla loro qualifica

professionale – un programmatore sedeva

accanto ad un progettista di interfacce e a un

web designer (Manovitch 2001, 213).

Per Manovitch il design spaziale era caratterizzato dai

temi chiave della cultura informatica. «l‟interattività, la

mancanza di gerarchia, la modularità». Ma queste

qualità specifiche appartengono anche alle macchine

CA: un mondo privo di qualità nel quale tutti gli

elementi della popolazione vengono concepiti

esclusivamente dal punto di vista delle interazioni locali

con un‟attenzione particolare alla modulazione dei fini e

degli scopi (come quello di rimanere in testa alla

competizione del design digitale). La cultura del lavoro

della new economy era attraversata integralmente dal

movimento di riforma della teoria del management che

valorizzava l‟auto-determinazione di gruppi di

lavoratori nel controllo del processo di produzione

introducendo una nuova serie di regole manageriali

(decentralizzazione, delega, scadenza, ecc.). Il sistema

di automazione cellulare della new economy si dimostrò

essere altamente turbolento e produttivo, ma fu alla fine

epurato come inefficiente dagli algoritmi di un

Genere e precarità

202

capitalismo che stava affrontando un‟altra delle sue crisi

energetiche. Qualunque sia il destino di un singolo

sistema sociale CA, la computazione biologica è

indicativa del modo in cui la produttività dell‟ambiente,

opposto al territorio,viene evidenziata: non come un

sistema chiuso (un popolo, un gruppo, una classe), ma

un campo aperto (una moltitudine dinamica che occupa

e si diffonde in uno spazio liscio).

La computazione biologica ci offre un‟analisi

approfondita della più ampia modalità del controllo

soffice (soft control) che si occupa dello spazio-tempo

della deviazione – quella tra il momento in cui il

modello viene costruito attraverso il posizionamento dei

vincoli, della determinazione locale del comportamento

e il momento dell‟emergenza delle forme utili o

piacevoli che vengono selezionate attraverso l‟esercizio

di una pressione o individuate attraverso l‟elaborazione

di meccanismi di ricerca. Il controllo viene localizzato

ai due estremi del processo: all‟inizio, quando una serie

di regole locali viene messa insieme attentamente e

regolata con precisione: e alla fine quando viene creata

un meccanismo di ricerca o una serie di scopi ed

obiettivi atti a garantire la sopravvivenza della maggior

parte delle variazioni più utili o piacevoli. È in questa

grande cornice che dovremmo inquadrare la definizione

di network data da Kevin Kelly: «un‟organizzazione

strutturata così poco che si può dire quasi non

strutturata», ma anche «una di quelle poche strutture che

incorporano la dimensione temporale. Sono strutture

che rispettano il cambiamento interno. Dovremmo

aspettarci di vedere delle reti ovunque e, osservando dei

cambiamenti irregolari costanti, lo facciamo» (Kelly

1994, 27).

Genere e precarità

203

Non tutti i network possono reggere l‟interazione tra

questi grandi numeri, tra queste moltitudini in continua

variazione. Chi può farlo è il network «a maglia

variabile», una forma capace di accordare tutte le

variazioni e le loro mutazioni, una macchina astratta che

supera il modello per diventare il terreno effettivo dello

studio e della costruzione dei comportamenti complessi

e innovativi. Il network aperto è la realizzazione vasta e

globale di uno stato liquido che spinge fino ai limiti la

capacità dei meccanismi di controllo di costruire le

regole e selezionare gli scopi: «fare operare i

meccanismi genetici online aggira i pesanti limiti dei

meccanismi selettivi, ma porta le condizioni

sperimentali più vicine a veri agenti robotici autonomi»

(Steel in Brooks 2002, 8). La grande scoperta della

svolta biologica non è solo quella della macchina

astratta che può facilitare, contenere e sfruttare i poteri

creativi di una moltitudine (umana e non umana).

Riguarda anche l‟immensa produttività di una

moltitudine, la sua capacità assoluta di

deterritorializzarsi e di trasformarsi. Ciò che conferisce

alla svolta biologica il suo tono mistificato è la scoperta

di questa linea di fuga produttiva che viene associata

all‟imprevedibilità della zona mediana, ad una relativa

autonomia e creatività. Una linea di fuga decodificata e

liberata dai vincoli della programmazione sequenziale

quasi nel momento stesso in cui viene ricodificata e

riportata nei ranghi sotto forma di funzione di efficacia.

Nessuna di queste considerazioni ci allontana tuttavia

dal fatto che il controllo della produzione ha acquisito

un nuovo contenuto: non un semplice assemblaggio di

flussi informazionali e di feedback loops, ma una forza

spontaneamente produttiva ed autonoma, dotata di una

sua attività specifica che viene modellata e determinata

Genere e precarità

204

solo a certi livelli esercitando una pressione selettiva e

moderata. Tra il microdeterminismo locale e le funzioni

di efficacia trascendentali, scopriamo che il potere della

zona mediana può essere controllato solo parzialmente.

È questa zona mediana autonoma e produttiva,

posizionata tra la determinazione locale e la selezione

globale, che il concetto di «emergenza» cattura

parzialmente.

Una delle ragioni per le quali la modellizzazione

dell‟emergenza sembra essere importante è perché essa

offre una chiave per elaborare una modalità di controllo

che non richiede una conoscenza assoluta e totale di

tutti gli stati di ogni singolo componente del sistema o

una rigida semplificazione che regola esattamente e in

maniera sequenziale il comportamento. Questa nuova

modalità del controllo è «soffice», si applica con una

quantità minima di forza e modula «la specializzazione

con la creatività, a chiusura e la replicabilità con

l‟apertura indefinita e la sorpresa» (Cariani 1989, 775).

La macchina astratta del controllo soffice regola

precisamente le condizioni locali che permettono alle

macchine di rispondere alle richieste dei designer

migliorandone le soluzioni,contenendo allo stesso

tempo lo spazio della mutazione possibile. È per questa

ragione che il fondatore dell‟Istituto di Bioeconomia, ad

esempio, sostiene fiducioso la necessità di abbandonare

la dipendenza dalla fisica newtoniana da parte delle

scienze economiche:

laddove l‟economia mainstream è basata su

concetti presi a prestito dalla fisica newtoniana

classica, la bioeconomia prende spunto dagli

insegnamenti della moderna biologia

dell‟evoluzione. Laddove il pensiero ortodosso

Genere e precarità

205

descrive l‟economia come un motore statico e

prevedibile, la bioeconomia guarda

all‟economia come ad un‟ecosistema

informazionale auto-organizzato e caotico.

Laddove la visione tradizionale guarda alle

organizzazioni come a delle macchine

produttive, la bioeconomia guarda alle

organizzazioni come a degli organismi sociali

intelligenti. Laddove la strategia commerciale

tradizionale si sofferma sul capitale fisico, la

bioeconomia ritiene che l‟apprendimento è la

risorsa ultima del profitto e della crescita.5

Ci siamo abituati ad associare a tali affermazioni una

breve fase di euforia economica, ma le nozioni

dell‟auto-organizzazione dal basso di grandi numeri in

spazi fluidi rimangono ancora delle categorie centrali

per la nostra comprensione di un media come Internet.

A molti, infatti, lo strano comportamento di Internet,

specialmente la sua capacità di espandersi e di

trasformarsi senza alcun progetto e senza un

responsabile deputato al controllo centralizzato appare

misteriosamente naturale. Come medium e come

cultura, Internet appare a molti come la macroscopica

dimostrazione dell‟esistenza e della verosimiglianza di

forme organizzative acentriche e senza controllo che

rispecchiano alcune di quelle forme che riconosciamo

nel mondo naturale. Dopo tutto Internet si è sviluppato

principalmente come un‟attività parallela, frammentata

e localizzata al punto che, per Sadie Plant ad esempio,

può essere classificata come un medium auto-

organizzato dal basso (Plant 1996, 206).

5 Cfr. il sito dell‟Istituto di Bionomia: http://www.bionomics.org-

/text/institute/sop.html

Genere e precarità

206

La fama di John Gilmore, uno dei fondatori della

Electronic Frontier Foundation, è dovuta a quella

famosa frase a lui attribuita: «la rete interpreta la

censura come un danno e la aggira» (citato in Rheingold

1994, 7).

Questa frase contagiosa, un ritornello ricorrente della

cultura di Internet, è radicata in importanti

caratteristiche tecniche dello stesso medium e viene

garantita da una cultura socio-tecnica che enfatizza in

ugual misura le forme autonome e diffuse di

organizzazione del lavoro. La popolarità delle reti peer-

to-peer6, del software open source, o dei fenomeni più

attuali come i blog sono solo gli esempi più recenti di

ciò che a molti sembra essere la vitalità intrinseca di un

approccio parallelo e dal basso all‟organizzazione e alla

cultura. La popolarità delle reti peer-to-peer, del

software open source, o dei fenomeni più attuali come i

blog sono solo gli esempi più recenti di ciò che a molti

sembra essere la vitalità intrinseca di un approccio

parallelo e dal basso all‟organizzazione e alla cultura. Si

ritiene che questa spontaneità produttiva sia

intrinsecamente collegata all‟organizzazione diffusa e

decentralizzata di un grande numero di utenti

interconnessi e che essa sia anche una delle

caratteristiche di sistemi sociali, tecnici e naturali. Essa

presenta una produzione eccedente di cooperazione e

interazione che ha letteralmente provocato lo sviluppo

6 P2P: è un modello di comunicazione nel quale ciascuna delle parti ha le

stesse funzionalità e ognuna delle parti può iniziare la sessione di comunicazione, in contrasto con altri modelli come il server/client o il

master/slave. In alcuni casi, la comunicazione P2P viene implementata dando

ad ognuno dei nodi di comunicazione le funzionalità di server e client. Nel linguaggio corrente il termine peer-to-peer viene usato per descrivere le

applicazioni con le quali gli utenti possono, attraverso Internet, scambiarsi

direttamente files con altri utenti.

Genere e precarità

207

di nuove tecniche di controllo. Ciò forse implica che,

Internet come medium e come molteplicità culturale,

attraverso la sua struttura tecnica distribuita e dal basso

è riuscito a replicare alcune caratteristiche del mondo

naturale?

La descrizione di Internet come ecosistema popolato

dalla conoscenza, e come struttura sostanzialmente

auto-organizzata, era comune alla metà degli anni

novanta, quando autori neoliberisti e conservatori come

Alvin Toffler, George Gilder, Esther Dyson e Newt

Gingrich ripudiavano con forza la descrizione del

cyberspazio come «autostrada dell‟informazione»

coniata dall‟amministrazione Clinton. In Essere digitali,

Nicholas Negroponte, il popolare editorialista di Wired

e direttore del Media Lab dell‟MIT, pensava

ugualmente che Internet fosse un notevole

esempio di qualcosa che si è sviluppato

apparentemente senza alcun progettista,

mantenendo la propria forma nello stesso modo

in cui uno stormo di anatre mantiene la propria

(Negroponte 1996, 181).

Le polemiche su tali affermazioni hanno caratterizzato i

conflitti sull‟«ideologia californiana» nei primi anni

novanta, cioè quelle polemiche che contrapponevano il

tecno-utopismo degli imprenditori hippy californiani

alle obiezioni critiche dei sociologi e degli attivisti

culturali. La polemica sull‟auto-organizzazione e sulla

«naturalezza» di Internet divise le cyberculture degli

anni novanta secondo linee ideologiche nette. Tale

opposizione poteva essere possibile in un‟atmosfera in

cui scienziati sociali e umanisti si erano schierati a

favore di un costruttivismo sociale radicale, secondo il

quale il sociale non può essere assolutamente naturale.

Genere e precarità

208

Partendo dalla nozione per cui tutto ciò che è naturale è

immutabile e predeterminato, molti autori hanno

rifiutato l‟analogia tra Internet e i sistemi naturali sulla

base dell'idea (spesso giustificata) che tali affermazioni

implicano una specie di neo-darwinismo sociale. Dire

che Internet è naturale significava sanzionare i danni

causati dal capitalismo rampante del libero mercato

sulle «masse escluse».

Ma questo rifiuto intransigente e spesso veemente delle

«metafore naturali» e delle «analogie», come venivano

chiamate, non trascurava qualcosa? La nozione per cui

Internet presentava delle caratteristiche e dei

comportamenti che potevano essere anche osservati tra i

fenomeni naturali non era semplicemente un‟asserzione

volta a organizzare la percezione sociale di un nuovo

medium. Lo studio del comportamento naturale di

Internet, infatti, non è semplicemente un esercizio

retorico, ma è stato accompagnato da un movimento più

ampio che connette il sociale a componenti naturali e

tecnici. Come abbiamo visto, la svolta biologica non è

semplicemente un nuovo approccio alla computazione,

ma aspira anche ad offrire una tecnologia sociale di

controllo capace di spiegare e di riprodurre non solo il

comportamento collettivo di un network distribuito

come Internet, ma anche i modelli complessi e

imprevedibili del capitalismo informazionale

contemporaneo. Per questo la simulazione del

comportamento di «una moltitudine di azioni

simultanee» viene anche vista come la chiave per

comprendere non solo il comportamento dei mercati

borsistici ma anche quello degli «stili e delle mode»

(Taylor e Soffersero 1992, 8).

La svolta biologica sembra quindi allargarsi dalla

computazione verso un approccio più generale utile a

Genere e precarità

209

spiegare il comportamento dinamico di Internet, la

cultura della rete, i campi dell‟innovazione e dei mercati

«deregolamentati» contemporanei – tutte quelle

strutture sociali, tecniche ed economiche che sono

caratterizzate da un‟interazione distribuita e dinamica di

grandi numeri di elementi privi di controllo centrale.

Questi sistemi non sono privi di struttura o di forma, ma

sono minimamente strutturati o semi ordinati. Se i flussi

turbolenti dell‟informazione che derivano «da una

moltitudine di azioni simultanee non lineari» non sono

proprietà esclusive di Internet e delle economie di

mercato, ma possono essere osservate anche in una

molteplicità di fenomeni naturali, allora è abbastanza

appropriato che questo potenziale specifico del mondo

naturale debba diventare oggetto di un forte interesse

tecnico, culturale e economico. Il «business network»

dell‟Istituto della Complessità di Santa Fé, ad esempio,

riceve finanziamenti dalla Citibank/Citicorp, dalla

Coca-Cola, dalla Hewlett-Packard, dalla Intel, da

Interval, da John Deere, dalla Shell International B.V.,

da Xerox e da numerose società di consulenza

finanziaria.

Quasi dall‟inizio, l‟amministratore delegato di

Citibank/Citicorp si interessò al Santa Fé

Institute ed aiutò il programma dell‟istituto

volto a comprendere l‟economia mondiale

come un sistema complesso in evoluzione (Helreich 2000, 47).

Tutte le discussioni su Internet come fenomeno naturale

sembrano perciò essere connesse col problema della

riformulazione del controllo in termini che sono più

appropriati al comportamento di quelle nuove entità che,

come ha scritto Ilya Prigogine, la ricerca scientifica e

Genere e precarità

210

tecnologica contemporanea ha riscoperto dopo anni di

disinteresse: i sistemi aperti soggetti ad una grande

molteplicità di variabili semi-autonome. Sono due i

modi nei quali il controllo viene definito dal punto di

vista cibernetico: l‟opposto della razionalità meccanica

(la programmazione step-by-step), che è troppo rigida e

in definitiva troppo fragile per operare su un simile

terreno; e anche l‟antitesi al governo centralizzato che

presuppone una conoscenza completa di ogni singolo

componente del sistema generale, cosa impossibile da

raggiungere in questo tipo di strutture. Il taylorismo e la

governamentalità vengono entrambi rifiutati perché

ritenuti inadatti alla gestione di questo nuovo terreno

turbolento ma anche enormemente produttivo. Allo

stesso tempo, anche il controllo cibernetico, quello

associato alle prime ricerche di Norbert Wiener, viene

ripudiato. Non è più sufficiente neutralizzare tutti i

feedback positivi, cioè tutte le nuove variazioni e

mutazioni, allo scopo di riportare il sistema ad uno stato

di equilibrio (il controllo negativo alla fine viene

ritenuto inefficace per tenere a bada le forze del caos). I

sistemi aperti e produttivi studiati dalla svolta biologica

operano, per definizione, in condizioni lontane da ogni

equilibrio, sempre sospesi tra due strati o condizioni:

una rigida, immobile e in definitiva sterile, associata alla

permanenza e alla stasi; l‟altra caotica e turbolenta,

sempre sul punto di essere investita da trasformazioni

inattese e potenzialmente catastrofiche. Il problema

delle modalità contemporanee del controllo è quello di

dirigere le attività spontanee di tali sistemi verso livelli

che vengono ritenuti preferibili e desiderabili. Siamo

quindi giunti alla definizione di un nuovo piano

biopolitico che può essere organizzato con lo sviluppo

Genere e precarità

211

di un controllo immanente che opera direttamente nel

potere produttivo della moltitudine e del clinamen.

3. Il gene infelice

Sembra allora che la scienza delle moltitudini abbia

rinunciato definitivamente all‟individuo che viene

considerato un epifenomeno troppo grossolano e rigido

per essere qualcosa di più che un sottoprodotto

dell‟emergenza. Se esiste una macchina sociale astratta

del controllo soffice (soft control), essa parte dalla

produttività di una moltitudine acentrica e senza capi.

D‟altro canto potremmo dire dell‟individuo quello che

Michel Foucault diceva della famiglia nella sua analisi

della nascita della governamentalità nello stato

moderno. Parlando del nuovo ruolo della famiglia nella

governamentalità, Foucault sostiene che la famiglia

scompare come modello, ma viene mantenuta come

strumento di governo. Potremmo dire una cosa simile

sullo sviluppo del soft control. Il nuovo ruolo

dell‟individuo nella modalità immanente del controllo

non è quello di un modello per l‟organizzazione di una

moltitudine, ma di uno strumento che permette la

surcodificazione e il contenimento definitivo dei poteri

produttivi dei flussi. La decodificazione delle masse

nella cultura network, la dissoluzione dell‟individuo nei

poteri produttivi di una moltitudine, corrisponde ad una

sovra-codificazione della moltitudine nell‟elemento

individuale che è l‟unità del codice ricavato dalla

nozione biologica del gene.

Nella mescolanza dei saperi disciplinari creata dalla

computazione biologica, infatti, incontriamo la

controversa tesi di pensatori della socio-biologia come

Richard Dawkins, l‟autore del popolare bestseller

Genere e precarità

212

scientifico Il gene egoista. Per semplificare un po‟ la

ricerca di Dawkins, potremmo dire che lui pensa che le

variazioni delle popolazioni siano determinate dalla

condotta «egoista» dei geni individuali; questa condotta

egoista li obbliga a riprodursi a spese degli altri geni

competitori; il corpo umano, o l‟intero mondo della vita

organica e inorganica, è soltanto l‟insieme delle

periferiche attraverso le quali i geni egoisti cercano di

riprodursi e di proteggersi entrando in competizione gli

uni con gli altri in un ambiente caratterizzato da scarse

risorse. Dawkins stesso ha sperimentato la

computazione biologica (e ci ha scritto un libro,

L’orologiaio cieco).

Il concetto di gene egoista è fondamentale per la

computazione

biologica, e quindi è rilevante per la nostra

comprensione del controllo soffice (soft control).

Questa non è solo una questione di affinità ideologica

tra l‟ambiente maschile e bianco dei ricercatori della

vita artificiale (descritto da Stephen Helmreich) e la

prospettiva socio-biologica. Non si tratta di dimostrare

che la computazione biologica è stata influenzata dalla

socio-biologia quanto di sottolineare come esse

condividano un sentito apprezzamento della necessità di

suddividere in qualche modo il tessuto fluido di una

popolazione allo scopo di ricreare sintesi artificiali delle

capacità computazionali della vita naturale.

In questo senso, la ricerca socio-biologica di Dawkins

non informa quanto invece chiarifica le modalità

secondo le quali l‟individuo trova un nuovo ruolo da

giocare sul piano aperto dell‟emergenza. Dawkins

definisce il gene in termini computazionali:

Genere e precarità

213

il gene è una sequenza di lettere nucleotidi

comprese tra il simbolo di START e quello di

END e la codificazione di una catena proteica.

Ciò che caratterizza questa unità è la sua

capacità di riprodursi e di sopravvivere in una

grande quantità di copie individuali consecutive (Dawkins 1994, 26).

Non esiste alcuna misura fissa per tali unità: «sto

usando la parola gene per indicare un‟unità genetica

abbastanza piccola da durare per un grande numero di

generazioni e da essere distribuita nella forma di diverse

copie. Questa non è una definizione tipo “o tutto o

niente”, ma una specie di definizione a sfumare come

quella di “grande” o “vecchio”. Più è probabile che una

data porzione di cromosoma possa essere spezzata da

uno scambio o alterata da mutazioni di diversi tipi,

meno può ambire ad essere chiamata gene nel senso in

cui sto usando questo termine» (Dawkins 1994, 34-55).

Questa unità è dotata di una ristretta serie di capacità:

quella di replicarsi, dove il replicarsi è una specie di

mobilità dinamica, perché duplicandosi i geni tendono

anche a variare; la capacità di competere per

impadronirsi di risorse scarse; e la capacità di

cooperare, ma solo se la cooperazione si adatta agli

scopi egoistici del gene, cioè alla sua libertà di

replicarsi. Ciò che ho fatto è aver definito il gene come

unità che, ad un alto livello, si avvicina all‟ideale della

particella indivisibile. Un gene non è indivisibile, ma

viene diviso raramente. Ma è senza dubbio presente o

assente nel corpo di ogni dato individuo (Dawkins

1994).

Ciò che la teoria di Dawkins permette è la sostituzione

dell‟individuo con quell‟unità che Deleuze ha chiamato

il «dividuale», il risultato del «taglio» delle mutazioni

Genere e precarità

214

polimorfe e tuttavia indeterminate di una moltitudine

(Deleuze 1995). Dawkins è molto esplicito nel definire

l‟individuo come unità base inadeguata per le colossali

capacità computazionali che sono alla base del processo

evolutivo. Non è un problema di immortalità perché i

geni individuali o le unità del codice non sono

immortali; essi emergono in certi momenti dalle

interazioni chimiche presenti nel continuum turbolento

della materia-energia e moriranno un giorno, anche se la

durata media della loro esistenza può essere misurata in

migliaia e persino milioni di anni. I geni non sono

tuttavia degli individui ma unità nel senso che non

invecchiano, non sono mai giovani né vecchi, cioè non

sono soggetti alla seconda legge della termodinamica

che decreta che l‟organismo individuale è destinato a

morire e a decadere.

Sono due le cose che contano per le unità

informazionali: la capacità di riprodursi e di

sopravvivere nelle loro numerose copie, oppure il

fallimento del processo di riproduzione e quindi la loro

scomparsa. In questo senso, la vita di un‟unità

informazione è di tipo binario: non invecchia né

ringiovanisce; o esiste o non esiste; esso è un taglio nel

corpo della moltitudine che la rende più trattabile dal

punto di vista della replicabilità e della sintesi di un tipo

specifico di diagramma di controllo.

La definizione di gene data da Dawkins trova perciò la

sua migliore applicazione nella svolta biologica perché

definisce il gene per mezzo del taglio che attribuisce ad

un programma un inizio e una fine funzionali. Le

competenze computazionali dell‟unità-gene non

vengono costruite o attribuite da Dawkins al gene ma,

sulla base della conoscenza scientifica e della ricerca

contemporanea, è stato dimostrato che queste

Genere e precarità

215

competenze corrispondono ad alcune capacità delle

molecole genetiche. Tali competenze forniscono anche

il concetto base attraverso il quale la svolta biologica è

riuscita a trasformare queste idee in programmi software

funzionanti, capaci di produrre i propri fenomeni

emergenti.

In questo senso, l‟analisi del gene condotta da Dawkins

dimostra di essere veramente rilevante al fine di

modellare leggi naturali all‟interno di una macchina

tecnica. Se il gene è un‟unità di codice, che è

identificabile come ciò che giace tra due simboli, uno

che designa START e l‟altro END, allora esso può

essere facilmente codificato da un computer. Se si

scrivono parecchie unità di codice e le si lascia libere di

cercare la propria sopravvivenza attraverso la

replicazione, ad un certo punto esse manifesteranno

diversi gradi di comportamento emergente. Al livello

della simulazione, identificare un‟unità di codice con un

individuo permette di manipolare meglio e di aumentare

di molto la possibilità di determinare e di applicare le

regole locali al comportamento. L‟unità di codice

permette anche l‟identificazione delle unità che possono

essere ricompensate o punite, selezionate o rigettate. La

computazione biologica afferma che l‟organismo

limitato contiene sia il pre-individuale che il collettivo –

due livelli dell‟essere che sono infinitamente più

produttivi di quello individuale in quanto tale. Questi

livelli sono più produttivi perché non producono

termodinamicamente, come ad esempio l‟organismo,

che brucia calore e progressivamente giunge ad un lento

decadimento ed infine alla morte: come abbiamo visto,

le unità del codice sono mortali, ma non invecchiano.

Sono unità che possono anche non esistere, ma quando

esistono sono sempre potenzialmente produttive – anche

Genere e precarità

216

se non è facile determinare che cosa esse effettivamente

producano. La critica più diffusa alla teoria di Dawkins

da parte dei sociologi e dei teorici culturali è quella per

cui questa unità di codice viene qualificata come

«egoista», cioè viene sovrapposta ad una qualità che

appartiene a piani molto diversi dell‟organizzazione–

quelli dell‟apparato protestante-capitalistico della

soggettivazione.

Perché un‟unità di codice dovrebbe essere assoggettata

all‟universo morale del Bene e del Male dove

l‟«egoismo» e l‟«altruismo» trovano la loro

collocazione?

Nel passaggio dalla descrizione del gene come unità del

codice a quella meno convincente che ritrae il gene

come un «egoista», un «sindacalista» oppure come un

«gangster di Chicago», è accaduto qualcos‟altro. L‟unità

del codice che conosciamo come gene è tornata alla sua

dimensione individuale ed in questo modo ha assunto

gli attributi dell‟egoismo e dell‟altruismo, della

competizione e della cooperazione. La modalità di

esistenza di un gene egoista (l‟individuo) opposta a

quella del gene (l‟unità di codice, l‟algoritmo genetico)

è la distanza che separa la simulazione della vita

molecolare dall‟asussunzione dei poteri di una

moltitudine in una cultura network.

Se il gene è un‟unità di codice che realizza una

macchina computazionale, il gene egoista è la funzione

assoggettante che trasforma la moltitudine in un

assemblaggio di individui isolati. L‟egoismo del

soggetto del capitalismo informazionale ha poco a che

vedere con i geni veri e propri. Come ha ammesso lo

stesso Dawkins, i geni non possiedono «intenzionalità»,

ma obbediscono ad oscuri impulsi dettati da complesse

leggi chimiche. Senza intenzionalità allora non esiste

Genere e precarità

217

l‟Io e quindi nemmeno l‟egoismo. Ma la parola

«egoismo» tradisce tuttavia alcune delle modalità con le

quali i poteri sociali della moltitudine vengono sussunti.

L‟egoismo viene definito da Dawkins come la tensione

socio-biologica tra la competizione e la cooperazione –

dove il gene è una macchina calcolante che soppesa i

vantaggi derivanti dalla cooperazione o dalla

competizione per conquistare il premio della

sopravvivenza. Se il gene egoista è un soggetto è perché

pensa e può pensare solo due cose: in una situazione

particolare, accresco le mie possibilità di sopravvivenza

cooperando con le altre unità? Oppure faccio meglio a

preoccuparmi solo di me stesso e dei miei interessi

senza pensare agli altri? L‟egoismo rinchiude lo spazio

aperto della moltitudine nel buco nero

dell‟assoggettamento.

Il gene egoista è un diagramma elementare degli

apparati della soggettivazione che la macchina astratta

del controllo soffice (soft control) distribuisce e

perpetua non tanto tra le molecole quanto tra le

collettività. La televisione, medium culturalmente

sensibile qual‟è, è stata veloce nel raccogliere e

amplificare questi meccanismi in un modo che completa

la nostra analisi del soft control della svolta biologica. I

giochi della Tv dei reality come il Grande Fratello,

L’isola dei famosi e Amici drammatizzano le tensioni

schizoidi che emergono quando il soggetto viene

collocato in una macchina astratta che impone la

coesistenza di competizione e di collaborazione sotto

l‟egida dell‟egoismo. Si è molto parlato di come la new

economy abbia rovesciato la classica enfasi malthusiana

sulla scarsità delle risorse per promuovere la promessa

illimitata dell‟abbondanza nel campo digitale.

Genere e precarità

218

Nei giochi della Tv dei reality ritroviamo i contorni

delle forme peculiari della competizione post-scarsità, e

i loro impulsi psichici, che sono diffusi nelle culture

capitalistiche informazionali. In quanto format, i reality

possono essere visti come degli automi cellulari che

operano sussumendo un segmento dell‟audience

televisiva in uno spazio che è sia chiuso (una casa,

un‟isola) sia aperto (soggetto ai capricci delle

classifiche e dei voti popolari). Questi reality chiedono

l‟impossibile dai loro volenterosi partecipanti. Che

rinuncino ad esempio alla loro individualità essendo

forzati ad interagire continuamente con un gruppo che

deciderà sul loro destino (e per questo devono diventare

un‟unità pronta per la selezione); che rinuncino alla loro

opacità consegnandosi alla sorveglianza continua

dell‟occhio della telecamera; e, allo stesso tempo, gli

viene chiesto di resistere e di rafforzare la loro

individualità per partecipare alla struttura che elargisce

punizioni e premi durante il gioco. I reality richiedono

dunque un Io ridotto alla capacità di cooperare e di

competere seguendo rigorosamente le regole che

operano in un‟economia che elargisce punizioni e premi

i quali determinano la persistenza, o la scomparsa,

dell‟Io in quanto tale.

Le dinamiche di gruppo che vengono generate dalla

distribuzione dello spazio, la serie delle condizioni

iniziali, lo stato delle celle nel sistema (la

competizione), e le regole applicate da una entità

trascendentale (la voce del grande Fratello) producono

una specie di «intrattenimento emergente». Ad un

livello immediato, nei reality il premio viene assegnato

al singolo contendente che sarà capace di vincerlo. Ad

un livello più a lungo termine, il premio della

competizione è il flusso fluttuante, e mai scarso,

Genere e precarità

219

dell‟attenzione e della simpatia del pubblico che

dall‟esterno continua ad influenzare il gioco

spingendolo verso un‟instabilità claustrofobica. Franco

Berardi (Bifo) ha descritto accuratamente gli effetti di

queste pressioni contraddittorie sulle soggettività

informazionali in termini di «fabbrica dell‟infelicità»

(Berardi 2001).

È comprensibile allora che la ribellione contro la

struttura claustrofobica dell‟egoismo (con i suoi due

poli della competizione e della cooperazione) sia

esplicitamente caratterizzata dal rifiuto di essere

assoggettati come geni egoisti che lottano per la

sopravvivenza alle spese degli altri. Le aree culturali

della Rete che offrono più stimoli a proposito della

questione del controllo sono quelle che derivano dalla

scelta dell‟interazione chimica in rapporti di affinità e/o

di antagonismo in uno spazio che è radicalmente aperto

rispetto a quella che deriva dalla cooperazione/egoismo

tipico di una struttura soggettiva chiusa. Non l‟altruismo

contro l‟egoismo, ma relazioni di affinità e di

antagonismo (quindi un‟economia di relazioni

totalmente differenti) che sorvolano lo spazio

individuale senza ridurlo ad un‟unità, liberandone così

un potenziale trasformativo, ma anche potenzialmente

catastrofico.

Dal punto divisa della macchina astratta del controllo

soffice (soft control), non esiste alcuna differenza

ontologica tra la minaccia di una rete globale di

terroristi capace di portare attacchi devastanti al cuore

dell‟Impero e la minaccia di una rete globale di attivisti

anti-capitalisti (da qui le ricorrenti e contestate

insinuazioni, dopo l‟11 settembre, sull‟analogia tra il

movimento no global e quello terrorista), o tra il

comportamento tra soggetti connessi che si scambiano

Genere e precarità

220

file protetti da copyright senza pagare nelle reti peer-to-

peer. Non si può naturalmente sostenere che siano la

stessa cosa o che le sanzioni per questi due fenomeni

possano essere paragonabili, – i loro rispettivi potenziali

creativi e distruttivi devono essere valutati

diversamente. Ma dalla prospettiva di questa modalità di

controllo cibernetico essi esprimono aspetti diversi della

medesima rivolta: il rifiuto della condizione esistenziale

di convivere con un Io egoista denudato, dotato della

capacità intossicante di creare una moltitudine, ma

ricodificato nel buco nero claustrofobico della struttura

egoista (cooperazione/competizione). Dalla prospettiva

degli ingegneri del controllo queste deviazioni

costituiscono una minaccia perché rifiutano i vincoli

fondamentali del sistema, cioè la micro-modulazione

del dividuale. Queste deviazioni potrebbero andare fuori

controllo, dirigersi cioè verso un nuovo piano, le cui

conseguenze non solo non possono essere

predeterminate, ma potrebbero anche, un giorno,

dirigere brutalmente il gioco verso trasformazioni

catastrofiche. Esiste certamente una grande differenza

tra quei piccoli pezzi di codice che conosciamo come

algoritmi genetici e automi cellulari e la dinamica della

resistenza politica nelle società della rete – una

differenza che si attualizza nella divergenza e nella

turbolenza.

Il gene egoista, non è tuttavia solo una mera metafora, o

una moralizzazione della vita naturale o una

giustificazione ideologica della competizione assassina

che va in scena nell‟economia del libero mercato, ma in

maniera più insidiosa una tecnica. È una modalità di

sussunzione del valore prodotto da una cultura sempre

più interconnessa e interdipendente poiché questa

cultura è anche un‟industria– e quindi una modalità del

Genere e precarità

221

lavoro. In realtà, questo valore scambio e

dell‟equivalenza, nei testi dei post-operaisti italiani

viene abitualmente definito come «biopotere del lavoro»

– cioè un potere che crea e ricrea il mondo attraverso la

reinvenzione della vita. Nulla può essere più lontano e,

allo stesso tempo, più vicino ai modelli della

computazione biologica. Questo dice molto della posta

in gioco nel controllo, e nell‟emergenza, delle società

della rete.

4. Coda sul soft control

Se apriamo una finestra su un‟inchiesta critica e

un‟analisi concettuale della computazione biologica

oltre la critica decostruzionista, stiamo necessariamente

facendo il gioco del potere, quello di accettare la

naturalizzazione delle relazioni sociali? In un certo

senso sì, nella misura in cui è il gioco del potere che qui

identifica e decreta un‟indeterminazione del sociale e

del naturale nel continuum microfisico che nega

all‟umano lo stato ontologico dell‟eccezione.

D‟altra parte, oltre la facile retorica delle apologie neo-

liberali sull‟auto-organizzazione, il naturale che emerge

dalla computazione biologica è altrettanto artificiale

quanto lo è il sociale – e infatti è l‟artificialità del

naturale che viene rilevata e reinventata dal sociale. In

questo senso, la computazione biologica pone alla

cultura network più ampia due interessanti problemi. Da

una parte, ci sfida a pensare in che modo una certa

organizzazione distribuita possa diventare anche il

campo dello sviluppo di una nuova modalità del

controllo. Per questo motivo trasporta la nozione di

auto-regolazione e organizzazione dei grandi numeri

fuori da ogni panorama utopico e la pone saldamente

Genere e precarità

222

nell‟orizzonte di modalità emergenti di potere. In altre

parole, l‟auto-organizzazione non è incompatibile con il

controllo trascendentale o con la «fabbrica

dell‟infelicità» assemblati dal capitalismo

informazionale.

D‟altra parte, però, è affascinante pensare che la

computazione biologica e le scienze dell‟emergenza ci

offrono un modo per confrontarci con il concetto

politico di «moltitudine» oltre la tentazione di

ricostituire un nuovo, indefinito soggetto della storia. La

moltitudine di Michael Hardt e Toni Negri in Impero,

adottata dagli ambienti militanti della cultura della rete,

indica una modalità di militanza politica che si colloca

fuori dal modello maggioritario e rappresentativo delle

democrazie moderne e la relaziona alla ricomposizione

all‟interno dell‟esperienza di classe. Diversamente dalla

classe, la moltitudine non è radicata in una solida

formazione di classe o su una funzione di

soggettivazione (sebbene derivi anch‟essa da una

composizione di classe specifica). «Moltitudine» è un

concetto troppo indefinito per reggere un simile potere.

Per Franco Berardi (Bifo), «la nozione di moltitudine

descrive la tendenza alla dissoluzione, all‟entropia che è

diffusa in ogni sistema sociale e che rende impossibile

(«asintotico», indefinito e interminabile) il lavoro del

potere, ma anche quello dell‟organizzazione politica»

(Berardi 2002).

Come i campi lisci della computazione biologica, anche

la moltitudine è un termine necessariamente vago che

viene definito principalmente da una fluidità di

movimento e dalle formazioni che tale fluidità lascia

dietro di sé come risultato di un retro-effetto.

In sé la moltitudine non nega l‟esistenza di una

stratificazione identitaria come quella della classe, ma si

Genere e precarità

223

apre su una dimensione nella quale tali posizioni

vengono comprese in relazione ad altri tipi di capacità.

Se questo è il caso, allora la computazione biologica

(nel senso più ampio possibile) è un tentativo di

«de/programmare la moltitudine» – decodificare e

ricodificare il sociale al suo stato più fluido e meno

stratificato, ovunque esso sfugga alle costrizioni delle

rigide forme dell‟organizzazione, ma anche a quelle

dell‟identità e della classe. Oltre le applicazioni

semplificatrici, il modello dell‟automazione cellulare

potrebbe offrire molto a tutti i tentativi di pensare sia i

processi di auto-organizzazione dal basso che di

emergenza nella cultura network, sia il loro rapporto con

la riorganizzazione delle modalità capitalistiche di

produzione e dei potenziali politici che tale

riorganizzazione rimette in moto. De/programmare la

moltitudine è ancora un gioco aperto.

Post-scriptum sul neurone sociale (giugno 2011)

Nei sette anni intercorsi tra la prima scrittura di «Soft

Control» e la presente pubblicazione, molte cose sono

accadute. Dal punto di vista dei temi esplorati in questo

saggio, appare rilevante non solo la crisi del

neoliberalismo, che è anche la crisi, come è stato

sostenuto, del modello di misurazione del valore

prodotto dalla cooperazione della moltitudine, ma anche

la forza emergente delle piattaforme di social

networking che si apprestano a divenire il medium di

massa globale egemonico post-televisivo. Questi eventi

sono sicuramente in relazione con lo spostamento di

enfasi avvenuto nelle scienze delle complessità che

avevano fornito alla computazione biologica i modelli

matematici necessari alla simulazione della vita. Questo

Genere e precarità

224

spostamento va dalla cellula biologica qualunque alla

cellula neuronale, e quindi in generale dal

funzionamento della vita al funzionamento del cervello.

I nuovi modelli computazionali che vengono sviluppati

dalla new economy, inoltre, non hanno per contenuto più

semplicemente la capacità genetica della vita di

replicarsi e differenziarsi, ma le masse crescenti di dati

generati dall‟interazione sociale su Google, Facebook,

Twitter e così via. La continuità con il modello della

computazione biologica è data dalla centralità degli

algoritmi nel trattamento di questo tsunami di dati

sull‟interazione sociale, privatizzati dalle grandi aziende

del Web 2.0. Il valore prodotto dall‟algoritmo del web

sociale è, prevalentemente, il profilo dell‟utente su cui

basare il marketing individualizzato da vendere

all‟azienda interessata. Le forme del lavoro della new

economy si sono sempre più precarizzate in un contesto

in cui la risposta prevalente alla crisi è l‟inasprimento

della ricetta neoliberale, e quindi l‟ulteriore espansione

della precarizzazione della vita. Le reti sociali sono

diventate il medium della produzione e organizzazione

della rivolta a questo stato di cose.

In questo quadro, è ancora presto per capire in che

modo si evolveranno le nuove tecnologie di controllo

sociale, eppure possiamo già osservare un mutamento

sostanziale rispetto alla new economy della

computazione biologica. Il neurone e il cervello non si

lasciano sovradeterminare dal livello biologico. Gli

elementi neuronali che costituiscono una moltitudine in

movimento non producono semplicemente variazioni

economicamente valorizzabili, ma mobilitano quelle che

Gabriel Tarde oltre un secolo fa definiva le forze sociali

del cervello-memoria amplificate dalle tele tecnologie:

forza del credere e del desiderare che si realizzano

Genere e precarità

225

sempre in una relazione sociale, in una circolazione

infinita di idee, opinioni, credenze, desideri e bisogni

che si compongono e decompongono incessantemente,

producendo eccedenze che non solo non si lasciano

misurare dal mercato, ma addirittura vi si rivoltano

contro. Il passaggio dalla vita artificiale alla rete sociale,

dal gene al neurone apre la grande crisi del

neoliberalismo e la costruzione di nuovi modi di vivere

socialmente.

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Genere e precarità

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raccontarsi

Donne, Migrazioni e Precarietà Focus group tenutosi all’Università di Napoli

“l’Orientale”1

a cura di Manuela Coppola, Lidia Curti, Marie Helene Laforest,

Laura Fantone e Susanna Poole

Negli ultimi decenni, dal dopoguerra, l‟epoca e la

sensibilità postcoloniale si sono sviluppate di pari passo

con lo sgretolarsi degli stati nazione e l‟incremento di

rifugiati; dati dell‟Onu descrivono un aumento di

povertà tra le donne soprattutto nell‟epoca del

commercio globale. Le ondate migratorie sono cresciute

gradualmente dagli anni settanta, specialmente le grandi

migrazioni motivate da disparità economiche. Questi

ultimi flussi sono un fenomeno recente in Italia e

coinvolgono il paese solo da un paio di decenni poiché,

fino alla metà degli anni sessanta, era l‟Italia ad

esportare manodopera in altri paesi europei.

Nell‟Italia contemporanea, in cui si delineano

simultanei processi di immigrazione e de-

industrializzazione, una simile dinamica lega l‟odierna

1 Partecipanti al focus group: Nirmal Puwar (Feminist Review); Lidia Curti

(Orientale); Gaia Giuliani Università di Bologna); Enrica Capussotti (Istituto

Universitario Europeo); Igiaba Scego; Gabriella Kuruvilla (scrittrici, autrici

del volume collettaneo Pecore Nere, 2005); Marie-Hélène Laforest (Università l‟Orientale di Napoli); Manuela Coppola, Angela Bernal Laura

Fantone, Susanna Poole (Università l‟Orientale di Napoli); Julia Lagaskaia,

Wioleta Sardyko (FIsCAM CGIL); Jackie Andall (Bath University); Francesca Pozzi (Sconvegno), Manuela Galletto (Sconvegno); Sveva

Magaraggia (Sconvegno); Mariangela Orabona (video); Serena Guarracino

and Marta Cariello (traduzioni); Sonia Sabelli (ospite).

Genere e precarità

229

crisi dei diritti di cittadinanza e dello stato sociale

all‟arrivo di cittadini nuovi, non nativi. In questo

scenario ci interroghiamo sulle condizioni delle vite

migranti e femminili, cercando di evitare facili

vittimismi o un multiculturalismo superficiale, pur

affrontando le questioni dello sfruttamento e soprattutto

dei razzismi come pratiche quotidiane che stanno

prendendo forma nelle interazioni sociali, definendo una

microfisica del potere.

Dal punto di vista politico, la precarietà femminile

rappresenta il punto di partenza che ci permette di

immaginare una condivisione di voci e racconti. Nel

riconoscere le differenze tra esperienze e appartenenze,

proponiamo un dialogo per aprire uno spazio in cui

intendiamo condividere strategie e osservazioni sulle

complesse dinamiche dell‟Europa contemporanea, in cui

le disuguaglianze economiche, sociali e di diritti

demarcano fratture e distanze sempre maggiori tra

cittadini e non, bianchi e non, giovani e meno giovani,

mascolinità egemone e non, tra nord e sud.

Tuttavia, poiché l‟Italia è il luogo in cui vogliamo

circoscrivere la nostra ricerca, dobbiamo notare alcune

specificità spazio temporali che attraversano questo

contesto, complicando le analisi generali. Le differenze

tra nord e sud del Mediterraneo e dell‟Italia ci

interessano particolarmente, dato che nel meridione di

oggi le differenze di genere sono fortemente marcate

secondo dinamiche di potere tradizionali. Da queste

premesse discendono due domande: come queste

caratteristiche storiche e territoriali creano alcune

precondizioni dell‟accoglienza alle migranti? Quali

forme di ostilità e ospitalità si delineano nell‟Italia

contemporanea?

Genere e precarità

230

Nel delineare punti comuni che proponiamo per il

dialogo, non possiamo che partire dalla vita quotidiana,

cioè dagli spazi comuni alle donne che vivono nella

precarietà, per poi muoverci verso gli spazi discorsivi

che circondano e modellano le vite migranti e precarie.

La precarietà ci interessa come pratica fatta di strategie

identitarie attive, «cucite» insieme dalla creatività delle

donne. Questo lavoro di inventarsi per vivere negli

spazi del razzismo si articola attraverso la lingua e le

parole che narrano questa complessa esperienza. Il

nostro gruppo di discussione intende infatti coniugare i

nodi della precarietà e delle migrazioni alla luce degli

spazi della narrazione; partendo da questo punto, ci è

sembrato cruciale interrogarci sulla presenza e assenza

nel discorso pubblico delle voci di donne migranti.

Se le migranti tessono nuove identità traducendo e

creando legami nuovi, che spazi esistono per parlare di

questi processi? Quali storie diventano udibili nel

discorso pubblico? Quali altre restano sussurri privati?

Quali restano del tutto in silenzio? Chi riduce al silenzio

chi?

Spesso nel discorso pubblico si nomina il migrante

associandolo al pericolo, o alla vittima. In entrambi i

casi chi parla non è un soggetto femminile migrante. La

domanda cruciale della rappresentazione diventa quindi:

Chi parla per chi? Chi legittima chi, parlando o

scrivendo? A chi è permesso parlare? Perché si dà voce?

Per legittimare o per essere legittimati? Quando la voce

dell‟altro/a legittima la nostra voce? Quali sono i confini

del dare voce? Quali sono i limiti di un discorso

interculturale che ascolta solo chi interviene secondo le

modalità predefinite dall‟Occidente? Quando si ergono

barriere, più o meno consapevolmente, che si

trasformano in gerarchie, divisioni e razzismi?

Genere e precarità

231

Prendendo le mosse da questi interrogativi vorremmo

analizzare e sperimentare nel nostro incontro di

discussione la legittimità e le modalità del parlare

per/con/presso all‟altra o le altre. Al focus group di

Napoli hanno infatti partecipato donne migranti e

italiane coinvolte in modi diversi, personale e

professionale, culturale e artistico, con le esperienze

della migrazione femminile nell‟Italia meridionale

(alcune attive negli spazi istituzionali dedicati

all‟immigrazione, altre studiose di letteratura e critica

femminista e post-coloniale, altre ancora impegnate in

progetti artistici con le donne migranti in carcere).

Come interrogare e resistere i luoghi comuni sulla

migrazione come discorso?

Introduzione (di Lidia Curti)

Nel contesto specifico non si può che riferirsi alle

condizioni dell‟Italia meridionale come luogo che crea

dinamiche che legano genere e lavoro in modi differenti

che altrove. A Napoli, nel sud, c'è la memoria

dell‟emigrazione e quindi vi è una sorta di «simpatia»

verso i migranti, che si trasforma in pietismo e

vittimizzazione anche sotto la spinta della Chiesa

Cattolica. L‟immigrato rimane sempre lo straniero oggi,

estraneo al corpo politico.

Questo incontro vuole anche affrontare il tema della

migrazione e della precarietà come narrazione e

immaginario; la produzione discorsiva è quindi al centro

di questo focus group. La domanda chiave che ci

riguarda in quanto ospiti è: chi parla per chi? Noi, che

siamo la metà femminile, parliamo per l‟altra, cioè la

donna migrante. Eppure Igiaba e Gabriella ci

dimostrano come, per fortuna, ora anche l‟altra donna

Genere e precarità

232

abbia cominciato a parlare di sé. Secondo me è

necessario che le donne occidentali parlino accanto e

non «per o al di sopra delle» donne non occidentali.

Chandra Mohanty dice: «non commettiamo l‟errore di

Marx di aver creduto di poter parlare per la classe

operaia, e non permettiamo che “ci parlino” come

vittime».

1. Il viaggio e il sogno dell’Ovest

Manuela Coppola: comincerei con l‟affrontare i punti

che erano contenuti nel nostro documento. Viaggio

come necessità, desiderio e transito, dall‟origine

all‟arrivo: il problema è che spesso non ci si sente mai

arrivati, ma in eterna partenza. Questo, che potrebbe

essere definito «pendolarismo a lunga distanza»,

complica le categorie classiche. È anche importante

parlare di come si immagina la partenza prima che essa

abbia luogo. Come si negozia un‟esistenza sempre in

tensione tra desideri di partenza e previsione del ritorno.

Si tratta, infatti, anche di un viaggio nell‟altra lingua e

nell‟altra cultura, il viaggio può essere vissuto come

liberazione, o come rafforzamento delle limitazioni. C‟è

poi uno spazio per l‟autonarrazione, per l‟espressione

creativa.

Jackie Andall: in questi ultimi anni ci sono stati degli

enormi cambiamenti nelle migrazioni femminili in

Italia. Porto l‟esempio delle donne capoverdiane

all‟inizio degli anni novanta a Roma (migrazione tipica,

stanziale: erano arrivate negli anni settanta e si erano

fermate). Se penso alle donne dell‟est oggi si può invece

parlare di pendolarismo.

Genere e precarità

233

Wioleta Sardyko: la mia partenza è stata determinata

dalla curiosità: volevo conoscere l‟Italia, la mafia, come

si poteva viverla. Poi mi sono accorta, stando qui, che

era meglio non sapere. La maggior parte però non parte

per curiosità ma per necessità, e ciò dipende anche dalla

nazionalità. Le donne polacche sono privilegiate perché

hanno sempre potuto usufruire dei permessi per tre

mesi, e oggi e ancora più facile perché la Polonia è in

Europa. Per le donne moldave o ucraine è ben diverso,

perché sono costrette ad aspettare la sanatoria, un

decreto, è tutto incerto. Però il pendolarismo è sempre

pesante, penso all‟esperienza dei bambini abbandonati

dalla madre migrante per lungo tempo: si tratta di

rapporti «persi» che hanno bisogno di molto tempo per

essere recuperati.

Julia Lagaskaia: se parliamo dell‟est, sono proprio e

solo le donne a muoversi. Gli uomini sono un po'

parassiti di questa disponibilità. E questo porta ai

matrimoni che si spezzano, perché gli uomini non si

rendono conto dei sacrifici delle donne. Il trauma dei

bambini, del distacco è reale, e rimane a lungo. Va

meglio ai ragazzi più piccoli. Per i più grandi è un

problema soprattutto se la loro condizione di

«ricongiungimento» si intreccia con la crisi

adolescenziale. Soprattutto le ragazze non riescono a

vedere la misura del lecito e dell‟illecito (fino ad

arrivare al limite della prostituzione), e spesso vengono

rimandate dagli stessi genitori nei paesi d‟origine per

evitare questa sorta di «degrado».

Igiaba Scego: come somala posso dire che il viaggio è

nel nostro immaginario la soluzione di tutto. Partendo si

lasciano alle spalle dittatura, povertà. E così per sempre,

Genere e precarità

234

non ci si ferma mai, si cambiano paesi in continuazione.

Rispetto alla vostra domanda, io credo fortemente che si

debba creare lo spazio dell‟autonarrazione nel paese di

arrivo, ma nella mia comunità questo generalmente

manca per la contingente situazione storica di guerra,

cosi come manca nei media italiani che non ci

rappresentano.

Gabriella Kuruvilla: io sono indo-italiana. Il tema

degli immigrati di seconda generazione mi è molto

vicino. Quando parlo di viaggio penso a mio padre.

L‟abbandono della terra non è un‟addizione ma una

sottrazione. L‟altra patria è quella desiderata. Ma

l‟immigrato conosce soprattutto la patria che ha lasciato,

mentre i figli non la conoscono e dunque la idealizzano.

Io vivo una frattura culturale con la mia famiglia

paterna, data dal linguaggio, dalla storia: loro sono ciò

che io non sono diventata.

Julia Lagaskaia: perché tuo padre non ti ha insegnato

l‟indiano?

Gabriella Kuruvilla: sicuramente per facilitarci

l‟integrazione. Mio padre ha votato Lega lombarda per

tanti anni.

Marie-Hélène Laforest: trovo molto interessante

quanto detto finora. Mi viene da commentare con due

osservazioni: perché Gabriella si deve definire

immigrata di seconda generazione? é un termine

importato dagli Stati Uniti, ma é un ossimoro: una volta

che si é nati qui, non si è più immigrati. Il secondo

spunto viene dall‟idea che andare a cercare le proprie

radici, sembra essere un bisogno proporzionale al

Genere e precarità

235

razzismo che si trova nel paese di accoglienza. Se ci si

sente sempre stranieri è perché si viene visti tali dai

cittadini italiani, mi sento anche di poter ipotizzare che

la ricerca delle radici è più acuta per coloro che hanno i

tratti somatici non europei.

Angela Bernal: il discorso sulle seconde generazioni mi

ha colpito. Credo che non sia corretto o poco completo

pensare che le persone come Gabriella possano

recriminare contro i propri genitori, anche perché

Gabriella è figlia anche di una madre, e poi l‟incontro

tra i suoi è stato permesso dal viaggio del padre. Io sono

sudamericana: dalla sopraffazione del continente si sono

originate anche delle meraviglie. Ma quando soggiaci al

mistero e non hai gli strumenti per decodificarne gli

effetti, questo dà origine alla nostalgia del passato. E

rimango sconvolta dalle parole di Gabriella. Il passato è

immaginifico: non c‟é più relazione quotidiana, reale e

possibile con il proprio paese.

Gabriella Kuruvilla: in ciò che ho detto non c‟è

recriminazione. Parlavo dell‟abbandono completo delle

proprie origini attuato per potersi integrare. Forse è un

bisogno umano e primordiale. Ma credo che sia una

grande perdita abbandonare la duplicità della propria

identità. Il mio ritorno in India è il ritorno ad un paese

immaginato, che però mi risulta estraneo, impenetrabile.

Gaia Giuliani: qui mi pare che emergano dei

movimenti, dei transiti che coinvolgono differenze

culturali, di generazioni e di generi. Cioè, forse, il/la

migrante porta sempre con sé una doppia identità.

Genere e precarità

236

Enrica Capussotti: a me pare che emerga molto il

problema dell‟intersoggettività: oggi è importante fare

la storia del presente perché essa porti al confronto, e

alla possibilità di creare un ponte tra le identità. Gli

storici classici fanno fatica ad accettare questo. Eppure,

il continuo passaggio tra soggettività e posizionamenti è

molto importante. Partiamo dal colonialismo italiano:

oggi si deve fare i conti con il «nostro» colonialismo.

Nel mio Corso sull‟Italia contemporanea all‟università

mi occupo molto di razzismo europeo e di colonialismo

italiano, riscontrando interesse. Allora tento di creare

uno sguardo critico e riflessivo sull‟Italia di oggi,

caratterizzata dal fenomeno della migrazione.

Jackie Andall: dovremmo parlare delle condizioni e

delle caratteristiche particolari delle migrazioni in Italia

oggi. Qui ci sono tantissime nazionalità presenti, e

modelli molto diversi di integrazione, dati da condizioni

di partenza assolutamente disparate.

Per esempio, se diamo per scontato che le donne

migranti lavorano nel settore del lavoro di cura, ci

dobbiamo chiedere perché il centrosinistra e il

centrodestra proteggono tale tipologia professionale?

E per quanto riguarda la voce e il racconto, chiediamoci

quanto spazio c‟è per la narrazione e l‟autonarrazione?

Ultimamente sono usciti tantissimi libri, ma quali altri

spazi potrebbero essere disponibili?

Nirmal Puwar: penso alla migrazione come viaggio

immaginario e sogno. Durante il viaggio ci sono

processi di scontro tra identità, di creazione di ibridità e

nuovi modi di pensare il senso di appartenenza.

L‟ibridità non è sempre positiva: è una forma di

arricchimento ma è anche una perdita. Non è

Genere e precarità

237

sicuramente unidimensionale. La perdita è qualcosa a

cui dobbiamo sempre pensare, non è solo personale, ma

fa parte di una sfera politica e costituisce una sfera

d‟azione. Se qualcuno viene definito meridionale o

migrante o di seconda generazione e/o non solo italiano,

dobbiamo pensare agli spazi che rendiamo visibili in

queste definizioni: stiamo chiamando le persone così

perché sono migranti? Non è anche questo è un atto di

violenza simbolica? Queste persone potrebbero parlare

di molto altro… Bisognerebbe quindi, come dice Jackie,

trovare altri ambiti di narrazione.

2. Lavoro e corpo, cura e prostituzione

Laura Fantone: il lavoro e i corpi femminili (di vario

colore): tentativo di vedere ciò che sta sotto la soglia

della visibilità e della legalità. Ci interessava far

emergere questo aspetto non solo in riferimento alle

politiche, ma anche alla «razzializzazione» di questo

settore lavorativo. Vedi le donne dell‟est Europa

preferite alle donne di colore in Italia. Poi c‟è l‟aspetto

della «rottura», dell‟«irrompere» del corpo femminile

migrante negli spazi «intimi» e riconosciuti, come

quello domestico: perché questi corpi vengono

direttamente convogliati al lavoro di cura o alla

prostituzione? Che tipo di dialogo/oppressione esiste tra

donne migranti e donne native? Quali desideri e quali

timori caratterizzano questa relazione?

Julia Lagaskaia: per noi dell‟est è sempre una necessità

economica quella di immigrare. Nei nostri paesi c‟è più

presenza di un pensiero forte femminile che di un

pensiero forte maschile. Quando la donna emigra finisce

nel mercato delle “badanti”, o del bracciantato, o della

Genere e precarità

238

prostituzione. Nel lavoro a domicilio c‟è un elemento di

controllo e di oppressione molto forte. Esso porta subito

alla necessità di ubbidire ma anche, per reazione, alla

volontà di non assimilarsi completamente. Quindi si

configura come un lavoro difficile di negoziazione

quotidiana.

Gaia Giuliani: secondo me si deve pensare ad una

forma di agency femminile anche nella prostituzione e

nella tratta. Molte si trovano a negoziare le proprie vite

tra un tipo di maschilismo nei paesi dell‟est e un

«nuovo» maschilismo nei confronti delle migranti da

parte degli uomini italiani.

Julia Lagaskaia: sì, io penso alla (mia e di altre)

esperienza dei matrimoni misti. È molto comune che

siano uomini (bianchi) italiani e più anziani a sposare

donne migranti.

Wioleta Sardyko: sì, è vero che ci sono tendenze

generali, ma poi ognuno ha una storia propria, con le

sue emozioni e un suo percorso. E dunque non è facile

dare un unico punto di vista, anzi è impossibile. Non si

deve negare la forza delle donne migranti: quelle che

lasciano tutto e migrano diventano una fonte di reddito

per i familiari lasciati al paese d‟origine, ma

rappresentano una ricchezza anche per l‟Italia. Io sono

venuta e ho iniziato a fare le pulizie ed è stato umiliante.

Poi col tempo ho sviluppato meccanismi di autodifesa;

ora non mi vergogno del mio lavoro, faccio la

domestica, ogni tanto, come facessi la dirigente. Nel

frattempo lavoro per il sindacato, ho trovato spazi e reti

di solidarietà.

Genere e precarità

239

Sveva Magaraggia: come si distinguono le situazioni

economiche? Cioè, mi chiedo se per le migranti ci sia

molta differenza tra un reddito da prostituta, o un

reddito da barista o badante. Mi chiedo, se c‟è una

differenza forte, allora ci possono essere situazioni in

cui per una migrante è preferibile ricorrere alla

prostituzione per garantirsi un reddito migliore.

Wioleta Sardyko: se si parla di reddito delle prostitute

bisogna sempre ricordarsi che tutti i soldi che

guadagnano le prostitute non finiscono nelle loro tasche.

Solo quando sono passate ad altro lavoro e si sono

liberate dai protettori, possono decidere di tornare

liberamente alla prostituzione, ma possono essere

espulse proprio quando avessero iniziato un percorso di

integrazione.

Marie-Hélène Laforest: io ho seguito il lavoro di una

studentessa che aveva lavorato sulla tratta nel casertano.

Uno dei problemi delle ragazze nigeriane sembrava

essere causato dalla religione. Però non tutto era

riconducibile a quello, c‟era anche un elemento di

scelta. Dunque la religione, che è l‟aspetto più esotico,

spesso è sopravvalutato nella cultura italiana. C‟è da

chiedersi perché non si parli anche delle responsabilità

dei clienti italiani. Nella sua ricerca questa studentessa

voleva lavorare sui clienti ma non ce l‟ha fatta, nessuno

vuole darle informazioni su questo problema annoso.

Susanna Poole: io mi chiedo se la tratta in Italia si

svolge in modo diverso rispetto agli altri paesi. Come

s‟intreccia la mafia italiana con la tratta? Quanto conta

la moralità cattolica nella vittimizzazione e

nell‟aggiungere la condanna al peso psicologico che

Genere e precarità

240

devono sopportare le prostitute? Il problema dell‟Italia è

che i volontari (per lo più cattolici) e le persone di

«buona volontà» sono lasciate da sole e considerate

dallo Stato gli unici soggetti che possono e devono

intervenire.

Wioleta Sardyko: si, manca una continuità di progetti e

di servizi, non ci sono finanziamenti e gli operatori sono

lasciati a risolvere i problemi gravi da soli. Torno

all‟idea del rito vodoo. Anche io, all‟inizio non capivo

come questo rito potesse essere cosi pervasivo. Il fatto è

che tra le ragazze c‟è una paura di infrangere un qualche

patto, una sorta di promesso alla famiglia, alla società.

Io so di un caso in cui una mediatrice culturale si è

suicidata, dopo essere uscita dal giro della prostituzione;

stava facendo il corso per mediatrici ma non ha retto per

la paura di avere infranto il rito voodoo o altre

promesse, insomma non ha retto e le pressioni l‟hanno

portata ad uccidersi.

Marie-Hélène Laforest: non voglio negare l‟esistenza

del voodoo. Io ritengo più importante fare uno studio sui

clienti, affrontare elementi che oggi non vengono presi

in considerazione nelle ricerche. Ma non viene fatto.

Anche i tentativi di sanzione, come la legge che puniva i

clienti, sono stati subito delegittimati o aboliti.

Jackie Andall: io proporrei di tornare alla domanda

iniziale. Parliamo di lavoro di cura, domestico e di

sesso, per cercare di capire se ci sono cambiamenti nella

richieste e nelle pratiche quando parliamo di straniere.

Anche nel lavoro di cura ci sono stati cambiamenti,

«badanti» è un termine nuovo. Dobbiamo considerare le

caratteristiche di questo lavoro, che sono diverse e

Genere e precarità

241

specifiche. Le donne sono molto più isolate, i tempi di

lavoro cambiano più che non in altri settori come la

fabbrica o il commercio.

Il lavoro dei volontari cattolici e da discutere perché

problematico: ho saputo di casi in cui tiravano fuori le

donne dalla prostituzione e le preparavano per il lavoro

domestico, secondo uno schema moralistico che non le

emancipa veramente. Oltre al fatto che la differenza nel

reddito rende difficile per una donna ex-prostituta

accettare il fatto di dover fare cosi tante ore di pulizie

per guadagnare cosi poco!

Igiaba Scego: parlare di migranti significa parlare

anche di sacrifici, si sacrificano le relazioni con i propri

figli, li spediscono al collegio o al paese di origine. Nel

mio racconto un figlio cresciuto in Italia e poi spedito in

Somalia si suicida perche li c‟è la guerra civile. Anche

le donne non hanno molti rapporti con le persone

autoctone. Lo descrive bene il libro di Amara (Lakhous)

su una donna peruviana che ingrassa: ingurgitare cibo

diventa l‟unica libertà, l‟unico modo per sentire il

proprio corpo (questa cosa succede a molte donne

somale). Per quanto riguarda la questione della

prostituzione, so che molte donne somale finiscono

nello stereotipo cheap and clean. A forza di sentirsi dire

che si è così, si finisce per crederci e, forse, anche ad

accettare di fare le prostitute?

Laura Fantone: mi chiedo se Wioleta può dirci

qualcosa di più sugli aspetti psicologici del lavoro di

cura. Giornalisti e studiosi parlano del lavoro sul trauma

e della necessità di terapia per le prostitute o sex

workers, ma non per le migranti che hanno fatto lavoro

Genere e precarità

242

di cura. Si tratta sempre di controllo del corpo «altro»

da parte di chi paga il lavoro.

Sul tema delle leggi che dovrebbero aiutare le migranti

a uscire dalla prostituzione, anche nel caso in cui queste

donne escano dal giro e riescano ad ottenere il permesso

di soggiorno, questo meccanismo vincola la donna al

passaggio dal protettore uomo al protettore Stato.

Gaia Giuliani: mi pare utile affrontare il punto dello

Stato, come «istituzione della moralità», che quindi

associa prostituzione all‟immaginario di immoralità.

Similmente, nel lavoro di cura c‟è dietro la

privatizzazione e l‟erosione dello Stato sociale,

insomma lo Stato è il grande attore nascosto.

Wioleta Sardyko: io penso all‟Aticolo 18, che deve

preparare un programma di uscita dalla prostituzione e

di reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Il

passo più difficile per una donna è di ammettere di

fronte alla Questura che fa il lavoro di prostituta.

L‟interrogatorio che segue è durissimo: la polizia è

formata per farlo, ma non ha sensibilità. Insomma, non è

efficace, se la donna si trova da sola è molto probabile

che non ce la farà ad uscire dal suo percorso.

Per quanto riguarda il lavoro domestico: l‟assistenza

non ha limiti di tempo, poche famiglie assumono due

donne, una per il giorno e una per la notte. La maggior

parte fa tutta la giornata, e si passa dallo stress alla

depressione. L‟idea di dover comunque in qualche

modo sopravvivere e la paura di perdere il lavoro creano

dipendenza e passività. C‟è la precarietà e c‟è la

concorrenza delle altre, soprattutto qui a Napoli, dove

pochissime sono le persone regolarizzate.

Genere e precarità

243

Jackie Andall: il fenomeno del badantato è una nuova

forma di lavoro per il mercato italiano in particolare,

con l‟invecchiamento demografico. Ci vorrebbero

sempre almeno due persone per seguire gli anziani non

auto-sufficienti. Precarietà del lavoro domestico: se

vogliamo fare un paragone con il lavoro maschile,

quest‟ultimo è sempre stato quello più stabile. L‟anno

scorso, facendo interviste a donne capoverdiane a

Napoli, è emerso che tutto sta cambiando, la precarietà è

maggiore che in passato perché la presenza di nuovi

gruppi di migranti rende i diritti acquisiti continuamente

da rinegoziare.

Enrica Capussotti: il nodo forte è la divisione dei ruoli

sessuali in Italia oggi. Le donne italiane si sono

emancipate, fanno altri lavori, gli uomini italiani non

fanno del lavoro di cura, e dunque arrivano altre donne

a farlo. Ci sono vari piani che si intrecciano. Penso al

saggio di Emma Luz sulle donne occidentali

«trionfanti» perché portatrici dell‟emancipazione per le

donne migranti viste come «sottosviluppate». Ho

intervistato alcune donne italiane su come vedono le

migranti dell‟est, non solo badanti. Sono emersi tutti gli

stereotipi: le donne migranti sono più arretrate, più

docili, più femminili e perciò anche potenziali «ladre di

mariti». Esiste in Italia un immaginario ben preciso che

lega donne e prostituzione connesso al colonialismo.

Anche rispetto alle donne dell‟Europa dell‟est, esistono

film che fanno parte della cultura di massa italiana, cioè

esistono immaginari di rappresentazione coloniale, che

valgono anche per i Paesi che non sono stati colonizzati.

Per superare tutto ciò si deve attuare uno sforzo di

auto/riflessione da parte delle donne e degli uomini

Genere e precarità

244

italiani, per capire come si intrecciano tutti questi

rapporti di potere sui corpi delle persone.

3. Spazi e luoghi di incontro/non incontro

Marie-Hélène Laforest: Oggi le politiche europee e

nazionali messe in campo non possono più definirsi di

accoglienza ma di resistenza all‟immigrazione. Questo

cambiamento di rotta limita fortemente non solo

l‟ingresso ai migranti, ma condiziona la vita delle

persone che già risiedono in Europa. L‟impostazione

governativa sulla questione immigrazione si riflette

anche sugli atteggiamenti dei cittadini verso gli

immigranti: non ci si avvicina al migrante, lo si

sopporta, si socializza solo nel rapporto uomo/giovane

donna. I luoghi di incontro fra italiani e nuovi migranti

sono pochi. In ogni caso sono spazi separati: per

esempio cineforum «solo per immigrati». Mi chiedo

talvolta se la segregazione è anche causata dai modelli

televisivi americani.

L‟Italia (che fino al 1963 esportava mano d‟opera), ha

una responsabilità forte nel quadro europeo: poiché è fra

gli ultimi paesi a aver ricevuto mano d‟opera

dall‟estero, avrebbe potuto guardare alle politiche

fallimentari degli altri paesi europei e scegliere di

applicare quelle valide. Invece non lo si è fatto e la

situazione odierna è drammatica. Nel sud inoltre c‟è un

alto tasso di disoccupazione, e questa porta a legami con

l‟illegalità: più lavoro nero, maggior popolazione

immigrata illegale.

Se guardiamo al caso delle donne migranti: la richiesta

di badanti nel sud fa parte di una politica statale

specifica di risparmio per la cura degli anziani. Rispetto

agli altri paesi, quindi, non sono solo le famiglie

Genere e precarità

245

abbienti ad avere delle badanti in casa. L‟altra questione

riguarda l‟alloggio: quando le immigrate cercano

alloggio, lo trovano solo nelle zone periferiche. Sono

allora le famiglie italiane meno abbienti a dover

«sopportare il peso» dell‟immigrazione?

Susanna Poole: io credo che il problema chiave sia

proprio la mancanza da parte della società e dello Stato

italiano di una politica multi o inter-culturale, che

determina il fatto che non esistano spazi istituzionali in

cui praticare l‟incontro. La presenza è resa nascosta: è

come se la città non fosse profondamente modificata

dalla presenza dei migranti. È vero che a Napoli non ci

sono luoghi in cui stare insieme: solo gli spazi aperti, di

cui si appropriano i migranti, spazi in cui i napoletani

non si fermano, come la stazione dove si incontrano le

donne dell‟ex-blocco sovietico. È come se la comunità

si autoproteggessero, si cercassero per parlare la lingua

materna, o quantomeno per stare insieme indisturbate.

Lo stesso vale per la galleria Umberto I per le donne

eritree e somale, o per i giardini antistanti il Maschio

Angioino. La città non offre spazi veri o propri di

comunità, come invece esistono in Inghilterra.

Marie-Hélène Laforest: vorrei mettere in discussione

l‟idea che lo Stato debba creare luoghi ad hoc. Perché i

migranti non possono andare al cinema, perché non

possono sedersi nei caffé? In fondo dovrebbero essere

accettati come tutti…

Igiaba Scego: è vero ma se pensiamo che il cinema

costa 7 euro e 50, allora é ovvio che il discorso é più

legato al reddito e alla possibilità di avere tempo libero.

Poi sì, ci sono barriere dovute alla diffidenza che

Genere e precarità

246

devono essere abbattute. Io ho lavorato ad un

laboratorio di scrittura con i ragazzi «G2», cioè delle

seconde generazioni. E loro mi dicono che sentono la

diffidenza degli italiani, quindi spesso hanno

atteggiamenti di chiusura.

Nirmal Puwar: io posso dirvi, vivendo in Inghilterra,

che non è poi vero che ci sono molti di questi spazi di

socialità, ma sono stati creati dagli immigrati (prima

erano case private, poi si sono affittate dagli anni

sessanta sale da ballo, poi c‟é stato l‟acquisto di cinema

dismessi): è ben diverso creare un‟aggregazione

dall‟averla garantita a priori. Per quanto riguarda i

luoghi di socializzazione dei nativi, ci sono due ordini di

problemi: quello monetario e quello della stanchezza di

apparire in pubblico per poi essere sempre considerati

diversi, come altri o nuovi immigrati. Jackie ci può

parlare, ad esempio, del carnevale a Londra e di come è

cambiato negli anni.

Jackie Andall: gli spazi per esprimersi pubblicamente

sono stati conquistati. Soprattutto negli anni settanta

l‟aggregazione nera o tra migranti era considerata

pericolosa, così anche il carnevale era controverso.

L‟anno scorso poi addirittura c‟è stato un carnevale

caraibico indipendente e uno diverso, quello ufficiale,

organizzato dal sindaco!

Susanna Poole: capisco, ma rispetto alla situazione

italiana è comunque un po‟ meglio, dato che in

Inghilterra si producono e si finanziano forme di

produzione culturale delle minoranze. Noi oggi abbiamo

un governo profondamente razzista. Le comunicazioni

si riferiscono solo ed esclusivamente agli italiani e non

Genere e precarità

247

c‟è il riconoscimento della presenza degli stranieri sul

territorio. Non dico che lo Stato debba dare la voce ai

migranti, ma neppure negarla attivamente.

Jackie Andall: il razzismo prende la seguente forma: i

migranti ci devono essere per lavorare, ma non devono

attraversare o abitare lo spazio pubblico.

Sveva Magaraggia: mi viene in mente un paragone,

magari azzardato con il mondo gay e lesbico milanese.

Inizialmente si sono aperti e creati degli spazi, con

difficoltà e lotte, si trattava di spazi necessariamente

separati, utili a creare comunità. In seguito è stato

possibile aver maggiore apertura al mercato, cioè molti

luoghi prima esclusivamente LGBT sono diventati più

accessibili a tutti. Solo in questa seconda fase, dunque, è

arrivato il riconoscimento istituzionale.

Gabriella Kuruvilla: io penso anche alla similitudine

con i centri sociali di Milano, che sono diventati luoghi

di incontro a livelli diversi, tra nativi e migranti, di

entrambi i sessi. Però poi si ripropongono in piccolo gli

stessi stereotipi dominanti sui neri, sulle donne, ecc.

Igiaba Scego: Quando mi trovo negli spazi pubblici,

come alla stazione, non mi sento straniera. Ci sono altri

come me. Poi ci sono le chat e i forum, che sono nuovi

modi di socializzazione.

Wioleta Sardyko: vi porto l‟esempio locale di due feste

organizzate dal Comune a Napoli, una per

l‟Indipendenza del Senegal, e l‟altra che si chiama «il

festival dei popoli». Nel rapporto tra donne italiane e

donne straniere, le seconde lavorano sempre e non

Genere e precarità

248

hanno il tempo materiale per costruire rapporti di

amicizia con le italiane. Dunque utilizzano solo quei

pochi spazi «tra connazionali». I rapporti intradomestici

tra migranti e italiane sono poi veramente complicati:

c‟è la gelosia delle madri o la gelosia dei figli/e rispetto

al rapporto delle badanti con gli anziani.

Laura Fantone: allora quali strategie esistono oggi, in

Italia, per uscire dall‟invisibilità?

Wioleta Sardyko: forse l‟unica prospettiva, e non dico

che sia la migliore, è la partecipazione politica con dei

portavoce, per avere maggiore visibilità.

Igiaba Scego: Wioleta ha accennato alla rappresentanza

ma io ho molto dubbi al proposito: al Campidoglio a

Roma abbiamo appena eletto i nostri rappresentanti, e la

maggior parte di essi sono persone dal passato un po‟

torbido e non rappresentativi o stimati da tutti noi.

Credo che tale concetto di comunità e di rappresentanza

sia un po‟ ambiguo e pericoloso. Per quanto riguarda i

somali non esiste una comunità, ci sono state e ci sono

ancora troppe guerre tribali. Le collette si fanno quasi

esclusivamente su base tribale.

Nirmal Puwar: c‟è la tendenza a riprodurre una

categorizzazione nazionale quando lo Stato ospite

individua le comunità migranti. Si impone il modello

nazionale a prescindere dalla loro divisione. Sarebbe

forse più utile focalizzarsi sulle problematiche che i

migranti affrontano, non tanto sulla leadership etnica. Io

personalmente non mi riconosco in nessuno dei leader

della mia comunità.

Genere e precarità

249

Gabriella Kuruvilla: la parola comunità mi fa molta

paura, essa può trasformarsi in nazione nella nazione,

luoghi dove si può essere una cosa vera, avere

un‟identità precisa, che esiste soprattutto perché non si

può avere questa identità altrove.

Bibliografia

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Genere e precarità

251

Genere e precarità

252

raccontarsi

Il «lato B» della precarietà

a cura del Gruppo Sconvegno1

1. Le nostre vite nel 2011

Betta

Ho rincorso a perdifiato l‟ultimo treno e nel 2006 sono

riuscita a saltarci sopra: ora ho un posto fisso, come

bibliotecaria, all‟università che (finché resta pubblica!)

dà una certa sicurezza: stipendio a fine mese e cartellino

da timbrare tutti i giorni. Resisto al grigiore. Mi muovo

nel locale: sono tornata in provincia per la qualità della

vita, soprattutto quella di mia figlia, e perché credo

sempre più profondamente nella decentralizzazione e

nell‟autogestione.

Chiara L.

Precaria a 345°, lavorativamente infatti oggi non lo

sono. Lavoro in una realtà autogestita e, per la prima

volta, non sono precaria, ma qualcosa non mi torna. C‟è

una contropartita che non focalizzo bene, forse è la mia

soggettività cristallizzata in un‟appartenenza,

un‟identificazione totalizzante. Oggi in me riemerge,

con sempre più forza e urgenza, il nodo

dell‟emanciparsi dal lavoro. Oggi, proprio oggi, in cui il

lavoro potrebbe cominciare a darmi sicurezza e forse

anche identità; ed è questo che non vorrei. La mia

soggettività eccede, straborda da tutte le parti.

1 Il gruppo Sconvegno esiste dal 2001 ed è composto da Manuela Galetto,

Chiara Lasala, Sveva Magaraggia, Chiara Martucci, Elisabetta Onori e

Francesca Pozzi; nei primi anni ne ha fatto parte anche Eleonora Cirant.

Genere e precarità

253

Chiara M.

Disoccupata di lusso o free lance della ricerca? Da

quando ho finito il dottorato tre anni fa, vivo di

marchette piccole e grandi nell‟area del lavoro

intellettuale: articoli da scrivere, libri da recensire,

questionari da somministrare, lezioni e interventi da

preparare, ricerche e ricerchine. Il tutto a titolo spesso

gratuito, al di fuori di ogni circuito consolidato e di ogni

prospettiva conosciuta. A 38 anni, continuo a «surfare il

presente» e a guadagnare circa mille euro al mese,

consapevole del corpo che si trasforma e dei limiti che

segnala. Cerco un senso di me al di fuori e al di sopra

del lavoro. Primum vivere!

Francesca

Insegnante precaria presso un centro di formazione

professionale, alle prese con un branco di ragazzini

pieni di pregiudizi e paure, ma in crescita,

potenzialmente in trasformazione. Ricercatrice precaria

fuori e dentro l‟università, continuo a navigare a vista,

ma con sempre più fatica e con la consapevolezza del

tempo che passa, e continuo a chiedermi: ma... cosa

voglio dalla mia vita?

Manuela

Negli ultimi dieci anni ho cambiato città tre volte, finito

un dottorato, avuto un bambino. Un anno e mezzo fa,

con marito e figlio, ci siamo trasferiti da Milano

all‟Inghilterra. Qui lavoro come ricercatrice (a termine)

e sono diventata la female bread winner. Mi interrogo

sugli strumenti a disposizione per risolvere i nodi della

conciliazione tra il lavoro e la cosiddetta vita privata

Genere e precarità

254

mentre continuo a fare i conti con un «dopo»

costantemente incerto.

Sveva

Il mutamento lavorativo di questi ultimi cinque anni è

stato così travolgente da non aver risparmiato le altre

sfere della mia vita. Ho cambiato ufficio, sono «salita»

di piano, sono passata dall‟altra parte della cattedra.

Salendo si percepiscono sempre più gli scossoni, una

possibile caduta implica sempre più dolori. Ho smarrito

la bussola della relazione d‟amore ad oggi più

importante della mia vita, mi son trovata a rimettere in

discussione aspetti di me che davo per definiti. La

trasformazione è arginabile o è un processo che si nutre

di se stesso e diventa inarrestabile?

2. Il gruppo nel 2011: la lontananza sai...

Sono passati circa otto anni dal nostro primo

esperimento di autoinchiesta, pubblicato nel

monografico dedicato al «Divenire Donna della

Politica» (Gruppo Sconvegno 2003); ne è seguito poi un

secondo nel 2006 dal titolo «LCM:::

Lavoratori/Lavoratrici contrattualmente modificabili»

(Gruppo Sconvegno 2006) in cui la precarietà, nucleo

della nostra riflessione, dal piano strettamente

lavorativo si è definitivamente trasferita in quello delle

nostre esistenze. Fino al 2008 abbiamo continuato a

vederci con costanza e a lavorare insieme ma negli

ultimi anni incontrarci è stato sempre più difficile; ci

siamo dette più volte che avremmo dovuto e voluto

cominciare un terzo giro di autoinchiesta per dotarci di

una nuova «cassetta degli attrezzi», ma non ci siamo

riuscite.

Genere e precarità

255

Le ragioni di questa impasse ci risultano ora più che mai

evidenti: da un lato le scadenze e le priorità nell‟agenda

politica hanno fagocitato la nostra attenzione (anche in

termini di produzione di scritti e di interventi nel

dibattito pubblico); dall‟altro hanno assunto un ruolo

determinante il vorticoso accrescersi del ritmo delle

nostre esistenze produttive, le scelte di vita e la sempre

più vischiosa gestione della quotidianità, che ci sottrae

tempo ed energie per riflettere e stare insieme. Come

donne ormai tra i 34 e 38 anni, dopo dieci anni di lavori

e di vita precaria, infatti, ci siamo trovate costrette ad

affrontare alcuni nodi prioritari nelle nostre esistenze

reali. Alcune di noi hanno avuto un figlio, altre hanno

cambiato più volte lavoro, città o nazione; tutte, in modi

e tempi diversi, abbiamo affrontato separazioni, nuovi

incontri, malattie.

In questi ultimi tre anni, da Resisting the tides2

(Gruppo

Sconvegno 2009) in poi, abbiamo assistito impotenti,

ma non passive, al degenerare del berlusconismo fino al

parossismo, all‟incapacità delle opposizioni di proporre

possibilità alternative e al peggioramento delle nostre

condizioni di lavoro e di vita, mentre sullo sfondo, a

livello globale, si stava consumando un vero e proprio

«tsunami finanziario». Ci siamo interrogate sul perché

non fossimo in grado di re-agire insieme in maniera

forte e radicale. Ogni volta in cui ci siamo viste,

abbiamo raccolto parole e appunti che restano un unico

grande blob ricco di spunti e suggestioni.

Non siamo state in grado di sistematizzare il mare

magnum dei nostri pensieri e ci siamo rese conto di

essere in una fase di afasia. La difficoltà di «dire e

2 Si tratta di un articolo che abbiamo scritto per una pubblicazione inglese

dedicata alle forme di resistenza al berlusconismo in Italia negli anni tra il

2001 e il 2006.

Genere e precarità

256

scrivere» ha coinciso con la difficoltà di «pensare», per

non dire di «realizzare», alternative concrete in questa

fase storica reazionaria che toglie linfa e spinge verso il

disfattismo. Con questo non cerchiamo scuse o

giustificazioni, né per noi né per tutta la massa critica

che ancora esiste in questo paese e che agisce in forme e

modi diversi, ma solo di tenere i due piani (micro e

macro) insieme, perché abbiamo sempre rivendicato la

complessità come nostro orizzonte di riferimento.

Restiamo attente ai mutamenti soggettivi e alle forme di

resistenza quotidiana perché è lì che cova lo slancio

verso il cambiamento possibile.

Coltiviamo, infatti, per tutte e per ciascuna, l‟esigenza

profonda di mantenere uno spazio di elaborazione e di

confronto collettivo per provare a cambiare le carte in

tavola, quanto meno le nostre.

3. Giovani donne al lavoro: avvertenze per l’uso

Dieci anni fa, abitando il punto di osservazione di una

generazione «scollinante»3, indagavamo le ambivalenze

della precarietà alla ricerca di possibili spazi di

trasformazione. Quello che possiamo raccontare oggi,

dopo alcuni anni di esperienze e riflessioni, è il «lato B»

della precarietà: quello che abbiamo capito, quello che

non ci torna e quello che ci si è ritorto contro. Un po‟

per uscire dalla sensazione di ricominciare ogni volta da

capo e un po‟ per passare la staffetta, abbiamo

identificato alcuni nodi in cui la femminilizzazione e la

precarizzazione del lavoro – due fenomeni che spesso si

sovrappongono, senza però coincidere – si intrecciano,

3 Una generazione, cioè, che si è formata con un immaginario fordista

rispetto alle aspettative di vita e lavoro, ed invece cresciuta nella fase di

destrutturazione di quel paradigma socio-economico.

Genere e precarità

257

creando nuove ambivalenze o rafforzando antichi

paradossi per noi «giovani donne al lavoro».

3.1. «Complesso della dea» e limiti del corpo

Lo stato adrenalinico tipico della precarietà – tenuto

attivo dalle continue deadline, o dalla ricerca di un

nuovo committente per ovviare all‟assenza di deadline –

produce una sindrome molto pericolosa che potremmo

definire il «complesso della dea».

Sei pervasa dall‟assurda convinzione di poter

far tutto: imparare ad usare un programma di

analisi dati in 24 ore, leggere e recensire un

libro di seicento pagine in un giorno, andare a

trovare la nonna in ospedale e la sera anche

uscire a ballare.

Tale convinzione è supportata dal fatto di essere sempre

riuscite a gestire contemporaneamente lavori diversi,

contesti professionali differenti, ma anche ambiti

familiari ed amicali che richiedono una componente di

cura. Questo talento «tipicamente femminile» per il

multi-tasking crea l‟illusione di poter gestire anche i

limiti fisici del nostro corpo come se fossimo dotate di

super poteri. Ci si scontra poi, però, brutalmente con la

materialità di quel corpo che comunica i suoi limiti con

segnali inequivocabili ed ineludibili: flebiti, torcicolli

invalidanti, dermatiti urticanti, ecc.

Il «complesso della dea» ignora non solo i limiti fisici

del corpo, ma anche la fatica mentale richiesta dalla

precarietà. Continuare a cambiare luogo, contesto,

contenuto di lavoro richiede capacità specifiche che nel

tempo comportano uno stress mentale ed emotivo

perenne: perché ricominciare sempre vuol dire

Genere e precarità

258

ricostruirsi in continuazione. Anche in questo caso, è il

corpo a mandare segnali chiari di disagio: depressione,

ansia, dipendenze varie... Fino a che, come è successo

ad una di noi,

alla fine mi sono ammalata. Prima mi è venuta

una flebite che mi ha costretto all‟immobilità

per quindici giorni, e lì sì che mi sono dovuta

fermare, fermare veramente! Poi, appena

passata l‟infiammazione della safena, sono stata

stroncata da una forte tendinite che,

nuovamente, mi ha confinata in casa per un

lungo periodo! Ho reagito male inizialmente,

non mi sembrava vero, all‟improvviso non

riuscivo a fare tutto ciò che avevo in agenda e

avevo anche bisogno di un consistente aiuto per

fare la spesa! Poi ho capito: il corpo si era

prepotentemente imposto tra una scadenza e

l‟altra.

3.2. Alienazione relazionale

Alcuni degli aspetti peculiari del fenomeno della

femminilizzazione del lavoro – per esemplificare, la

richiesta di capacità relazionali, informali, di problem

solving e competenze di cura – combinate con

condizioni lavorative perennemente precarie, hanno

prodotto, nelle nostre esperienze, alcune nuove forme di

alienazione, che potremmo definire tipicamente

relazionali.

Una prima forma di alienazione relazionale si evidenzia

poiché le energie psicofisiche di cui si nutrono e si

sostanziano le relazioni – ormai indispensabili in campo

professionale – vengono messe tutte nel/al lavoro e il

Genere e precarità

259

tempo e il desiderio di vita ne vengono fagocitati.

Diventa, così, estremamente faticoso investire energie

relazionali nella dimensione della socialità al di fuori

del lavoro, che rischia di venire seriamente

compromessa dal punto di vista della sua qualità e

intensità. Le parole di una di noi descrivono bene questa

forma di alienazione:

le capacità relazionali messe al lavoro. Già... E

come sei brava! Lo senti, ti viene riconosciuto,

ti soddisfa. Sì, tutto il giorno in relazione con

l‟altr@. Poi arrivi a casa la sera trascinandoti,

con l‟unico pensiero di chiudere quella porta

dietro di te e chiudere con il mondo, lasciarlo

fuori. Lo fai, arrivi a casa, chiudi la porta e...

non hai più energie! Vorresti fermarti, pensare,

immaginare, sentire le persone a cui vuoi bene.

Perché ora hai capito che sono quelle che nella

precarietà a 360 gradi ti danno sicurezza.

Vorresti chiacchierare anche per toglierti quella

strana sensazione che ti si sta lentamente

spegnendo il cervello. Ma, alla fine, molto

spesso riesci solo a fare qualche telefonata,

quelle «di base», quelle un po‟ di routine ... È

alienazione? Ogni tanto ti guardi e cerchi di

resistere, tieni con le unghie quei momenti che

ti sei riservata per fermarti e pensare, per

goderti le tue relazioni, quelle che ti rigenerano

non quelle che ti succhiano energie senza darti

nulla in cambio.

Una seconda forma di alienazione relazionale ha a che

vedere con il piano di informalità e promiscuità

relazionale che spesso si crea sul lavoro quando è

precario, ovvero definito da forme contrattuali

Genere e precarità

260

temporanee, che in genere non identificano chiaramente

ruoli e gerarchie.

Quando accetti un lavoro «a progetto», ti viene

riconosciuta generalmente una retribuzione

forfettaria a fronte di una prestazione finale

generica, vincolata alla consegna di un prodotto

finito. Solitamente ti trovi poi coinvolta in una

contrattazione individuale e continua con la

committenza, che aggiunge o modifica tempi ed

obiettivi, senza che spesso esistano margini

reali per poter entrare in conflitto. Se, in questo

percorso ad ostacoli, dovendo incastrare e

combinare diversi lavori e incarichi, decidi di

dividere compiti e compensi con un/a amico/a

precario/a, succede sovente che ti trovi

coinvolta in una contrattazione continua e

individuale anche con l‟amico/a, senza che

esistano criteri condivisi per gestirla.

Nell‟autogestione del lavoro tra precari/e,

quando il piano informale dell‟amicizia si

scontra con il piano formale del lavoro, tutto

diventa scivoloso. Si devono individuare nuovi

criteri per riuscire a contrattare in modo equo

nei momenti di subappalto e condivisione del

lavoro. Senza una riflessione collettiva si

rischia, se no, di riprodurre il meccanismo di un

«caporalato diffuso» che porta a subordinare le

relazioni amicali alle logiche di sfruttamento

del lavoro produttivo e a scaricare tutti i «rischi

di impresa» sui singoli individui, tutti/e

precari/e.

Infine, una terza forma di alienazione relazionale si

manifesta con una progressiva disaffezione da sé: una

graduale perdita di quel surplus di passione che spesso

caratterizza il nostro modo di svolgere il lavoro.

Genere e precarità

261

Quest‟aspetto, come raccontano le parole di una di noi,

può comportare conseguenze difficili da gestire dal

punto di vista identitario.

La dimensione del piacere e del senso nel

lavoro, che erano così importanti per me, nelle

condizioni attuali si sono trasformate nel loro

contrario. Vengo pagata così poco,

misconosciuta così palesemente, sostituita così

facilmente che, alla fine, faccio le cose male, e

non me ne frega neanche più niente di farle

male, perché mi sento come se fossi stata

scippata di una parte profonda di me. Scatta la

reazione per cui non ci metto più niente di me

in quello che faccio, ma così vengo meno anche

a me stessa.

3.3. La conciliazione oggi

Accanto alle nuove contraddizioni legate al fenomeno

della femminilizzazione del lavoro, permane il classico

problema, purtroppo ancora tipicamente femminile,

della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro quando

nascono dei figli o devi prenderti cura di familiari. Nel

caso del nostro gruppo, ci sono due esperienze

genitoriali in ambienti diversi (un paese della provincia

italiana e una città europea) e in condizioni famigliari

differenti (una in cui entrambi i genitori lavorano, e una

in cui la mamma lavora e il papà è casalingo).

Proponiamo qui alcuni spunti di riflessione tratti dal

punto di vista di chi la sfida della conciliazione l‟ha

appena cominciata, resa ancor più difficile dalle

interferenze delle (condizionanti) condizioni del

mercato del lavoro contemporaneo.

Genere e precarità

262

Con l‟arrivo di un figlio/a, la richiesta che ti viene

costantemente fatta in ambito professionale in termini di

dedizione, tempo e energie lascia poco spazio al resto:

ai propri cari, ai propri piaceri, all‟esperienza di

genitore, che richiede attenzione, cura, presenza, sfida e

crescita costanti.

Avere un lavoro a termine, avere sempre a che fare con

un «dopo» incerto, significa mettersi costantemente in

gioco e porsi davanti a scelte spesso ambivalenti, come

per esempio la scelta di fare un secondo figlio/a, o

interrogarsi sui propri desideri facendo i conti con la

loro sostenibilità economica e, nel lungo periodo,

emotiva e fisica. Le condizioni del mercato del lavoro

risultano cioè determinanti delle condizioni di vita,

anche dove ci sono servizi pubblici (comunque sempre

troppo pochi!) che aiutano a gestire la crescita dei

figli/e, e anche dove esiste nella coppia la volontà di

sperimentarsi in nuove forme di (con)divisione del

lavoro di cura.

Le parole di chi nel nostro gruppo è diventata madre

(due componenti su sei) ci sembrano il modo più

efficace per descrivere l‟esperienza della conciliazione

nel presente, e per dare idea di cosa avrebbero bisogno

le neo-mamme di oggi:

Diventare madri, un po‟ all‟improvviso, senza

troppo pianificare, assecondando un‟emotività

che si sottrae alla razionalità, lasciando le porte

aperte, consapevoli della sicurezza economica

data da almeno un contratto di lavoro

«normale» in famiglia, porta a riscoprire stili di

vita, priorità, valore del tempo e dello spazio.

Nella mia esperienza ha significato rovesciare,

o comunque rivedere criticamente il rapporto di

spazio che le due sfere, lavorativa e

Genere e precarità

263

personale/privata, avevano prima. È come

riscoprire le stagioni e tornare a vivere di pochi

elementari bisogni, ascoltare il corpo. La sfera

personale ha improvvisamente il sopravvento

su tutto! Quando arriva il momento di

«conciliare» tutto questo con la sfera lavorativa

(e per una co-co-pro questo avviene al quarto

mese di vita del bambino, visto che non esiste

maternità facoltativa ma solo quella

obbligatoria) è come se si dovesse far rientrare

attraverso il buco di una scatola una palla di

dimensioni doppie rispetto a quando è uscita da

quello stesso buco! Si ritorna al lavoro4 con una

disponibilità e un approccio diversi nei

confronti delle relazioni, in termini di tempo e,

spesso, anche di coinvolgimento e piacere.

L‟essere madre dovrebbe aggiungere alla vita di

una donna, e non sottrarre! Le politiche per la

maternità non si dovrebbero limitare agli asili

nido! Ciò che dovrebbe essere garantito ad ogni

donna che diventa madre è la possibilità di

autonomia. Con la nascita di un figlio/a, la

quotidianità diventa frenetica e piuttosto

monotona, i pensieri sono tanti e fitti e la voglia

di condividerli è enorme. Peccato che non

esistano strutture o luoghi in cui le donne

possano incontrarsi per farlo, che prevalga in

molti casi l‟auto-isolamento e che le strutture

d‟accoglienza coincidano con gli spazi medici o

medicalizzati. Anche in questo senso ci sarebbe

bisogno di ricostruire servizi autogestiti di

mutuo sostegno, dandogli una veste e una

valenza nuova. Ci vorrebbero luoghi dove le

4 Si torna al lavoro quando non costrette a dimissioni forzate, come è

successo per 800.000 donne tra il 2008 e il 2009. Cfr Rapporto annuale Istat

2010.

Genere e precarità

264

neo-mamme possano incontrarsi, scambiarsi,

mediarsi (anche le mamme migranti) e contro-

informarsi davvero, resistendo anche alla

trappola dell‟identificazione nello status

materno.

4. Più che concludere, continuare!

È vivendo queste contraddizioni nel rapporto con il

lavoro che ci interroghiamo sul significato del termine

«ambizione» per noi. Ambizione richiama da un lato

l‟investimento sul lavoro, inteso in senso capitalistico

(in termini di carriera, affermazione sociale,

arricchimento economico), dall‟altro a concetti come

progettualità, riconoscimento, passione, voglia di

crescere nella propria professione, possibilità di

scegliere come lavorare e su cosa.

Cosa vogliamo? A cosa ambiamo?

Al «doppio sì» a carriera e famiglia, come sostengono

alcune? (Benvenuti e Barbieri 2008).

Al potere? All‟esodo?

Siamo figlie di una generazione di donne che ha visto

nel lavoro un fattore decisivo di emancipazione, ma da

tempo non crediamo a questa «emancipazione malata»

(Campari e Melandri 2010). Se dieci anni fa potevamo

pensare che la precarietà fosse temporanea, individuale

e sostanzialmente legata al lavoro, oggi non possiamo

evitare di constatare che si tratta di una condizione

permanente, collettiva ed esistenziale.

E allora pensiamo che non si debba continuare a fare

l‟errore di considerare la condizione precaria come un

problema individuale, rispetto al quale ciascuna/o

«spera di cavarsela» per sé, grazie all‟aiuto del welfare

Genere e precarità

265

familiare, laddove possibile. Nuovi e vecchi paradossi

impattano a livello soggettivo nella vita di ciascuna di

noi, e il rischio è quello di cercare di sopravvivere e di

«sfangarsela» a livello individuale, affrontando come

una «sfiga» personale tutta la fatica, il mancato

riconoscimento, il poco reddito, la rabbia e la

frustrazione che ne seguono, aspettando una

stabilizzazione che non arriva mai, come non arrivavano

i tartari nel Deserto dei tartari (Buzzati 1940).

A partire dal nostro vissuto soggettivo e dall‟esperienza

del gruppo, noi siamo convinte che questa sia una

strategia miope e non più ulteriormente sostenibile

perché, come recita lo slogan che ha ispirato le recenti

manifestazioni di precarie e precari «il nostro tempo è

adesso. La vita non aspetta!».5

Dunque, a livello soggettivo, è anzitutto indispensabile

imparare a mettere dei limiti fermi nel «qui e ora»

rispetto a quello che si accetta di fare o non fare mentre

si naviga a vista nel mare della precarietà, perché il

corpo ce lo impone e la dignità ce lo urla, ma anche

perché – come ci insegnano le nostre esistenze –

vogliamo affermarci su una molteplicità di piani, e non

solo sul lavoro. Le relazioni, l‟attività politica

variamente intesa, l‟ozio, la pratica di passioni

personali, i viaggi, la cura del corpo, gli scambi

culturali, sono tutti piani che riguardano il «tempo per

sé» che come giovani donne rivendichiamo, e che

5 Slogan di invito alla manifestazione dei precari e delle precarie svoltasi in

diverse città italiane il 9 aprile 2011. Sul sito è disponibile il testo completo

dell‟appello di cui ci piace citare la frase finale: «Non è più tempo solo di

resistere, ma di passare all‟azione, un‟azione comune, perché ormai si è infranta l‟illusione della salvezza individuale. Per raccontare chi siamo e non

essere raccontati, per vivere e non sopravvivere, per stare insieme e non da

soli» (http://www.ilnostrotempoeadesso.it).

Genere e precarità

266

meritano uno spazio e un tempo dedicato nell‟equilibrio

delle nostre vite precarie.

Allo stesso tempo è indispensabile che questi confini

soggettivi – tesi ad arginare la consunzione insita nella

precarietà e a ritrovare spazi di vita – siano condivisi,

discussi e messi in pratica a livello collettivo, per

riuscire a costruire reti di protezione e mutuo aiuto da

una parte, ma anche per re-imparare ad immaginare e

sperimentare possibilità di cambiamento nel/del

presente, riprendendoci il nostro tempo, adesso.

Bibliografia Benvenuti, M., Barbieri, P., et. al. (a cura di), 2008, Il doppio

sì. Se le donne dicono due volte sì, Milano, Testo della

Collana Lavoro dei «Quaderni di via Dogana».

Buzzati, D., 1940, Il deserto dei tartari, Milano, Mondadori.

Campari, M.G. e Melandri, L. et al., 2010, L’emancipazione

malata. Sguardi femministi sul lavoro che cambia, Milano,

Edizioni LUD.

Gruppo Sconvegno, 2003, Emanciparsi dal lavoro, in «Posse.

Politica Filosofia Moltitudini» (6), pp. 63-74.

Gruppo Sconvegno, 2006, LCM::: Lavoratrici/Lavoratori

Contrattualmente Modificabili, in Barbarulli, C., Borghi, L. (a

cura di), Forme della diversità. Genere, precarietà e

intercultura, Cagliari, CUEC.

Gruppo Sconvegno, 2009, Feminist Activism and Practice:

Asserting Autonomy and Resisting Precarity, in Albertazzi,

D., Ross Ch. et al. (a cura di) Resisting the Tide: Cultures of

Opposition in the Berlusconi Years, 2001-06, Londra e New

York, Continuum.

Istat, 2010, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel

2009, Roma.

Genere e precarità

267

flash creativi

The p.s. (la studiosa precaria)

di roz (Rosella Simonari)1

The p.s. Manifesto

La p.s. è il post scriptum del sistema universitario

italiano. È uno dei molti esempi di p.s. che lottano in un

mondo accademico dove il merito, nella maggior parte

dei casi, non esiste. Lavora come professore a contratto

ma, per vivere e pagare le spese della ricerca, lavora

anche in un bar. Vive con un padre e fratello

inconsciamente misogini. È una lei perché la precarietà

influisce sulla vita delle donne in maniera diversa

rispetto a quella degli uomini. L‟uso dell‟inglese è

politico poiché l‟idea di questa striscia è che viaggi oltre

i confini nazionali. La forma è precaria come il

contenuto, quindi lo stile è intenzionalmente impreciso e

minimale. La carta che uso per disegnare le strisce è

carta comune di tipi differenti, come la carta da pacchi,

la carta per fare schizzi o la carta dei quadernoni a righe.

p.s.: anche se ha aspetti in comune con la mia vita, non

è un personaggio autobiografico.

1 www.theps09.blogspot.com

Genere e precarità

268

Giorno libero

5. Oggi finalmente ho la possibilità di rilassarmi!

6. Prima però devo terminare di scrivere il mio

saggio, preparare per la conferenza a Oxford,

andare all‟ufficio postale e in banca, comprare

del cibo e fare la lavatrice...

7. ok, forse mi rilasso la settimana prossima!

Professore a contratto

8. Quanto ti paga l'Università?

9. 2000 euro!

Genere e precarità

269

10. Wow, non è male per un professore a contratto!

È al mese?

11. no, all‟anno!

Periodo di transizione

12. Vedi, fratellino, so che è difficile avere a che

fare con me!

13. Ma devi capire che questo è un periodo di

transizione per me ... sono sicura che presto le

cose andranno meglio!

14. Va bene, come dici tu sorellina, ma per quanto

io ricordi tu sei sempre stata in un periodo di

transizione.

Genere e precarità

270

Genere e precarità

271

[immagine in questa pagina: Spidermom di Sexyshock, figurina per l‟Euro

Mayday Album del 1 maggio milanese 2005]

Genere e precarità

272

Manifesto della precasapiens

Una precaria s‟aggira per l‟Europa...

La pendolare esistenziale

traffica saperi dentro e fuori l‟Università

è full time fuori orario

senza avanzamenti di carriera, è a tempo libero

determinato.

Ha il privilegio di frequentare i luoghi dello

sfruttamento creativo

è la manovale della conoscenza

è la cognitaria invisibile, ma presente ovunque

fuori e dentro l‟aula, l‟ufficio, la casa.

Fuori di testa, esce dall‟Italia, in fuga con il suo

cervello,

in fuga dal suo cervello.

Donatrice di sangue e linfa mentale...

Genere e precarità

273

Filastrocca della pensolare esistenziale

Ilaria la precognitaria vive di relazioni campate in aria.

È elettrica come una pila per sette giorni di fila.

È fidanzata con Marco d’ Aosta, quando di lunedì

lavora alla posta.

Ha Luca di Tignale se di martedì lavora al giornale.

Michele di Lecco se mercoledì fa i turni all’Adeco.

Francesco ce l’ha nella sua città se di giovedì fa la

schiava all’università.

Gianfranco poi a Casavatore quando di venerdì «dona»

sangue al suo editore

E del sabato non ne parliamo perché Davide di Milano

purtroppo le ha detto «ti amo».

E di domenica, giorno in cui pure il Signore si è

riposato,

ad Ilaria tocca invece fare il bucato…

Genere e precarità

274

Reti e gruppi precari@ on-line

Prec@s, http://www.women.it/precas

Sexyshock, Bologna

http://www.ecn.org/sexyshock/

Intelligence precaria Milano, http://www.precaria.org

Agorà del lavoro, http://agoradellavoro.wordpress.com/

Punto Donna Precaria

http://www.correntealternata.org/index.php?option=com

_content&view=article&id=8&Itemid=7

Quaderni di San Precario,

http://quaderni.sanprecario.info/

Rete Redattori Precari, http://www.rerepre.org/

Reti Ricercatori Precari http://ricercatoriprecari.blogspot.com/

http://www.ricercatoriprecari.it/

http://ricercatoriprecari.wetpaint.com/

http://diversamentestrutturati.noblogs.org/

http://frondaprecaria.wordpress.com/

http://laboratoriprecari.blogspot.com/

The PS precarious scholar, http://www.theps09.blogspot.com

GRUPPI FACEBOOK:

Coordinamento Precari Università

http://www.facebook.com/home.php#!/coordinamento.pr

ecariuniversita

Generazione Precaria K

http://www.facebook.com/home.php#!/media/set/?set=pa

.100000770991803

Protesta ricercatori

Genere e precarità

275

http://www.facebook.com/home.php#!/profile.php?id=10

0001034323682

Precarie Menti

http://www.facebook.com/coordinamento.precariuniversi

ta?sk=wall#!/precarie.menti

Rivoluzione Precaria anche in Italia

http://www.facebook.com/#!/pages/Rivoluzione-

Precaria-in-Italia/213172685372611

LINK EUROPEI

Precarias a la deriva Spagna

http://www.sindominio.net/karakola/precarias.htm

Euro Mayday, http://www.euromayday.org

Chain Workers, http://www.chainworkers.org

Generation Précaire, Paris

http://www.intermittents-danger.fr.fm

Middlesex Declaration of the European Precariat,

2005.

http://info.interactivist.net/article.pl?sid=04/10/18/15542

49

Le autrici:

Manuela Coppola

Si è dottorata in letteratura inglese postcoloniale presso l‟Istituto Universitario

Orientale di Napoli, ha ricevuto un post-doc biennale all‟Università della

Calabria e collabora all‟insegnamento dei corsi sulle donne e migrazioni

presso il Centro Archivio Donne dell‟Università di Napoli e alla rete europea

Genere e precarità

276

di gender studies Athena. Ha pubblicato nel 2010 il volume monografico

L’Isola Madre. Ha curato Middle Passages. English for Cultural and

Postcolonial Studies (con Kathrine Russo, 2007) e Locating Subjects. Soggetti

e saperi in formazione (con E. Federici, M. Parlati, 2009) oltre a vari saggi

sulle riscritture shakespeariane e sulla narrativa postcoloniale.

Lidia Curti

Nata a Napoli, professore di Lingua e Letteratura Inglese all‟Istituto

Universitario Orientale di Napoli, dottorato in studi angloamericani, culturali e

post-coloniali. Lidia Curti ha studioato al centro per il Cultural Studies

dell‟Università di Birmingham con Richard Hoggart che ha tradotto in

italiano. Negli ultimi anni si interesse di teoria di genere, donne e migrazioni,

letteratura e cinema post-coloniale, e razzismo in Italia.

Laura Fantone

Sociologa della cultura visiva e migrazione, esperta di Gender e Women‟s

Studies, ha studiato presso la City University of New York. Dottorata in Post-

colonial Studies presso l‟Università di Napoli «l‟Orientale». Vive tra l‟Italia e

gli Stati Uniti, dove sta svolgendo una ricerca presso l'Università di Berkeley

su l‟immigrazione e le donne asiatiche. Di recente ha curato due progetti «Re-

Sisters» e «R-esistenze», raccogliendo interviste a donne attive politicamente

in Italia, e nel Sud del mondo. Attualmente insegna al Masters di Studi Urbani

al San Francisco Art Instutite e collabora con il CIRPG di Padova. È dal 2003

la moderatrice della rete italiana Prec@s, che riunisce circa un centinaio di

precarie della formazione interessate ad un‟ottica di genere e

intergenerazionale.

Manuela Galetto

Nata nel 1976 a Padova, laureata in Sociologia, ha frequentato un Master in

Scienze del lavoro a Firenze, dove ha vissuto per tre anni. Qui ha partecipato

attivamente al Firenze Social Forum, lavorando nel frattempo con contratti di

vario tipo sia nel settore privato che pubblico. Si è trasferita a Milano per il

dottorato in Scienze del lavoro presso l‟Università Statale, conseguito nel

2008. Nella stessa università ha lavorato come assegnista di ricerca per tre

anni. Attualmente, con figlio e compagno, vive in Inghilterra dove è

ricercatrice precaria all‟Università di Warwick. Fa parte dello Sconvegno dal

2005.

Gaia Giuliani

Gaia Giuliani si occupa di studi coloniali e postcoloniali presso il

Dipartimento di Politica Istituzioni Storia dell‟Università di Bologna, e presso

il Transforming Culture Research Centre (University of Technology Sydney,

2008-2011). Ha pubblicato Beyond curiosity. James Mill e la nascita del

Genere e precarità

277

governo coloniale britannico in India e vari saggi su riviste italiane ed

internazionali e in volumi collettanei, sull‟immaginario coloniale e razziale

nell‟esperienza coloniale britannica e in quella italiana. Attivista femminista

(SexyShock, Precas), si occupa anche di Gender Studies: ha pubblicato con

«Feminist Review» e ha tradotto Soggetti di desiderio di Judith Butler. e

Chandra Mohanty, Feminism without Borders. Fa parte della redazione della

rivista «Studi Culturali»ed ha collaborato con il quotidiano «Liberazione»

(2006-2009 con articoli su genere e sessualità nell‟Italia contemporanea.

Marie Hélène Laforest

scrittrice di origini caraibiche e professore di Letteratura Inglese e Post-

colonial Studies presso l‟Università di Napoli «L‟Orientale», dove ha diretto

per anni il Centro Archivio Donne. È autrice dei racconti pubblicati in Suoni

di Haiti, e curatrice del recente volume Questi occhi nono sono per piangere.

Chiara Lasala

Nata a Bergamo nel 1972, ha collaborato per diversi anni con alcune

organizzazioni femministe milanesi occupandosi in particolare della

sperimentazione di pratiche di cooperazione internazionale tra donne con una

prospettiva femminista. In quel contesto ha incontrato le altre componenti del

gruppo Sconvegno con cui ha attraversato, discusso e agito la precarietà di

lavoro e di vita.

Da qualche anno è socia di una cooperativa di finanza mutualistica solidale

(Mag6) che ha come caratteristica la proposta di un circuito virtuoso basato

sull'autogestione del denaro e con cui sta collaborando. Questa esperienza l‟ha

portata a trasferirsi a Reggio Emilia, dove tuttora vive.

Sveva Magaraggia

Nata a Milano nel 1976, consegue 32 anni dopo il titolo di dottoressa di

ricerca in Sociologia presso l‟Università di Milano-Bicocca, dove collabora

tutt‟ora come assegnista di ricerca. È docente a contratto di Metodologia della

Ricerca Sociale e si occupa di tematiche connesse, in vari modi, agli studi di

genere. La riflessione politica femminista, e il gruppo dello Sconvegno in

particolare, accompagna ed arricchisce questo iter di studio/lavoro.

Chiara Martucci

Nata a Milano nel 1973, dopo la laurea in Storia delle dottrine politiche ha

frequentato un Master in Pari opportunità e conseguito poi un dottorato in

Studi politici all‟Università Statale di Milano. Da dieci anni, lavora con

contratti a termine a ricerche e progetti sugli studi di genere, le pari

opportunità e il pensiero delle donne. Co-fondatrice dello Sconvegno, è autrice

della monografia Libreria delle donne di Milano. Un laboratorio di pratica

politica (FrancoAngeli, 2008) e curatrice, insieme a Bianca Beccalli, del

Genere e precarità

278

volume Con voci diverse. Un confronto sul pensiero di Carol Gilligan (BCD

Editore, 2005).

Angela McRobbie Angela McRobbie, docente presso il Department of Media and

Communication del Goldsmiths College di Londra, è intellettuale chiave dei

Cultural Studies britannici. La sua ricerca spazia tra diversi temi: cultura

giovanile, sessualità e genere, moda e riviste femminili. Lavora anche sui temi

del femminismo sociale e della «nuova industria culturale». Altre aree di

interesse includono le nuove forme di lavoro, occupazione ed auto-

imprenditorialità nei contesti creativi. Tra le sue pubblicazioni, Feminism and

Youth Culture (1991), Postmodernism and Popular Culture (1994) e The

Aftermath of Feminism: Gender, Culture and Social Change (2009).

Annalisa Murgia

Annalisa Murgia ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Sociologia e

Ricerca Sociale presso l‟Università di Trento nel 2008, dove è attualmente

titolare di una borsa post-dottorato. È membro della Research Unit on

Communication, Organizational Learning and Aesthetics

(www.unitn.it/rucola) e del Centro di Studi Interdisciplinari di Genere

(www.unitn.it/csg) presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale.

Insegna all'interno del Master in Politiche di genere nel mondo del lavoro

dell'Università di Trento ed è docente del Percorso di introduzione al mondo

del lavoro presso la stessa università. I suo ambiti di ricerca riguardano

principalmente il mondo del lavoro, con specifico interesse alle tematiche

della precarietà e delle differenze di genere. Ha recentemente pubblicato i

volumi Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale. Biografie in

transito tra lavoro e non lavoro (2010) e (con Barbara Poggio e Maura De

Bon) Interventi organizzativi e politiche di genere (2010).

Elisabetta Onori

Nata nel 1975 nelle Marche, dove è tornata a vivere nel 2008 in concomitanza

della gravidanza, ha studiato Scienze politiche a Bologna e poi è arrivata a

Milano per un master in documentazione. Dopo quattro anni di precariato, è

entrata «di ruolo» come bibliotecaria all‟Università Statale di Milano e

attualmente lavora in quella di Macerata. A Milano si è anche diplomata come

insegnante Yoga, disciplina che pratica e insegna. La sua passione per la

politica femminista diventa concreta a pochi mesi da Genova 2001, cresce

nello Sconvegno e oggi prosegue come impegno attivo nella realtà

dell'economia solidale e nella militanza locale attraverso comitati e gruppi di

varia natura.

Francesca Pozzi

Genere e precarità

279

Nata a Como nel 1973, laureata in Scienze della Comunicazione, ha

conseguito un dottorato in Sociologia all‟Università Statale di Milano.

Attualmente insegna in un centro di formazione professionale e lavora come

ricercatrice precaria per enti e istituti di ricerca. Attivista del movimento dei

movimenti, ha collaborato e pubblicato con case editrici indipendenti ed è

stata fin dall‟inizio parte del gruppo Sconvegno.

Susanna Poole

È attrice e regista teatrale del progetto di teatro nel carcere di Napoli,

Maniphesta onlus. Insegna inglese all‟Università di Napoli «l‟Orientale», dove

ha svolto il dottorato interessandosi di genere, cinema e studi visivi. Ha

pubblicato The touching Camera, in S. Carotenuto (a cura di) Frontiere del

Corpo e dell’Identità (2004) e Writing Images and Imaging Words ( 2005).

Sconvegno

Lo Sconvegno è un gruppo di elaborazione politica femminista di Milano,

composto da sei donne che hanno oggi tra i 35 e i 39 anni. Nasciamo come

gruppo nel 2001, con l‟obiettivo di organizzare un incontro su che cosa può

significare definirsi femministe oggi. Da allora ci siamo riunite regolarmente

nelle case o nei posti di lavoro di ciascuna per vari anni; ora siamo sparse tra

l‟Italia e l‟Europa e fatichiamo a preservare uno spazio/tempo di incontro.

Negli anni, abbiamo partecipato a numerosi incontri nazionali e internazionali

femministi (ma non solo), facendo circolare i risultati di tre cicli di

autoinchiesta-inchiesta sull‟ambivalenza della precarietà/flessibilità che tutte

sperimentiamo nelle nostre «vite precarie». Come collettivo abbiamo curato

un libro e scritto diversi articoli e saggi per volumi e riviste, nazionali e

internazionali. Il punto di partenza – metodologico e di pratica politica – che

ha caratterizzato la nostra esperienza, è il principio del «partire da sé».

Lo Sconvegno è stato un laboratorio politico e esistenziale: uno spazio/tempo

creato dall‟alchimia delle nostre presenze, dove emozioni ed esperienze

diventavano chiavi di lettura del mondo; una magia che ci fa singolari e

collettive: più che la somma di noi tutte insieme, meno di un‟identità unica e a

sé stante.

Rosella Simonari

Dottoranda presso l‟University of Essex, UK, con un progetto di ricerca su

Martha Graham. È stata docente a contratto del corso di «Danza e mimo»

presso l‟Università degli Studi di Macerata (dall‟a.a. 2003 al 2007). Laureatasi

presso l‟Università di Macerata nel 1999, si è poi trasferita a Londra dove ha

proseguito gli studi post lauream presso il centro di danza contemporanea,

Laban, seguendo il Dance Research Programme (2000). È stata membro

ordinario della Società Italiana delle Letterate (SIL) dal 2002 al 2004. È socia

della Society for Dance Research (SDR) e della Society of Dance History

Genere e precarità

280

Scholars (SDHS). Nel settembre 2003 ha seguito un corso avanzato in

Women‟s Studies presso la NOISE Summer School dell‟Università di Utrecht,

con Rosi Braidotti. Dal 2006 si occupa della riscoperta del danzatore-pittore

marchigiano Alberto Spadolini. Collabora con le riviste Leggere Donna

(www.tufani.it) e www.ballet-dance.com per recensioni e articoli di

approfondimento. Nell‟estate 2009 ha creato un altro blog dedicato ad una sua

striscia intitolata The p.s. – la studiosa precaria, in inglese e italiano:

www.theps09.blogspot.com.

Tiziana Terranova

Tiziana Terranova è professore associato in Sociologia della Comunicazione

presso il Dipartimento di Studi Americani, Culturali e Linguistici

dell‟Università degli Studi di Napoli «L‟Orientale». Master in

Communications and Technology alla Brunel University, ottiene poi il PhD in

Media and Communications al Goldsmiths College presso la University of

London. Ha lavorato presso la New York University, il Dipartimento di

Cultural Studies della University of East London e come lecturer presso il

Dipartimento di Sociologia nella University of Essex. La sua ricerca si muove

nell'ambito della cultura, della scienza, della tecnologie e dell‟economia

politica dei nuovi media. È autrice di Culture Network (2006), Corpi nella

Rete (1996) e di altri numerosi saggi sui nuovi media pubblicati in Derive e

Approdi, CTheory, Angelaki, Social Text, Theory Culture and Society.