Genere e Precarieta'
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Genere e precarietà i
GENERE E PRECARIETÀ Laura Fantone
Collana CondivIdee
© 2011 Copyright ScriptaWeb, Napoli
Genere e precarietà ii
Senza grandi imprese che ci garantiscono sicurezza, corriamo
assai più rischi rispetto alla classe dirigenziale e operaia
dell’era fordista. Viviamo e spesso produciamo da noi stessi
al lavoro e a casa, alti livelli di stress emozionale e mentale.
Aspiriamo alla flessibilità, ma poi abbiamo meno tempo per
dedicarci alle cose che vogliamo veramente. Le tecnologie che
avrebbero dovuto liberarci del lavoro hanno invaso la nostra
vita. [...]
I (nostri) valori, le attitudini e le aspirazioni si scontrano
inesorabilmente con quelli delle altre classi già affermate e
cominciano ad apparire importanti linee di frattura.
Richard Florida
Per raccontare chi siamo e non essere raccontati,
per vivere e non sopravvivere,
per stare insieme e non da soli.
Genere e precarietà iii
Non è più tempo solo di resistere,
ma di passare all’azione, un’azione comune, perché ormai si
è infranta l’illusione della salvezza individuale.
www.ilnostrotempoeadesso.it
Genere e precarietà iv
Indice
Saggi
femminismi e creatività
- Laura Fantone, Una precarietà differente: genere e generazioni,
aspirazioni e conflitti contemporanei
- Angela McRobbie, Riflessioni sul femminismo e il lavoro
immateriale nel regime post-fordista
corpi
- Gaia Giuliani, Dislocazione e transito perenne tra generi e
sessualità: una riflessione sulle vite precarie
lavoro
- Sconvegno, Focus Group sul lavoro precario
- Anna Lisa Murgia, Posizionare identità in/stabili: Storie di
egemonie e resistenze di genere nel lavoro atipico
- Sveva Magaraggia, Tempi sociali, condizione precaria e genere:
alleanze inedite?
techné
- Tiziana Terranova, Soft Control: Emergenza geni, lavoro e
spettacolo nella new economy
Raccontarsi
- Manuela Coppola, Lidia Curti, Marie Helene Laforest e
Susanna Poole, Focus group su Donne, Migrazioni e Precarietà
- Gruppo Sconvegno, Il Lato B della precarietà
Flash Creativi
Genere e precarietà v
- Roz (Rosella Simonari), THE PS (precarious scholar)
- Rete Prec@s, manifesto della precasapiens
- Ilaria la Precognitaria, Filastrocca
- Reti e Gruppi on-line
Genere e precarietà vi
Hanno contributo a questo volume le seguenti persone che
ringraziamo infinitamente::
Laura Balbo, Professore di Sociologia, Università di Padova.
CIRSPG, Università di Padova, nelle persone di Alisa del Re e
Lorenza Perini
Associazione PrecArt di Bologna
Alessandra Fasano, Manuela Galletto per le traduzioni e soprattutto
Gaia Giuliani e Chiara Martucci per la correzione di bozze
meticolosa e paziente
Domenico Baldari, per essere un editore saggio e innovativo
Feminist Review , dando spazio alle idee e alle giovani studiose, e
creando un‟occasione d i dialogo senza la quale questo libro non
avrebbe mai preso forma.
Le autrici che hanno risposto al Bando CondivIdee 2010 e ai nostri
inviti a condividere i propri scritti
Genere e precarietà 1
femminismi e creatività
Una precarietà differente: Conflitti generazionali e di genere nell’Italia
contemporanea
di Laura Fantone
Nell‟ultimo decennio alcuni movimenti sociali europei
hanno preso forma intorno al problema della
flessibilizzazione del lavoro, dando vita ad una forte
reazione al neoliberismo, al declino del welfare e dei
diritti sociali acquisiti durante il ventesimo secolo,
attraverso varie battaglie intraprese in grande e piccole
azioni, da lavoratori, studenti, migranti, genitori e
cittadini dei paesi industrializzati.1
Nel caso italiano, dal 2000, nuove leggi, misure fiscali e
modelli di gestione d‟impresa hanno trasformato
profondamente il lavoro in senso qualitativo e
quantitativo, in particolare con l‟introduzione di agenzie
private che forniscono lavoro interinale, e con la
diffusione di nuovi contratti a progetto (riforma del
lavoro in atto dal 2002, che in pochi anni ha investito
tutti i paesi della zona Euro). Vari studi e ricerche si
sono incentrate su come questi cambiamenti abbiano
influito sulla forza lavoro in generale (Tiddi, Zanini,
Chaincrew, Accornero), ma in questa sede ci
occuperemo dell‟intersezione tra precarietà e giovani
donne. Fino a pochi anni fa un approccio di genere è
1 Vedi, tra gli altri, Hobsbawn, Piven e Cloward, e in Italia tra le molte
ricerche storiche sul lavoro e saggi politici, tra questi, si vedano Negri, Virno,
Tronti, Fumagalli, Mancini.
Genere e precarietà 2
stato poco frequente (Allegrini 2005). Quando gli
studiosi si sono confrontanti con questo tema, hanno
spesso scelto un‟ottica macroscopica, fatta da grandi
scenari economici e sociali comparativi. Negli ultimi
tre anni il numero delle pubblicazioni e conferenze sulla
precarietà, e le sue implicazioni di genere e generazioni
si sono moltiplicate, e si è sviluppato un vocabolario
comune, utile per dialogare e costruire politiche
condivise.
Tuttavia, in questo scritto s‟intende analizzare la
precarietà e le sue forme molteplici in relazione al
genere e alle generazioni di giovani adulte
specificatamente, perché questi sono i gruppi sociali che
vivono le conseguenze nella quotidianità e nelle
prospettive di vita e lavoro, riflettendo una nuova
sensibilità che unisce creatività, lavoro flessibile, e una
visione critica della precarietà informata da precedenti
concezioni di ricerca femminista, unite all‟obiettivo
metodologico di evitare i riduzionismi che associano ad
essa una semplice condizione di lavoro negativa, o un
fenomeno puramente economico. Al contrario, in questo
articolo s‟intende mostrare come la flessibilità del
mercato del lavoro e la precarietà dei diritti siano
fenomeni correlati ma differenti, e non solamente
negativi per la generazione di giovani donne che
lavorano nella formazione e nei settori creativi, in età
compresa tra i trenta e i quarant‟anni. Se si pensa alla
precarietà in senso più ampio, esistenziale, il termine
può essere associato alla creatività, cosa che permette
un ribaltamento e un «riutilizzo» della precarietà come
condizione sua potenzialmente critica rispetto ai valori
tradizionali che molta parte della società italiana impone
alle giovani.
Genere e precarietà 3
In vari studi recenti, sociologi, economisti e filosofi
appartenenti ad una generazione che non ha vissuto la
precarietà strutturale, si spendono in giudizi ampi e
generali (sostenendo che la precarietà c‟è sempre stata,
e dunque non sia nulla di nuovo), che riducono la
complessità della vita precaria vissuta, e spesso
finiscono per riproporre un paradigma di paragone
negativo con le istanze emerse negli anni sessanta e
settanta: le lotte devono emergere nel luogo di lavoro,
ed organizzarsi secondo logiche sindacali di
rivendicazioni di diritti economici e di riforme
espansive dello stato sociale.
Invece, la precarietà non si legge qui solo come
condizione ma come lente che rende chiaro a tutti i
giovani uomini e donne europee i meccanismi che
perpetuano forme di sfruttamento nuove e antiche, in un
contesto economico postfordista. Per esempio, l‟ascesa
del settore dei servizi alla persona nell‟Europa
contemporanea e in generale nei paesi tardocapitalisti,
non ha liberato le donne dal peso del lavoro affettivo e
della riproduzione sociale; piuttosto queste forme di
lavoro vengono ridistribuite iniquamente tra donne
anziane, giovani e donne immigrate che svolgono i
lavori di cura sottopagato, in un mercato
deregolamentato.2
Al tempo stesso alcuni gruppi politici di donne vedono
con crescente scetticismo le idee di sicurezza e di
stabilità, come fondamento di un modello di vita
famigliare, matrimoniale ed economica tipicamente
italiano, che addossa alle donne molteplici
responsabilità, sia sul lavoro che in casa, senza peraltro
2 Vedi l‟ampia letteratura sul tema, ma soprattutto Hochshield e Ehrenreich in
Donne Globali, per un‟analisi che atttraversa differenze geografiche, di classe
e settori di impiego.
Genere e precarietà 4
dare riconoscimento sociale a questi impegni notevoli.
Tuttavia è importante chiarire fin dall‟inizio che, dal
punto di vista della generazione delle giovani, la
precarietà lavorativa, tipicamente neoliberista,
rappresenta una nuova forma di sfruttamento e di
erosione dei diritti sociali, alla quale si tenta di resistere
in modi nuovi. È chiaro che le varie esperienze di
instabilità delle giovani richiedono nuove strategie e
strumenti di analisi, che possono emergere solo da
un‟attenta osservazione dal basso e dell‟ascolto di chi
vive e partecipa della precarietà di vita. Quest‟analisi
nasce dalla premessa che per affrontare la precarietà sia
necessario ripensare le forme di solidarietà e le capacità
di fare rete tra gruppi diversi per genere, generazioni e
provenienza geografica, non semplicemente resistere la
precarizzazione di alcuni settori sulla base della difesa
di vecchi diritti limitati, o attraverso battaglie puramente
legali. Questo volume è stato concepito per dare
visibilità e voce alla conoscenza situata e «dal basso»
che le giovani precarie producono e scambiano per
sopravvivere, non solo perché è un fenomeno nuovo da
studiare, ma per evitare che si studi la precarietà dietro
una lente d‟ingrandimento che separara il soggetto
dall‟oggetto di studio, in una pretesa neutralità.
Le precarie si trovano a vivere e studiare
contemporaneamente la propria vita in mutamento, per
sopravvivere e lottare contro le forme sottili e pesanti di
sfruttamento che persistono anche in campo
accademico. Il movimento italiano degli studenti e
ricercatori precari, in grande espansione negli ultimi due
anni, dimostra come lo studio della precarietà e l‟azione
per constrastarla siano collegati sempre più
chiaramente. Soprattutto se pensiamo al tracollo
finanziario globale del 2008, e alla riforma del sistema
Genere e precarietà 5
universitario votata nel 2010 in Italia. In questa
sequenza di eventi emerge un nuovo movimento
studentesco che collega fortemente instanze di
precarietà e conoscenza, libero accesso a cultura e
informazione, unite alla frustrazione e disillusione sul
futuro, alla sovraqualificazione professionale, alla
consapevolezza dell‟insicurezza sociale, e alla denuncia
della gerontocrazia, e delle privatizzazioni. In
quest‟ottica è importante scrivere e parlare della
precarietà vissuta e studiata, dare spazio alle zone
indefinite di sovrapposizione tra biografia, politica e
soggettività sociale in fase emergente.
1. La precarietà come problema postindustriale:
il contesto europeo
I movimenti sociali che si sono formati intorno alla
precarietà nell‟ultimo decennio in Italia e in altre parti
d‟Europa, si muovono in un contesto sociale demarcato
da un aumento delle disuguaglianze economiche e di
disparità crescenti nei diritti di cittadinanza e di
partecipazione politica. I processi di negazione o
attribuzione di tali diritti ricalcano sempre più spesso
criteri che seguono le linee di differenziazione
identitaria, come l‟età, il colore della pelle, la
mascolinità (maschile e non, adulto e non, bianco e
non), e le origini geografiche (appartenenti al nord o al
sud del mondo). In questo contesto difficile, è
importante riconoscere che i movimenti sulla precarietà
rappresentano un nuovo scenario, e parlano un
linguaggio politico in grado di mobilitare una
generazione attraverso l‟Europa e a riportare il lavoro al
centro dei movimenti di sinistra, spesso disorientati nel
contesto postfordista. Il movimento europeo dei precari
Genere e precarietà 6
si configura come unico o peculiare, specialmente se
paragonato ad altri contesti post-industriali come quelli
nordamericano, dove la flessibilizzazione del lavoro è
già avvenuta in larga parte negli anni ottanta, senza
trovare una risposta nella sfera pubblica né
mobilitazioni di movimenti di massa.3 Infatti, i
movimenti dei precari mettono in luce problemi vitali
oggi per molti paesi europei che affrontano grandi
riforme del mercato del lavoro come l‟Italia, la Grecia,
la Spagna ma anche la Francia4, dove sono esplose
grandi ribellioni nella primavera del 2006, dal 2008 in
Grecia e nel 2011 la Spagna degli indignados. Le
analogie tra i movimenti esistono, oltre alle specificità e
sono tali che ne rendono palese persino un certo
eurocentrismo.
Non si può negare il fatto che i movimenti dei precari
abbiano messo in atto strategie nuove, utili a unificare
gruppi diversi tra loro creando un orizzonte condiviso.
Infatti, tale movimento si è appropriato di un termine
negativo, quasi tabù, la precarietà, e lo ha trasformato in
un elemento d‟identità politica unificante, facendolo
circolare ampiamente. Questo mutamento discorsivo va
riconosciuto come un successo, perché ha permesso la
3 Si deve chiarire che negli Stati Uniti le critiche alla new economy, e ai
contratti di lavoro temporaneo non sono mancate. In generale, molti studi e voci critiche hanno denunciato gli effetti devastanti del neoliberismo
dell‟epoca reaganiana e clintoniana, pur non raggiungendo mai un livello di
visibilità nei dibattiti politici predominanti negli anni ottanta. Dal punto di vista dei movimenti sociali, è importate ricordare le varie forme di resistenza
emerse negli scritti contro-culturali, negli anni ottanta e novanta. Tra questi,
le riviste Temp Slave o Processed World hanno avuto un ruolo cruciale nella diffusione e condivisione di forme di resistenza e rifiuto del lavoro
temporaneo e a lungo termine, coniugate ad una critica della vita quotidiana e
del lavoro informatizzato. 4 È utile ricordare le numerose statistiche riguardanti i paesi dell‟area
mediterranea e nell‟Unione Europea, come caratterizzati da dati sui salari più
bassi rispetto al resto dell‟Europa occidentale.
Genere e precarietà 7
creazione di un concetto politicamente utile a dar voce
alle richieste di nuovi diritti, ancora oggi in fase di
elaborazione5 (si pensi all‟idea di flexicurity, il libero
accesso ai saperi e alla cultura, i diritti alla casa e alla
libera circolazione). Tuttavia, qui di seguito s‟intende
descrivere anche alcuni limiti materiali e discorsivi del
movimento dei precari, assumendo un punto vista
situato e incentrato sul genere.
2. La specificità italiana: lavoro flessibile e
istituzioni inflessibili
Dati recenti raccolti dall‟European Commission for
Labor Affairs riportano che oltre quattro milioni di
italiani svolgono lavori precari sotto forma di lavoro
autonomo, temporaneo o parasubordinato.6 Di questi,
più di due milioni lavorano per enti pubblici, sia in
istituzioni statali che locali (scuole, regioni, province,
comuni, poste, unità sanitarie o media locali). Questi
quattro milioni di lavoratori sono chiamati «atipici»
(co.co.pro, collaboratore esterno, occasionale, di
seconda generazione, contingenti) o con altre
5 Un aspetto importante dei movimenti dei precari risiede nell‟intuizione
della necessità di auto-organizzarsi e sostituire il ruolo del sindacato, cioé
quello di fornire aiuto legale e strumenti concreti di aiuto ad una categoria di lavoratori che si sente spesso abbandonata dai sindacati tradizionali. 6 La cifra è soggetta a continue revisioni. Si deve tenere conto del un contesto
generale di aumento rapido in tutta l‟Europa continentale, dal 1996 al 2000 e al 2005 delle forme di lavoro temporaneo, che sembra coinvolgere
approssimativamente il 30% della forza lavoro. Il caso italiano sarebbe
ulteriormente aggravato dalle stime sul lavoro sommerso, che aggiungerebbero circa 4 milioni di lavoratori, chiaramente privi di tutele e
sicurezza (dati riassunti dalla relazione intitolata Precarity and Social
Integration della Commissione Europea, 2006).
Genere e precarietà 8
definizioni tecniche che rasentano l‟umorismo
involontario.7
Una ricerca comparativa svolta dalla CGIL nelle regioni
della Lombardia e dell‟Emilia Romagna (2005) ha
scoperto l‟esistenza di almeno 1.5 milioni di lavoratori
temporanei, che dopo due anni di occupazione presso lo
stesso datore di lavoro (dal 2002 al 2004), non avevano
avuto alcuna opportunità di accedere ad un contratto
migliore o ad un impiego a lungo termine. Se si
considera che nello scorso decennio, circa il 20% della
forza lavoro italiana è stata precarizzata, non sorprende
che il movimento dei precari abbia portato a
mobilitazioni di piazza dai numeri notevoli. Le
manifestazioni dell‟EuroMayday sono cresciute
gradualmente da 5,000 partecipanti a Milano nel 2001 a
50,000 nel 2005, come anche vari scioperi in
concomitanza del primo maggio a Barcellona, Parigi e
in Grecia che continuano fino ad oggi – vale la pena di
ricordare qui lo sciopero dei precari italiani dell‟aprile
2011.
Dunque il termine precarietà si è trasformato diventando
un‟idea chiave per pensare ai mutamenti economici e
sociali, specialmente importante in un contesto
caratterizzato da condizioni di lavoro che non facilitano
comunicazione, legami e unità tra i lavoratori, e dove i
sindacati non riescono ad elaborare strumenti capaci di
cambiamento. Per queste ragioni, il movimento dei
precari spesso agisce diversamente dai classici modi di
rivendicazione sindacale, facendo un uso sofisticato dei
media e delle forme di comunicazione dal basso,
7 Vedi alcune delle analisi più influenti elaborate da Bologna e Fumagalli, che già dagli anni novanta (1997) hanno contribuito a smascherare la
presunta neutralità di un vocabolario teso a ridefinire il lavoro salariato in
senso negativo.
Genere e precarietà 9
mantenendo un certa fluidità di confini, tanto da
permettere identificazioni multiple di soggetti variegati.
Un elemento che pure accomuna le tante parti del
movimento dei precari è l‟appartenenza generazionale.
In effetti i precari sono quasi tutti appartenenti a quella
generazione di età compresa tra i venti e i quarant‟anni,
anche se recentemente è emerso come la precarietà si
protragga fino alla soglia dei cinquanta. Per quanto
riguarda il settore del lavoro creativo e legato alla
formazione, si tratta per lo più di giovani che vivono in
città, politicizzati e scolarizzati, a volte
(sovra)qualificati, cresciuti con speranze di buone
prospettive di realizzazione professionale. Entro questa
definizione si trova un grande varietà di stili di vita,
forme di lavoro e appartenenza di classe, di provenienza
geografica, etnica, ma anche di genere, tutte coinvolte
nel meccanismo della precarietà. Per usare l‟espressione
di Pierre Bourdieu la generation précarie (1999) inizia
a vivere con risentimento la flessibilità lavorativa senza
sbocchi, e associa a questa condizione altre delusioni
per le istituzioni che fanno la società italiana in
generale, come già registrava il rapporto dell‟European
Foundation for the Development of Living and Working
(2000) e, più recentemente il demografo Micheli (2008).
Già da qualche tempo la flessibilità del lavoro e la
precarietà sono oggetto di studio e ricerche svolte nei
vari paesi europei, venendo a costituire una
problematica riconosciuta come centrale dall‟opinione
comune, un argomento di discussione sia per il cittadino
medio sia per politici in campagna elettorale. Eppure
tali discorsi predominanti assumono toni apocalittici,
che dipingono giovani lavoratori europei come figure
tragicamente passive, vittime di un meccanismo che li
esclude dalla sicurezza del lavoro e non valorizza le loro
Genere e precarietà 10
qualifiche professionali. La diffusione di questo
pessimismo ha certamente alimentato il movimento dei
precari, che è riuscito a canalizzare l‟energie negative in
azioni e manifestazioni collettive, capaci di legare
esperienze personali e generazionali, esprimendosi
attraverso un linguaggio accessibile a vari gruppi di
giovani e, al tempo stesso, sviluppando argomenti
importanti per pensare nuove politiche del lavoro e
sindacali.
3. Mercato post-industriale, valori e modelli pre-
industriali
Un aspetto tipicamente italiano della flessibilizzazione
del mercato del lavoro risiede nel forte contrasto con le
istituzioni predominanti, antiche e difficili da riformare.
Se si pensa a quanto la società italiana tenda a
riprodurre ruoli e funzioni sociali rigide, nella divisione
del lavoro sociale, nelle identità di genere, nel rispetto
per l‟età, è chiaro che nuove forme di lavoro e di scelte
di vita, di nuove forme di famiglie, che possono
apparire temporanee e instabili, vengono accolte con
scetticismo e timore (Micheli 2008). La precarietà ha
diverse implicazioni per le generazioni più giovani, ma
anche per gli adulti che potrebbero già avere esperienza
ed età maggiori. La combinazione dell‟instabilità
lavorativa, della mancanza di fondi pubblici che
promuovono l‟iniziativa giovanile e le condizioni
economiche generali di crisi, aggravatesi dal 2008,
hanno portato molti giovani professionisti a lasciare
l‟Italia, abbandonando i settori ad alta innovazione,
esasperati dalla mancanza di status, dalle burocrazie
inflessibili e dai salari bassi (Roggero 2005). In effetti è
comprovato che molti giovani che lavorano, possono
Genere e precarietà 11
sopravvivere ai limiti economici del lavoro precario
perché la famiglia di origine fornisce aiuto in varie
forme (Rapporto ISTAT 2010, Saraceno 1998). Un
esempio di questo fenomeno è leggibile attraverso il
dato sui luoghi di residenza di molti giovani italiani:
nella stragrande maggioranza la popolazione sotto i 35
anni d‟età vive entro trenta chilometri di distanza dalla
propria famiglia d‟origine. I rapporti ISTAT sulle
famiglie italiane (2008) rivelano anche che sotto
quarant‟anni d‟età, molti vedono i propri genitori più di
due volte a settimana e dichiarano di ricevere aiuti
materiali da questi. In effetti la povertà e lo stile di vita
dai consumi limitati, tipici di chi vive di lavori
temporanei (o dei working poor) non fanno parte
dell‟esperienza diretta di molti giovani che ricevono
appoggio dalla propria famiglia. I membri più anziani
aiutano i più giovani anche rinunciando al proprio
vantaggio economico, mentre i precari si trovano a
rinunciare alla propria indipendenza. Questo mix letale
di fattori, forza le famiglie di classe media a mobilitare
le proprie risorse umane e finanziarie distribuendole su
tre generazioni, i nonni, i genitori e i nipoti, spesso
faticando a mantenere gli standard di vita a cui erano
abituati negli ultimi decenni. In effetti, vari indicatori
economici mostrano come la classe media italiana stia
entrando in un‟economia di debito per la prima volta,
dilapidando i risparmi e quel pò di capitale accumulato
dalla generazione impiegata ai tempi del boom
economico seguente alla seconda guerra mondiale
(ISTAT 2009). Questo dato, visto insieme al
neoliberismo, alla globalizzazione e indirettamente alla
flessibilità lavorativa non è assolutamente secondario.
Dagli anni cinquanta in poi, molte famiglie di lavoratori
sono stati in grado di acquistare la propria prima casa,
Genere e precarietà 12
contando sui mutui pagabili con il proprio stipendio
garantito dal contratto a tempo indeterminato. Il lavoro
a vita garantiva a questa generazione anche una
pensione alla fine della propria carriera. Oggi questo
modello non si riproduce con le generazioni successive,
e le famiglie si trovano a dover intaccare i propri
risparmi. In un contesto economico e sociale di crisi, la
flessibilizzazione del lavoro è diventata un altro oggetto
di frustrazioni e scontento diffuso per le giovani donne
(Barazzetti 2007). Al di là delle percezioni, resta il dato
che la precarizzazione del lavoro abbia rinforzato
vecchie dinamiche di potere, ruoli tradizionali nella
famiglia, e differenze di classe. Dunque, a fronte di
grandi mutamenti economici e un impoverimento
dell‟offerta di servizi pubblici, la famiglia si è rivelata
una struttura capace di adattarsi e supplire ad altre
mancanze, come dimostrano molte ricerche
sociologiche (Bruning 1999; Frey 1998; Rapporto
ISTAT 2008). Pur non addentrandosi in questo settore
di ricerca già preminente, è importante ricordare che la
famiglia italiana è caratterizzata da dinamiche di genere
che reiterano disuguaglianze piuttosto forti, un tema che
verrà affrontato in seguito. In questa lettura, la
precarietà mostra la sua natura ambigua: da un lato
porta ad un aumento del rischio individuale, mentre
dall‟altro rafforza le istituzioni e i vecchi poteri, che
vengono mobilitati per sostenere il peso economico del
neoliberismo globale che schiaccia e riduce le risorse
societarie disponibili.
4. Paradossi della precarietà: rigidità e rischio
Negli anni ottanta e novanta, alcuni filosofi e sociologi
discutevano l‟emergenza della risk society, la società
Genere e precarietà 13
dell‟informazione e delle reti e del rischio diffuso
(Beck, Lash e Urry, Baumann, Castells) in un momento
storico di ascesa del neoliberismo e della
globalizzazione. Tali grandi cambiamenti necessitavano
di nuovi strumenti per comprenderne gli effetti, e molti
studiosi registravano un mutamento nelle logiche
predominanti della società, come il passaggio ad una
temporalità di breve termine o la necessità di riadattare
le informazioni e conoscenze continuamente per
rispondere alla complessità imprevedibile del
quotidiano. Se si pensano i livelli microsociale e macro
strutturale come inevitabilmente collegati e in fase di
coevoluzione, allora è necessario non pensare al rischio
come fondamentale per i sistemi ma sempre più come
elemento esternalizzato dal tardo capitalismo che ricade
sulle sfere sociale, privata e individuale, come illustra
Terranova nella sua discussione sulla creatività e il soft
control – controllo morbido – riportata in questo volume
(2004). In seguito al crack finanziario del 2008 e della
crisi dei mutui queste teorizzazioni appaiono molto
chiare e attuali, ma che sopratutto riflettono l‟esperienza
della generazione precaria, per la quale l‟incertezza è
quasi scontata e il rischio parte delle logiche che
regolano la propria vita, fondamentalmente
caratterizzata da insicurezza e pianificazioni a breve
termine (CENSIS 2005).
La generation précaire vive nell‟insicurezza economica,
lavora in orari e con tempi non-ortodossi, si adatta
volente o nolete al mercato del lavoro che muta
rapidamente, divendo parte fondamentale di quel
sistema di innovazione capace di sfruttare incertezza,
moltitudini acentriche e complessità per estrarne valore
(Terranova 2004).
Genere e precarietà 14
Ciò che sfugge spesso agli studiosi sono le difficoltà di
applicazione di queste logiche, nella società italiana e
nelle sue istituzioni, ma anche a livello quotidiano,
quelle difficoltà tipicamente espresse dalla generazione
che vive senza orizzonte di uscita dalla precarietà. Se i
precari italiani devono adattarsi rapidamente a
condizioni mutevoli, il loro sforzo non è conciliabile
con servizi pubblici inefficienti e lenti, specialmente in
luoghi e istituzioni che funzionano secondo logiche
antitetiche alla flessibilità e alla rapidità (Del Boca,
Pasqua et al. 2007). È utile ricordare qui che le
privatizzazioni degli enti italiani non hanno coinciso
con un aumento dei servizi, ma piuttosto con riduzione
nella qualità e nella disponibilità di questi, che restano
poco accessibili e non efficenti quanto prima (trasporti,
banche, poste, scuole, asili e doposcuola). Infatti, la
combinazione di una crescente burocratizzazione dei
processi e una nuova scarsità di risorse successiva alla
crisi economica del 2008, ha portato ad un modello
istituzionale del tutto inflessibile, contrastante con la
richiesta di flessibilità imposta ai lavoratori temporanei.
Insomma, per usare le parole di Sennet, alle
«conseguenze personali» del lavoro nel nuovo
capitalismo (1998), corrispondono anche conseguenze
sociali gravi, come l‟inefficienza generale,
l‟impoverimento e lo scontento tra i cittadini sempre più
impossibilitati a conciliare vita e lavoro (CENSIS-IRES
2003, ISTAT 2008), soprattutto le donne adulte.
Questi paradossi mostrano, dunque, l‟ambiguità della
precarietà, e offrono un‟opportunità di uscire da una
critica monolitica a questo fenomeno, già sfruttata e
incapace di proporre letture politicamente utili a
cambiarla. Osservando le ambiguità, si intravedono vari
modi in cui la precarietà incrina modelli sociali
Genere e precarietà 15
preesistenti, aprendo alla possibilità di cambiamenti
imprevedibili, contraddizioni di cui appropriarsi, da
tradurre e hackerare, seguendo una logica queer.
5. Precarietà tra genere e generazioni
Da un punto di vista di genere, la precarietà può essere
un termine utile per opporsi ai ruoli tradizionali
femminili ancora fortemente presenti nel constesto
italiano. La precarietà richiede una rottura con la rigidità
delle istituzioni italiane, da sempre incentrate sulla
famiglia e sulla scarsa mobilità geografica. Alcuni
gruppi di giovani donne, come Sconvegno, la rete
Prec@s e Sexyshock, rappresentati in questo volume, da
qualche anno discutono di precarietà a partire dalla
propria esperienza di lavoro intellettuale e dalla proprie
scelte di vita, nelle quali la precarietà assume a volte un
ruolo positivo, se sottoposto ad una politica discorsiva
fatta di rovesciamenti, di letture comiche e provocatorie,
ispirate alla queer theory.8 Questa critica alla precarietà
da parte di alcuni gruppi di donne (di età compresa tra i
trenta e i quarant‟anni circa – thirtysomething) non
riguarda solo la dimensione lavorativa o il mercato del
lavoro flessibile, ma molte altri aspetti della propria vita
poco flessibili, con cui le donne si confrontano: le
classiche tappe del matrimonio, della maternità, il
necessario lavoro di cura, il ruolo inevitabile di
consumatore, la fedeltà alle aziende, l‟ideale di una vita
pianificata intorno alla carriera e alla famiglia come
elementi stabili.
8 Vedi l‟articolo di Sconvegno in questo volume per una riflessione sui
mutamenti nella percezione della precarietà da parte di un gruppo di donne
nell‟arco di sette anni di vita.
Genere e precarietà 16
Se ci chiedono di essere flessibili, pronte a
cambiare piani nel breve termine, perché tutte
la società ci impone di essere fedeli, di
mantenere famiglie stabili, aspirare ad un
lavoro stabile e seguire orari fissi (dalla
mailing list Prec@s, 2007)?
Questa semplice domanda sottende una critica
fondamentale alle istituzioni statali e ai valori sociali
prevalenti, che non danno strumenti alle giovani per
comporre dai pezzi disparati una vita sensata (Piazza
2003). Non solo, questa critica evoca alcuni argomenti
delle femministe storiche, come l‟esperienza della
doppia presenza, nel lavoro di cura e nel lavoro salariato
(Balbo 1978), peraltro non riconosciuto adeguatamente
in entrambi i casi.
Oggi si deve registrare che la società italiana tende a
rinforzare ruoli tradizionali delle donne, legati alla
riproduzione e alla cura, solo in parte spiegabili dai
trend demografici di invecchiamento della popolazione
e dalla ridotta natalità (Saraceno 1998), o riconducibili
al fatto che solo la generazione precedente di donne
adulte e anziane oggi, è entrata in massa e per la prima
volta nel mercato del lavoro. Il cambiamento che questo
fenomeno ha comportato è grande e non sempre facile
da accettare. Nel settore industriale privato, che
dovrebbe essere aperto alle donne e alla flessibilità, è
diffusa ancora oggi una cultura aziendale
discriminatoria, che non incoraggia le donne a inseguire
una carriera ad alto profilo (Gherardi 2003).9
9 Uno degli indici utilizzati per comparare la presenza di donne nel mercato
del lavoro, il loro status e le loro prospettive di carriera rispetto ai lavoratori è la frequenza di contratti part-time. Nell‟Unione Europea, il numero di donne
impiegate con contratti part-time è quattro volte superiore a quello degli
uomini, mentre negli Stati Uniti solo doppio (CENSIS 1999). Anche il
Genere e precarietà 17
Quindi la precarietà, se opposta alla sicurezza
lavorativa, può avere un significato diverso per le
lavoratrici, e accettare questa molteplicità femminile di
letture della precarietà può essere una sfida sia al
modello economico neoliberista, che all‟universalismo
che spesso caratterizza i movimenti dei lavoratori.
Anche il movimento dei precari, nelle sue
manifestazioni più avanzate, come a Milano, Parigi, in
Grecia e in Spagna, è iniziato con discussioni e slogan
rivolti ad un idealtipo di lavoratore temporaneo,
generalmente corrispondente ad un giovane uomo, che
vive in grandi centri urbani (dell‟Italia centrale o
settentrionale) impiegato nel settore dei servizi, come
nelle grandi catene di distribuzione o nei call-center, che
svolge mansioni elementari e ripetitive. Nella sua
evoluzione, il movimento dei precari ha iniziato a
prendere in considerazione anche altri soggetti, che
hanno sposato l‟attenzione su alcuni limiti discorsivi e
su alcuni temi; nel caso delle donne, dando rilevanza al
lavoro affettivo, di cura e di mutamento della
riproduzione sociale ai tempi della flessibilità. In tempi
recenti, i volantini e le rivendicazioni dei precari hanno
menzionato il diritto alla maternità o al riconoscimento
ai congedi parentali di uomini e donne precarie
(documenti prodotti da Mayday 2005; Intelligence
Precaria 2009). Tuttavia, nell‟immaginario politico
italiano l‟idea diffusa del soggetto precario resta
incentrata sul lavoratore del call-center o della catena di
negozi multinazionale, che si ritrova già nella critica
fenomeno del «tetto di cristallo» è frequente: nelle 200 aziende più
importanti in Europa, le donne presenti in posizioni dirigenziali
rappresentano l‟8% del totale, e negli Stati Uniti ne rappresentano il 14%. Solo la Norvegia ha implementato quote che impongono agli enti pubblici di
avere almeno 40% di dirigenti donne, e ora sperimenta misure analoghe nel
settore privato (Newsweek, febbraio 2006).
Genere e precarietà 18
alla globalizzazione. Saskia Sassen registrava già nel
2001 alcune mancanze nell‟immaginario d‟opposizione
all‟economia globale:
l‟interpretazione più diffusa della globalizzazione
tende a dare per scontata l‟esistenza di un sistema
economico globale comune, che svolge una
funzione di potere delle aziende e delle
comunicazioni transnazionali […]. Ma se le
aziende transnazionali possono essere gestite,
coordinate e controllate su scala globale, ciò
accade perché quella capacità è stata prodotta.
Focalizzandosi sulla produzione di tale capacità si
sposta l‟accento sulle pratiche che costituiscono la
globalizzazione economica: il lavoro di produrre e
riprodurre l‟organizzazione e le funzioni direttive
di un sistema globale. Ampliando in questo modo
l‟analisi, non si nega l‟importanza
dell‟ipermobilità e del potere. Piuttosto si
riconosce che molte risorse necessarie alle attività
economiche globali non sono iper-mobili, ma al
contrario, profondamente radicate in un luogo, che
può essere una città globale o un‟area
d‟esportazione […]. Se recuperiamo la geografia
che sta dietro alla globalizzazione, ritroveremo
anche i lavoratori, le comunità e le culture del
lavoro dei singoli luoghi, non solo quelli delle
multinazionali […]. [P]ossiamo così studiare
come i processi globali trovano un‟organizzazione
specifica a seconda della localizzazione, come i
quartieri urbani, che ospitano insieme alla classe
professionale transnazionale le bambinaie e le
domestiche straniere […]. Nelle città del nord del
mondo, l‟economia informale serve a svalorizzare
una serie di attività per le quali esiste spesso una
crescente domanda locale. Parte del costo viene
Genere e precarietà 19
pagato soprattutto dalle donne immigrate (Sassen
2001, 236, in Erenreich e Hochshild 2004).
Seguire il collegamento proposto da Sassen, tra i
professionisti e le migranti donne che si che svolgono i
lavori di cura, permette di identificare le varietà di
gruppi coinvolti nella precarietà, e recuperare il lato
invisibile di quell‟immaginario costruito dal movimento
dei precari, che ne rivela la specificità storica,
androcentrica ed eurocentrica. Inoltre, guardare alle
differenze di genere nella precarietà, permette di
pensare la precarietà non solo come elemento
unificante, premonitore di una nuova classe operaia
europea e post-industriale (Mitroupulos 2004), ma di
una molteplice identità politica in grado di rispondere
alle nuove cittadinanze, alla de-industrializzazione e,
insieme, al declino del welfare e dell‟impiego. In effetti,
nell‟Europa contemporanea, ogni riflessione sulla
precarietà non può che tener conto dei soggetti differenti
che pure convivono malgrado le politiche della
«fortezza Europa», che tracciano confini e separazioni
nette.
6. Precarietà differenti
Una prima riflessione sui migranti, le donne e chi svolge
lavoro sommerso, specialmente in Italia meridionale, è
che già in passato hanno vissuto una condizione di
precarietà, di insicurezza e rischio. Come sostiene
Mitropoulos, l‟esperienza del lavoro caratterizzato da
impoverimento, guerre e precarietà fa parte della
memoria di varie generazioni in Europa, dalla nascita
del capitalismo. Infatti, l‟esperienza dell‟impiego
regolare, a lungo termine, caratteristico del fordismo, è
Genere e precarietà 20
una sorta di eccezione nella storia della capitalismo, che
ha sempre escluso il lavoro domestico, femminile e
quello dei soggetti sfruttati nelle colonie (2004, 92).
Oggi il lavoro domestico è svolto ancora da donne e
soggetti provenienti da ex-colonie, e segue quel
processo di svalorizzazione che descrive Sassen. Questi
ruoli mal pagati portano al centro di una lettura di
genere della precarietà anche lo sfruttamento legato alla
differenza etnica e razziale, e le differenze di classe
nelle condizioni di precarietà.
Le discussioni tra giovani donne precarie in Italia
riguardano chiaramente un‟esperienza molto diversa in
termini di classe, età e razza di quello delle domestiche
immigrate, o delle donne italiane che svolgono lavoro a
domicilio o «in nero».10 Nello specifico, si deve
guardare alla disponibilità di reddito, di capitale sociale,
ovvero di supporto familiare, come elementi chiave che
rendono l‟esperienza della precarietà molto differente
per vari gruppi sociali. Una giovane donna italiana che
lavora nel settore informazione e vive con i propri
genitori può contare su una certa stabilità rispetto ad
un‟immigrata clandestina, ma anche esperire un tipo di
alienazione da lavoro diversa dal un giovane che
abbandona la scuola superiore per lavorare in un fast
food o un centro commerciale. La precarietà femminile,
può essere comunque un utile punto di partenza per
dialogare attraverso le differenze, tenendo conto delle
posizioni di potere relativo che i diversi soggetti precari
possono avere nella società. A partire da queste
differenze, è possibile dar voce ad una critica di genere
alla struttura familiare italiana, ancora gerontocratica,
10 Vedi il dibatto in questo volume tra donne precarie e migranti, a cura di
Coppola e Fantone.
Genere e precarietà 21
opprimente sia per le donne che per gli uomini, e
ineguale nella divisione del lavoro di cura.
7. Vite precarie e creatività
Già dall‟ottocento, attraverso la presa di coscienza del
lavoro di riproduzione sociale e culturale, spesso svolto
dalle donne, le critiche femministe hanno identificato
modelli storicamente consolidati di sfruttamento, sia
nelle società capitalistiche che in quelle precedenti al
capitalismo, dove la divisione dei ruoli secondo il
genere obbligava le donne a gestire il lavoro materiale e
affettivo insieme. Negli ultimi trent‟anni, il capitale ha
tratto vantaggi dalle lotte del femminismo del
dopoguerra, dai rifiuti dei ruoli tradizionali di genere e
dallo sgretolamento della famiglia allargata. I
cambiamenti postbellici hanno creato un nuovo mercato
che risponde ai bisogni delle donne che lavorano fuori
casa, come i fast food e l‟industria della cura a
pagamento, settori precedentemente al di fuori del
mercato (EC 2001 e Balbo 2011). Nel modello post-
fordista contemporaneo, le qualità tradizionalmente
femminili e relazionali (come l‟essere accondiscendenti,
docili e versatili, essere in grado di lavorare ed anche
organizzare il buon funzionamento della casa), hanno
assunto crescente importanza, a causa dell‟erosione
della distinzione netta tra vita e lavoro, dell‟oscillazione
tra autorealizzazione e sfruttamento. Questa
femminilizzazione del lavoro, non ha coinciso però con
un miglioramento della condizione salariale né con una
rivalutazione dei valori sociali tipicamente femminili
(IRES 2003). Al contrario, ha portato ad una
proletarizzazione dei settori in cui sono richieste questi
tipi di capacità tipiche del lavoro affettivo – saper
Genere e precarietà 22
curare, rispondere gentilmente ai clienti, ma anche
essere desiderabili nell‟aspetto e in certi casi disponibili
sessualmente (vedi Hochshild e Ehrenreich 2004) .
Per contrastare le logica predominante che attribuisce
alla produzione di oggetti materiali e al lavoro
intellettuale un valore più alto della riproduzione
sociale, i movimenti femministi hanno rivendicato la
creatività attuata nella sfera della vita quotidiana.11
Una
delle argomentazioni di successo delle femministe, già
negli anni settanta, derivava da una semplice verità: che
il lavoro domestico e di cura non era fatto solo di
ripetizione e noia, ma conteneva spazi di creatività e di
autoriflessione sulla complessità della vita moderna
(Vishimidt 2004). Così la creatività diventa anche un
modo di costruire un‟identità femminile, mettendo
insieme pezzi disparati, ruoli apparentemente
incongruenti giocati dalle donne nella vita quotidiana
(Balbo 1986).
Se si guarda a queste concezioni di creatività e
resistenza quotidiana, si possono trovare strumenti
politici utili per le precarie, che spesso si concepiscono
solo come vittime passive della precarietà, senza spazi
di agentività – o agency, né forme creative capaci di
esprimere la propria vita professionale e personale.
Tanto più che, con la transizione nei paesi sviluppati
all‟economia avanzata del settore dei servizi, la
11 In alcuni casi, come nelle rivendicazioni sul lavoro domestico, lo scopo non era solo ottenere un riconoscimento pubblico per il lavoro di
riproduzione sociale, ma anche ottenere che lo Stato attribuisse un valore
adeguato a questo lavoro, come faceva per altre forme di produzione quantificate e salariate; è chiaro che tale domanda imponeva un cambiamento
societario ampio, che implicava rivoluzionare la divisione del lavoro tra i
generi (dalla Costa 1971). Un altro punto importante del femminismo marxista risiede nella rivendicazione del lavoro non salariato delle donne
come elemento che esula dalla logica capitalista del valore e del mercato
(Bettio 1988).
Genere e precarietà 23
creatività è diventata una merce preziosa, che può essere
valorizzata proprio nelle forme che assume nelle società
complesse, dove il lavoro creativo e immateriale si è
diffuso largamente.12
Insomma, il precariato oggi tende a vedersi troppo
spesso in termini eurocentrici, giocandosi un
immaginario che oscilla tra la nuova vittima universale
e il soggetto rivoluzionario di una nuova avanguardia
della forza lavoro. Tra questi due poli, si forma un
movimento che inizia a esprimersi trasversalmente
rispetto ai vari tipi di precarietà, e in questo progetto,
alcune delle strategie sviluppate dal femminismo
possono fornire strumenti e ispirazione. Se le precarie
spesso si confrontano con una falsa dicotomia, dovendo
scegliere tra un lavoro intellettuale, proletarizzato e
svalutato socialmente (anche trovandosi in
competizione con l‟ideale del giovane uomo free-lance,
creativo, artista, urbano) e un lavoro di riproduzione
sociale nel contesto familiare che rinforza ruoli di
genere tradizionali e statici, e rimanda al confronto
ideale con le figure della madre o della casalinga.
Questo dualismo nega il potenziale creativo delle vite
precarie, e la capacità di navigare contraddizioni e
differenze sociali già attestata dall‟esperienza
quotidiana delle donne. Inoltre, tale immaginario
polarizzato nega ogni identità articolata, in cui la
precaria può essere al tempo stesso impiegata nel settore
informazione, svolgere un lavoro creativo, e anche
casalinga o sex-worker, badante o scrittrice
12 La rivista statunitense Processed World, rappresenta un primo tentativo di
dar forma a questa riflessione in termini non accademici. Dagli anni ottanta
ha affrontato argomenti utili ai lavoratori dell‟informazione e ai creativi, insieme a quelli delle domestiche, dell‟industria del sesso, creando uno
spazio di dialogo proficuo e basato sulla quotidianità, sulle microforme di
resistenza che ciascun gruppo pone in essere.
Genere e precarietà 24
simultaneamente. Queste identità articolate sono sempre
più frequenti, e oscillano tra il lavoro immateriale e
quello di riproduzione sociale. Le giovani che vivono in
queste situazioni possono offrire letture della creative e
capaci di articolare la contraddittorietà delle vite
precarie.
8. Le reti di precarie: spazi per articolare nuove
lotte
Vari gruppi di giovani donne, che potrebbero definirsi
parte di un‟ondata post-femminista o di terza
generazione, third wave (Sexyshock, Fiorelle,
Sconvegno, Prec@s) discutono da alcuni anni la
precarietà come un‟esperienza che pone nuove sfide e
che non può essere affrontata solo con il vittimismo
nostalgico del passato fordista. Dato che chi scrive fa
parte di queste reti, non può fingere di scriverne qui in
maniera distaccata o neutrale, ma piuttosto tenta di
avvicinarsi a quel modello di sapere situato – situated
knowledge – suggerito da Sandra Harding e Donna
Haraway (1997, 2003), cioè di situare le analisi
politiche e sociologiche partendo dal proprio punto di
vista specifico.
Fondamentalmente, questi gruppi di trentenni sparse per
l‟Italia si sono aggregati intorno a istanze generazionali
e personali, come la mancanza di reddito adeguato, le
scelte di vita e vari problemi derivanti dall‟ingresso in
un mondo lavorativo flessibile, ma anche politicamente
gerontocratico e sessista. Nel caso della rete Prec@s, la
precarietà rappresenta un elemento di posizionamento
esistenziale, da cui pensare una soggettività politica
multipla, fatta di articolazioni complesse e ruoli
contradditori per le giovani: da un lato, soggette ad
Genere e precarietà 25
aspettative societarie tradizionali che limitano le
aspirazioni e accettano lo status socioeconomico basso
di una donna giovane13
, d‟altro canto, come lavoratrici
immateriali o creative, sono coscienti del loro privilegio
dovuto all‟accesso alla formazione e alle risorse
disponibili in un contesto famigliare di classe media.
Le reti di precarie hanno cercato attivamente un dialogo
con le generazioni di femministe precedenti sulla
precarietà, e tentano di aprire un confronto con le
migranti, per creare collegamenti che includano negli
approcci teorici e pratici al tema della precarietà le
differenze di età e di provenienza e di classe.
Dagli anni novanta, nel femminismo italiano si è posta
la questione difficile del dialogo intergenerazionale.
L‟emergenza di gruppi post-femministi e delle teorie
queer ha destabilizzato quella visione universalmente
comprendente del femminismo degli anni settanta.
Simmetricamente, i gruppi di quella generazione non
sembravano particolarmente interessati alle attività e ai
linguaggi emergenti dalle giovani, cosa che ha reso
l‟incontro tra generazioni spesso teso, fatto di mancati
riconoscimenti e difficili accettazioni delle nuove forme
di femminismo (Di Cori e Barazzetti 2001; Bertilotti,
Galasso e Lagorio 2006). A fronte di una scarsa
visibilità, alcuni gruppi post-femministi hanno
strategicamente collegato il tema della precarietà a
quello generazionale, riuscendo a esprimere necessità
proprie e ad uscire dalle tensioni intergenerazionali tra
femminismi, entrando in un dibattito concreto e
allargato, che dialoga con i movimenti dei precari.14
13 Si veda l‟analisi recente di Murgia, contenuta in questo volume. 14 Questo dimostra un rifiuto di identificarsi in una politica identitaria monodimensionale, dove un gruppo si definisce solo per opposizione ad
un‟istanza o lotta limitata. Questo può essere un esempio di «politica
dell‟articolazione» elaborata da Stuart Hall e ripresa nei Cultural Studies a
Genere e precarietà 26
Il contesto contemporaneo di precarietà rende le giovani
particolarmente coscienti del fatto che non potranno
ottenere quella stabilità, fatta di un lavoro fisso e
accesso al welfare, che aveva costituito un elemento
chiave nel modello di vita adulta delle loro madri. Non
solo, molte precarie affermano di non aspirare
necessariamente a quella sicurezza che avevano le
madri, constatando i limiti delle istituzioni stabili come
il matrimonio, la famiglia, e il lavoro fisso, che affidano
alle donne adulte ruoli socialmente poco riconosciuti,
insieme a molteplici responsabilità e impegni (Morini
2010; Piazza 2001). Forse non è superfluo ricordare che
oggi, sia nell‟Italia post-industriale che in gran parte del
mondo, le attività di cura quotidiana non sono divise
equamente tra uomini e donne adulte (Hochshild 1997 e
Morini 2004). In Italia in particolare, il difficile ingresso
dei giovani precari nel mercato del lavoro fa convivere
nella stessa famiglia tre generazioni: gli anziani, i
genitori che lavorano e i figli, cosa che aumenta il peso
del lavoro di cura a carico delle donne adulte, che si
trovano a vivere una quotidianità complicata (Piazza
2005).15
Spesso si tratta della generazione delle
cosiddette baby-boomers, che, dopo aver lavorato a
tempo pieno e in casa, si trovano a dedicare le proprie
giornate da neo-pensionate alle attività di cura, dei
nipoti come dei nonni. Se le donne della famiglia non
sono in grado di dedicarsi alle necessità familiari, si
aggiungono altre donne, spesso immigrate, pagate per
svolgere i lavori di cura (Ehrenreich e Hochshild 2004).
E dunque la generazione delle precarie percepisce il
partire da una rilettura di Gramsci (1978, vedi anche Grossberg 1996). 15 Si deve notare che alcune ricerche recenti sembrano dare un quadro più
equo della divisione del lavoro di cura tra i genitori giovani. Si veda in questo
volume l‟articolo di Magaraggia.
Genere e precarietà 27
proprio probabile destino di cura e assistenza ai parenti
anziani (data la crescente anzianità della popolazione
italiana) o ai figli piccoli come alternative inevitabili,
congiunte ad una condizione lavorativa frustrante. Le
precarie si trovano ad affrontare un insieme complesso
di fattori con esiti contraddittori: l‟accesso
all‟università, il lavoro intermittente, la dipendenza
dalla famiglia, problemi diversi che insieme
costituiscono un nuovo scenario. In particolare,
delineiamo qui di seguito tre punti che presentano
contraddizioni irrisolte e fondamentali nelle vite delle
precarie: la formazione, l‟autonomia e la sicurezza.16
8.1. La trappola della formazione
Alcune ricerche pubblicate nell‟ultimo decennio
mostrano che per una donna italiana la possibilità di
carriera lavorativa sono positivamente correlate al
livello di educazione solo in scarsa misura.17
Da un lato,
la flessibilizzazione e l‟aumento del settore dei servizi
hanno avuto esiti piuttosto negativi per le giovani, in
termini di qualità e quantità di lavoro; d‟altro canto,
l‟aumentato accesso delle giovani all‟università non ha
portato ai vantaggi economici e sociali che nelle
generazioni precedenti venivano correlati ad un alto
livello di scolarizzazione. Oggi, gli studenti universitari
sono in maggioranza donne e le studentesse riescono
spesso meglio dei loro colleghi (EFDLW 2000, ISTAT
16 Vedi l‟articolo di Scovegno pubblicato in questo volume. 17 In effetti il 57% della forza lavoro in Europa è femminile, e le donne
rappresentano più della metà dei laureati, eppure questi dati contrastano con
la bassa presenza femminile nei consigli di amministrazione e nelle alte cariche pubbliche, cosa soprattutto ricorrente nell‟Europa mediterranea,
rispetto alla frequenza nel nord Europa o nei paesi cosiddetti sviluppati in
generale (OECD 2005 e ILO 2010).
Genere e precarietà 28
2009). Eppure i dati raccolti dalle agenzie di lavoro
interinale mostrano che la giovane laureata risulta essere
il profilo più difficile da impiegare. In effetti, molte
agenzie interinali offrono posti nel settore tecnico-
meccanico delle piccole industrie, o lavori
amministrativi. Le precarie che utilizzano le agenzie
interinali spesso si trovano a lavorare in ruoli per i quali
sono sovraqualificate e senza prospettive di
miglioramento. Nel tempo, non acquisiscono quello
status sociale che i genitori speravano di dare alle
proprie figlie attraverso l‟opportunità di formazione e lo
studio. Dunque la percezione ancora diffusa che una
laurea garantisca l‟accesso ad un lavoro fisso nel settore
pubblico, anche senza prospettive ambiziose di carriera
e stipendi alti, non risponde alla realtà contemporanea.
La precarizzazione è avvenuta rapidamente e ha
investito il settore pubblico, che oggi assume in larga
parte collaboratori a progetto o temporanei, anche nelle
classiche professioni femminili di insegnante,
infermiera o impiegata.
8.2. La trappola dell’autonomia
Un altro effetto collaterale dell‟accesso alla formazione
è dato dalle aspirazioni e desideri ambiziosi alle
precarie. Lo studio e la consapevolezza di possedere
conoscenze e strumenti avanzati fomenta il desiderio di
lavorare nella ricerca o in altri ambiti innovativi, dove
sia possibile una crescita professionale constante, un
arricchimento culturale e compensi adeguati. In questo
senso, a fronte di un mercato del lavoro che dà poche
opportunità, la scelta di dedicarsi a lavori creativi o di
ricerca assume un significato di autonomia, riflettendo il
desiderio di non rinunciare almeno alla qualità del
Genere e precarietà 29
lavoro, a continuare ad imparare, e mantenere un
rapporto con il lavoro consono al proprio sviluppo
umano personale, anche a scapito delle aspirazioni alla
carriera (CGIL 2005). In questi casi, come è avvenuto in
generale per il lavoro creativo18
, la distinzione tra lavoro
e tempo libero, tra socialità e isolamento, tra tecnologia
e capacità personali vengono a sfumare (ENAIP 2002;
vedi anche Berardi 2001). Le passioni per la cultura
riempiono sia il tempo del lavoro che il tempo di vita,
rendendo le precarie sempre meno compatibili con gli
ambienti di lavoro rigidi, disciplinati e immutabili nel
tempo. In effetti, quello che è stato definito cognitariato
(Berardi 2001), ovvero i giovani che svolgono lavori di
comunicazione o ricerca, e, tra questi, le precarie
«creative», non aspira ad un lavoro fisso, ad orari
predefiniti da una stessa azienda per tutta la vita
(Barazzetti 2007). Dunque le precarie di questo tipo
affrontano la vita adulta come qualcosa di incerto ma
anche affascinante e innovativo, che dà loro più
autonomia progettuale rispetto alle generazioni
precedenti e una minore sicurezza a lungo termine
(CENSIS 2003 e ISTAT 2010).19
8.3. La trappola della stabilità
Gran parte dei discorsi espressi dal movimento dei
precari, riflette il passaggio da un primo sforzo di dare
visibilità ad un soggetto nuovo, verso la definizione di
obiettivi da attuare concretamente, cosa che implica
18 Richard Florida, ottimista rispetto all‟ascesa della classe dei creativi negli
Stati Uniti, sostiene che la creatività e l‟autonomia vengono scambiati, da
questa generazione di lavoratori, con la sicurezza dell‟impiego (Florida 2003). 19 Vedi l‟articolo di Giuliani in questo volume, sul transito perenne come
condizione di vita e di identità di genere e sessuale.
Genere e precarietà 30
comprendere cosa vogliono cambiare i lavoratori
flessibili. Finora, gli argomenti ricorrenti contro la
proliferazione dei lavori flessibili rimandano alla
mancanza conseguente di sicurezza economica,
lavorativa e sociale nel lungo periodo.
Il concetto mediatico di sicurezza è facilmente
criticabile, ma da un punto di vista di genere è
interessante elaborare anche una critica differente
all‟idea di sicurezza lavorativa e sociale. Lo spettro
dell‟insicurezza spesso prende forma attraverso discorsi
che vedono l‟emergere del lavoratore povero (o working
poor) come sintomo della marginalità di gran parte della
popolazione. In altri casi, la sicurezza viene invocata
attribuendo alla precarietà i cambiamenti nella famiglia,
come la diminuzione della percentuale di matrimoni, la
bassa natalità, la limitata propensione al risparmio e
all‟investimento, unite all‟esclusione sociale, allo stress
e alla devianza, come se le prime portassero
inevitabilmente all‟anomia sociale.
Similmente, alcune ricerche europee o svolte dai
sindacati, collegano il basso reddito dei lavoratori
temporanei con un aumento degli indici di
insoddisfazione dei cittadini (CGIL IRES 2005),
difendendo più o meno intenzionalmente gli aspetti
conservatori della sicurezza economica e lavorativa. Il
linguaggio assunto da questi studiosi evoca un modello
struttural-funzionalista della società moderna che non
può tornare in essere, ed evita le contraddizioni del
neoliberismo globale guardando al passato.20
In questo
20 Ad esempio, le richieste degli Intermitténtes francesi si esprimono in difesa
dei loro diritti proponendo l‟idea che i lavori artistici e creativi sono
fondamentali per il futuro dell‟economia francese. In generale, questi argomenti si fondano su concezioni predominanti nell‟Europa
contemporanea, che vedono questa zona del mondo assumere un ruolo
nell‟economia globale come meta del turismo culturale, o fornitore servizi
Genere e precarietà 31
tipo di critica che semplifica gli effetti sociali e culturali
della precarietà, manca un punto di vista di genere. Da
un punto di vista femminile, è possibile concepire la
famiglia, la maternità, la casa, o la pianificazione
economica a lungo termine come eventi non
necessariamente positivi a priori, ma anch‟essi da
valutare rispetto alle conseguenze che comportano per
le precarie, come la rinuncia all‟autonomia nei tempi di
lavoro di vita e l‟aumento del lavoro di cura non
retribuito. Se la sicurezza e la stabilità sembrano
garantire più opportunità alle donne e altri soggetti non-
egemonici, le istituzioni che in passato hanno
rappresentano la stabilità, come lo stato e i sindacati,
hanno comunque contribuito allo sfruttamento
femminile e alla svalutazione del lavoro affettivo e di
riproduzione sociale.
9. Precarietà femminile come intergenerazionale
e interetnica
I vari gruppi post-femministi che discutono di precarietà
(Sexyshock, Sconvegno, Amatrix, Prec@s)
s‟interrogano su proposte o campagne politiche che
rendano la precarietà vivibile, non certo anelando ad un
ritorno di una sicurezza nelle sue forme passate.
Radicandosi alle richieste della generazione del
femminismo degli anni settanta, pur con alcune
differenze, le precarie considerano come inevitabile il
confronto con un settore privato neoliberista ormai
avanzati basati sulla cultura, la storia e l‟innovazione artistica. Si registra qui un‟interessante confluenza degli interessi corporativi di un gruppo con il
paradigma economico predominante (che si sono tradotte in successo delle
lotte degli Intermitténtes).
Genere e precarietà 32
presente, al quale resistere nelle sue forme insidiose di
sfruttamento delle precarie (che concedono all‟idea di
conciliazione attraverso il tele-lavoro o il part-time, per
farne elementi ghettizzanti per le donne). Non solo,
nelle proprie pratiche, le precarie si confrontano con lo
stato e la famiglia italiana tradizionale, come istituzioni
attive e complici nell‟erosione dei diritti e della loro
autonomia, riallacciandosi alle lotte e alle strategie
utilizzate dai femminismi precedenti.21
In conclusione, la precarietà è certamente un orizzonte
di lavoro e di vita capace di mobilitare un forte
movimento europeo e globale, soprattutto perché la
flessibilizzazione del lavoro erode alcuni diritti sociali
già acquisiti e diffusi. Tuttavia, è importante distinguere
la precarietà di vita dalla sola flessibilità del mercato del
lavoro, e non appiattire le domande politiche dei precari
sulla seconda. Queste sono istanze diverse, in certi casi,
per le precarie di classe media, che hanno accesso ai
lavori intellettuali (ovvero le cognitarie come le
partecipanti alle reti Prec@s, o gruppi come Sexyshock
e Sconvegno), e la precarietà di vita può non essere un
fenomeno negativo. Dunque affermare una critica di
genere alla precarietà significa affrontare problemi
molteplici, e allargare la presenza di soggetti diversi nel
movimento dei precari. Al di là delle lotte dei lavoratori
per ottenere maggiore sicurezza del lavoro, si apre la
questione complessa della precarietà esistenziale, che
investe la riproduzione sociale, i valori della famiglia e
la vita quotidiana.22
Da questo punto di vista differente,
i discorsi sulla precarietà che predominano, spesso
rivolti ad una generazione specifica di lavoratori,
21 Si vedano le conclusioni dell‟articolo di McRobbie in questo volume. 22 Vedi l‟articolo di Sveva Magaraggia in questo volume sulla percezione
della genitorialità e del lavoro tra giovani coppie.
Genere e precarietà 33
appaiono trasformati e capaci di trasformare molti valori
conservatori della società italiana, ancora imposti alle
giovani come alle migranti e ad altri soggetti marginali.
In sintesi, l‟esperienza di precarietà e instabilità delle
giovani richiede nuove strategie e idee (A.V. 2005a). Le
riforme del welfare o eventuali nuove leggi che
regolamentino il lavoro devono essere stilate tenendo
presente non solo il giovane lavoratore europeo nel
settore dei servizi, ma anche i fenomeni di
svalorizzazione del lavoro affettivo e riproduttivo
sempre più delegato alle migranti.23
Le resistenze alla
precarietà devono essere attuate insieme alla resistenza
ai valori tradizionali della famiglia, alle disuguaglianze
praticate nel quotidiano, uno spazio fondamentale dove
la flessibilità continua a dare effetti negativi, come
l‟aumento dello sfruttamento femminile nei ruoli
tradizionali.
È importante concludere che la solidarietà tra precari di
diverse generazioni e provenienza geografica e sociale
sia oggi più importante che mai, come anche il
riconoscimento diffuso dei meccanismi che perpetuano
una divisione del lavoro sociale ineguale dal punto di
vista di genere.
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Genere e precarietà 39
femminismi e creatività
Riflessioni su femminismo e lavoro
immateriale
nel regime post-fordista24
di Angela McRobbie
1. L’operaismo e i successi della lotta di classe?
Negli ultimi anni sono stati scritti tanti articoli e libri sul
post-fordismo e, in particolare, sul precariato, sul lavoro
immateriale e affettivo25
, ed è emersa una
preoccupazione prevalente per le questioni di classe, a
scapito dei tentativo di porre il genere in primo piano o,
quanto meno, di pensare la precarietà declinata sia nelle
differenze di genere sia di etnia. In questo articolo
propongo un‟impostazione differente, aperta agli effetti
combinati di genere ed etnia, analizzando alcuni dei
lavori più autorevoli in questo ambito. Mi concentrerò
sulle riflessioni di genere e sulle femministe e
sociologhe/i contemporanee/i che si occupano della
questione delle donne e dell‟occupazione.
Un elemento fondamentale in questo dibattito
femminista è la teoria della performatività e la radicale
denaturalizzazione del genere che ne deriva. Le
domande fondamentalmente poste in questo saggio sono
due. Quanto è importante la partecipazione delle
«donne» (di seguito senza le virgolette che questa
24 Traduzione in italiano di Alessandra Fasano. 25 Lazzarato definisce il lavoro immateriale come «il lavoro che produce il
contenuto informativo e culturale del prodotto» (Lazzarato 1997). Lavoro
affettivo è quello che richiede alti livelli di intimità, cura o sentimenti.
Genere e precarietà 40
categoria necessiterebbe) alla crescita della produzione
post-fordista?
Che ruolo svolgono oggi le donne, soprattutto giovani,
nelle nuove industrie culturali urbane?
Dando priorità al genere, ritengo che la transizione
verso il lavoro precario e quello immateriale oggi sia
profondamente sentita da un vasto numero di giovani,
soprattutto donne26
europee di età inferiore ai
quarant‟anni. Il punto di vista di genere mi permette di
dare importanza ad prospettiva più storicamente
informata, che pone attenzione sulle attività delle prime
generazioni di femministe, che già avevano mescolato
forme di lavoro nuove con attività politica e sociale,27
molto differenti da ciò che oggi chiamiamo l‟«impresa
sociale». Infine, mi propongo di criticare il discorso
politico di Virno e Hardt (1996) e di Negri e Hardt
(2000)28
per la scarsa visibilità del genere, dato che
all‟operaismo italiano che insiste sulla categoria di
classe come meta-concetto chiave per comprendere il
lavoro contemporaneo e per immaginare un futuro
politico radicale.
L‟invisibilità del genere nel discorso politico radicale
associato ad autori come Negri, Hardt e Virno si pone
come una negazione del femminismo critico
26 Penso alle giovani donne sia come testimoni, che come apprendiste e
navigatrici esperte dell‟enorme impatto emotivo e psicologico che questi
cambiamenti hanno portato nelle vite di intere generazioni. Si veda anche Laura Fantone (2007), tradotto in italiano in questo volume. 27 Per esempio: librerie gestite da donne e editoria, lavoro giovanile o
mädchenarbeit. N.d.t. Si tratta di percorsi di formazione incentrati sulla vita delle giovani donne al fine sviluppare autonomia e autostima e creare gruppi
nido alternativi, autogestiti dai genitori (in particolare mamme); inizialmente
erano siti in locali di negozi dismessi per il sostegno al lavoro di cura dei bambini e kinderladen. 28 Si vedano i seguenti scritti: Hardt (1999), di Hardt e Virno (1996), Hardt e
Negri (2000), Lazzarato (1997) e Virno (2001).
Genere e precarietà 41
sviluppatosi dalla fine degli anni settanta. Questo è
storicamente legato al movimento delle donne (ma va
ben oltre i confini del femminismo di per sé) ed elabora
una risposta critica al capitalismo, allo stato e alla
cultura del consumo, che negli anni ottanta e novanta
hanno ridefinito totalmente genere e sessualità,
attraverso varie strategie biopolitiche.
Sostanzialmente Negri e Hard mantengono un modello
di società-lavoro, in cui «il declino del lavoro» e lo
spostamento verso la sfera del non-lavoro è colpevole di
una vasta gamma di patologie contemporanee, compresa
«l‟opacità dei gruppi» e «la rovina del sé» (Virno 2001).
Anche se ritengo che attualmente la categoria della
classe vada mantenuta (soprattutto nella sua continua
articolazione con il genere ed l‟etnia), ammetto che essa
è paradossalmente in declino e accetto che venga
sostituita da altri concetti. Non voglio dire che la parola
classe sia una delle cosiddette «categorie zombie» di cui
parla Ulrich Beck piuttosto è soggetta ad un
cambiamento che ne diminuisce gradualmente
l‟importanza sociale e politica, permettendo un
avanzamento del genere come categoria convalidata.
Questo processo è parzialmente dovuto ai cambiamenti
dei media, dell‟effetto della cultura di massa sullo stile
di vita e dei programmi televisivi che rispecchiano le
aspirazioni di un particolare gruppo di consumatori,
soprattutto donne.29
29 Vedi il mio The Aftermath of Feminism. La recente serie Queen of Shops
della TV inglese BBC 2 mi pare interessante perché la protagonista, Mary
Portas, si accinge a rimodernare negozi fatiscenti, solitamente gestiti da donne proletarie. Mary Portas sottopone questi negozi e la loro gestione a una
ristrutturazione che li rende appetibili al ceto medio, eliminando tutte le
tracce del passato (vendita di cibo scadente, aspetto trasandato e atteggiamenti svogliati del personale), proponendo un nuovo regime
simbolico che pervade l‟intera organizzazione dello spazio del negozio, il suo
aspetto e la sua immagine, i suoi prodotti, mettendo in luce idee di atmosfera
Genere e precarietà 42
Questo scivolamento mostra una strategia politica che
evidenzia l‟importanza della classe, ma richiede anche
un modo diverso di pensarla e declinarla. Le forme di
governamentalità contemporanea si fondano sul
tentativo di «de-classificare» la società in nome di una
modernità incentrata sul genere (penso alla strategia
New Labour nel Regno Unito).
La classe non è né solo una variabile sociologica, né
solo una questione di identità sociale, ma soprattutto
una serie di relazioni antagonistiche formate dal
conflitto tra capitale e lavoro, tra stato e gruppi sociali
subordinati, la cui sottomissione comporta una
connessione specifica col lavoro. Eppure questi
antagonismi di classe oggi tendono verso una diversa
forma di lavoro che implica soggetti molto meno
impegnati come lavoratori che in passato. Chi sono oggi
i (non)soggetti della classe lavoratrice formati dal
processo del lavoro?
Forse, proprio il genere o l‟etnia di tali soggetti danno la
dimensione più significativa delle forme e dei
posizionamenti del conflitto attuale (Laclau e Mouffe
1985).30
Solo alla luce di questo le articolazioni della
vecchia classe possono in qualche modo essere
risvegliate e provocare un cambiamento radicale.
Questo non significa che la classe sia irrilevante; ma
può ancora avere la presa analitica fondamentale che
ritengono autori come Hardt, Lazzarato, Negri e Virno?
Questi autori insistono su un alto livello di astrazione,
poiché rielaborano termini derivanti dai Grundrisse di
à la Bourdieu, la donna istruisce i soggetti proletari in materia di stile, gusto e
raffinatezza. 30 Mi trovo ancora una volta d‟accordo con il concetto di classe post-strutturalista sviluppato da Laclau e Mouffe nell analisi post-marxista delle
lotte e delle catene di equivalenza che non vedono la classe come dominante
sociale.
Genere e precarietà 43
Marx, che si riferisce alla conoscenza astratta,
concretizzatasi nei macchinari di produzione (e oggi nei
codici informatici). Il cambiamento avviene a livello
delle relazioni della forza lavoro che dà importanza
crescente alla conoscenza astratta, e del general
intellect.31
Laddove le macchine o i computer assolvono
la maggior parte della produzione, si è persa la misura
standard del valore del lavoro condotto dalla reale forza
lavoro. Marx preannuncia che ciò conduce a una
scissione sociale generale e alla lotta di classe. Virno,
Hardt e Negri, invece, vedono nuove forme di sviluppo
di una soggettività non emergente all‟interno del posto
di lavoro, ma al di fuori: nella vita di tutti i giorni, o per
la strada, che diventa un luogo di «addestramento
urbano» (Virno 2001). Sono la frivolezza e la
superficialità di questi modi di pensare che conducono
Virno, ad esempio, a immaginare tale insoddisfazione in
quanto agente di trasformazione: come per magia,
attraverso una politica di disincanto, da questo stato
emerge una nuova soggettività politica. Ma il rischio qui
è di mettere in gioco una gerarchia di astrazioni,
riconfigurando il classico antagonismo tra la produzione
capitalistica e la sua forza lavoro subordinata.
La scelta di incentrarsi sui Grundrisse e il lavoro
astratto per comprendere la società contemporanea
relega ancora una volta le domande di genere al
margine, poiché «meno astratto».32
È sorprendente che
31 N.d.t. Traducibile letteralmente come «sapere diffuso», riteniamo corretto
lasciare il termine originale, general intellect, dai Grundrisse di Marx.
Questo concetto viene ripreso, soprattutto in rapporto alle analisi del capitalismo cognitivo, nei recenti libri di Negri, Hardt, Virno e Fumagalli,
Vercellone, Berardi, Roggero, Modugno e Rossiter. 32 Non possiamo riportare qui tutto il dibattito sul riduzionismo del concetto di classe portato avanti da Stuart Hall negli anni settanta e ottanta e da
Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, basti ricordare qui la necessità di
interrogare la classe come segno culturale e politico, spazio in cui potere e
Genere e precarietà 44
questa cecità rispetto al genere sia passata quasi
inosservata finora.
Negli ambiti delle attività in cui sembra che le donne
producono redditi considerevoli (come il nuovo settore
dei servizi o le nuove industrie creative e i nuovi media)
o in cui sono molto visibili e numerose, c‟è, per usare
una frase di Jean-Luc Nancy, una «forma di
uguaglianza» che diventa allettante per gli attivisti e per
i sociologi. Questi cedono ad un‟ampia
generalizzazione, per cui il genere non rappresenta più
un «problema» e, di conseguenza, non si sente
particolare bisogno di aprirsi alla critica femminista.
Tornando ai testi di Hardt e Negri consideriamo alcuni
degli argomenti chiave nei due volumi Radical Thought
in Italy e in Impero. Quest‟ultimo libro è stato al centro
di molti dibattiti sul lavoro e sull‟idea di lavoro
immateriale, come caratteristica distintiva del regime
post-fordista.
Qui troviamo tre elementi innovativi: anzitutto un
tentativo decisivo di proiettare in avanti, nel contesto
delle sconfitte della sinistra in Italia, di immaginare e di
considerare nuove potenzialità radicali attraverso
l‟analisi della soggettività contemporanea, e di ciò che
Virno chiama «stato emozionale». Secondo, questa
possibilità di radicalismo è basata su una forma di
politica di classe senza soggetto, adesso configurata dai
flussi, traiettorie di volo ed eventi; in terzo luogo nel
confrontare pienamente la scala di sconfitta attraverso
gli anni ottanta, anni che secondo Virno vedono la
crescita di uno stile di vita postmoderno.
Nonostante i cambiamenti introdotti ai concetti di
«differenza e ripetizione» di Deleuze e al concetto di
marginalità si esercitano nella vita quotidiana, per esempio nel parco giochi
della scuola. Si veda Willis (1978) e vari testi di Bourdieu.
Genere e precarietà 45
moltitudine, Hardt e Negri sono chiusi dentro un
modello di classe che non permette alcun spazio per
riflettere sul genere e sulla sessualità nell‟era post-
fordista, evitando di considerare il significato di ciò a
cui spesso si fa riferimento in termini di
femminilizzazione del lavoro.
In Impero si delinea un concetto di classe post-marxista
non-dialettico (e perciò non teleologico), pervaso da un
forte senso di capacità e di azione, attraverso il
ripensamento dell‟azione di classe, ricorrendo al
concetto di desiderio di Deleuze che, come ritenuto
dagli autori, è generativo, producendo ondate e varietà
di opposizioni e resistenze alle pratiche oppressive e di
sfruttamento del capitale. È quest‟idea di Deleuze che
permette nuove azioni di classe senza rappresentanti e
senza politica dell‟identità, al di là di ogni soggetto
stabile, detentore di un‟identità fissa.
Dunque, Impero è un deliberato tentativo di veicolare
un senso di vittoria sulla macchina capitalista, che
risulta sorprendente, in netto contrasto con la saggezza
prevalente nella sociologia e nella filosofia politica
degli ultimi trent‟anni, radicata nel drammatico declino
della politica di classe, dell‟emergere del thatcherismo e
poi del New Labour nel Regno Unito e del chiaro neo-
liberalismo rampante in Europa e sicuramente trionfante
negli Stati Uniti.33
Wendy Brown, Stuart Hall e Nikolas
Rose (tra vari altri studiosi in ambito anglo-americano)
hanno esaminato le forze che hanno screditato il lavoro
politico operaio e demonizzato la sinistra, i movimenti
femministi e quelli anti-razzisti. Sia attraverso le
campagne mediatiche, sia tramite le politiche e le idee
emergenti dai think tank, nuovo pensatoio di destra,
33 Si veda, ad esempio, il lavoro di Stuart Hall (1983; 1998), come anche
Brown (2003) e Boltanski, Chiapello (2007).
Genere e precarietà 46
questi autori descrivono con forza la delegittimazione
dei sindacati e la fine dei diritti sociali, della
ridistribuzione del benessere e dell‟abolire il sociale in
generale.
Rose, Brown e Hall criticano l‟ideologia dilagante della
responsabilità individuale, come elemento chiave per le
politiche di controllo, che vedono coincidere la rilettura
della condotta delle persone e l‟abolizione del welfare.
Tali forme di biopolitica stratificano la società in modi
più complessi di prima, assicurando allo stesso tempo il
mantenimento delle gerarchie sociali esistenti. Il neo-
liberismo aggressivo comporta un attacco tale agli
interessi della classe lavoratrice che molti diritti
sindacali sono andati distrutti.
Questa è l‟idea di «potenza» che dà a Virno (Hardt e
Virno 1996) così come a Negri e Hardt la possibilità di
articolare «concetti decentralizzati o di massa di forza e
potenza», capaci di attaccare il capitale al cuore (Hardt e
Virno 1996, 262). Per Virno e Negri il post-fordismo è
una risposta da parte del capitale a queste lotte della
classe lavoratrice, avvenute tra gli anni sessanta e
settanta: una risposta al «rifiuto del lavoro» da parte dei
giovani delle fabbriche italiane e francesi che non hanno
aderito alla disciplina del lavoro.
Nello specifico, ritengono che il capitale, in Italia, sia
stato costretto alla difensiva, poiché erano pochi i
giovani disposti a sottomettersi alla disciplina della
produzione fordista. Una delle concessioni accordate ai
lavoratori riguardava il controllo: il lavoro poteva
diventare più significativo e la forza lavoro poteva agire
in maniera più autonoma e avere maggiore capacità
decisionale sul posto di lavoro. Tale concessione, il
«permesso di pensare» slitta nella transizione alla
tecnologia post-fordista e verso nuove forme di
Genere e precarietà 47
produzione basate sulla comunicazione e
sull‟informazione. I successi della lotta di classe hanno
come risultato salari più alti e un ruolo più partecipativo
e intellettuale sul posto di lavoro. Inoltre, una volta
ottenuti orari e salari migliori, la classe lavoratrice ha
espresso nuovi desideri, nuovi sogni di stile di vita: i più
giovani dichiarano di aspirare a una vita differente e
migliore.
Negri, Virno e Hardt sottolineano come il capitalismo
sia stato costretto a cedere alle lotte dei lavoratori degli
anni settanta. La spiegazione più usuale è che fu sotto la
pressione per l‟aumento dei salari nazionali e la
competizione con i paesi in via di sviluppo con
abbondante eccedenza di lavoro a basso costo che le
aziende globali del Primo mondo operarono il passaggio
alla produzione post-fordista (nei settori della moda,
dell‟arredamento, della produzione di automobili, fino a
quella alimentare). Per riconquistare il predominio, le
grandi aziende devono dotare di novità e innovazione i
beni e i prodotti e concentrarsi sul design e sullo stile di
vita, in modo che consumatori benestanti possano
sentirsi lusingati di distinguersi dai loro pari, potendo
comprare beni che sono fatti solo in piccole quantità e,
perciò, più preziosi, rari o particolarmente curati nella
progettazione (design intensive) (Lash e Urry 1994).
Fondamentalmente, gli esponenti dell‟operaismo
offrono una diversa prospettiva che pone in primo piano
l‟azione della forza lavoro e la natura mutevole del
modello di produzione. Questo è di indiscutibile
importanza, poiché ridà centralità ai modi in cui i
giovani operai hanno espresso il loro desiderio di
«uscire dalle fabbriche». Il post-fordismo è, quindi, una
strategia incorporante e il capitale ne esce indebolito,
Genere e precarietà 48
poiché deve fare affidamento sulle capacità mentali
della forza lavoro come mai in passato.
Il cambiamento di modello di produzione capitalista si
riflette nella crescente necessità di capacità cognitiva e
di general intellect. La combinazione di queste capacità
e delle nuove tecnologie di comunicazione comporta
che il capitalismo riesca oggi a trasmettere alti gradi di
personalizzazione e ingegnerizzazione dei beni a gruppi
di consumatori (appartenenti all‟attuale classe operaia)
sempre più vari e consapevoli del proprio stile di vita.
Dato che i lavoratori sono in grado di esercitare i propri
cervelli, raggiungendo una sorta di spazio autonomo per
il pensiero e la riflessione critica, essi respingono il
dogma e il potere contemporaneo e il capitale resta
sempre un passo indietro rispetto a loro, poiché dipende
dalle loro idee e iniziative. Queste capacità mentali
producono una tendenza verso la cooperazione e la
collettività, qualità che sono richieste anche nei luoghi
di lavoro del capitalismo cognitivo. «Oggi la produzione
di ricchezza richiede cooperazione e interattività»
(Hardt e Negri 2002).
I lavoratori ora debbono parlare tra loro e prendere
decisioni collettive continuamente; possono discutere ed
esprimere le proprie opinioni riguardo a un prodotto o
un servizio fornito. Questa tipologia di interazione tra
lavoratori rende la classe lavoratrice più capace di ri-
immaginare forme solidaristiche di sostegno reciproco e
cooperazione. Lazzarato fa notare che i lavoratori stessi
oggi possono anche diventare imprenditori, non sono
visti solamente come dipendenti e come meri salariati.
Naturalmente, questo si sposa con la crescita del lavoro
autonomo o auto-impiego precario tra i giovani, o con
nuove forme di micro-imprenditorialità associate ai
Genere e precarietà 49
crescenti settori culturali, creativi e mediatici del
capitalismo avanzato.34
Tuttavia, restano alcune linee di differenza tra gli autori
dell‟operaismo in merito a fino a che punto questa
«potenza» possa essere forzata per prevedere tali
possibili forme di collettività o «di bene comune». Si
riscontra una discrepanza tra il contributo di Negri,
Hardt e Lazzarato e alcuni scritti oscuri di Virno e
Berardi. Le idee positive di collettività e di bene
comune o commons35
, si scontrano con un potente
regime ideologico che instilla cinismo e opportunismo.
Un esempio evidente è la cultura e la socialità della rete,
dove dominano relazioni auto-promozionali. Questo
ambiente culturale emergente, basato sull‟edonismo e
sui festeggiamenti all‟infinito, fa inorridire Virno, e
anche Berardi, spingendoli a parlare di psico-patologie
della soggettività contemporanea (Virno 2001 e Berardi
2004). Cancellate le nette distinzioni tra lavoro e tempo
libero, con quest‟ultimo che assume la valenza del
tempo lavorativo, essi vedono questa atmosfera festaiola
e le sue soggettività come se fossero state spostate
nell‟ambito del lavoro, infettandolo (Ross 2004).
Queste riflessioni invitano una domanda: Quanto e
quando sono di genere queste patologie? Come si
34 Alla fine degli anni ottanta, mi sono interessata del modo in cui i giovani
proletari ed esclusi dalla formazione universitaria si esprimono nelle culture
giovanili, diventando imprenditori subculturali, nel tentativo di conciliare ciò che fanno per divertimento nell‟ambito della cultura giovanile con la
necessità di guadagnarsi da vivere ed evitare la disoccupazione. Si vedano in
ambito italiano gli scritti di Sergio Bologna sullo spostamento del punto di sfruttamento per il lavoratore autonomo o per i nuovi piccoli imprenditori,
che ora sono in debito con le banche a causa dei prestiti per finanziare le loro
microimprese culturali. 35 N.d.t. Si veda il dibattito sull‟idea di bene comune o commons in Art
Forum, svoltosi tra Antonio Negri, Michael Hardt e David Harvey in
occasione dell‟uscita della pubblicazione di Hardt e Negri (2010).
Genere e precarietà 50
collegano le esperienze di giovani uomini e donne
precarie ai loro tentativi di crearsi una vita indipendente
nei campi del lavoro informale? Oltre la rabbia e
l‟opposizione alla constante richiesta dalla macchina
delle apparenze, del networking, delle pubbliche
relazioni, che stati emotivi si celano? Questo tema
rimane implicito negli scritti dell‟operaismo, e non
viene declinato dal punto di vista di genere.
2. Femminilizzazione del lavoro?
Hardt e Negri in Impero propongono un concetto
ampliato di classe operaia che diventa moltitudine, non
più legata a specifici stati nazione, e quindi inclusiva di
migranti e rifugiati che si muovono attraverso i
continenti seguendo un futuro migliore. Gli autori
accennano al movimento femminista nel ruolo chiave di
disgregare i fondamenti della famiglia nucleare.
Istigando le donne ad avere meno bambini, il
femminismo si oppone al capitale e al meccanismo più
affidabile che garantiva la disponibilità di forza lavoro
giovanile, la riproduzione. Tuttavia, gran parte delle
teoriche femministe e scienziate sociali, critichi e
protesti contro questo tipo di descrizione del
cambiamento del mondo del lavoro, incentrato
unicamente sulla categoria della classe e su una visione
essenzialista della differenza di genere. Nonostante le
possibili aperture all‟interno dell‟idea di moltitudine, il
genere rimane categoria inclusa in quella più vasta di
classe, così come lo sono razza ed etnia. Le femministe,
leggendo Impero si sentono trasportate in una specie di
flashback nel passato, di ritorno ai momenti in cui le
donne venivano legittimate solo se interpreti del lavoro
domestico e di riproduzione.
Genere e precarietà 51
Come Gayle Rubin ci ha ricordato, il marxismo (e anche
molto del femminismo marxista) spesso non è stato in
grado di comprendere e occuparsi criticamente delle più
ampie questioni della sessualità, che da tempo risuonano
in varie sfere della vita quotidiana, oltre che nel lavoro
(Rubin 1984). La centralità dei desideri della corporalità
e dei flussi libidinali di Deleuze, non risolve il problema
degli scritti di Hardt, al contrario. L‟idea di moltitudine
potrebbe essere più ampia di quella della classe,
diventare una sorta di categoria dell‟uomo o della donna
comune, ma a tutti gli effetti per Negri e Hardt resta
sinonimo di classe, concetto che, sebbene
apparentemente non declinato è, di fatto, implicitamente
maschile e bianco.
Questa versione del post-fordismo crea alcuni problemi
fondamentali. La collocazione della maggior parte delle
lotte prese in considerazione è, tradizionalmente, in
settori di produzione tipicamente maschili, come nelle
catene di montaggio di automobili e nell‟industria
automobilistica in generale. Anche la militanza
industriale, che gli autori sostengono abbia spinto a una
crisi del capitalismo, appare storicamente legata a settori
di predominanza maschile, come l‟industria estrattiva
del carbone nel Regno Unito. Quando gli autori si
riferiscono alle lotte di emancipazione dei neri degli
anni sessanta negli Stati Uniti, si concentrano
sull‟industria automobilistica e non sulla comunità che
rappresentava il punto nodale delle lotte per i diritti
civili, una scelta che contraddice gran parte degli studi
su questo movimento (Gilroy 1987). Similmente, il
rifiuto del lavoro e l‟uscita dalle fabbriche appare come
un agire principalmente maschile e bianco.
Va chiarito che durante gli anni sessanta e settanta, in
Europa occidentale e in altre nazioni sviluppate, le
Genere e precarietà 52
donne di classe operaia lavoravano soprattutto come
impiegate, come «colletti bianchi», e con contratti part-
time, mentre quelle di classe media iniziavano a entrare
nel mercato del lavoro in numeri significativi solo dalla
fine degli anni settanta. In quel periodo, infatti, i lavori
full-time nel settore pubblico e professionale sono
diventati i più vantaggiosi per le donne, soprattutto per
quelle che volevano continuare a lavorare pur avendo
figli. In quel periodo le donne di classe operaia e le
persone di colore sono state coinvolte nei conflitti
industriali solo raramente, anche per il loro basso livello
di iscrizione sindacale, che pure era spesso dovuto al
sessismo e alle esclusioni razziali perpetrate dagli stessi
sindacati.
I cambiamenti principali che hanno migliorato le
condizioni di lavoro femminile, dalla metà degli anni
settanta, sono stati il risultato di campagne per la parità
salariale e la legislazione anti-discriminazione,
soprattutto emerse dai movimenti femministi. In questa
prospettiva storica, ci chiediamo: come parlare del
genere del post-fordismo?
Ritengo che un elemento fondamentale da considerare
nel passaggio al post-fordismo è come sia aumentato in
modo straordinario l‟impiego di manodopera femminile
in molte nazioni. Soprattutto le zone più ricche hanno
avuto forti movimenti femministi degli anni sessanta,
per l‟uguaglianza di genere e per il diritto al lavoro e
l‟indipendenza economica dalla famiglia. Non è un caso
che il movimento femminista abbia raggiunto un picco
negli anni coincidenti con una crisi di redditività per
molte grandi aziende del mondo. Dal momento che la
struttura della società patriarcale in quel periodo aveva
prodotto mercati del lavoro segregati dal punto di vista
del genere (in cui gli uomini si trovavano nei settori
Genere e precarietà 53
meglio pagati e più altamente qualificati), il passaggio
ad un‟economia post-industriale ha inciso
sfavorevolmente sulle prospettive di impiego per la
classe operaia maschile, mentre ha avuto l‟effetto
opposto per le donne.36
La natura del lavoro in un‟economia post-fordista ha
favorito la manodopera altamente qualificata e la
flessibilità della forza lavoro femminile. Nel Regno
Unito, le donne sono confluite nel lavoro dalla metà
degli anni ottanta e hanno continuato a farlo da allora.
Questo paese ha visto la crescita delle tecniche di
produzione post-fordista in svariati settori, come la
vendita al dettaglio, la moda e l‟abbigliamento,
l‟arredamento e gli articoli per la casa, il fai-da-te (un
nuovo, ampio settore dei servizi che esplode soprattutto
a Londra e nel sud est del Regno Unito), poiché Londra
è diventata una città globale e un centro del settore
finanziario dagli anni ottanta. L‟impatto del
femminismo e della rivoluzione sessuale, che hanno
portata a maggior controllo delle nascite e a più
opportunità per le donne, si è anche tradotto in altre
aspirazioni delle giovani, che sono cresciute in maniera
esponenziale dalla fine degli anni settanta in poi. Queste
donne hanno potuto sempre più guadagnarsi da vivere e
raggiungere un reddito disponibile che,
successivamente, ha permesso loro di godersi le
comodità e le libertà di movimento (come le vacanze e i
viaggi), ma anche di ritardare l‟età di matrimonio e della
maternità. Tutto ciò si lega strettamente alla
femminilizzazione della forza lavoro, tanto da
36 Per un resoconto di questa prospettiva che scaglia il femminismo di ceto
medio contro gli interessi del proletariato industriale, si veda un articolo supervisionato da Anne Oakley e Juliet Mitchell. Le autrici si rivelano
ambivalenti rispetto al femminismo nel sui rapporto con la lotta operaia
(Mitchell e Oakley 1986).
Genere e precarietà 54
permettere di cogliere un rapporto stretto tra
l‟incremento dell‟indipendenza delle donne e la crescita
dei processi produttivi post-fordisti.
È stato dimostrato che nel Regno Unito, in Germania, in
Italia, in Francia e negli Stati Uniti sono avvenuti grandi
processi di slittamento e disgregazioni di classe che,
insieme a nuove forme di divisione sociale, hanno
aumentato le polarità di classe, inasprendo la povertà e
la disoccupazione da una parte e la ricchezza relativa
dall‟altra. In questo scenario, le donne incarnano vari
processi di transizione e mobilità sociale.
Per esempio, in Inghilterra, molte donne nere, madri e
figlie allo stesso tempo, si trovano a sostenere
economicamente intere famiglie, perché il mercato del
lavoro continua a discriminare i loro padri e fratelli, in
una dinamica di genere alquanto perversa. Alcune
ricorrono a lavori extra perché i loro mariti sono stati
licenziati. Come puntualizza Skeggs riferendosi al
Regno Unito, all‟interno di una cultura aggressivamente
conservatrice, le donne bianche della classe operaia
sono convinte che la loro provenienza sociale sia
deleteria per la loro femminilità e sessualità (Skeggs
1997). Infatti, la femminilità della classe operaia bianca
è ritenuta negativa e fallimentare e, di conseguenza,
queste donne sentono sempre più di doversi identificare
con stili più ambiziosi e attraenti, promossi
abbondantemente dal mondo dei media, in particolare
dalle televisione e dalle riviste (McRobbie 2008).
Essere femminili nel modo giusto significa anelare alla
rispettabilità del ceto medio o, altrimenti, mettere a
repentaglio la propria condizione sociale e identità
sessuale di donne operaie moderne. Questa logica
mostra chiaramente come il genere si articoli
direttamente con i più ampi processi di
Genere e precarietà 55
individualizzazione, arricchendo il significato di classe
sociale nel discorso politico quotidiano delle donne
(Baumann 1990).
Il lavoro della Skeggs mostra come la femminilità della
classe operaia inglese sia diventata oggetto di un forte
intervento governativo. La demonizzazione e il panico
morale delle donne «fuori controllo» dimostrano la
misura in cui il neo-liberismo ha cercato di creare una
classe operaia passiva, deferente e apparentemente
piena di opportunità di mobilità economica, soprattutto
per le donne che vengono invitate a diventare loro stesse
agenti di questo cambiamento. Se allora la classe resta
una potente fattore di agitazione sociale (e questo punto
è fondamentale per la mia risposta agli autori
dell‟operaismo) è altrettanto vero che le giovani donne
di classe operaia, attraverso i media e lo stile di vita
contemporanei, finiscono in grandissima parte per
disidentificarsi con la propria cultura di classe. Se le
mansioni che possono avere queste donne sono un posto
da direttore in negozi di moda come H&M o Benetton,
dove non c‟è alcuna prospettiva di sindacalizzazione,
cosa resta loro come spazio di lotta? Da questo punto di
vista, il capitale e lo stato complessivamente sembrano
essere riusciti a produrre una forza lavoro femminile
relativamente docile e ambiziosa, e dunque l‟idea di
opposizione nell‟ambito del lavoro risulta poco
realistica.
Allo stesso tempo, ci chiediamo se esistono altri ambiti
in cui queste donne diventano politicizzate, come ad
esempio la scolarizzazione per i loro bambini, la
fornitura di asili nido, le prestazioni sanitarie, la cura
degli anziani, la criminalità, i miglioramenti nell‟edilizia
popolare, la prevenzione del cancro al seno, l‟ambiente,
i gruppi di pressione politica. Forse che alle giovani
Genere e precarietà 56
viene solo data la possibilità di un ulteriore grado di
istruzione e della formazione continua (life long
learning)?37
In questa sfera, ciò quella che Beck chiama «politica di
vita», le donne sono sempre più coinvolte come soggetti
politici, non lavoratori ma pazienti, membri di famiglia,
genitori attivi, o come madri, ad esempio in gruppi
come Mothers Against Gun Crime (N.d.t. – madri
contro la criminalità armata), o come pensionate attive
in percorsi di partecipazione e apprendimento.
3. Lavoro Affettivo?
Negli ultimi anni si è aperto un vivace dibattito sul
lavoro affettivo e immateriale focalizzato
(implicitamente o esplicitamente) sulle donne, in cui
tuttavia si riscontrano sia un‟assenza di prospettiva
femminista, sia un eccessivo affidamento su lessici post-
fordisti – che, diffusi a partire dalla fine degli anni
settanta nel dibattito marxista-femminista, appaiono
oggi strumenti consunti e bisognosi di revisione. Molti
di questi autori si ispirano a Negri, Virno, Hardt e
Lazzarato, tenendo al margine l‟ottica di genere. Come
già detto nella sezione precedente, non credo che abbia
senso analizzare il campo post-fordista del lavoro
immateriale separandolo dalle questioni di genere.
Senza una teoria femminista riflessiva e aggiornata, gli
scritti di Wissinger (Wissinger 2007; 2009), Neff e
Zukin (Neff et al. 2005), sulle industrie della moda e
della bellezza, e in misura minore quelli di Weeks
(Weeks 2007), risultano depoliticizzati e
superficialmente celebrativi del significato
37 N.d.t. Per la letteratura in italiano sul tema, si veda Laura Balbo.
Genere e precarietà 57
contemporaneo di lavoro affettivo e immateriale.
Mentre questo tono ottimista potrebbe ispirarsi agli
scenari previsti dagli autori dell‟operaismo, manca una
concreta posizione di sinistra, e se mai gli scritti
mettono in luce le debolezze del pensiero post-fordista.
Chiaramente Negri, Hardt e Virno non possono essere
biasimati per coloro che selezionano aspetti del loro
pensiero per poi farsi sfuggire elementi fondamentali
come la lotta di classe e la politica rivoluzionaria,
centrali a tutta la loro riflessione teorica.
Tuttavia, la visibilità dei dibattiti sul lavoro immateriale,
insieme alla polemica sul post-fordismo visto come
«comunismo del capitale» (la socialità del general
intellect prima della «valorizzazione capitalista e del
mercato» – secondo Virno), dimostrano come sia
relativamente facile per altri autori avvicinarsi al
linguaggio post-fordista con interpretazioni spesso
ingenue della vitalità e dell‟evidente proto-comunismo
delle forme economiche contemporanee, ignorando le
politiche neo-liberali alla base del lavoro immateriale,
con le relative forme di biopolitica che modificano la
soggettività, formando ad una nuova società di
controllo.
Queste complessità si perdono quando l‟attenzione è
concentrata sulla presunta creatività della moltitudine.
Gli autori dell‟operaismo prevedono una nuova politica
immanente, dove i crack sono momenti o eventi del
divenire, un‟inarrestabile cooperazione permanente.
Questi sono, comunque, solo flash rapidi, rotture in un
paesaggio di dominio capitalista, che comporta nuovi
livelli e forme di sottomissione.38
Dove questi «flash»
sono sviluppati ulteriormente, ad esempio nell‟analisi di
38 Per un‟analisi dei crack si veda Braidotti (2008).
Genere e precarietà 58
Terranova della cooperazione peer to peer e nello
sviluppo di software open-source all‟interno di
comunità on-line, il radicalismo attribuito alle pratiche
creative e attiviste è ben diverso dalla semplice socialità
in rete, o nelle nuove industrie culturali (Terranova
2004).39
In un articolo apparso in «Ephemera» nel 2007, accanto
ad altri ben noti autori che lavorano nel campo del
lavoro affettivo, Wissinger espone il suo studio
etnografico delle top model a New York che lavorano
per le migliori agenzie nel mondo (soprattutto quella
associata a Kate Moss e altri nomi illustri) (Wissinger
2007). Per molti sociologi questo tipo lavoro è
considerato una carriera di élite all‟interno delle
industrie di moda e dell‟intrattenimento, paragonabile a
quello di attori di particolare successo. In Ephemera,
come anche in uno più recente sul «Journal of
Consumer Culture», Wissinger afferma che questa
tipologia di lavoro è «solitamente ben pagata» e ci
fornisce cifre che dimostrano i guadagni astronomici da
parte di alcune delle più famose top-model. Il punto
cruciale è che l‟autrice definisce questo lavoro come
precario, e rientrante pienamente nelle definizioni di
Hardt, Lazzarato e altri. Le top model «svolgono un
lavoro emotivo»: «creano comunità» con «la loro
vitalità e vivacità». Fungono da esempio principe per i
giovani lavoratori urbani creativi: devono investire nei
loro look dentro e fuori dal lavoro, devono andare alle
feste e devono «giocare sempre la loro parte». In un
altro articolo scritto con Neff e altri (2005), Wissinger
sostiene ancora che le modelle di New York
contribuiscono allo status di cool dei quartieri di New
39 Si veda anche il saggio di Terranova Soft Control in questo volume.
Genere e precarietà 59
York e dunque esse sono, agenti di riqualificazione
urbana. Leggendo queste autrici si ha l‟impressione che
le modelle siano state ingiustamente lasciate fuori dal
dibattito attuale sul lavoro precario nei nuovi settori
creativi, e che si debba rimediare a quest‟assenza,
tentando di persuadere il lettore sulla condizione di
precarietà delle top-model, che sono «meno manichini
di quanto si pensi e piuttosto direttori esecutivi di loro
stesse, come una società autonoma» (Wissinger 2007,
255).
Nell‟articolo sopra menzionato Wissinger spiega anche
che «il genere non rientra nel suo ambito di interesse»,
una piccola nota tra varie sviste, che conducono ad una
erronea visione di classe, condizione sociale e
precarietà. Anche la conclusione è paradossale, perché
le top model appaiono come parte del nuovo proletariato
allargato e simultaneamente, imprenditrici di sé stesse
estremamente facoltose. A questo punto, avendo
criticato la centralità della lotta di classe nel lavoro
dell‟operaismo a scapito del genere, è paradossale
ritrovarne una versione dell‟operaismo adottata da
Wissinger che trasforma in modo irriconoscibile l‟idea
di classe, tanto da collocare modelle in un nuovo
proletariato, essendo questo un lavoro irregolare e
precario, anche se di lusso. Le top model appaiono
detentrici di una creatività che può liberarsi verso altre
dimensioni sociali (o comunistiche).
Se Wissinger avesse guardato al ruolo delle modelle
femminili e all‟industria dell‟immagine da un punto di
vista di genere, si sarebbe accorta dell‟esplosione negli
ultimi due decenni di una cultura del consumatore
femminilizzata e iper-sessualizzata. In questo senso, le
top-model si collocano in rapporto chiave con le donne
(prevalentemente giovani) e precarie, consumatrici e s-
Genere e precarietà 60
oggetti globali dell‟industria della moda e della
bellezza. Allo stesso modo, un‟analisi femminista
avrebbe notato come la cultura di massa neo-liberale e
post-femminista, nel contesto della crescita del mercato
di consumo femminile abbia creato un‟atmosfera in cui
il femminismo è uncool o antiquato; il fascino della
professione della top model, ne fa un lavoro da sogno
(naturalmente irrealizzabile) per le giovani di classi
sociali diverse in tutto il mondo. Il tutto a scapito delle
scelte formative delle giovani, che non scelgono
professioni ben pagate e innovative, come quella
dell‟ingegnere, o della ricerca scientifica, ma anche quei
lavori sociali che ultimamente hanno perso il loro status.
In conclusione, la professione di modella non è
l‟esempio ideale per dimostrare l‟aumento del lavoro
affettivo, perché non è paragonabile al lavoro di cura o
riproduzione sociale. Vale la pena di notare che nello
stesso numero di «Ephemera», un articolo di Weeks
fornisce una risposta femminista al dibattito sul lavoro
affettivo (2007). Questo riporta la connessione iniziale
tra marxismo e femminismo in riferimento al lavoro
domestico, aggiungendo un‟analisi classicamente
sociologica del lavoro di Wright Mills sugli impiegati –
colletti bianchi – e sui modelli di personalità necessari
in questo settore di servizi. Weeks si collega al classico
studio delle assistenti di volo di Arlie Russell
Hochschild, rivedendo la categoria del lavoro affettivo e
parlando di lavoro emotivo. Secondo Weeks, in Wright
Mills la personalità assistenziale e premurosa, è
considerata in qualche modo un requisito del lavoro, ma
necessita una consumata falsità, mentre negli anni dello
studio di Hochschild, l‟idea di fondo era che per
comportarsi in modo premuroso e pieno di attenzioni
personali, le assistenti di volo dovessero essere motivate
Genere e precarietà 61
abbastanza da identificarsi positivamente in quel ruolo
(Hochschild 2006). Il settore dei servizi quindi produce
e richiede nuove soggettività affettive sul posto di
lavoro. Tuttavia, Weeks non si interroga
sufficientemente sulle conseguenze politiche delle
«tonalità emozionali» come requisito di lavoro
femminile (Hardt e Virno 1996).40
L‟autrice riconosce
che sono state superate le idee essenzialiste del «lavoro
delle donne», in primo luogo perché adesso anche gli
uomini sono impiegati nei servizi, rendendo la
segregazione di genere minore, e, in secondo luogo,
Weeks rileva che l‟idea del genere stessa si costruisce in
simili attività, riallacciandosi alle teorie del genere come
performance. La femminilità viene prodotta dalle
specifiche circostanze in cui la si rappresenta
ripetutamente fino a farne un requisito del lavoro.
Riguardo alle mutazioni del genere nel regime di lavoro
post-fordista (Weeks cita il lavoro di Donna Haraway)
ci troviamo davanti «sia all‟erosione sia
all‟intensificazione del genere». Mentre Weeks
riconosce la fine di un settore lavorativo blindato, che
escludeva le donne, non coglie quest‟occasione per
esaminare la ristrutturazione della posizione delle donne
nell‟ambito del lavoro flessibile, non coglie il completo
rovesciamento dai margini e della forza lavoro di riserva
al cuore delle nuove forme lavorative post-fordiste.
Dove la centralità contemporanea delle donne nella
produzione potrebbe dar vita a nuove forme di potere di
genere, questo potenziale politico viene negato da forme
di governamentalità biopolitica, incentrate sulle donne e
sui loro corpi (attraverso i media e le riviste), al punto
che che il loro potere legato al reddito viene assorbito
40 N.d. t. In originale emotional tonalities.
Genere e precarietà 62
immediatamente dalla cultura del consumo e dalle
promesse di soddisfazioni personali che questo
rappresenta.
4. Il Genere Precari@?
Gli studi recenti di sociologia femminista e studi
culturali sulla partecipazione delle giovani donne ai
nuovi settori economici culturali e creativi forniscono
molte dimensioni e variabili da analizzare (Gill 2007 e
Blimlinger 2008). Anzitutto, si tratta di giovani donne
molto istruite, prevalentemente laureate. Secondo, le
giovani precarie sono la generazione che ha ereditato le
vittorie del femminismo degli anni sessanta e settanta.
Sebbene quel femminismo sia familiare a loro, lo
vivono con una sorta di eredità assimilata attraverso le
madri, e poche di loro sembrano autodefinirsi
femministe o essere apertamente politicizzate ─ ad
eccezione di alcuni gruppi neo-femministi italiani,
descritti da Laura Fantone in questo volume41
, piccole
reti ed entità locali, organizzate intorno alla rete Prec@s
in Italia, attiva dal 2003.
Molte di queste giovani precarie istruite non sono
sposate né hanno bambini, e pare che stiano più o meno
deliberatamente procrastinando o evitando di averne,
perché si trovano a vivere in un alto grado di insicurezza
e precarietà nella loro vita affettiva e professione – fatta
di attività micro-imprenditoriali, educative o di ricerca,
pendolarismi estremi e lavori a distanza, e così via.
Durante un solo anno o due, molte di queste giovani
donne fanno qualcosa di completamente diverso dal
41 Si veda il saggio di Laura Fantone, Una Precarietà Differente, generazioni
e genere nel contesto italiano, in questo volume.
Genere e precarietà 63
mestiere precedente. Le università e le accademie di
belle arti hanno incoraggiato molte laureate a puntare
sui propri studi, feticizzando i lavori creativi e i progetti
freelance. I valori della fiducia in se stesse e
l‟ambizione di avere una certa autonomia nel reddito e
nel lavoro, magari fondando una propria piccola
impresa creativa non può essere separato dal tipo di
preparazione e di istruzione che queste giovani hanno
ricevuto. Così, in un certo senso, il vero cambiamento è
dato dal fatto che questa tipologia di lavoro è diventata
una nicchia più affollata del previsto: quanto più le
laureate entrano in questo tipo di lavoro, tanto più
questa diventa visibilmente femminile, poiché più
giovani donne completano corsi di laurea o
specializzazioni universitari che nel passato.
Nonostante queste donne abbiano successo nei loro
campi professionali, educativi e creativi, ed esprimano
soddisfazione per il lavoro, impegno e passione per
esso, c‟è la consapevolezza che queste carriere
freelance, sono caratterizzate da grande sfruttamento (e
auto-sfruttamento), oltre che da un cambiamento
costante.
Infine, è importante notare che le donne di queste reti
sono in prevalenza bianche e appartenenti alla classe
medie o alte. L‟accesso alla formazione continua e ai
più alti gradi d‟istruzione modifica la composizione
della classe delle giovani donne, che sono adesso capaci
di trarre vantaggio da queste risorse. Le laureate sono
ora socialmente più diversificate di prima, il che non
significa che non siano ancora in atto meccanismi (come
quelli del capitale sociale) che avvantaggiano chi
proviene da famiglie benestanti o di ceto medio. Questo
dato suggerirebbe che solo la già privilegiata giovane
donna bianca, risulterebbe essere abbastanza fiduciosa
Genere e precarietà 64
da rischiare, fare prestiti bancari per intraprendere
attività creative, e poi magari trovarsi a ripagare questa
scelta con grandi sforzi.
Il caso analizzato da Larner e Molloy (Larner e Molloy
2009), nel loro studio sulla nuova generazione delle
donne stiliste della Nuova Zelanda, offre un‟analogia
importante, dato che queste giovani donne emergono
come imprenditrici culturali, quindi considerate
essenziale per la crescita dell‟economia creativa in tutte
le città innovative del mondo. Inoltre, le precarie
creative riconoscono che questo tipo di lavoro sia
possibile anche grazie alle istanze femministe della
generazione precedente, che ha creato e opportunità per
le donne in affari. Le stiliste neozelandesi in particolare
sono state sostenute dal loro governo nel tentativo di
sviluppare il settore e guadagnare visibilità a livello
globale. Le stiliste producono abiti per «altre donne
lavoratrici indaffarate» la loro carriera le porta a
lavorare in proprio nei loro start-up, o per piccole
aziende per le quali è necessario svolgere sempre
incarichi diversi e passare da un progetto al successivo.
Quindi si tratta di donne altamente qualificate, che sono
diventate agenti fondamentali di un nuovo settore
creativo. La ricerca in questione dimostra che la
femminilizzazione della forza lavoro non implica
sempre accettare salari ridotti né una corsa verso il
basso imposta dell‟economia globale. Rimane però una
questione irrisolta da Carnera e Molloy: quale sarebbe la
politica femminista sottesa dalle attività imprenditoriali
delle donne? (Gray 2003).
Il testo manca di un confronto diretto con la realtà della
flessibilità post-fordista, come manca di un‟analisi
critica della cultura d‟impresa come nuovo strumento di
governamentalità, entrambe accelerate e intensificate
Genere e precarietà 65
dalla diffusione del neo-liberismo nella cultura politica
globale.
Cosa implica il fatto che sempre più giovani donne
diventino piccole imprenditrici culturali o creative? Ci
troviamo davanti ad un caso esteso di quello che
Lazzarato vede come un nuovo proletariato freelance
creativo (Lazzarato 1997), da considerarsi alla stregua
degli altri lavoratori precari?
Non so se Lazzarato abbia ragione a parlare in questi
termini dei giovani creativi. Forse queste imprese sono
da considerarsi, più convenzionalmente piccole aziende
che danno lavoro a poche lavoratrici ma che tuttavia
lasciano spazio alle donne nei ruoli di proprietarie e
direttrici a tutti gli effetti. Larner e Molloy scivolano su
questo terreno riferendosi all‟agire delle donne di affari
come meno aggressivo, e a volte più etico dei
businessmen. Questi autori collegano la concomitanza
delle lotte femministe e delle nuove politiche di governo
come produttive di una «soggettività neo-liberale di
genere», lasciando incerto il lettore su come interpretare
politicamente questo dato, dal momento che le imprese
e i risultati delle stiliste vengono celebrate e vagamente
trattate nelle dimensioni neo-liberali, che si manifestano
soltanto nello lavoro di design definito «radical-
intellettuale, dark e d‟avanguardia». Resta una
questione di fondo riguardante la «soggettività neo-
liberista del genere»: è positiva o negativa? Queste
donne sono forse solo ambasciatrici di un nuovo
capitalismo? O, semplicemente, lavoratrici flessibili
nella nuova economia creativa, nel mercato del lavoro
in «transizione permanente» che è stato oggetto di
attenzioni approfondite negli ultimi anni? Le stiliste
sono un esempio di un lavoro autonomo (come libero
professionista, o come piccola imprenditoria culturale)
Genere e precarietà 66
completamente diverso dal lavoro convenzionale
(McRobbie 1998)?
Larner e Molly suggeriscono come sia stata posta troppa
enfasi sulla durezza e sui fallimenti posta da vari studi,
tra cui il mio, e resta il dubbio se l‟economia creativa sia
un bene o un male per le donne. Nello stesso articolo,
Larner e Molloy non esitano a descrivere problemi
simili in cui si sono imbattute le stiliste in Nuova
Zelanda, confermando, effettivamente, la tesi iniziale
secondo cui gli stilisti indipendenti, preparati dalle
accademie delle belle arti, non siano tanto
amministratori delegati quanto piuttosto artisti
convenzionali, che fanno tanti sforzo per guadagnarsi la
vita con metodi fai-da-te o lavorando a domicilio,
cercando costantemente piccole somme per
investimenti, e vivendo tormentati dalla paura di dover
chiudere la loro attività.
Negli ultimi anni, sono aumentate molto le quantità di
articoli che esaminano il modo in cui vecchie gerarchie
di genere si siano riprodotte nei nuovi settori creativi e
dei media (Gill 2007 e Blimlinger 2008).42
Lisa Adkins,
ad esempio, dimostra come l‟imprenditorialità su
piccola scala spesso veda coppie sposate lavorare l‟uno
accanto all‟altra, in modo tale da riprodurre in questi
micro-business, la classica divisione di genere che vede
l‟uomo come più mobile e capace di viaggiare e seguire
contatti, mentre la donna, soprattutto se ha dei bambini,
si concentra su un ruolo dietro le quinte e di mero
sostegno (Adkins 2002). Tutto ciò induce Adkins a
parlare di una ri-tradizionalizzazione condizionata per le
donne, che nuocciono alla famiglia, se paragonate alle
42 Si veda anche il saggio di Laura Fantone in questo volume.
Genere e precarietà 67
aspettative di un normale lavoro retribuito con orari
stabiliti e diritti chiari.
Nel nuovo settore creativo, e in molti settori
professionali, emerge un‟apparente uguaglianza se si
parla di numeri totali di giovani donne con buone
qualifiche e con grandi quantità di energia e di
iniziativa. Tuttavia, come sostengono Gill e Scharff, le
regole informali della socialità in rete (Terranova 2004),
minano i diritti legalmente garantiti associati al «lavoro
normale» (Gill 2007 e Scharff 2011). Questo rende
difficile sollevare questioni di sessismo o razzismo,
perché c‟è una sorta di privatizzazione delle ingiustizie.
Come sostiene Scharff, le giovani donne cominciano a
vedere la discriminazione sessuale semplicemente come
un altro ostacolo che devono essere in grado di superare
individualmente, con assoluto coraggio e
determinazione. Niente di peggiore dell‟apparire
femministe in questi ambiti di lavoro creativo. Questa
stessa cultura privatizzata, e profondamente
individualista dà luogo a profondi malesseri come lo
stress mentale, i crolli fisici e la dipendenza da droghe e
alcool (Berardi 2009). In questi processi complessi
sembra che le giovani donne abbiano raggiunto una
sorta di uguaglianza, laddove, in realtà, questa è ancora
minata da dinamiche sottili e patriarcali, nascoste
dall‟apparentemente innocuo paradigma del cool, che
diventa un regime disciplinare nel lavoro e nel tempo
libero, crudele tiranno delle giovani donne.
Conclusione
Questi scenari delineano una tensione irrisolta
dell‟operaismo: l‟insistenza sulla centralità del luogo di
lavoro nella formazione di nuove politiche radicali. Gli
Genere e precarietà 68
autori riconoscono che non c‟è più una netta divisione
tra la vita lavorativa e il tempo libero nella quotidianità.
Lamentano i valori corrotti di una vita quotidiana
edonistica tipici del lavoro precario, cosicché il lavoro
diventa un‟estensione della vita sociale. Non rinnegano
l‟importanza politica delle istituzioni sociali e della vita
di tutti i giorni, ma le loro analisi seguono una traiettoria
che va dal luogo di lavoro all‟esterno, verso la «fabbrica
sociale». Questo è il punto in cui l‟operaismo si
distanzia da autorevoli analisi radicali nell‟ambito delle
scienze sociali e umanistiche recenti. Negli ultimi anni,
ad altri ambiti sono stati attribuiti forti significati
politici, al di là della fabbrica. Le scuole, le comunità, le
strade, gli spazi urbani, le prigioni, l‟ambito domestico,
le arti, la sessualità, la musica pop e di successo,
compreso quella emergente dalla cultura urbana black.
Questi ambiti non si sono deliberatamente etichettati
«fabbriche», per evitarne la riduzione ad uno spazio
gerarchico, per il lavoro retribuito e preminentemente
legato a politiche di classe. Gli altri spazi sono stati
riconosciuti come luoghi di potere altrettanto
fondamentali per la contestazione e la formazione di
movimenti di opposizione, soprattutto per quei settori
della popolazione (giovani, varie generazioni di persone
nere e asiatiche escluse da lavori regolari, donne che si
affidano al lavoro part-time) ai quali non è dato accesso
al lavoro retribuito e una vera carriera. Paul Gilroy,
nell‟ultimo capitolo di There Ain’t No Black in the
Union Jack ha chiaramente proposto questo modello per
uscire dal determinismo della fabbrica (1987), così
come gli studi post-coloniali, quelli culturali e il
femminismo.
In questo momento si pone un‟altra questione cruciale,
come possono le femministe che si occupano di studi
Genere e precarietà 69
culturali e sociologia a ridare centralità al luogo di
lavoro? È possibile superare le analisi precedenti su
«donne e occupazione» per dialogare pienamente con le
nuove forme di lavoro precario che stanno emergendo,
oltre alle più vecchie forme dell‟etnia e della classe?
E come farlo, con quale tipo di vocabolario critico?
Tutti gli autori qui menzionati hanno già facendo
progressi in questo senso, allontanandosi da macro-
analisi sulle donne e l‟occupazione che ha caratterizzato
gran parte degli studi femministi dagli anni settanta,
prendendo la direzione degli studi microsociologici di
carriere e percorsi di genere nel settore creativo e nel
precariato. La mia conclusione sugli studi femministi
incentrati sul genere e il lavoro precario è che sia
necessario esaminare i punti di tensione reali – come
l‟ansia, gli stati di sofferenza e di perenne incertezza ─
derivanti dalle imposizioni eccessive o addirittura
patologiche delle carriere multi-tasking. Questo nodo
complesso rappresenta un potenziale per la nascita di
una nuova collettività, che già si trova ad un punto di
rottura e non ritorno.
Forse possiamo ipotizzare piuttosto una dinamica
generazionale a venire. Ci possiamo interrogare sul se le
precarie, quando raggiungano la mezza età, avranno
ancora ambizioni di socializzare e fare networking dopo
lunghe ore di lavoro.43
I contributi femministi in questo dibattito sono
caratterizzati da un‟enfasi sulle pratiche reali di lavoro,
in netto contrasto con Negri e Hardt che, nel loro
desiderio di coniugare la filosofia post-marxista a
prospettive futuristiche utili a nuovi movimenti radicali,
lasciano poco spazio a ricerche o riferimento ai percorsi
43 Si veda il lavoro in corso di Zoe Romano su <www.edufashion.org> e su
<www.openwear.org>.
Genere e precarietà 70
di carriera specifici o tanto meno a reali esperienze di
vita lavorativa nei settori creativi. Lazzarato si avvicina
di più alle pratiche concrete, lavorando con Les
Intermittents du Spectacle parigini, facendo una
campagna per i diritti sindacali, ma anche nel suo caso i
riferimenti concreti restano frammentari.
È necessario notare come nel lavoro di Virno (2001), si
citi brevemente la Libreria delle Donne di Milano con
sguardo storico sugli anni ottanta, come un esempio di
lavoro cooperativo, dove i valori e le responsabilità
collettive della comunità hanno prevalso sul mercato.
Trovo piuttosto ironico che ricercando soggettività e
pratiche lavorative alternative, non già conquistate del
tutto dalla logica dell‟accelerazione fine a sé stessa,
venga in mente una libreria femminista, come esempio
di lavoro postmoderno e creativo. Simili esperimenti si
autodefinivano in termini di soddisfazione per un lavoro
fine a sé stesso, incentrato su sé stesso, piuttosto che
definito dal successo commerciale (Virno 2001).44
Questo è un punto utile far convergere i vari aspetti che
ho trattato in questo saggio e trarne alcune conclusioni.
La generazione caposaldo dell‟operaismo si è formata
sull‟onda delle attività politiche della fine degli anni
sessanta e degli inizi degli anni settanta, nonché in
opposizione alla repressione dello Stato. Ma accanto ai
pesanti conflitti – violenti e non violenti – di quel
periodo, si sono sviluppati migliaia di piccoli progetti
che alimentavano la «comunità alternativa»: dalle case
editrici femministe, alle cooperative di donne artigiane,
dagli asili radicali per bambini, ai gruppi di auto aiuto
per le giovani, ai maedchenarbeir45
tedeschi, fino ai
44 Per un interessante approfondimento sulle attività dei gruppi femministi oggi, si
veda al sito <www.casainternazionaledelledonne.org>. 45 Vedi nota 2.
Genere e precarietà 71
laboratori di fotografia per donne, ed altre forme di
attività auto-organizzate caratterizzate da una
dimensione economica. Malgrado fossero soggetti a
conflitti ideologici interni, questi modelli hanno creato
una possibilità di politica radicale di ridefinizione del
lavoro capace di adattarsi alla cultura delle piccole
imprese, con tutte le limitazioni che la caratterizzava.
Queste piccole imprese ad alto «valore sociale» ci
offrono un modello più forte di cooperazione, di
invenzione di nuove tipologie e tempi di lavoro, e di
radicale ridefinizione dell‟idea di lavoro sociale rispetto
ai modelli predominanti con cui pensiamo alle nuove
industrie creative oggi.
Infine, va riconosciuto che le donne che a partire dagli
anni settanta hanno organizzato queste iniziative, erano
già multi-taskers: attraverso queste, esse hanno potuto
dedicarsi interamente al loro lavoro facendone la
propria passione e hanno vissuto la cultura del lavoro
senza orari ante-litteram. Questo ruolo delle donne è
ancora troppo nascosto e, nella prospettiva storica
attuale rimane purtroppo marginale, quasi un‟assenza
nel dibattito contemporaneo sul genere e il lavoro
affettivo.
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Genere e precarietà 77
corpi
Dislocazione e transito perenne tra i
generi e le sessualità. Una riflessione sulle vite precarie
di Gaia Giuliani
Introduzione
La riflessione che propongo, originariamente nata da
uno scambio con Porpora Marcasciano, attivista del
movimento LGBT italiano e presidente del MIT
(Movimento Identità Transessuale), rappresenta una
prima considerazione sulle trasformazioni nella
percezione del corpo, dell‟identità di genere, della
sessualità e dell‟affettività nel contesto di quella che
possiamo definire in modo schematico l‟«età della
precarietà» in Italia. Essa è scaturita dal nostro
confrontarci in più occasioni su significati, forme e
obiettivi dell‟agire politico gendered, queer e trans-
gendered in Italia. Le riflessioni mie e di Marcasciano si
sono dunque mescolate per costituire il terreno stesso di
questo articolo. Seppur appartenenti a generazioni
differenti, veniamo entrambe dal milieu culturale e
politico della scena femminista e queer bolognese. Le
molte battaglie condivise tra il 2002 e il 2010 – in difesa
della legge sull‟aborto, nel movimento italiano creatosi
attorno ai temi della precarietà di vita e del lavoro, per il
reddito di cittadinanza e per la cittadinanza globale,
contro la legge italiana sulla Procreazione
Medicalmente Assistita (2005), per il riconoscimento
politico delle «affettività differenti» (in riferimento alla
Genere e precarietà 78
discussione per l‟approvazione dei D.I.C.O. tra il 2006 e
il 20071), contro la violenza di genere, transfobica e
omofobica, e per uno Stato italiano laico – hanno
dimostrato di essere in grado di ricombinare, per quanto
ancora con grandi difficoltà e rigidità, il patrimonio
critico di un certo femminismo e di un certo movimento
LGBT (lesbico, gay, bisex, trans). Questo è apparso
l‟esito della messa in discussione da parte, in un caso,
della critica queer e postcoloniale alla teoria femminista
«eterosessuale» e occidentale e, nell‟altro, della critica
transgender ai movimenti gay e lesbico tradizionale e
alle loro categorie fisse (Gay, Lesbica, Trans): entrambe
siamo testimoni della decostruzione di un soggetto che
sta coinvolgendo anche le soggettività critiche
femminista e omosessuale.
Ci siamo chieste se la frammentazione nelle pratiche
politiche e di vita, la ricombinazione fluida di
soggettività attraverso i molteplici network, la
sperimentazione di linguaggi creativi e provocatori non
siano tutti direttamente collegati al «divenire precario
del soggetto e della politica». E se la «precarietà di vita
e degli affetti» – dell‟exodus sessuale2, identitario,
cognitivo e territoriale insita da sempre nel percorso
transgender – non stia effettivamente fungendo da
magazzino degli attrezzi concettuali per una definizione,
o meglio un‟identificazione fluida, della condizione
1 DICO è la sigla che corrisponde a «DIritti e doveri delle persone stabilmente COnviventi» e viene riferita comunemente al disegno di legge,
presentato dal Governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi nel 2006-
2007 e redatto dalle ministre Livia Turco e Rosi Bindi. Esso era finalizzato al riconoscimento nell‟ordinamento giuridico italiano di taluni diritti e doveri
discendenti dai rapporti di «convivenza» registrati all‟anagrafe.
2 Il termine fu utilizzato da Marcasciano in questo contesto, la quale lo utilizzò per sottolineare la coralità e la multidimensionalità del transito tra i
generi nell‟esperienza trangender. Lo riprendo tenendo fede a questa
accezione.
Genere e precarietà 79
precaria che un numero crescente di persone esperisce
nel senso della scomposizione e moltiplicazione dei
processi di identificazione, delle esperienze affettive e
della forme della sessualità.
Gli spunti analitici e teorici sulla «condizione trans»
offerti da Marcasciano, mi servono per situare tale
condizione in senso storico e politico. Da qui, la mia
analisi si sposta verso una lettura femminista e queer
delle pratiche «precarie» del genere e della sessualità in
atto nella società italiana . Al centro dell‟analisi sono le
implicazioni sociali, politiche e culturali di tali pratiche,
che io definisco come in «transito continuo». Utilizzo in
un contesto più ampio la definizione propria
dell‟identità trans e la estendendo alle più generali
forme di (post) identità queer e identità precaria al fine
di cogliere il «continuo spostamento» sia simbolico, sia
corporeo, sia territoriale, da categorie fisse e binarie
(eterosessualità-omosessualità, uomo-donna, maschile-
femminile) ai «percorsi in transito» che le caratterizzano
(Butler 2004, 8, 37).
Con la mia ricollocazione e «presa a prestito» dal
transgender del concetto e dell‟esperienza del transito
intendo mettere in luce la capacità di operare forme di
agency – o esperienze di soggettivazione – nel reagire
alla scomposizione impressa dalla precarietà alle nostre
vite. La questione è, infatti, comprendere come la
destrutturazione delle identità binarie moderne – di
genere, quali quelle di uomo-donna e maschile-
femminile, o in riferimento alla sessualità, quali quelle
di eterosessuale-omosessuale, o in riferimento al lavoro
e alla cittadinanza, quali quelle di cittadino-noncittadino
o lavoratore-disoccupato – in un cumulo di frammenti
scompostamente riassemblati, si sia realizzata nelle
«identità precarie». E come tali «identità precarie» siano
Genere e precarietà 80
state o possano essere protagoniste di processi di
ricomposizione, di soggettivazione e di azione politica a
partire dall‟esperienze del «transito continuo». Tale
analisi, così come l‟oggetto di ricerca, sono situate in un
contesto sociale, politico e culturale segnato da forme
estreme di individualizzazione, dall‟auto-segregazione o
allontanamento «dal proprio corpo e da quello degli
altri» e dal ripiegamento nel privato come strategia di
sopravvivenza. L‟obiettivo è quello di comprendere se il
riconoscimento della natura molteplice e flessibile
dell‟identità precaria può essere il luogo di un nuovo
immaginario collettivo e il terreno di nuove lotte che
coinvolgano contemporaneamente i piani del genere,
della sessualità, dell‟affettività, del lavoro e della
cittadinanza.
Il mio intervento parte dalla considerazione che le
identità precarie si trovano nella condizione di usufruire
di materiali identitari molteplici e flessibili, risultato
della critica postmoderna, femminista e queer che dagli
anni settanta si è sviluppata nei confronti delle identità
binarie moderne, condizione che li rende
potenzialmente in grado di praticare un‟ulteriore
decostruzione dei modelli di mascolinità e femminilità e
di sessualità eteronormati, familisti e patriarcali. Oggi,
frammenti di tali narrazioni vengono utilizzati per
descrivere pratiche che rompono con un‟idea codificata
di sessualità e di affetto, e con la loro strutturazione in
formazioni sociali predefinite (coppia, famiglia). O
meglio, s‟intersecano, accompagnano, sono in tensione
con le pratiche che destrutturano concezioni codificate
del maschile e del femminile, senza però che l‟uso di
tali frammenti da parte di queste pratiche produca una
narrazione compiuta. Non vi è consapevolezza del
potenziale simbolico che una riarticolazione «in senso
Genere e precarietà 81
precario» di tali narrazioni potrebbe sprigionare. È raro,
infatti, che le narrazioni queer e transgender vengano
consapevolmente assunte come materiale politico dalle
identità precarie. Accade all‟interno di certe subculture
eterosessuali e omosessuali – quelle giovanili «Emo», o
transgenerazionali del BDSM, ad esempio, che mettono
in discussione di definizioni nette e statiche di
femminile e maschile3 – ma tale materiale non assurge
mai ad elemento politico e di rivendicazione. Le sue
ricombinazioni non danno vita ad un immaginario
comune in grado di porre la destrutturazione al centro di
un‟analisi complessiva dell‟identità precaria
contemporanea. L‟idea del transito perenne tra maschile
e femminile, tra le varie forme della sessualità, come
elemento assertivo e positivo viene assunta, infatti, per
lo più a livello individuale e occasionale, mentre nella
maggior parte dei casi la vita precaria come «vita in
assenza di approdo» (alle categorie moderne del lavoro
stabile, della famiglia, e delle corrispondenti posizioni
sociali, definite dal reddito, dalla rendita e dal consumo)
è ancora vissuta con sofferenza.
Se l‟idea di «transito perenne» può essere mutuata,
come categoria analitica e descrittiva, per comprendere
le pratiche individuali e collettive poste in essere dalle
identità precarie, e se la precarietà di vita e del lavoro
può essere considerata fattore stesso di quella
destrutturazione e ricomposizione delle pratiche sessuali
che richiede un‟estensione semantica del concetto di
transito, allora si potrebbe puntare ad un obiettivo
3 Nel senso della spiccata declinazione «femminile» dell‟estetica maschile
nell‟ambito della sottocultura «emo» (che enfatizza l‟uso di capi
d‟abbigliamento tradizionalmente associati all‟altro sesso e atteggiamenti estremamente «effemminati») e dello «switching» nelle pratiche BDSM che
implica non solo la disgiunzione tra ruoli dominanti e dominati
dall‟appartenenza di genere ma anche la loro continua inversione.
Genere e precarietà 82
politico più alto con il rivendicare la narrazione del
transito come narrazione politica della riconfigurazione
dell‟identità individuale e collettiva nell‟era della
precarietà.
Per poter fare ciò è necessario un recupero del «luogo-
corpo» sottratto alla «perdita di peso» di cui mi parlava
Marcasciano, descrivendo la de-corporazione
postmoderna, e che è pure alla base dell‟accelerazione e
delocalizzazione imposta dall‟ordine precario. Il luogo-
corpo e la perdita-recupero di peso, su cui s‟incentra la
mia analisi della condizione precaria nei termini di una
nuova fenomenologia della corporeità, divengono
nell‟età della precarietà una sorta di metafore
imprescindibili della destrutturazione delle categorie
moderne alla base dei processi identificativi individuali
e collettivi: fabbrica, famiglia, partito, chiesa.
Il recupero del peso non ha nulla a che vedere con il
ritorno a tali categorie (in tal senso stabilisco una
tensione con quanto sostenuto da Rich 1996, 15-22 e
Braidotti 2002, 75): al contrario, esso si riferisce alla
valorizzazione della dimensione del «qui e ora» da cui
ripartire per riconoscere ciò che accomuna, per dar vita
a nuove forme di solidarietà e condivisione di analisi e
lotte.
Solo attraverso un «situarsi» nell‟immanenza del «qui e
ora» che metta in luce differenze e similitudini tra le
diverse identità precarie, che le confronti a partire dalla
loro «posizione» in termini di genere, sessualità, colore,
classe, cultura, diritti di cittadinanza valorizzandone i
punti di contatto, si dà la possibilità di una
consapevolezza della condizione precaria e il terreno
per una soggettivazione allargata.
Solo attraverso una sottrazione dalla fuga in avanti
imposta dal tempo precario è possibile riconoscersi
Genere e precarietà 83
reciprocamente in quanto accomunati da quello che è un
«transito perenne» attraverso i confini dei generi, delle
classi, dei colori e delle culture (Appiah 1997; Lorde
1983). Solo avendo la capacità di ricomporre e
rappresentare la propria identità attraverso una
geometria flessibile che includa i diversi piani su cui
essa viene agita, l‟«hic et nunc» può rimandare al
futuro, ad una prospettiva che renda capaci le identità
precarie di recuperare quella relazione tra passato,
presente e futuro che il processo di
accelerazione/dislocazione ha ridotto in segmenti non
comunicanti. Questa discrasia tra i segmenti si dà nel
lavoro precario così come nella vita affettiva, la cui
moltiplicazione – diversi contratti, diverse collocazioni,
diversi partner, diverse forme di affettività – sembrano
non poter esser ricomposti in una trama individuale e
collettiva coerente. Translando in un contesto
lontanissimo ciò che Paul Gilroy ha suggerito in
riferimento alla dispora afro-americana ed alle
potenzialità di un‟identità collettiva fondata sul
riconoscimento della comune esperienza storica e
culturale (di schiavitù e subalternità), si può affermare
che la soggettivazione dei soggetti precari può darsi solo
come consapevolezza di una storia comune che produce
effetti nelle vite individuali e collettive nel tempo
presente.
Decelerazione, pesantezza/recupero del corpo,
solidarietà sulla base della comunanza, consapevolezza
della condizione precaria e immanenza: è attraverso
questi passaggi che l‟identità in transito perenne può
divenire il terreno della soggettivazione precaria.
La lettura da me proposta della condizione precaria
attraverso la categoria del «transito perenne» tralascia
Genere e precarietà 84
una più approfondita analisi del contesto economico,
sociale e culturale in cui si da la marketability delle
identità precarie, ossia la spendibilità sul mercato ma
anche la riorganizzazione della produzione a partire dai
bisogni espressi da identità di genere più flessibili. Mi
riferisco alle offerte dell‟industria culturale e non solo,
alla proliferazione di beni di consumo, ma anche alla
riorganizzazione del mercato del lavoro che sfruttano e
che riproducono la vita precaria, inserendola in un
regime di normalità che sottrae piani di soggettivazione
e reazione. Questo intervento non si soffermerà dunque
su di una disamina approfondita della circolarità tra
desiderio, spazio pubblico e mercato. Semplicemente
vorrà puntare l‟attenzione sulla agency esperita da
soggetti individuali e collettivi nella «narrazione» delle
proprie migrazioni across gender and sexuality lines a
partire da strumenti descrittivi provenienti dal
vocabolario queer e transgender.
1. Trans-siti. Una premessa sull’identità situata
del transgender, per un possibile paradigma
della precarietà. Note sulle riflessioni di Porpora
Marcasciano
Necessità, bisogni e desideri predispongono
l‟essere umano al viaggio, allo spostamento, al
cambiamento. La tendenza naturale è
un‟incessante ricerca di condizioni di vita
migliori o, se vogliamo, una profonda ed
atavica aspirazione alla felicità. A volte è la
ricerca dell‟acqua e di terra fertile da poter
coltivare o di un clima più favorevole, altre è la
In questo paragrafo le riflessioni di Porpora Marcasciano sono evidenziate
mediante l‟uso del corpo minore.
Genere e precarietà 85
fuga da guerre e violenza. Ma anche il desiderio
di conoscere, comunicare, socializzare e alla
base c‟è sempre e comunque un‟aspirazione, un
miglioramento della propria condizione
esistenziale, quella famosa «fame che aguzza
l‟ingegno» che sposta, riposiziona
continuamente popoli e persone,
sintonizzandoli con l‟eterno, incessante
mutamento a cui sottostà l‟universo tutto. La
ricerca di condizioni migliori di vita non
riguarda solo l‟ambiente fisico, sociale e
culturale, ma anche qualcosa di molto più
intimo e personale: essa, infatti, può riguardare
anche il corpo, involucro per qualcuno e per
altri un ingombro, composto dai quattro
elementi, attraverso il quale ogni individuo può
dirsi vivo. Si può intervenire sul proprio corpo,
curarlo, correggerlo, trasformarlo perché
malato, brutto, disarmonico o, molto
semplicemente perché è un corpo che non ci
appartiene.
Si nasce maschi e si diventa donne o viceversa
si nasce femmine e si diventa uomini, attraverso
un complesso e creativo movimento che prende
il nome di transessualismo (passaggio da un
sesso all‟altro) o transgender (passaggio da un
genere ad un altro). Sottolineo tale distinzione
perché le parole costruiscono la realtà delle
persone: i significati e significanti producono
senso, e questo senso, nella vita delle persone
trans, può tradursi in piena realizzazione di sé
o, all‟opposto, in esclusione. La ricerca riguarda
il corpo, l‟identità, il luogo in cui vivere, una
ricerca soggettiva di condizioni possibili oltre la
precarietà che i modelli culturali costruiscono
attorno all‟individuo. La differenza è tutta nella
desinenza che nel primo caso fa riferimento al
sesso, e quindi a qualcosa di fisico, mentre nel
Genere e precarietà 86
secondo rimanda al genere, e quindi a qualcosa
di più profondo e complesso.
I/le transessuali sono coloro che si identificano
con il sesso opposto a quello di nascita e
nutrono un desiderio intenso di cambiare la
propria conformazione sessuale per vivere in
sintonia con la percezione profonda di sè. Si
indica con il termine transessuale chi transita da
un sesso all‟altro e tutti coloro che pur
nascendo maschi si sentono femmine o
viceversa. Il DSM IV (Manuale Diagnostico e
statistico dei disturbi mentali) considera il
transessualismo come un disturbo o una disforia
dell‟identità di genere e lo indica con la sigla
DIG: nel caso della trasformazione sessuale,
quindi, la disciplina medica conferisce una
spiegazione scientifica alla ricerca e al
cambiamento operato dalla persone
transessuali. L‟esperienza transessuale ha
percorsi diversificati tra maschi e femmine: i
due transiti sono identificati a livello
internazionale attraverso una sigla, MtF (Male
to Female) e FtM (Female to Male). Per i
transessuali i propri genitali sono fonte di
imbarazzo e disagio, e anche il corpo, che
spesso non corrisponde a quello sognato,
rappresenta un ostacolo alla propria
realizzazione. Quando la persona transessuale
decide di armonizzare corpo e mente, di
sintonizzare sesso e genere, avvia un percorso
di adeguamento comunemente detto transito
che consiste in cure ormonali e ricorso alla
chirurgia plastica ed estetica. Il transito, e
quindi l‟esperienza transessuale, può
considerarsi concluso con l‟operazione di
cambio di sesso, effettuata la quale la persona
sarà riconosciuta con il sesso ed il genere «di
arrivo» (Del Pozzo e Scarlini 2006).
Genere e precarietà 87
Il termine transgender usato ormai in tutto il
mondo, è considerato il termine più corretto, sia
dal punto di vista scientifico che da quello
sociale e culturale per indicare l‟esperienza
trans.
Nei paesi anglofoni il termine si sovrappone, e
spesso sostituisce, quello di transessuale
ritenuto poco appropriato perché riferito
esclusivamente al sesso e non al genere di una
persona. Non è, infatti, l‟orientamento sessuale,
implicato solo trasversalmente nell‟esperienza
trans, a dover essere riconosciuto, ma l‟identità
di genere (AGEFORM 2002). Nonostante non
esista nessun termine corrispondente in lingua
italiana, possiamo considerare transito di
genere una traduzione approssimativa per
indicare l‟esperienza di chi si sente donna ed è
nato maschio o viceversa di chi si sente uomo
ed è nata femmina. La problematica è racchiusa
in una sfumatura sottile ma sostanziale tra il
significato di maschio/uomo e di
femmina/donna, dove i termini di maschio e
femmina si riferiscono al sesso e rimandano
quindi a qualcosa di strutturale e puramente
fisico, mentre quelli di uomo e donna si
riferiscono all‟identità e rimandano invece a
qualcosa di psicologico e culturale.
L‟esperienza trans come ridefinizione di sé è precarietà
agita: è precarietà in quanto spostamento semantico
continuo, ed è agita nel senso che si dà come agire
soggettivo. Exodus, spostamento, riposizionamento,
trasformazione, significati e significanti quindi del
«transito», il moto «da-a», da qualcosa di socialmente
determinato a qualcos‟altro di indeterminato. Se il
significato socialmente associato al termine
«determinatezza» è generalmente positivo, e negativo è
Genere e precarietà 88
quello associato all‟indeterminatezza, ciò che si vuole
sottolineare qui sono le potenzialità di quest‟ultima
come ambito della sperimentazione e della conoscenza.
In quanto exodus, il transito è sempre in atto,
non è mai concluso: esso necessariamente
confligge con la determinatezza del «sesso» e/o
di un genere «dato una volta per tutte», una
determinatezza che Monique Wittig chiama
«the straight mind» (Wittig 1994), Mario Mieli,
leggendola in chiave «frocia» (queer) definiva
«educastrazione» (Mieli 1977), e Nicoletta
Poidimani chiama «ordine veterosessuale»
(Poidimani 2006). L‟exodus trans, in quanto
ricerca, è ricchezza, in antitesi con quanti/e,
anche in ambito libertario, immaginano e
collocano l‟esistenza, compresa quella trans, tra
due punti: uno di partenza e uno di arrivo, che
dovrebbero coincidere più o meno con partenza
dal maschile e arrivo al femminile o viceversa.
L‟assillante logica di determinare, definire
sesso, genere, sessualità è propria di una cultura
eterosessuale/omoculturale, che è quella delle
persone «straight minded», appunto.
L‟esperienza trans decostruisce corpi, identità,
culture (Butler 2004): è l‟elemento acqua che
lambisce e tocca l‟elemento terra, è il mare che
nel suo moto perpetuo trasforma la linea di terra
(«Posse» 2002). Il transito è decostruzione di
genere e, in quanto tale, decostruzione dello
«straight mind», dell‟«ordine veterosessuale».
Si tratta di un processo, questo, che solo negli
ultimi anni è stato parzialmente riconosciuto dai
femminismi in Italia ed altrove, i quali per
decenni si sono generalmente limitati a lottare
contro il patriarcato senza scorgere
Genere e precarietà 89
nell‟eteronormatività il pendant del paradigma
patriarcale (Feinberg 1997; 2004).
Nella pratica di leggere e ricostruire il mondo e
se stess*, femministe e trans ritornano a parlare
di sé, con qualche contraddizione (forse) ma,
soprattutto, non in antitesi. Se nella storia il
femminismo ha scavato un solco tra un prima e
un dopo, la comparsa del soggetto trans ha
contribuito a vivacizzare quell‟orizzonte piatto
che divide il maschile dal femminile, ha
frastagliato il confine netto tra il celeste e il rosa
mettendone in risalto le sfumature.
L‟ibridazione ha investito un mondo pensato
dagli uomini ed è per questo che il celeste che
lo caratterizzava ne è risultato sicuramente più
sbiadito, mentre il rosa dell‟altra metà del cielo
ha vivacizzato le sue sfumature. L‟esperienza
trans ha attraversato il genere, il sesso, il
costume nella storia: essa è, infatti,
trans/genere, trans/sessuale, trans/vestita. Molto
semplicemente, e soprattutto orgogliosamente,
essa è Trans. Ottimo argomento di cui discutere
con le donne: di colori parlava il femminismo ai
suoi albori, di colori è fatta la bandiera
rainbow, il simbolo dei/delle trans
(Marcasciano 2006).
Negli anni ottanta in Italia, l‟esperienza trans ha
introdotto – e imposto – in modo sostanziale la
riflessione sul maschile e sul femminile, come elementi
culturali decorporeizzati e al contempo situati, ossia che
trovano articolazione compiuta solo nella performance
di essi che ogni singolo individuo pone in essere nella
sua esistenza situata. Il genere diviene quindi un
elemento culturale, la cui appropriazione s‟inserisce
Genere e precarietà 90
all‟interno di norme sessuali precise e imprescindibili
ma che è al contempo frutto stesso dell‟agency
individuale.
L‟exodus verso mascolinità e femminilità trans
può assumere concettualmente una doppia
valenza, una positiva, se visto come ricerca,
l‟altra negativa, se visto come precarietà di vita.
Forse sarebbe meglio dire, utilizzando la
simbologia buddista del Tao, che ricerca e
precarietà sono indissolubilmente legate. Ciò
che è certo è che perché l‟elemento negativo
non prenda il sopravvento e perché l‟esperienza
trans possa essere vissuta pienamente, la società
in cui essa si dà deve accogliere tale
precarietà/ricerca come ricchezza individuale e
collettiva. Al contrario, nelle società
caratterizzate dalla subordinazione di genere e
dall‟esclusione sociale e culturale della
transessualità e della diversità di orientamento
sessuale l‟elemento della precarietà – ossia
delle condizioni di vita precarie – assumono i
caratteri drammatici della sopravvivenza e
dell‟esposizione quotidiana alla morte.
In molti casi, infatti, una volta intrapreso il
proprio transito finalizzato all‟armonia tra
mente e corpo, la persona trans ne intraprende
un altro, se vogliamo più travagliato, per
scappare dai tanti, anzi troppi luoghi inospitali
dove le-i trans sono emarginate, perseguitate,
uccise. La precarietà trans è anche una
precarietà territoriale. I luoghi inospitali non
sono esclusivamente localizzabili su una cartina
geografica: essi tracciano una vera e propria
mappa culturale definita dalla linea retta della
«normalità», una linea oltre la quale vengono
ricacciati tutti i cosiddetti anormali o, nel caso
Genere e precarietà 91
trans, degenerati (letteralmente «fuori dai
generi»). Nella cartina del mondo i luoghi
inospitali sono molti, troppi e coincidono quasi
sempre con quelle zone dove alcune religioni
con il loro corredo di norme e valori
sostituiscono più o meno completamente uno
stato laico.
Il pregiudizio corre libero, molto più delle
persone, espressione di una visione del mondo
particolare e non certo universale, diffuso in
alcune zone ma ricorrente dappertutto, compresi
i luoghi apparentemente più avanzati come gran
parte dei ricchissimi Stati Uniti. Le persone
transessuali per loro natura, per loro scelta o
loro malgrado sono visibili, bersagli potenziali
facilmente identificabili e raggiungibili: per
questo motivo una delle loro aspirazioni è
mimetizzarsi, un‟operazione che risulta molto
più facile nelle grandi metropoli o nelle zone
ricche, dove le logiche del mercato si servono
di tutto e di tutti, e anche dei cosiddetti
«anormali». Nel nuovo contesto economico
trans, gay, lesbiche sono perfettamente
funzionali al sistema, forza lavoro e
consumatori di fette di mercato pensate
appositamente per loro. Eppure, laddove tale
mercato esiste, non senza paradosso, trans, gay
e lesbiche trovano migliori condizioni di vita.
Lo spostamento è dalla periferia al centro, dal
sud al nord, in un mondo che sembra diventato
un enorme piano inclinato, sulla superficie del
quale tutti i non garantiti delle zone periferiche,
prima o poi scivolano verso l‟occidente ricco ed
avanzato. Quel piano inclinato fa scivolare a
ovest transessuali, travestiti, ma anche gay,
lesbiche, donne in cerca di realizzazione
sociale, fisica, psicologica, in cerca di sicurezze
e garanzie. A scivolare verso l‟occidente sono
Genere e precarietà 92
sudamericane, magrebine, asiatiche [secondo i
calcoli delle associazioni basati su osservazioni,
ricerche e studi, in Italia ci sono circa 20.000
transessuali, suddivisi in due gruppi principali
MtF e FtM, dei quali circa 20% si prostituisce
(On the Road 2003)]».
Questa precarietà territoriale – che non necessariamente
vede nel luogo d‟approdo la meta raggiunta, ma che
spesso include una serie di luoghi e terre di mezzo –
accomuna migranti, migranti transessuali e persone
transessuali cittadine, con la specificità, nel caso di
migranti trans, per la quale la non appartenenza segnata
dal colore della pelle e/o dalla differenza linguistica è
un visible marker a cui si assomma lo stigma sessuale. E
allo stigma, nel caso di persone senza permesso di
soggiorno, quella endemica riduzione o negazione di
diritti che pertiene allo status giuridico di non cittadino.
Se volessimo utilizzare la distinzione baumaniana tra
turista e pellegrino potremmo dire che la persona
transgender condivide con il secondo le condizioni di
partenza, con il primo, nella sua accezione
ontologizzata, il «transito continuo», l‟assenza
simbolica di una meta stabilita una volta per tutte
(Bauman 1999). Questa, diremmo, «ontologia» imposta
pone la persona trans in una condizione di non
appartenenza rispetto a un mondo in cui la mobilità
territoriale compulsiva presuppone una stabilità sociale
definita secondo linee di genere, di colore e di classe –
ma anche dalle condizioni di salute dei soggetti,
l‟assenza della qual condizione nel caso delle persone
trans e gay è stata un ulteriore fattore di
marginalizzazione.
Genere e precarietà 93
Il corpo nell‟epoca pre-AIDS è diverso dal
corpo nell‟epoca post-AIDS: diversa è la sua
visione, diversa è la sua percezione, diverso è
l‟uso riflessivo di esso da parte del soggetto e
da parte degli altri. Esso ha smesso di produrre
sensazioni, fisicità, sudore, umori (sperma,
sangue, liquidi) dando inizio ad un suo
decadimento. Il corpo trans specialmente, su cui
s‟iscrivevano alcune delle principiali
tipizzazioni sociali considerate «a rischio» –
perché ad esse era associata la trasmissione
della cosiddetta «peste gay» – è stato sottoposto
alla pubblica condanna. Oltre agli omosessuali,
ai tossicomani, e alle prostitute, le persone trans
(poiché spesso dedite alla prostituzione e in
generale perché considerate come soggetti
inglobati nella più ampia categoria
dell‟omosessualità) rappresentavano
perfettamente lo stereotipo del soggetto a
rischio. Il corpo trans venne dunque
criminalizzato, inserito tra i corpi pericolosi,
semplicemente da evitare.
Ora, anche in questo contesto la polarizzazione è stata
tra possibilità di dare massima visibilità al transito –
completato o perenne – e quella di normalizzarne gli
elementi di approdo, stabilizzarne il percorso, codificare
il genere. La visibilità voluta, ricercata, rimarcata è
propria di quel percorso al cui interno la sessualità, anzi
la sensualità, occupa un posto essenziale. È
riconducibile necessariamente al percorso di tutte coloro
che hanno fatto di essa un mezzo di sussistenza e
sopravvivono grazie alla prostituzione. Nel loro caso il
corpo deve sedurre, affascinare, eccitare. Deve essere un
corpo dai segni forti: segni che proprio per essere tali lo
connotano in modo così marcato da cagionargli
Genere e precarietà 94
l‟esclusione dai circuiti produttivi e da rendergli la vita
«precaria».
Il percorso normalizzante è proprio di tutti/e
coloro a cui la visibilità, spesso coatta,
dell‟esperienza trans non piace, sta stretta,
blocca, esclude. È il percorso che ricerca la
normalità ai fini dell‟inclusione sociale. Il loro
corpo porta segni meno marcati, più
rassicuranti, che fungono da segmenti di‟unione
con il tessuto sociale circostante. La
sessualità/sensualità propria di questo percorso
è circoscritta, ricondotta alla sfera affettiva: il/la
trans non si configura come «sessualità
eccedente» ma chiude la propria performance
sessuale nel privato. (Foucault 1978; 1984)
In questo caso la sessualità, con le parole di Foucault, è
stata gettata in un universo fatto di linguaggio che
prescinde il corpo, risultandone così alienata, invece
che, all‟inverso, fosse il linguaggio ad essere erotizzato.
La normalizzazione è funzionale spesso alla
collocazione lavorativa al di fuori dell‟industria del
sesso. La precarietà «strutturale» determinata
dall‟exodus4 imprime alla condizione lavorativa una
precarietà «eventuale» che si riverbera altresì sulle vite
trans in modo sostanziale e determinante, obbligandole
alla perenne ricerca di lavoro e a spostamenti spaziali
continui nel tentativo di garantirsi migliori condizioni di
reddito e di sicurezza personale ed esistenziale. I luoghi
verso cui questi spostamenti approdano
temporaneamente sono quelli che spesso sono
caratterizzati da culture più libertarie e che garantiscono
4 Sul significato di exodus rimando alla nota 2.
Genere e precarietà 95
i basilari diritti sociali alle persone trans. In questa
circolarità, la ricerca della qualità della vita, la creatività
esperita nella marginalità emerge come una peculiarità
dissimile da qualsiasi altra forma di precarietà imposta
dal mercato. D‟altra parte, essa offre un paradigma
essenziale all‟analisi del presente precario che di questa
circolarità sembra esperire solo la seconda parte, ossia
mercato vs. vita. In realtà, è nella riappropriazione del
transito (così come dell‟idea di flessibilità elaborata dai
femminismi italiani negli anni settanta) come elemento
di vita che, a mio avviso, può esprimersi oggi la
soggettività dell‟individuo precario. È attraverso la
riappropriazione dell‟idea di molteplicità e movimento
come caratteristiche conchiuse nella vita precaria che si
può operare una sottrazione individuale e collettiva
dall‟esistente coazione alla precarietà.
2. Il «transito continuo» come elemento
descrittivo e di ricomposizione politica
dell’identità precaria
È connaturata alla condizione precaria una pratica del
corpo che lo pone in continuo movimento, e che lo
disloca su più livelli spazio-temporali simultanei o
diacronici. È il caso dei diversi lavori e luoghi di lavoro
i quali sono spesso dislocati in più città, regioni o stati,
resi obbligatori dal reddito scarso e non sufficiente che
ciascuna attività lavorativa produce. È il caso della
moltiplicazione delle relazioni affettive, risultato in
parte della dislocazione spaziale, ma anche
dell‟imprevisto biografico legato strutturalmente allo
spostamento. Questi fattori producono un regime
temporale diacronico che si discosta in modo
sostanziale dalla linearità delle biografie moderne (in
Genere e precarietà 96
riferimento alla creazione del nucleo famigliare e alla
genitorialità, all‟età lavorativa e post-lavorativa). Viene
meno la linearità del «produci (riproduci), consuma e
crepa», mentre è il transito continuo tra diverse forme
del lavoro, dell‟affettività e della riproduzione a dettare
legge e a suggerire narrazioni ricompositive difficili da
suggellare o profondamente conservatrici e frustranti.
In questo transitare senza approdo il corpo sembra
essere privato di quella pesantezza che nella modernità
lo aveva caratterizzato, irrigidito nelle forme del
disciplinamento «statico» impresso dalle istituzioni
sociali, produttive e politiche: sembra essere «senza
peso», riprendendo il concetto che Marcasciano ha
elaborato altrove («Feminist Review» 2008, 87), nel suo
spostamento continuo e velocissimo tra strutture
potenzialmente identificative che possono essere i
differenti contesti lavorativi, le svariate sfere affettive,
le famiglie e le innumerevoli attività produttive e
riproduttive in cui è coinvolto. La potenzialità
identificativa di queste strutture non ha la capacità di
diminuire né lo spiazzamento continuo del transito né la
leggerezza impressa dalla velocità dello spostamento: le
strutture sono troppe, collocate in differenti contesti e
dai significati tendenzialmente contraddittori, se lette
attraverso la lente delle identità binarie moderne.
La perdita di peso è anche una necessità introiettata, che
è normativa ma anche il risultato dello sforzo del
singolo per raggiungere in ognuna delle attività
dislocate lo standard di produttività e/o soddisfazione
più alto. Pur con a disposizione tempi ridotti e pur
dovendo con difficoltà conciliare tutti i diversi segmenti
che scandiscono la vita quotidiana, efficienza ed
efficacia sembrano dominare l‟atteggiamento precario:
la parcellizzazione del reddito, la moltiplicazione delle
Genere e precarietà 97
sfere della socialità e dell‟affettività richiedono
massimo risultato con minimo sforzo, per quanto la
razionalità che tende a tale risultato debba seguire non
una ma la molteplicità di regole dettate da ciascun piano
in cui la vita precaria si disloca. Non vi è più solo una
«razionalità strumentale» ma ve ne sono molte e spesso
discordanti. E tale molteplicità normativa impone
l‟assenza di coerenza identitaria, di una fonte unica e
certa di identità. Nessuno di questi ambiti, infatti, riesce
a dispensare l‟identità della persona precaria nella sua
interezza. È piuttosto vero il contrario: l‟identità
precaria non può prescindere da nessuno di questi
molteplici piani. È una sorta di puzzle di piastrine dai
contorni incerti. Allo stesso modo, il corpo, la cui
solidità e compattezza rispecchiava la moderna coerenza
identitaria, non è più in sé «elemento identificativo»
compiuto: le coordinate di spazio dislocato e tempo
velocizzato tagliano trasversalmente i body markers (i
generi, le sessualità, le appartenenze culturali e i colori)
complicandone i posizionamenti. Il corpo, piuttosto,
diviene «strumento performativo» in grado di
ricombinare il patrimonio identitario individuale al fine
della sua spendibilità sul mercato.
In questo senso esso perde peso. La perdita di peso è
anche il risultato della strategia di sottrazione che
l‟individuo precario opera dall‟«angoscia» derivante
dallo stesso spiazzamento e velocità. Si tratta di quella
sensazione che deriva al soggetto precario da quella
stessa impossibilità di ricomporsi in quanto identità a
partire dalle «tradizionali gerarchie di valori» (religiosi
o professionali, di genere o di classe, culturali o razziali)
o a partire da un sistema simbolico nuovo – che possa
essere altrettanto chiaro e definito che possa ricomporre
tutti i piani della vita. È quel sentimento descritto da
Genere e precarietà 98
Paolo Virno in riferimento alla moltitudine come in
opposizione all‟idea di un «soggetto plurale la cui
rappresentazione o autorappresentazione tende
all‟Uno». Una condizione esistenziale che non è solo
relativa al «fuori» sociale, all‟oggettività della vita
dislocata e veloce, ma attanaglia anche il «dentro», ossia
la percezione soggettiva di sé. È il risultato della
ricaduta soggettiva di quelle pratiche sempre più diffuse
che sono diretta derivazione del venir meno dei
contenitori famiglia-fabbrica-scuola-chiesa-partito e
dall‟assottigliarsi delle possibilità di reddito continuato
e sufficiente. Mi riferisco alle pratiche di convivenza
plurima, alle relazioni sentimentali contemporanee e
dislocate o alle temporalità affettive diversificate, alla
condivisione dell‟household così come di progetti di
vita con compagni e compagne «di viaggio» (Virno
2002b, 143-4). Queste pratiche possono includere anche
la peregrinazione tra esperienze affettive omodirette ed
eterodirette (ossia che privilegiano rapporti affettivi con
persone dello stesso o del sesso opposto) che vengono
«vissute» e «legittimate» partendo da un bagaglio di
«saperi esperienziali» o tecnologie e linguaggi non
eteronormati (Giuliani 2006a).
Queste pratiche penetrano il «privato» – inteso sia come
corpo sia come spazio di intimità attorno al corpo –
sfaldando definitivamente l‟idea della necessaria
corrispondenza tra affettività e forme di condivisione
«formalizzata» (o matrimoniale) tipiche della
modernità, tra femminile e riproduzione, tra maschile ed
autonomia, tra amore tra due persone e famiglia. Esse
creano instabilità e angoscia. È contro tale condizione
psicologica che i soggetti precari, invece di risignificare
la dislocazione precaria in termini di ricchezza e di
rivendicazione, tendono ad attuare una sorta di «corsa in
Genere e precarietà 99
avanti»: se la condizione oggettiva che risulta dalla
scomposizione postmoderna del soggetto tende ad
atomizzare, individualizzare e individuare
esclusivamente nel privato le strategie di rassicurazione
contro l‟instabilità e l‟insicurezza precarie, invece di
controagire tale condizione gli individui precari tendono
a farla propria incentivandone la deriva egoistica,
opportunistica e cinica, l‟accettazione dell‟incapacità a
rivendicarsi in quanto soggettività nuova e collettiva.
La leggerezza del corpo, la sua tensione alla
«massimizzazione del piacere» nel mero senso del
piacere materiale velocemente consumato, come se non
ci fosse un «domani», il rintanarsi nel privato – privo di
voce – delle proprie relazioni, dell‟individualismo che
rende impossibile una rappresentazione collettiva della
sua condizione, sono le caratteristiche che sembrano
connotare la vita quotidiana del soggetto precario
(Virno 2002a, 19). La riacquisizione del «peso» in
questo contesto è collegata a circostanze identificate
come disabilitanti: la malattia fisica o mentale, la
maternità (perché come la malattia limita gli individui
nello spostamento e sottrae tempo all‟attività produttiva
precaria) ma anche, e per gli stessi motivi, la creazione
di relazioni d‟amore stabili e vincolanti, che «limitando
l‟universo delle infinite possibilità» depotenziano la
macchina-corpo performativa e la ricollocano in una
temporalità più lenta.
Il corpo, quindi, non come «obiettivo», nel senso della
sua integrità fisica, psichica, relazionale, ma come
«strumento» presunto eternamente esente da
logoramento e inabilità. Il corpo non come «io», ma
sempre più come «cosa» dalla quale si irradiano
sensazioni, capacità, desideri e attraverso cui si creano
quelle relazioni che permettono il pieno sviluppo di
Genere e precarietà 100
queste ultime in vista della loro massima valorizzazione
simbolica ed economica.
Simile al «corpo desiderante» descritto da Teresa de
Lauretis (1999) quello di cui stiamo parlando è il corpo
di un soggetto «eccentrico», che per la sua complessità
ed eccedenza è esposto a mille contraddizioni e pericoli
di «de-corporeazione», e che, nel nostro caso specifico,
non riesce a raggiungere quella consapevolezza che è
necessaria alla sua soggettivazione.
Il soggetto precario fa fatica a narrarsi in modo coerente
e, per questo, si abbandona al riconoscimento parziale e
autonomo delle diverse rappresentazioni del sé
copresenti nella sua identità. In tal senso, l‟immagine
della scomposizione del corpo in parti, descritta da
Braidotti (Braidotti 2002, 150), o meccanismi facenti
parte di un organismo sempre scomponibile e
parcellizzabile, da parte sia del biopotere medico sia di
quello politico sia di quello economico, ben corrisponde
a tale rappresentazione: la totalità del corpo, la sua
organicità tendono a perdere soggettività e «peso»,
«tagliate dalle linee trasversali delle molteplici identità
disegnate sul corpo» e vengono sublimate nel corpo-
automobile, una «macchina pulita e leggera» (Haraway
1995, 45) scomponibile e sostituibile nelle sue parti non
funzionanti e diretto, con accelerazione costante, verso
il raggiungimento della «meta». Una meta che, per la
sua indeterminatezza, sembra non coincidere nemmeno
più con l‟auto-realizzazione del sé come persona, ma
piuttosto estinguersi nel tentativo stesso di tenere tutto
insieme.
Ciò che può risultare positivo è il fatto che il tragitto
quotidiano che il corpo è obbligato a percorrere è
segnato dall‟allontanamento e risignificazione da parte
degli individui dei modelli e delle categorie moderne
Genere e precarietà 101
ormai «zombificate» (Beck 1994), e dalla loro
intersezione con universi simbolici e narrazioni che
nella modernità erano considerate «marginali»,
«refrattarie», non «sussumibili» come quelle gay,
lesbiche, trans.
I meccanismi sociali dell‟identificazione sono ancora
diretti da categorie e istituzioni che ne plasmano i
confini secondo prospettive propriamente «moderne»
improntate alla codifica della differenziazione sessuale
in senso essenzialista e mirante alla subordinazione
femminile5, eteronormative, razziste e classiste. Eppure
le numerose infiltrazioni da parte di un immaginario
sempre più positivamente contraddittorio e molteplice e
la vicinanza a modelli di vita e narrazioni non
eterosessuali e critiche del fallogocentricentrismo
(Braidotti), permettono l‟emergere di soggetti
«eccentrici», che non solo «si disaffiliano alle loro
stesse appartenenze» ma che trovano anche spazi di
innovazione simbolica (de Lauretis 1999, 8, 27-28;
Staderlini 1998, 92; Ovidie 2003; Busi 2006; Giuliani
2006b). Donne e uomini che riconducono saperi,
pratiche e corpo alla propria «soggettività» in divenire e
dotata di irriducibile originalità.
In questo potrebbe essere stabilito un parallelismo con
l‟esodo descritto da Marcasciano per descrivere la
soggettività trans: le categorie binarie e statiche della
femminilità e della mascolinità, dell‟eterosessualità e
dell‟omosessualità vengono a «liquefarsi» per approdare
a «situazioni» di genere e sessualità dai contorni più
5 In tal senso il mio discorso si ricollega alle letture «di genere» proposte tra
gli anni settanta e novanta da Héléne Cixous, Julia Kristeva, Luce Irigaray e Colette Guillaumin, ma anche bell hooks, Audre Lorde e Gloria Anzaldua,
piuttosto che alle interpretazioni dei processi di costruzione del genere e dei
suoi immaginari proposte da Catharine MacKinnon o E. Dworkin.
Genere e precarietà 102
indefiniti e originali la cui ricomposizione individuale
racchiude in sé forme di agency.
Se questo soggetto postmoderno e precario, che
Braidotti chiama «nomade», concentra in sé universi
linguistici differenziati, esso trae gli elementi per una
nuova narrazione da universi simbolici che
appartengono ad immaginari di genere e sessualità non
eteronormate già esistenti ma che si ricombinano in
senso non identitario e nella forma del «transito
continuo».
In questo contesto, infatti, le pratiche sessuali e di
genere si posizionano oltre la linea che nella modernità
definiva lo stigma dell‟«innaturalità», della
«perversione», dell‟«immoralità» o della «promiscuità».
Come il «turista» descritto da Zygmunt Bauman (1999)
attraversa spazi e frontiere camminando senza meta e
«sulla superficie» delle contraddizioni che derivano da
tale attraversamento, i soggetti precari – cittadini e
cittadine, per lo più bianchi e dotati di un buon capitale
sociale e culturale – attraversano le frontiere delle
definizioni classiche derivate dalla codificazione del
maschile e del femminile e dalle pratiche affettive e
sessuali eterodirette o omodirette.
Definisco «originali» tali pratiche dell‟attraversamento
perché, pur traendo elementi esperienziali e narrativi dal
mondo omosessuale, lesbico e transgender (Lo Iacono
2005; Marcasciano 2002; Marcasciano e Di Folco
2002), lo sdoganamento di immaginari e pratiche di cui
si parlava sopra coinvolge e stravolge molte vite di
quello che era il soggetto moderno, eterosessuale e
bianco (Borghi 2006).
La peculiarità della condizione del transito continuo
risiede nel fatto che essa non si fa irretire dalla necessità
«strumentale» della definizione codificata attraverso cui
Genere e precarietà 103
i movimenti LGBT italiani ambiscono ad ottenere,
invece, quel riconoscimento da parte delle istituzioni e
della società civile necessario a divenire attori politici e
giuridici in grado di intervenire nei processi decisionali
e legislativi. La leggerezza e la fluidità di una
«situazione identitaria», che potrebbe essere identificata
con l‟aggettivo queer (per quanto esso non si annoveri
nel patrimonio delle definizioni da cui il soggetto
attinge per sé), rompe con le categorie statiche (de
Lauretis 1999, 107; hooks 1998, 40, 87; Gilroy 2000)
per agire una molteplicità di narrazioni e pratiche intese
come irriducibili, contraddittorie e mai definitivamente
codificabili (si veda Preciado 2002; 2005, 147-157).6
In tal senso, nella pratica della moltiplicazione e transito
continuo tra forme di mascolinità e femminilità e di
sessualità eterodirette e omodirette, colgo un dato
sociale strutturale della precarietà, intesa questa come
«dissoluzione» dei modelli di genere forti legati al
contesto sociale e lavorativo, famigliare e istituzionale
della modernità. Si tratta di un dato che ha poco a che
vedere con il più individualizzato desiderio di
sperimentazione e anticonformismo – che vuole
contraddire la condanna culturale e religiosa che ancora
vige nei confronti delle pratiche sessuali omodirette.
Esso potrebbe esser letto piuttosto come legittimazione
(spesso solo «privata» e individuale) delle forme
plurime di affettività in quanto possibili strategie di fuga
dall‟irrigidimento convenzionale e normativo delle
categorie sociali.
Questo non esclude che la messa in pratica di
mascolinità e femminilità non egemoni e desideri
6 Per uno sguardo alla queer theory da cui proviene il termine da me
utilizzato, si vedano Butler (1990), Jagose (1996), Halberstam (1998; 2005),
Ahmed (2006).
Genere e precarietà 104
sessuali non codificabili unilateralmente attraverso le
categorie di eterosessuale o omosessuale, possa far parte
dell‟identità precaria imposta dal mercato o che essa
possa ridursi ad una forma di valorizzazione delle
opzioni di consumo dei beni materiali e simbolici a
disposizione dei consumatori non-eterosessuali. Si pensi
in tal senso all‟industria della moda, di quella musicale
e del divertimento che sempre più offrono sul mercato
prodotti il cui target sono giovanissimi e che rincorrono
e riproducono idee di mascolinità differenti (o se
vogliamo «più femminili») o di femminilità differenti
(considerate «più maschili»). D‟altra parte essa può
anche coincidere con una forma di sottrazione
individuale/collettiva all‟omogeneizzazione culturale
interna al mondo gay e lesbico «dominante» e
«mercificato» che ne deriva ed essere vista come una
forma di scardinamento della norma (omosessuale) che
definisce e domina politicamente e giuridicamente sia le
culture sia le comunità non eterosessuali (Wittig 1994,
69-72; Tiqqun 2003). È il caso di quelle pratiche
culturali che recuperano alcuni elementi del punk, e che
disilludono i modelli dominanti di estetica o di socialità
gay e lesbica attraverso la valorizzazione di corpi ed
espressioni corporee differenti (ne sono un esempio i
Girlesque, ossia una versione femminile, queer e
femminista del Burlesque o i LadyFest che hanno luogo
in varie città d‟Italia una volta all‟anno da una decina
d‟anni). Tali pratiche diffuse, rompono il senso comune
creando lo spazio per una maggior «accettazione
sociale» dei comportamenti non eterosessuali e, di
conseguenza, per una sempre maggior accessibilità a
elementi culturali e discorsivi non eteronormati. Ciò può
rappresentare una forma di riattivazione di sé in quanto
«corpo desiderante» e nomade nei diversi contesti che
Genere e precarietà 105
vengono attraversati, permettendo la creazione di nuove
forme di «capitale affettivo» (post)identitario
fortemente inclusivo e poroso.
Ma perché ciò avvenga è necessario «tornare al corpo».
Se, infatti, la contaminazione tra esperienze, pratiche e
universi simbolici differenti legati all‟«eccentricità»
rispetto all‟eteronormatività è positiva – in sé – essa si
deve necessariamente tradurre nella riappropriazione
individuale e collettiva della «situazione corporea» che
ci colloca in un dato contesto: è solo con il
riconoscimento dell‟«hic et nunc» del corpo
desiderante, come esperienza collettiva, segnata dalla
memoria delle sofferenze e delle passate lotte per il
riconoscimento LGBT e dalla consapevolezza delle
potenzialità legate ad un‟auto-rappresentazione non
essenzialista che, in definitiva, la critica «queer» può ri-
significare la fluidificazione e la perdita di peso che
hanno portato il soggetto precario a sciogliersi dal nodo
delle categorie moderne. Il «corpo» va rimesso al centro
del discorso politico in quanto luogo della storia
individuale e collettiva, in cui è inscritta l‟esperienza
molteplice e consapevole di ciascuna vita precaria.
Se è vero che per un certo verso i processi di
identificazione «parziale» o «temporanea» di donne e
uomini precari possono essere rappresentati dalla «fuga
dall‟identità» degli individui contemporanei e
postmoderni, la cui vita è un «insieme di frammenti», di
esperienze tendenzialmente isolate e non cumulabili
(vedi Sennett 2000, 135), a mio avviso il ritorno al
corpo desiderante come luogo situato dell‟agire –
nell‟epoca post AIDS – permette una «narrazione
personale» di lunga durata, un‟introspezione
Genere e precarietà 106
consapevole che è l‟unico viatico possibile verso una
coscienza collettiva.46
La escluderebbe se tali processi venissero analizzati
attraverso le weberiane fabbriche moderne dell‟identità
(famiglia, scuola, fabbrica, chiesa, partito), ma se visti
nella loro attualità, essi vanno a comporre «situazioni»
identitarie instabili attraverso cui il soggetto-corpo, con
le sue protesi tecnologiche e le sue trasformazioni
linguistiche, può ritrovare la propria organicità ed
esercitare dunque la propria agency (Braidotti 2002, 31;
Braidotti 2002a, 32-33; Haraway 1995, 9-38).
3. Conclusione
In questa fase storica, l‟elemento forte del transito
perenne che caratterizza la vita precaria non esclude il
persistere di categorie identitarie rigide, né la protegge
dallo spaesamento che essa esperisce di fronte alle
domande di «finalizzazione esistenziale» (come una
collocazione professionale permanente o il matrimonio)
che hanno fissato temporalmente, durante la modernità,
le tappe obbligate dell‟esistenza di ciascuno
nell‟Occidente del benessere. È questo spaesamento che
produce da un lato l‟anelito alla normalizzazione (con
un parallelismo alla situazione descritta da Marcasciano
a proposito della ricerca di accettazione sociale da parte
delle persone trans), dall‟altro una forte spinta alla
consapevolezza dello stacco irreparabile che separa la
nostra contemporaneità dalla fase storica che la precede
(la modernità pre-precaria). Che si sia «normalizzato» o
meno, il soggetto precario lotta quotidianamente ed
instancabilmente (con «ironia», «infedeltà» e fatica,
7 In questo senso sono in disaccordo con quanto afferma Braidotti (2002,
146).
Genere e precarietà 107
come i cyborg di Haraway) alla ricerca di una propria
coerenza o, come direbbe de Lauretis, «di un‟auto-
collocazione» (de Lauretis 1999, 45).
Coerenza e auto-collocazione sono obiettivi
raggiungibili a mezzo di una risignificazione dello
spazio pubblico in cui le vite precarie si danno,
risignificazione che può aver luogo solo attraverso un
più alto grado di consapevolezza, e dunque una
rivendicazione pubblica e plurivocale, delle pratiche di
transito e dislocazione che caratterizzano le vite
precarie.
Questa consapevolezza ha necessariamente una ricaduta
sociale più ampia, derivante dall‟essere il paradigma
precario la «struttura» stessa dell‟organizzazione
sociale, culturale ed economica delle nostre società:
trovando, infatti, nell‟asserzione del transito come
elemento costitutivo della condizione precaria la propria
via alla soggettivazione, le vite precarie aprono uno
spazio per ripensare la cittadinanza in termini aperti,
accoglienti ed espansivi. Questa forma di coscienza in
Italia è ancora estremamente residuale, ma non mancano
forme di dibattito pubblico ed elaborazioni teoriche
originali e significative che possono essere considerate
vicine a tale approccio (vedi Bonini-Baraldi 2005;
precaria.org).
Nel rivendicare l‟attraversamento dei confini, il transito
continuo tra diversi elementi identitari, il discorso
precario pone al centro dell‟agire politico la comunanza
di esperienze, ma anche il comune che è la ricchezza
stessa delle vite precarie: si tratta di quell‟enorme
patrimonio di relazioni, conoscenze, forme di affettività,
di progettualità e di condivisione dei rischi legati alle
difficoltà dell‟esistenza precaria che viene messo «in
Genere e precarietà 108
comune» continuamente nelle forme più varie e
sincroniche.
Ma il riconoscimento del «comune» precario resta
possibile solo se il soggetto scomposto, delocalizzato,
reso liquido e versatile (Bauman 2002), affogato
nell‟incertezza che deriva dalle categorie che
disegnavano le identità moderne, si affaccia allo spazio
pubblico «con la complessità del proprio corpo “hic et
nunc”». È quando esso non vi rinuncia per sottostare ad
un‟auto-rappresentazione in senso rigido (moderno) o
alla sua stessa incessante accelerazione postmoderna,
che hanno luogo esperienze come la mobilitazione del
2005 sulle Procreazione Medicalmente Assistita; le
manifestazioni del gennaio e febbraio 2006 in difesa
della legge 194 sull‟interruzione volontaria di
gravidanza; la mobilitazione, nell‟inizio del 2007, in
sostegno della proposta di riconoscimento delle unioni
civili etero- e omosessuali (PACS) e in difesa di una
concezione laica della politica e dello Stato; la
manifestazione auto-organizzata contro la violenza di
genere che, nel novembre del 2007, ha visto scendere in
piazza a Roma centinaia di migliaia di donne; le
mobilitazioni milanesi del 1 maggio (Mayday Parade)
del 2008 e 2009 in cui migranti, gruppi precari e
soggettività femministe e queer hanno organizzato la
propria battaglia valorizzando la molteplicità semantica
della parola «precario»; la mobilitazione culminata nella
manifestazione del 13 febbraio 2011 in risposta agli
scandali sessuali del governo Berlusconi. Quest‟ultima
occasione è stata colta per ribadire l‟esistenza, nella
società italiana, di concezioni e pratiche del genere e
della sessualità difformi da quella sessista,
eteronormativa e degradante praticata, non solo dal
premier, ma dalla più ampia classe dirigente e riprodotta
Genere e precarietà 109
dal sistema mediatico ad essa sottoposta (Zapperi,
Guaraldo 2010, 71-78).
Le mobilitazioni che ho menzionato segnano una
stagione di lotte che potrebbe essere interpretata come
una lenta ma massiccia, estemporanea ma significativa
appropriazione dello spazio pubblico da parte di un
groviglio di istanze che corrispondono alla complessità
della soggettività precaria. Esse hanno connesso molte
facce del mondo precario in Italia, creando reti tra
persone che vivevano e vivono contesti culturali,
sociali, economici e giuridici apparentemente molto
distanti.
Esse hanno creato quella che, con le parole di Butler,
potremmo definire una «coalizione antifondazionista
post-identitaria», che non presuppone l‟identità di
genere e di orientamento come fattore prepolitico
fondativo né come obiettivo dell‟azione politica (Butler
2004, 20-21). Lo stesso vale per le mobilitazioni in
favore della legge per il riconoscimento delle coppie di
fatto (PACS). In quest‟ultimo caso, a spingere le
persone non-omosessuali alla partecipazione attiva non
è stata una sorta di filantropia pro-gay ma la
consapevolezza e l‟affermazione di pratiche sessuali e
affettive già esistenti e praticate dalla maggior parte
delle persone che si sono mobilitate. Ad essere
contrapposta all‟istanza conservatrice, soprattutto
espressa dalle gerarchie e dal mondo politico cattolico,
per la preservazione dell‟istituzione famiglia
eterosessuale e l‟intervento del legislativo in tal senso, è
stata l‟idea che chiunque si è trovato, si trova e può
trovarsi ad esperire percorsi di vita e di affettività non
tradizionali (eteronormate, matrimoniali). Ne sono una
prova il dibattito sui media italiani e la pubblicistica
sviluppatasi su questi temi e il proliferare di posizioni di
Genere e precarietà 110
apertura, se non di dichiarato sostegno alla causa nei
social network (Facebook) e nei blog personali non
direttamente affiliati alle associazioni LGBT.
Le persone che si sono mobilitate per il PACS e per le
PMA, ma anche in difesa della Legge 194 in materia di
interruzione volontaria di gravidanza8 hanno fatto
proprie quelle battaglie, riconoscendole come momento
di traduzione politica del «transito perpetuo» che
caratterizza la vita precaria.
L‟apparente pensiero «debole» precario si è espresso in
queste occasioni in modo forte, creativo e versatile, ma
anche estremamente vertenziale: perché si costituisca in
modo sostanziale e perché sappia costruirsi come
momento di ripensamento dei confini della cittadinanza
– connettendosi con chi questi confini li scardina
continuamente, come ad esempio i migranti, mediante le
provocazioni che essi innescano contro i confini
nazionali e rigidi della cittadinanza moderna – deve
superare le difficoltà legate ad un‟auto-narrazione che lo
confina all‟interno degli spazi separati del genere, della
classe e della cittadinanza (come hanno notato Ribeiro
Corossacz e Gribaldo 2010). Il riconoscimento del
transito perenne come elemento comune, rilocalizzato in
spazi semantici più ampi è la strada per stabilire un
piano di condivisione efficace e solido.
8 Questo ciclo di mobilitazioni lascia trasparire la molteplicità di istanze,
punti di vista e forme di aggregazione politica esistenti oggi sulle tematiche
legate al corpo e al biopotere. L‟irriducibilità di essi alla mera mobilitazione «difensiva» nei confronti della Legge 194 emerse nell‟occasione della
manifestazione nazionale milanese del 14 gennaio 2005 quando decine di
migliaia di persone si riversarono sulle strade del capoluogo partendo da riflessioni che avevano a che fare con l‟autodeterminazione della donna,
coniugata alla precarietà della vita e degli affetti, come dimostra il proliferare
attorno a quella data di gruppi, collettivi e progetti su tale tema.
Genere e precarietà 111
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Genere e precarietà 115
[immagine di Sexyshock per l‟album di figurine della precarity May Day,
Milano 2005]
Genere e precarietà 117
lavoro
Un’istantanea della precarietà: voci
prospettive dialoghi. Focus group su Donne, Lavoro e Precarietà1
a cura del Gruppo Sconvegno2
Introduzione
Nel discorso pubblico sul tema della
precarietà/flessibilità sembra difficile andare oltre la
contrapposizione che vede da una parte il totem del
lavoro fisso «da qui alla pensione» e dall‟altra la
precarietà nelle due varianti: come lo spettro della totale
assenza di tutele e diritti, o come la favola della
possibilità di scegliersi in autonomia i tempi, i modi e i
contenuti del proprio lavoro. Di fronte a grandi e
complesse trasformazioni, continuiamo di fatto a
leggere la realtà attraverso categorie rigide e
contrappositive, che faticano a rappresentare il
mutamento. La portata esplicativa di prospettive
1 Il focus group si è tenuto il 29 gennaio 2006 presso i locali della Libera
Università delle Donne di Milano. Hanno partecipato: Cristina Morini, giornalista e ricercatrice sociale, Andrea Fumagalli, docente di Economia
Politica dell‟Università di Pavia e attivista della rete Mayday, Cristina Tajani,
PhD in Studi del lavoro dell'Università di Milano e sindacalista della CGIL, Tiziana Vettor, docente di Diritto del Lavoro dell‟Università di Milano-
Bicocca e sostenitrice della Libreria della donne di Milano, Zoe, advertising
copywriter e attivista di Chainworkers, Marta Bonetti, ricercatrice autonoma e attivista della rete Prec@s. Il focus group è stato ideato, coordinato e
analizzato dal Gruppo Sconvegno. Il presente articolo è già stato pubblicato
in lingua inglese sul numero monografico sui femminismi italiani della rivista «Feminist Review», Special issue on Italian Feminisms, 87, 2007. 2 Il Gruppo Sconvegno è composto da Manuela Galetto, Chiara Lasala, Sveva
Magaraggia, Chiara Martucci, Elisabetta Onori e Francesca Pozzi.
Genere e precarietà 118
rigidamente dualistiche – fordismo/postfordismo, lavoro
tipico/atipico, autonomo/subordinato – si rivela spesso
insufficiente, tanto a livello epistemologico quanto a
livello politico.
Specifica di questa fase di passaggio è da un lato la
crescente indistinguibilità dei confini tra tempi di vita e
tempi di lavoro, e quindi l‟estensione della precarietà a
condizione esistenziale, dall‟altro il fenomeno della così
detta «femminilizzazione del lavoro».
Il focus group di Milano ha visto la partecipazione di
diversi soggetti che in questi ultimi anni hanno
ragionato, discusso e costruito azioni o iniziative sul
tema della precarietà di lavoro/vita. L‟articolo
restituisce i principali nodi emersi durante questa
occasione di confronto, mettendo in luce le differenti
elaborazioni e strategie di possibile trasformazione.
1. La femminilizzazione del lavoro: un concetto
ambivalente
Cosa intendiamo esattamente quando parliamo di
femminilizzazione del lavoro? Come emerge nel
dibattito che segue, le ambivalenze di questo processo
sono molteplici. Tiziana Vettor le riassume così:
dagli anni novanta con l‟espressione
«femminilizzazione del lavoro» si è inteso
significare almeno due realtà: da un lato, un
aumento delle donne nel mercato del lavoro in
ogni settore e in tutte le forme contrattuali (non
solo in quelle precarie)3; dall‟altro il lavoro di
3 C‟è una vocazione femminile al lavoro e non semplicemente alla precarietà.
Dati statistici ci dicono che a parità di titolo di studio, le donne sono più
Genere e precarietà 119
oggi, o cosiddetto post-fordista, in cui i
comportamenti femminili sono assunti a
modello della produzione, ovvero nel quale –
secondo Deleuze – si rintraccia il simbolico e il
corporeo femminile. Le aspettative, i desideri e
la presenza delle donne sono state infatti una
delle principali ragioni della trasformazione dei
modi di produzione nel passaggio dal fordismo
al postfordismo. Ed è proprio su quest‟ultimo
significato dell‟espressione di cui si discute che
credo si debba insistere, e cioè sul portato della
soggettività femminile nel processo di
trasformazione nel lavoro, piuttosto che sulla
maggiore percentuale di (delle) donne tra i
lavoratori precari.
La centralità dell‟aspetto qualitativo del lavoro delle
donne però va contestualizzata in un mercato del lavoro
penalizzate in termini di occupazione. Nel rapporto annuale presentato a Marzo del 2005, l‟Isfol ha rilevato che a lavorare di più sono le laureate
(75,3%, 5 punti percentuali in meno rispetto agli uomini con lo stesso titolo
di studio) e le settentrionali. L‟Italia infatti presenta ampie differenze territoriali: al Nord il tasso di occupazione femminile supera il 50% (con
picchi del 60% in Emilia Romagna), mentre nel Mezzogiorno solo 27 donne
su 100 lavorano. Per quante hanno conseguito il diploma, il tasso di occupazione si colloca sul 54,7%, con una differenza di 19 punti rispetto agli
uomini. Ai gradini più bassi di istruzione il gap si accentua, arrivando a superare i 34 punti percentuali. Le occupate con licenza media, infatti,
rappresentano solo il 34,3% e quelle con il titolo elementare appena il
18,7%. La differenza si rispecchia anche nel divario salariale che per le donne è mediamente del 15% in meno, con picchi del 35% in meno per le
qualifiche più alte (Eurostat, Labour Force Survey). La discriminazione
salariale, secondo un recente rapporto di Federmanager (Federazione Nazionale Dirigenti Aziende Industriali), è una della cause principali del
basso numero di donne dirigenti in Italia, dove il loro numero continua a
diminuire rispetto a quello dei colleghi maschi. Il «tetto di cristallo», metafora a cui si è ricorso in letteratura per indicare una sorta di blocco
all‟acceso eguale per uomini e donne ai livelli più alti delle carriere, sembra
dunque permanere.
Genere e precarietà 120
che non sembra essere ancora pronto a valorizzare
queste potenzialità, mentre ha imparato in fretta a
sfruttarle, come sottolinea Marta Bonetti:
non possiamo ignorare i dati quantitativi: le
forme più precarie del lavoro sono ancora e
soprattutto femminili. La femminilizzazione del
lavoro è un concetto ambiguo e pieno di
contraddizioni: comporta l‟introduzione e
l‟estensione del modello di disponibilità, che
caratterizza il lavoro di riproduzione, al
mercato del lavoro, la disponibilità ad entrare e
uscirne e la capacità – tipicamente femminile –
di gestire tempi complessi. Di qui il rischio che
la generatività del tempo delle donne diventi
funzionale, più che ai loro desideri, alle
esigenze delle imprese.
L‟ambivalenza interna al processo di femminilizzazione
del lavoro si traduce nella difficoltà di passare dal piano
teorico al piano politico, come sottolinea Cristina
Tajani:
nella femminilizzazione del lavoro, il concetto
di ambivalenza è euristicamente potentissimo,
ma politicamente muto in quanto tende a non
fornire l‟indicazione di pratica e di azione
politica. Come scegliere il crinale
dell‟ambivalenza su cui vogliamo stare e a
partire dal quale ci organizziamo per fare la
battaglia politica? Quando il lavoratore, non la
controparte, è libero di scegliere?
Genere e precarietà 121
Sebbene in Italia la risposta prevalente nel discorso
pubblico sulla precarietà invochi implicitamente un
ritorno a forme di lavoro tradizionali/fordiste,
sottolineando gli aspetti di miseria materiale e negativi
legati alla condizione precaria, c‟è chi guardando il
concetto di ambivalenza ne sottolinea gli aspetti invece
potenziali. Come dimostra, in risposta a quanto appena
detto, Cristina Morini:
per quanto il concetto di precarietà attenga a
campi semantici negativi (instabilità, labilità,
fragilità) esso è al contempo legato anche
all‟idea della rimessa in discussione, del
divenire, del futuro, della possibilità, concetti
che insieme contribuiscono alla costruzione
dell‟idea di un soggetto nomade e rizomatico.
La precarietà è una categoria trasversale a tutte
le professioni, gli status, i mestieri e le
condizioni. Il soggetto precario non ha punti
fermi e forse non ne vuole. È costretto a cercare
sempre nuovi percorsi di senso, a costruire
nuove narrazioni, a non dare mai niente per
scontato. Rispetto al concetto di classe statico e
fermo, a cui ci aveva abituato il passato
fordista, oggi siamo davanti a un soggetto
assolutamente resistente ad ogni forma di
assimilazione, difficile da rappresentare.
2. Le pratiche femministe al lavoro: un utile
approccio metodologico?
Uno degli aspetti legati al tema della precarietà discussi
nel focus group, è quello relativo alle potenzialità che
possono esprimere le donne nel mercato del lavoro
Genere e precarietà 122
contemporaneo: esiste un modo altro di vivere la
precarietà? Ci sono elaborazioni, pratiche attive e
creative, individuali e collettive, che portano con sé
potenziali elementi di trasformazione? Secondo Tiziana
Vettor,
le riflessioni e le pratiche femministe possono
rappresentare un importante elemento di rottura
rispetto alle teorie del lavoro. Ad esempio la
pratica consegnataci con il nome «partire da sé»
ha già orientato lo sviluppo di alcune
significative recenti ricerche sul lavoro. Esse,
infatti, suggeriscono una metodologia della
ricerca che si investe del primato
dell‟autonarrazione e, quindi, del primato delle
soggettività per l‟interpretazione della realtà. La
pratica dell‟autonarrazione – del dirsi insieme
ad altr* di cos‟è fatto il nostro rapporto col
lavoro, di quali bisogni e di quali desideri noi lo
investiamo, sia sul luogo di lavoro sia in altri
luoghi – si è dunque già rivelata feconda e
dirompente nell‟analisi delle trasformazioni del
lavoro. Questa pratica, del resto, io credo sia
ancora più dirompente di quella della
rivendicazione, e cioè rispetto a quella modalità
di azione che, invece, si fonda sulla mera
domanda di diritti; ciò poiché è solo dalla
pratica dell‟interrogazione dei vissuti di chi
lavora che possono emergere – proprio in virtù
della presa di coscienza della singola e, per
contagio collettiva – invenzioni di forme
giuridiche (legali e negoziali) e/o richieste di
una mediazione istituzionale efficace,
contestuale e pertinente.
Marta Bonetti avverte però che questo processo non è
esente da difficoltà e pericoli:
Genere e precarietà 123
ogni qual volta c‟è bisogno di ri-significare la
propria esperienza attingiamo al «partire da sé»,
pratica che, assumendo l‟ambiguità e
l‟ambivalenza come valore euristico, si rinnova
nel tempo contro e oltre visioni dicotomiche o
semplificatorie. L‟esperienza del lavoro delle
donne è carica e ricca di ambivalenza e
ambiguità. Come emerge da varie ricerche, e
come confermano i racconti di molte donne, il
lavoro può essere, per esempio, fonte di
identificazione. Da una parte la sua pratica
viene descritta come piacere, come «esperienza
di nascita» (Cigarini 1997), bellissima,
d‟amore. Dall‟altra, il rischio è di esserne
inglobate, in termini totali e totalizzanti, a causa
di un sovrainvestimento affettivo in cui le
donne rimangono incastrate (Nannicini 2002).4
Ma è proprio in questo rischio che Tiziana Vettor vede
piuttosto un investimento di civiltà da parte delle donne
nel lavoro, rappresentato dal loro porre al centro
dell‟esperienza lavorativa il primato della relazionalità:
in questo primato si rintraccia, infatti,
l‟elemento più dirompente della
femminilizzazione del lavoro, poiché tale
investimento relazionale, è quello che più
contrasta o «rompe» con la tradizione
identitaria degli uomini nel lavoro. E, infatti le
donne non accettano il lavoro per il mercato
(dove la misura di esso è il denaro), come
elemento fondamentale dell‟identità. Esse,
4 Adriana Nannicini (2002), evidenzia come spesso si attinga dal vocabolario
del discorso amoroso per descrivere un‟esperienza che non è quella del
rapporto sentimentale.
Genere e precarietà 124
semmai, stanno nel lavoro come un‟eccedenza,
ovvero riconoscendo al centro dell‟ambito
lavorativo le connessioni umane.
Il processo per cui questa eccedenza diventi realmente
conflittuale e potenzialmente trasformativa non è per
niente semplice e lineare. Come evidenzia Cristina
Morini,
nei nuovi processi produttivi le differenze
implicite nei soggetti nomadici, sfaccettati e
irriducibili vengono «messe a valore» e
divengono fattore produttivo. È vero che, da un
lato, i processi puntano alla standardizzazione
delle conoscenze, al rendere il sapere come
qualcosa di oggettivabile, immediatamente
trasmissibile e riducibile quasi a materia,
dall‟altro però ci sono connotati esperienziali ed
emozionali unici, che fanno le differenze tra gli
individui e che sono un portato imprescindibile
delle singolarità. Non a caso si può parlare di
soggettività al lavoro. In qualche misura tutti
questi atti dell‟economia informazionale
conservano il marchio della persona che lo
esercita, ed è in questo che si ha l‟aspetto di
eccedenza. Quando la differenza diviene
funzionale all‟accumulazione capitalistica perde
tendenzialmente il proprio valore antagonistico
primigenio e viene trasformata in un oggetto
interno ai processi di valorizzazione
capitalistica. D‟altra parte il tentativo dell‟intera
reificazione dell‟individuo mostra fin dalle
premesse una falla perché esclude la completa
standardizzazione della persona. I saperi, le
esperienze, le emozioni di una persona non
sono qualcosa di completamente trasmissibile al
di fuori del circuito dell‟esperienza stessa. In
Genere e precarietà 125
questo preciso punto può prendere corpo
l‟eccedenza e si possono aprire nuove forme di
sottrazione e di liberazione.
3. Soggettività al lavoro, identità precarie e
nuove forme di rappresentanza
Chi ha emesso i suoi primi vagiti all‟inizio degli anni
settanta, fa parte di una generazione che definiamo
«scollinante»: figlie dei baby-boomers – destinate, in
teoria, ad un welfare dalla culla alla pensione – nella
pratica, siamo entrate sin da subito in un mercato del
lavoro atipico e ci siamo ritrovate a fare i conti con
un‟esistenza quasi interamente precaria. Approfittando
di questo particolare punto di osservazione è possibile,
secondo noi, aprire spazi di trasformazione
dell‟esistente. Come sottolinea anche Cristina Tajani,
se è vero che il lavoro è precario senza
distinzione, è anche vero che c‟è una
generazione – quella dei/delle 30 something –
che entra con un DNA diverso, che vede il
lavoro e il sindacato solo con gli occhi della
precarietà. E questo è un dato di rottura.
Partendo da queste analisi ci siamo chieste se e di che
tipo di rappresentanza abbia senso parlare oggi, quale
ruolo possano avere i sindacati a partire da quella che
attualmente è la loro pratica concreta, come difendere e
riattualizzare i vecchi diritti, e come immaginare e
costruire quelli «nuovi».
È oramai palese che la tradizione della contrattazione
collettiva che attribuiva un primato al sindacato stia
Genere e precarietà 126
lasciando il posto a nuove forme di accordi5 e, insieme,
a nuove pratiche di lotta. Sempre secondo Cristina
Tajani,
chi ha pensato e organizzato per la prima volta
la Mayday6 ha colpito nel segno puntando su
quel dato di identificazione che sta nel mondo
dei giovani e dei precari, su una soggettività
generazionale e trasversale. La Mayday ha
saputo guardare, con successo, oltre le forme
organizzative proprie della politica e del
movimento. Il problema è quando si recede da
quel terreno: tu hai lanciato una pietra molto
avanti, hai sfondato l‟immaginario, sei riuscito
a interloquire con i soggetti con cui volevi farlo,
i problemi poi nascono quando vuoi far
ritornare le forme organizzative. Io vorrei
provare a capovolgere la questione della
rappresentanza usando piuttosto il termine
partecipazione. Come si può oggi creare
partecipazione intorno alle questioni del lavoro,
dell‟organizzazione o dell‟autorganizzazione o
della rappresentanza dei precari? Laddove si
riesce a far coincidere partecipazione e
rappresentanza, cade la problematicità di
quest‟ultima. Dove funziona la partecipazione è
più facile ragionare sul tema della
rappresentanza.
Ma sul rapporto partecipazione/rappresentanza le
posizioni teoriche e pratiche differiscono. Secondo Zoe,
5 Sempre più spesso la contrattazione e gli accordi sono individuali e non più
collettivi. Conoscere il proprio contratto e confrontare le esperienze con
altri/e lavoratori/trici per capirne differenze ed analogie è già un primo passo. Ciò permette di acquisire maggiore forza, consapevolezza e legittimità nella
contrattazione individuale, che ci vede tutte, volenti o nolenti, protagoniste. 6 www.euromayday.org.
Genere e precarietà 127
la rappresentanza fatta di ruoli, regole, vincoli
prestabiliti, rimane vuota proprio perché non
esiste la capacità di «far partecipare». Come
Chainworkers (CW)7 gestiamo un Punto San
Precario a Milano – in relazione con tanti altri
sparsi sul territorio italiano – e lavoriamo
proprio sulla partecipazione, cercando di
inventare e pensare insieme nuove forme e
strategie, nuove leve comunicative fuori e
dentro gli ambiti lavorativi. Per esempio: in due
cause che stiamo portando avanti, nonostante ci
fossero gli estremi per una vertenza, i
lavoratori/trici si sono rivolte/i a noi dato che
gli avvocati dei sindacati sembravano non aver
voglia di essere aggressivi e di mettere in atto
una vera e propria battaglia. Nell‟affrontare
queste stesse cause con gli avvocati del Punto
San Precario, consideriamo importante anche il
ruolo della comunicazione e dell‟immaginario.
Il punto non è semplicemente la battaglia in sé
(anche se magari ci farà vincere la causa per
dodici mesi di salario o per il reintegro), ma è
quello di riuscire ad unirsi e fare una battaglia
comune, perché solo così si può arrivare ad
ottenere qualcosa. Il lavoro di
«accompagnamento» che svolgiamo mira a
creare e amplificare la comunicazione fra le
persone: chiediamo loro di raccontare la propria
storia agli altri lavoratori/trici e all‟esterno,
anche attraverso l‟utilizzo dei media. Perché è
solo facendo tremare le aziende e dando
visibilità alle cause giuridiche, alle vertenze e
alle esperienze di lotta esistenti che si possono
sconfiggere la debolezza, la paura e la
frammentazione diffuse. L‟obiettivo è
7 www.chainworkers.org.
Genere e precarietà 128
trasformare la mentalità affinché, cambiando
luogo di lavoro, non si ripresenti la stessa
situazione. Trasformazione che passa appunto
anche attraverso la comunicazione: Il
linguaggio dei sindacati ci sembrava obsoleto
rispetto al linguaggio della «generazione
MTV», poiché spesso per loro combattere la
precarietà si traduce/riduce in un ritorno al
«posto fisso». Mentre la generazione dei
trentenni ha voglia di essere flessibile, ma
questo non significa che non vogliamo
sicurezze. Cosa significa «oggi precarietà,
domani lavoro»8 quando i precari/e lavorano
anche quando non lavorano perché cercano
lavoro? Sarebbe ora che i sindacati rinnovassero
le loro pratiche, e più che di «posto fisso»,
parlassero di continuità di reddito. È proprio la
mancanza di combattività e di comunicazione
dei sindacati a frenare la relazione con i/le
precari/e sin dall‟inizio: se non ci sono
soggettività che investono in un‟azione, che si
preoccupano della propria situazione, che non
hanno paura di rivendicare un reddito, non c‟è
possibilità di fare passi avanti.
Da queste narrazioni si percepisce come molti/e
precari/e siano già in relazione, sperimentando strategie
collettive per proteggersi e creare conflitto.9 Tuttavia si
oscilla tra la ricattabilità cui si è sottoposti/e se si agisce
da soli/e e la difficoltà di costruire alleanze per riuscire
8 La citazione è stato uno slogan di propaganda elettorale dei Democratici di Sinistra per le elezioni politiche dell‟aprile 2006. 9 Un‟esperienza importante in questo senso è stata quella di Serpica Naro
costruita da precari e precarie (www.serpicanaro.org). Serpica Naro è l‟anagramma di San Precario ed è il nome dato ad una stilista inventata dagli
attivisti. Ha partecipato con una sua collezione a conferenze stampa e sfilate
della prestigiosa settimana della moda milanese.
Genere e precarietà 129
ad ottenere un peso effettivo nei confronti della
controparte. Come ben argomenta Andrea Fumagalli,
l‟enorme frammentazione che esiste sui luoghi
di lavoro significa ricatto e paura. Oltre
all‟individualizzazione, però, c‟è l‟individualità,
che io intendo positivamente, come la ricchezza
personale che ognuno/a vorrebbe evidenziare e
mettere in ogni forma di cooperazione sociale e
collettiva. Credo che non basti più partire dal
singolo posto di lavoro per risolvere le
contraddizioni delle attività lavorative:
rimarrebbe questa un‟ottica rivendicativa
sindacale di stampo fordista. Si potrebbe parlare
di immaginari di conflittualità e immaginari
sindacali, qui sta il nesso tra partecipazione e
rappresentanza. Perché la partecipazione
avviene laddove esistono pratiche, forme di
organizzazione e di azione, che si sentono
congruenti con i propri bisogni e le proprie
aspirazioni; bisognerebbe sforzarsi di ripensare
la struttura sindacale e organizzare la
rappresentanza in maniera tale che veicoli la
partecipazione. Non si può dire a tavolino:
«creiamo la partecipazione». Il movimento l‟ha
saputa creare, ma la partecipazione senza
prospettive e sbocchi tende ad esaurirsi.
Bisogna forse fare in modo che si sviluppino
forme di «contropotere» sia nel senso dei
bisogni che dell‟immaginario, perché le due
forme di controllo sociale passano da lì.
4. Reddito di esistenza fra denaro, servizi e
territorio
Genere e precarietà 130
Per certi versi è proprio l‟estensione della precarietà
nella vita a 360 gradi ad obbligarci a inventare nuovi
terreni di sperimentazione: nella condivisione degli
spazi abitativi, nella ridefinizione delle relazioni
d‟amore, nelle forme di consumo e nella creazione di
inedite relazioni di fiducia e cooperazione. Questo
frammentario arcipelago di pratiche esiste e apre spazi a
nuove forme di libertà e autodeterminazione; ma rischia
di rimanere limitato alla sfera individuale, o di piccolo
gruppo, di non essere visto né percepito nella sua
valenza politica. D‟altra parte e contemporaneamente,
nonostante lavoriamo anche dodici ore al giorno, nella
nostra quotidiana lotta tra la scadenza delle bollette
(implacabilmente rigida) e la retribuzione
(variabilmente flessibile), quando bisogna dare garanzie
per il mutuo della casa, o per non finire in rosso sul
bancoposta, non ci resta che andare a chiedere aiuto a
mamma&papà (e naturalmente solo per chi se lo può
permettere). In quale modo di dare continuità alla
discontinuità? Solo il reddito fisso?
Cristina Tajani articola così la sua posizione:
come CGIL, insieme a soggettività territoriali
molto eterogenee, ho partecipato alla
sperimentazione di una proposta regionale sul
reddito di cittadinanza che tenta di coniugare
l‟aspetto monetario con l‟accesso ai servizi.10
Esserci riusciti è un portato dei movimenti di
questi anni, di un nuovo immaginario che si va
creando, del fatto che forse si sono rotti alcuni
tabù. Esiste oggi uno spazio politico più fluido
in cui soggetti diversi ragionano di lavoro e
10 Per approfondimenti sulle sperimentazioni sul reddito in Italia si veda il
sito www.sinistriprogetti.it e, per il caso lombardo,
www.redditolombardia.org.
Genere e precarietà 131
precarietà. Per uscire dalla contrapposizione di
«ciascuno nella sua casa a difendere la propria
posizione», è fondamentale la messa in comune
dei linguaggi: la capacità di giocare sul terreno
dell‟ apertura, della fluidificazione e delle
pratiche politiche.
In risposta a ciò, Zoe sottolinea l‟importanza di come
viene posta politicamente la questione del reddito nel
dibattito pubblico, questione che si presta a facili
fraintendimenti:
è importante stare molto attenti a porre
chiaramente il discorso sul reddito di
cittadinanza perché c‟è il rischio che si traduca
in una specie di «mancetta» che però comporta
una riduzione dei servizi. Vorrei che la
creatività e il simbolico che metto nel cambiare
l‟immaginario non fossero monetarizzati. Il
discorso di flexicurity11
punta a garantire, data
la flessibilità di vita e di lavoro, la continuità
nell‟accesso ai servizi, alle strutture, ai
trasporti; ovvero a rendere possibili le
connessioni che ci sono nella vita, nella città e
nel territorio.
Andrea Fumagalli conclude considerando come
11 Con flexicurity si definiscono politiche di welfare e del lavoro (oramai due
facce della stessa medaglia, che la politica tradizionale si ostina a tenere separate) finalizzate a coniugare sicurezza sociale e flessibilità (agita) per il
lavoro. Essa si basa su due principi base: la garanzia di continuità di reddito
(diretto, sotto forma monetaria) e indiretto (sotto forma dei servizi primari) e la semplificazione del mercato del lavoro (salario minimo orario per i non
contrattualizzati e riduzione delle tipologie contrattuali). Si tratta di misure
che poco o nulla hanno a che fare con il concetto accademico di flexsecurity, termine che nel linguaggio giornalistico fa riferimento a politiche
concertative, spesso finalizzate a politiche di workfare. Per approfondimenti
si veda Fumagalli (2005, 75-84).
Genere e precarietà 132
il territorio, in effetti, sia oggi il luogo di
produzione, come lo era la fabbrica trent‟anni
fa: è diventato, come rete di territori, il luogo
dei flussi di capitale materiale e immateriale, ed
è lì che è necessario creare una ricomposizione
radicata, capace di lanciare una «vertenza
sindacale» che divenga lotta per la garanzia di
reddito e per la qualità della vita (ambiente,
servizi, vivibilità, socialità, abitazione, accesso
alla comunicazione, ecc.). Credo che sia
imprescindibile muoversi verso la
rivendicazione di un nuovo welfare, con una
struttura – locale, nazionale o sovranazionale –
che permetta una continuità di reddito oltre la
soglia di povertà relativa. Un welfare che non
deve essere confuso con un sistema meramente
monetario, ma che sia garanzia di servizi,
perché è da questi che dipende la libertà di
gestire i propri tempi, di scegliere quale attività
professionale svolgere, cosa produrre. Il diritto
a scegliere il lavoro è oggi molto più dirimente
del diritto al lavoro. E qui c‟è lo snodo.
L‟opzione lavorista è pensare che il diritto al
lavoro sia il chiavistello per accedere ad altri
diritti e alle libertà effettive. Oggi penso che il
diritto di scelta di lavoro sia la chiave di volta
per avere diritti.
Bibliografia
Cigarini, L., 1997, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato
del lavoro, Milano, Nuove Pratiche Editrice.
Fumagalli, A., 2005, La proposta della flexicurity in Corbelli,
V. e Naletto, G. (a cura di), Atlante di un’altra economia,
Roma, Manifestolibri, pp. 75-84.
Genere e precarietà 133
Gruppo Sconvegno, 2007, A Snapshot of Precariousness:
Voices, Perspectives, Dialogues, «Feminist Review», n. 87,
special issue on Italian Feminisms, pp. 104-112.
Nannicini, A., 2002, Le parole per farlo. Donne al lavoro nel
Post fordismo, Roma, Derive e Approdi.
Genere e precarietà 135
lavoro
Posizionare identità in/stabili. Storie di egemonie e resistenze di genere nel
lavoro atipico
di Annalisa Murgia
Introduzione
Gli studi sulle trasformazioni del lavoro contemporaneo
hanno da tempo messo in luce lo sviluppo di nuove
forme di lavoro e di organizzazione sociale nei paesi a
capitalismo avanzato. Un aspetto particolarmente
rilevante dei cambiamenti in corso fa riferimento ai
connotati di genere che li contraddistinguono, per
quanto riguarda sia le realtà del lavoro, sia le sue
rappresentazioni.
Con la presunta «femminilizzazione del mercato del
lavoro» (Adkins 1995) in letteratura si intende, da un
lato, l‟elevato incremento della partecipazione delle
donne al lavoro retribuito (una delle tendenze
maggiormente evidenti degli ultimi trent‟anni) e la
diffusione della loro presenza nei settori
tradizionalmente considerati maschili; dall‟altro,
l‟acquisita importanza nella nuova economia di capacità
di tipo comunicativo e relazionale, ritenendo che tali
competenze siano «naturalmente» possedute dalle
donne. Il concetto di femminilizzazione, peraltro, è stato
spesso utilizzato non tanto per descrivere l‟entrata delle
donne nel lavoro retribuito, ma il fenomeno
dell‟ingresso degli uomini nei lavori precari (Beck
1999). Sarebbe in questo senso la precarietà maschile a
Genere e precarietà 136
illuminare di riflesso quella femminile (Nannicini
2008).
Sebbene le dinamiche che innescano discriminazioni di
genere siano da tempo riconosciute nell‟analisi dei
percorsi professionali di uomini e donne (Kanter 1977,
Reskin 1984), la diffusione dei lavori instabili ne ha
accentuato alcune caratteristiche, talvolta in maniera
persino paradossale. Per tale ragione in questo
contributo ho deciso di concentrarmi sui modi in cui le
identità di genere di lavoratrici e lavoratori con contratti
a termine sono costruite attraverso pratiche sociali e
discorsive.
1. Posizionamenti di genere in/stabili nel lavoro
flessibile
La proliferazione di forme contrattuali e modalità
lavorative «atipiche» ha messo ulteriormente in
evidenza la persistenza di vecchi stereotipi di genere sia
per quanto riguarda la distribuzione degli impegni di
cura e domestici, sia per le possibilità di accesso e di
sviluppo della carriera professionale (Saraceno 2005).
Se negli ultimi anni abbiamo assistito alla progressiva
diffusione di studi che hanno esplorato i modi in cui le
trasformazioni del lavoro hanno influito sulle biografie
e sui processi di costruzione identitaria degli individui
(Sennett 1998; Beck 1999), sono relativamente poche le
ricerche che si sono concentrate sulla costruzione delle
identità di genere nelle forme di lavoro atipico
(Wajcman e Martin 2002). Per tale ragione in questo
contributo mi propongo di rivolgere l‟attenzione in
particolare ai processi di costruzione identitaria e ai
posizionamenti di genere nelle storie di uomini e donne
Genere e precarietà 137
che esperiscono quotidianamente una condizione di
instabilità lavorativa.
Il concetto di identità che intendo utilizzare fa
riferimento non ad una dimensione statica e individuale,
un «qualcosa che si è», ma piuttosto ad una dimensione
processuale e molteplice (Gergen 1991), un «qualcosa
che si fa» con gli altri (Poggio 2004) e che viene
performato in situazioni e luoghi specifici (Butler
1990). Ogni qualvolta un individuo parla della propria
vita, attraverso un‟interazione discorsiva, mette in atto
una pratica di costruzione biografica, che contribuisce
alla costruzione, alla modifica e al mantenimento del
proprio sé. Chi narra dà un ordine e attribuisce un senso
al proprio agire, costruendo in modo creativo e
dinamico non soltanto il contenuto del proprio racconto,
ma anche la propria o, meglio, le proprie identità
(Czarniawska 1997). Il raccontare la propria storia,
soprattutto nel momento in cui essa viene sollecitata
dall‟esterno, diventa quindi un importante contributo al
processo di costruzione identitaria (Poggio 2004).
Allo stesso modo l‟identità di genere non può essere
concettualizzata come un‟entità essenziale o un prodotto
unitario e definitivo del processo di socializzazione, ma
come costruita attraverso pratiche sociali e discorsive
che caratterizzano le relazioni tra gli attori sociali
(Gherardi 1995). Così come la nozione di identità
individuale, anche l‟identità di genere deve infatti essere
problematizzata (Butler 1990, Davies e Harré 1990) e
considerata in continua ricostruzione e ridefinizione.
Seguendo questa prospettiva, le storie e gli schemi
narrativi di uomini e donne non possono essere associati
in maniera automatica all‟appartenenza sessuale, ma
rappresentano piuttosto il medium dell‟interazione,
attraverso cui il genere viene costruito (Gherardi e
Genere e precarietà 138
Poggio 2003). In tal senso le narrazioni biografiche
possono essere lette come una ricca fonte di
negoziazione dell‟identità di genere (e non solo) in
quanto costruite attraverso e in relazione ai discorsi
normativi dominanti su uomini, donne, occupazione,
lavoro, affetti e altre dimensioni della vita (Violi 1992).
La storia di vita narrata da un individuo consente,
infatti, di connettere il racconto dell‟esperienza
individuale all‟analisi di specifiche pratiche culturali o
del mutamento di queste. La domanda che mi sono
posta, nello specifico, è stata: al progressivo
allontanamento dal modello di lavoro standard – che
vede protagonista un lavoratore dipendente, a tempo
pieno e indeterminato – è legato anche un cambiamento
dei modelli di genere dominanti nel mondo del lavoro?
Nel tentativo di rispondere a tale quesito illustrerò i
risultati di una ricerca qualitativa che ha raccolto le
storie di donne e uomini che svolgono un lavoro
temporaneo, con l‟obiettivo di mettere in luce non solo
come attraverso le narrazioni vengano costruiti i modelli
di genere dominanti sottesi all'instabilità lavorativa, ma
soprattutto come questi modelli vengano messi in
discussione e come le persone tentino di costruirne di
alternativi.
2. Contesto della ricerca e metodologia
Nell‟intento di comprendere i diversi processi di
costruzione identitaria di genere di chi lavora in modo
instabile presenterò alcuni risultati di una ricerca svolta
nella provincia di Trento nell‟ambito della pubblica
amministrazione e della distribuzione commerciale. Un
primo motivo che mi ha portato ad osservare questi due
mo(n)di lavorativi è legato da un lato all‟impiego
Genere e precarietà 139
piuttosto diffuso, in questi settori, di molte forme di
lavoro temporaneo (tecnici a contratto, collaboratori,
docenti a contratto, ecc. nel caso della pubblica
amministrazione; apprendistato, lavoro stagionale,
lavoro somministrato, ecc. nel caso della distribuzione
commerciale); dall'altro al tipo di rapporto di lavoro.
Tra le varie forme contrattuali che non offrono garanzie
di continuità nel tempo ho scelto di concentrare la mia
attenzione sulle collaborazioni coordinate e continuative
(nel pubblico impiego) e sul lavoro somministrato (nel
settore commerciale) – oggetto di varie ricerche sulle
trasformazioni in atto nel mercato del lavoro italiano
(Fullin 2004) – in quanto considerate come
rappresentative delle nuove forme di lavoro flessibile.
Il secondo motivo che mi ha spinto alla scelta di questi
ambiti professionali riguarda l‟elevata
sovrarappresentazione delle donne al loro interno,
caratteristica che mette in luce con chiarezza una delle
discriminazioni più evidenti del mercato del lavoro
italiano, ossia l‟elevata presenza femminile nei posti
maggiormente instabili e meno garantiti (Istat 2010).
Nonostante vi siano delle differenze sostanziali tra
collaboratori/trici e interinali, sia da un punto di vista
giuridico (contratto autonomo vs. contratto dipendente),
sia dal punto di vista del tipo di attività svolta (i/le
primi/e sono solitamente caratterizzati/e da alti profili
professionali e elevati titoli di studio, a differenza dei/lle
secondi/e), entrambi vivono l‟esperienza dell‟instabilità
professionale. L‟analisi della vulnerabilità lavorativa
che propongo si concentra infatti sui posizionamenti
identitari di chi lavora con un contratto atipico, piuttosto
che sul contenuto e la forma di impiego. Questa
posizione si basa sul rifiuto di un‟automatica
corrispondenza tra lavori atipici e lavori dequalificati o
Genere e precarietà 140
professionalmente insoddisfacenti, e su uno specifico
interesse per il crescente grado di precarietà esistenziale
legato alle nuove configurazioni lavorative, a
prescindere dall‟attività svolta e dalla forma
contrattuale.
I risultati della ricerca si basano sull‟analisi di cinquanta
interviste narrative realizzate con uomini e donne tra i
30 e i 50 anni che lavorano con contratti a termine nei
due settori oggetto della ricerca. Il luogo d‟incontro è
stato sempre stabilito dai soggetti intervistati, la cui
maggiore preoccupazione ha riguardato la discrezione e
l‟anonimato rispetto a colleghi e datori di lavoro. Le
interviste si sono svolte pertanto nelle loro case, in spazi
pubblici (al parco, piuttosto che in un angolo del bar),
all‟università e, molto raramente, sul luogo di lavoro (in
pausa pranzo o in tarda serata). Le conversazioni –
audio-registrate e trascritte integralmente – hanno avuto
una durata di circa un‟ora e mezza con alcune eccezioni,
il cui range è andato dai quaranta minuti alle due ore e
mezza. Ho scelto l‟utilizzo dell‟intervista narrativa
quale principale strumento di ricerca con l‟obiettivo di
comprendere i racconti di vita, i quali non solo
scandiscono il tempo e ricompongono il senso delle
biografie, ma rappresentano anche dei formidabili
strumenti per la costruzione identitaria (Poggio 2004).
Hannah Arendt suggerisce, infatti, che il pensiero basato
sull‟esperienza è necessariamente articolato in storie
(Young-Bruehl 1977). In questo senso la vita e la storia
di vita si configurano come inestricabilmente
interconnesse in un continuo fabbricare di sensi e
significati (Brockmeier e Harré 1997).
L‟approccio metodologico si è concentrato in
particolare sull‟analisi del posizionamento nella
narrazione (positioning analysis), attraverso cui è
Genere e precarietà 141
possibile analizzare la costruzione identitaria del
soggetto narrante (Davies e Harré 1990, Butler 1995). Si
tratta di una prospettiva innovativa di analisi che rivolge
l‟attenzione al tipo di posizionamento attraverso cui
l‟intervistato/a si situa nei confronti dei personaggi che
popolano la sua storia (Riessman 2001) e rispetto alle
narrazioni pubbliche (Somers e Gibson 1994) e ai
repertori culturali dominanti (Lamont 1992), costruendo
un‟identità che si allinea ad essi o cerca di collocarsi in
maniera alternativa, ma che non ne può in ogni caso
prescindere. Nello specifico rivolgerò la mia attenzione
all‟analisi dei posizionamenti di genere nelle pratiche
discorsive (Gherardi 1995), con l‟intento di dar conto
sia dell‟esperienza individuale, sia delle pratiche
narrative della cultura di riferimento. Concentrarsi sulle
storie personali consente inoltre di cogliere quella
soluzione di continuità rispetto al discorso dominante
«maschile» (Cigarini 2006) che per lungo tempo ha
caratterizzato la tradizione lavorista orientata verso il
modello del male breadwinner e verso la separazione
degli ambiti di vita e delle fasi che ne caratterizzano il
percorso.
3. Storie di egemonie e resistenze di genere nei
lavori atipici
Come ho sottolineato in precedenza, le relazioni di
genere – all‟interno della letteratura costruita intorno
all‟instabilità del lavoro – sono spesso state negate o
trattate in maniera del tutto marginale. Diversi studiosi/e
hanno rifiutato l‟assunto secondo cui il genere sia
irrilevante sul lavoro (Martin 2006), i lavori siano
gender free (Acker 1990) e le persone «lascino il genere
alla porta» quando entrano nei luoghi di lavoro (Gutek e
Genere e precarietà 142
Cohen 1987). Se da un lato sono stati studiati da diversi
punti di vista gli intrecci tra lavoro retribuito e non
retribuito (Adkins 1995, Crompton 1999), sono
relativamente poche le ricerche che si sono concentrate
sulle specifiche dinamiche e relazioni di genere che
connotano il processo di frammentazione delle carriere
professionali e delle organizzazioni entro cui si
articolano (Saraceno 2005, Bertolini 2006, Fudge e
Owens 2006, Nannicini 2006). Attraverso l‟analisi dei
posizionamenti di genere all‟interno delle narrazioni di
chi lavora in maniera instabile nella pubblica
amministrazione e nella distribuzione commerciale nella
provincia di Trento, ho individuato differenti tipi di
costruzione identitaria, sulla base delle storie che ho
potuto ascoltare nel corso delle interviste. La riflessione
proposta in questo contributo intende infatti mettere in
evidenza in qual modo vengano messe in atto pratiche
di egemonia e resistenza di genere, nell‟intento di
comprendere se lo scardinamento del tradizionale
modello lavorativo sia accompagnato da una medesima
erosione del modello di genere dominante su cui è
fondato.
La relazione tra i concetti di egemonia, resistenza e
genere è stata nel corso del tempo al centro di molte
riflessioni, che hanno cercato di mettere in luce
l‟esistenza, all‟interno di una molteplicità di tipi diversi,
di un idealtipo più legittimato di maschilità e di
femminilità che si impone sugli altri, definendo identità
e posizionamenti adeguati per uomini e donne
all‟interno di uno specifico ordine simbolico (Connell
1995). Gli individui possono quindi allinearsi e
conformarsi ad un «ordine naturale», che rende
essenziale una parzialità e cerca di ingabbiare nella
monocoltura del genere le soggettività e le pratiche che
Genere e precarietà 143
eccedono il sistema duale (Poidimani 2006); oppure
mettere in atto forme di resistenza, contribuendo alla
sua messa in discussione e al suo scardinamento.
3.1. Un capofamiglia... deve avere un reddito
sicuro
Il primo tipo di posizionamento che ho identificato tra le
interviste analizzate è associabile al modello di genere
dominante, il breadwinner model, che dà per scontato il
fatto che sia l‟uomo all‟interno di una famiglia a doversi
occupare dell‟aspetto economico, mentre il reddito della
donna, quando presente, viene considerato
sostanzialmente come un supporto. Questo tipo di
posizionamento viene messo in atto senza particolari
differenze sia da uomini che da donne, i/le quali
collaborano nel costruire un modello di genere di tipo
tradizionale.
Ad esempio una delle cose che mi ha sempre
angosciato è non riuscire a mantenere la mia
famiglia, che non ho, perché mi ha sempre
angosciato questa cosa. Per dire, più passa il
tempo più – mia madre è casalinga – e più
ammiro mio padre in maniera esagerata, perché
come cazzo ha fatto, quattro figli, ed ho
l‟angoscia di trovarmi in una situazione, che a
questo punto però non mi capiterà, avendo 38
anni io, non quattro figli, se ne ho uno è culo,
no? Obiettivamente bisogna guardare in faccia
alla realtà. Però mi ha sempre angosciato il
fatto di non riuscire a mantenere una famiglia
(U, 38, PA1).
È chiaro che questo tipo di contratto… cioè,
detta in parole povere, per fortuna io sono una
Genere e precarietà 144
donna sposata, ho un marito su cui contare,
quindi un reddito in famiglia c‟è. Chiaro che se
si parla di un capofamiglia la cosa è un pochino
più complicata. Ripeto, secondo me, questo
ruolo, questi contratti, per una donna sposata,
che comunque ha altri obiettivi nella vita, va
benissimo, altrimenti è un po‟ pericoloso (D,
39, DC).
Nel sostenere che un uomo deve mantenere la famiglia,
le persone intervistate costruiscono la propria identità,
così come quella del/la proprio/a compagno/a (presente
o ipotetica), in accordo con l‟attribuzione sociale di
genere dominante. Essa si allinea rispetto ad un modello
culturale che legittima la figura di un uomo che occupa
una posizione professionale stabile e ha un reddito
sicuro. Nelle narrazioni che riproducono questo tipo di
costruzione di genere, da un lato, gli uomini si sentono
in dovere di avere un lavoro che possa garantire il
benessere familiare, così come hanno fatto i loro padri –
presentati come degli esempi da emulare. Dall‟altro le
donne accettano la precarietà del lavoro perché c‟è «un
marito su cui contare». Si rileva, quindi, un ordine
simbolico di genere dominante che presuppone che le
donne siano femminili e gli uomini maschili (Martin
1990) ovvero che le une siano maggiormente coinvolte
nella sfera privata e nel lavoro di cura (non retribuito) e
gli altri nella sfera pubblica e nel lavoro retribuito.
3.2. Bisogna lavorare in due per forza di cose
Se nel primo tipo di posizionamento di genere i soggetti
narranti abbracciano e contribuiscono a riprodurre
l'ordine di genere dominante, in questo caso la
costruzione di genere che emerge dalle narrazioni di
Genere e precarietà 145
lavoratrici e lavoratori con contratti a termine sembra
sovvertire il modello tradizionale, che viene tuttavia
ricomposto attraverso diverse pratiche di riparazione
(Gherardi 1995). Si tratta in questo senso di una
costruzione dell‟identità e dei ruoli di genere
caratterizzata da una maggiore eterogeneità e da un
maggior intreccio tra pratiche di resistenza e pratiche di
egemonia.
Il fatto di spostarmi io rispetto alla mia ragazza
ovviamente è anche un po‟ una conseguenza
del lavoro, nel senso che siccome la mia
ragazza lavora in banca, a tempo indeterminato,
ho detto «Non è che faccio spostare lei, mi
sposto io». Avessi avuto io un lavoro a tempo
indeterminato sarebbe stato molto diversa la
cosa a quel punto. Sarebbe venuta su lei, ma
quello sicuramente ha inciso notevolmente, uno
deve fare i conti con la realtà (U, 30, PA).
In casa siamo costretti a lavorare in due, quindi
non c‟è più neanche quel tempo di prepararti e
di star là a metterti e cucinare, per quanto mi
piace cucinare non ho più il tempo per farlo,
una volta cucinavo sempre io a casa, adesso…
abbiam dovuto comprare il Bimby, perché
abbiamo avuto un bambino, per velocizzare la
cosa, insomma paga questo, paga quello…
bisogna lavorare in due per forza di cose (D,
45, DC).
In questi casi viene messo in discussione, perlomeno
parzialmente, l‟ordine di genere dominante che vede gli
uomini maggiormente coinvolti nella sfera pubblica e le
donne in quella privata. Tuttavia, nonostante siano
trame caratterizzate da una maggiore eterogeneità, viene
Genere e precarietà 146
comunque sottolineato il fatto che sia stata una scelta
obbligata. Nell‟affermare «uno deve fare i conti con la
realtà» o «bisogna lavorare in due per forza di cose» i
soggetti narranti spostano l‟agency completamente al di
fuori della propria responsabilità, assegnando uno status
di oggettività alle situazioni, come se dovessero
giustificare un ordine infranto. Le narrazioni, infatti,
non servono soltanto a descrivere gli eventi e le
transizioni vissute, ma anche a giustificarli e ricomporli
in modo armonico, e a produrre un senso di sé coerente
(Bruner 1990). Dall‟analisi dei modelli di
posizionamento emergenti dalle storie raggruppate in
questa categoria, non si trovano quindi delle nette prese
di distanza nei confronti del modello di genere
tradizionale. Si tratta piuttosto di pratiche di resistenza
contingenti, costruite sulla base di una situazione
temporanea e di «emergenza» che fa riferimento ai
cambiamenti imposti dalle trasformazioni del mercato
del lavoro, piuttosto che ad un cambiamento culturale
rispetto alle aspettative sociali legate ai tradizionali ruoli
di genere. I modelli di genere dominanti restano infatti
sullo sfondo dei racconti e continuano a rappresentare
un‟opzione che si vorrebbe praticare se la situazione
lavorativa lo consentisse.
Una peculiarità da sottolineare è inoltre il fatto che i
processi di costruzione dei rapporti di genere sia nel
caso in cui ripropongano un modello di genere
tradizionale (come illustrato nel primo tipo di
posizionamento di genere), sia nel caso in cui lo
mettano parzialmente in discussione (come in questo
caso), si configurano in maniera simile nei due settori
oggetto della ricerca, nonostante i differenti livelli di
istruzione e i diversi percorsi professionali (più elevati e
Genere e precarietà 147
coerenti tra le persone intervistate nel pubblico impiego,
più frammentati nella distribuzione commerciale).
3.3. L’unica cosa che ho in mano io è mostrare
agli uomini il contrario
Tra le narrazioni biografiche che ho ascoltato ci sono
però anche delle storie in cui chi narra sembra porsi in
esplicita opposizione ai modelli dominanti. Un primo
aspetto interessante riguarda l‟assenza di racconti di
uomini tra queste storie, mentre ci sono alcune donne
che si posizionano in maniera antagonista – o
quantomeno vorrebbero farlo – rispetto alle aspettative
sociali e culturali di genere, collocandosi in maniera più
o meno rivendicativa.
Ci hanno messo moltissimo a dirmi «sei in
gamba, sei brava e sai fare molto bene il tuo
lavoro». Ma ho imparato a difendermi, non con
mosse di karate, la mia difesa è nel far vedere
come lavoro e se vedo che ci sono dei
pregiudizi nei confronti del mondo femminile:
«Sei una donna, cosa vuoi sapere fare?» l‟unica
cosa che ho in mano io è mostrare agli uomini il
contrario (D, 31, PA).
Sul lavoro ammetto anche che sono anche
abbastanza dura, cioè dura, nel senso
abbastanza professionale, non è che… quindi ti
faccio anche scordare che sono donna (D, 28,
PA).
Mio marito fortunatamente ha lavorato sempre.
Poi ho i figli che danno una mano. Però se
lavorassi anch‟io fissa potrei fare altre cose,
Genere e precarietà 148
non stare sempre in affitto ad esempio (D, 45,
DC).
Gli estratti presentati mettono in luce una costruzione
identitaria di genere che si discosta dai modelli
egemoni, seppur attraverso posizionamenti molto
differenti. Nel primo racconto il posizionamento di
genere è performato attraverso la narrazione come una
sfida. Nonostante essere donna sia un ostacolo allo
sviluppo della sua carriera professionale, la narratrice
cerca di farvi fronte «mostrando agli uomini il
contrario». Si tratta tuttavia di una costruzione di genere
dicotomica, che situa le donne in opposizione agli
uomini, i quali hanno il potere di decidere e a cui
comunque le donne devono dimostrare la qualità del
loro lavoro. Nel secondo caso la strategia messa in atto
è invece quella di abbracciare pratiche tradizionalmente
intese come maschili. Vi è quindi una contestazione del
fatto che le donne siano meno competenti sul lavoro, ma
allo stesso tempo una riproduzione dello stereotipo che
vede gli uomini più «duri», dal momento che la
professionalità viene raggiunta «facendo scordare (ai
colleghi uomini) di essere donna».
Le pratiche di resistenza al modello di genere dominante
sono invece molto meno presenti tra le interviste di chi
lavora tramite agenzie di somministrazione di lavoro.
Nell‟ultimo estratto emerge un posizionamento che,
seppur in maniera meno rivendicativa, vorrebbe sfidare
l‟ordine di genere presente riuscendo a trovare un lavoro
stabile che garantisca una maggiore autonomia. Si tratta
in ogni caso di storie che resistono e talvolta cercano di
destabilizzare i modelli narrativi dominanti, rispetto ai
quali è difficile posizionarsi con voci ribelli e
dissonanti.
Genere e precarietà 149
3.4. Non sarebbe stato possibile se mia moglie
non avesse avuto un lavoro stabile
Tra i racconti delle persone che ho intervistato ci sono
degli aspetti relativi alla costruzione di genere che
riguardano in maniera specifica le persone intervistate
nel settore della pubblica amministrazione, che
svolgono nella quasi totalità dei casi un‟attività
intellettuale e/o di ricerca. Sono infatti diversi i casi in
cui il percorso instabile di un uomo viene consentito da
un lavoro stabile della compagna. Negli estratti di
intervista che seguono si osservano i racconti di uomini
che hanno potuto seguire le proprie passioni
professionali e/o costruire una famiglia grazie alla
sicurezza garantita dal contratto a tempo indeterminato
delle loro mogli.
Io mi son sposato nel settembre del „92, ho
avuto tre figli, e quindi come dire è stata anche
un‟esperienza familiare che è stata
contrassegnata in qualche modo da questa
precarietà, anche se mia moglie per carità
insegna, part-time per scelte familiari, quindi
c‟è sempre stata una sicurezza in casa. Questo
percorso lavorativo non sarebbe stato possibile
se mia moglie non avesse avuto un lavoro
stabile, fin dall‟inizio, perché evidentemente se
anche lei fosse stata nel precariato o non avesse
avuto un lavoro non era proponibile una cosa di
questo genere, io avrei dovuto trovare un
lavoro come un altro (U, 40, PA).
Io non ho mai preso in seria considerazione, se
non per un brevissimo periodo, l‟ipotesi di
cambiare lavoro, quindi questo è stato
Genere e precarietà 150
compreso, perché se volevo continuare a fare
questo lavoro, sono state fatte delle scelte,
purtroppo non molto facili. Mia moglie ha
trovato un lavoro a tempo indeterminato,
abbiamo trovato un nostro equilibrio in questo
senso (U, 38, PA).
In questo caso sono le donne ad avere un posto fisso e
gli uomini ad avere un posto precario, in un equilibrio
che, tuttavia, è comunque basato su un coinvolgimento
degli uomini nella sfera professionale e sul maggior
carico delle donne rispetto al lavoro domestico e di cura.
I percorsi di «cognitariato» – come viene definito il
precariato cognitivo (Moulier Butang 2002) – sono
infatti resi possibili per questi uomini dal
disinvestimento delle compagne sul lavoro per
privilegiare una forma contrattuale stabile. È
interessante d‟altra parte notare che non ho mai
riscontrato tale dinamica nelle storie delle donne che
hanno intrapreso percorsi post-laurea e svolgono lavori
di tipo intellettuale, le quali hanno quindi costruito il
proprio percorso professionale in maniera
completamente autonoma, non avendo goduto di alcuna
forma di supporto da parte del partner.
3.5. Il fatto che lo faccia una donna spesso non
viene capito
L‟ultimo tipo di narrazione relativa alle relazioni di
genere (anche in questo caso presente solo tra le
narrazioni di chi lavora in modo temporaneo nel
pubblico impiego) fa riferimento all‟essere single. Si
tratta di una condizione che riguarda soprattutto le
Genere e precarietà 151
donne intervistate, le quali raccontano la difficoltà di
posizionarsi all‟interno di una coppia svolgendo un
lavoro molto intenso e dai confini molto sfumati. Sono
storie in cui chi narra si posiziona in maniera nettamente
alternativa rispetto al modello tradizionale di genere,
scontrandosi tuttavia con delle difficoltà nella
costruzione di pratiche di genere differenti da quelle
egemoniche.
finché ero all‟università avevo un partner, una
volta laureata no, ho fatto difficoltà, non ho
avuto più relazioni serie. Vedo le mie colleghe
che come me, sono altre ragazze architetto o
ingegnere oppure laureate in economia, settori
abbastanza affini, io vedo che sono tutte single,
non ce n‟è una che abbia il fidanzato. Perché
l‟uomo italiano ha paura, almeno è l‟opinione
che ci siamo fatte noi, ha un po‟ paura di una
figura femminile forte ed indipendente, quindi
si relaziona poco con le donne laureate (D, 33,
PA).
Adesso come adesso sono tranquilla perché
sono single, ma in passato ho avuto dei
problemi. Il fatto che ogni tanto succeda che mi
fermo fino a tardi la sera per lavorare, il fatto
soprattutto che lo faccia una donna non è spesso
capito. Cioè nel senso che a volte alcuni
ragazzi, alcuni uomini, vedono come una cosa
strana che una donna abbia un lavoro da libera
professionista più o meno, nel senso come tipo
di impegno, di organizzazione (D, 28, PA).
La difficoltà di posizionarsi all‟interno di una coppia nel
caso in cui si investa in modo rilevante sul proprio
lavoro è richiamata da molte delle donne intervistate che
Genere e precarietà 152
lavorano nel pubblico impiego. Come già emerso da
altre ricerche in letteratura (Crespi 2005), per numerose
giovani donne la costruzione biografica non implica
soltanto l‟attenzione alla «conciliazione» dei tempi per
l‟attività professionale e dei tempi per la vita privata ed
affettiva. Risulta, infatti, prioritario salvaguardare un
«tempo proprio» per esprimere se stesse, le proprie
passioni, il proprio bisogno di auto-realizzazione
(Leccardi 2007). Il tempo per sé, nonostante sia
costruito intorno al lavoro, rappresenta comunque un
mutamento decisivo nella costruzione biografica che
non è più una «vita per gli altri», ma una «vita propria»
(Beck-Gernsheim 2002), al di fuori di ogni funzione
ancillare. Il lavoro acquista in questo caso un carattere
emancipatorio, soprattutto per le donne intervistate che
lo sovrappongono alle loro passioni, tra cui sono
ricorrenti le narrazioni in cui il tornare single viene
vissuto come un momento in cui è possibile dedicarsi
alla propria professione senza che questo crei
scombussolamenti nella propria vita privata. Si lamenta
tuttavia il fatto che talvolta siano gli stessi datori di
lavoro a non rispettare il tempo extra-lavorativo nel caso
in cui non si abbiano dei figli o non si abbia un
dichiarato rapporto di coppia.
Una volta dicendo che ero stanca e volevo
andare a casa, il mio capo mi ha detto: «Ma
cosa vai a fare a casa tu che tanto a casa non
c‟hai nessuno che ti aspetta?». Ecco, con questa
battuta lui ha inteso che io sono fuori sede
evidentemente perché non ho la famiglia qui,
non ho neppure un fidanzato al momento, ma
questi dovrebbero essere affari miei, non è che
vado a parlare col mio capo delle mie questioni
sentimentali. Diciamo che è un‟affermazione
Genere e precarietà 153
che ti fa sentire un po‟ sola al mondo, ti fa
vedere anche come vieni trattata (D, 28, PA).
In questo racconto, così come in quelli di altre
collaboratrici della pubblica amministrazione,
l‟organizzazione in cui si lavora viene posizionata
all‟interno dei racconti dei soggetti narranti come un
attore che in qualche modo tiene la vita privata dei suoi
membri in minor considerazione nel caso in cui non
abbiano dei figli e/o un partner.
Dalle diverse modalità di costruzione identitaria delle
persone intervistate emergono dei posizionamenti molto
differenti tra loro, i quali compongono in ogni caso delle
narrazioni che non sono neutre rispetto al genere. Ogni
storia esprime, infatti, delle identità di genere proprio
perché raccontare comporta anche il posizionare l‟io
narrante all‟interno delle categorizzazioni che le
pratiche discorsive e narrative della cultura di
riferimento rendono disponibili, tra cui anche la
dicotomia maschile/femminile (Poggio 2004). I processi
di costruzione identitaria attivati nelle narrazioni di
uomini e donne che lavorano con contratti a termine nei
due settori oggetto della ricerca, e le modalità di
performare specifici posizionamenti di genere, saranno
oggetto del prossimo, conclusivo, paragrafo.
Conclusione
I frammenti dei racconti presentati rappresentano
differenti modalità di costruzione identitaria e di
posizionamenti di genere da parte di soggetti che
esperiscono quotidianamente situazioni di instabilità
professionale. In particolare questo contributo vuole
mettere in luce il fatto che nel posizionarsi nei confronti
Genere e precarietà 154
della precarietà le persone costruiscono delle narrazioni
che non sono neutrali rispetto al genere. Ogni
narrazione viene performata, infatti, attraverso pratiche
discorsive rese disponibili dalla cultura di riferimento e
associate normativamente o stereotipicamente all‟uno o
l‟altro sesso: alcune pratiche sono viste come
appropriate solo per gli uomini, altre solo per le donne
(nonostante siano praticabili per entrambi) (Gherardi
1995; Martin 2006).
Le storie presentate collaborano in questo senso nel
costruire e mettere in atto un particolare tipo di
maschilità e femminilità. Nei primi due tipi di
posizionamento di genere i racconti di uomini e donne
cooperano nel costruire un modello di genere che
attribuisce caratteristiche e diversità sulla base del
carattere differentemente sessuato dei corpi, confinando
le donne ad una posizione subalterna rispetto al ruolo
dell‟uomo come principale percettore di reddito. Se nel
primo tipo sono state raggruppate le storie che
abbracciano totalmente l‟ordine di genere dominante,
anche nel secondo i modelli egemonici vengono messi
in discussione per questioni esclusivamente
economiche, che non sembrano essere legate ad un
cambiamento culturale rispetto alle relazioni di genere.
Per quanto la precarizzazione abbia ridotto le differenze
tra uomini e donne, seppure verso il basso (McDowell
1991; Beck 1999), ha d‟altra parte creato nuove forme
di patriarcato (Walby 1989), dal momento che le donne
che beneficiano dell‟ingresso nel mercato del lavoro
continuano a dover far fronte al lavoro non retribuito e a
quello per il mercato, per di più in una situazione di
progressiva crisi del welfare (McDowell 1991).
I due successivi tipi di posizionamenti di genere sono
invece caratterizzati da una (quantomeno apparente)
Genere e precarietà 155
destabilizzazione della cultura di genere dominante. Nel
primo caso emerge il tentativo da parte di alcune
intervistate di contestare gli stereotipi di genere,
nonostante venga messo in atto attraverso la
riproduzione di pratiche tradizionalmente riconosciute
come maschili. Nel secondo caso (che riguarda
esclusivamente la pubblica amministrazione) siamo
invece di fronte ad una dinamica di coppia in cui è lei ad
avere un posto fisso, mentre lui esperisce una
condizione di instabilità professionale. Si tratta tuttavia
di un cambiamento della posizione contrattuale, che non
intacca i modelli culturali di genere: gli uomini
continuano, infatti, ad investire maggiormente nella
carriera lavorativa e questo è consentito dal simmetrico
disinvestimento delle loro compagne nel proprio
progetto professionale (a prescindere dalla forma
contrattuale a tempo indeterminato) e da un più elevato
carico di lavoro non retribuito.
Soltanto nell‟ultimo tipo, in cui ho classificato alcune
storie di donne single che lavorano con un contratto di
collaborazione nel settore pubblico, trovano spazio delle
voci ribelli rispetto all‟ordine di genere dominante.
Tuttavia, se da un lato assistiamo ad un processo di
scardinamento delle dinamiche egemoni, d‟altra parte le
narratrici raccontano le difficoltà che comporta lo
svolgere un lavoro frammentario – sia nei tempi che nei
luoghi – soprattutto nella loro vita privata e di coppia,
nonché con lo stesso datore di lavoro.
Un aspetto, a mio avviso particolarmente rilevante,
riguarda le differenze tra i soggetti che lavorano nella
pubblica amministrazione e nella distribuzione
commerciale. Per chi lavora nei supermercati con un
contratto di lavoro somministrato i posizionamenti di
genere, per quanto compositi ed eterogenei, ricalcano i
Genere e precarietà 156
binari che legittimano l'attribuzione di ruoli e compiti
differenti sulla base del sesso biologico di appartenenza.
Il modello del male breadwinner, seppur rivisitato, resta
infatti la trama narrativa a cui poter attribuire senso e in
cui potersi riconoscere, mentre l'adesione a modelli di
genere alternativi viene vista come una situazione subita
e «atipica», così come «atipica» viene definita la propria
posizione lavorativa. Troviamo posizioni simili anche
tra collaboratori e collaboratrici della pubblica
amministrazione, in cui tuttavia sono più ricorrenti dei
posizionamenti di genere alternativi, che non vengono
collocati necessariamente in una condizione di
subordinazione rispetto al modello di genere dominante.
Soprattutto tra le donne che lavorano con un contratto di
co.co.co., infatti, la difficoltà di attribuzione di senso
non sta tanto nell‟impossibilità di mettere in atto dei
posizionamenti di genere che sfidano il modello
egemonico, quanto nella mancanza di legittimità sociale
che tali posizioni e costruzioni identitarie hanno.
I tipi di posizionamento di genere presentati in questo
contributo delineano un copione che prevede quasi
esclusivamente una netta divisione dei compiti tra
donne e uomini. Molte delle storie presentate
riconducono le trasformazioni dei modelli di genere a
situazioni contingenti e spesso legate a ragioni
strutturali ed economiche, piuttosto che alla sovversione
del piano culturale, all‟interno del quale sono radicati
gli stereotipi di genere e vengono costruite e negoziate
le dinamiche di potere tra uomini e donne. E per chi
davvero prende le distanze dagli script di genere
dominanti sembra emergere la forte difficoltà a proporre
soluzioni non conformi, senza necessariamente
disinvestire sul proprio lavoro e/o sulla propria vita
Genere e precarietà 157
affettiva, o senza riprodurre modelli comunque
asimmetrici.
In questo senso, tra chi lavora in maniera temporanea, i
diversi posizionamenti e rapporti di potere spesso
restano immutati se non addirittura rafforzati dalla
condizione di instabilità lavorativa, mentre raramente
prendono forma delle trame narrative in cui i soggetti
cercano di resistere al monologo della cultura
dominante. All‟interno del dibattito sul lavoro atipico,
penso quindi che potrebbe essere interessante cercare di
cogliere non solo in quale modo nelle e attraverso le
narrazioni le persone costruiscono un modello
dominante di precarietà, così come legittimano un
ordine simbolico di genere, ma soprattutto come questi
modelli vengano messi in discussione e come le persone
tentino di costruirne di alternativi.
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Genere e precarietà 164
lavoro
Tempi sociali, condizione precaria e genere: alleanze inedite?
di Sveva Magaraggia
Introduzione
Le riflessioni presentate in questo testo sono iniziate
durante il mio lavoro di ricerca dottorale, e vogliono
mettere in luce le trasformazioni (di cui possiamo
sentire solamente i primi flebili vagiti) delle relazioni di
genere in un momento cruciale della biografia di molti
di noi: i primi mesi di vita di nostro/a figlio/a. Alcuni
giovani padri, infatti, sembrano iniziare a desiderare un
tempo multiplo e non regolamentato in primis dal lavoro
remunerato e sembrano essere maggiormente disposti e
desiderosi di essere coinvolti in una genitorialità attiva.
Il sorgere di questo desiderio, il conoscere una
temporalità meno prevedibile, meno rigida e più
precaria porta con sé una maggiore attenzione
relazionale verso il figlio/a e una conseguente voglia di
ridefinire il loro ruolo paterno. Gli adattamenti
strutturali che la condizione precaria implica sembrano
iniziare a fare intravedere un cambiamento culturale nel
modo di fare i padri.
Il tempo sociale maschile, infatti, una volta
irrigidimentato da orari di lavoro fissi, sembra iniziare a
guardare sempre più al tempo femminile, multiplo e
reticolare, come ad un possibile esempio di un tempo
capace di garantire una maggiore comunicazione tra le
diverse sfere di vita. Il lavoro di smascheramento della
finta universalità dei fenomeni sociali, promosso dalla
sociologia femminista, ha fatto sì che la differenza
Genere e precarietà 165
pensata dalle donne sia stata espressa, scritta e discussa
molto più che l‟esperienza maschile che «è rimasta non
detta, confusa con il sistema normativo patriarcale e con
la sua rappresentazione storica che ne nega (e ne
occulta) la parzialità» (Ciccone 2010, 10). Oggi, la
specificità delle esperienze femminili può essere una
utile chiave per comprendere meglio le trasformazioni
che ci investono tutti, uomini e donne, a partire da
quelle in corso nel mercato del lavoro. Quello prodotto
dalle studiose femministe è quindi un sapere da
utilizzare, una differenza da valorizzare per provare ad
immaginare un discorso (e quindi favorire i processi di
innovazione culturale) capace di democratizzare le
relazioni sociali, e di aumentare gli spazi simbolici in
cui possiamo costruire la nostra vita.
Il ruolo degli studi sul tempo delle donne va ben oltre il
suo portato scientifico, rappresentando, infatti, anche
una costruzione simbolica e politica critica nei confronti
del paradigma temporale patriarcale e capitalista. Questi
studi mettono in luce come il sistema dei tempi della
società industriale, tempi razionalizzati, calcolati,
cronometrati e funzionali unicamente al profitto e al
progresso abbia oscurato la pluralità dei tempi di vita e
di lavoro (remunerato e non) e soprattutto il tratto
creativo del tempo umano. Sottolineano come il
fordismo si sia potuto sviluppare principalmente
valendosi di un patto sociale fondato sull‟accettazione,
da parte delle donne, del carico del lavoro (gratuito) di
riproduzione. La specificità del tempo delle donne viene
quindi letta come elemento capace di sovvertire il
modello temporale egemone, quello scandito dal
mercato. Le numerose analisi degli ultimi decenni (si
vedano ad esempio Leccardi 2009 e Balbo 2011)
mettono in luce la relazione dinamica e creativa tra
Genere e precarietà 166
tempo e soggettività, nonché tra tempo e mondo sociale,
tutto ciò che era stato oscurato dai costrutti binari47
sin
qui dominanti nell‟analisi del tempo.
Si delinea, così, una vera e propria critica politica della
società capitalistica e patriarcale. Si mettono in luce
«nuove» esperienze temporali capaci di reinventare il
senso sociale attribuito al tempo e al lavoro. Oggi, il
tempo gerarchico maschile appare sempre più
inadeguato a fronteggiare le trasformazioni del lavoro
contemporaneo, mentre il tempo delle donne – plurale e
multiforme – ben si adatta a fare fronte alla complessità
della contemporaneità. Questi studi arrivano a proporre
una ri-concettualizzazione del tempo sociale, letto non
più solamente come un tempo piramidale, bensì come
plurale e multiforme.
Da questo veloce affresco si intuisce subito come il
rapporto tra le biografie femminili e il tempo sociale
dominante sia un rapporto conflittuale, e che l‟arena
dove si esplicita tale conflitto è il quotidiano, crocevia
dei molti tempi pubblici e privati presenti nella famiglia,
nonché luogo di continua mediazioni tra questi diversi
tempi. Nel quotidiano, la concretezza dei corpi –
impegnati nella cura – riporta l‟accento sulla
concretezza del tempo, rimossa dalla logica astratta
vigente nel mercato.
In questa sede voglio ragionare sulle trasformazioni
delle relazioni di genere, in particolare sulle differenze
femminili nel pensare il tempo e sui tentativi maschili di
uscire da una storica rigidità dei loro tempi, a partire da
una ricerca condotta in anni recenti sulla genitorialità.48
47 Ad esempio tempo pubblico vs tempo privato; tempo di lavoro vs tempo libero; tempo produttivo vs tempo riproduttivo. 48 Questa ricerca qualitativa si basa su quaranta interviste narrative raccolte
nella città di Milano nel 2008. Sono stati intervistati venti giovani donne e
Genere e precarietà 167
La nascita di un figlio e la cura per un neonato/a mi
sembrano essere, infatti, un case study privilegiato per
osservare le strategie che i giovani mettono in atto per
fronteggiare la discontinuità biografica, e sono
soprattutto un palco capace di mettere in luce le
differenze di genere, per diversi motivi; in primis la
nascita di un figlio/a è il momento che segna una
biforcazione sessuata nelle biografie. È l‟evento a
partire dal quale le vite lavorative di uomini e di donne
iniziano a differire maggiormente (basti qui ricordare
che l‟evento maternità causa una diminuzione di ben
dieci punti percentuali del tasso di occupazione
femminile, che passa dal 64% al 54% (Istat, 2010)]. È
l‟evento, quindi, capace di scatenare l‟emergere di
disuguaglianze di genere. È altresì un momento nella
vita di uomini e donne molto intenso, segnato da una
«povertà di tempo» (Gornick e Meyers 2009); è stato
definito da Bittman (2004) «rush hours of life», gli anni
più intensi della vita. Contemporaneamente, le giovani
coppie sono sottoposte spesso ad inedite tensioni
economiche. Infine, al pari delle altre pratiche della vita
sociale contemporanea, anche l‟essere genitori comporta
un impegno in termini di riflessività; quotidianamente
l‟agire in quanto genitori viene sottoposto ad analisi e
riflessione critica. Questo imparare, che avviene in un
contesto caratterizzato da un intenso mutamento sociale,
da inedite emergenze cui fare fronte, spesso porta con sé
una cristallizzazione dei ruoli di genere, come mettono
in luce molte ricerche (ad esempio si veda Fiori 2007).
Questo passaggio di vita ci permette quindi di vedere e
di comprendere le resistenze e i tentativi di innovazione
culturale che i giovani mettono in atto.
venti giovani uomini di età compresa tra i 21 e i 37 anni, con almeno un
figlio/a in età prescolare.
Genere e precarietà 168
Il materiale empirico utilizzato non include unicamente
interviste a giovani con contratti «atipici», poiché
ritengo che la condizione precaria stia filtrando oltre le
tipologie contrattuali, diventando oggi «una condizione
in primo luogo esistenziale che accomuna molteplici
condizioni di lavoro, dal lavoro migrante a quello di
cura, dal lavoro manuale a quello cognitivo e che viene,
tuttavia, percepita soggettivamente in modo
differenziato» (Fumagalli e Morini 2011). Come viene
ormai messo in luce in molti contesti politici49
, la
precarietà oggi è permanente, collettiva ed esistenziale.
Permanente perché incarna la condizione del lavoro
moderno, individualizzato e deregolamentato; collettiva
perché sempre più riguarda anche quei contratti che sino
a pochi anni fa offrivano garanzie reali; esistenziale,
perché oggi la differenza tra vita e lavoro va
assottigliandosi. La condizione di precarietà è percepita
in modo differenziato, come mettono in luce Fumagalli
e Morini, ma è di certo percepita da sempre più persone.
1. Tempi multipli: nuovi ritmi che impongono
una ridefinizione globale della relazione con i
tempi sociali. I primi mesi di vita del figlio/a
I racconti dei genitori, ed in particolare delle madri,
esemplificano bene l‟entità della trasformazione
esistenziale quando raccontano dei primi mesi di vita
dei loro figli. Una metafora esemplifica bene questa
condizione:
sei una macchina nei primi tre mesi, non hai un
orario, sembri un tabaccaio ventiquattr‟ore, nel
49 Si veda ad esempio quanto sostenuto nell‟articolo dello Sconvegno
contenuto in questo volume.
Genere e precarietà 169
senso, sempre aperto (Manuela, 29 anni,
insegnante, precaria).
La nascita di un figlio/a segna l‟inizio di un periodo di
vita non equamente condiviso da entrambi i genitori.
Sovente, i padri riescono a prendere solamente qualche
giorno di ferie a ridosso del parto, ma sono poi costretti
– spesso a malincuore – a tornare al lavoro. Per le
donne, invece, inizia un periodo di vita nuovo e intenso,
che le vede ritirarsi dal mercato del lavoro per accudire
il nuovo nato/a. L‟esperienza di Gianna, medico, mette
bene in luce le difficoltà che le madri devono affrontare.
Nonostante la presenza dei propri genitori, la sensazione
di insicurezza dovuta anche all‟impossibilità di
prevedere l‟andamento delle cose, la porta, nei primi
periodi di vita del bambino, a piangere tutte le sere:
chiaramente il primo figlio, uno non sa mai… i
primi mesi il papà era rimasto a casa dieci
giorni, poi è dovuto partire. Quindi io ho fatto
un periodo sola con lui (il figlio), sono stata
casa dei miei genitori, però ero molto insicura
di qualsiasi cosa, mi ricordo che la sera mi
veniva da piangere, perché non sapevo come
sarebbe stata la notte, cosa sarebbe successo.
Poi, piano piano ci siamo conosciuti ed è stato
un bel conoscersi insomma (Gianna, 30 anni,
architetta, precaria).
Nei primi mesi di vita dei figli, le donne devono fare i
conti con ritmi sonno/veglia completamente sfasati,
oltre che con l‟impossibilità di programmare il tempo
vista l‟imprevedibilità del comportamento dei neonati:
non c'è più tempo per se stessi, è lui (il figlio)
che organizza la mia giornata. A seconda dei
Genere e precarietà 170
suoi pianti, delle sue esigenze, qualsiasi
minimo mio programma viene sballato da lui.
Anche la cosa più stupida, esco a fare la spesa,
no: in quel momento magari io penso di avere
un‟ora di libertà perché dovrebbe dormire e poi
non dorme e quindi alla fine… non sei più
padrona del tuo tempo. Ecco, è lui che decide.
E questo non è facile. Soprattutto non sei
neanche padrona di riposare, questa è una cosa
che mi ha affaticato molto fisicamente
(Susanna, 33 anni, grafica, tempo
indeterminato).
Inoltre, in questo periodo di vita, si devono abituare ad
una nuova scansione temporale, ritmata
dall‟allattamento (naturale o artificiale) che il bambino
richiede. Le donne, principalmente, cercano di
«incastrare» tutte le attività di cura che gravano sulle
loro spalle e, in parallelo, di sintonizzarsi sui nuovi
ritmi. Come racconta Nora, una giovane madre molto
determinata a non abdicare del tutto alla propria
progettualità:
ma, sembrano anche delle cavolate, però se tu
conti che io alle otto allattavo fino alle otto e
mezza. A mezzogiorno allattavo fino a
mezzogiorno e mezzo, alle quattro allattavo
fino alle quattro e mezza e alle venti di nuovo,
e poi alla notte non dormirvi. Quando cucini?
Quando studi? Quando fai le altre cose? Mi
coincidevano tra l‟altro gli orari. Quelle tre ore
che mi avanzavano tra una cosa e l‟altra,
dovevo studiare. La spesa quando la fai? Anche
solo il pensiero di dover tornare per allattare,
non faccio in tempo neanche a fare la spesa. Sai
sono tante cose, e per me anche solo l‟idea di
Genere e precarietà 171
dovere cucinare, per me era un incubo (Nora,
25 anni, praticante avvocato, precaria).
«Per me era un incubo», dice Nora, mettendo bene in
luce cosa succede quando tempi diversi entrano in
collisione, quando la contraddizione tra piani temporali
diversi (qui i tempi dello studio e i tempi familiari)
diventa esplicita. Molte giovani madri intervistate
raccontano di perdere, da un giorno all‟altro, il controllo
sulla propria esistenza, di vivere un radicale
rivoluzionamento delle priorità esistenziali dovuto al
nuovo nato. Tutte le madri evidenziano le ambivalenze
di questa fase di vita, «sorprendentemente magnifica»
da un lato, ma anche «faticosa e difficile» dall‟altro.
Avevo l‟idea di una cosa più rilassata, invece
mi sono trovata in un turbine, con lui che poi
di notte non dormiva, quindi piangeva
sempre. Continue tutine da lavare, bodini da
lavare, tutto il giorno in casa da sola mentre
io ero abituata a lavorare tutto il giorno,
perché avevo un‟attività. Non riuscivo
neanche più a farmi una doccia, a truccarmi,
ero sempre con questa tuta, lui che piangeva
sempre, all‟inizio è stato un po‟ traumatico. E
quindi c‟è stata, io devo dire i primi cinque –
sei mesi un po‟ di… cioè ero contenta di
avere il bambino, a lui gli volevo bene, però
ero depressa, piangevo senza motivo (Elena,
33 anni, commessa, precaria).
Contrariamente a quanto di solito si ammette, abituarsi
a questo cambiamento radicale può essere molto
difficile per le donne. Spesso questa fatica resta
«indicibile» mascherata dal senso di istinto materno
Genere e precarietà 172
che le donne devono avere, e che tanto giustifica la
posizione defilata dei compagni.
I padri, soprattutto in questi primi mesi di vita, hanno
principalmente un ruolo di «supporto» sia - in parte -
perché fisicamente il bambino/a dipende dalla madre
per mangiare, sia perché la loro vita continua a
prevedere una prevalenza di momenti fuori di casa.
Sentono, nella maggioranza dei casi, di dover essere di
supporto alle partner, avvertendo la delicatezza della
situazione, ma si sentono al contempo impotenti:
diciamo che soprattutto nel primo periodo
molte, molte cose le ha fatte lei. Il papà,
secondo me, è più un sostegno quasi più morale
che fisico, perché sì, può tenere il bambino, ma
il bambino ricerca sempre la mamma alla
fine… quindi il più delle volte sta con la
mamma (Alessio, 33 anni, tecnico informatico,
tempo indeterminato).
Come si intuisce da queste parole di Alberto, quando
sono a casa i padri cercano di sbrigare i lavori di cura
più marginali, in modo da liberare del tempo alle mogli.
Questo tende a sopire il loro sentimento di
inadeguatezza:
io vengo utilizzato di più come spignattaro,
pulisco i piatti dopo i pasti, tengo lei, però
insomma ce la distribuiamo abbastanza
equamente. Forse è un po‟ più appannaggio suo
che il mio, però ecco io non mi tiro indietro
(Alberto, 35 anni, praticante medico, precario).
A parte la diminuzione delle ore di sonno, la
ristrutturazione della vita quotidiana dei padri sembra
Genere e precarietà 173
comunque decisamente più marginale di quella delle
madri che avviene, anche se accolta consapevolmente,
non senza difficoltà.
2. Una prima conseguenza dei nuovi tempi e dei
nuovi ritmi: una nuova organizzazione della vita
quotidiana. Condivisione del lavoro familiare
Questa fase di vita molto densa, come si è accennato,
vede la comparsa di nuove modalità di divisione del
lavoro domestico e di cura fra i genitori. La ricerca di
nuove forme relazionali costituisce un percorso che non
è riconosciuto socialmente, e che risulta faticoso per gli
individui che lo costruiscono più o meno
consapevolmente. In linea con quanto evidenziato dalle
ricerche, i tentativi di definire una «nuova» suddivisione
dei ruoli non viene sostenuta dai congedi parentali, che
sembrano giustificare una minore partecipazione
maschile alla routine quotidiana dei lavori di cura. Le
politiche di conciliazione sembrano, infatti, essere
costruite in modo tale da mantenere inalterato l‟ordine
di genere, fornendo alle neo madri la possibilità – e
l‟obbligo – di esser giocoliere tra la sfera privata e
quella pubblica, e mantenendo i giovani padri ai margini
della sfera privata.
Ecco che cosa afferma Elena in proposito:
e comunque credo che veramente il genitore sia
il ruolo più difficile del mondo. Poi secondo
me, almeno nel mio caso, il compito è proprio
addossato maggiormente sulla mamma. Che
alla fine è quella che ci vive le giornate, quella
che ci va al parco è la mamma, e quindi anche
nel ruolo educativo… sì poi subentra anche il
papà, però secondo me ha meno responsabilità.
Genere e precarietà 174
Poi dipende, magari ci sono coppie organizzate
anche diversamente. La mia è organizzata così,
perché mio marito lavora tanto e quindi a volte
arriva a casa anche alle otto e mezza di sera
(Elena, 33 anni, commessa, precaria).
Alcuni padri hanno aumentato il loro impegno in
ambito lavorativo, percependo, probabilmente, una
forte responsabilità di breadwinner. È stato
sottolineato da alcuni autori come, tenuto conto che il
valore simbolico del lavoro di cura non equivale a
quello del lavoro produttivo, il ruolo del good provider
rivesta tuttora una importanza fondamentale per
l‟identità maschile.
Emerge però anche la voglia di non esser solamente (o
sempre più) il breadwinner, bensì di godere della
possibilità di assaporare un tempo «un po‟ più
multiplo» e meno lineare e meno strutturato dal
mercato. Alcuni uomini non vogliono più aderire
unicamente ad una visione che mette al proprio vertice
il tempio del lavoro remunerato; si discostano da una
visione che permette al tempo del lavoro remunerato di
strutturare tutti gli altri tempi, e di renderli residuali.
La visione delle donne, come abbiamo visto, è una
visione del tempo come rete, e non come una piramide.
È un tempo fatto di tanti nodi, posizionati sullo stesso
piano dal punto di vista identitario. Sono nodi
interconnessi e con un peso specifico diverso a seconda
delle diverse fasi di vita.
Nelle testimonianze dei padri relative a questi primi
mesi di vita vengono evocate tanto le immagini della
presenza e della partecipazione paterna, quanto quelle,
contrastanti dell‟assenza e della «perifericità»
(Maggioni 2000). Finalmente la parzialità paterna su
cui ha riflettuto Ventimiglia (1996) inizia ad andare
Genere e precarietà 175
stretta ad alcuni padri, e con essa inizia ad andare
stretto anche un tempo gerarchico. Qualche padre
lavorerebbe volentieri di meno per potere passare più
tempo con i figli:
cioè, invidio un po‟ gli altri che possono stare
con lei, quelli che non lavorano o che lavorano
meno... non so, le nonne le invidio perché
possono stare con lei… però vabbè… ci sarà
tempo insomma. Diciamo che lavorerei
volentieri meno e con tempi più umani
(Gianmaria, 36 anni, medico, tempo
determinato).
Nella testimonianza che segue, questo padre
ventiseienne mette in luce un aspetto inusuale
dell‟esperienza paterna, che lascia intuire inediti
desideri paterni di intimità con il figlio/a. Alcuni padri,
in effetti, non hanno oggi paura di dichiarare la
necessità di vivere ritmi temporali differenti, meno
sbilanciati verso la sfera pubblica (il lavoro) in favore
di una più profonda relazione con il figlio/a:
lui (il figlio) alle otto e mezza va già a letto, ho
solo un‟oretta per giocare con lui. Infatti, anche
diciamo che, al di là che è una palla lavorare
otto ore, c‟è anche la voglia di stare a casa con
Niclas. Volentieri in questi primi anni lavorerei
mezza giornata e basta. Io, praticamente lo
vedo il week-end e basta, anche perché io esco
la mattina che dormono tutti (Marco, 26 anni,
operaio, tempo indeterminato).
Diversi tra i padri intervistati, magari non si spingono a
desiderare per se stessi una diversificazione temporale,
però iniziano almeno a rendersi conto delle
Genere e precarietà 176
trasformazioni radicali che avvengono nelle biografie
delle loro compagne. Inizia ad esserci, quindi, un
diffuso riconoscimento della peculiarità di questo
periodo di vita, e della complessità del ruolo materno
durante i primi mesi di vita dei figli; riconoscono che
per loro sarebbe molto difficile riuscire ad «esserci»
come fanno le madri:
però secondo me è meglio che sta la mamma
con il figlio […]. No, anche perché io non so se
ce la farei a stargli dietro tutto il giorno. Non so
se ce la farei, devo dirlo. Tutto il giorno con il
bambino… m‟innervosisce troppo. Ma io anche
se sto a casa, dopo un giorno o due giorni a casa
non ci sto più dentro, devo uscire, andare al
lavoro. Anche quando sono in malattia, due
giorni, tre giorni e poi non ce la faccio più,
voglio tornare al lavoro. Perché parli, ti svaghi,
ti passa di più. Invece a casa più di tanto non
puoi fare niente (Luca, 25 anni, magazziniere,
tempo determinato).
Vediamo un altro argomento utile a farci comprendere
meglio mutamenti ed ambivalenze dei giovani padri,
guidati, in parte, dal desiderio di ricalibrare
l‟investimento di sé stessi tra lavoro e vita privata.
2.1. La suddivisione dei compiti di cura:
paternità che cambia
In linea con quanto messo in luce da molte ricerche, e
come accennato nei paragrafi precedenti, i padri
sembrano specializzarsi in alcuni compiti, quali buttare
l‟immondizia, lavare i piatti, fare la spesa, occuparsi
degli aspetti burocratici (bollette, assicurazioni, conti
Genere e precarietà 177
correnti); in generale, si può affermare che hanno un
ruolo di esecutori di compiti loro assegnati dalle
compagne.
Mi occupo io dei rapporti con suocera e nonne,
baby sitter e tutte queste robe qua. Cioè lui è
più del tipo che io gli dico cosa fare lui la fa, io
gli dico di far la spesa, lui la fa, più spesso lui
di me, però lui non si accorge se manca il pane,
o il latte. Cioè devo fare la lista io e lui poi la
fa. Gli dico di andarlo prendere, ma lui non sa
oggi cosa fa nostro figlio, quale è il programma.
Cioè io so il programma e in base al
programma gli do dei compiti. E in questo
modo quindi di fatto io faccio più uno sforzo
generale di avere tutto sotto controllo e lui però
fa tante cose concretamente […]. E poi si,
effettivamente la regia organizzativa è molto
faticosa, ma veramente non conosco uomini che
la tengano. Conosco solo donne che la tengono
(Ada, 30 anni, ricercatrice, partita IVA).
Nonostante questa innegabile persistente asimmetria
nella condivisione delle responsabilità collegate al
lavoro domestico, si inizia ad intravedere un diverso
coinvolgimento per quanto riguarda i figli. La crescente
partecipazione maschile deve essere letta alla luce
(ancora oggi) delle trasformazioni del femminile, e al
maggiore potere contrattuale delle donne; le madri
iniziano a chiedere e a pretendere, e i partner si
dimostrano contenti di partecipare. Sono padri che si
lasciano contaminare dalle specificità del tempo
femminile, da una pluralità che piano piano inizia ad
esser riconosciuta e goduta dai padri. Quasi tutti i padri
intervistati, infatti, desidererebbero fare i padri, e non
solo essere padri:
Genere e precarietà 178
avere un figlio vuol dire avere anche il piacere
di crescerlo, per me per lo meno, anche forse
evitando magari gli errori che ritengo che
hanno fatto i miei genitori… Poi non sarà
facile, ma per certe cose… Cioè, adesso,
almeno adesso, penso che il rapporto del giorno
d‟oggi sia diverso, perché comunque certe cose
mio padre non le ha fatte e non le avrebbe mai
fatte. Sì, cambiava il pannolone, dai suoi
racconti, però non si alzava alle quattro di
mattina per aiutare mia mamma che doveva
allattarmi… dormiva, doveva lavorare, il suo
lavoro era quello di lavorare e, quindi io già ho
fatto qualcosa di diverso (Gianmaria, 36 anni,
medico, tempo determinato).
A prescindere dalla quantità di lavoro condiviso,
l‟impressione che si ricava dalle interviste è che a molti
padri manchi ancora una comprensione profonda
dell‟importanza di questi gesti. Sembra si arrestino
all‟aspetto pratico del pulire, coccolare o mettere a letto
il figlio/a, o all‟essere di aiuto e di sollievo per le mogli
o compagne, mentre solo raramente ne colgono
l‟importanza e la trasversalità da un punto di vista
relazionale ed affettivo. La dimensione della cura,
invece, rende possibile un terreno comune di incontro,
una serie di relazioni di fiducia e di attenzione. Nei
racconti dei padri, invece, riecheggia ciò che Eros,
diplomato, padre di un bimbo di sedici mesi, esplicita
con queste parole:
non è che non sono papà, però più che papà
sono diventato proprio… non so come dire… È
difficile da spiegare. Non mi sento papà, perché
ancora non ho messo in pratica niente. A parte
Genere e precarietà 179
dargli uno sberlettino quando lancia il biberon
contro il televisore, il mio ruolo di padre per
adesso non c‟è. Per dire, per me il padre, è
quello che ti dice «stai dritto con la schiena,
taglia la carne in quel modo. Buongiorno,
buonasera». Gli devo trasmettere qualcosa di
mio. Per adesso, a parte prenderlo in braccio,
farlo dormire, dargli la colazione così, non
faccio. Manca ancora la comunicazione.
Quando avrà due anni e mezzo o tre ne
riparleremo. Però in questo momento non mi
sento ancora al cento per cento papà (Eros, 24
anni, barista, tempo indeterminato).
Questo è forse l‟aspetto che manca alla cultura paterna
che, innegabilmente, sta mutando e si sta sempre più
lasciando coinvolgere nelle complesse forme e nei
molteplici significati simbolici che contraddistinguono
il lavoro di cura, scoprendo il piacere di vivere il
rapporto con i propri figli/e ed annullando le ritrosie
nell‟esplicitarlo. Manca ciò che Ventimiglia (1994)
aveva definito «paternalità». Manca la consapevolezza
che «i processi di costruzione delle identità e dei ruoli si
compongono attraverso le “piccole” e permanenti
condizioni di vita quotidiana, così come è attraverso
esse che si configura il senso valoriale che acquisiscono
le azioni e le reazioni interpersonali» (Ventimiglia 1994,
67). Non si può parlare di nuova paternità sino a che la
dimensione dell‟esercizio relazionale, dell‟intimità che è
nella trama dei lavori di cura non sia introiettata dai
padri.
D‟altra parte, gli studi mostrano come una maggiore
consapevolezza dei bisogni dei figli e una maggiore
capacità di comprenderne le richieste da parte dei
genitori si sviluppi proprio attraverso la pratica delle
Genere e precarietà 180
attività di routine nei primi anni di vita. Questo crea una
relazione più intima tra genitori e figli, che permane
mano a mano che i figli crescono. Gianni,
trentaquattrenne assistente sociale, esprime il bisogno
(comprendendone l‟importanza) di comunicare con sua
figlia anche attraverso i piccoli gesti quotidiani,
mettendo in luce una attenzione ancora scarsamente
diffusa tra i padri italiani:
l‟esempio che faccio quando ne parlo con altri
amici è… da subito nel momento
dell‟allattamento c‟è stata questa divisione, per
cui la mamma l‟allattava, io le facevo fare il
ruttino e il cambio post allattamento, ma non
c‟è stato bisogno di dircelo. Era ovvio che tutti
e due avevamo delle fatiche da condividere e
che avevamo bisogno di un momento di
relazione con la bambina da condividere, no?
Lei l‟ha fatto con il suo latte, io l‟ho fatto con la
cura, con la mano calda. Questa cosa è stata
assolutamente istintiva.
E continua,
come me, tutti i miei amici fanno in qualche
modo un lavoro precario, flessibile perciò
abbiamo tutti quanti le stesse sfighe e anche le
stesse possibilità, non ho nessun amico che ha il
cartellino da timbrare… forse questa
probabilmente la dice lunga sui cambiamenti
della nostra generazione. Dovessi avere il
cartellino da timbrare troverei tutto molto più
complicato, credo assolutamente tutto molto più
complicato. Io oggi mi consento dei tempi che
non potrei assolutamente, assolutamente avere e
sinceramente non so, preferisco così (Gianni,
34 anni, assistente sociale, precario).
Genere e precarietà 181
I padri più collaborativi raccontano con orgoglio di
essersi ritagliati alcuni momenti «esclusivi» con i figli/e,
in cui probabilmente loro stessi si sperimentano e
familiarizzano con relazioni «dense», da cui sin qui si
erano ed erano stati esclusi. Un momento
particolarmente importante per la relazione padre –
figlio/a è costituito dai rari momenti in cui la madre è
assente a causa di impegni lavorativi e i padri non
ricorrono (eccessivamente) alla presenza delle nonne;
sono quindi «felicemente costretti» a gestire
autonomamente il bambino/a e al contempo ad imparare
questa nuova relazionalità:
ma guarda io sono abbastanza rilassato, quindi,
anche perché appunto quando c'è mia moglie
invece, lei è molto energica, quindi facciamo
sempre che andiamo via, magari di qua di là.
Quindi quando stiamo da soli io me la prendo
molto con calma. Rispetto anche molto i suoi
tempi e siamo molto noi due. Facciamo dei
giretti o in bicicletta o con il passeggino, e poi
andiamo al parco dove ci sono gli altri bambini.
Spesso ne approfitto anche un po‟ e a pranzo e
a cena vado dai miei genitori, in modo che non
debba cucinare […]. Però ecco non è che
facciamo grandissimi cose, facciamo cose
molto quotidiane (Alberto, 35 anni, praticante
medico, precario).
Questa diversa scansione temporale imposta alle coppie
proprio dalla loro condizione di lavoratori e lavoratrici
precari sta iniziando ad aprire possibilità relazionali tra
padri – figli diverse. Una conseguenza di una
temporalità meno rigida e più precaria porta con sé una
maggiore attenzione relazionale verso il figlio/a e una
Genere e precarietà 182
voglia di ridefinire il loro modo di fare i padri.
Conclusione
Queste storie ci fanno intravedere come alcune
conseguenze della condizione precaria inizino ad aprire
spazi inediti di contrattazione tra i generi sul piano
culturale. Questi, sicuramente ancora pochi, padri
collaborativi non vogliono vivere un tempo organizzato
rigidamente dal mercato del lavoro, vogliono tempo per
trovare i modi per costruire una relazione con i propri
figli. Anche le biografie di questi padri fanno registrare
un rapporto conflittuale con il tempo sociale, lo scarto
che la nascita di un figlio produce inizia ad esser reale
anche nelle vite maschili, e non più unicamente in
quelle femminili. Questo maschile sembra voler essere
«benevolmente obbligato» ad affrontare le difficoltà e le
paure che la relazione con un nuovo nato comporta sia
perché chiamato in causa dalle proprie compagne sia
perché frustrato dalla parzialità maschile. Il modello
della doppia presenza strutturato sulla molteplicità e
sull‟«ibridazione» dei mondi pubblico e privato (Balbo
1978) si configura come l‟orizzonte capace di offrire
strategie per tenere insieme due presenze parziali. Un
orizzonte in cui le donne hanno expertise da vendere.
Probabilmente, il lavoratore precario, reso parziale nelle
modalità di presenza sul mercato del lavoro, ha oggi
maggiore spazio per conoscere i tempi della cura e per
costruire nuovi legami all‟interno della sfera privata.
Quindi, forse, possiamo affermare che serva una
«dittatura benevola» capace di imporre precise politiche
volte ad accelerare il processo di democratizzazione dei
generi. Le donne sono, come abbiamo visto nel primo
paragrafo, «benevolmente costrette» ad imparare a
Genere e precarietà 183
gestire questi nuovi tempi e compiti, mentre i loro
compagni no. La motivazione degli uomini a partecipare
alla cura e a modificare la loro gestione dei tempi
quotidiani è auto-imposta, o al massimo imposta dalle
loro compagne. Non c‟è una pressione normativa sugli
uomini ad essere care-giver, quindi la contrattazione
resta individuale, è lasciata alle coppie già messe sotto
pressione dalle dense e radicali trasformazioni che
vivono in questo passaggio da diade a triade.
Oggi siamo in un periodo storico dove la scommessa
sembra essere quella di capire cosa possa significare
un‟uguaglianza capace di tenere conto della differenza,
e non indirizzata unicamente verso una mera inclusione.
In altre parole, gli uomini devono imparare a muoversi
nella complessità della dimensione dei tempi e della
cura e devono trovare un loro modo di trasformare la
loro specificità di genere in un plusvalore. Le donne, di
contro, devono continuare a capire come trasformare le
loro differenze in punti di maggiore forza nel mercato
del lavoro. Queste trasformazioni crescono e si nutrono
di tempi di vita-lavoro flessibili, meno rigidamente
definiti da un‟organizzazione del lavoro di tipo fordista.
Insieme, dobbiamo trasformare il carattere uniforme e
prescrittivo delle aspirazioni e dei modi di vivere
socialmente validati e premiati; in altre parole, la
questione che abbiamo sul tavolo riguarda la
democratizzazione del nostro orizzonte sociale. Mettere
in luce le esperienze di paternità innovative che si
iniziano a registrare può essere un modo per «aprire
l‟ordine simbolico attuale» e per legittimare le paternità
più partecipative. Significa fare sì che non si debba più
utilizzare il termine ibrido «mammo» per descrivere
un‟effettiva e più rilevante presenza paterna, ma che si
modifichi il significato del termine padre.
Genere e precarietà 184
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Genere e precarità
187
techné
Soft control. Moltitudini acentriche, geni egoisti e lavoro
nella new economy
di Tiziana Terranova
Scrivendo nel 1934, pochi anni prima che il primo
computer digitale venisse assemblato negli Stati Uniti,
lo storico della tecnologia Lewis Mumford aveva
invocato la fine della tirannia della tecnologia
industriale a favore di una nuova età tecnologica –
libera dal dominio della razionalità meccanica
dell‟orologio e dalla mortifera influenza sensoriale di
materiali come ferro e carbone. Mumford pensava che il
futuro dello sviluppo tecnologico risiedesse nel ritorno
all‟organico, un ritorno che egli significativamente
considerava al cuore della ricerca sui moderni
massmedia (Mumford 1934, 163). Lo studio
dell‟orecchio, della gola e della lingua erano stati
fondamentali per lo sviluppo del fonografo, mentre la
ricerca sul moto di cavalli, buoi, tori, levrieri, cervi e
uccelli avrebbe fornito le basi per lo studio scientifico
del rapporto tra immagini e movimento che produsse il
cinema. Mumford affermò che, diversamente dal
modello baconiano, l‟innovazione tecnologica non è
intrinsecamente collegata al dominio della natura, ma
implica un rapporto più stretto con l‟artificialità del
mondo naturale. La tecnica umana non è solo
un‟elaborata estensione dell‟uomo, ma piuttosto rafforza
il suo rapporto con diversi livelli dell‟organizzazione
naturale. Questi livelli vengono estrapolati e ridispiegati
nel complesso delle macchine sociali all‟interno delle
Genere e precarità
188
quali si dispongono i segmenti umani e tecnici. La
natura che emerge da questa interazione non è solo
complessa, ma anche «artificiale», cioè creativa e
produttiva. Lungi dall‟essere sinonimo di un‟essenza
eterna e immutabile, il mondo naturale dà l‟impressione
di essere multiplo e complesso, dotato di una creatività
ingegnosa, adattabile e sovrumana.1 Questo perchè le
macchine, come avrebbero detto più tardi Georges
Canguilhelm e Felix Guattari, possono essere qualcosa
di più di meri meccanismi.
L‟appello di Mumford per una complicazione organica
del mondo delle macchine non suona fuori luogo in
un‟epoca nella quale i networks comunicativi vengono
spesso descritti come auto-regolati, evolutivi e
orizzontali. Soprattutto l‟esplosione del fenomeno
Internet ha marcato l‟inizio di una corsa al paragone tra
i suoi meccanismi e quelli di altri sistemi dotati di una
logica simile (dagli sciami ai mercati). Attingendo alle
intuizioni della biologia della popolazione, gli apologeti
del libero mercato e dei sistemi auto-regolati dal basso
privi di controllo centrale (bottom-up) hanno
sottolineato l‟ubiquità di questa logica nel regno
dell‟«artificiale e dell‟organico» (Kelly 1994).
I sostenitori della new economy affermavano di essere
stati ispirati dall‟ubiquità dei processi evolutivi e dalla
loro capacità non solo di discriminare tra l‟adatto e il
non adatto, ma anche di produrre la molteplicità della
vita in quanto tale. Quest‟uso della teoria
dell‟evoluzione evidenziava l‟esistenza di una natura
artificiale che si compone e decompone attraverso
tecniche specifiche e complesse che essa stessa produce
in maniera immanente e senza alcun piano o scopo
1 Sull‟artificialità del piano della natura, si veda l‟analisi di Parisi sulla
biologia molecolare contenuta in Abstract Sex.
Genere e precarità
189
prefissato. Ispirato dal lavoro di due formidabili pionieri
come John von Neumann e Stanislav Ulam, il campo
della computazione biologica si è confrontato con la
tecnicità della natura quale si manifesta nei processi
evolutivi e perciò è stato spesso accusato di essere un
tentativo fuorviante di naturalizzare le relazioni tecniche
e sociali – sostenendo così le tesi di coloro che pensano
che l‟auto-regolazione che è alla base di Internet sia
dovuta all‟azione benefica delle forze del libero
mercato. La computazione biologica, in effetti, è
fondamentalmente interessata all‟analisi dei fenomeni
organizzativi dal basso (bottom-up), simulando le
condizioni del loro emergere in un medium artificiale –
il computer digitale. Il termine «computazione
biologica» si riferisce ad un grappolo di sub-discipline
nelle scienze informatiche – come la vita artificiale (che
mira a evolvere dinamiche naturali nelle simulazioni
computerizzate); la mobotica (la progettazione di robot
mobili capaci di apprendere dai loro errori); e le reti
neurali (un approccio bottom-up all‟intelligenza
artificiale che inizia con semplici reti di neuroni invece
che da un gruppo di istruzioni dall‟alto o top-down).
Queste sotto-discipline condividono un comune
riferimento al lavoro di John von Neumann negli anni
cinquanta sugli automi cellulari – un gioco simile al
cinese «go» che prevede una scacchiera aperta e una
popolazione di quadratini vincolati solo da regole
d‟interazione locali. Gli automi cellulari di von
Neumann si sono dimostrati capaci di computazione
universale (proprio come la macchina universale di
Turing). Dai tempi di von Neumann, la computazione
biologica si è sviluppata in un campo di ricerca ben
finanziato e proficuo con importanti applicazioni in
diversi settori, dall‟animazione alla ricerca sul cancro.
Genere e precarità
190
La biologia computazionale ha assorbito le intuizioni
della teoria del caos, della biologia molecolare, della
demografia e naturalmente della teoria evoluzionista. Il
suo campo d‟interesse è quello della produzione di
fenomeni emergenti capaci di superare le istruzioni dei
programmatori. La computazione biologica esplora il
piano più ampio di macchine astratte di organizzazione
dal basso, di cui Internet appare specifica istanza e
prodotto. Ciò che contraddistingue queste macchine
astratte è la loro mancanza di qualità. Esse non sono
delle macchine tecniche più di quanto non siano delle
macchine naturali, né possono essere descritte come
macchine biologiche piuttosto che come macchine
sociali. La loro simulazione implica la descrizione di un
diagramma astratto che mette in relazione entità, leggi e
capacità quasi indefinite – moltitudini acentriche, regole
locali, dinamiche globali, la capacità di generare
fenomeni emergenti, la relativa imprevedibilità, la
refrattarietà al controllo. Ciò che la computazione
biologica si domanda è: come si formano questi sistemi?
Da che cosa sono composti? Quali regole li spiegano?
Come possono essere ricreati e quali modalità di
controllo si adattano meglio al loro immenso potenziale
e alla loro tendenza alla refrattarietà? Se la rete è un tipo
di «diagramma spaziale» per l‟età della comunicazione
globale, le macchine auto-regolate della computazione
biologica sussumono la rete non solo come una
formazione topologica astratta, ma come un nuovo tipo
di macchina di produzione. In questo senso, come
avremo modo di vedere, i processi studiati e riprodotti
dalla computazione biologica sono qualcosa di più
dell‟espressione tecno-ideologica del fondamentalismo
di mercato. La computazione biologica implica un
campo informazionale nel quale ogni punto è connesso
Genere e precarità
191
direttamente a quello più vicino (sul quale agisce e al
quale reagisce); e indirettamente, ma non meno
efficacemente, influenzato dai movimenti del tutto. Un
sistema auto-regolato che genera un comportamento
emergente (quel comportamento cioè che non è stato
esplicitamente programmato o controllato) è
l‟espressione di un modo di produzione caratterizzato da
un eccesso di valore – un eccesso che richiede strategie
flessibili di valorizzazione e di controllo. Nelle prossime
pagine andremo allora alla scoperta dell‟intreccio tra
organico e inorganico, tra il fisico e il biologico e il
naturale e il tecnologico, per riuscire a intravedere
l‟emergere di una specie di macchina astratta del
controllo soffice (soft control) – cioè di un diagramma
di potere che trova il proprio campo operativo nelle
capacità produttive dei molti iperconnessi. Ma prima di
questo inizieremo con il definire il profilo di ciò che il
passaggio alla computazione biologica comporta e della
sua relazione al più vasto campo della conoscenza
scientifica contemporanea.
La svolta biologica nella programmazione, con il suo
interesse per l‟organizzazione dei sistemi naturali e
artificiali auto-organizzati dal basso (bottom-up), può
essere pensata come parte di una più ampia
riconcettualizzazione tecno-scientifica della vita – ben
oltre le leggi meccaniche della scienza classica, ma
anche oltre le forme organizzate dell‟anatomia e della
biologia moderne. Per i teorici della vita artificiale,
come Charles Taylor e David Jefferson, tutta la vita
naturale può essere compresa in termini di
un‟interazione tra un gran numero di elementi a partire
dai livelli più elementari. L‟organismo vivente non è più
una singola e complessa macchina biochimica, ma viene
Genere e precarità
192
oggi inteso come il prodotto aggregato dell‟interazione
di un‟ampia popolazione di macchine relativamente
semplici (Langtong e Taylor 1992, 5). Queste
popolazioni di macchine semplici interagenti lavorano
ad ogni livello dell‟organizzazione biofisica della
materia. Sono attive a livello molecolare, a livello
cellulare, a livello organico e a livello dell‟ecosistema-
popolazione (Taylor e Jefferson 1992, 1). Di
conseguenza,
animare delle macchine [...] non significa dare
la vita ad una macchina, quanto piuttosto
organizzare una popolazione di macchine in
modo tale che la loro dinamica interattiva sia
«viva».2
2 Attingendo alla letteratura scientifica sull‟argomento, Manuel De Landa ha riassunto il passaggio dall‟«ideal-tipo» alla «popolazione». Il concetto di
«idealtipo» è di origine aristotelica e ha dominato la biologia per oltre
duemila anni. Nel concetto di «ideal-tipo», «una popolazione data di animali era concepita più o meno come un‟incarnazione imperfetta di un‟essenza
ideale». Possiamo comprenderla nozione di «ideal-tipo» seguendo anche i
principi della semiotica nella quale ciascun segno è composto da un «significante» (nell‟esempio di De Landa la parola «zebra») che si riferisce
ad un «significato» (la zebra «ideale» che si ritiene possedere le
caratteristiche essenziali della «zebrità»). Tutte le zebre reali (il referente nella terminologia saussuriana) sono dunque delle incarnazioni specifiche e
necessariamente imperfette dell‟ideal-tipo «zebra» che costituisce il significato o il concetto che è alla base del nome. La rivoluzione introdotta
dalla demografia negli anni trenta (un momento indispensabile nella
realizzazione dell‟attuale svolta biologica) è contrassegnata dall‟abbandono dell‟ideal-tipo (potremmo anche dire del segno), a favore della nozione di
«popolazione». Al centro della teoria evoluzionista non troviamo più un
animale ideale, composto da tutti quei tratti che gli permettono di evolvere e di sopravvivere in un ambiente specifico, ma una serie di tratti differenziali,
distribuiti in tutta la popolazione delle zebre, un sistema relativamente stabile
attraversato da variazioni continue. Il nuovo oggetto della teoria evoluzionista non è allora quello dell‟adattamento individuale, ma quello
della dinamica delle popolazioni. (CFC. De Landa 1998, ultimo accesso
20/05/2002).
Genere e precarità
193
Il Frankenstein di Mary Shelley partì dunque dalle
premesse sbagliate: se si vuole riprodurre la complessità
della vita, non bisogna partire dagli organi, cucirli
insieme e poi dargli una scossa per farli vivere. Bisogna
iniziare più umilmente e più modestamente dalla base,
cioè da una moltitudine di interazioni in un ambiente
liquido e aperto.
Il capitalismo della new economy si è molto occupato
del rapporto tra l‟organizzazione dei sistemi auto-
regolati dal basso (bottom-up) e la velocità e si è
soffermato sull‟importanza della fluidità come
condizione fisica. Ad un certo livello di velocità, in una
fase liquida semi-ordinata, a differenza degli enti solidi
e limitati, i grandi numeri sono soggetti a diversi tipi di
regole.
La scienza ha per molto tempo saputo che i
grandi numeri si comportano in maniera diversa
dai piccoli numeri. Le folle producono una
misura indispensabile di complessità per le
entità emergenti... La quantità totale di
interazioni possibili tra due o più membri si
accumula esponenzialmente man mano che
cresce il numero dei membri. Ad un alto livello
di connettività, e con un alto numero di
membri, prevale la dinamica delle folle. Il
numero fa la differenza (Kelly 1994, 12).
Il numero o la quantità, come sostiene Kevin Kelly, è
esplicitamente collegato al bisogno di una diversa logica
immanente dell‟organizzazione che impone nuove
strategie di controllo per trarre profitto dalla sua
produttività potenzialmente infinita e per arrestare il suo
potenziale catastrofico: non dovremmo quindi essere
Genere e precarità
194
sorpresi dal debito che la computazione biologica ha
contratto con la meccanica dei fluidi.
Il problema è di mantenere la produttività di uno spazio
fluido compreso tra gli estremi improduttivi della
solidità e del caos gassoso. O, come ha detto Tim
Berners-Lee, «abbiamo certamente bisogno di una
struttura che eviti queste due catastrofi: la monocultura
globale omogeneizzante di McDonald‟s e i culti isolati e
auto-referenziali che si capiscono solo tra di loro»
(Berners-Lee 2000, p. 203). Si tratta dunque di
individuare la velocità esatta che rende possibile
l‟attività:
per usare un po‟ il linguaggio antropomorfico:
la materia in equilibrio è «cieca», ma nelle
condizioni lontane dall‟equilibrio essa può
essere capace di percepire, prendere atto cioè
del loro modo di operare, delle differenze nel
mondo esterno (come la gravitazione debole o i
campi elettrici) (Prigogine e Stengers 1984, 14).
Uno stato fluido viene in questo modo definito come
una relazione di velocità che determina il livello di
connessione che collega liberamente una moltitudine di
corpi semplici o di macchine. Uno spazio fluido è
caratterizzato da una relazione semilibera tra molecole o
componenti che gli attribuiscono la capacità di deviare e
di produrre spontaneamente dei fenomeni di turbolenza.
Uno spazio di flussi genera fenomeni imprevisti ma non
garantisce che essi saranno sempre utili o anche
vantaggiosi allo sperimentatore o al programmatore
perché sono sempre soggetti a trasformazioni repentine
o a catastrofi. Dato che la pianificazione si rivolge solo
alle condizioni iniziali, i risultati prescelti possono
essere solo invocati ma non certo previsti. L‟emergenza
Genere e precarità
195
ha bisogno di essere attentamente raccolta e valorizzata
alla fine del processo con un pettine a denti molto
stretti, va analizzata ma solo allo scopo di sintetizzarla
di nuovo, sperimentando una serie di limiti che
facilitano questa operazione. Questo tipo particolare di
controllo è un controllo soffice (soft control). Non è
soffice perché è meno duro (spesso non c‟è nulla di
gentile in esso), ma perché è un esperimento sul
controllo dei sistemi che rispondono violentemente, e
spesso in maniera suicida, al controllo rigido.
1. Emergenza sociale
Il risultato dell‟esecuzione di un sistema cellulare non
viene allora predeterminato o pianificato nella sua
interezza (ed è come ha scritto Kevin Kelly «fuori
controllo»). Essere fuori controllo non significa essere
al di là di ogni tipo di controllo. Il controllo al quale
questa popolazione fluida risponde è piuttosto differente
da quello negativo degli organismi viventi auto-poietici
che si auto-riproducono entro dei limiti chiusi. La
fluidità delle popolazioni, il loro essere esposte alle
epidemie e al contagio, vengono considerati una risorsa:
ad un certo valore o ad una certa velocità
informazionale, il movimento della cellula diventa
liquido e questo stato, che viene considerato quello più
produttivo, genera strutture vorticali che sono sia stabili
che in divenire. Queste strutture dinamiche prodotte
dalla propagazione del movimento in un mondo di
automi cellulari, sono considerate computazionalmente
interessanti. Questo comportamento liquido è
tipicamente caratterizzato da una deviazione – quella tra
il momento in cui il modello viene costruito e il
momento in cui emergono forme utili o soddisfacenti. In
Genere e precarità
196
linea teorica, agli occhi dell‟osservatore umano, i
sistemi di automazione cellulare dovrebbero sempre
sorprendere o produrre risultati inattesi. Indurre i sistemi
cellulari alla computazione non è un‟impresa facile
perché richiedono una regolazione molto attenta. Le
regole che definiscono le funzioni della transizione tra i
diversi stati possibili della cellula devono essere definiti
con estrema cura. Questa precisa regolazione può essere
ottenuta solo attraverso una serie di esperimenti
successivi fino a quando è possibile individuare l‟esatto
livello computazionale che permette di portare a termine
il compito assegnato o task. Dall‟altra parte, il fatto che
il sistema di automazione cellulare sia capace in
principio di eseguire delle computazioni non significa
che lo farà in maniera spontanea. Ecco perché viene
introdotto un nuovo livello di controllo – non solo la
precisa regolazione delle condizioni iniziali, ma anche
la modulazione degli scopi finali e degli oggetti della
computazione.
La modulazione globale degli scopi viene eseguita
abitualmente nei sistemi di automazione cellulare
ricorrendo al modello dell‟«algoritmo genetico». Gli
algoritmi genetici sono un tipo particolare di «algoritmo
di ricerca», come quelli che gestiscono popolari motori
di ricerca come Google.
Gli algoritmi genetici, funzionano ricercando nello
spazio computazionale e misurando il tasso di successo
nei diversi sistemi di automazione cellulare (definiti dai
loro genotipi e dalle tavole di istruzioni) sulla base dei
loro fenotipi (cioè la prestazione effettiva prodotta dalle
istruzioni nel momento in cui partono da configurazioni
diverse dello stato dei nodi). Ciò che provoca il risultato
della competizione tra i sistemi di automazione cellulare
è una funzione di fitness o adattamento che attribuisce i
Genere e precarità
197
punteggi ai diversi sistemi. I sistemi inefficienti
vengono esclusi, mentre quelli più efficienti vengono
lasciati liberi di competere e anche di scambiarsi i tratti
distintivi a vicenda. Questo modello ha dimostrato di
essere altamente efficace nel determinare le soluzioni
ottimali per problemi specifici poiché questa
competizione termina spesso con il raggiungimento di
una zona ottimale dove il compito viene calcolato
efficacemente e con la minima perdita di tempo. I
genotipi di successo, i cui fenotipi si sono dimostrati
essere più resistenti di altri, vengono così selezionati per
l‟analisi o per un uso mirato.
Gli algoritmi genetici agiscono perciò come dei setacci
virtuali le cui maglie possono essere adattate agli scopi
specifici della simulazione. «Tutto quello che rimane
dopo questo processo sono le celle che non si sono
uniformate ai modelli e formano così i confini tra le
regioni di celle che invece lo hanno fatto» (Watts 1999,
186). Il comportamento di queste particelle attive di
confine viene allora analizzato per capire se possono
essere soggette a delle regole.
Se tale regola esiste (e può essere trovata),
allora il CA3
può essere spiegato [...]. Se questa
regola non esiste, allora il processo deve essere
ripetuto, provando ancora una volta ad estrarre
un modello dalla confusione delle particelle,
producendo forse delle meta-particelle e così
via.
L‟approccio dell‟algoritmo genetico ai sistemi di
automazione cellulare è stato criticato perché è incapace
di produrre una vera emergenza cioè quei fenomeni di
3 Automazione Cellulare [N.d.T.]. Si veda Watts 1999.
Genere e precarità
198
auto-organizzazione e di computazione che non
vengono programmati esplicitamente da un agente
umano. Il modello di controllo dell‟algoritmo genetico
viene quindi giudicato insufficiente da alcuni ricercatori
sulla vita artificiale. Se le funzioni di efficacia sono
troppo strette e troppo orientate allo scopo, i sistemi CA
possono elaborare un compito che gli viene imposto, ma
non possono produrre una novità autentica, cioè degli
eventi che non sono prescritti dalle regole e dalle
condizioni iniziali.4 L‟algoritmo genetico descrive
dunque una modalità del controllo e i suoi limiti (quelli
della «vera» emergenza, cioè di un potenziale di
trasformazione che non può essere programmato e
nemmeno guidato).
Il controllo delle moltitudini acentriche implica così
livelli diversi: la produzione di regole e istruzioni che
determinano i rapporti locali tra nodi contigui; la
selezione delle condizioni iniziali appropriate; e la
costrizione di scopi e di funzioni di fitness che operano
come dei setacci in uno spazio liquido, cercando
4 Una delle ambizioni delle ricerche sugli automi cellulari, infatti, non è solo quella di costruire una macchina astratta capace di superare i limiti della
macchina di Turing, ma anche quella di modellare la logica della vita. È
proprio la vita ad essere immaginata come una gigantesca macchina computazionale capace di programmare la materia e quindi di generare quella
grande molteplicità di forme che l‟evoluzione ha prodotto sulla terra. In particolare, partendo dalla prospettiva delle «popolazioni» (in questo caso
dalle popolazioni di cellule o di particelle), le ricerche sugli automi cellulari
aspirano a copiare la capacità meccanica della dinamica evoluzionista per inventare forme di vita totalmente nuove. Gli scienziati della vita artificiale
sono in particolarmente ansiosi di evidenziare che qui non si sta parlando di
vitalismo. Non credono che la vita sia una misteriosa qualità capace di produrre degli esseri viventi. Al contrario, come ha fatto notare Langton,
l‟analisi della dinamica evoluzionista nella ricerca sulla vita artificiale è
strettamente meccanicistica (sebbene anti-deterministica). La vita non è una qualità misteriosa che è scesa sulla terra dal Cielo, ma un processo emergente
che deriva dall‟interazione tra una moltitudine di elementi messi in relazione
da connessioni locali. Si veda Langton 1992.
Genere e precarità
199
letteralmente il nuovo e l‟utile. Questi setacci separano
quelle configurazioni che sembrano produrre risultati
statici da quelle particelle dinamiche che deviano di più
dalla struttura. Queste particelle dinamiche non
obbediscono alle leggi della regolarità statistica e
possono operare delle computazioni estremamente
difficili perché non rientrano nel regolare (o
nell‟ordinario). Allo stesso tempo a queste
configurazioni non viene permesso di passare
completamente nel caos, nella quale la turbolenza è così
forte da ostacolare alcun vero controllo. Le particelle
così selezionate iniziano a costituire una zona di confine
mobile e dinamica o un limite attivo capace di una
computazione emergente. Ciò che la macchina di von
Neumann rivela è il contenuto di una particolare
macchina cibernetica di controllo sociale: non una vita
fluttuante minacciata da forze entropiche (come nella
prima stagione della cibernetica), ma un livello di
produzione indeterminata affidata a moltitudini
acentriche che teoricamente non esauriscono mai
l‟energia. L‟oggetto di questo controllo non è una
popolazione intesa come massa a cui dev‟essere
impedito di incorrere in pericolose deviazioni, ma una
molteplicità di campi computazionali distribuiti in uno
spazio fluido e dinamico.
2. De/programmare la moltitudine
Nei tardi anni novanta, le tecniche «fuori controllo»
della computazione biologica trovarono un terreno
particolarmente fertile tra quelle imprese capitalistiche
che sono state sponsor importanti dell‟Artificial Life
Center dell‟Istituto di Santa Fé. Gli automi cellulari
modellano, infatti, con un grande livello di accuratezza i
Genere e precarità
200
margini caotici del socius – zone di estrema mobilità
come le mode, le tendenze, le borse – oltre a tutti i
campi informazionali diffusi e acentrici. La
computazione biologica agisce in parallelo a una serie di
tecniche sociali che provocano e controllano la
formazione di ambienti auto-organizzati dal basso.
Fuori dal medium informatico, cioè, la computazione
biologica esprime un diagramma sociotecnico di
controllo che produce degli effetti di emergenza
manipolando le regole e le configurazioni di un campo
dato.
Se dovessimo osservare gli esperimenti nei sistemi
umani di automazione cellulare, ad esempio, li
troveremmo nei modelli organizzativi della new
economy, come ha documentato l‟etnografia di Andrew
Ross su una azienda della «Silicon Alley» di New York,
la Razorfish. Per Ross, Razorfish, con i suoi uffici open-
plan e la sua forza-lavoro entusiasta che non percepiva
il proprio lavoro nei termini di un vero «lavoro», è stato
un importante esperimento per le sue modalità
organizzative alternative, in grado di capitalizzare le
capacità produttive di una generazione X altamente
alfabetizzata e altrettanto alienata. Razofirsh era
un‟azienda dinamica e turbolenta che si ampliò
esponenzialmente negli ultimi anni novanta, fiera del
suo stimolante ambiente di lavoro che garantiva un alto
livello di innovazione e di professionalità nel design
digitale. L‟ambiente lavorativo di Razorfish era a sua
volta il frutto dell‟incontro tra lo stile di vita
bohemienne della East Coast americana e l‟ecologia
start-up della Silicon Valley – il popolare modello di
produzione decentralizzata delle innovazioni
tecnologiche. In questo senso, l‟esperimento sociale
della new economy, come la stessa computazione
Genere e precarità
201
biologica, era l‟espressione dell‟incontro tra le vette
innovative dell‟economia capitalistica e il riflusso della
controcultura degli anni sessanta con il suo rifiuto delle
forme ripetitive e deprimenti del lavoro.
La descrizione degli uffici della Razorfish fatta da Lev
Manovitch può illustrare ancora meglio questo punto:
quei grandi spazi aperti ospitavano delle
postazioni di lavoro sparse con quasi venti
impiegati […] Lui [il manager] faceva notare
con orgoglio che i lavoratori condividevano lo
spazio indipendentemente dalla loro qualifica
professionale – un programmatore sedeva
accanto ad un progettista di interfacce e a un
web designer (Manovitch 2001, 213).
Per Manovitch il design spaziale era caratterizzato dai
temi chiave della cultura informatica. «l‟interattività, la
mancanza di gerarchia, la modularità». Ma queste
qualità specifiche appartengono anche alle macchine
CA: un mondo privo di qualità nel quale tutti gli
elementi della popolazione vengono concepiti
esclusivamente dal punto di vista delle interazioni locali
con un‟attenzione particolare alla modulazione dei fini e
degli scopi (come quello di rimanere in testa alla
competizione del design digitale). La cultura del lavoro
della new economy era attraversata integralmente dal
movimento di riforma della teoria del management che
valorizzava l‟auto-determinazione di gruppi di
lavoratori nel controllo del processo di produzione
introducendo una nuova serie di regole manageriali
(decentralizzazione, delega, scadenza, ecc.). Il sistema
di automazione cellulare della new economy si dimostrò
essere altamente turbolento e produttivo, ma fu alla fine
epurato come inefficiente dagli algoritmi di un
Genere e precarità
202
capitalismo che stava affrontando un‟altra delle sue crisi
energetiche. Qualunque sia il destino di un singolo
sistema sociale CA, la computazione biologica è
indicativa del modo in cui la produttività dell‟ambiente,
opposto al territorio,viene evidenziata: non come un
sistema chiuso (un popolo, un gruppo, una classe), ma
un campo aperto (una moltitudine dinamica che occupa
e si diffonde in uno spazio liscio).
La computazione biologica ci offre un‟analisi
approfondita della più ampia modalità del controllo
soffice (soft control) che si occupa dello spazio-tempo
della deviazione – quella tra il momento in cui il
modello viene costruito attraverso il posizionamento dei
vincoli, della determinazione locale del comportamento
e il momento dell‟emergenza delle forme utili o
piacevoli che vengono selezionate attraverso l‟esercizio
di una pressione o individuate attraverso l‟elaborazione
di meccanismi di ricerca. Il controllo viene localizzato
ai due estremi del processo: all‟inizio, quando una serie
di regole locali viene messa insieme attentamente e
regolata con precisione: e alla fine quando viene creata
un meccanismo di ricerca o una serie di scopi ed
obiettivi atti a garantire la sopravvivenza della maggior
parte delle variazioni più utili o piacevoli. È in questa
grande cornice che dovremmo inquadrare la definizione
di network data da Kevin Kelly: «un‟organizzazione
strutturata così poco che si può dire quasi non
strutturata», ma anche «una di quelle poche strutture che
incorporano la dimensione temporale. Sono strutture
che rispettano il cambiamento interno. Dovremmo
aspettarci di vedere delle reti ovunque e, osservando dei
cambiamenti irregolari costanti, lo facciamo» (Kelly
1994, 27).
Genere e precarità
203
Non tutti i network possono reggere l‟interazione tra
questi grandi numeri, tra queste moltitudini in continua
variazione. Chi può farlo è il network «a maglia
variabile», una forma capace di accordare tutte le
variazioni e le loro mutazioni, una macchina astratta che
supera il modello per diventare il terreno effettivo dello
studio e della costruzione dei comportamenti complessi
e innovativi. Il network aperto è la realizzazione vasta e
globale di uno stato liquido che spinge fino ai limiti la
capacità dei meccanismi di controllo di costruire le
regole e selezionare gli scopi: «fare operare i
meccanismi genetici online aggira i pesanti limiti dei
meccanismi selettivi, ma porta le condizioni
sperimentali più vicine a veri agenti robotici autonomi»
(Steel in Brooks 2002, 8). La grande scoperta della
svolta biologica non è solo quella della macchina
astratta che può facilitare, contenere e sfruttare i poteri
creativi di una moltitudine (umana e non umana).
Riguarda anche l‟immensa produttività di una
moltitudine, la sua capacità assoluta di
deterritorializzarsi e di trasformarsi. Ciò che conferisce
alla svolta biologica il suo tono mistificato è la scoperta
di questa linea di fuga produttiva che viene associata
all‟imprevedibilità della zona mediana, ad una relativa
autonomia e creatività. Una linea di fuga decodificata e
liberata dai vincoli della programmazione sequenziale
quasi nel momento stesso in cui viene ricodificata e
riportata nei ranghi sotto forma di funzione di efficacia.
Nessuna di queste considerazioni ci allontana tuttavia
dal fatto che il controllo della produzione ha acquisito
un nuovo contenuto: non un semplice assemblaggio di
flussi informazionali e di feedback loops, ma una forza
spontaneamente produttiva ed autonoma, dotata di una
sua attività specifica che viene modellata e determinata
Genere e precarità
204
solo a certi livelli esercitando una pressione selettiva e
moderata. Tra il microdeterminismo locale e le funzioni
di efficacia trascendentali, scopriamo che il potere della
zona mediana può essere controllato solo parzialmente.
È questa zona mediana autonoma e produttiva,
posizionata tra la determinazione locale e la selezione
globale, che il concetto di «emergenza» cattura
parzialmente.
Una delle ragioni per le quali la modellizzazione
dell‟emergenza sembra essere importante è perché essa
offre una chiave per elaborare una modalità di controllo
che non richiede una conoscenza assoluta e totale di
tutti gli stati di ogni singolo componente del sistema o
una rigida semplificazione che regola esattamente e in
maniera sequenziale il comportamento. Questa nuova
modalità del controllo è «soffice», si applica con una
quantità minima di forza e modula «la specializzazione
con la creatività, a chiusura e la replicabilità con
l‟apertura indefinita e la sorpresa» (Cariani 1989, 775).
La macchina astratta del controllo soffice regola
precisamente le condizioni locali che permettono alle
macchine di rispondere alle richieste dei designer
migliorandone le soluzioni,contenendo allo stesso
tempo lo spazio della mutazione possibile. È per questa
ragione che il fondatore dell‟Istituto di Bioeconomia, ad
esempio, sostiene fiducioso la necessità di abbandonare
la dipendenza dalla fisica newtoniana da parte delle
scienze economiche:
laddove l‟economia mainstream è basata su
concetti presi a prestito dalla fisica newtoniana
classica, la bioeconomia prende spunto dagli
insegnamenti della moderna biologia
dell‟evoluzione. Laddove il pensiero ortodosso
Genere e precarità
205
descrive l‟economia come un motore statico e
prevedibile, la bioeconomia guarda
all‟economia come ad un‟ecosistema
informazionale auto-organizzato e caotico.
Laddove la visione tradizionale guarda alle
organizzazioni come a delle macchine
produttive, la bioeconomia guarda alle
organizzazioni come a degli organismi sociali
intelligenti. Laddove la strategia commerciale
tradizionale si sofferma sul capitale fisico, la
bioeconomia ritiene che l‟apprendimento è la
risorsa ultima del profitto e della crescita.5
Ci siamo abituati ad associare a tali affermazioni una
breve fase di euforia economica, ma le nozioni
dell‟auto-organizzazione dal basso di grandi numeri in
spazi fluidi rimangono ancora delle categorie centrali
per la nostra comprensione di un media come Internet.
A molti, infatti, lo strano comportamento di Internet,
specialmente la sua capacità di espandersi e di
trasformarsi senza alcun progetto e senza un
responsabile deputato al controllo centralizzato appare
misteriosamente naturale. Come medium e come
cultura, Internet appare a molti come la macroscopica
dimostrazione dell‟esistenza e della verosimiglianza di
forme organizzative acentriche e senza controllo che
rispecchiano alcune di quelle forme che riconosciamo
nel mondo naturale. Dopo tutto Internet si è sviluppato
principalmente come un‟attività parallela, frammentata
e localizzata al punto che, per Sadie Plant ad esempio,
può essere classificata come un medium auto-
organizzato dal basso (Plant 1996, 206).
5 Cfr. il sito dell‟Istituto di Bionomia: http://www.bionomics.org-
/text/institute/sop.html
Genere e precarità
206
La fama di John Gilmore, uno dei fondatori della
Electronic Frontier Foundation, è dovuta a quella
famosa frase a lui attribuita: «la rete interpreta la
censura come un danno e la aggira» (citato in Rheingold
1994, 7).
Questa frase contagiosa, un ritornello ricorrente della
cultura di Internet, è radicata in importanti
caratteristiche tecniche dello stesso medium e viene
garantita da una cultura socio-tecnica che enfatizza in
ugual misura le forme autonome e diffuse di
organizzazione del lavoro. La popolarità delle reti peer-
to-peer6, del software open source, o dei fenomeni più
attuali come i blog sono solo gli esempi più recenti di
ciò che a molti sembra essere la vitalità intrinseca di un
approccio parallelo e dal basso all‟organizzazione e alla
cultura. La popolarità delle reti peer-to-peer, del
software open source, o dei fenomeni più attuali come i
blog sono solo gli esempi più recenti di ciò che a molti
sembra essere la vitalità intrinseca di un approccio
parallelo e dal basso all‟organizzazione e alla cultura. Si
ritiene che questa spontaneità produttiva sia
intrinsecamente collegata all‟organizzazione diffusa e
decentralizzata di un grande numero di utenti
interconnessi e che essa sia anche una delle
caratteristiche di sistemi sociali, tecnici e naturali. Essa
presenta una produzione eccedente di cooperazione e
interazione che ha letteralmente provocato lo sviluppo
6 P2P: è un modello di comunicazione nel quale ciascuna delle parti ha le
stesse funzionalità e ognuna delle parti può iniziare la sessione di comunicazione, in contrasto con altri modelli come il server/client o il
master/slave. In alcuni casi, la comunicazione P2P viene implementata dando
ad ognuno dei nodi di comunicazione le funzionalità di server e client. Nel linguaggio corrente il termine peer-to-peer viene usato per descrivere le
applicazioni con le quali gli utenti possono, attraverso Internet, scambiarsi
direttamente files con altri utenti.
Genere e precarità
207
di nuove tecniche di controllo. Ciò forse implica che,
Internet come medium e come molteplicità culturale,
attraverso la sua struttura tecnica distribuita e dal basso
è riuscito a replicare alcune caratteristiche del mondo
naturale?
La descrizione di Internet come ecosistema popolato
dalla conoscenza, e come struttura sostanzialmente
auto-organizzata, era comune alla metà degli anni
novanta, quando autori neoliberisti e conservatori come
Alvin Toffler, George Gilder, Esther Dyson e Newt
Gingrich ripudiavano con forza la descrizione del
cyberspazio come «autostrada dell‟informazione»
coniata dall‟amministrazione Clinton. In Essere digitali,
Nicholas Negroponte, il popolare editorialista di Wired
e direttore del Media Lab dell‟MIT, pensava
ugualmente che Internet fosse un notevole
esempio di qualcosa che si è sviluppato
apparentemente senza alcun progettista,
mantenendo la propria forma nello stesso modo
in cui uno stormo di anatre mantiene la propria
(Negroponte 1996, 181).
Le polemiche su tali affermazioni hanno caratterizzato i
conflitti sull‟«ideologia californiana» nei primi anni
novanta, cioè quelle polemiche che contrapponevano il
tecno-utopismo degli imprenditori hippy californiani
alle obiezioni critiche dei sociologi e degli attivisti
culturali. La polemica sull‟auto-organizzazione e sulla
«naturalezza» di Internet divise le cyberculture degli
anni novanta secondo linee ideologiche nette. Tale
opposizione poteva essere possibile in un‟atmosfera in
cui scienziati sociali e umanisti si erano schierati a
favore di un costruttivismo sociale radicale, secondo il
quale il sociale non può essere assolutamente naturale.
Genere e precarità
208
Partendo dalla nozione per cui tutto ciò che è naturale è
immutabile e predeterminato, molti autori hanno
rifiutato l‟analogia tra Internet e i sistemi naturali sulla
base dell'idea (spesso giustificata) che tali affermazioni
implicano una specie di neo-darwinismo sociale. Dire
che Internet è naturale significava sanzionare i danni
causati dal capitalismo rampante del libero mercato
sulle «masse escluse».
Ma questo rifiuto intransigente e spesso veemente delle
«metafore naturali» e delle «analogie», come venivano
chiamate, non trascurava qualcosa? La nozione per cui
Internet presentava delle caratteristiche e dei
comportamenti che potevano essere anche osservati tra i
fenomeni naturali non era semplicemente un‟asserzione
volta a organizzare la percezione sociale di un nuovo
medium. Lo studio del comportamento naturale di
Internet, infatti, non è semplicemente un esercizio
retorico, ma è stato accompagnato da un movimento più
ampio che connette il sociale a componenti naturali e
tecnici. Come abbiamo visto, la svolta biologica non è
semplicemente un nuovo approccio alla computazione,
ma aspira anche ad offrire una tecnologia sociale di
controllo capace di spiegare e di riprodurre non solo il
comportamento collettivo di un network distribuito
come Internet, ma anche i modelli complessi e
imprevedibili del capitalismo informazionale
contemporaneo. Per questo la simulazione del
comportamento di «una moltitudine di azioni
simultanee» viene anche vista come la chiave per
comprendere non solo il comportamento dei mercati
borsistici ma anche quello degli «stili e delle mode»
(Taylor e Soffersero 1992, 8).
La svolta biologica sembra quindi allargarsi dalla
computazione verso un approccio più generale utile a
Genere e precarità
209
spiegare il comportamento dinamico di Internet, la
cultura della rete, i campi dell‟innovazione e dei mercati
«deregolamentati» contemporanei – tutte quelle
strutture sociali, tecniche ed economiche che sono
caratterizzate da un‟interazione distribuita e dinamica di
grandi numeri di elementi privi di controllo centrale.
Questi sistemi non sono privi di struttura o di forma, ma
sono minimamente strutturati o semi ordinati. Se i flussi
turbolenti dell‟informazione che derivano «da una
moltitudine di azioni simultanee non lineari» non sono
proprietà esclusive di Internet e delle economie di
mercato, ma possono essere osservate anche in una
molteplicità di fenomeni naturali, allora è abbastanza
appropriato che questo potenziale specifico del mondo
naturale debba diventare oggetto di un forte interesse
tecnico, culturale e economico. Il «business network»
dell‟Istituto della Complessità di Santa Fé, ad esempio,
riceve finanziamenti dalla Citibank/Citicorp, dalla
Coca-Cola, dalla Hewlett-Packard, dalla Intel, da
Interval, da John Deere, dalla Shell International B.V.,
da Xerox e da numerose società di consulenza
finanziaria.
Quasi dall‟inizio, l‟amministratore delegato di
Citibank/Citicorp si interessò al Santa Fé
Institute ed aiutò il programma dell‟istituto
volto a comprendere l‟economia mondiale
come un sistema complesso in evoluzione (Helreich 2000, 47).
Tutte le discussioni su Internet come fenomeno naturale
sembrano perciò essere connesse col problema della
riformulazione del controllo in termini che sono più
appropriati al comportamento di quelle nuove entità che,
come ha scritto Ilya Prigogine, la ricerca scientifica e
Genere e precarità
210
tecnologica contemporanea ha riscoperto dopo anni di
disinteresse: i sistemi aperti soggetti ad una grande
molteplicità di variabili semi-autonome. Sono due i
modi nei quali il controllo viene definito dal punto di
vista cibernetico: l‟opposto della razionalità meccanica
(la programmazione step-by-step), che è troppo rigida e
in definitiva troppo fragile per operare su un simile
terreno; e anche l‟antitesi al governo centralizzato che
presuppone una conoscenza completa di ogni singolo
componente del sistema generale, cosa impossibile da
raggiungere in questo tipo di strutture. Il taylorismo e la
governamentalità vengono entrambi rifiutati perché
ritenuti inadatti alla gestione di questo nuovo terreno
turbolento ma anche enormemente produttivo. Allo
stesso tempo, anche il controllo cibernetico, quello
associato alle prime ricerche di Norbert Wiener, viene
ripudiato. Non è più sufficiente neutralizzare tutti i
feedback positivi, cioè tutte le nuove variazioni e
mutazioni, allo scopo di riportare il sistema ad uno stato
di equilibrio (il controllo negativo alla fine viene
ritenuto inefficace per tenere a bada le forze del caos). I
sistemi aperti e produttivi studiati dalla svolta biologica
operano, per definizione, in condizioni lontane da ogni
equilibrio, sempre sospesi tra due strati o condizioni:
una rigida, immobile e in definitiva sterile, associata alla
permanenza e alla stasi; l‟altra caotica e turbolenta,
sempre sul punto di essere investita da trasformazioni
inattese e potenzialmente catastrofiche. Il problema
delle modalità contemporanee del controllo è quello di
dirigere le attività spontanee di tali sistemi verso livelli
che vengono ritenuti preferibili e desiderabili. Siamo
quindi giunti alla definizione di un nuovo piano
biopolitico che può essere organizzato con lo sviluppo
Genere e precarità
211
di un controllo immanente che opera direttamente nel
potere produttivo della moltitudine e del clinamen.
3. Il gene infelice
Sembra allora che la scienza delle moltitudini abbia
rinunciato definitivamente all‟individuo che viene
considerato un epifenomeno troppo grossolano e rigido
per essere qualcosa di più che un sottoprodotto
dell‟emergenza. Se esiste una macchina sociale astratta
del controllo soffice (soft control), essa parte dalla
produttività di una moltitudine acentrica e senza capi.
D‟altro canto potremmo dire dell‟individuo quello che
Michel Foucault diceva della famiglia nella sua analisi
della nascita della governamentalità nello stato
moderno. Parlando del nuovo ruolo della famiglia nella
governamentalità, Foucault sostiene che la famiglia
scompare come modello, ma viene mantenuta come
strumento di governo. Potremmo dire una cosa simile
sullo sviluppo del soft control. Il nuovo ruolo
dell‟individuo nella modalità immanente del controllo
non è quello di un modello per l‟organizzazione di una
moltitudine, ma di uno strumento che permette la
surcodificazione e il contenimento definitivo dei poteri
produttivi dei flussi. La decodificazione delle masse
nella cultura network, la dissoluzione dell‟individuo nei
poteri produttivi di una moltitudine, corrisponde ad una
sovra-codificazione della moltitudine nell‟elemento
individuale che è l‟unità del codice ricavato dalla
nozione biologica del gene.
Nella mescolanza dei saperi disciplinari creata dalla
computazione biologica, infatti, incontriamo la
controversa tesi di pensatori della socio-biologia come
Richard Dawkins, l‟autore del popolare bestseller
Genere e precarità
212
scientifico Il gene egoista. Per semplificare un po‟ la
ricerca di Dawkins, potremmo dire che lui pensa che le
variazioni delle popolazioni siano determinate dalla
condotta «egoista» dei geni individuali; questa condotta
egoista li obbliga a riprodursi a spese degli altri geni
competitori; il corpo umano, o l‟intero mondo della vita
organica e inorganica, è soltanto l‟insieme delle
periferiche attraverso le quali i geni egoisti cercano di
riprodursi e di proteggersi entrando in competizione gli
uni con gli altri in un ambiente caratterizzato da scarse
risorse. Dawkins stesso ha sperimentato la
computazione biologica (e ci ha scritto un libro,
L’orologiaio cieco).
Il concetto di gene egoista è fondamentale per la
computazione
biologica, e quindi è rilevante per la nostra
comprensione del controllo soffice (soft control).
Questa non è solo una questione di affinità ideologica
tra l‟ambiente maschile e bianco dei ricercatori della
vita artificiale (descritto da Stephen Helmreich) e la
prospettiva socio-biologica. Non si tratta di dimostrare
che la computazione biologica è stata influenzata dalla
socio-biologia quanto di sottolineare come esse
condividano un sentito apprezzamento della necessità di
suddividere in qualche modo il tessuto fluido di una
popolazione allo scopo di ricreare sintesi artificiali delle
capacità computazionali della vita naturale.
In questo senso, la ricerca socio-biologica di Dawkins
non informa quanto invece chiarifica le modalità
secondo le quali l‟individuo trova un nuovo ruolo da
giocare sul piano aperto dell‟emergenza. Dawkins
definisce il gene in termini computazionali:
Genere e precarità
213
il gene è una sequenza di lettere nucleotidi
comprese tra il simbolo di START e quello di
END e la codificazione di una catena proteica.
Ciò che caratterizza questa unità è la sua
capacità di riprodursi e di sopravvivere in una
grande quantità di copie individuali consecutive (Dawkins 1994, 26).
Non esiste alcuna misura fissa per tali unità: «sto
usando la parola gene per indicare un‟unità genetica
abbastanza piccola da durare per un grande numero di
generazioni e da essere distribuita nella forma di diverse
copie. Questa non è una definizione tipo “o tutto o
niente”, ma una specie di definizione a sfumare come
quella di “grande” o “vecchio”. Più è probabile che una
data porzione di cromosoma possa essere spezzata da
uno scambio o alterata da mutazioni di diversi tipi,
meno può ambire ad essere chiamata gene nel senso in
cui sto usando questo termine» (Dawkins 1994, 34-55).
Questa unità è dotata di una ristretta serie di capacità:
quella di replicarsi, dove il replicarsi è una specie di
mobilità dinamica, perché duplicandosi i geni tendono
anche a variare; la capacità di competere per
impadronirsi di risorse scarse; e la capacità di
cooperare, ma solo se la cooperazione si adatta agli
scopi egoistici del gene, cioè alla sua libertà di
replicarsi. Ciò che ho fatto è aver definito il gene come
unità che, ad un alto livello, si avvicina all‟ideale della
particella indivisibile. Un gene non è indivisibile, ma
viene diviso raramente. Ma è senza dubbio presente o
assente nel corpo di ogni dato individuo (Dawkins
1994).
Ciò che la teoria di Dawkins permette è la sostituzione
dell‟individuo con quell‟unità che Deleuze ha chiamato
il «dividuale», il risultato del «taglio» delle mutazioni
Genere e precarità
214
polimorfe e tuttavia indeterminate di una moltitudine
(Deleuze 1995). Dawkins è molto esplicito nel definire
l‟individuo come unità base inadeguata per le colossali
capacità computazionali che sono alla base del processo
evolutivo. Non è un problema di immortalità perché i
geni individuali o le unità del codice non sono
immortali; essi emergono in certi momenti dalle
interazioni chimiche presenti nel continuum turbolento
della materia-energia e moriranno un giorno, anche se la
durata media della loro esistenza può essere misurata in
migliaia e persino milioni di anni. I geni non sono
tuttavia degli individui ma unità nel senso che non
invecchiano, non sono mai giovani né vecchi, cioè non
sono soggetti alla seconda legge della termodinamica
che decreta che l‟organismo individuale è destinato a
morire e a decadere.
Sono due le cose che contano per le unità
informazionali: la capacità di riprodursi e di
sopravvivere nelle loro numerose copie, oppure il
fallimento del processo di riproduzione e quindi la loro
scomparsa. In questo senso, la vita di un‟unità
informazione è di tipo binario: non invecchia né
ringiovanisce; o esiste o non esiste; esso è un taglio nel
corpo della moltitudine che la rende più trattabile dal
punto di vista della replicabilità e della sintesi di un tipo
specifico di diagramma di controllo.
La definizione di gene data da Dawkins trova perciò la
sua migliore applicazione nella svolta biologica perché
definisce il gene per mezzo del taglio che attribuisce ad
un programma un inizio e una fine funzionali. Le
competenze computazionali dell‟unità-gene non
vengono costruite o attribuite da Dawkins al gene ma,
sulla base della conoscenza scientifica e della ricerca
contemporanea, è stato dimostrato che queste
Genere e precarità
215
competenze corrispondono ad alcune capacità delle
molecole genetiche. Tali competenze forniscono anche
il concetto base attraverso il quale la svolta biologica è
riuscita a trasformare queste idee in programmi software
funzionanti, capaci di produrre i propri fenomeni
emergenti.
In questo senso, l‟analisi del gene condotta da Dawkins
dimostra di essere veramente rilevante al fine di
modellare leggi naturali all‟interno di una macchina
tecnica. Se il gene è un‟unità di codice, che è
identificabile come ciò che giace tra due simboli, uno
che designa START e l‟altro END, allora esso può
essere facilmente codificato da un computer. Se si
scrivono parecchie unità di codice e le si lascia libere di
cercare la propria sopravvivenza attraverso la
replicazione, ad un certo punto esse manifesteranno
diversi gradi di comportamento emergente. Al livello
della simulazione, identificare un‟unità di codice con un
individuo permette di manipolare meglio e di aumentare
di molto la possibilità di determinare e di applicare le
regole locali al comportamento. L‟unità di codice
permette anche l‟identificazione delle unità che possono
essere ricompensate o punite, selezionate o rigettate. La
computazione biologica afferma che l‟organismo
limitato contiene sia il pre-individuale che il collettivo –
due livelli dell‟essere che sono infinitamente più
produttivi di quello individuale in quanto tale. Questi
livelli sono più produttivi perché non producono
termodinamicamente, come ad esempio l‟organismo,
che brucia calore e progressivamente giunge ad un lento
decadimento ed infine alla morte: come abbiamo visto,
le unità del codice sono mortali, ma non invecchiano.
Sono unità che possono anche non esistere, ma quando
esistono sono sempre potenzialmente produttive – anche
Genere e precarità
216
se non è facile determinare che cosa esse effettivamente
producano. La critica più diffusa alla teoria di Dawkins
da parte dei sociologi e dei teorici culturali è quella per
cui questa unità di codice viene qualificata come
«egoista», cioè viene sovrapposta ad una qualità che
appartiene a piani molto diversi dell‟organizzazione–
quelli dell‟apparato protestante-capitalistico della
soggettivazione.
Perché un‟unità di codice dovrebbe essere assoggettata
all‟universo morale del Bene e del Male dove
l‟«egoismo» e l‟«altruismo» trovano la loro
collocazione?
Nel passaggio dalla descrizione del gene come unità del
codice a quella meno convincente che ritrae il gene
come un «egoista», un «sindacalista» oppure come un
«gangster di Chicago», è accaduto qualcos‟altro. L‟unità
del codice che conosciamo come gene è tornata alla sua
dimensione individuale ed in questo modo ha assunto
gli attributi dell‟egoismo e dell‟altruismo, della
competizione e della cooperazione. La modalità di
esistenza di un gene egoista (l‟individuo) opposta a
quella del gene (l‟unità di codice, l‟algoritmo genetico)
è la distanza che separa la simulazione della vita
molecolare dall‟asussunzione dei poteri di una
moltitudine in una cultura network.
Se il gene è un‟unità di codice che realizza una
macchina computazionale, il gene egoista è la funzione
assoggettante che trasforma la moltitudine in un
assemblaggio di individui isolati. L‟egoismo del
soggetto del capitalismo informazionale ha poco a che
vedere con i geni veri e propri. Come ha ammesso lo
stesso Dawkins, i geni non possiedono «intenzionalità»,
ma obbediscono ad oscuri impulsi dettati da complesse
leggi chimiche. Senza intenzionalità allora non esiste
Genere e precarità
217
l‟Io e quindi nemmeno l‟egoismo. Ma la parola
«egoismo» tradisce tuttavia alcune delle modalità con le
quali i poteri sociali della moltitudine vengono sussunti.
L‟egoismo viene definito da Dawkins come la tensione
socio-biologica tra la competizione e la cooperazione –
dove il gene è una macchina calcolante che soppesa i
vantaggi derivanti dalla cooperazione o dalla
competizione per conquistare il premio della
sopravvivenza. Se il gene egoista è un soggetto è perché
pensa e può pensare solo due cose: in una situazione
particolare, accresco le mie possibilità di sopravvivenza
cooperando con le altre unità? Oppure faccio meglio a
preoccuparmi solo di me stesso e dei miei interessi
senza pensare agli altri? L‟egoismo rinchiude lo spazio
aperto della moltitudine nel buco nero
dell‟assoggettamento.
Il gene egoista è un diagramma elementare degli
apparati della soggettivazione che la macchina astratta
del controllo soffice (soft control) distribuisce e
perpetua non tanto tra le molecole quanto tra le
collettività. La televisione, medium culturalmente
sensibile qual‟è, è stata veloce nel raccogliere e
amplificare questi meccanismi in un modo che completa
la nostra analisi del soft control della svolta biologica. I
giochi della Tv dei reality come il Grande Fratello,
L’isola dei famosi e Amici drammatizzano le tensioni
schizoidi che emergono quando il soggetto viene
collocato in una macchina astratta che impone la
coesistenza di competizione e di collaborazione sotto
l‟egida dell‟egoismo. Si è molto parlato di come la new
economy abbia rovesciato la classica enfasi malthusiana
sulla scarsità delle risorse per promuovere la promessa
illimitata dell‟abbondanza nel campo digitale.
Genere e precarità
218
Nei giochi della Tv dei reality ritroviamo i contorni
delle forme peculiari della competizione post-scarsità, e
i loro impulsi psichici, che sono diffusi nelle culture
capitalistiche informazionali. In quanto format, i reality
possono essere visti come degli automi cellulari che
operano sussumendo un segmento dell‟audience
televisiva in uno spazio che è sia chiuso (una casa,
un‟isola) sia aperto (soggetto ai capricci delle
classifiche e dei voti popolari). Questi reality chiedono
l‟impossibile dai loro volenterosi partecipanti. Che
rinuncino ad esempio alla loro individualità essendo
forzati ad interagire continuamente con un gruppo che
deciderà sul loro destino (e per questo devono diventare
un‟unità pronta per la selezione); che rinuncino alla loro
opacità consegnandosi alla sorveglianza continua
dell‟occhio della telecamera; e, allo stesso tempo, gli
viene chiesto di resistere e di rafforzare la loro
individualità per partecipare alla struttura che elargisce
punizioni e premi durante il gioco. I reality richiedono
dunque un Io ridotto alla capacità di cooperare e di
competere seguendo rigorosamente le regole che
operano in un‟economia che elargisce punizioni e premi
i quali determinano la persistenza, o la scomparsa,
dell‟Io in quanto tale.
Le dinamiche di gruppo che vengono generate dalla
distribuzione dello spazio, la serie delle condizioni
iniziali, lo stato delle celle nel sistema (la
competizione), e le regole applicate da una entità
trascendentale (la voce del grande Fratello) producono
una specie di «intrattenimento emergente». Ad un
livello immediato, nei reality il premio viene assegnato
al singolo contendente che sarà capace di vincerlo. Ad
un livello più a lungo termine, il premio della
competizione è il flusso fluttuante, e mai scarso,
Genere e precarità
219
dell‟attenzione e della simpatia del pubblico che
dall‟esterno continua ad influenzare il gioco
spingendolo verso un‟instabilità claustrofobica. Franco
Berardi (Bifo) ha descritto accuratamente gli effetti di
queste pressioni contraddittorie sulle soggettività
informazionali in termini di «fabbrica dell‟infelicità»
(Berardi 2001).
È comprensibile allora che la ribellione contro la
struttura claustrofobica dell‟egoismo (con i suoi due
poli della competizione e della cooperazione) sia
esplicitamente caratterizzata dal rifiuto di essere
assoggettati come geni egoisti che lottano per la
sopravvivenza alle spese degli altri. Le aree culturali
della Rete che offrono più stimoli a proposito della
questione del controllo sono quelle che derivano dalla
scelta dell‟interazione chimica in rapporti di affinità e/o
di antagonismo in uno spazio che è radicalmente aperto
rispetto a quella che deriva dalla cooperazione/egoismo
tipico di una struttura soggettiva chiusa. Non l‟altruismo
contro l‟egoismo, ma relazioni di affinità e di
antagonismo (quindi un‟economia di relazioni
totalmente differenti) che sorvolano lo spazio
individuale senza ridurlo ad un‟unità, liberandone così
un potenziale trasformativo, ma anche potenzialmente
catastrofico.
Dal punto divisa della macchina astratta del controllo
soffice (soft control), non esiste alcuna differenza
ontologica tra la minaccia di una rete globale di
terroristi capace di portare attacchi devastanti al cuore
dell‟Impero e la minaccia di una rete globale di attivisti
anti-capitalisti (da qui le ricorrenti e contestate
insinuazioni, dopo l‟11 settembre, sull‟analogia tra il
movimento no global e quello terrorista), o tra il
comportamento tra soggetti connessi che si scambiano
Genere e precarità
220
file protetti da copyright senza pagare nelle reti peer-to-
peer. Non si può naturalmente sostenere che siano la
stessa cosa o che le sanzioni per questi due fenomeni
possano essere paragonabili, – i loro rispettivi potenziali
creativi e distruttivi devono essere valutati
diversamente. Ma dalla prospettiva di questa modalità di
controllo cibernetico essi esprimono aspetti diversi della
medesima rivolta: il rifiuto della condizione esistenziale
di convivere con un Io egoista denudato, dotato della
capacità intossicante di creare una moltitudine, ma
ricodificato nel buco nero claustrofobico della struttura
egoista (cooperazione/competizione). Dalla prospettiva
degli ingegneri del controllo queste deviazioni
costituiscono una minaccia perché rifiutano i vincoli
fondamentali del sistema, cioè la micro-modulazione
del dividuale. Queste deviazioni potrebbero andare fuori
controllo, dirigersi cioè verso un nuovo piano, le cui
conseguenze non solo non possono essere
predeterminate, ma potrebbero anche, un giorno,
dirigere brutalmente il gioco verso trasformazioni
catastrofiche. Esiste certamente una grande differenza
tra quei piccoli pezzi di codice che conosciamo come
algoritmi genetici e automi cellulari e la dinamica della
resistenza politica nelle società della rete – una
differenza che si attualizza nella divergenza e nella
turbolenza.
Il gene egoista, non è tuttavia solo una mera metafora, o
una moralizzazione della vita naturale o una
giustificazione ideologica della competizione assassina
che va in scena nell‟economia del libero mercato, ma in
maniera più insidiosa una tecnica. È una modalità di
sussunzione del valore prodotto da una cultura sempre
più interconnessa e interdipendente poiché questa
cultura è anche un‟industria– e quindi una modalità del
Genere e precarità
221
lavoro. In realtà, questo valore scambio e
dell‟equivalenza, nei testi dei post-operaisti italiani
viene abitualmente definito come «biopotere del lavoro»
– cioè un potere che crea e ricrea il mondo attraverso la
reinvenzione della vita. Nulla può essere più lontano e,
allo stesso tempo, più vicino ai modelli della
computazione biologica. Questo dice molto della posta
in gioco nel controllo, e nell‟emergenza, delle società
della rete.
4. Coda sul soft control
Se apriamo una finestra su un‟inchiesta critica e
un‟analisi concettuale della computazione biologica
oltre la critica decostruzionista, stiamo necessariamente
facendo il gioco del potere, quello di accettare la
naturalizzazione delle relazioni sociali? In un certo
senso sì, nella misura in cui è il gioco del potere che qui
identifica e decreta un‟indeterminazione del sociale e
del naturale nel continuum microfisico che nega
all‟umano lo stato ontologico dell‟eccezione.
D‟altra parte, oltre la facile retorica delle apologie neo-
liberali sull‟auto-organizzazione, il naturale che emerge
dalla computazione biologica è altrettanto artificiale
quanto lo è il sociale – e infatti è l‟artificialità del
naturale che viene rilevata e reinventata dal sociale. In
questo senso, la computazione biologica pone alla
cultura network più ampia due interessanti problemi. Da
una parte, ci sfida a pensare in che modo una certa
organizzazione distribuita possa diventare anche il
campo dello sviluppo di una nuova modalità del
controllo. Per questo motivo trasporta la nozione di
auto-regolazione e organizzazione dei grandi numeri
fuori da ogni panorama utopico e la pone saldamente
Genere e precarità
222
nell‟orizzonte di modalità emergenti di potere. In altre
parole, l‟auto-organizzazione non è incompatibile con il
controllo trascendentale o con la «fabbrica
dell‟infelicità» assemblati dal capitalismo
informazionale.
D‟altra parte, però, è affascinante pensare che la
computazione biologica e le scienze dell‟emergenza ci
offrono un modo per confrontarci con il concetto
politico di «moltitudine» oltre la tentazione di
ricostituire un nuovo, indefinito soggetto della storia. La
moltitudine di Michael Hardt e Toni Negri in Impero,
adottata dagli ambienti militanti della cultura della rete,
indica una modalità di militanza politica che si colloca
fuori dal modello maggioritario e rappresentativo delle
democrazie moderne e la relaziona alla ricomposizione
all‟interno dell‟esperienza di classe. Diversamente dalla
classe, la moltitudine non è radicata in una solida
formazione di classe o su una funzione di
soggettivazione (sebbene derivi anch‟essa da una
composizione di classe specifica). «Moltitudine» è un
concetto troppo indefinito per reggere un simile potere.
Per Franco Berardi (Bifo), «la nozione di moltitudine
descrive la tendenza alla dissoluzione, all‟entropia che è
diffusa in ogni sistema sociale e che rende impossibile
(«asintotico», indefinito e interminabile) il lavoro del
potere, ma anche quello dell‟organizzazione politica»
(Berardi 2002).
Come i campi lisci della computazione biologica, anche
la moltitudine è un termine necessariamente vago che
viene definito principalmente da una fluidità di
movimento e dalle formazioni che tale fluidità lascia
dietro di sé come risultato di un retro-effetto.
In sé la moltitudine non nega l‟esistenza di una
stratificazione identitaria come quella della classe, ma si
Genere e precarità
223
apre su una dimensione nella quale tali posizioni
vengono comprese in relazione ad altri tipi di capacità.
Se questo è il caso, allora la computazione biologica
(nel senso più ampio possibile) è un tentativo di
«de/programmare la moltitudine» – decodificare e
ricodificare il sociale al suo stato più fluido e meno
stratificato, ovunque esso sfugga alle costrizioni delle
rigide forme dell‟organizzazione, ma anche a quelle
dell‟identità e della classe. Oltre le applicazioni
semplificatrici, il modello dell‟automazione cellulare
potrebbe offrire molto a tutti i tentativi di pensare sia i
processi di auto-organizzazione dal basso che di
emergenza nella cultura network, sia il loro rapporto con
la riorganizzazione delle modalità capitalistiche di
produzione e dei potenziali politici che tale
riorganizzazione rimette in moto. De/programmare la
moltitudine è ancora un gioco aperto.
Post-scriptum sul neurone sociale (giugno 2011)
Nei sette anni intercorsi tra la prima scrittura di «Soft
Control» e la presente pubblicazione, molte cose sono
accadute. Dal punto di vista dei temi esplorati in questo
saggio, appare rilevante non solo la crisi del
neoliberalismo, che è anche la crisi, come è stato
sostenuto, del modello di misurazione del valore
prodotto dalla cooperazione della moltitudine, ma anche
la forza emergente delle piattaforme di social
networking che si apprestano a divenire il medium di
massa globale egemonico post-televisivo. Questi eventi
sono sicuramente in relazione con lo spostamento di
enfasi avvenuto nelle scienze delle complessità che
avevano fornito alla computazione biologica i modelli
matematici necessari alla simulazione della vita. Questo
Genere e precarità
224
spostamento va dalla cellula biologica qualunque alla
cellula neuronale, e quindi in generale dal
funzionamento della vita al funzionamento del cervello.
I nuovi modelli computazionali che vengono sviluppati
dalla new economy, inoltre, non hanno per contenuto più
semplicemente la capacità genetica della vita di
replicarsi e differenziarsi, ma le masse crescenti di dati
generati dall‟interazione sociale su Google, Facebook,
Twitter e così via. La continuità con il modello della
computazione biologica è data dalla centralità degli
algoritmi nel trattamento di questo tsunami di dati
sull‟interazione sociale, privatizzati dalle grandi aziende
del Web 2.0. Il valore prodotto dall‟algoritmo del web
sociale è, prevalentemente, il profilo dell‟utente su cui
basare il marketing individualizzato da vendere
all‟azienda interessata. Le forme del lavoro della new
economy si sono sempre più precarizzate in un contesto
in cui la risposta prevalente alla crisi è l‟inasprimento
della ricetta neoliberale, e quindi l‟ulteriore espansione
della precarizzazione della vita. Le reti sociali sono
diventate il medium della produzione e organizzazione
della rivolta a questo stato di cose.
In questo quadro, è ancora presto per capire in che
modo si evolveranno le nuove tecnologie di controllo
sociale, eppure possiamo già osservare un mutamento
sostanziale rispetto alla new economy della
computazione biologica. Il neurone e il cervello non si
lasciano sovradeterminare dal livello biologico. Gli
elementi neuronali che costituiscono una moltitudine in
movimento non producono semplicemente variazioni
economicamente valorizzabili, ma mobilitano quelle che
Gabriel Tarde oltre un secolo fa definiva le forze sociali
del cervello-memoria amplificate dalle tele tecnologie:
forza del credere e del desiderare che si realizzano
Genere e precarità
225
sempre in una relazione sociale, in una circolazione
infinita di idee, opinioni, credenze, desideri e bisogni
che si compongono e decompongono incessantemente,
producendo eccedenze che non solo non si lasciano
misurare dal mercato, ma addirittura vi si rivoltano
contro. Il passaggio dalla vita artificiale alla rete sociale,
dal gene al neurone apre la grande crisi del
neoliberalismo e la costruzione di nuovi modi di vivere
socialmente.
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Genere e precarità
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raccontarsi
Donne, Migrazioni e Precarietà Focus group tenutosi all’Università di Napoli
“l’Orientale”1
a cura di Manuela Coppola, Lidia Curti, Marie Helene Laforest,
Laura Fantone e Susanna Poole
Negli ultimi decenni, dal dopoguerra, l‟epoca e la
sensibilità postcoloniale si sono sviluppate di pari passo
con lo sgretolarsi degli stati nazione e l‟incremento di
rifugiati; dati dell‟Onu descrivono un aumento di
povertà tra le donne soprattutto nell‟epoca del
commercio globale. Le ondate migratorie sono cresciute
gradualmente dagli anni settanta, specialmente le grandi
migrazioni motivate da disparità economiche. Questi
ultimi flussi sono un fenomeno recente in Italia e
coinvolgono il paese solo da un paio di decenni poiché,
fino alla metà degli anni sessanta, era l‟Italia ad
esportare manodopera in altri paesi europei.
Nell‟Italia contemporanea, in cui si delineano
simultanei processi di immigrazione e de-
industrializzazione, una simile dinamica lega l‟odierna
1 Partecipanti al focus group: Nirmal Puwar (Feminist Review); Lidia Curti
(Orientale); Gaia Giuliani Università di Bologna); Enrica Capussotti (Istituto
Universitario Europeo); Igiaba Scego; Gabriella Kuruvilla (scrittrici, autrici
del volume collettaneo Pecore Nere, 2005); Marie-Hélène Laforest (Università l‟Orientale di Napoli); Manuela Coppola, Angela Bernal Laura
Fantone, Susanna Poole (Università l‟Orientale di Napoli); Julia Lagaskaia,
Wioleta Sardyko (FIsCAM CGIL); Jackie Andall (Bath University); Francesca Pozzi (Sconvegno), Manuela Galletto (Sconvegno); Sveva
Magaraggia (Sconvegno); Mariangela Orabona (video); Serena Guarracino
and Marta Cariello (traduzioni); Sonia Sabelli (ospite).
Genere e precarità
229
crisi dei diritti di cittadinanza e dello stato sociale
all‟arrivo di cittadini nuovi, non nativi. In questo
scenario ci interroghiamo sulle condizioni delle vite
migranti e femminili, cercando di evitare facili
vittimismi o un multiculturalismo superficiale, pur
affrontando le questioni dello sfruttamento e soprattutto
dei razzismi come pratiche quotidiane che stanno
prendendo forma nelle interazioni sociali, definendo una
microfisica del potere.
Dal punto di vista politico, la precarietà femminile
rappresenta il punto di partenza che ci permette di
immaginare una condivisione di voci e racconti. Nel
riconoscere le differenze tra esperienze e appartenenze,
proponiamo un dialogo per aprire uno spazio in cui
intendiamo condividere strategie e osservazioni sulle
complesse dinamiche dell‟Europa contemporanea, in cui
le disuguaglianze economiche, sociali e di diritti
demarcano fratture e distanze sempre maggiori tra
cittadini e non, bianchi e non, giovani e meno giovani,
mascolinità egemone e non, tra nord e sud.
Tuttavia, poiché l‟Italia è il luogo in cui vogliamo
circoscrivere la nostra ricerca, dobbiamo notare alcune
specificità spazio temporali che attraversano questo
contesto, complicando le analisi generali. Le differenze
tra nord e sud del Mediterraneo e dell‟Italia ci
interessano particolarmente, dato che nel meridione di
oggi le differenze di genere sono fortemente marcate
secondo dinamiche di potere tradizionali. Da queste
premesse discendono due domande: come queste
caratteristiche storiche e territoriali creano alcune
precondizioni dell‟accoglienza alle migranti? Quali
forme di ostilità e ospitalità si delineano nell‟Italia
contemporanea?
Genere e precarità
230
Nel delineare punti comuni che proponiamo per il
dialogo, non possiamo che partire dalla vita quotidiana,
cioè dagli spazi comuni alle donne che vivono nella
precarietà, per poi muoverci verso gli spazi discorsivi
che circondano e modellano le vite migranti e precarie.
La precarietà ci interessa come pratica fatta di strategie
identitarie attive, «cucite» insieme dalla creatività delle
donne. Questo lavoro di inventarsi per vivere negli
spazi del razzismo si articola attraverso la lingua e le
parole che narrano questa complessa esperienza. Il
nostro gruppo di discussione intende infatti coniugare i
nodi della precarietà e delle migrazioni alla luce degli
spazi della narrazione; partendo da questo punto, ci è
sembrato cruciale interrogarci sulla presenza e assenza
nel discorso pubblico delle voci di donne migranti.
Se le migranti tessono nuove identità traducendo e
creando legami nuovi, che spazi esistono per parlare di
questi processi? Quali storie diventano udibili nel
discorso pubblico? Quali altre restano sussurri privati?
Quali restano del tutto in silenzio? Chi riduce al silenzio
chi?
Spesso nel discorso pubblico si nomina il migrante
associandolo al pericolo, o alla vittima. In entrambi i
casi chi parla non è un soggetto femminile migrante. La
domanda cruciale della rappresentazione diventa quindi:
Chi parla per chi? Chi legittima chi, parlando o
scrivendo? A chi è permesso parlare? Perché si dà voce?
Per legittimare o per essere legittimati? Quando la voce
dell‟altro/a legittima la nostra voce? Quali sono i confini
del dare voce? Quali sono i limiti di un discorso
interculturale che ascolta solo chi interviene secondo le
modalità predefinite dall‟Occidente? Quando si ergono
barriere, più o meno consapevolmente, che si
trasformano in gerarchie, divisioni e razzismi?
Genere e precarità
231
Prendendo le mosse da questi interrogativi vorremmo
analizzare e sperimentare nel nostro incontro di
discussione la legittimità e le modalità del parlare
per/con/presso all‟altra o le altre. Al focus group di
Napoli hanno infatti partecipato donne migranti e
italiane coinvolte in modi diversi, personale e
professionale, culturale e artistico, con le esperienze
della migrazione femminile nell‟Italia meridionale
(alcune attive negli spazi istituzionali dedicati
all‟immigrazione, altre studiose di letteratura e critica
femminista e post-coloniale, altre ancora impegnate in
progetti artistici con le donne migranti in carcere).
Come interrogare e resistere i luoghi comuni sulla
migrazione come discorso?
Introduzione (di Lidia Curti)
Nel contesto specifico non si può che riferirsi alle
condizioni dell‟Italia meridionale come luogo che crea
dinamiche che legano genere e lavoro in modi differenti
che altrove. A Napoli, nel sud, c'è la memoria
dell‟emigrazione e quindi vi è una sorta di «simpatia»
verso i migranti, che si trasforma in pietismo e
vittimizzazione anche sotto la spinta della Chiesa
Cattolica. L‟immigrato rimane sempre lo straniero oggi,
estraneo al corpo politico.
Questo incontro vuole anche affrontare il tema della
migrazione e della precarietà come narrazione e
immaginario; la produzione discorsiva è quindi al centro
di questo focus group. La domanda chiave che ci
riguarda in quanto ospiti è: chi parla per chi? Noi, che
siamo la metà femminile, parliamo per l‟altra, cioè la
donna migrante. Eppure Igiaba e Gabriella ci
dimostrano come, per fortuna, ora anche l‟altra donna
Genere e precarità
232
abbia cominciato a parlare di sé. Secondo me è
necessario che le donne occidentali parlino accanto e
non «per o al di sopra delle» donne non occidentali.
Chandra Mohanty dice: «non commettiamo l‟errore di
Marx di aver creduto di poter parlare per la classe
operaia, e non permettiamo che “ci parlino” come
vittime».
1. Il viaggio e il sogno dell’Ovest
Manuela Coppola: comincerei con l‟affrontare i punti
che erano contenuti nel nostro documento. Viaggio
come necessità, desiderio e transito, dall‟origine
all‟arrivo: il problema è che spesso non ci si sente mai
arrivati, ma in eterna partenza. Questo, che potrebbe
essere definito «pendolarismo a lunga distanza»,
complica le categorie classiche. È anche importante
parlare di come si immagina la partenza prima che essa
abbia luogo. Come si negozia un‟esistenza sempre in
tensione tra desideri di partenza e previsione del ritorno.
Si tratta, infatti, anche di un viaggio nell‟altra lingua e
nell‟altra cultura, il viaggio può essere vissuto come
liberazione, o come rafforzamento delle limitazioni. C‟è
poi uno spazio per l‟autonarrazione, per l‟espressione
creativa.
Jackie Andall: in questi ultimi anni ci sono stati degli
enormi cambiamenti nelle migrazioni femminili in
Italia. Porto l‟esempio delle donne capoverdiane
all‟inizio degli anni novanta a Roma (migrazione tipica,
stanziale: erano arrivate negli anni settanta e si erano
fermate). Se penso alle donne dell‟est oggi si può invece
parlare di pendolarismo.
Genere e precarità
233
Wioleta Sardyko: la mia partenza è stata determinata
dalla curiosità: volevo conoscere l‟Italia, la mafia, come
si poteva viverla. Poi mi sono accorta, stando qui, che
era meglio non sapere. La maggior parte però non parte
per curiosità ma per necessità, e ciò dipende anche dalla
nazionalità. Le donne polacche sono privilegiate perché
hanno sempre potuto usufruire dei permessi per tre
mesi, e oggi e ancora più facile perché la Polonia è in
Europa. Per le donne moldave o ucraine è ben diverso,
perché sono costrette ad aspettare la sanatoria, un
decreto, è tutto incerto. Però il pendolarismo è sempre
pesante, penso all‟esperienza dei bambini abbandonati
dalla madre migrante per lungo tempo: si tratta di
rapporti «persi» che hanno bisogno di molto tempo per
essere recuperati.
Julia Lagaskaia: se parliamo dell‟est, sono proprio e
solo le donne a muoversi. Gli uomini sono un po'
parassiti di questa disponibilità. E questo porta ai
matrimoni che si spezzano, perché gli uomini non si
rendono conto dei sacrifici delle donne. Il trauma dei
bambini, del distacco è reale, e rimane a lungo. Va
meglio ai ragazzi più piccoli. Per i più grandi è un
problema soprattutto se la loro condizione di
«ricongiungimento» si intreccia con la crisi
adolescenziale. Soprattutto le ragazze non riescono a
vedere la misura del lecito e dell‟illecito (fino ad
arrivare al limite della prostituzione), e spesso vengono
rimandate dagli stessi genitori nei paesi d‟origine per
evitare questa sorta di «degrado».
Igiaba Scego: come somala posso dire che il viaggio è
nel nostro immaginario la soluzione di tutto. Partendo si
lasciano alle spalle dittatura, povertà. E così per sempre,
Genere e precarità
234
non ci si ferma mai, si cambiano paesi in continuazione.
Rispetto alla vostra domanda, io credo fortemente che si
debba creare lo spazio dell‟autonarrazione nel paese di
arrivo, ma nella mia comunità questo generalmente
manca per la contingente situazione storica di guerra,
cosi come manca nei media italiani che non ci
rappresentano.
Gabriella Kuruvilla: io sono indo-italiana. Il tema
degli immigrati di seconda generazione mi è molto
vicino. Quando parlo di viaggio penso a mio padre.
L‟abbandono della terra non è un‟addizione ma una
sottrazione. L‟altra patria è quella desiderata. Ma
l‟immigrato conosce soprattutto la patria che ha lasciato,
mentre i figli non la conoscono e dunque la idealizzano.
Io vivo una frattura culturale con la mia famiglia
paterna, data dal linguaggio, dalla storia: loro sono ciò
che io non sono diventata.
Julia Lagaskaia: perché tuo padre non ti ha insegnato
l‟indiano?
Gabriella Kuruvilla: sicuramente per facilitarci
l‟integrazione. Mio padre ha votato Lega lombarda per
tanti anni.
Marie-Hélène Laforest: trovo molto interessante
quanto detto finora. Mi viene da commentare con due
osservazioni: perché Gabriella si deve definire
immigrata di seconda generazione? é un termine
importato dagli Stati Uniti, ma é un ossimoro: una volta
che si é nati qui, non si è più immigrati. Il secondo
spunto viene dall‟idea che andare a cercare le proprie
radici, sembra essere un bisogno proporzionale al
Genere e precarità
235
razzismo che si trova nel paese di accoglienza. Se ci si
sente sempre stranieri è perché si viene visti tali dai
cittadini italiani, mi sento anche di poter ipotizzare che
la ricerca delle radici è più acuta per coloro che hanno i
tratti somatici non europei.
Angela Bernal: il discorso sulle seconde generazioni mi
ha colpito. Credo che non sia corretto o poco completo
pensare che le persone come Gabriella possano
recriminare contro i propri genitori, anche perché
Gabriella è figlia anche di una madre, e poi l‟incontro
tra i suoi è stato permesso dal viaggio del padre. Io sono
sudamericana: dalla sopraffazione del continente si sono
originate anche delle meraviglie. Ma quando soggiaci al
mistero e non hai gli strumenti per decodificarne gli
effetti, questo dà origine alla nostalgia del passato. E
rimango sconvolta dalle parole di Gabriella. Il passato è
immaginifico: non c‟é più relazione quotidiana, reale e
possibile con il proprio paese.
Gabriella Kuruvilla: in ciò che ho detto non c‟è
recriminazione. Parlavo dell‟abbandono completo delle
proprie origini attuato per potersi integrare. Forse è un
bisogno umano e primordiale. Ma credo che sia una
grande perdita abbandonare la duplicità della propria
identità. Il mio ritorno in India è il ritorno ad un paese
immaginato, che però mi risulta estraneo, impenetrabile.
Gaia Giuliani: qui mi pare che emergano dei
movimenti, dei transiti che coinvolgono differenze
culturali, di generazioni e di generi. Cioè, forse, il/la
migrante porta sempre con sé una doppia identità.
Genere e precarità
236
Enrica Capussotti: a me pare che emerga molto il
problema dell‟intersoggettività: oggi è importante fare
la storia del presente perché essa porti al confronto, e
alla possibilità di creare un ponte tra le identità. Gli
storici classici fanno fatica ad accettare questo. Eppure,
il continuo passaggio tra soggettività e posizionamenti è
molto importante. Partiamo dal colonialismo italiano:
oggi si deve fare i conti con il «nostro» colonialismo.
Nel mio Corso sull‟Italia contemporanea all‟università
mi occupo molto di razzismo europeo e di colonialismo
italiano, riscontrando interesse. Allora tento di creare
uno sguardo critico e riflessivo sull‟Italia di oggi,
caratterizzata dal fenomeno della migrazione.
Jackie Andall: dovremmo parlare delle condizioni e
delle caratteristiche particolari delle migrazioni in Italia
oggi. Qui ci sono tantissime nazionalità presenti, e
modelli molto diversi di integrazione, dati da condizioni
di partenza assolutamente disparate.
Per esempio, se diamo per scontato che le donne
migranti lavorano nel settore del lavoro di cura, ci
dobbiamo chiedere perché il centrosinistra e il
centrodestra proteggono tale tipologia professionale?
E per quanto riguarda la voce e il racconto, chiediamoci
quanto spazio c‟è per la narrazione e l‟autonarrazione?
Ultimamente sono usciti tantissimi libri, ma quali altri
spazi potrebbero essere disponibili?
Nirmal Puwar: penso alla migrazione come viaggio
immaginario e sogno. Durante il viaggio ci sono
processi di scontro tra identità, di creazione di ibridità e
nuovi modi di pensare il senso di appartenenza.
L‟ibridità non è sempre positiva: è una forma di
arricchimento ma è anche una perdita. Non è
Genere e precarità
237
sicuramente unidimensionale. La perdita è qualcosa a
cui dobbiamo sempre pensare, non è solo personale, ma
fa parte di una sfera politica e costituisce una sfera
d‟azione. Se qualcuno viene definito meridionale o
migrante o di seconda generazione e/o non solo italiano,
dobbiamo pensare agli spazi che rendiamo visibili in
queste definizioni: stiamo chiamando le persone così
perché sono migranti? Non è anche questo è un atto di
violenza simbolica? Queste persone potrebbero parlare
di molto altro… Bisognerebbe quindi, come dice Jackie,
trovare altri ambiti di narrazione.
2. Lavoro e corpo, cura e prostituzione
Laura Fantone: il lavoro e i corpi femminili (di vario
colore): tentativo di vedere ciò che sta sotto la soglia
della visibilità e della legalità. Ci interessava far
emergere questo aspetto non solo in riferimento alle
politiche, ma anche alla «razzializzazione» di questo
settore lavorativo. Vedi le donne dell‟est Europa
preferite alle donne di colore in Italia. Poi c‟è l‟aspetto
della «rottura», dell‟«irrompere» del corpo femminile
migrante negli spazi «intimi» e riconosciuti, come
quello domestico: perché questi corpi vengono
direttamente convogliati al lavoro di cura o alla
prostituzione? Che tipo di dialogo/oppressione esiste tra
donne migranti e donne native? Quali desideri e quali
timori caratterizzano questa relazione?
Julia Lagaskaia: per noi dell‟est è sempre una necessità
economica quella di immigrare. Nei nostri paesi c‟è più
presenza di un pensiero forte femminile che di un
pensiero forte maschile. Quando la donna emigra finisce
nel mercato delle “badanti”, o del bracciantato, o della
Genere e precarità
238
prostituzione. Nel lavoro a domicilio c‟è un elemento di
controllo e di oppressione molto forte. Esso porta subito
alla necessità di ubbidire ma anche, per reazione, alla
volontà di non assimilarsi completamente. Quindi si
configura come un lavoro difficile di negoziazione
quotidiana.
Gaia Giuliani: secondo me si deve pensare ad una
forma di agency femminile anche nella prostituzione e
nella tratta. Molte si trovano a negoziare le proprie vite
tra un tipo di maschilismo nei paesi dell‟est e un
«nuovo» maschilismo nei confronti delle migranti da
parte degli uomini italiani.
Julia Lagaskaia: sì, io penso alla (mia e di altre)
esperienza dei matrimoni misti. È molto comune che
siano uomini (bianchi) italiani e più anziani a sposare
donne migranti.
Wioleta Sardyko: sì, è vero che ci sono tendenze
generali, ma poi ognuno ha una storia propria, con le
sue emozioni e un suo percorso. E dunque non è facile
dare un unico punto di vista, anzi è impossibile. Non si
deve negare la forza delle donne migranti: quelle che
lasciano tutto e migrano diventano una fonte di reddito
per i familiari lasciati al paese d‟origine, ma
rappresentano una ricchezza anche per l‟Italia. Io sono
venuta e ho iniziato a fare le pulizie ed è stato umiliante.
Poi col tempo ho sviluppato meccanismi di autodifesa;
ora non mi vergogno del mio lavoro, faccio la
domestica, ogni tanto, come facessi la dirigente. Nel
frattempo lavoro per il sindacato, ho trovato spazi e reti
di solidarietà.
Genere e precarità
239
Sveva Magaraggia: come si distinguono le situazioni
economiche? Cioè, mi chiedo se per le migranti ci sia
molta differenza tra un reddito da prostituta, o un
reddito da barista o badante. Mi chiedo, se c‟è una
differenza forte, allora ci possono essere situazioni in
cui per una migrante è preferibile ricorrere alla
prostituzione per garantirsi un reddito migliore.
Wioleta Sardyko: se si parla di reddito delle prostitute
bisogna sempre ricordarsi che tutti i soldi che
guadagnano le prostitute non finiscono nelle loro tasche.
Solo quando sono passate ad altro lavoro e si sono
liberate dai protettori, possono decidere di tornare
liberamente alla prostituzione, ma possono essere
espulse proprio quando avessero iniziato un percorso di
integrazione.
Marie-Hélène Laforest: io ho seguito il lavoro di una
studentessa che aveva lavorato sulla tratta nel casertano.
Uno dei problemi delle ragazze nigeriane sembrava
essere causato dalla religione. Però non tutto era
riconducibile a quello, c‟era anche un elemento di
scelta. Dunque la religione, che è l‟aspetto più esotico,
spesso è sopravvalutato nella cultura italiana. C‟è da
chiedersi perché non si parli anche delle responsabilità
dei clienti italiani. Nella sua ricerca questa studentessa
voleva lavorare sui clienti ma non ce l‟ha fatta, nessuno
vuole darle informazioni su questo problema annoso.
Susanna Poole: io mi chiedo se la tratta in Italia si
svolge in modo diverso rispetto agli altri paesi. Come
s‟intreccia la mafia italiana con la tratta? Quanto conta
la moralità cattolica nella vittimizzazione e
nell‟aggiungere la condanna al peso psicologico che
Genere e precarità
240
devono sopportare le prostitute? Il problema dell‟Italia è
che i volontari (per lo più cattolici) e le persone di
«buona volontà» sono lasciate da sole e considerate
dallo Stato gli unici soggetti che possono e devono
intervenire.
Wioleta Sardyko: si, manca una continuità di progetti e
di servizi, non ci sono finanziamenti e gli operatori sono
lasciati a risolvere i problemi gravi da soli. Torno
all‟idea del rito vodoo. Anche io, all‟inizio non capivo
come questo rito potesse essere cosi pervasivo. Il fatto è
che tra le ragazze c‟è una paura di infrangere un qualche
patto, una sorta di promesso alla famiglia, alla società.
Io so di un caso in cui una mediatrice culturale si è
suicidata, dopo essere uscita dal giro della prostituzione;
stava facendo il corso per mediatrici ma non ha retto per
la paura di avere infranto il rito voodoo o altre
promesse, insomma non ha retto e le pressioni l‟hanno
portata ad uccidersi.
Marie-Hélène Laforest: non voglio negare l‟esistenza
del voodoo. Io ritengo più importante fare uno studio sui
clienti, affrontare elementi che oggi non vengono presi
in considerazione nelle ricerche. Ma non viene fatto.
Anche i tentativi di sanzione, come la legge che puniva i
clienti, sono stati subito delegittimati o aboliti.
Jackie Andall: io proporrei di tornare alla domanda
iniziale. Parliamo di lavoro di cura, domestico e di
sesso, per cercare di capire se ci sono cambiamenti nella
richieste e nelle pratiche quando parliamo di straniere.
Anche nel lavoro di cura ci sono stati cambiamenti,
«badanti» è un termine nuovo. Dobbiamo considerare le
caratteristiche di questo lavoro, che sono diverse e
Genere e precarità
241
specifiche. Le donne sono molto più isolate, i tempi di
lavoro cambiano più che non in altri settori come la
fabbrica o il commercio.
Il lavoro dei volontari cattolici e da discutere perché
problematico: ho saputo di casi in cui tiravano fuori le
donne dalla prostituzione e le preparavano per il lavoro
domestico, secondo uno schema moralistico che non le
emancipa veramente. Oltre al fatto che la differenza nel
reddito rende difficile per una donna ex-prostituta
accettare il fatto di dover fare cosi tante ore di pulizie
per guadagnare cosi poco!
Igiaba Scego: parlare di migranti significa parlare
anche di sacrifici, si sacrificano le relazioni con i propri
figli, li spediscono al collegio o al paese di origine. Nel
mio racconto un figlio cresciuto in Italia e poi spedito in
Somalia si suicida perche li c‟è la guerra civile. Anche
le donne non hanno molti rapporti con le persone
autoctone. Lo descrive bene il libro di Amara (Lakhous)
su una donna peruviana che ingrassa: ingurgitare cibo
diventa l‟unica libertà, l‟unico modo per sentire il
proprio corpo (questa cosa succede a molte donne
somale). Per quanto riguarda la questione della
prostituzione, so che molte donne somale finiscono
nello stereotipo cheap and clean. A forza di sentirsi dire
che si è così, si finisce per crederci e, forse, anche ad
accettare di fare le prostitute?
Laura Fantone: mi chiedo se Wioleta può dirci
qualcosa di più sugli aspetti psicologici del lavoro di
cura. Giornalisti e studiosi parlano del lavoro sul trauma
e della necessità di terapia per le prostitute o sex
workers, ma non per le migranti che hanno fatto lavoro
Genere e precarità
242
di cura. Si tratta sempre di controllo del corpo «altro»
da parte di chi paga il lavoro.
Sul tema delle leggi che dovrebbero aiutare le migranti
a uscire dalla prostituzione, anche nel caso in cui queste
donne escano dal giro e riescano ad ottenere il permesso
di soggiorno, questo meccanismo vincola la donna al
passaggio dal protettore uomo al protettore Stato.
Gaia Giuliani: mi pare utile affrontare il punto dello
Stato, come «istituzione della moralità», che quindi
associa prostituzione all‟immaginario di immoralità.
Similmente, nel lavoro di cura c‟è dietro la
privatizzazione e l‟erosione dello Stato sociale,
insomma lo Stato è il grande attore nascosto.
Wioleta Sardyko: io penso all‟Aticolo 18, che deve
preparare un programma di uscita dalla prostituzione e
di reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Il
passo più difficile per una donna è di ammettere di
fronte alla Questura che fa il lavoro di prostituta.
L‟interrogatorio che segue è durissimo: la polizia è
formata per farlo, ma non ha sensibilità. Insomma, non è
efficace, se la donna si trova da sola è molto probabile
che non ce la farà ad uscire dal suo percorso.
Per quanto riguarda il lavoro domestico: l‟assistenza
non ha limiti di tempo, poche famiglie assumono due
donne, una per il giorno e una per la notte. La maggior
parte fa tutta la giornata, e si passa dallo stress alla
depressione. L‟idea di dover comunque in qualche
modo sopravvivere e la paura di perdere il lavoro creano
dipendenza e passività. C‟è la precarietà e c‟è la
concorrenza delle altre, soprattutto qui a Napoli, dove
pochissime sono le persone regolarizzate.
Genere e precarità
243
Jackie Andall: il fenomeno del badantato è una nuova
forma di lavoro per il mercato italiano in particolare,
con l‟invecchiamento demografico. Ci vorrebbero
sempre almeno due persone per seguire gli anziani non
auto-sufficienti. Precarietà del lavoro domestico: se
vogliamo fare un paragone con il lavoro maschile,
quest‟ultimo è sempre stato quello più stabile. L‟anno
scorso, facendo interviste a donne capoverdiane a
Napoli, è emerso che tutto sta cambiando, la precarietà è
maggiore che in passato perché la presenza di nuovi
gruppi di migranti rende i diritti acquisiti continuamente
da rinegoziare.
Enrica Capussotti: il nodo forte è la divisione dei ruoli
sessuali in Italia oggi. Le donne italiane si sono
emancipate, fanno altri lavori, gli uomini italiani non
fanno del lavoro di cura, e dunque arrivano altre donne
a farlo. Ci sono vari piani che si intrecciano. Penso al
saggio di Emma Luz sulle donne occidentali
«trionfanti» perché portatrici dell‟emancipazione per le
donne migranti viste come «sottosviluppate». Ho
intervistato alcune donne italiane su come vedono le
migranti dell‟est, non solo badanti. Sono emersi tutti gli
stereotipi: le donne migranti sono più arretrate, più
docili, più femminili e perciò anche potenziali «ladre di
mariti». Esiste in Italia un immaginario ben preciso che
lega donne e prostituzione connesso al colonialismo.
Anche rispetto alle donne dell‟Europa dell‟est, esistono
film che fanno parte della cultura di massa italiana, cioè
esistono immaginari di rappresentazione coloniale, che
valgono anche per i Paesi che non sono stati colonizzati.
Per superare tutto ciò si deve attuare uno sforzo di
auto/riflessione da parte delle donne e degli uomini
Genere e precarità
244
italiani, per capire come si intrecciano tutti questi
rapporti di potere sui corpi delle persone.
3. Spazi e luoghi di incontro/non incontro
Marie-Hélène Laforest: Oggi le politiche europee e
nazionali messe in campo non possono più definirsi di
accoglienza ma di resistenza all‟immigrazione. Questo
cambiamento di rotta limita fortemente non solo
l‟ingresso ai migranti, ma condiziona la vita delle
persone che già risiedono in Europa. L‟impostazione
governativa sulla questione immigrazione si riflette
anche sugli atteggiamenti dei cittadini verso gli
immigranti: non ci si avvicina al migrante, lo si
sopporta, si socializza solo nel rapporto uomo/giovane
donna. I luoghi di incontro fra italiani e nuovi migranti
sono pochi. In ogni caso sono spazi separati: per
esempio cineforum «solo per immigrati». Mi chiedo
talvolta se la segregazione è anche causata dai modelli
televisivi americani.
L‟Italia (che fino al 1963 esportava mano d‟opera), ha
una responsabilità forte nel quadro europeo: poiché è fra
gli ultimi paesi a aver ricevuto mano d‟opera
dall‟estero, avrebbe potuto guardare alle politiche
fallimentari degli altri paesi europei e scegliere di
applicare quelle valide. Invece non lo si è fatto e la
situazione odierna è drammatica. Nel sud inoltre c‟è un
alto tasso di disoccupazione, e questa porta a legami con
l‟illegalità: più lavoro nero, maggior popolazione
immigrata illegale.
Se guardiamo al caso delle donne migranti: la richiesta
di badanti nel sud fa parte di una politica statale
specifica di risparmio per la cura degli anziani. Rispetto
agli altri paesi, quindi, non sono solo le famiglie
Genere e precarità
245
abbienti ad avere delle badanti in casa. L‟altra questione
riguarda l‟alloggio: quando le immigrate cercano
alloggio, lo trovano solo nelle zone periferiche. Sono
allora le famiglie italiane meno abbienti a dover
«sopportare il peso» dell‟immigrazione?
Susanna Poole: io credo che il problema chiave sia
proprio la mancanza da parte della società e dello Stato
italiano di una politica multi o inter-culturale, che
determina il fatto che non esistano spazi istituzionali in
cui praticare l‟incontro. La presenza è resa nascosta: è
come se la città non fosse profondamente modificata
dalla presenza dei migranti. È vero che a Napoli non ci
sono luoghi in cui stare insieme: solo gli spazi aperti, di
cui si appropriano i migranti, spazi in cui i napoletani
non si fermano, come la stazione dove si incontrano le
donne dell‟ex-blocco sovietico. È come se la comunità
si autoproteggessero, si cercassero per parlare la lingua
materna, o quantomeno per stare insieme indisturbate.
Lo stesso vale per la galleria Umberto I per le donne
eritree e somale, o per i giardini antistanti il Maschio
Angioino. La città non offre spazi veri o propri di
comunità, come invece esistono in Inghilterra.
Marie-Hélène Laforest: vorrei mettere in discussione
l‟idea che lo Stato debba creare luoghi ad hoc. Perché i
migranti non possono andare al cinema, perché non
possono sedersi nei caffé? In fondo dovrebbero essere
accettati come tutti…
Igiaba Scego: è vero ma se pensiamo che il cinema
costa 7 euro e 50, allora é ovvio che il discorso é più
legato al reddito e alla possibilità di avere tempo libero.
Poi sì, ci sono barriere dovute alla diffidenza che
Genere e precarità
246
devono essere abbattute. Io ho lavorato ad un
laboratorio di scrittura con i ragazzi «G2», cioè delle
seconde generazioni. E loro mi dicono che sentono la
diffidenza degli italiani, quindi spesso hanno
atteggiamenti di chiusura.
Nirmal Puwar: io posso dirvi, vivendo in Inghilterra,
che non è poi vero che ci sono molti di questi spazi di
socialità, ma sono stati creati dagli immigrati (prima
erano case private, poi si sono affittate dagli anni
sessanta sale da ballo, poi c‟é stato l‟acquisto di cinema
dismessi): è ben diverso creare un‟aggregazione
dall‟averla garantita a priori. Per quanto riguarda i
luoghi di socializzazione dei nativi, ci sono due ordini di
problemi: quello monetario e quello della stanchezza di
apparire in pubblico per poi essere sempre considerati
diversi, come altri o nuovi immigrati. Jackie ci può
parlare, ad esempio, del carnevale a Londra e di come è
cambiato negli anni.
Jackie Andall: gli spazi per esprimersi pubblicamente
sono stati conquistati. Soprattutto negli anni settanta
l‟aggregazione nera o tra migranti era considerata
pericolosa, così anche il carnevale era controverso.
L‟anno scorso poi addirittura c‟è stato un carnevale
caraibico indipendente e uno diverso, quello ufficiale,
organizzato dal sindaco!
Susanna Poole: capisco, ma rispetto alla situazione
italiana è comunque un po‟ meglio, dato che in
Inghilterra si producono e si finanziano forme di
produzione culturale delle minoranze. Noi oggi abbiamo
un governo profondamente razzista. Le comunicazioni
si riferiscono solo ed esclusivamente agli italiani e non
Genere e precarità
247
c‟è il riconoscimento della presenza degli stranieri sul
territorio. Non dico che lo Stato debba dare la voce ai
migranti, ma neppure negarla attivamente.
Jackie Andall: il razzismo prende la seguente forma: i
migranti ci devono essere per lavorare, ma non devono
attraversare o abitare lo spazio pubblico.
Sveva Magaraggia: mi viene in mente un paragone,
magari azzardato con il mondo gay e lesbico milanese.
Inizialmente si sono aperti e creati degli spazi, con
difficoltà e lotte, si trattava di spazi necessariamente
separati, utili a creare comunità. In seguito è stato
possibile aver maggiore apertura al mercato, cioè molti
luoghi prima esclusivamente LGBT sono diventati più
accessibili a tutti. Solo in questa seconda fase, dunque, è
arrivato il riconoscimento istituzionale.
Gabriella Kuruvilla: io penso anche alla similitudine
con i centri sociali di Milano, che sono diventati luoghi
di incontro a livelli diversi, tra nativi e migranti, di
entrambi i sessi. Però poi si ripropongono in piccolo gli
stessi stereotipi dominanti sui neri, sulle donne, ecc.
Igiaba Scego: Quando mi trovo negli spazi pubblici,
come alla stazione, non mi sento straniera. Ci sono altri
come me. Poi ci sono le chat e i forum, che sono nuovi
modi di socializzazione.
Wioleta Sardyko: vi porto l‟esempio locale di due feste
organizzate dal Comune a Napoli, una per
l‟Indipendenza del Senegal, e l‟altra che si chiama «il
festival dei popoli». Nel rapporto tra donne italiane e
donne straniere, le seconde lavorano sempre e non
Genere e precarità
248
hanno il tempo materiale per costruire rapporti di
amicizia con le italiane. Dunque utilizzano solo quei
pochi spazi «tra connazionali». I rapporti intradomestici
tra migranti e italiane sono poi veramente complicati:
c‟è la gelosia delle madri o la gelosia dei figli/e rispetto
al rapporto delle badanti con gli anziani.
Laura Fantone: allora quali strategie esistono oggi, in
Italia, per uscire dall‟invisibilità?
Wioleta Sardyko: forse l‟unica prospettiva, e non dico
che sia la migliore, è la partecipazione politica con dei
portavoce, per avere maggiore visibilità.
Igiaba Scego: Wioleta ha accennato alla rappresentanza
ma io ho molto dubbi al proposito: al Campidoglio a
Roma abbiamo appena eletto i nostri rappresentanti, e la
maggior parte di essi sono persone dal passato un po‟
torbido e non rappresentativi o stimati da tutti noi.
Credo che tale concetto di comunità e di rappresentanza
sia un po‟ ambiguo e pericoloso. Per quanto riguarda i
somali non esiste una comunità, ci sono state e ci sono
ancora troppe guerre tribali. Le collette si fanno quasi
esclusivamente su base tribale.
Nirmal Puwar: c‟è la tendenza a riprodurre una
categorizzazione nazionale quando lo Stato ospite
individua le comunità migranti. Si impone il modello
nazionale a prescindere dalla loro divisione. Sarebbe
forse più utile focalizzarsi sulle problematiche che i
migranti affrontano, non tanto sulla leadership etnica. Io
personalmente non mi riconosco in nessuno dei leader
della mia comunità.
Genere e precarità
249
Gabriella Kuruvilla: la parola comunità mi fa molta
paura, essa può trasformarsi in nazione nella nazione,
luoghi dove si può essere una cosa vera, avere
un‟identità precisa, che esiste soprattutto perché non si
può avere questa identità altrove.
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Genere e precarità
252
raccontarsi
Il «lato B» della precarietà
a cura del Gruppo Sconvegno1
1. Le nostre vite nel 2011
Betta
Ho rincorso a perdifiato l‟ultimo treno e nel 2006 sono
riuscita a saltarci sopra: ora ho un posto fisso, come
bibliotecaria, all‟università che (finché resta pubblica!)
dà una certa sicurezza: stipendio a fine mese e cartellino
da timbrare tutti i giorni. Resisto al grigiore. Mi muovo
nel locale: sono tornata in provincia per la qualità della
vita, soprattutto quella di mia figlia, e perché credo
sempre più profondamente nella decentralizzazione e
nell‟autogestione.
Chiara L.
Precaria a 345°, lavorativamente infatti oggi non lo
sono. Lavoro in una realtà autogestita e, per la prima
volta, non sono precaria, ma qualcosa non mi torna. C‟è
una contropartita che non focalizzo bene, forse è la mia
soggettività cristallizzata in un‟appartenenza,
un‟identificazione totalizzante. Oggi in me riemerge,
con sempre più forza e urgenza, il nodo
dell‟emanciparsi dal lavoro. Oggi, proprio oggi, in cui il
lavoro potrebbe cominciare a darmi sicurezza e forse
anche identità; ed è questo che non vorrei. La mia
soggettività eccede, straborda da tutte le parti.
1 Il gruppo Sconvegno esiste dal 2001 ed è composto da Manuela Galetto,
Chiara Lasala, Sveva Magaraggia, Chiara Martucci, Elisabetta Onori e
Francesca Pozzi; nei primi anni ne ha fatto parte anche Eleonora Cirant.
Genere e precarità
253
Chiara M.
Disoccupata di lusso o free lance della ricerca? Da
quando ho finito il dottorato tre anni fa, vivo di
marchette piccole e grandi nell‟area del lavoro
intellettuale: articoli da scrivere, libri da recensire,
questionari da somministrare, lezioni e interventi da
preparare, ricerche e ricerchine. Il tutto a titolo spesso
gratuito, al di fuori di ogni circuito consolidato e di ogni
prospettiva conosciuta. A 38 anni, continuo a «surfare il
presente» e a guadagnare circa mille euro al mese,
consapevole del corpo che si trasforma e dei limiti che
segnala. Cerco un senso di me al di fuori e al di sopra
del lavoro. Primum vivere!
Francesca
Insegnante precaria presso un centro di formazione
professionale, alle prese con un branco di ragazzini
pieni di pregiudizi e paure, ma in crescita,
potenzialmente in trasformazione. Ricercatrice precaria
fuori e dentro l‟università, continuo a navigare a vista,
ma con sempre più fatica e con la consapevolezza del
tempo che passa, e continuo a chiedermi: ma... cosa
voglio dalla mia vita?
Manuela
Negli ultimi dieci anni ho cambiato città tre volte, finito
un dottorato, avuto un bambino. Un anno e mezzo fa,
con marito e figlio, ci siamo trasferiti da Milano
all‟Inghilterra. Qui lavoro come ricercatrice (a termine)
e sono diventata la female bread winner. Mi interrogo
sugli strumenti a disposizione per risolvere i nodi della
conciliazione tra il lavoro e la cosiddetta vita privata
Genere e precarità
254
mentre continuo a fare i conti con un «dopo»
costantemente incerto.
Sveva
Il mutamento lavorativo di questi ultimi cinque anni è
stato così travolgente da non aver risparmiato le altre
sfere della mia vita. Ho cambiato ufficio, sono «salita»
di piano, sono passata dall‟altra parte della cattedra.
Salendo si percepiscono sempre più gli scossoni, una
possibile caduta implica sempre più dolori. Ho smarrito
la bussola della relazione d‟amore ad oggi più
importante della mia vita, mi son trovata a rimettere in
discussione aspetti di me che davo per definiti. La
trasformazione è arginabile o è un processo che si nutre
di se stesso e diventa inarrestabile?
2. Il gruppo nel 2011: la lontananza sai...
Sono passati circa otto anni dal nostro primo
esperimento di autoinchiesta, pubblicato nel
monografico dedicato al «Divenire Donna della
Politica» (Gruppo Sconvegno 2003); ne è seguito poi un
secondo nel 2006 dal titolo «LCM:::
Lavoratori/Lavoratrici contrattualmente modificabili»
(Gruppo Sconvegno 2006) in cui la precarietà, nucleo
della nostra riflessione, dal piano strettamente
lavorativo si è definitivamente trasferita in quello delle
nostre esistenze. Fino al 2008 abbiamo continuato a
vederci con costanza e a lavorare insieme ma negli
ultimi anni incontrarci è stato sempre più difficile; ci
siamo dette più volte che avremmo dovuto e voluto
cominciare un terzo giro di autoinchiesta per dotarci di
una nuova «cassetta degli attrezzi», ma non ci siamo
riuscite.
Genere e precarità
255
Le ragioni di questa impasse ci risultano ora più che mai
evidenti: da un lato le scadenze e le priorità nell‟agenda
politica hanno fagocitato la nostra attenzione (anche in
termini di produzione di scritti e di interventi nel
dibattito pubblico); dall‟altro hanno assunto un ruolo
determinante il vorticoso accrescersi del ritmo delle
nostre esistenze produttive, le scelte di vita e la sempre
più vischiosa gestione della quotidianità, che ci sottrae
tempo ed energie per riflettere e stare insieme. Come
donne ormai tra i 34 e 38 anni, dopo dieci anni di lavori
e di vita precaria, infatti, ci siamo trovate costrette ad
affrontare alcuni nodi prioritari nelle nostre esistenze
reali. Alcune di noi hanno avuto un figlio, altre hanno
cambiato più volte lavoro, città o nazione; tutte, in modi
e tempi diversi, abbiamo affrontato separazioni, nuovi
incontri, malattie.
In questi ultimi tre anni, da Resisting the tides2
(Gruppo
Sconvegno 2009) in poi, abbiamo assistito impotenti,
ma non passive, al degenerare del berlusconismo fino al
parossismo, all‟incapacità delle opposizioni di proporre
possibilità alternative e al peggioramento delle nostre
condizioni di lavoro e di vita, mentre sullo sfondo, a
livello globale, si stava consumando un vero e proprio
«tsunami finanziario». Ci siamo interrogate sul perché
non fossimo in grado di re-agire insieme in maniera
forte e radicale. Ogni volta in cui ci siamo viste,
abbiamo raccolto parole e appunti che restano un unico
grande blob ricco di spunti e suggestioni.
Non siamo state in grado di sistematizzare il mare
magnum dei nostri pensieri e ci siamo rese conto di
essere in una fase di afasia. La difficoltà di «dire e
2 Si tratta di un articolo che abbiamo scritto per una pubblicazione inglese
dedicata alle forme di resistenza al berlusconismo in Italia negli anni tra il
2001 e il 2006.
Genere e precarità
256
scrivere» ha coinciso con la difficoltà di «pensare», per
non dire di «realizzare», alternative concrete in questa
fase storica reazionaria che toglie linfa e spinge verso il
disfattismo. Con questo non cerchiamo scuse o
giustificazioni, né per noi né per tutta la massa critica
che ancora esiste in questo paese e che agisce in forme e
modi diversi, ma solo di tenere i due piani (micro e
macro) insieme, perché abbiamo sempre rivendicato la
complessità come nostro orizzonte di riferimento.
Restiamo attente ai mutamenti soggettivi e alle forme di
resistenza quotidiana perché è lì che cova lo slancio
verso il cambiamento possibile.
Coltiviamo, infatti, per tutte e per ciascuna, l‟esigenza
profonda di mantenere uno spazio di elaborazione e di
confronto collettivo per provare a cambiare le carte in
tavola, quanto meno le nostre.
3. Giovani donne al lavoro: avvertenze per l’uso
Dieci anni fa, abitando il punto di osservazione di una
generazione «scollinante»3, indagavamo le ambivalenze
della precarietà alla ricerca di possibili spazi di
trasformazione. Quello che possiamo raccontare oggi,
dopo alcuni anni di esperienze e riflessioni, è il «lato B»
della precarietà: quello che abbiamo capito, quello che
non ci torna e quello che ci si è ritorto contro. Un po‟
per uscire dalla sensazione di ricominciare ogni volta da
capo e un po‟ per passare la staffetta, abbiamo
identificato alcuni nodi in cui la femminilizzazione e la
precarizzazione del lavoro – due fenomeni che spesso si
sovrappongono, senza però coincidere – si intrecciano,
3 Una generazione, cioè, che si è formata con un immaginario fordista
rispetto alle aspettative di vita e lavoro, ed invece cresciuta nella fase di
destrutturazione di quel paradigma socio-economico.
Genere e precarità
257
creando nuove ambivalenze o rafforzando antichi
paradossi per noi «giovani donne al lavoro».
3.1. «Complesso della dea» e limiti del corpo
Lo stato adrenalinico tipico della precarietà – tenuto
attivo dalle continue deadline, o dalla ricerca di un
nuovo committente per ovviare all‟assenza di deadline –
produce una sindrome molto pericolosa che potremmo
definire il «complesso della dea».
Sei pervasa dall‟assurda convinzione di poter
far tutto: imparare ad usare un programma di
analisi dati in 24 ore, leggere e recensire un
libro di seicento pagine in un giorno, andare a
trovare la nonna in ospedale e la sera anche
uscire a ballare.
Tale convinzione è supportata dal fatto di essere sempre
riuscite a gestire contemporaneamente lavori diversi,
contesti professionali differenti, ma anche ambiti
familiari ed amicali che richiedono una componente di
cura. Questo talento «tipicamente femminile» per il
multi-tasking crea l‟illusione di poter gestire anche i
limiti fisici del nostro corpo come se fossimo dotate di
super poteri. Ci si scontra poi, però, brutalmente con la
materialità di quel corpo che comunica i suoi limiti con
segnali inequivocabili ed ineludibili: flebiti, torcicolli
invalidanti, dermatiti urticanti, ecc.
Il «complesso della dea» ignora non solo i limiti fisici
del corpo, ma anche la fatica mentale richiesta dalla
precarietà. Continuare a cambiare luogo, contesto,
contenuto di lavoro richiede capacità specifiche che nel
tempo comportano uno stress mentale ed emotivo
perenne: perché ricominciare sempre vuol dire
Genere e precarità
258
ricostruirsi in continuazione. Anche in questo caso, è il
corpo a mandare segnali chiari di disagio: depressione,
ansia, dipendenze varie... Fino a che, come è successo
ad una di noi,
alla fine mi sono ammalata. Prima mi è venuta
una flebite che mi ha costretto all‟immobilità
per quindici giorni, e lì sì che mi sono dovuta
fermare, fermare veramente! Poi, appena
passata l‟infiammazione della safena, sono stata
stroncata da una forte tendinite che,
nuovamente, mi ha confinata in casa per un
lungo periodo! Ho reagito male inizialmente,
non mi sembrava vero, all‟improvviso non
riuscivo a fare tutto ciò che avevo in agenda e
avevo anche bisogno di un consistente aiuto per
fare la spesa! Poi ho capito: il corpo si era
prepotentemente imposto tra una scadenza e
l‟altra.
3.2. Alienazione relazionale
Alcuni degli aspetti peculiari del fenomeno della
femminilizzazione del lavoro – per esemplificare, la
richiesta di capacità relazionali, informali, di problem
solving e competenze di cura – combinate con
condizioni lavorative perennemente precarie, hanno
prodotto, nelle nostre esperienze, alcune nuove forme di
alienazione, che potremmo definire tipicamente
relazionali.
Una prima forma di alienazione relazionale si evidenzia
poiché le energie psicofisiche di cui si nutrono e si
sostanziano le relazioni – ormai indispensabili in campo
professionale – vengono messe tutte nel/al lavoro e il
Genere e precarità
259
tempo e il desiderio di vita ne vengono fagocitati.
Diventa, così, estremamente faticoso investire energie
relazionali nella dimensione della socialità al di fuori
del lavoro, che rischia di venire seriamente
compromessa dal punto di vista della sua qualità e
intensità. Le parole di una di noi descrivono bene questa
forma di alienazione:
le capacità relazionali messe al lavoro. Già... E
come sei brava! Lo senti, ti viene riconosciuto,
ti soddisfa. Sì, tutto il giorno in relazione con
l‟altr@. Poi arrivi a casa la sera trascinandoti,
con l‟unico pensiero di chiudere quella porta
dietro di te e chiudere con il mondo, lasciarlo
fuori. Lo fai, arrivi a casa, chiudi la porta e...
non hai più energie! Vorresti fermarti, pensare,
immaginare, sentire le persone a cui vuoi bene.
Perché ora hai capito che sono quelle che nella
precarietà a 360 gradi ti danno sicurezza.
Vorresti chiacchierare anche per toglierti quella
strana sensazione che ti si sta lentamente
spegnendo il cervello. Ma, alla fine, molto
spesso riesci solo a fare qualche telefonata,
quelle «di base», quelle un po‟ di routine ... È
alienazione? Ogni tanto ti guardi e cerchi di
resistere, tieni con le unghie quei momenti che
ti sei riservata per fermarti e pensare, per
goderti le tue relazioni, quelle che ti rigenerano
non quelle che ti succhiano energie senza darti
nulla in cambio.
Una seconda forma di alienazione relazionale ha a che
vedere con il piano di informalità e promiscuità
relazionale che spesso si crea sul lavoro quando è
precario, ovvero definito da forme contrattuali
Genere e precarità
260
temporanee, che in genere non identificano chiaramente
ruoli e gerarchie.
Quando accetti un lavoro «a progetto», ti viene
riconosciuta generalmente una retribuzione
forfettaria a fronte di una prestazione finale
generica, vincolata alla consegna di un prodotto
finito. Solitamente ti trovi poi coinvolta in una
contrattazione individuale e continua con la
committenza, che aggiunge o modifica tempi ed
obiettivi, senza che spesso esistano margini
reali per poter entrare in conflitto. Se, in questo
percorso ad ostacoli, dovendo incastrare e
combinare diversi lavori e incarichi, decidi di
dividere compiti e compensi con un/a amico/a
precario/a, succede sovente che ti trovi
coinvolta in una contrattazione continua e
individuale anche con l‟amico/a, senza che
esistano criteri condivisi per gestirla.
Nell‟autogestione del lavoro tra precari/e,
quando il piano informale dell‟amicizia si
scontra con il piano formale del lavoro, tutto
diventa scivoloso. Si devono individuare nuovi
criteri per riuscire a contrattare in modo equo
nei momenti di subappalto e condivisione del
lavoro. Senza una riflessione collettiva si
rischia, se no, di riprodurre il meccanismo di un
«caporalato diffuso» che porta a subordinare le
relazioni amicali alle logiche di sfruttamento
del lavoro produttivo e a scaricare tutti i «rischi
di impresa» sui singoli individui, tutti/e
precari/e.
Infine, una terza forma di alienazione relazionale si
manifesta con una progressiva disaffezione da sé: una
graduale perdita di quel surplus di passione che spesso
caratterizza il nostro modo di svolgere il lavoro.
Genere e precarità
261
Quest‟aspetto, come raccontano le parole di una di noi,
può comportare conseguenze difficili da gestire dal
punto di vista identitario.
La dimensione del piacere e del senso nel
lavoro, che erano così importanti per me, nelle
condizioni attuali si sono trasformate nel loro
contrario. Vengo pagata così poco,
misconosciuta così palesemente, sostituita così
facilmente che, alla fine, faccio le cose male, e
non me ne frega neanche più niente di farle
male, perché mi sento come se fossi stata
scippata di una parte profonda di me. Scatta la
reazione per cui non ci metto più niente di me
in quello che faccio, ma così vengo meno anche
a me stessa.
3.3. La conciliazione oggi
Accanto alle nuove contraddizioni legate al fenomeno
della femminilizzazione del lavoro, permane il classico
problema, purtroppo ancora tipicamente femminile,
della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro quando
nascono dei figli o devi prenderti cura di familiari. Nel
caso del nostro gruppo, ci sono due esperienze
genitoriali in ambienti diversi (un paese della provincia
italiana e una città europea) e in condizioni famigliari
differenti (una in cui entrambi i genitori lavorano, e una
in cui la mamma lavora e il papà è casalingo).
Proponiamo qui alcuni spunti di riflessione tratti dal
punto di vista di chi la sfida della conciliazione l‟ha
appena cominciata, resa ancor più difficile dalle
interferenze delle (condizionanti) condizioni del
mercato del lavoro contemporaneo.
Genere e precarità
262
Con l‟arrivo di un figlio/a, la richiesta che ti viene
costantemente fatta in ambito professionale in termini di
dedizione, tempo e energie lascia poco spazio al resto:
ai propri cari, ai propri piaceri, all‟esperienza di
genitore, che richiede attenzione, cura, presenza, sfida e
crescita costanti.
Avere un lavoro a termine, avere sempre a che fare con
un «dopo» incerto, significa mettersi costantemente in
gioco e porsi davanti a scelte spesso ambivalenti, come
per esempio la scelta di fare un secondo figlio/a, o
interrogarsi sui propri desideri facendo i conti con la
loro sostenibilità economica e, nel lungo periodo,
emotiva e fisica. Le condizioni del mercato del lavoro
risultano cioè determinanti delle condizioni di vita,
anche dove ci sono servizi pubblici (comunque sempre
troppo pochi!) che aiutano a gestire la crescita dei
figli/e, e anche dove esiste nella coppia la volontà di
sperimentarsi in nuove forme di (con)divisione del
lavoro di cura.
Le parole di chi nel nostro gruppo è diventata madre
(due componenti su sei) ci sembrano il modo più
efficace per descrivere l‟esperienza della conciliazione
nel presente, e per dare idea di cosa avrebbero bisogno
le neo-mamme di oggi:
Diventare madri, un po‟ all‟improvviso, senza
troppo pianificare, assecondando un‟emotività
che si sottrae alla razionalità, lasciando le porte
aperte, consapevoli della sicurezza economica
data da almeno un contratto di lavoro
«normale» in famiglia, porta a riscoprire stili di
vita, priorità, valore del tempo e dello spazio.
Nella mia esperienza ha significato rovesciare,
o comunque rivedere criticamente il rapporto di
spazio che le due sfere, lavorativa e
Genere e precarità
263
personale/privata, avevano prima. È come
riscoprire le stagioni e tornare a vivere di pochi
elementari bisogni, ascoltare il corpo. La sfera
personale ha improvvisamente il sopravvento
su tutto! Quando arriva il momento di
«conciliare» tutto questo con la sfera lavorativa
(e per una co-co-pro questo avviene al quarto
mese di vita del bambino, visto che non esiste
maternità facoltativa ma solo quella
obbligatoria) è come se si dovesse far rientrare
attraverso il buco di una scatola una palla di
dimensioni doppie rispetto a quando è uscita da
quello stesso buco! Si ritorna al lavoro4 con una
disponibilità e un approccio diversi nei
confronti delle relazioni, in termini di tempo e,
spesso, anche di coinvolgimento e piacere.
L‟essere madre dovrebbe aggiungere alla vita di
una donna, e non sottrarre! Le politiche per la
maternità non si dovrebbero limitare agli asili
nido! Ciò che dovrebbe essere garantito ad ogni
donna che diventa madre è la possibilità di
autonomia. Con la nascita di un figlio/a, la
quotidianità diventa frenetica e piuttosto
monotona, i pensieri sono tanti e fitti e la voglia
di condividerli è enorme. Peccato che non
esistano strutture o luoghi in cui le donne
possano incontrarsi per farlo, che prevalga in
molti casi l‟auto-isolamento e che le strutture
d‟accoglienza coincidano con gli spazi medici o
medicalizzati. Anche in questo senso ci sarebbe
bisogno di ricostruire servizi autogestiti di
mutuo sostegno, dandogli una veste e una
valenza nuova. Ci vorrebbero luoghi dove le
4 Si torna al lavoro quando non costrette a dimissioni forzate, come è
successo per 800.000 donne tra il 2008 e il 2009. Cfr Rapporto annuale Istat
2010.
Genere e precarità
264
neo-mamme possano incontrarsi, scambiarsi,
mediarsi (anche le mamme migranti) e contro-
informarsi davvero, resistendo anche alla
trappola dell‟identificazione nello status
materno.
4. Più che concludere, continuare!
È vivendo queste contraddizioni nel rapporto con il
lavoro che ci interroghiamo sul significato del termine
«ambizione» per noi. Ambizione richiama da un lato
l‟investimento sul lavoro, inteso in senso capitalistico
(in termini di carriera, affermazione sociale,
arricchimento economico), dall‟altro a concetti come
progettualità, riconoscimento, passione, voglia di
crescere nella propria professione, possibilità di
scegliere come lavorare e su cosa.
Cosa vogliamo? A cosa ambiamo?
Al «doppio sì» a carriera e famiglia, come sostengono
alcune? (Benvenuti e Barbieri 2008).
Al potere? All‟esodo?
Siamo figlie di una generazione di donne che ha visto
nel lavoro un fattore decisivo di emancipazione, ma da
tempo non crediamo a questa «emancipazione malata»
(Campari e Melandri 2010). Se dieci anni fa potevamo
pensare che la precarietà fosse temporanea, individuale
e sostanzialmente legata al lavoro, oggi non possiamo
evitare di constatare che si tratta di una condizione
permanente, collettiva ed esistenziale.
E allora pensiamo che non si debba continuare a fare
l‟errore di considerare la condizione precaria come un
problema individuale, rispetto al quale ciascuna/o
«spera di cavarsela» per sé, grazie all‟aiuto del welfare
Genere e precarità
265
familiare, laddove possibile. Nuovi e vecchi paradossi
impattano a livello soggettivo nella vita di ciascuna di
noi, e il rischio è quello di cercare di sopravvivere e di
«sfangarsela» a livello individuale, affrontando come
una «sfiga» personale tutta la fatica, il mancato
riconoscimento, il poco reddito, la rabbia e la
frustrazione che ne seguono, aspettando una
stabilizzazione che non arriva mai, come non arrivavano
i tartari nel Deserto dei tartari (Buzzati 1940).
A partire dal nostro vissuto soggettivo e dall‟esperienza
del gruppo, noi siamo convinte che questa sia una
strategia miope e non più ulteriormente sostenibile
perché, come recita lo slogan che ha ispirato le recenti
manifestazioni di precarie e precari «il nostro tempo è
adesso. La vita non aspetta!».5
Dunque, a livello soggettivo, è anzitutto indispensabile
imparare a mettere dei limiti fermi nel «qui e ora»
rispetto a quello che si accetta di fare o non fare mentre
si naviga a vista nel mare della precarietà, perché il
corpo ce lo impone e la dignità ce lo urla, ma anche
perché – come ci insegnano le nostre esistenze –
vogliamo affermarci su una molteplicità di piani, e non
solo sul lavoro. Le relazioni, l‟attività politica
variamente intesa, l‟ozio, la pratica di passioni
personali, i viaggi, la cura del corpo, gli scambi
culturali, sono tutti piani che riguardano il «tempo per
sé» che come giovani donne rivendichiamo, e che
5 Slogan di invito alla manifestazione dei precari e delle precarie svoltasi in
diverse città italiane il 9 aprile 2011. Sul sito è disponibile il testo completo
dell‟appello di cui ci piace citare la frase finale: «Non è più tempo solo di
resistere, ma di passare all‟azione, un‟azione comune, perché ormai si è infranta l‟illusione della salvezza individuale. Per raccontare chi siamo e non
essere raccontati, per vivere e non sopravvivere, per stare insieme e non da
soli» (http://www.ilnostrotempoeadesso.it).
Genere e precarità
266
meritano uno spazio e un tempo dedicato nell‟equilibrio
delle nostre vite precarie.
Allo stesso tempo è indispensabile che questi confini
soggettivi – tesi ad arginare la consunzione insita nella
precarietà e a ritrovare spazi di vita – siano condivisi,
discussi e messi in pratica a livello collettivo, per
riuscire a costruire reti di protezione e mutuo aiuto da
una parte, ma anche per re-imparare ad immaginare e
sperimentare possibilità di cambiamento nel/del
presente, riprendendoci il nostro tempo, adesso.
Bibliografia Benvenuti, M., Barbieri, P., et. al. (a cura di), 2008, Il doppio
sì. Se le donne dicono due volte sì, Milano, Testo della
Collana Lavoro dei «Quaderni di via Dogana».
Buzzati, D., 1940, Il deserto dei tartari, Milano, Mondadori.
Campari, M.G. e Melandri, L. et al., 2010, L’emancipazione
malata. Sguardi femministi sul lavoro che cambia, Milano,
Edizioni LUD.
Gruppo Sconvegno, 2003, Emanciparsi dal lavoro, in «Posse.
Politica Filosofia Moltitudini» (6), pp. 63-74.
Gruppo Sconvegno, 2006, LCM::: Lavoratrici/Lavoratori
Contrattualmente Modificabili, in Barbarulli, C., Borghi, L. (a
cura di), Forme della diversità. Genere, precarietà e
intercultura, Cagliari, CUEC.
Gruppo Sconvegno, 2009, Feminist Activism and Practice:
Asserting Autonomy and Resisting Precarity, in Albertazzi,
D., Ross Ch. et al. (a cura di) Resisting the Tide: Cultures of
Opposition in the Berlusconi Years, 2001-06, Londra e New
York, Continuum.
Istat, 2010, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel
2009, Roma.
Genere e precarità
267
flash creativi
The p.s. (la studiosa precaria)
di roz (Rosella Simonari)1
The p.s. Manifesto
La p.s. è il post scriptum del sistema universitario
italiano. È uno dei molti esempi di p.s. che lottano in un
mondo accademico dove il merito, nella maggior parte
dei casi, non esiste. Lavora come professore a contratto
ma, per vivere e pagare le spese della ricerca, lavora
anche in un bar. Vive con un padre e fratello
inconsciamente misogini. È una lei perché la precarietà
influisce sulla vita delle donne in maniera diversa
rispetto a quella degli uomini. L‟uso dell‟inglese è
politico poiché l‟idea di questa striscia è che viaggi oltre
i confini nazionali. La forma è precaria come il
contenuto, quindi lo stile è intenzionalmente impreciso e
minimale. La carta che uso per disegnare le strisce è
carta comune di tipi differenti, come la carta da pacchi,
la carta per fare schizzi o la carta dei quadernoni a righe.
p.s.: anche se ha aspetti in comune con la mia vita, non
è un personaggio autobiografico.
1 www.theps09.blogspot.com
Genere e precarità
268
Giorno libero
5. Oggi finalmente ho la possibilità di rilassarmi!
6. Prima però devo terminare di scrivere il mio
saggio, preparare per la conferenza a Oxford,
andare all‟ufficio postale e in banca, comprare
del cibo e fare la lavatrice...
7. ok, forse mi rilasso la settimana prossima!
Professore a contratto
8. Quanto ti paga l'Università?
9. 2000 euro!
Genere e precarità
269
10. Wow, non è male per un professore a contratto!
È al mese?
11. no, all‟anno!
Periodo di transizione
12. Vedi, fratellino, so che è difficile avere a che
fare con me!
13. Ma devi capire che questo è un periodo di
transizione per me ... sono sicura che presto le
cose andranno meglio!
14. Va bene, come dici tu sorellina, ma per quanto
io ricordi tu sei sempre stata in un periodo di
transizione.
Genere e precarità
271
[immagine in questa pagina: Spidermom di Sexyshock, figurina per l‟Euro
Mayday Album del 1 maggio milanese 2005]
Genere e precarità
272
Manifesto della precasapiens
Una precaria s‟aggira per l‟Europa...
La pendolare esistenziale
traffica saperi dentro e fuori l‟Università
è full time fuori orario
senza avanzamenti di carriera, è a tempo libero
determinato.
Ha il privilegio di frequentare i luoghi dello
sfruttamento creativo
è la manovale della conoscenza
è la cognitaria invisibile, ma presente ovunque
fuori e dentro l‟aula, l‟ufficio, la casa.
Fuori di testa, esce dall‟Italia, in fuga con il suo
cervello,
in fuga dal suo cervello.
Donatrice di sangue e linfa mentale...
Genere e precarità
273
Filastrocca della pensolare esistenziale
Ilaria la precognitaria vive di relazioni campate in aria.
È elettrica come una pila per sette giorni di fila.
È fidanzata con Marco d’ Aosta, quando di lunedì
lavora alla posta.
Ha Luca di Tignale se di martedì lavora al giornale.
Michele di Lecco se mercoledì fa i turni all’Adeco.
Francesco ce l’ha nella sua città se di giovedì fa la
schiava all’università.
Gianfranco poi a Casavatore quando di venerdì «dona»
sangue al suo editore
E del sabato non ne parliamo perché Davide di Milano
purtroppo le ha detto «ti amo».
E di domenica, giorno in cui pure il Signore si è
riposato,
ad Ilaria tocca invece fare il bucato…
Genere e precarità
274
Reti e gruppi precari@ on-line
Prec@s, http://www.women.it/precas
Sexyshock, Bologna
http://www.ecn.org/sexyshock/
Intelligence precaria Milano, http://www.precaria.org
Agorà del lavoro, http://agoradellavoro.wordpress.com/
Punto Donna Precaria
http://www.correntealternata.org/index.php?option=com
_content&view=article&id=8&Itemid=7
Quaderni di San Precario,
http://quaderni.sanprecario.info/
Rete Redattori Precari, http://www.rerepre.org/
Reti Ricercatori Precari http://ricercatoriprecari.blogspot.com/
http://www.ricercatoriprecari.it/
http://ricercatoriprecari.wetpaint.com/
http://diversamentestrutturati.noblogs.org/
http://frondaprecaria.wordpress.com/
http://laboratoriprecari.blogspot.com/
The PS precarious scholar, http://www.theps09.blogspot.com
GRUPPI FACEBOOK:
Coordinamento Precari Università
http://www.facebook.com/home.php#!/coordinamento.pr
ecariuniversita
Generazione Precaria K
http://www.facebook.com/home.php#!/media/set/?set=pa
.100000770991803
Protesta ricercatori
Genere e precarità
275
http://www.facebook.com/home.php#!/profile.php?id=10
0001034323682
Precarie Menti
http://www.facebook.com/coordinamento.precariuniversi
ta?sk=wall#!/precarie.menti
Rivoluzione Precaria anche in Italia
http://www.facebook.com/#!/pages/Rivoluzione-
Precaria-in-Italia/213172685372611
LINK EUROPEI
Precarias a la deriva Spagna
http://www.sindominio.net/karakola/precarias.htm
Euro Mayday, http://www.euromayday.org
Chain Workers, http://www.chainworkers.org
Generation Précaire, Paris
http://www.intermittents-danger.fr.fm
Middlesex Declaration of the European Precariat,
2005.
http://info.interactivist.net/article.pl?sid=04/10/18/15542
49
Le autrici:
Manuela Coppola
Si è dottorata in letteratura inglese postcoloniale presso l‟Istituto Universitario
Orientale di Napoli, ha ricevuto un post-doc biennale all‟Università della
Calabria e collabora all‟insegnamento dei corsi sulle donne e migrazioni
presso il Centro Archivio Donne dell‟Università di Napoli e alla rete europea
Genere e precarità
276
di gender studies Athena. Ha pubblicato nel 2010 il volume monografico
L’Isola Madre. Ha curato Middle Passages. English for Cultural and
Postcolonial Studies (con Kathrine Russo, 2007) e Locating Subjects. Soggetti
e saperi in formazione (con E. Federici, M. Parlati, 2009) oltre a vari saggi
sulle riscritture shakespeariane e sulla narrativa postcoloniale.
Lidia Curti
Nata a Napoli, professore di Lingua e Letteratura Inglese all‟Istituto
Universitario Orientale di Napoli, dottorato in studi angloamericani, culturali e
post-coloniali. Lidia Curti ha studioato al centro per il Cultural Studies
dell‟Università di Birmingham con Richard Hoggart che ha tradotto in
italiano. Negli ultimi anni si interesse di teoria di genere, donne e migrazioni,
letteratura e cinema post-coloniale, e razzismo in Italia.
Laura Fantone
Sociologa della cultura visiva e migrazione, esperta di Gender e Women‟s
Studies, ha studiato presso la City University of New York. Dottorata in Post-
colonial Studies presso l‟Università di Napoli «l‟Orientale». Vive tra l‟Italia e
gli Stati Uniti, dove sta svolgendo una ricerca presso l'Università di Berkeley
su l‟immigrazione e le donne asiatiche. Di recente ha curato due progetti «Re-
Sisters» e «R-esistenze», raccogliendo interviste a donne attive politicamente
in Italia, e nel Sud del mondo. Attualmente insegna al Masters di Studi Urbani
al San Francisco Art Instutite e collabora con il CIRPG di Padova. È dal 2003
la moderatrice della rete italiana Prec@s, che riunisce circa un centinaio di
precarie della formazione interessate ad un‟ottica di genere e
intergenerazionale.
Manuela Galetto
Nata nel 1976 a Padova, laureata in Sociologia, ha frequentato un Master in
Scienze del lavoro a Firenze, dove ha vissuto per tre anni. Qui ha partecipato
attivamente al Firenze Social Forum, lavorando nel frattempo con contratti di
vario tipo sia nel settore privato che pubblico. Si è trasferita a Milano per il
dottorato in Scienze del lavoro presso l‟Università Statale, conseguito nel
2008. Nella stessa università ha lavorato come assegnista di ricerca per tre
anni. Attualmente, con figlio e compagno, vive in Inghilterra dove è
ricercatrice precaria all‟Università di Warwick. Fa parte dello Sconvegno dal
2005.
Gaia Giuliani
Gaia Giuliani si occupa di studi coloniali e postcoloniali presso il
Dipartimento di Politica Istituzioni Storia dell‟Università di Bologna, e presso
il Transforming Culture Research Centre (University of Technology Sydney,
2008-2011). Ha pubblicato Beyond curiosity. James Mill e la nascita del
Genere e precarità
277
governo coloniale britannico in India e vari saggi su riviste italiane ed
internazionali e in volumi collettanei, sull‟immaginario coloniale e razziale
nell‟esperienza coloniale britannica e in quella italiana. Attivista femminista
(SexyShock, Precas), si occupa anche di Gender Studies: ha pubblicato con
«Feminist Review» e ha tradotto Soggetti di desiderio di Judith Butler. e
Chandra Mohanty, Feminism without Borders. Fa parte della redazione della
rivista «Studi Culturali»ed ha collaborato con il quotidiano «Liberazione»
(2006-2009 con articoli su genere e sessualità nell‟Italia contemporanea.
Marie Hélène Laforest
scrittrice di origini caraibiche e professore di Letteratura Inglese e Post-
colonial Studies presso l‟Università di Napoli «L‟Orientale», dove ha diretto
per anni il Centro Archivio Donne. È autrice dei racconti pubblicati in Suoni
di Haiti, e curatrice del recente volume Questi occhi nono sono per piangere.
Chiara Lasala
Nata a Bergamo nel 1972, ha collaborato per diversi anni con alcune
organizzazioni femministe milanesi occupandosi in particolare della
sperimentazione di pratiche di cooperazione internazionale tra donne con una
prospettiva femminista. In quel contesto ha incontrato le altre componenti del
gruppo Sconvegno con cui ha attraversato, discusso e agito la precarietà di
lavoro e di vita.
Da qualche anno è socia di una cooperativa di finanza mutualistica solidale
(Mag6) che ha come caratteristica la proposta di un circuito virtuoso basato
sull'autogestione del denaro e con cui sta collaborando. Questa esperienza l‟ha
portata a trasferirsi a Reggio Emilia, dove tuttora vive.
Sveva Magaraggia
Nata a Milano nel 1976, consegue 32 anni dopo il titolo di dottoressa di
ricerca in Sociologia presso l‟Università di Milano-Bicocca, dove collabora
tutt‟ora come assegnista di ricerca. È docente a contratto di Metodologia della
Ricerca Sociale e si occupa di tematiche connesse, in vari modi, agli studi di
genere. La riflessione politica femminista, e il gruppo dello Sconvegno in
particolare, accompagna ed arricchisce questo iter di studio/lavoro.
Chiara Martucci
Nata a Milano nel 1973, dopo la laurea in Storia delle dottrine politiche ha
frequentato un Master in Pari opportunità e conseguito poi un dottorato in
Studi politici all‟Università Statale di Milano. Da dieci anni, lavora con
contratti a termine a ricerche e progetti sugli studi di genere, le pari
opportunità e il pensiero delle donne. Co-fondatrice dello Sconvegno, è autrice
della monografia Libreria delle donne di Milano. Un laboratorio di pratica
politica (FrancoAngeli, 2008) e curatrice, insieme a Bianca Beccalli, del
Genere e precarità
278
volume Con voci diverse. Un confronto sul pensiero di Carol Gilligan (BCD
Editore, 2005).
Angela McRobbie Angela McRobbie, docente presso il Department of Media and
Communication del Goldsmiths College di Londra, è intellettuale chiave dei
Cultural Studies britannici. La sua ricerca spazia tra diversi temi: cultura
giovanile, sessualità e genere, moda e riviste femminili. Lavora anche sui temi
del femminismo sociale e della «nuova industria culturale». Altre aree di
interesse includono le nuove forme di lavoro, occupazione ed auto-
imprenditorialità nei contesti creativi. Tra le sue pubblicazioni, Feminism and
Youth Culture (1991), Postmodernism and Popular Culture (1994) e The
Aftermath of Feminism: Gender, Culture and Social Change (2009).
Annalisa Murgia
Annalisa Murgia ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Sociologia e
Ricerca Sociale presso l‟Università di Trento nel 2008, dove è attualmente
titolare di una borsa post-dottorato. È membro della Research Unit on
Communication, Organizational Learning and Aesthetics
(www.unitn.it/rucola) e del Centro di Studi Interdisciplinari di Genere
(www.unitn.it/csg) presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale.
Insegna all'interno del Master in Politiche di genere nel mondo del lavoro
dell'Università di Trento ed è docente del Percorso di introduzione al mondo
del lavoro presso la stessa università. I suo ambiti di ricerca riguardano
principalmente il mondo del lavoro, con specifico interesse alle tematiche
della precarietà e delle differenze di genere. Ha recentemente pubblicato i
volumi Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale. Biografie in
transito tra lavoro e non lavoro (2010) e (con Barbara Poggio e Maura De
Bon) Interventi organizzativi e politiche di genere (2010).
Elisabetta Onori
Nata nel 1975 nelle Marche, dove è tornata a vivere nel 2008 in concomitanza
della gravidanza, ha studiato Scienze politiche a Bologna e poi è arrivata a
Milano per un master in documentazione. Dopo quattro anni di precariato, è
entrata «di ruolo» come bibliotecaria all‟Università Statale di Milano e
attualmente lavora in quella di Macerata. A Milano si è anche diplomata come
insegnante Yoga, disciplina che pratica e insegna. La sua passione per la
politica femminista diventa concreta a pochi mesi da Genova 2001, cresce
nello Sconvegno e oggi prosegue come impegno attivo nella realtà
dell'economia solidale e nella militanza locale attraverso comitati e gruppi di
varia natura.
Francesca Pozzi
Genere e precarità
279
Nata a Como nel 1973, laureata in Scienze della Comunicazione, ha
conseguito un dottorato in Sociologia all‟Università Statale di Milano.
Attualmente insegna in un centro di formazione professionale e lavora come
ricercatrice precaria per enti e istituti di ricerca. Attivista del movimento dei
movimenti, ha collaborato e pubblicato con case editrici indipendenti ed è
stata fin dall‟inizio parte del gruppo Sconvegno.
Susanna Poole
È attrice e regista teatrale del progetto di teatro nel carcere di Napoli,
Maniphesta onlus. Insegna inglese all‟Università di Napoli «l‟Orientale», dove
ha svolto il dottorato interessandosi di genere, cinema e studi visivi. Ha
pubblicato The touching Camera, in S. Carotenuto (a cura di) Frontiere del
Corpo e dell’Identità (2004) e Writing Images and Imaging Words ( 2005).
Sconvegno
Lo Sconvegno è un gruppo di elaborazione politica femminista di Milano,
composto da sei donne che hanno oggi tra i 35 e i 39 anni. Nasciamo come
gruppo nel 2001, con l‟obiettivo di organizzare un incontro su che cosa può
significare definirsi femministe oggi. Da allora ci siamo riunite regolarmente
nelle case o nei posti di lavoro di ciascuna per vari anni; ora siamo sparse tra
l‟Italia e l‟Europa e fatichiamo a preservare uno spazio/tempo di incontro.
Negli anni, abbiamo partecipato a numerosi incontri nazionali e internazionali
femministi (ma non solo), facendo circolare i risultati di tre cicli di
autoinchiesta-inchiesta sull‟ambivalenza della precarietà/flessibilità che tutte
sperimentiamo nelle nostre «vite precarie». Come collettivo abbiamo curato
un libro e scritto diversi articoli e saggi per volumi e riviste, nazionali e
internazionali. Il punto di partenza – metodologico e di pratica politica – che
ha caratterizzato la nostra esperienza, è il principio del «partire da sé».
Lo Sconvegno è stato un laboratorio politico e esistenziale: uno spazio/tempo
creato dall‟alchimia delle nostre presenze, dove emozioni ed esperienze
diventavano chiavi di lettura del mondo; una magia che ci fa singolari e
collettive: più che la somma di noi tutte insieme, meno di un‟identità unica e a
sé stante.
Rosella Simonari
Dottoranda presso l‟University of Essex, UK, con un progetto di ricerca su
Martha Graham. È stata docente a contratto del corso di «Danza e mimo»
presso l‟Università degli Studi di Macerata (dall‟a.a. 2003 al 2007). Laureatasi
presso l‟Università di Macerata nel 1999, si è poi trasferita a Londra dove ha
proseguito gli studi post lauream presso il centro di danza contemporanea,
Laban, seguendo il Dance Research Programme (2000). È stata membro
ordinario della Società Italiana delle Letterate (SIL) dal 2002 al 2004. È socia
della Society for Dance Research (SDR) e della Society of Dance History
Genere e precarità
280
Scholars (SDHS). Nel settembre 2003 ha seguito un corso avanzato in
Women‟s Studies presso la NOISE Summer School dell‟Università di Utrecht,
con Rosi Braidotti. Dal 2006 si occupa della riscoperta del danzatore-pittore
marchigiano Alberto Spadolini. Collabora con le riviste Leggere Donna
(www.tufani.it) e www.ballet-dance.com per recensioni e articoli di
approfondimento. Nell‟estate 2009 ha creato un altro blog dedicato ad una sua
striscia intitolata The p.s. – la studiosa precaria, in inglese e italiano:
www.theps09.blogspot.com.
Tiziana Terranova
Tiziana Terranova è professore associato in Sociologia della Comunicazione
presso il Dipartimento di Studi Americani, Culturali e Linguistici
dell‟Università degli Studi di Napoli «L‟Orientale». Master in
Communications and Technology alla Brunel University, ottiene poi il PhD in
Media and Communications al Goldsmiths College presso la University of
London. Ha lavorato presso la New York University, il Dipartimento di
Cultural Studies della University of East London e come lecturer presso il
Dipartimento di Sociologia nella University of Essex. La sua ricerca si muove
nell'ambito della cultura, della scienza, della tecnologie e dell‟economia
politica dei nuovi media. È autrice di Culture Network (2006), Corpi nella
Rete (1996) e di altri numerosi saggi sui nuovi media pubblicati in Derive e
Approdi, CTheory, Angelaki, Social Text, Theory Culture and Society.