Culture archeologiche e spiegazione del mutamento culturale: il caso \"San Ciriaco di Terralba\"

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTÀ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN BENI CULTURALI CULTURE ARCHEOLOGICHE E SPIEGAZIONE DEL MUTAMENTO CULTURALE: IL CASO “SAN CIRIACO DI TERRALBA” Relatore: Tesi di laurea di: Prof. Carlo Lugliè Gianmarco Loddi ANNO ACCADEMICO 2013 ˗ 2014

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

FACOLTÀ DI STUDI UMANISTICI

CORSO DI LAUREA IN BENI CULTURALI

CULTURE ARCHEOLOGICHE E SPIEGAZIONE DEL

MUTAMENTO CULTURALE: IL CASO “SAN CIRIACO DI

TERRALBA”

Relatore: Tesi di laurea di:

Prof. Carlo Lugliè Gianmarco Loddi

ANNO ACCADEMICO 2013 ˗ 2014

As always, our material for study consists of things, but what we are really looking for is the people behind

the things. (David H. Trump)

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Sommario

1 Introduzione ..................................................................................................................................... 3

2 Il concetto di cultura archeologica .......................................................................................... 5

2.1 Le origini del concetto di cultura ........................................................................ 5

2.2 L’archeologia storico-culturale ........................................................................... 6

2.3 L’archeologia storico-culturale americana.......................................................... 8

2.4 Vere Gordon Childe e il concetto di cultura archeologica ................................ 10

2.5 Gli approcci funzionalisti e la conjunctive archaeology di Taylor ..................... 13

2.6 New Archaeology .............................................................................................. 15

2.7 Le culture archeologiche secondo David Clarke ............................................... 21

2.8 Le culture archeologiche nel post-processualismo ........................................... 24

2.9 Le culture archeologiche nella paletnologia sarda ........................................... 28

3 La cultura di San Ciriaco ............................................................................................................ 33

3.1 Storia degli studi ............................................................................................... 33

3.2 Inquadramento cronologico ............................................................................. 34

3.3 Distribuzione geografica e modalità insediative ............................................... 35

3.4 La ceramica ....................................................................................................... 37

3.5 L’industria litica ................................................................................................. 42

3.6 La piccola statuaria ........................................................................................... 45

3.7 La produzione vascolare in pietra ..................................................................... 52

3.8 Contesti funerari ............................................................................................... 54

4 Evoluzioni interne e apporti extrainsulari .................................................................. 57

4.1 La cultura di Bonu Ighinu ............................................................................... 57

4.2 La cultura di Ozieri .......................................................................................... 60

4.3 La facies funeraria corso-gallurese ................................................................ 62

4.4 Apporti extrainsulari ....................................................................................... 66

5 Considerazioni conclusive......................................................................................................... 69

Riferimenti bibliografici ............................................................................................... 72

2

3

1 Introduzione

Quando vengono pubblicate le ultime edizioni delle maggiori opere compendiarie

della paletnologia sarda (Lilliu 2003; Contu 2006), la cultura di San Ciriaco non

vi compare in nessun modo; tra le righe, rare allusioni a evidenze poco chiare o ad

anomalie locali sigillano rapidamente un discorso mai realmente aperto. Ciò

sorprende in misura ancora maggiore, se si tiene conto delle non poche

pubblicazioni che hanno preceduto le due sopracitate, nelle quali il fenomeno San

Ciriaco, declinato come cultura o come facies, è stato oggetto di studio (e.g.

Santoni 1982a/b; Atzeni 1987; Ugas 1990; Ferrarese Ceruti 1995; Santoni et al.

1997; Lugliè 1998; Alba 1999; Molinari 2002; Lugliè 2003). Il fatto che l’aspetto

di Bonu Ighinu sia stato unanimemente recepito come una cultura archeologica

già dalla sua prima enucleazione a opera di Loria e Trump (1978), rende evidente

la necessità di: (a) individuare di quale natura siano le differenze tra le evidenze

pertinenti alla cultura di Bonu Ighinu e quelle riconducibili al San Ciriaco; (b)

stabilire se tali differenze vadano ricondotte ad una superiore conoscenza delle

evidenze Bonu Ighinu rispetto ai dati disponibili per il San Ciriaco, implicando

così una particolare cautela nell’estendere a quest’ultimo aspetto lo status di

cultura archeologica; (c) individuare i criteri con i quali stabilire quando una

associazione ricorrente di tratti culturali possa essere considerata una cultura

archeologica. Non è da escludersi, del resto, che le ambiguità che

contraddistinguono il concetto stesso di cultura archeologica possano aver giocato

un ruolo importante nel mancato accordo degli studiosi sulla natura (quando non

sull’esistenza) del fenomeno San Ciriaco. Una ulteriore questione, strettamente

legata alle precedenti, riguarda invece il San Ciriaco esplicitamente inteso come

cultura archeologica; tale valenza è da considerarsi nell’accezione di fase

cronologica, con il conseguente primato delle datazioni assolute sui tratti culturali,

o è di questi ultimi che si deve, in prima istanza, tenere conto, ammettendo così la

possibilità che un manufatto datato ad un periodo corrispondente a quello in cui

era operativa la cultura di San Ciriaco possa, tuttavia, non esserne espressione? E,

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ammettendo questa eventualità, è possibile risalire alle cause dei mutamenti

culturali operanti all’interno di una regione mediante un’analisi incentrata sul

concetto di cultura archeologica? Nel corso del presente lavoro, è sembrato

dunque opportuno indagare la genesi di tale concetto, la sua evoluzione nella

storia del pensiero archeologico, e le modalità con le quali è stato recepito,

interpretato (o accantonato) dalle differenti scuole di pensiero; un quadro sinottico

delle conoscenze attualmente edite per la cultura di San Ciriaco è stato inoltre

comparato con la precedente cultura di Bonu Ighinu, con la seriore cultura di

Ozieri, nonché con aspetti che, nello stesso quadro San Ciriaco, risaltano come

“anomalie”, distinguendosi per alcune discrepanze rispetto alle evidenze

comunemente note per tale cultura. Chiariti i tratti culturali riconducibili al San

Ciriaco, si è infine passati all’esame dei rapporti extrainsulari, al fine di

comprendere se ci siano stati degli apporti allogeni alle spinte evolutive interne

alla cultura, e quale potesse essere la loro natura e portata. L’approccio che si è

scelto di adottare è di matrice storico-culturale, al fine di verificare se uno studio

incentrato sul concetto di cultura archeologica, che di tale approccio è il fulcro,

possa condurre ad una esaustiva comprensione dell’origine, dei limiti cronologici

e spaziali, e del perdurare, mutare ed esaurirsi di un fenomeno complesso come

appare, già ad un’analisi preliminare, quello del San Ciriaco.

5

2 Il concetto di cultura archeologica

2.1 Le origini del concetto di cultura

Il concetto di cultura, intesa come un insieme di attributi e di prodotti delle società

umane e perciò del genere umano che sono extra-somatici e trasmissibili con

meccanismi diversi da quelli dell’eredità biologica, non si riscontra mai nel XVIII

secolo (Kroeber e Kluckhohn 1952: 296). Le premesse epistemologiche, però,

compaiono già nel 1750 in An essay Concerning Human Understanding di Locke,

in cui il filosofo inglese teorizzava che la mente umana fosse equiparabile a uno

scrigno vuoto: la conoscenza di cui va poi riempiendosi viene acquisita durante

quel processo che oggi definiremmo di inculturazione (Harris 1971: 17).

Sebbene, dal 1850 in poi, tale concetto cominci ad essere usato di fatto in alcune

regioni della Germania, fu l’etnologo Tylor a fornire la prima esplicita definizione

di “cultura”, indicata come “quell’insieme complesso che include la conoscenza,

le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e

abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società” (1871). Tylor era un

evoluzionista (meno unilineare di quanto possa apparire ad un’analisi

superficiale), sostenitore della teoria dell’unità psichica e del metodo comparativo

in un momento storico in cui l’evoluzionismo culturale, forte delle teorie di

Spencer e -soprattutto- di Darwin, e di progressi concettuali quali il Sistema delle

Tre Età messo a punto da Thomsen e le teorie sull’antichità dell’uomo di De

Perthes (1841) trionfava definitivamente sulla reazione politico-teologica post

napoleonica e su teorie, come il degenerazionismo, alle quali la reazione si

appoggiava; era inoltre un propugnatore dell’importanza dei dati archeologici da

affiancare a quelli etnologici, riconoscendo in essi un apporto fondamentale alla

teoria dello sviluppo naturale della civiltà (Tylor 1878), ed ammettendo il debito

degli evoluzionisti nei confronti delle scoperte archeologiche. Tuttavia, quando –

pochi decenni più tardi- il concetto di cultura iniziò ad essere sistematicamente ed

esplicitamente applicato all’archeologia, l’asse del pensiero antropologico si era

già spostato dall’evoluzionismo culturale al particolarismo storico e al

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diffusionismo; gli ultimi colpi di coda di una reazione teista che non aveva esitato

ad appoggiarsi alle emergenti teorie di Boas –stravolgendone, perlopiù, il senso-

pur di affossare il darwinismo culturale, possono essere riassunti nelle

affermazioni di Laufer, che scriveva «…la teoria dell’evoluzione culturale (…) un

giocattolo di poco prezzo per il divertimento di bambini grandi, merita di essere

distrutta (…) la natura non ha leggi, quindi nemmeno la cultura ne ha» (1918), e

dello storico ceco Ràdl, che nel 1930 affermava «Il darwinismo come dottrina

tirannica, che incatena con la sua arroganza le menti degli uomini, è morto».

2.2 L’archeologia storico-culturale

Se si vuole comprendere il perché dell’eclissi dell’evoluzionismo culturale

nell’antropologia del primo XX secolo, e il conseguente avvio del concetto di

cultura archeologica maturato in un ambiente diffusionista, la strategia dei

boasiani e le spinte teiste non sono sufficienti a fornire una spiegazione

convincente; nel primo caso, perché l’antievoluzionismo della scuola di Boas è

stato abbondantemente ridimensionato, così come una sua presunta applicazione

sistematica del concetto di diffusione (e.g. Harris 1971), nel secondo caso perché

le posizioni reazionarie più estreme non trovarono, di fatto, un seguito

paragonabile a quello che, ad esempio, ebbero nel XIX secolo le teorie di De

Maistre o di W. Cooke Taylor. Quando, nel 1911, il filologo tedesco Kossinna

pubblicò Die Herkunft der Germanen (L’origine dei Germani), sistematizzando

per la prima volta l’esposizione e la sintesi archeologica con un misto di

determinismo razziale, diffusionismo e sciovinismo, l’Europa si trovava a dover

fare i conti con le contraddizioni della rivoluzione industriale, espresse nella

forma di fatiscenti agglomerati urbani, crisi economiche, concorrenza economica

sempre più pressante tra i vari stati; la perdita della fiducia nel progresso si unì al

tentativo di sostituire i conflitti di classe interni agli stati con i conflitti tra stato e

stato, e questo portò all’emergere dei nazionalismi e al recupero del determinismo

biologico come spiegazione della diversità culturale. La corsa all’identità culturale

e alle radici storiche dei gruppi etnici, per stabilire antichità e “purezza”, doveva

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necessariamente passare per l’archeologia. In questo quadro, la visione di

Kossinna era che l’Europa centrale, a partire almeno dal Paleolitico Superiore,

fosse da intendersi come un mosaico di culture, la cui collocazione geografica e

gli aspetti sostanziali erano mutati col tempo; le culture erano il riflesso

dell’etnicità, per cui quando si riscontravano somiglianze o differenze nella

cultura materiale, queste dovevano corrispondere a somiglianze o differenze in

campo etnico. La strategia diffusionista consisteva in questo caso nell’individuare

una prima distinzione, che vedeva da una parte popoli culturalmente creativi,

dall’altra popoli culturalmente passivi; essendo le culture più progredite il

risultato di una superiorità biologica, l’unica conclusione alla quale si poteva

giungere era che le idee e le invenzioni potevano spostarsi da una regione all’altra

solo per mezzo di migrazioni di popoli, e non mediante la semplice diffusione di

idee o invenzioni. Così, con la sua Siedlungsarchäologie (archeologia degli

insediamenti), Kossinna intendeva rintracciare e delineare i territori in cui erano

vissuti specifici gruppi tribali nella preistoria, partendo dalla distribuzione dei

manufatti caratteristici di ogni gruppo; una volta identificati gruppi storicamente

noti, sarebbe poi stato possibile, grazie all’archeologia, tracciarne la storia

risalendo nel tempo (Trigger 1989: 175).

Ben presto, il concetto di cultura applicato all’archeologia varcò i confini tedeschi

per diventare un tòpos della letteratura archeologica britannica; Casson (1921:

212), ad esempio, associava la stirpe ellenica dei Dori con “la comparsa e il

costante sviluppo di una cultura, distinta per oggetti di ceramica e bronzo,

conosciuti come geometrici”. Allo stesso modo, Crawford e Wheeler (1921: 133-

40) facevano riferimento alla cultura del Bronzo Recente per definire gli

assemblaggi del sito di Llyn Fawr, e Fox (1923:85) parlava della “cultura di

Halstatt” e della “cultura del Ferro di pre-La Tène”, nei suoi studi sull’archeologia

della regione di Cambridge. La stessa enfasi sulla correlazione tra distinti modi di

vita e distinti gruppi culturali o comunità è evidente nella posizione di Crawford

(1921) sulle tecniche per l’identificazione delle culture; afferma infatti che “la

cultura può essere definita come la somma di tutti gli ideali, delle attività e dei

materiali che caratterizzano un gruppo di esseri umani. È per una comunità ciò

che i tratti caratteriali sono per un individuo (…) e gli archeologi dovrebbero

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inoltre verificare l’esistenza di culture omogenee tramite l’analisi di un vasto

range di tipi di manufatti, e della loro distribuzione temporale e spaziale (ibidem:

132). Per quanto non parlasse espressamente di “cultura archeologica”, Greenwell

asseriva già nel 1905 che due distinte sepolture del Ferro nella regione dello

Yorkshire dovessero appartenere a gruppi che condividevano abitudini e modi di

vita, in virtù dei molteplici elementi in comune riscontrati nelle tombe; si doveva

dunque guardare al legame tra questi gruppi come ad un’affinità di sangue

(Greenwell 1905: 307). Se confrontate con questi ultimi, sia l’iconica definizione

childeiana di cultura archeologica del 1929, sia quelle degli archeologi americani

suoi contemporanei appaiono quasi minimalistiche e, in qualche misura, “caute”

riguardo alle interpretazioni in chiave etnica della cultura materiale.

2.3 L’archeologia storico-culturale americana

L’eredità del particolarismo storico di matrice boasiana influenzò sensibilmente

l’archeologia americana per tutta la prima metà del XX secolo; ben lungi dal

ricercare qualsiasi regolarità o legge culturale, gli archeologi americani mettevano

a punto la strategia particolarista e spiccatamente empirica del paziente accumulo

dei dati, che avrebbero naturalmente portato al progresso della ricerca. L’esempio

del sistema tassonomico messo a punto da un gruppo di studiosi guidati da

McKern nel corso degli anni’30 può far comprendere meglio l’impostazione

predominante in questa particolare fase della ricerca archeologica; le sequenze

regionali stabilite fino a quel momento dagli archeologi che operavano

nell’America Settentrionale avevano raggiunto una varietà e un numero tale da

indurre McKern, che in quegli anni dirigeva il Dipartimento di Antropologia del

Milwaukee Public Museum, ad elaborare un sistema di classificazione in grado di

riordinare i dati provenienti dal registro archeologico entro schemi ordinati, dai

quali si potesse poi risalire alle distribuzioni spaziali e ai range cronologici delle

evidenze materiali. Ad un’analisi dei tratti culturali, il Sistema tassonomico opera

una suddivisione in focus → aspect → phase → pattern → base, corrispondenti a

classi via via sempre meno dettagliate. Un focus comprenderà dunque le evidenze

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caratterizzate da tratti peculiari ad un’analisi estremamente dettagliata (ad es.

schemi decorativi nella ceramica) riscontrate in differenti siti, e in alcuni casi può

corrispondere a ciò che in etnologia viene chiamata “tribù locale” (McKern 1939:

308); una comparazione tra due foci, metterà in luce che alcuni di essi presentano

caratteristiche simili, una volta eliminati i tratti maggiormente peculiari di

ciascuno, e questo porterà ad individuarli come parte di uno stesso aspetto.

Muovendosi dal particolare al generale, i dettagli culturali assumeranno via via

sempre meno importanza; ad esempio, laddove schemi decorativi particolari nella

ceramica saranno determinanti per individuare un focus, e schemi generali

individueranno un aspetto, gli elementi meccanici nella tecnica della decorazione

condivisi da più aspetti potrebbero essere i tratti decorativi più dettagliati

applicabili alla successiva classe, chiamata fase. Fasi differenti possono

condividere un insieme di tratti comuni ad un livello di analisi ancor meno

dettagliato, dando così luogo ad un pattern; più patterns condivideranno infine

elementi in comune, come l’orticultura, l’utilizzo della ceramica, o l’adozione di

pratiche funerarie, dando luogo alla quinta e ultima classe di analisi, chiamata

base.

È evidente la derivazione del modello dalla tassonomia linneana, da cui è mutuato

il concetto della suddivisione in classi; l’accezione del termine “cultura” o

dell’aggettivo “culturale” da parte di McKern non è invece sempre chiara.

McKern fa riferimento al suo metodo tassonomico come ad un culture taxonomic

method (McKern 1939: 303); fa però notare come le suddivisioni culturali

nell’approccio archeologico debbano differire da quelle di un approccio

etnologico, basate su “fattori linguistici, razziali, tradizionali e geografici” e, in

generale, su «reali fattori culturali, e non su dati selezionati, o messi a punto allo

scopo di creare un quadro tanto semplificato quanto inaccurato». «Le divisioni

culturali rappresentate dai comparti del contenitore tassonomico», continua

McKern, «sono difficili da visualizzare in termini di divisioni in senso etnologico,

poiché basate interamente su fattori culturali, gli unici fattori sempre e

immediatamente disponibili per l’archeologo, laddove i concetti etnologici sono

pensati come variamente determinati da una base di cultura, di mero linguaggio,

di razza, di tradizione e di collocazione geografica, sia considerando isolatamente

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ognuno di questi fattori, sia nel caso in cui siano associati tra essi» (ibidem: 305).

Allo stesso modo, non è chiaro come McKern intendesse stabilire delle sequenze

culturali senza tenere conto del fattore cronologico; questa lacuna caratterizza

anche il sistema classificatorio di Gladwin e Gladwin (1934), nel quale però viene

adottato uno schema dendritico che renderebbe perlomeno implicita una

prospettiva temporale. Tra gli archeologi americani operanti durante il regno del

particolarismo storico, l’eccezione di Kidder, che deplorava il particolarismo in

cui era caduta l’archeologia e ne criticava l’impostazione prevalentemente

descrittiva e la mancanza di qualsiasi prospettiva storica (Kidder 1936: 146) non

mutò dunque un quadro generale all’interno del quale le culture erano considerate

poco più che collezioni di tratti individuali risultanti da “accidenti storici” e

slegati non solo dai comportamenti, ma anche dalla prospettiva cronologica; negli

stessi anni, nel Vecchio Continente, archeologi come Clark e Childe

cominciavano invece ad adottare un approccio funzionalistico che avrebbe

ribaltato questa tendenza.

2.4 Vere Gordon Childe e il concetto di cultura archeologica

«L’archeologo non cerca di ricostruire le società passate, studiando gli scheletri dei loro

membri, ma basandosi sull’esame delle tracce del loro comportamento giunte fino a noi –

il vasellame, la pianta delle costruzioni, i ninnoli personali, gli oggetti funebri rituali, i

materiali importati da altri luoghi, e così via. Tali vestigia sono dagli archeologi divise e

classificate in «tipi»; quando i medesimi tipi sono a più riprese trovati riuniti in luoghi

diversi di una regione determinata, essi vengono raggruppati e considerati come

l’espressione di quello che noi chiamiamo una “cultura”» (Childe 1958: 10).

Vere Gordon Childe è stato una figura chiave per il pensiero archeologico della

prima metà del XX secolo; marxista, sostenitore della teoria di Morgan sulla

successione di stati, si sentiva distante tanto dall’evoluzionismo unilineare quanto

dal diffusionismo estremo di Smith (Childe 1946). Insieme al concetto di cultura

archeologica (che perfezionò e sistematizzò nel corso dei suoi studi), prese

inizialmente in prestito da Kossinna alcune idee sulla raffinatezza della lingua

11

quale indicatore della purezza razziale (1926), che si affrettò a disconoscere, una

volta resosi conto che coincidevano con quelle della Germania nazista; questo

portò all’abbandono, nei suoi lavori successivi, oltre a qualunque traccia di

determinismo biologico, di tutti i dati che non derivassero dalla cultura materiale.

Il concetto di cultura archeologica di Gordon Childe differiva in maniera

sostanziale da quello degli archeologi classificatori americani; in una lettera del

1946 all’antropologo statunitense Braidwood, scriveva:

«Ammetto che l’uso del termine “cultura” da parte degli archeologi è aperto a diverse

obiezioni. . . .Le culture degli archeologi dovrebbero essere equiparabili a quelle degli

etnografi. Questo non elimina l’obiezione che la cultura venga utilizzata in molte altre

accezioni. Ma gli assemblaggi, per quanto corretti sul piano descrittivo, tendono a

confermare quella che R. B.1 definì la teoria “degli stracci e dei frammenti”, che vedeva

la cultura come l’insieme di tratti disparati, messi assieme da un accidente storico. . . . E

gli archeologi, oggi, provano a descrivere le loro culture “funzionalmente”, così come

fanno molti etnografi» (Childe a Braidwood, 29 Maggio 1946; trad. di chi scrive).

In un articolo scritto qualche anno prima, Childe mette in evidenza come le

culture non dovessero essere intese come gruppi di fossili inanimati, ma come

organismi viventi e funzionanti:

«Le periodizzazioni basate sulla tipologia possono avere, nella migliore delle ipotesi,

validità regionale, in grado di fornire un comodo quanto provvisorio impalcato per

classificare le antichità locali. (…) In secondo luogo, le classi oggetto di studio della

storia naturale sono estremamente astratte: le specie e i generi dei naturalisti vengono

adottate non tenendo conto delle molteplici differenze tra singoli alberi di quercia (…) in

modo da focalizzare l’attenzione su un limitato numero di tratti comuni. La storia della

letteratura, d’altro canto, è fatta di singole personalità. La preistoria non può accontentarsi

di un’umanità astratta. Non può, in effetti, arrivare all’individuale, ma può apprezzare le

differenze tra nazione e nazione, differenze dovute a diverse tradizioni sociali. Solo

1 R.B. sono le iniziali di Radcliffe-Brown; l’episodio degli “stracci e frammenti” è evidentemente

da ricondurre ad una frase di Lowie, che nell’ultimo capoverso di Primitive Society definiva la

civiltà, dal punto di vista degli storici, “quel caotico miscuglio, quella cosa formata di stracci e

frammenti” (Lowie 1920: 441). Radcliffe-Brown la riprenderà per definire il punto di vista di

alcuni etnologi riguardo all’ipotesi funzionale (Radcliffe-Brown 1952, 20).

12

allora, l’archeologia preistorica potrà rispondere alle legittime domande poste dai filologi

e dagli storici della letteratura: donde giunsero gli Indo-Europei? Quando, i Celti,

raggiunsero per la prima volta la Gran Bretagna? Furono i Sumeri o i Semiti i primi ad

insediarsi nella Mesopotamia? Questo implica l’applicazione di categorie più ristrette, per

i suoi materiali. “Pietra levigata celta” è un termine piuttosto astratto, che mette assieme

una varietà di oggetti differenti per forma, materia e funzione. Il significato di questa

varietà diventa manifesto, una volta tenuto conto di come lo strumento è stato fabbricato,

immanicato e adoperato, una volta che guardiamo ad esso non come ad un oggetto

naturale, ma come ad un utensile fabbricato dall’uomo affinché lo mettesse in condizione

di far fronte all’ambiente in cui si trovava. Lo studio delle società umane viventi come

organismi funzionanti ha rivelato all’archeologia questo approccio ai materiali. Ha

portato alla corretta definizione e interpretazione del concetto di cultura. E con questo

concetto, l’archeologia può muovere dall’astrazione delle scienze naturali alla

concretezza comparativa della preistoria. La cultura non è una categoria a priori elaborata

dagli studi dei filosofi e calata dall’alto sugli archeologi. Le culture sono i fatti osservati.

(…) I tratti di una cultura si presentano pertanto riuniti assieme, agli occhi

dell’archeologo, perché sono la creazione di un singolo popolo, adattamenti all’ambiente

approvati dall’esperienza collettiva» (Childe 1935: 10; traduzione di chi scrive,

corsivi aggiunti).

Nell’ultimo capoverso compaiono tanto l’influenza di White quanto il carattere

normativo della trasmissione culturale; i processualisti accoglieranno l’influenza

di White, ma criticheranno con forza il secondo aspetto (e.g. Binford 1972). Non

vi è più traccia, inoltre, degli aspetti razziali. Se in The Aryans (1926: xii) Childe

era ancora incline al determinismo biologico, a partire dagli anni ’30 la sua

posizione riguardo a una possibile correlazione tra razza e raggruppamenti

archeologici e linguistici divenne piuttosto critica: «la cultura è un patrimonio

sociale; corrisponde a una comunità che condivide tradizioni comuni, istituzioni

comuni e comuni modi di vita. Un simile gruppo può ragionevolmente essere

chiamato popolo (…) e dunque è a un popolo che deve corrispondere la cultura di

un archeologo. Se etnico è l’aggettivo per popolo, potremmo dire che

l’archeologia preistorica ha buone speranze di mettere a punto una storia etnica

dell’Europa, mentre una storia razziale sembra irrimediabilmente lontana» (Childe

1933: 198-9). Simili argomentazioni vennero riproposte in una successiva

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discussione di Childe sulla metodologia archeologica, quando mise in evidenza

che le arbitrarie peculiarità dei manufatti sono “considerate la concreta

espressione delle comuni tradizioni sociali che tengono insieme un popolo»

(Childe 1956: 31). In contrasto con Kossinna, Childe poneva l’enfasi

sull’importanza dell’associazione di particolari tipi di manufatti a condizione che

si potesse riscontrare il loro contemporaneo utilizzo nella stessa società,

mostrando così di fare maggiore affidamento sugli assemblaggi materiali più che

sui manufatti individuali. Ciò significa che per Childe la cultura archeologica era

un’unità formale, non geografica o cronologica. I suoi limiti dovevano essere

stabiliti empiricamente dalla delineazione delle culture piuttosto che dalla

seriazione di tipi individuali. Nondimeno, nonostante Childe mettesse in evidenza

l’importanza di tutti gli aspetti del registro materiale nella descrizione delle

culture archeologiche, nella pratica la maggior parte veniva definita sulla base di

un ridotto numero di manufatti diagnostici (e.g. Childe 1956: 121). Il concetto di

cultura archeologica in Gordon Childe è ad ogni modo più strettamente legato ai

produttori degli assemblaggi archeologici di quanto non lo fosse nell’archeologia

nordamericana, in cui le culture archeologiche coincidevano per lo più con il

“prodotto”, senza tenere particolarmente conto né di chi le aveva prodotte, né di

come queste rispecchiassero un adattamento all’ambiente regolamentato da norme

sociali condivise da un gruppo umano. Si cominciava, dunque, a rispondere

positivamente all’appello lanciato dall’archeologo finlandese Tallgreen (1937)

affinché si smettesse di considerare i manufatti più reali e vivi delle società che li

avevano prodotti e delle genti che li avevano realizzati per sopperire alle proprie

necessità (Trigger 1989: 283).

2.5 Gli approcci funzionalisti e la conjunctive archaeology di Taylor

Quando, nel 1939, Clark pubblicò Archaeology and Society, le culture

archeologiche erano ormai considerate un indispensabile e imprescindibile

strumento euristico a disposizione degli archeologi per la lettura del passato; egli

stesso affermava che l’interpretazione dei dati archeologici era subordinata ad una

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fase classificatoria, in cui era necessario stabilire una successione delle culture, e

alla comprensione di come funzionassero le comunità preistoriche ad esse legate

(Trigger 1989: 284). Già in Prehistoric England (1940), però, i capitoli

organizzati funzionalmente, anziché cronologicamente, indicano che la fase

classificatoria dell’archeologia storico-culturale cominciava ad essere messa in

discussione. Diversamente da Childe, Clark vedeva nel fattore ecologico la causa

prima del mutamento culturale; non trascurava affatto, ad ogni modo, i fattori

economici, intesi come parte integrante dell’organizzazione sociale che intendeva

ricostruire (1952). Parallelamente, l’archeologia dell’America Settentrionale

cercava di superare l’approccio eminentemente storico-classificatorio affermatosi

con il fiorire degli ormai molteplici metodi tassonomici; l’esigenza di

un’interpretazione funzionale e comportamentale dei dati archeologici era, del

resto, la naturale ripercussione delle idee divulgate dalle scuole antropologiche di

Radcliffe-Brown e Malinowski, e l’eco degli approcci funzionalisti di archeologi

del Vecchio Continente quali Childe e Clark non doveva certamente aver

risuonato inascoltato. Kluckhohn e Taylor, in particolare, si fecero portatori

dell’istanza di un approccio “scientifico”, in aperta rottura con l’archeologia

storico-culturale; Taylor raccolse l’invito di Kluckhohn (1940) ad adottare un

approccio congiunto che unisse gli studi delle relazioni tra diversi siti con studi

particolareggiati del singolo sito, nei quali avrebbero giocato un ruolo chiave gli

aspetti quantitativi e la distribuzione spaziale dei manufatti, dedicando

contemporaneamente un’estrema attenzione a tutti i manufatti, anziché

privilegiare alcune classi (Trigger 1989: 296). Quale fu, dunque, il ruolo delle

culture archeologiche in questa fase della ricerca? Taylor distingue tra la

“cultura”, intesa nella sua accezione partitiva, e la Cultura in senso olistico;

quest’ultima è un concetto descrittivo o esplicativo per i costrutti mentali messi a

punto e trasmessi dagli individui – ma non si escludono idiosincrasie scostanti dal

processo di trasmissione (1948: 109). Le culture archeologiche sarebbero invece

dei sistemi mutuati dalla storiografia, composti da tratti culturali e di norma

condivisi all’interno di un gruppo o di una società (ibidem: 110): fenomeni

mentali, anch’esse. Sostenere che la cultura sia un concetto mutuato dalla

storiografia, significa affermare che la scala della ricerca è quella del sito,

15

circoscritto in termini di tempo e spazio: in questo, così come nel non negare a

priori la possibilità di stabilire leggi o generalità –considerandola, tuttavia, una

possibilità piuttosto remota-, sta l’influenza di Boas su Taylor (ibidem: 38). Ciò

che è ancora più importante, ad ogni modo, è che la visione della Cultura e delle

culture come fenomeno mentale esclude che si possa parlare di “cultura

materiale”, dal momento che i manufatti e le evidenze archeologiche in generale

sarebbero un mero riflesso, un’oggettivazione della Cultura, residente sul piano

superorganico; le critiche a questa concezione non mancarono, a partire dal

materialista White, che sosteneva il legame concettuale tra la cultura extra-

somatica e le espressioni di questa, “misurabili” empiricamente e considerabili, a

pieno titolo, esse stesse cultura (White 1959: 237). La visione di Taylor verrà

recuperata, decenni dopo, dalle archeologie cosiddette post-processuali; prima di

allora, i processualisti della New Archaeology si schiereranno in gran parte con

White (ma cfr. Caldwell 1959), in particolar modo colui che verrà considerato il

principale esponente della New Archaeology: Lewis R. Binford (e.g. 1972).

2.6 New Archaeology

Le pubblicazioni di The New American Archaeology di Joseph Caldwell

(1959) e di due articoli di Lewis Binford, Archaeology as Anthropology (1962) e

Archaeological Systematics and the study of Culture Process (1965), vengono

generalmente considerate il giro di boa del pensiero archeologico; in realtà,

nonostante l’indubbio elemento di rottura rappresentato dalla New Archaeology, è

ancora possibile scorgere elementi di continuità con i precedenti approcci

funzionalistici, per quanto “filtrati” dalle teorie di White in un momento storico in

cui il neoevoluzionismo si riprendeva la ribalta sulla scena dell’antropologia

culturale americana. Nel 1966 veniva pubblicato An Introduction to American

Archaeology di Gordon Willey; in una delle recensioni, ad opera di Kent Flannery

e avente come titolo Culture history v. culture process: a debate in American

archaeology (1967) venivano messe in evidenza le differenze cruciali tra

l’approccio storico-culturale e quello processuale. Se anche un archeologo

16

funzionalista ed esponente (tra i principali) della scuola ecologica veniva

inquadrato, per sua stessa ammissione, tra gli archeologi storico-culturali, si

capisce come la New Archaeology rappresentasse per molti versi una rottura con il

passato; nonostante non mancassero delle premesse comuni – Binford cita lo

stesso Willey, asserendo che “l’archeologia è antropologia o nient’altro” (Willey e

Sabloff 1959, citato in Binford 1962: 217) – le differenze vertevano sul ruolo che

l’antropologia, e con essa l’archeologia che ne era una branca, doveva avere nella

spiegazione del passato. La tendenza idiografica, come quella portata avanti da

Willey nella sua sintesi sull’archeologia precolombiana, doveva – a detta dei

processualisti – cedere il passo ad un approccio nomotetico che avrebbe portato

alla ricerca di regolarità nei processi culturali, per mezzo di un metodo non più

induttivo, bensì deduttivo. Se, dunque, le culture archeologiche avevano fino a

quel momento avuto il ruolo di tessere di un mosaico che, una volta completato,

avrebbe fornito cronologie e distribuzioni spaziali dei gruppi etnici preistorici, da

Binford in poi ci si occupò di analizzare funzionalmente ogni singola tessera, non

più nell’ottica di una sua collocazione geografica e temporale, bensì in vista di

una spiegazione sulla genesi dei singoli processi, laddove un processo è inteso

come l’insieme delle modalità con cui un sistema, ossia un complesso di elementi

interconnessi tra loro che funziona come una singola entità, opera e subisce

modifiche strutturali (Binford 1962)

Quando Binford coniò l’espressione “archeologia normativa” (1965) per

designare la teoria di trasmissione della cultura propria degli archeologi storico-

culturali, forzava consapevolmente il pensiero di questi ultimi al fine di porre la

maggiore distanza possibile tra il loro pensiero e la sua visione di come

l’archeologia dovesse spiegare i cambiamenti culturali; ne criticava, in particolare,

la propensione ad intendere le culture come insiemi di assemblaggi, tipicamente

denominati “tratti culturali”, soggetti a “trasmissione ideativa”, e suscettibili di

modifiche strutturali a partire da singole “derive” idiosincratiche. Un esempio di

quale grado di correlazione esistesse tra le differenze nell’intendere la cultura e il

modo in cui questa venisse trasmessa e subisse variazioni, e le differenze nello

stabilire quali fossero gli obbiettivi della ricerca archeologica, ci viene offerto da

due pubblicazioni, redatte a distanza di un anno l’una dall’altra, aventi come

17

oggetto generale la c.d. Cultura di Red Ocher. Nel 1962, Ritzenthaler e Quimby

pubblicano uno studio sulle evidenze pertinenti alla Cultura di Red Ocher

distribuite lungo i quattro Grandi Laghi del Nordamerica, con l’obbiettivo di

“definire approssimativamente la Cultura di Red Ocher dall’analisi di tutte le

relazioni dei siti di cui si ha notizia, e tracciarne la distribuzione”; tale cultura

viene intesa come la somma di tratti “nucleari” costantemente ricorrenti (velo di

ocra rossa nelle sepolture a inumazione flessa, grandi lame in selce biancastra

“dall’aspetto solutreano”, lame “a coda di tacchino” in selce grigia-bluastra,

piccole punte ovali o triangolari, presenza di oggetti in rame, perline tubolari

ricavate da conchiglie), tre dei quali -grandi lame cerimoniali, punte ovali-

triangolari e lame “a coda di tacchino”- ritenuti diagnostici, a cui si aggiungono

sporadicamente tratti cosiddetti marginali (inumazioni in tumuli, cremazioni o

altre tipologie di seppellimento secondario, presenza di blocchi grezzi di galena,

collane di conchiglie circolari o ovali, birdstones). La cultura di Red Ocher viene

quindi confrontata con quella di Glacial Kame, sovrapponibile geograficamente e

cronologicamente e caratterizzata dai medesimi tratti “marginali” della prima, ma

avente un differente tratto “diagnostico”: la collana fatta di conchiglie marine

lavorate cosiddette sandal-sole shaped; nell’esaminare una sepoltura ritenuta

Glacial Kame, gli autori affermano che “se invece delle collane a suola di sandalo

ci fosse stata una o più lame a coda di tacchino, avremmo assegnato il sito al Red

Ocher” (ibidem: 256; traduzione di chi scrive, corsivi aggiunti). Viene, infine,

presa in esame l’eventualità che entrambe le culture derivino da quella

denominata Old Copper, e si conclude datando la Red Ocher sulla base di

relazioni geologiche, associazioni stratigrafiche e date radiocarboniche; si segue,

in sostanza, una tipica procedura storico-culturale. Un anno dopo, Binford

pubblica – anch’egli – un lavoro che ha come oggetto generale di indagine la

cultura di Red Ocher: le premesse, però (a partire dal titolo: “Red Ocher caches

from the Michigan area: a possible case of cultural drift”), sono affatto differenti,

così come l’impostazione e le conclusioni a cui tende. L’oggetto di analisi non è,

in questo caso, la cultura Red Ocher intesa come contenitore del quale si

intendano trovare i limiti geografici e cronologici e si possa, così facendo,

valutare cosa sia lecito inserire al suo interno; si intende, piuttosto, testare l’ipotesi

18

della deriva culturale come spiegazione della presenza, all’interno di singole

sepolture rinvenute nel sito di Pomranky – Michigan, di lame di differenti varietà.

Le domande a cui si tenta di rispondere sono: (a) se esistano o meno altre

sepolture “Red Ocher” che presentino singolarmente differenti varietà di lame

deposte al loro interno; (b) se esistano varietà ricorrenti in più di un sito -il che

suggerirebbe un’origine locale differente per ognuna di esse, ma anche una loro

circolazione all’interno della regione-; (c) se le differenze osservabili all’interno

della popolazione statistica delle lame in oggetto siano la spia di differenti

patterns regionali, ponendo così le basi per la comprensione dei processi di

cambiamento e differenziazione culturale aventi avuto luogo nel range

cronologico pertinente ai campioni (1963: 89). La questione (c), in particolar

modo, presupponeva la ricerca di un modello esplicativo che Binford individuò ˗

con le dovute riserve e qualche modifica, in modo da renderlo uno strumento

analitico di effettiva applicabilità al registro archeologico (ibidem: 91) ˗ nel

concetto di “deriva culturale”, una teoria mutuata dalla genetica e dalla linguistica,

secondo la quale i cambiamenti all’interno di un sistema possono avere luogo a

partire da singole idiosincrasie consistenti in scostamenti casuali dalle proporzioni

attese (alla stregua dei cosiddetti “errori di campionamento” propri della deriva

genetica). Buona parte dell’analisi di Binford verte sulla comparazione tra le

variazioni nella fabbricazione dei manufatti a livello del singolo sito e quelle

registrate nei siti culturalmente affini e geograficamente prossimi; la seriazione

statistica prende il posto della mera seriazione tipologica. Non solo non vi è

traccia di culture archeologiche differenti in spazio e tempo, ma la stessa cultura

di Red Ocher non è soggetta ad un’indagine volta a stabilirne limiti e peculiarità,

bensì viene fatta oggetto di un’analisi funzionale e processuale limitatamente ad

alcuni aspetti, tralasciandone volutamente alcuni altri (tra cui quello eponimo

della cultura, ossia la velatura di ocra rossa sui corpi inumati). Nel primo caso, la

sola spiegazione al problema su come abbiano avuto origine le manifestazioni

culturali che caratterizzano la Red Ocher, viene fornita in termini di dipendenza

filetica dalla precedente cultura di Old Copper; nel caso del lavoro di Binford,

l’approccio processuale utilizza un modello per spiegare alcuni dei processi

ritenuti cruciali nella genesi dei cambiamenti avvenuti nel quadro del sistema Red

19

Ocher. Nemmeno i seguaci della New Archaeology, tuttavia, potevano ignorare il

mosaico delle culture archeologiche messo a punto fino a quel momento, tant’è

che le singole culture continuavano a svolgere il ruolo di singole unità discrete al

cui interno erano osservabili affinità di cui era necessario tenere conto, anche in

vista di analisi focalizzate su singoli sottoinsiemi. Eppure, l’antistoricismo che

caratterizzava gran parte della ricerca dell’archeologia processuale americana,

specchio di una disistima nella storia in quanto priva di carattere pratico che era,

in quegli anni, una tendenza imperante in un’America più propensa ad attribuire

valore a ciò che era tecnologicamente utile, portò molti archeologi a prendere le

distanze da una comprensione del passato di tipo storico, in favore di un approccio

teso a trovare le regole generali del comportamento umano e che veniva

considerato il sommo risultato per un archeologo (Trigger 1989: 338). Le culture

archeologiche, che erano gli attori storici per eccellenza in quanto portatrici di

specificità e unicità e, in virtù di questo, fenomeni irripetibili, non potevano avere

all’interno dell’archeologia processuale un ruolo di primo piano. Un punto di

contatto tra le classificazioni e i taxa delle culture archeologiche e il metodo

deduttivo della New Archaeology è stato proposto da Fritz e Plog:

«Noi tutti sappiamo che gli archeologi possono direttamente osservare le proprietà

formali e contestuali dei loro dati, mentre non possiamo osservare direttamente le

funzioni di questi dati. Nondimeno, assegniamo di buon grado a oggetti particolari utilizzi

particolari. Ciò non viene fatto arbitrariamente, ma con la convinzione che tali oggetti

abbiano tali utilizzi. Senza tale convinzione, non ci sarebbe alcun fondamento logico

nello scegliere alcune caratteristiche tra il potenzialmente infinito numero che un oggetto

possiede, né nell’affermare che ciò è dovuto alla funzione dell’oggetto. Ma deve esserci

una ragione alla base di questa convinzione. Ipotizziamo che gli archeologi affermino che

tale relazione esista in un caso particolare perché pensiamo che esista in tutti i casi simili.

Queste convinzioni, dunque, hanno forma di asserzioni universali condizionali.

Affermano, essenzialmente, che se una particolare attività è avvenuta, allora un certo

insieme di caratteristiche sarà rinvenuto nel registro archeologico. Ad esempio, quando

classifichiamo un oggetto come “ascia”, lo facciamo perché pensiamo che tutti gli oggetti

usati come asce abbiano in comune alcune caratteristiche che anche questo oggetto

possiede. In breve, sosteniamo che molte classificazioni siano esplicative e conformi al

modello di Hempel-Oppenheim. (…) Osserviamo un oggetto o un tratto saliente, e

20

notiamo che ha un determinato insieme di caratteristiche. Spieghiamo queste

caratteristiche classificandolo; ossia, affermando che ebbe una determinata funzione in

passato. Questa classificazione è inevitabile ovvero logicamente necessaria, in quanto il

ragionamento è deduttivo; cioè, passa da una premessa generale a una premessa

particolare, fino ad una conclusione particolare. (…) La classificazioni delle “culture”, o

di altri più generici taxa, ad esempio, richiedono alcuni assunti o leggi sulla natura delle

“culture” in generale, e sulle loro manifestazioni empiriche. Interpretazioni di relazioni

generiche tra culture specifiche o di processi culturali all’interno di una data sequenza

culturale sono anch’esse derivate da leggi su tali fenomeni in senso generale» (Fritz e

Plog, 1970; traduzione di chi scrive).

È stato fatto notare (Levin 1973) che «l’affermazione secondo la quale la

classificazione fa di per sé uso di leggi è corretta; ciò che non è condivisibile è la

ragione per cui la classificazione archeologica sarebbe esplicativa e nomotetica,

dal momento che, classificando un ciottolo scheggiato su ambo i lati come “un

chopper”, faccio uso della generalizzazione “tutti i bifacciali scheggiati su ambo i

lati erano, una volta, choppers”, ma questa generalizzazione non serve a

comprendere perché fosse un chopper». La caratteristica presentata da Fritz e Plog

come un trait d’union mette invece in evidenza come la distanza tra i due approcci

resti, in realtà, consistente. Bisogna comunque considerare che la rivoluzione

apportata nel campo della cronologia dal metodo del radiocarbonio, messo a punto

all’inizio degli anni ’50 e perfezionato nei decenni successivi, deve aver svolto un

ruolo decisivo nello spostamento dell’attenzione verso problemi differenti da

quello della collocazione dei manufatti sul piano temporale (Manacorda 2008:

217). Le culture archeologiche erano percepite come strumenti sempre meno utili

al lavoro dell’archeologo, sempre più impegnato a cercare leggi universali del

comportamento umano tanto da far sorgere il dubbio che lo scopo potesse, in fin

dei conti, essere raggiunto tanto indagando un sito Arikara del sedicesimo secolo,

quanto un deposito di rifiuti della Tucson del 1981 (Flannery 1982: 274).

Nell’esasperato tentativo di molti degli archeologi che operavano seguendo il

paradigma processuale di rendere l’archeologia una scienza oggettiva, e di

equipararla all’antropologia, andava perdendosi –oltre all’innocenza- la cultura

come spiegazione dei comportamenti umani. Il concetto di cultura archeologica

21

non era del tutto incompatibile con la metodologia adottata dall’archeologia

processuale, semplicemente le culture archeologiche non erano più l’oggetto

centrale della ricerca.

2.7 Le culture archeologiche secondo David Clarke

Diversamente da quanto avveniva negli USA, in cui i dipartimenti di archeologia

erano strettamente collegati a quelli di antropologia, nel mondo accademico

europeo l’archeologia era sempre stata legata ai dipartimenti di storia, per effetto

evidente dell’archeologia classica, per cui nessuno, nel Vecchio Continente, sentì

mai l’esigenza di far coincidere in toto la disciplina archeologica e quella

antropologica. David Clarke, che pure è stato uno dei più influenti processualisti,

affermava del resto che “l’archeologia è l’archeologia è l’archeologia” (1968). Nel

dare una prima definizione operativa di cultura archeologica, Clarke la indica

come “un gruppo politetico di tipi di manufatto specifici e comprensivi che

compaiono insieme in modo consistente in insiemi entro un’area geografica

limitata” (ibidem: 190). Una prima, sostanziale differenza rispetto alle definizioni

di Childe è data dall’aggettivo “politetico” ad indicare la natura degli insiemi

archeologici costitutivi di una cultura; poco oltre, Clarke aggiunge:

«La manipolazione persistente delle culture archeologiche come gruppi rigidi,

reciprocamente esclusivi, monotetici di manufatti hanno giustamente mancato di

impressionare generazioni di studenti. Cosiddette culture composte quasi interamente da

singoli aspetti della cultura materiale hanno portato aggiunte a questa cattiva reputazione.

Metodi mal definiti e ad ampia diffusione della tecnologia degli utensili in selce sono stati

persistentemente elevati a status di cultura in un modo che annulla le affinità e le

somiglianze dell’intero insieme di manufatti implicato (…) vi sono state culture definite

da singoli tipi ceramici in modo tale che la ceramica grossolana comune è stata posta in

una cultura e la ceramica più fine in un’altra – anche di fronte a una persistente

associazione fisica. (…) La linea disturbante di usi vari e indefiniti del termine “cultura”

potrebbe essere estesa senza fine senza neppure avere il merito della coerenza in alcuni

autori. Anche se il continuo cattivo uso di un concetto fondamentale deve danneggiare

seriamente il suo valore residuo di informazione non dovremmo cadere nell’errore di

supporre che l’entità non riesce a restare un’entità fondamentale, o che è impossibile

22

definirla adeguatamente. Non possiamo sperare in un accordo tra archeologi sulla

definizione di termini particolari ma almeno possiamo insistere sul fatto che essi

indichino che cosa vogliono dire con un termine prima di usarlo» (ibidem: 191).

Si può notare come una delle prime critiche mosse da Clarke ai modelli

archeologici generalmente proposti – sia implicitamente che esplicitamente –

riguardi la natura monotetica delle tassonomie prese in esame dagli archeologi al

momento di definire un insieme, un gruppo o una cultura. Un gruppo monotetico

è un gruppo di entità all’interno del quale ogni membro deve necessariamente

avere tutti gli attributi qualificanti; Clarke obbietta che nessun gruppo di insiemi

culturali di un’unica cultura contiene mai, né ha mai contenuto, tutti i manufatti

culturali prodotti da quella cultura, e oppone a questa classificazione l’altra classe

di gruppi tassonomici – i gruppi politetici, gruppi all’interno dei quali ogni entità

possiede un gran numero degli attributi del gruppo, ogni attributo è condiviso da

un gran numero di entità e nessun singolo attributo è necessario e sufficiente per

l’appartenenza al gruppo (ibidem: 39). La prima e più diretta conseguenza, è la

critica alla frequente quanto eccessiva fiducia riposta nei c.d. fossili-guida come

criterio decisivo dell’appartenenza di un attributo a un gruppo; il concetto stesso

che sta alla base dell’individuazione di attributi denominati “tipici” è visto con un

certo scetticismo, in particolare per la loro natura di attributi individuati a priori,

anziché in seguito ad un’analisi completa che sia, dunque, anche quantitativa. In

questo senso, nemmeno la sostituzione del termine “tipico” con il termine

“diagnostico” sarebbe sufficiente a ridurre il problema ad un livello nominale, in

quanto la “diagnosi” indicherebbe ancora una volta un’analisi meramente

qualitativa, rispondente nella maggior parte dei casi a valutazioni elaborate, sì, a

posteriori dal confronto con altri complessi considerati appartenenti ad un’entità

altra rispetto a quella della quale l’attributo o il manufatto chiamato diagnostico

sarebbe espressione, ma a priori rispetto a qualsiasi analisi di tipo statistico. Una

volta definita la “cultura archeologica”, Clarke individua al suo interno una serie

di suddivisioni che chiama sottoculture archeologiche, ognuna delle quali sarebbe

“un segmento o allineamento di attività infraculturali caratterizzato da uno

specifico complesso di tipi”; il concetto potrebbe essere inteso come parzialmente

23

sovrapponibile a quello di facies (cfr. Cocchi Genick 2005), ma il considerarle

come entità semi-indipendenti porta naturalmente ad un approccio diversificato a

seconda della varietà di sottocultura che si intende analizzare. In particolare, nel

fornire alcuni esempi di formati di sottocultura, Clarke propone ad esempio

spiegazioni di tipo ecologico nel tracciare l’analisi di una sottocultura regionale,

spiegazioni di matrice materialistico-culturale per quanto attiene alle sottoculture

occupazionali, o di natura sociologica nell’indagine di sottoculture sociali o

sessuali; è, questo, un approccio pienamente funzionale –oltre che processuale-,

non solo nell’individuazione di sottocategorie costitutive della cultura, ma anche

nelle modalità con le quali si affronta la spiegazione della genesi (e della “morte”,

specialmente nel caso delle sottoculture etniche) di ciascuna di esse. Le culture

archeologiche, così definite, rappresenterebbero il sottosistema di cultura

materiale di un sistema socioculturale specifico, nonché le categorie di entità con

il più grande contenuto di informazione; spostando l’indagine su una scala più

ampia, le singole culture sono anche parte di gruppi di culture, a loro volta facenti

parte di categorie ancora più generali designate come tecnocomplessi, entità che

comprendono gruppi di culture caratterizzate da complessi che condividono una

gamma politetica ma differenti tipi specifici delle stesse famiglie generali di tipi di

manufatto, condivisi come risposta ampiamente diffusa e interconnessa a fattori

comuni nell’ambiente, nell’economia e nella tecnologia (ibidem: 249). Clarke non

si sottrae, inoltre, alla questione della corrispondenza tra entità archeologiche e

raggruppamenti sociali, linguistici e razziali; la cultura archeologica, in questo

senso, viene intesa come “il prodotto di un gruppo di persone con

un’organizzazione tribale, un sistema di linguaggio e una popolazione largamente

omogenei, che la popolazione stessa riconosca l’insieme o meno. La cultura

archeologica disegna un’entità che esisteva realmente, segnando

un’interconnessione reale; che questa entità non sia identica a entità storiche,

politiche, linguistiche o razziali non la rende meno vera o importante. Le entità

archeologiche riflettono realtà altrettanto importanti di quelle riconosciute dalle

classificazioni tradizionali di altre discipline; le entità in tutti questi campi sono

ugualmente reali, ugualmente arbitrarie e semplicemente diverse.”

24

In un momento storico in cui l’archeologia sembra volersi disfare delle

culture archeologiche, viste come un trucco concettuale per raggruppare insieme

siti e manufatti in assenza di metodi di datazione assoluta indipendente, o ritenute

fuorvianti ai fini del riconoscimento della variabilità rilevante nel comportamento

umano (e.g. Daniel 1971; Binford 1973; Higgs 1975), Clarke riassegna loro un

ruolo centrale nella ricerca paletnologica, quali unità organizzative di analisi

indispensabili per lo studio di sistemi che sono stati in passato operativi. Al pari

dei processualisti americani, considera la narrativa storica un pericolo

costantemente in agguato quando ci si appresta a veicolare i risultati archeologici,

in quanto viziata da una finalità apparente e fondata su probabilità complesse;

diversamente da Binford e da gran parte dei processualisti del Nuovo Continente,

però, non ritiene che l’archeologia debba essere totalmente sovrapponibile

all’antropologia, assegnando piuttosto a quella la dimensione temporale di questa

– e dell’etnologia. Nell’affermare che “l’archeologia è l’archeologia, è

l’archeologia”, Clarke invocava il riconoscimento della specificità di una

disciplina in termini di natura dei dati raccolti, di spiegazioni proposte, in scopi,

concetti e procedimenti archeologici (ibidem: 22); un decennio più tardi, con la

frammentazione dell’archeologia nelle molteplici “archeologie post-processuali”,

avvenne però l’opposto.

2.8 Le culture archeologiche nel post-processualismo

L’avvento delle cosiddette archeologie post-processuali ha fatto sì che la scala

dell’analisi andasse nuovamente spostandosi e, con essa, l’oggetto della ricerca

archeologica; prendendo come modello la scala delle inferenze di Hawkes (1954),

si può affermare che l’elemento comune tra le varie scuole post-processuali sia il

livello di analisi focalizzato sui gradini più alti di tale scala, quelli cioè legati al

superorganico; le idee di Weber, e in particolar modo la teoria secondo cui

l’ideologia e l’economia si influenzerebbero reciprocamente e costantemente

devono, in questo senso, aver giocato un ruolo importante nel processo di

allontanamento dalla visione materialista e da qualsiasi determinismo della

25

struttura nei confronti della sovrastruttura. I nuovi approcci alla spiegazione della

complessità sembravano, inoltre, incompatibili con il concetto di cultura

archeologica; la distinzione tra associazioni casuali e non-casuali, ha sollevato più

di una perplessità riguardo l’effettiva classificazione dei tratti culturali di una

determinata area geografica in unità discrete inquadrabili come culture

archeologiche: le associazioni casuali, sarebbero (Hodder e Orton 1976) il frutto

della scelta arbitraria di un punto di partenza, all’interno di una regione, sulla base

del quale cercare affinità e divergenze culturali nelle aree contigue, creando così

dei confini inattendibili quanto il concetto stesso di cultura archeologica. Renfrew

(1977: 94) ha addirittura proposto, sulla scorta di questa ipotesi, che le culture

archeologiche cessassero di ricoprire il ruolo di unità discrete di analisi nella

ricerca archeologica. Con ogni probabilità, i numerosi abusi legati all’utilizzo del

concetto di cultura archeologica devono anch’essi aver influito in maniera

decisiva sulla sua scomparsa dall’agenda di buona parte dell’archeologia post-

processuale; basterebbe pensare, ad esempio, a come le rivalità tra studiosi

possano portare ad un’elevata inflazione delle culture archeologiche individuate in

un territorio, come evidenziato dal numero delle culture dell’Età del Bronzo lungo

le steppe Eurasiatiche (Roberts e Vander Linden 2011: 5), o ancora, che persino

dietro alle pretese avanzate su territori contesi tra diversi gruppi etnici nell’ex

Unione Sovietica comparissero le culture archeologiche (Galaty e Watkinson

2004: 13). Per di più, da un punto di vista metodologico, un accumulo massivo di

dati può portare ad una formulazione apparentemente infinita di sottogruppi

culturali, come è avvenuto per le ceramiche della cultura Jomon in Giappone

(Habu 2004: 37). Ad ogni modo, le obiezioni di Hodder e Orton, così come quelle

di Renfrew, recavano con esse una domanda cruciale: le culture archeologiche

riscontrate empiricamente erano uno specchio attendibile dei mutamenti culturali?

Hodder tentò di rispondere a questa domanda in Symbols in Action (1982),

scaturito da uno studio etnoarcheologico nel distretto di Baringo, in Kenya; le

conclusioni a cui pervenne (ibidem: 185 e sgg.) rivelano un notevole scetticismo

sull’attendibilità del ricorso alla cultura materiale nella lettura del passato,

perlomeno in assenza di un approccio “emico” che tenga conto del ruolo attivo

che questa svolge all’interno delle società – e del singolo individuo -. La ricerca

26

etnoarcheologica, da questo momento in poi, verrà largamente utilizzata nel

dibattito sulla formazione dello stile, seguito sempre più frequentemente da

discussioni concernenti il ruolo delle persone nella costruzione e nell’utilizzo

della cultura materiale; questo ha indubbiamente favorito la sostituzione della

ricerca delle azioni individuali con il tentativo di contestualizzare i manufatti,

dando luogo a studi sulla trasmissione culturale e sull’agentività nel corso dei

quali vengono esplorati i processi nello stile formale, nella strutturazione spaziale

o in ogni altra forma di organizzazione materiale, al livello delle corrispondenti

azioni umane (e.g. Dobres e Robb 2000; Gamble 2001). In una recente intervista,

però, Hodder muove quella che è forse la sua critica più esplicita riguardo al

concetto e all’utilizzo tanto del termine “cultura” nella sua accezione olistica,

quanto delle singole culture archeologiche:

«Sono dell’opinione che cultura non sia un termine utile. Tende ad essere reificante e

pericoloso. Preferisco disgregarlo e parlare dei vari processi che lo costituiscono. In

archeologia è un termine molto, molto negativo. C’è un problema con la cultura,

specialmente nel contesto europeo, per via della tradizione storico-culturale. Anche al

giorno d’oggi, il modo in cui le persone rivendicano le culture come parte di processi

sociali contemporanei è, credo, molto preoccupante. Non vedo molti vantaggi nel

conservare il termine. (…) Se dovessi chiederti cosa intendi con “culturale”, risponderesti

probabilmente “relazioni semiotiche” o “relazioni fenomenologiche”. Per quale motivo

dovremmo avere bisogno della parola “culturale” come aggettivo di fronte a “categorie”?

Le variazioni ceramiche (…) sono il risultato di un intero range di processi differenti:

sociali, ed economici, e di ogni sorta. Hai effettivamente bisogno di estrapolare questi

processi e lavorarci su. E c’è, realmente, un continuum di variazioni in ciò. Il problema è

quando si tenta di sopprimerlo, e si dice “lo affronterò in una determinata maniera”,

perché come sappiamo, ogni genere di struttura categorica e tipologica è legata ad una

particolare prospettiva. Così, nel mondo contemporaneo, è preoccupante tentare di creare

gruppi culturali, perché questo è sempre legato a posizioni di interesse. Provare a definire

le culture nel passato è sempre, come sappiamo, parte di un tentativo che mira a ritrovare

le nostalgiche origini di qualcuno, o a creare un senso di continuità». (fonte:

http://ucexchange.uchicago.edu/)

27

Nel 1982 Flannery aveva previsto, nel suo The Golden Marshalltown, uno

scenario molto simile a quello tracciato da Hodder; il concetto di cultura cessava

di essere il tema unificante dell’archeologia, allegoricamente rappresentato dalla

trowel dell’Old Timer Archaeologist, rivestita d’oro dalla nuova generazione di

archeologi in occasione del pensionamento anticipato del suo proprietario, in

modo da renderla un pezzo da museo non più spendibile nella ricerca

archeologica.

Bisogna ad ogni modo tenere presente che il fenomeno post-processuale è un

fenomeno accademico (Shanks 2009), così come lo è stato quello processuale, ed

è bene soffermarsi su questo punto, se si vuole comprendere perché, tutto

sommato, si continui a fare riferimento alle culture archeologiche. Se si guarda

agli USA, le politiche di conservazione del patrimonio archeologico messe in atto

a partire dalla metà degli anni ’70 hanno portato ad un incremento degli

archeologi slegati dal mondo accademico, e inquadrabili nel Cultural Resources

Management (CRM); nel 2009, quest’ultima categoria costituiva il 90% degli

archeologi negli USA (Watson 2009). Si comprende, dunque, come si renda

difficile per gli archeologi CRM mantenere una partecipazione e una presenza

costante all’interno della comunità accademica dei non-CRM, e mantenere allo

stesso tempo gli impegni di lavoro sul campo, di laboratorio e di tutela e

valorizzazione del patrimonio archeologico. Il dibattito teorico sui massimi

sistemi dell’archeologia ha quindi visto un contributo minimo da parte della

categoria che, al momento, si occupa della gran parte del lavoro sul campo

nell’archeologia statunitense (ibidem, 32), e che resta purtroppo distante dal

mondo della ricerca per obbiettivi e approcci (Shanks 2009: 21). Un parallelismo

può essere tracciato guardando alla situazione italiana; la tutela preventiva e gli

scavi di emergenza sono stati affidati nel 1974 alle Soprintendenze

Archeologiche, e questo ha fatto sì che per le problematiche affrontate dagli

addetti ai lavori fossero di scarso aiuto tanto gli approcci funzionalistici, legati al

ruolo adattivo delle componenti dei sistemi culturali, quanto la ricerca delle

generalità dell’archeologia processuale o gli approcci cognitivi, strutturalisti o

agentivi propri del post-processualismo. Questo ha fatto sì che il concetto di

cultura archeologica non venisse definitivamente accantonato, ma il prezzo da

28

pagare è stato probabilmente una tendenza alla classificazione e allo studio

tipologico a discapito di una ricerca focalizzata alla natura, alle modalità e ai

meccanismi di mutamento culturale. A questo si aggiunga che in Italia, per varie

ragioni, il mondo accademico si è a lungo dimostrato impermeabile alle questioni

sollevate dall’archeologia processuale (Bietti Sestieri 2001), venendo così a

mancare l’elemento che più di ogni altro avrebbe potuto rinnovare l’approccio

storico-culturale e, con esso, il concetto di cultura archeologica.

2.9 Le culture archeologiche nella paletnologia sarda

Nelle considerazioni di Taramelli (1927) sulla genesi della “civiltà nuragica” e sui

rapporti tra questa e i “neolitici” si assiste ad una inaspettata interpretazione

evoluzionista; i termini “civiltà”, “razza” e “schiatta” ci informano, peraltro, che

sarebbe inutile cercare tra le righe il concetto di cultura archeologica basato sugli

assemblaggi e sulle associazioni ricorrenti. Le culture archeologiche sembrano

comparire in Sardegna a partire dai primi anni ’60, con le prime sintesi di ampio

respiro; prima di allora, nell’affrontare le evidenze materiali di quella che verrà

poi definita la cultura di Ozieri, si parlava genericamente di “civiltà Anghelu

Rùju-San Michele d’Ozieri” (Lilliu 1957: 42). Ancora nel 1958, Audibert parlava

di “style Ozieri I e II”, ma l’unità formale tra i materiali della grotta eponima e

quelli di altre località dell’Isola non andava oltre le analogie nella decorazione

ceramica; il riconoscimento di un’omogeneità culturale che comprendesse l’isola

intera era ancora lontano. Nel 1963 la cultura di Ozieri (alternativamente chiamata

“di San Michele”) compare in tre lavori, due dei quali di matrice anglosassone:

The Ozieri Culture in Sardinia (Warwick Bray), Sardinia (Margaret Guido) e La

civiltà dei Sardi di Giovanni Lilliu. In quest’ultima sintesi, la cultura di San

Michele assume per la prima volta la nota veste di «cultura basica o di fondo,

potremmo anche dire popolare. Essa costituisce l’orditura generale della civiltà

isolana dell’età del rame, quella per cui, nelle complicanze particolari di talune

aree specifiche, l’organismo culturale mediterraneo, in forme materiali e nel suo

29

abito etico, conserva, anche in Sardegna, la sua essenziale unità, il suo volto

caratteristico» (Lilliu 1963: 36).

«La classificazione progressiva delle culture paleosarde si basa ancora sul criterio della

comparazione dei resti che le costituiscono con elementi affini di aree di civiltà (iberiche,

centroeuropee, italiche, balcaniche ed orientali in specie) le quali mostrano di avere una

certa conclusione o stabilità cronologica. Criterio e strumenti incerti, per la verità, tenuto

conto che l’isola (...) ha avuto solo in alcuni periodi una certa circolazione culturale nel

circuito panmediterraneo ed europeo (…) Tuttavia, in attesa del meglio, non respingiamo

il metodo comparativo, con le riserve del caso, e fondiamo su questo anche il nostro

schema. In attesa e con l’augurio che, in sede internazionale, possa trovarsi e concordarsi

un modo di caratterizzare e distinguere le culture antiche fuori del principio della materia

di cui si compongono gli oggetti relativi (principio naturalistico sebbene ripreso

nell’alone della poesia di Lucrezio), su questo metodo classificatorio, in cui si trovano

però anche valori positivi (si pensi all’importanza rivoluzionaria della lega del bronzo e

del metallo del ferro nello sviluppo e nella trasformazione delle civiltà e delle società

umane), noi fondiamo ancora il profilo progressivo delle culture sarde prenuragiche e

nuragiche» (Lilliu 2003: 11).

Il primato del confronto tipologico sui metodi di datazione assoluta è

ribadito con l’affermazione che le tabelle di cronologia assoluta sono fornite “a

puro titolo di orientamento, [con la consapevolezza] che questa della

periodizzazione dei momenti culturali è quanto di più relativo possa esistere”

(ibidem: 14). Non deve sorprendere, inoltre, il richiamo ad un sistema alternativo

a quello delle Tre Età; da Lilliu in poi, la periodizzazione della Sardegna è sempre

stata costruita distinguendo in prima analisi tra età (Civiltà) Nuragica, e

Prenuragico (e relative culture).

Ercole Contu, in una delle rare teorizzazioni che la paletnologia sarda ha elaborato

intorno al concetto, stabilisce una dicotomia tra “cultura preistorica” e “Civiltà”,

escludendo l’opportunità di quest’ultimo termine tanto per le fasi preistoriche,

quanto per quelle protostoriche, in virtù del fatto che:

«con la Civiltà si precisano la specializzazione dei mestieri, un conseguente maggiore

progresso tecnico, una più diffusa produzione di beni ed un ampio commercio dei

30

medesimi, una elevata organizzazione civile. A tutto ciò consegue poi l’invenzione e

l’uso della scrittura, prima a scopi amministrativi e quindi per gli impieghi più disparati.

Non fa perciò meraviglia se gli antichi abitatori della Sardegna non useranno la scrittura,

che pure altrove era stata inventata alcuni millenni prima: e questo proprio perché mai si

raggiunse nell’isola il livello della Civiltà Urbana, dato che lo sviluppo si fermò al livello

del villaggio: le prime città sarde saranno quelle impiantate alcuni secoli dopo il 1000 av.

C. dai conquistatori fenicio-punici. Se quindi al termine di civiltà si dà il significato più

sopra indicato – ma non esiste accordo fra gli studiosi a questo riguardo – si vede che la

Preistoria e la Protostoria, con le pur splendide manifestazioni che le caratterizzano in

Sardegna, non possono includersi in questo termine. In questi casi, e con queste premesse

è perciò più esatto usare, invece di civiltà, un termine che da tempo gli studiosi

dell’archeologia preistorica hanno mutuato dagli studiosi dei popoli primitivi attuali

(etnologi): il termine di cultura o, nel caso specifico, di cultura preistorica. E così, come si

parla per l’Africa attuale di Cultura Boscimana, si può parlare per esempio, per la

Sardegna preistorica, di Cultura di Bonnànnaro. . . . Cultura, in questa accezione del

termine, significa quindi la somma di tutti i dati materiali e spirituali che caratterizzano

un determinato gruppo umano, in un determinato tempo e con una determinata

collocazione geografica» (Contu 2006: 13-14; corsivi aggiunti).

Ci si aspetterebbe, dunque, la comparsa dell’espressione “cultura Nuragica” ad

indicare la fase protostorica dell’Isola; in realtà, verrà comunque adottata la

denominazione di Civiltà Nuragica (ibidem: 443 e sgg.), alternandogli

arbitrariamente il termine “cultura”, dando luogo ad alcune contraddizioni anche

all’interno di una stessa frase (ibidem: 778; vedi anche 16, fig.1; cfr. Sirigu 2012).

Un’altra riflessione sul concetto di cultura archeologica la troviamo in

Trump (1983: 37), che fa sostanzialmente coincidere ogni cultura con una fase

cronologica, in una successione esclusivamente verticale; il motivo è che,

indagando un’area ridotta come quella della grotta di Filiestru, le differenze

riscontrabili nella cultura materiale erano realmente imputabili a diversi orizzonti

temporali, ma la corrispondenza tra culture e fasi cronologiche continua

comunque a marcare l’intera preistoria della Sardegna. Così, il fenomeno dei

“Circoli di Arzachena” viene risolto nella sua assimilazione all’interno della

cultura di Ozieri (Contu 2006), oppure all’interno del precedente quadro culturale

di San Ciriaco (Ugas 1990; Ferrarese Ceruti 1995; Antona 2003). Più ambigua la

31

posizione di Lilliu, che lo interpreta ora come facies della fase Ozieri (2003: 12),

ora come cultura autonoma competitiva con l’Ozieri (ibidem: 80). Nessun

accenno al San Ciriaco, ma quando si fa riferimento al Bonu Ighinu come

all’«aspetto culturale più trasparente del Neolitico medio sardo» (ibidem: 46) si

deve evidentemente pensare che Lilliu non considerasse il San Ciriaco

sufficientemente “trasparente” da assumere né la valenza di cultura archeologica

autonoma, né quella di facies ceramica distinta dal Bonu Ighinu o dall’Ozieri

classici. Contu, d’altra parte, la liquida rapidamente come una facies locale

dell’Ozieri (2006: 103). Sirigu (2009: 49) definisce le facies come «insiemi di

reperti che paiono tra loro legati da un certo “feeling culturale” pur senza aver

forse raggiunto la coerenza e la complessità che caratterizza le culture vere e

proprie», aggiungendo poi che «tra gli studiosi si sta però sempre più affermando

la convinzione che sia più corretto attribuire la valenza di cultura anche

all’insieme di evidenze materiali ascrivibili all’orizzonte San Ciriaco»; la valenza

di facies gli viene comunque preferita nel proseguo del lavoro (ibidem). Ugas, che

nella sua monografia L’alba dei Nuraghi (2005) recupera addirittura il metodo

etnostorico-culturale (ibidem: 24-34; cfr. Lilliu 1963: 9-10), parla di facies

archeologica tardo-neolitica di San Ciriaco (ibidem: 13); non è chiara la

distinzione che l’Autore opera tra facies archeologica e cultura archeologica, ma

se si considera la prima nell’accezione datale da Cocchi Genick (2005: 8), la sua

applicazione stride con la descrizione data del fenomeno San Ciriaco (Ugas 2005:

13-14). Viene invece denominata “cultura di San Ciriaco” in Usai 2009, mentre

Tanda (2009) la considera un momento iniziale della cultura di Ozieri, precedente

alla cosiddetta fase “classica”.

In questo quadro sembra di percepire una sovrapposizione, più o meno

critica, dei concetti di cultura archeologica, facies archeologica e fase cronologica;

un esempio di questa tendenza lo ritroviamo anche in Moravetti (2002: Tab. 1),

che fa riferimento alla “cultura di Perfugas” nonostante la definizione di cultura

proposta poco oltre2 non sia in nessun modo applicabile alle evidenze di Perfugas

2 Con il termine cultura l’archeologia (...) indica l’insieme delle forme di organizzazione di una

società, le sue tecniche produttive, la sua economia, la sua religione, i suoi costumi e le sue

«idee», intendendo però che esse – per una serie di limiti, primo fra tutti l’ignoranza della

32

(e.g. Martini e Pitzalis: 1981). Il San Ciriaco viene, invece, considerato una

“facies di raccordo tra il Neolitico medio e quello recente” (ibidem: 17);

quest’ultima lettura è evidentemente mutuata da Santoni (e.g. 1982a/b; Santoni et

al. 1997), e la ritroviamo in Dyson e Rowland (2007: 19), ben oltre i confini

isolani.

Appare chiaro come la questione del San Ciriaco meriti di essere approfondita;

nelle discordanze in merito alla sua interpretazione (considerando come una

precisa interpretazione anche il silenzio di alcuni Autori) sembra infatti di

scorgere un importante indicatore delle modalità con cui il concetto di cultura

archeologica è stato recepito e interpretato dalla ricerca paletnologica sarda.

scrittura – non sono state in grado di evolversi in forme superiori, capaci non solo di espandersi

ma anche di conquistare le comunità vicine (Moravetti 2002: 16).

33

3 La cultura di San Ciriaco

3.1 Storia degli studi

Attorno alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, le conoscenze sul

Neolitico della Sardegna erano assai lacunose e frammentarie; si teorizzava una

generica collocazione al IV millennio a.C. per l’arrivo dei primi gruppi umani

nell’Isola (Lilliu 1975: 15), e un momento finale intorno al 2000 a.C., coincidente

con l’inizio dell’Età del Rame. Tra questi due estremi, si distinguevano una fase a

ceramiche impresse, corrispondente al Neolitico Antico, e un Neolitico recente

caratterizzato da ceramiche di derivazione chasseana e con influssi di stile

Bougon, premessa della seriore cultura Ozieri individuata allora come una delle

tre culture del Calcolitico (ibidem); si attribuivano ad una fase intermedia vasi di

argilla figulina bianca, dipinti di rosso (red on white) che presentavano analogie

con alcuni contesti del Neolitico di Ripoli e dell’Italia meridionale (Alba 1976)3.

Una più corretta periodizzazione del Neolitico sardo si è resa possibile in

seguito alle indagini di R. Loria e D. H. Trump nelle grotte di Filiestru (Loria,

Trump 1978) e di Sa Ucca ’e su Tintirriolu (Trump 1983) le quali hanno restituito

le prime stratigrafie attendibili pertinenti al Neolitico sardo, chiarendo alcuni

rapporti di cronologia relativa tra le diverse fasi di occupazione - anche in virtù

della contestuale enucleazione della fase medio-neolitica di Bonu Ighinu - e

fornendo per esse una serie di datazioni radiocarboniche che ne hanno precisato la

collocazione in cronologia assoluta.

Nel 1982, V. Santoni rende noto, mediante una nota preliminare di scavo,

un «inedito aspetto culturale a carattere abitativo» individuato nel sito di

Cuccuru is Arrius nel corso delle campagne di scavo degli anni immediatamente

precedenti; il nuovo orizzonte neolitico, denominato “ facies di Cuccuru s’Arriu”,

viene considerato già allora un possibile raccordo tra le fasi Bonu Ighinu e Ozieri

in virtù della giacitura stratigrafica dei materiali ad esso attribuiti. Santoni

3 La collocazione cronologica si è poi rivelata corretta in termini assoluti, ma errata in cronologia

relativa, in quanto tali ceramiche sono inquadrabili in un momento successivo alla fase Ozieri.

34

riconosce inoltre l’affinità tra questo complesso ceramico e alcuni frammenti fittili

rinvenuti nel 1973 a Terralba in seguito ad alcuni interventi edilizi nel quartiere di

San Ciriaco, e già descritti da C. Puxeddu nella sua sintesi sul territorio della

diocesi di Ales-Usellus-Terralba (Puxeddu 1975: 83); questa affinità formale

porterà G. Ugas a rinominare la fase in esame come “facies di San Ciriaco di

Terralba-Cuccuru s’Arriu” (Ugas 1990), indicata più semplicemente come “San

Ciriaco” a partire dalle successive pubblicazioni sul tema.

3.2 Inquadramento cronologico

Già a partire dalla prima individuazione di un aspetto inedito e distinto all’interno

del quadro neolitico isolano (Santoni 1982/b), apparve chiaro come questo potesse

costituire un momento di raccordo tra il quadro Bonu Ighinu e quello Ozieri, sia in

virtù dei rapporti stratigrafici, sia dalla semplice analisi comparativa dei materiali.

Nei siti in cui si è potuto disporre di stratigrafie attendibili, la successione Bonu

Ighinu – San Ciriaco – Ozieri è stata sistematicamente riscontrata, confermando

così le prime ipotesi sulla collocazione del San Ciriaco in cronologia relativa; il

limite cronologico superiore della fase Bonu Ighinu (4300 B.C.) e quello inferiore

dell’Ozieri (4000 B.C.) (Tykot 1994) costituiscono dunque un range - per quanto

indicativo e suscettibile di eventuali precoci comparse del fenomeno o

attardamenti nella fase successiva – utile a stabilirne la durata. L’unica datazione

radiometrica al momento disponibile per il San Ciriaco riporta peraltro al 5423 ±

47 BP (Boschian et al. 2001), coerentemente con le datazioni in cronologia non

calibrata che attesterebbero la fase in esame tra il 3400 e il 3200 a.C. (Ugas 2005:

12). Nel quadro dell’articolazione in fasi del Neolitico sardo, il San Ciriaco è stato

inizialmente considerato un fenomeno inquadrabile nel Neolitico Superiore

(Santoni 1982/b; Santoni et al. 1997) o Neolitico Recente (Ugas 1990; 2005); con

il prosieguo della ricerca, una sua collocazione in una fase tarda del Neolitico

Medio (Usai 2009; Lugliè 2009) appare, forse, maggiormente convincente.

35

3.3 Distribuzione geografica e modalità insediative

Da una analisi della distribuzione delle evidenze a carattere abitativo pertinenti

alla fase San Ciriaco, si contano ad oggi 45 siti editi ed inquadrabili in detta fase;

di questi, solo 16 sono stati sottoposti ad indagini di scavo (~35%), sebbene in

alcuni casi si disponga per essi di dati desueti e talvolta privi di informazioni

stratigrafiche attendibili, essendo stati indagati in momenti storici in cui le

procedure di scavo e documentazione non sfociavano, se non di rado, in registri

archeologici che possano considerarsi tutt’ora fonte di nuovi contributi alla ricerca

paletnologica4. Pur non restituendo informazioni sulla reale sovrapposizione delle

fasi abitative e sulla natura dei siti, questi risultano comunque validi al momento

di delineare un quadro generale della distribuzione insediativa dei gruppi umani

durante la fase in esame. Un primo dato emergente è quello del predominio degli

insediamenti all’aperto rispetto a quelli in grotta, i quali sono comunque

rappresentati, specie in area sulcitana e nel Sassarese; per quanto attiene alle

stazioni all’aperto, le strategie insediative vertono verso un’intensa occupazione

delle aree planiziali e sub-costiere, come si evince dall’alta concentrazione di

villaggi che interessano l’intera area del Campidano (almeno 17 siti), e i litorali, o

il loro prossimo retroterra, del Sulcis-Iglesiente, dell’Oristanese e del Sassarese.

Lo sfruttamento opportunistico di tutte le nicchie ecologiche disponibili da parte

dei gruppi umani di fase San Ciriaco, lascia peraltro supporre che la quasi totale

assenza di evidenze lungo il versante orientale dell’Isola5 possa essere almeno in

parte imputabile a lacune nella ricerca.

4 La descrizione degli scavi effettuati a Grotta Rureu nel 1952 , in Lilliu 1994, pp. 632-635, è

indicativa di come, da pubblicazioni tanto datate, sia difficile recuperare informazioni che vadano

oltre quelle relative alla mera analisi comparativa dei materiali. 5 Fatta eccezione per il sito a carattere funerario di Li Muri – Arzachena, è attestato un solo

insediamento situato sul versante orientale della Sardegna (Posada – Anfratto del Castello di

Posada), sul cui inquadramento nella fase San Ciriaco sono state peraltro espresse opinioni non

del tutto concordi (cfr. Fadda 2001; Usai 2009)

36

Fig. 1 – Distribuzione degli abitati di fase San Ciriaco

Circa la metà dei siti all’aperto, ad ogni modo, sono stati individuati a

partire da recuperi o prospezioni di superficie (si vedano ad es. Meloni 1993,

Marras 1994, Lugliè 1998) o, ancora, dal rinvenimento di elementi quali statuine

fittili o litiche perlopiù decontestualizzate, e ritenute cronologicamente

diagnostiche sulla base di seriazioni tipologiche non sempre sufficientemente

sorrette da dati certi (§ 1.4.4); la generica attribuzione di “fondi di capanne”

assegnata alla gran parte delle strutture infossate individuate nel corso delle

indagini archeologiche, inoltre, meriterebbe un’approfondita revisione critica, al

fine di verificare la reale distribuzione delle unità a carattere residenziale

all’interno dei siti, e di distinguere da esse eventuali altre strutture connesse con

37

differenti attività rispetto a quella prettamente abitativa (clay pits, siloi, fosse di

scarico, etc)6.

La frequentazione di grotte e ripari sotto roccia, nei casi in cui non vi siano

evidenze di usi funerari o rituali, potrebbe essere legata alla necessità di ripari

(stagionali?) per gli armenti, o di punti di appoggio per i gruppi umani che

integravano l’economia agricola con pratiche di caccia e raccolta.

3.4 La ceramica

Un quadro della produzione fittile pertinente alla fase in esame può, allo stato

attuale degli studi, essere tracciato in maniera sufficientemente esaustiva.

L’aspetto ceramico è, peraltro, l’elemento che per primo ha consentito

l’enucleazione di un orizzonte culturale a sé stante, e sebbene la ricerca

archeologica abbia messo in luce una notevole quantità di siti ad esso attribuibili,

continua ad essere il principale fossile guida, sia in virtù della sua specificità, sia

per via di una non sempre chiara diversificazione dei restanti aspetti della cultura

materiale di fase San Ciriaco rispetto ai contesti precedenti o successivi.

Il repertorio ceramico San Ciriaco non presenta numerose forme; le fogge

vascolari maggiormente documentate sembrano essere le ciotole carenate, nelle

varianti ad orlo estroflesso (tav. 1,1), a collo distinto (tav. 1,2) e a bassa carena e

parte superiore a pareti verticali (tav. 1,3; 1,4). Tra le altre forme aperte si

attestano le tazze e le scodelle, non sempre chiaramente distinguibili le une dalle

altre a causa della frequente frammentarietà dei reperti; nei casi in cui tale

distinzione si sia resa possibile, si sono potute documentare tazze a profilo

sinuoso (tav. 1,5; 1,7) e tazze carenate, con piccoli orli spesso estroflessi (tav. 1,8)

e, tra le scodelle, fogge cilindro-coniche (tav. 1,9) e tronco-coniche (Usai 2008).

Compaiono, specie nei siti dell’Oristanese (ma vi è l’attestazione di almeno un

esemplare a Filiestru) (Trump 1983: fig. 16,z) i mestoli a cucchiaio o attingitoi, a

6 Già in occasione degli scavi Chierici del 1873 si assiste ad una discussione tra studiosi quali Luigi

Pigorini, Carlo Boni e Arsenio Crespellani, sull’interpretazione funzionale dei cd. “fondi di

capanna”. In tempi più recenti, tra i lavori in cui ci si è confrontati sul tema, è opportuno citare,

tra gli altri, Radmilli 1967, Trump 1966, Barker 1973, Giannitrapani et al. 1989, Giannichedda

2002, Cattani 2009, Cavulli 2009.

38

vasca ellittica e muniti di una grande ansa nastriforme impostata sull’orlo e

sopraelevata (tav. 1,10). Alcuni frammenti sembrano essere pertinenti a forme

basse e molto larghe, forse spiane o tegami. Tra le forme basse figurano anche

piatti fittili quadrangolari, eretti su piedi parallelepipedi in alcuni casi rastremati.

Le forme chiuse comprendono olle globulari e ovoidi (tav. 1,11), anfore (Santoni

et al. 1997), vasi a collo - tra i quali un esemplare triansato da Bau Angius (Lugliè

2003: fig. 3) - e bicchieri, seppur documentati in misura minoritaria.

Gli impasti sono in genere fini, ben depurati, con inclusi di piccole

dimensioni laddove presenti; il ridotto spessore delle pareti e la loro accurata

lucidatura mediante lisciatura a stecca e brunitura sono anch’esse tra le

caratteristiche tecnologiche meglio note per quanto riguarda la fase in questione.

Nondimeno, è documentata una classe di fittili le cui caratteristiche tecnologiche

divergono, in parte, da quelle citate poc’anzi, in quanto gli impasti appaiono più

grossolani, meno depurati, con inclusi maggiori per dimensioni e numero, e le cui

superfici sono interessate da un trattamento più sommario. Le differenze di

lavorazione e di trattamento riscontrate tra i fittili possono essere imputabili alle

diverse destinazioni d’uso degli stessi, come suggerirebbe il dato di una maggiore

frequenza di forme aperte (scodelle, ciotole, tazze) tra le ceramiche più fini

(ibidem). Il colore delle superfici varia dal grigio-nero, al bruno, al rossastro,

caratterizzandosi talvolta per tonalità più chiare tendenti all’arancio, al camoscio o

al rosa.

Tra gli elementi di prensione sono attestate ansette ad anello (fig. 3, 4-6),

prese a listello verticale forato (Tav. 2, 7-8; tav. 3,1), ansette a gomito di profilo

trapezoidale, anse verticali a bastoncello che talora presentano motivi corniformi

all’estremità superiore (Tav. 2, 3), anse tubolari. Figurano altresì le prese a

bugnetta (Tav. 2, 1-2), sia nella variante emisferica, sia in quella forata e allungata

a linguetta che dà luogo ad uno pseudorocchetto; l’elemento di presa più

caratteristico del quadro materiale San Ciriaco è, ad ogni modo, l’ansa a rocchetto

pieno, documentata in diversi contesti (Ugas 1990: Tav. LXIII b; Meloni 1993:

Tav. III, 22) e nelle varianti stilizzata e insellata. Un elemento di innovazione

nella tettonica dei fittili è dato dalla comparsa dei fondi piatti distinti, già

eccezionalmente attestati in un contesto tardo (e, peraltro, a carattere funerario) di

39

Tav. 1 – forme ceramiche di fase San Ciriaco (da Usai 1998)

Cuccuru is Arrius, ma riscontrabili con maggiore frequenza in forme proprie del

repertorio San Ciriaco (Lugliè 2003: 729).

Le ceramiche si distinguono generalmente per la sobrietà nella

decorazione che, quando presente, è spesso limitata ad una linea orizzontale incisa

a crudo mediante l’utilizzo di una punta fine, tanto che l’uniformità delle superfici

è stata a lungo uno dei criteri di attribuzione dei fittili alla fase in esame (Ugas

1990); sono però attestati una serie di motivi decorativi ormai unanimemente

accettati come caratteristici della facies, quali il pointillèe entro triangoli ottenuti

40

ad impressione ed excisione, la decorazione a cerchi concentrici, a linee incise a

cotto e disposte ad andamento obliquo o radiale, a minute taccheggiature

impostate sull’orlo o a punzonature disposte per ordini paralleli; non è raro che

linee, tacche o punti siano interessate da incrostazioni di pasta bianca, con

particolare frequenza nell’area dell’Oristanese (Santoni et al. 1997: fig, 11,2;

11,3; 11,5; Tav. 3,10). Sono noti anche motivi a meandro realizzati mediante

incisione a crudo, specie in ambito sulcitano (Tav. 4.1,3; Ferrarese Ceruti 1995:

fig. 5).

Tra i materiali ceramici sono inoltre presenti le fusaiole, lenticolari o del

tipo biconico e talvolta decorate su una sola o su ambo le facce con segmenti

rettilinei o file di minute tacchette triangolari disposte radialmente (Santoni et al.

1997, fig. 15. 11-12).

Tav. 2 – Elementi di prensione nelle ceramiche San Ciriaco (da Lugliè 2003)

41

Tav. 3 – Elementi di prensione nelle ceramiche San Ciriaco (da Lugliè 2003)

Tav. 4 – Ceramiche decorate da Grotta S. Giovanni – Domusnovas (1) (Atzeni 1987), Cuccuru

s’Arriu – Cabras (2) (Santoni 2012), Grotta della Campana – Carbonia (3) (Perra 2008), Posada –

Anfratto del Castello (4) (Fadda 2001)

42

3.5 L’industria litica

Le conoscenze sulla produzione di strumenti litici durante la fase San

Ciriaco appaiono, allo stato attuale degli studi, piuttosto scarse; il deficit di

informazioni a riguardo potrebbe essere imputabile all’esiguità di contesti puri

pertinenti alla fase in esame, tra quelli sottoposti ad indagini sistematiche, il che

rende difficoltosa l’individuazione di eventuali peculiarità relative ai complessi

industriali.

I siti indagati stratigraficamente dai quali provengono strumenti litici associati a

ceramica di tipo San Ciriaco sono al momento Contraguda, Torre Foghe, Cuccuru

s’Arriu.

Per quanto riguarda il sito di Contraguda, l’industria litica in esame è riferita allo

strato 4 – Area 4, che ha restituito ceramiche compatibili con il repertorio noto per

la fase San Ciriaco, e per il quale è inoltre disponibile una datazione

radiocarbonica che riporta al 5423 ± 47 BC. La selce locale è la materia

predominante, a fronte di un 2,5% costituito da ossidiana; i manufatti ritoccati

sono principalmente di dimensioni piccole e medio-piccole, con una tendenza

generalizzata alla laminarità che caratterizza marcatamente il complesso dal punto

di vista tipometrico (Boschian et al. 2001). Sul piano dell’analisi tipologica,

l’industria litica di Contraguda è caratterizzata dalla prevalenza dei gruppi del

Substrato (con alti indici di raschiatoi corti e denticolati) e da un ritocco quasi

sempre periferico e parziale (ibidem: 283).

Interamente su ossidiana, invece, l’industria litica della sacca 380 di

Cuccuru s’Arriu, considerata inquadrabile integralmente, a pieno titolo,

nell’orizzonte culturale San Ciriaco (Santoni et al. 1997: 239). Da un’analisi della

materia prima utilizzata, è emerso come le differenti qualità dell’ossidiana

abbiano portato ad altrettante differenze nelle chaînes di débitage documentate;

se, infatti, si attestano produzioni laminari intenzionali e specializzate su nuclei a

grana fine, con una marcata trasformazione del supporto di base mediante ritocco

radente, invadente o coprente, si riscontra altresì un débitage laminare

opportunista e meno accurato su nuclei in ossidiana granulosa, forse più

propriamente “adatta ai bisogni funzionali degli occupanti la sacca” (ibidem:

289). Oltre alle lame sono ben rappresentate le schegge, che non sempre

43

manifestano una chiara volontà di fabbricazione, ma testimoniano comunque un

sistema di gestione degli scarti di lavorazione che venivano impiegati

opportunisticamente, come si evince dalle tracce d’uso presenti su di esse. Quattro

percussori in calcare rinvenuti all’interno della sacca testimonierebbero un

débitage locale messo in atto mediante percussione diretta, ma alcune lame

presentano incidenti di scheggiatura tipiche della tecnica della percussione

indiretta; non vi è invece attestazione di prodotti laminari ottenuti per pressione.

Analoghe tecniche di scheggiatura (percussione diretta e indiretta, assenza di

prodotti ottenuti per pressione) sono attestate nel sito neolitico di Torre Foghe; il

complesso litico, proveniente da un paleosuolo in cui comparivano associati

alcuni vasi completi, è costituito da fonoliti (10%), da selce idrotermale (10%) e

da ossidiana (80%) (Dini 2007). L’industria in fonolite non sembra essere

altamente specializzata, ed è composta da strumenti di grosse dimensioni quali

Fig. 2 – particolare dell’area di scavo e vasi San Ciriaco dal sito di Torre Foghe – Tresnuraghes

(fonte: http://interreg.humnet.unipi.it/)

“picconi” a ritocco bifacciale e anelloni per bastoni da scavo, oltre che da

elementi del Substrato, numericamente preponderanti; l’industria in selce è

costituita da 133 blocchi non ritoccati, 8 nuclei e 42 strumenti, con buone

percentuali di raschiatoi, denticolati e scagliati (ibidem). Per quanto attiene

all’industria in ossidiana, emerge il dato dell’assenza di nuclei e di prodotti

ottenuti mediante scheggiatura avanzata e controllata; i manufatti sono infatti il

44

risultato delle prime fasi di lavorazione dei nuclei, nelle quali avviene la

preparazione del débitage. Una possibile spiegazione è quella che vedrebbe

nell’insediamento di Torre Foghe un sito di importazione (quasi esclusivamente

dalla sorgente SC, con due soli frammenti provenienti dalla sorgente SB2 e

altrettanti dalla sorgente SA) (De Francesco, Bocci, 2007), e di lavorazione dei

blocchi naturali o appena testati, i quali dopo una prima messa in forma che li

preparava al pieno débitage sarebbero stati immessi nel circuito di distribuzione

dell’ossidiana sarda (Dini 2007).

Fig. 3 – differenti qualità di ossidiana e refitting di un blocco originario da Torre Foghe –

Tresnuraghes (fonte: http://interreg.humnet.unipi.it/)

45

3.6 La piccola statuaria

Il fenomeno della piccola statuaria antropomorfa preistorica sembra essere,

in Sardegna, una prerogativa neolitica (che perdurerà comunque fino al primo

eneolitico delle fasi Filigosa e Abealzu), la cui unica eccezione potrebbe essere

costituita dall’esemplare di S’Adde – Macomer, per il quale sono state proposte

datazioni che oscillano dal Neolitico Antico (Lilliu 1999) fino a quella, ben più

problematica, del Paleolitico superiore (Mussi 2009). Nel Neolitico Medio ha

avvio la produzione di statuine in stile volumetrico, realizzate a tutto tondo, con

un’accentuazione delle forme dei glutei e dei seni che lascia pochi dubbi sulla

natura femminile delle stesse; la resa volumetrica e naturalistica verrà poi

gradualmente superata in favore di uno stile definito geometrico (Atzeni 1978) o

planare (Lilliu 1999), proprio del Neolitico Finale, e marcato dalla stilizzazione

delle forme umane, ancora riconoscibili come proprie del genere femminile, ma

prive delle caratteristiche volumetrie della fase precedente.

Alla fase S. Ciriaco vengono attualmente attribuiti, per ragioni quasi

essenzialmente stilistiche, alcuni esemplari che sembrano rientrare in un filone

intermedio tra lo stile volumetrico e quello geometrico – planare; la

denominazione di “folded arms figurines”, già utilizzata per designare un tipo di

produzione plastica di matrice cicladica, può a buon diritto essere estesa alle

statuine sarde di cui sopra, per via della comune rappresentazione delle braccia

conserte poggianti sul ventre o sul petto (Paglietti 2008). L’attribuzione di questa

tipologia statuaria alla fase in esame scaturisce, in prima analisi, dal ritrovamento

di un frammento di statuina fittile avvenuto nel corso degli scavi nel sito di San

Ciriaco – Terralba (Santoni et al. 1997: 247); l’esemplare manca del capo e del

tratto inferiore del corpo, ma dalla porzione pervenutaci si distinguono le braccia

piegate a gomito, le mani accostate a confronto e provviste di dita rese

graficamente “a frangia”, con i pollici eretti che poggiano sui seni - elemento,

quest’ultimo, che conferisce alla statuina una chiara connotazione femminile -. La

sua collocazione in ambito San Ciriaco si deve all’associazione con alcuni

elementi pertinenti alla suddetta fase, per i quali, peraltro, si dispone di un mero

quadro esemplificativo, mancando attualmente un’edizione dell’intero intervento

di scavo (ibidem: 242).

46

Partendo dalla statuina di San Ciriaco – Terralba, e postulando per essa un quadro

cronologico di appartenenza all’omonima fase per i motivi sopra citati, sono state

individuate alcune analogie con altri esemplari già attribuiti a fasi precedenti o

successive; le braccia conserte o ripiegate a gomito su statuine di tipo

volumetrico, in particolare, sembrano costituire un raccordo tra i primi esemplari

di statuaria a tutto tondo, nei quali le braccia sono impostate lungo i fianchi, e lo

stile c.d. planare in cui gli arti superiori, privi di volume, sono disposti in modo da

formare una linea perpendicolare all’asse testa-corpo (con gli arti inferiori quasi

mai indicati) con una tendenza che sfocerà negli esiti geometrici e svuotati di ogni

naturalismo propri delle statuine a placchetta cruciforme.

Fig. 4 – statuina frammentaria da San Ciriaco – Terralba (da Santoni et al. 2007)

Un primo elemento di confronto può essere individuato nell’esemplare

proveniente da Su Cungiau de Marcu – Decimoputzu (fig. 5); si tratta di una

figura

47

Fig. 5 – Statuina in alabastro da Su Cungiau de Marcu – Decimoputzu (da Lilliu 1999)

antropomorfa assisa, femminile - come suggeriscono la resa plastica dei seni e

quella, ben più evidente, dei glutei -, scolpita in alabastro; le braccia sono

ripiegate all’altezza del gomito, le mani sono separate dagli avambracci mediante

un leggero solco e si toccano tra esse, poggiando sul ventre. Proprio nella

posizione delle mani in contatto tra esse, nella resa c.d. “a frangia” o “a pettine”

delle dita, e nell’indicazione dei pollici eretti che poggiano sui seni7, stanno le

analogie formali con la statuina frammentaria di San Ciriaco; pur limitate alla sola

porzione pervenutaci, quella del busto, suggeriscono una comune volontà di

rappresentazione, e fanno ipotizzare che si sia attinto da un medesimo modello di

riferimento, i cui esiti convergono pienamente sul piano formale anche quando vi

sono importanti differenze nella materia utilizzata (nella fattispecie pietra e

terracotta). Un’ulteriore conferma, in questo senso, è offerta da tre statuine

realizzate in osso e provenienti dalla grotta di Monte Meana – Santadi (fig. 6);

non è chiaro se, in questo caso, siano state le volumetrie ad essere ridimensionate

dal supporto osseo o se, al contrario, vi fosse sin dal principio la precisa

intenzione di realizzare delle figure che, per quanto ancora tridimensionali nella

7 Non di questo avviso Lilliu (1999) che interpreta i segni curvilinei all’altezza dei seni come

un’indicazione grafica degli stessi.

48

resa finale, sono marcate da un geometrismo e da una stilizzazione che sembra

una premessa del seriore stile geometrico – planare.

Fig. 6 – Statuine in osso dalla grotta di Monte Meana – Santadi (da Lilliu 1999)

Due delle tre statuine sono pressoché integre e raffigurate in posizione stante; una

sola ci è pervenuta mutila della parte inferiore del corpo, fatta eccezione per una

piccola porzione del gluteo e della coscia sinistri, accentuati però al punto da far

supporre la posizione seduta; non vi è accenno di seni, ma la femminilità è

comunque palese nel risalto conferito al triangolo pubico, ancor più che nella pur

evidente steatopigia. A parte le ipotetiche differenze posturali e alcune varianti nel

trattamento del volto, le tre statuine presentano una notevole affinità formale tra

esse, tanto nella rotondità dei glutei a cui fa da contrasto la sottigliezza del busto,

quanto nella resa del capo cilindrico e, in particolar modo, nella scelta di

rappresentare ancora una volta le braccia come piegate all’altezza del gomito e

convergenti sul ventre; se in due di esse si possono apprezzare delle linee incise

ad indicare le dita delle mani, una ne è invece sprovvista, e presenta un unico

blocco perpendicolare all’asse capo – busto – gambe, comprendente avambracci e

mani che si incontrano senza che possano essere distinte l’una dall’altra. La

medesima soluzione è stata adottata per altre due statuine, una fittile proveniente

da Conca Illonis – Cabras e pervenutaci acefala (fig.7), e una litica da Cotte ’e

Baccasa – Segariu (fig. 8) (Paglietti 2008); si tratta in entrambi i casi di statuine

49

probabilmente femminili8, assise, realizzate a tutto tondo e marcatamente

steatopigiche, le cui braccia sono piegate fino a congiungersi all’altezza del ventre

senza alcun elemento che indichi lo stacco dei polsi o le dita. L’estrema

stilizzazione delle estremità superiori contrasta in entrambi gli esemplari con il

trattamento dei piedi, solcati da linee incise ad indicare le dita; manca inoltre

qualsiasi elemento plastico o grafico che indichi i seni.

Una statuina fittile da Sant’Antioco di Bisarcio – Ozieri, pur essendo danneggiata

e forse non finita, sembra presentare analoga impostazione assisa e a braccia

conserte e portate sul ventre. Da Gribaia – Nurachi, infine, proviene una statuina

frammentaria in argilla (fig. 9), associata a ceramiche di tipo San Ciriaco (Soro

2012), della quale si conserva solo la parte relativa al busto; le braccia, visibili sia

sulla parte anteriore che su quella posteriore, sono rese mediante incisione e si

congiungono all’altezza del ventre. L’assenza di attributi femminili lascia aperta

l’ipotesi di una raffigurazione maschile o asessuata.

L’interpretazione di queste statuine resta problematica, e il fatto che buona

parte di esse provenga da recuperi asistematici porta inevitabilmente a dover fare

a meno del dato fondamentale relativo all’originario contesto di provenienza; un

loro legame con un presunto culto della Dea Madre, peraltro, è stato a lungo un

assioma della paletnologia sarda, per quanto si debba invece constatare l’assenza

di elementi in grado di corroborare tale ipotesi . Per tale motivo andrebbero forse

sottoposte a verifiche le proposte interpretative relative al culto legato ad una Dea

Madre ovvero ad una dea della fertilità, il suo supposto legame con una divinità

maschile individuata perlopiù in un paredro dalle fattezze taurine (Ugas 2005: 14),

e la stessa generica denominazione di “idoletti” relativa alle statuine .

8 Le proporzioni dei fianchi e dei glutei nelle statuine assise non sono necessariamente indicative

del sesso delle stesse, come fa notare Ucko (1962, p. 42): “It cannot be finally decided whether

these sexless figurines represent males, females or immature children (or something more

abstract like humanity) (…) the secondary sexual female characteristic – swelling of the hips –

does not give the answer to this question, for the proportion of the hips to the waist of the sitting

males is larger than that of the females; while the proportion is reversed between the standing

males and the standing females”.

50

Fig. 7 – statuina acefala da Conca Illonis – Cabras (da Lilliu 1999)

51

Fig. 8 – statuina da Cotte ‘e Baccasa – Segariu (da Paglietti 2008)

Fig. 9 – Statuina fittile frammentaria da Gribaia – Nurachi (da Soro 2012)

52

3.7 La produzione vascolare in pietra

L’analisi comparativa con le forme ceramiche e i motivi decorativi ha

portato alla collocazione in ambito San Ciriaco di una serie di recipienti litici

precedentemente attribuiti a differenti fasi; si tratta, nella maggior parte dei casi,

di manufatti provenienti da contesti la cui carenza di dati rende difficoltoso un

loro puntuale inquadramento cronologico – culturale, che dovrà dunque essere

sviluppato su base tipologica.

La coppetta in steatite proveniente dalla tomba a circolo n. 1 di Li Muri è

stata ascritta (Santoni et al. 1997; Antona 2003) alla fase San Ciriaco per ragioni

essenzialmente stilistiche, in virtù delle anse a rocchetto pieno, della forma a

sezione bitroncoconica e del profilo a bassa carena, caratteristiche riscontrabili in

esemplari fittili attribuiti alla fase in esame e considerati ormai diagnostici della

stessa. Una singola presa a rocchetto pieno compare anche in una coppa carenata

in calcite, di forma emisferica e a colletto rientrante, proveniente da un’ipogeo di

Bingia ’Eccia – Dolianova (Fig. 10, a sinistra), le cui analogie con l’esemplare di

Li Muri possono essere individuate, oltre che nell’elemento di prensione, nelle

tracce di ocra rossa ancora visibili sulla superficie. Alcuni vaghi di collana in

clorite, rimasti inglobati nell’incrostazione di ocra rossa (Antona 1998: fig. 15.4

B), erano con ogni probabilità parte del corredo insieme ad un piatto tetrapode in

calcare, che presenta una protome zoomorfa presumibilmente taurina, se si

interpretano come corna gli elementi stondati che sovrastano il muso (Fig. 10, a

destra). La protome taurina, ottenuta mediante analoghe soluzioni stilistiche, la si

ritrova in un piatto proveniente da Ludosu – Riola Sardo (Lilliu 1999: fig. 96 A)

ricavato da un blocco di marna arenacea; il solo piede pervenutoci, tra quelli che

elevavano il piatto, riproduce il muso dell’animale nella parte funzionale

terminante con un taglio netto, ed è sormontato da due appendici stondate e

divergenti, che dovevano verosimilmente essere finalizzate alla presa, simulanti le

corna dell’animale.

53

Fig. 10 – vasi in pietra dall’ipogeo di Bingia Eccia – Dolianova (da Lilliu 1999)

Tra i recipienti litici che vengono attribuiti al quadro San Ciriaco (Ferrarese Ceruti

1995) figura inoltre un piatto in clorite da Locòe – Orgosolo a orlo lievemente

estroflesso distinto dal fondo per via di una marcata incisione perimetrale (Lilliu

1999); l’ornato interessa tanto l’interno quanto l’esterno del piatto, e si esplicita in

una trama composta da decorazioni spiraliformi racchiuse entro spazi delimitati da

motivi a V, i cui vertici sono rivolti verso il centro del recipiente. Tre linee

concentriche segnano la divisione della vasca dall’orlo, interessato anch’esso da

sporadiche incisioni a V. Il piatto viene ascritto alla fase in esame (Ferrarese

Ceruti 1995; Santoni et al. 1997 ) in virtù dei motivi decorativi

Fig 11 – Coppetta in steatite da Li Muri - Arzachena

54

Fig. 12 – Piatto in clorite da Locòe – Orgosolo (da Lilliu 1999)

spiraliformi ottenuti con una tecnica che rimanda all’excisione realizzata, con

simili esiti ornamentali, su recipienti fittili quali ad es. l’olletta biconica della

sacca San Ciriaco C.S.A. 392/1979 di Cuccuru s’Arriu (Tav. 4,2) o sul vaso a

collo distinto proveniente dalla Grotta di San Giovani – Domusnovas – (Tav. 4,1).

3.8 Contesti funerari

Da un esame dei contesti funerari ascrivibili alla fase San Ciriaco, o per

questa ipotizzabili, emerge un quadro generale affatto composito, all’interno del

quale si distinguono differenti tipologie di sepolture che rimandano ad altrettante

concezioni dei culti riservati ai defunti, degli spazi destinati alla morte e dei gradi

di separazione di questi rispetto alle aree residenziali.

Gli usi funerari durante la fase San Ciriaco sembrerebbero contemplare

l’inumazione singola in fossa e la sepoltura in contesti submegalitici e ipogeici,

55

nonché in grotte naturali. La gran parte dei contesti funerari noti, presentano ad

ogni modo una serie di problematiche legate alla loro effettiva pertinenza alla fase

in esame; a Cuccuru s’Arriu - Cabras è documentato un corredo fittile “sottoposto

a una sacca San Michele di Ozieri, la n. 382, in un contesto presumibilmente

abitativo, cui è associata una inumazione terragna” (Santoni 1982/a: 80). Se,

nella fattispecie, le ceramiche e la loro giacitura stratigrafica sembrano costituire

un valido motivo di attribuzione al San Ciriaco per la sopracitata sepoltura, sono

invece documentati casi in cui la presenza di materiali di tale fase in contesti

funerari non sembra tuttavia essere sufficiente ad una collocazione degli stessi nel

quadro cronologico in esame. All’interno della Tomba dei Guerrieri di Sant’Iroxi

– Decimoputzu, i materiali San Ciriaco sono i più antichi tra quelli rinvenuti

durante lo scavo dell’ipogeo, ma la loro giacitura stratigrafica, che li vede

sovrapposti a ceramiche ed altri manufatti di fasi successive (San Michele di

Ozieri, Monteclaro, Campaniforme, Bonnannaro) potrebbe essere interpretata

come un’intrusione legata ad un prelievo di terra dal contiguo villaggio, al fine di

realizzare un battuto di pareggiamento pavimentale per un riutilizzo dell’ipogeo in

una fase successiva al suo primitivo impianto, che sarebbe dunque da attribuire

alla fase Ozieri (Ugas 1990). Ceramiche San Ciriaco, peraltro, sono state

rinvenute nei settori prossimi al dromos di accesso di un altro contesto funerario

ipogeico, quello della Tomba X di Santu Pedru – Alghero (Melis 2009); tali

materiali provengono da due strati sconvolti dall’azione di mezzi meccanici

(ibidem: 99), il che impedisce una puntuale ricostruzione delle fasi di

realizzazione e primo utilizzo della struttura ipogeica. Resta comunque il dato di

una presenza di gruppi umani che utilizzavano ceramiche di tipo San Ciriaco

nell’area contigua alla tomba, per quanto l’assenza di evidenze archeologiche di

tale fase nelle aree all’interno dell’ipogeo ponga ancora una volta dei limiti

all’ipotesi di una realizzazione ed utilizzo dello stesso durante fasi antecedenti

all’Ozieri.

Da un riesame dei materiali rinvenuti all’interno delle Tombe A e C della

necropoli a domus de janas di Anghelu Ruju, spiccano però alcuni frammenti

decorati a punzonatura o a triangoli incisi riempiti da un fitto puntinato (Levi

1936, fig. 7,2 e figg. 8,2;4;6), con esiti del tutto simili a quelli presenti su

56

ceramiche già inquadrate nel San Ciriaco e provenienti da Cuccuru is Arrius

(Santoni et al. 1997: fig. 11,1), a riprova di un probabile avvio di tale architettura

funeraria già a partire dalla fase in argomento; si spiegherebbe in tal senso anche

la presenza dei due vasi in calcite all’interno dell’ipogeo di Bingia Eccia -

Dolianova.

Per quanto attiene ai contesti megalitici, la necropoli di Li Muri è stata

attribuita alla fase San Ciriaco in ragione dei confronti tra la coppetta in steatite,

che costituiva parte del corredo in uno dei circoli tombali, e alcune forme

ceramiche particolarmente ricorrenti all’interno del repertorio noto per la fase (§

1.4.2); tra queste, una ciotola carenata proveniente dal dolmen di Motorra –

Dorgali – (Lilliu 1966: 13, fig. 4 (1)) complicherebbe ulteriormente il quadro

degli usi funerari concernenti il San Ciriaco. Continuerebbe, infine, l’uso - già

attestato per la precedente fase Bonu Ighinu – (Biagi 1980) del seppellimento in

grotta naturale, come suggerirebbero le ceramiche provenienti dai contesti

funerari di Grotta Verde e Grotta Rureu – Alghero – (Lilliu 1994; Santoni et al.

1997: 240).

Una tale varietà di usi funerari rende evidentemente problematico giungere

ad un denominatore comune in un quadro tanto diversificato per pratiche,

architetture e associazioni di materiali, e lascia intravvedere un’autonomia

“culturale” dei gruppi umani che mal si concilierebbe, dunque, con l’idea di

un’omogeneità sovrastrutturale su larga scala del fenomeno San Ciriaco.

57

4 Evoluzioni interne e apporti extrainsulari

4.1 La cultura di Bonu Ighinu

Le stratigrafie nelle quali è emersa una fase Bonu Ighinu sottostante ad una

San Ciriaco sono, al momento, quelle delle grotte di Sa ’Ucca de su Tintirriolu e

di Filiestru (Santoni et al. 1997: 237; Alba 1999: 37); da un riesame delle

materiali è infatti possibile riconoscere alcuni elementi tipici del San Ciriaco

(decorazione limitata a un solco lungo la circonferenza, fondi piatti, orli

estroversi), peraltro segnalati in alcuni casi come anomalie già dagli stessi Autori

(Loria e Trump 1978: 174; Trump et. al. 1983: 50), la giacitura stratigrafica dei

quali si collocherebbe proprio tra i livelli Bonu Ighinu e gli strati Ozieri. La

seriorità del San Ciriaco rispetto al Bonu Ighinu è comprovata, inoltre, dalle

datazioni radiocarboniche che attesterebbero la transizione attorno al 4300 a.C.

(Tykot 1994).

L’analisi della produzione ceramica consente di cogliere alcune importanti

differenze. Un primo elemento di discontinuità è dato dalla concezione delle

forme: nel Bonu Ighinu sembrano essere assenti le forme chiuse, per via delle

spalle, il cui profilo è sistematicamente concavo, facendo sì che il diametro

dell’orlo sia maggiore o uguale (con qualche eccezione) a quello della carena. Nel

San Ciriaco, viceversa, la spalla del vaso è sistematicamente convessa o sub-

rettilinea, molto raramente concava (e.g. Alba 1999: figg. 5,2-3-4-6). Le anse a

rocchetto, per quanto rare, sembrano essere esclusive delle produzioni San

Ciriaco, così come i fondi distinti; gli impasti e il trattamento delle superfici sono,

relativamente alle classi più fini, di ottima fattura in entrambi i casi. Non

sembrano essere attestati temi decorativi comuni, sebbene il motivo spiraliforme,

frequente nella decorazione vascolare del San Ciriaco, compaia già su una

raffigurazione fallica da Bau Angius attribuita al Bonu Ighinu (Lugliè 2008),

nonché su un pendaglietto in osso dalla Grotta Rifugio, considerata un sito

funerario utilizzato da “un gruppo umano in possesso della cultura Bonu Ighinu”

(Agosti et al. 1980: 119). I rituali funerari, peraltro, sono lungi dall’essere

58

uniformi; al caotico “ossario” di Grotta Rifugio si contrappongono, infatti,

l’ordine e la standardizzazione di rituali e architetture della necropoli a grotticelle

artificiali di Cuccuru is Arrius. Tra i materiali di corredo delle tombe ipogeiche, le

ceramiche possiedono sia tratti culturali di tradizione Bonu Ighinu, quali le pareti

svasate, sia tratti di tradizione San Ciriaco (la decorazione limitata al risalto della

carena, i fondi distinti), le statuine presentano i medesimi tratti di quelle attribuite

al San Ciriaco, eccezion fatta per le braccia disposte lungo i fianchi, i vaghi di

collana e l’ocra rossa compaiono tanto a Grotta Rifugio quanto a Li Muri; recenti

datazioni radiocarboniche effettuate sugli inumati delle tombe 385 e 387 di

Cuccuru is Arrius collocano la necropoli nel secondo quarto del V millennio, in

un momento, dunque, pienamente ascrivibile allo sviluppo del Bonu Ighinu (Sebis

et al. 2009: 500). L’ipogeismo funerario di Cuccuru is Arrìus non trova, ad ogni

modo, confronti nel quadro medio-neolitico sardo; a voler scartare, perché poco

convincenti, le ipotesi di un avvio dell’architettura funeraria a domus de janas già

a partire dal San Ciriaco, bisognerà attendere lo sviluppo della cultura di Ozieri

per assistere alla ricomparsa del fenomeno ipogeico, configurandosi in tal modo

una “zona d’ombra” corrispondente proprio al San Ciriaco.

Fig. 13 - a sinistra: ceramiche Bonu Ighinu (da Loria e Trump 1978); a destra: ceramiche San

Ciriaco (da Alba 1999)

59

Fig. 14 - Ceramiche Bonu Ighinu da Grotta dell’Inferno ˗ Muros ˗ (da Loria e Trump 1978)

60

4.2 La cultura di Ozieri

Le datazioni radiocarboniche note per la cultura di Ozieri mostrano uno

sviluppo di tale orizzonte culturale in un momento successivo alla fase Bonu

Ighinu, con uno hiatus cronologico che sarebbe dunque colmato dalla fase San

Ciriaco (Tykot 1994: 122); i rapporti stratigrafici a Sa’Ucca de su Tintirriolu,

Filiestru e Contraguda confermano peraltro questa sequenza, che è invece solo

ipotizzabile a Pabaranca (Usai 2005), Monte d’Accoddi (Tiné e Traverso 1992),

Grotta Verde (Lo Schiavo 1979) e Monte Majore (Foschi Nieddu 1987). Nell’area

abitativa di Cuccuru is Arrius, una sepoltura in fossa terragna con corredo di tipo

San Ciriaco sarebbe stata obliterata da una struttura abitativa di cultura Ozieri

(Santoni 1982a/b); nello stesso sito parrebbe inoltre di riconoscere una fase di

transizione esemplificata da alcune forme vascolari caratterizzate da elementi

comuni, quali il vaso a cestello realizzato “su impianto tecnologico San Ciriaco”

(Santoni et al. 1997: 229). Sull’origine del vaso a cestello, si è peraltro ipotizzato

che questa possa essere individuata in un’evoluzione della tazza troncoconica di

tradizione San Ciriaco (Falchi et al. 2009). Superando l’ormai generica

definizione di “momento di raccordo tra il quadro tra Bonu Ighinu e San

Michele”, il San Ciriaco può comunque aver costituito, nella sua fase finale, le

premesse formali, stilistiche e insediative della cultura di Ozieri; un importante

elemento di transizione è forse da ricercarsi nella ceramica pointillée del tipo

attestato a Cuccuru is Arrius (Santoni et al. 1997: fig. 11,1;4;7), Sa ’Ucca de su

Tintirriolu (Loria e Trump 1978: tav. XXI,4), Grotta Verde (Lo Schiavo 1985: fig.

4,9), Monte d’Accoddi (Tiné e Traverso 1992: tav. XXXIII a) e nella tomba III di

Anghelu Ruju (Levi 1952: fig. 8,6); il fatto che questa ceramica la si rinvenga

associata ora a elementi schiettamente San Ciriaco, ora a elementi di tradizione

più marcatamente Ozieri, farebbe pensare ad un tipo di decorazione di lunga

durata, o di durata sufficiente a coprire perlomeno una fase finale del San Ciriaco

e una fase inziale dell’Ozieri, spiegando così anche la sua presenza all’interno di

una struttura ipogeica complessa come quella di Anghelu Ruju. Nonostante questi

tratti ibridi, la specificità della cultura di Ozieri è ben riconoscibile e distinta dal

San Ciriaco nell’avvento di nuove forme ceramiche, quali lo stesso vaso a

cestello, la pisside, il vaso tripode; nei parossismi e cromatismi decorativi; nelle

61

anse a tunnel; nell’architettura funeraria pienamente orientata verso l’ipogeismo

articolato, monumentale, collettivo e distinto dalle aree di abitato; nella perdita di

naturalismo e volume delle figurine antropomorfe; nella comparsa delle grandi

lame in selce; nelle prime attestazioni della tecnologia metallurgica.

Fig. 15 - Vaso a cestello di cultura Ozieri (da Loria e Trump 1978)

62

4.3 La facies funeraria corso-gallurese

Il fenomeno gallurese dei circoli sub-megalitici a carattere funerario è stato

inquadrato come una cultura calcolitica (Lilliu 1963), neolitica (idem: 2003),

come una facies della cultura di Ozieri (Contu 2006), come un fenomeno corso-

gallurese (Antona 2003); limitatamente al suo aspetto più noto, quello della

necropoli di Li Muri – Arzachena, questa è stata considerata appartenente alla

cultura/facies di San Ciriaco (Ugas 2005), e facente parte “dell’orizzonte San

Ciriaco, privo di interferenze San Michele” (Santoni et al. 1997). Eppure, sono

proprio i tratti tipici del San Ciriaco, peraltro minoritari, a costituire una

“interferenza” rispetto ad un sostrato culturale differente. La coppetta litica rientra

formalmente nella tradizione San Ciriaco (bassa carena, spalla rientrante,

peduccio anulare), sebbene vi siano dei confronti convincenti con alcune

ceramiche di stile Diana, munite di anse a rocchetto pieno allungato con leggera

insellatura che si avvicinano all’esempio di Li Muri in misura anche maggiore

rispetto agli esemplari sardi. Le lame in selce potrebbero essere state importate,

come prodotto grezzo ovvero finito, in quanto non vi è attestazione di industrie

litiche su supporti laminari ottenuti per pressione durante la fase San Ciriaco (e.g.

Lugliè 2009; Guilbeau 2010; Melosu e Pinna 2012), e la materia prima parrebbe

essere, ad un’analisi macroscopica, differente da quella dei giacimenti

dell’Anglona9. L’architettura funeraria sub-megalitica del tipo osservabile a Li

Muri e a La Macciunitta trova, più che un confronto, una precisa corrispondenza

con i coffres corsi di Tivulaghju, Cozza Torta, Muchjastru, Monte Rotondo-

Poghjaredda e Vasculacciu (Tramoni et al. 2007), facenti a loro volta parte del

coevo quadro del Midi francese chasseano; esempi di sepoltura in cista litica sono

attestati per la facies di Montbolo, per il gruppo di Roquefort e per l’aspetto

meridionale dello Chasseén (Vaquer 1998). In Corsica le corrispondenze sono

però più puntuali: ritroviamo infatti i pomi sferoidali, i vaghi di collana in clorite,

e le asce litiche a Tivulaghju (Tramoni et al. 2007), Cardiccia e Monte Revincu

(Leandri et al. 2007). L’ocra rossa è attestata nei rituali di Cuccuru is Arrìus, e

ciottoli con tracce di ematite ocracea sono stati rinvenuti anche nel villaggio di

9 Come osservato da Ferrarese Ceruti (Tiné e Traverso 1992: 183)

63

San Ciriaco di Terralba; fuori dall’isola, la ritroviamo nel meridione in contesti

Serra d’Alto (e.g. Zambotti 1943: 27), nell’area padana alpina in contesti Vbq

(e.g. Pedrotti 2001; Bernabò Brea et al. 2006), ma i confronti potrebbero

teoricamente estendersi a qualsiasi area del pianeta (e.g. Binford 1963).

L’associazione dei circoli tombali e dei menhir è riscontrata in diversi siti della

Corsica meridionale (Tramoni et al. 2007: 251). In questa fase del neolitico medio

si assiste, inoltre, ad un intensificarsi dei contatti tra le due isole; lo testimoniano

l’ossidiana sarda, presente in Corsica anche in forma di blocchi grezzi o solo

parzialmente lavorati (ibidem: fig. 6), e le ceramiche rinvenute a Tivulaghju,

inquadrabili a tutti gli effetti come San Ciriaco. L’ipotesi della presenza umana

sarda in Corsica (Lugliè 2009: 219) non contrasterebbe, dunque, con quella di

un’ibridazione tra i gruppi umani delle due isole, che ha poi dato luogo ad una

esportazione di tratti culturali - tra i quali, appunto, i rituali funerari - la cui

estensione resta però confinata alla Gallura, escludendo così l’area sulla quale si

presume che questi gruppi umani esercitassero una qualche forma di controllo, e

cioè quella dell’Oristanese. L’attribuzione dei circoli funerari galluresi alla cultura

di San Ciriaco appare dunque coerente con i dati archeologici, ma il concetto di

sottocultura archeologica proposto da Clarke (1968: 236) si presterebbe forse ad

una più attenta lettura del fenomeno, tenendo così conto dei fattori di natura

economica, ecologica (ed etnica?) che hanno sicuramente pesato nella

differenziazione di tale manifestazione culturale rispetto al restante quadro

regionale.

Fig. 16 - Necropoli di Li Muri ˗ Arzachena ˗ (fonte: http://amisdumusee-carnac.blogspot.it/)

64

Fig. 17 - Ceramiche da Tivulaghju ˗ Porto Vecchio ˗ (da Tramoni et al. 2007)

65

Fig. 18 - Circoli tombali, a): Vasculacciu ˗ Corsica Meridionale ˗; b) Li Muri ˗ Arzachena ˗ (da

Leandri et al. 2007; rielab. a cura di chi scrive)

Fig. 19 - Cardiccia ˗ Sartène ˗ pomi sferoidi dal coffre di Foce-Pastini (da Leandri et al. 2007)

66

4.4 Apporti extrainsulari

Abbandonata da tempo la visione della Sardegna neolitica come di un’area

di accantonamento culturale (cfr. Tiné 1997: 51), si può ormai guardare ai

confronti extrainsulari a partire dai dati che attestano reali contatti tra i gruppi

umani isolani e continentali. Nell’ultimo quarto del V millennio a.C. l’intera area

settentrionale dell’Italia è interessata dalla cultura dei Vasi a Bocca Quadrata,

nella fase II o c.d. meandro-spiralica. I primi apporti di matrice chasseana

cominciano in questa fase ad intaccare il sostrato Vbq dell’area ligure, come

documentato ad Alba (Venturino Gambari 1995) e a La Maddalena di Chiomonte

(Fedele 2008), interessando poi buona parte della penisola italiana (Borrello

1984); i contatti tra la Sardegna e l’area ligure-padana chasseana sono comprovati

dall’ossidiana sarda presente nella Caverna delle Arene Candide (Bernabò Brea

1946), alla Romita di Asciano (Peroni 1963) e Podere Casanuova (Aranguren et

al. 1991) e indiziati dalle analogie nella produzione ceramica, per la quale, oltre ai

confronti già proposti (e.g. Alba 1999: 25-33; Lugliè 2003: 72-3) si possono citare

i siti di Le Mose (Maffi 2013: 151) e di Botteghino (Mazzieri e Dal Santo 2007:

fig. 6), entrambi datati all’ultimo quarto del V millennio a.C. Gli influssi di

tradizione Vbq sembrano invece riguardare prevalentemente la decorazione delle

superfici vascolari: le analogie tra il coperchio di Vecchiazzano e il piatto in

steatite di Locòe, così come la decorazione meandro-spiralica caratterizzante la

produzione ceramica del Vbq II riscontrata su vasi provenienti in buona parte

dall’area sulcitana, nonché su elementi di parure (la placchetta in osso da Grotta

Rifugio), sono elementi che indiziano rapporti solidi tra la Sardegna e l’area

padana in questa fase del neolitico medio. Ma guardando al meridione della

penisola italiana, le analogie tra le forme vascolari e alcuni elementi di prensione

delle culture di Serra d’Alto e Diana-Bellavista sono ugualmente rimarchevoli; la

scoperta di una tomba a grotticella artificiale a Carpignano, datata al 5665±30 BP,

oltre a fugare gli ultimi dubbi sull’attendibilità dell’esempio di Arnesano riguardo

alle prime attestazioni dell’ipogeismo peninsulare (Lo Porto 1972; cfr. Tiné e

Traverso 1992: ), lascia supporre che le affinità nella produzione ceramica siano il

portato di contatti tra il Salento e la Sardegna, più che un mero fenomeno di

convergenza. I raffronti tra la coppetta di Li Muri e alcune ciotole provviste di

67

anse a rocchetto allungato dalla stazione preistorica di Diana (Bernabò Brea 1960:

fig. 15 g, i), e quelli tra la ciotola in calcite di Bingia ’Eccia e un’analoga forma,

stavolta fittile, con singola ansa a rocchetto allungato dalla tomba di Piano Conte

(ibidem: tav. XXVIII, 5) sono particolarmente stringenti; allo stesso modo, una

statuina proveniente da S. Matteo Chiantinelle – Foggia (Gravina 2008: fig. 2)

trova più di un confronto con gli esemplari di Su Cungiau de Marcu e Conca

Illonis. Alcune analogie con la produzione ceramica maltese di fase Skorba (Sluga

Messina 1988: fig. 3 b; Trump 1998: tav. 2.1, 2.3) potrebbero invece indiziare, più

che contatti diretti tra le due isole, una comune assimilazione da modelli

dell’Italia meridionale; la precocità degli aspetti Diana peninsulari è peraltro

confermata da datazioni radiocarboniche che ne attestano una comparsa già dalla

metà del V millennio a.C, in parziale sovrapposizione, quindi, con la cultura di

Serra d’Alto (Pessina e Radi, fig. 27). L’Italia peninsulare e l’area padana erano,

del resto, in costante contatto durante questa fase del neolitico, come testimoniato

dalla circolazione delle ollette del tipo San Martino, di tradizione Serra d’Alto ma

presenti in un gran numero di sepolture Vbq (Mazzieri et al. 2012), e delle accette

in pietra verde, di provenienza alpina ma circolanti lungo l’intera penisola

(ibidem: 355). Nonostante la marcata eterogeneità culturale che caratterizza la

penisola italiana nel neolitico medio, l’attestazione dei rapporti fra le aree

meridionali e quelle centro-settentrionali lascia intravvedere una parziale

ibridazione dei tratti culturali di partenza delle specificità locali; l’inserimento

della Sardegna nel quadro di contatti interregionali, fa pensare ad una ricezione di

tradizioni e modelli da gruppi umani extrainsulari, mai accolte in toto, ma

costantemente rielaborate e mescidate ad una altrettanto costante evoluzione

culturale interna. Distinguere, caso per caso, tra le spinte evolutive interne e le

rielaborazioni di apporti esterni, è un’operazione che non può essere svolta se si

considera il mutamento culturale come il semplice risultato di una trasmissione

verticale o orizzontale, ma necessita di una lettura a più ampio raggio che tenga

conto del ruolo giocato dai fattori ambientali ed economici, che devono aver agito

tanto da “filtro” di ricezione, quanto da meccanismo di mutamento culturale

interno all’ideologia dei gruppi autoctoni. In quest’ottica sarà forse più semplice

comprendere le cause in ragione delle quali alcuni tratti culturali esterni (la

68

decorazione meandro-spiralica Vbq, le anse a rocchetto di tipo Diana) sono stati

accolti e fatti propri, mentre altri (l’imboccatura quadrata eponima della cultura

Vbq, le ollette del tipo San Martino) non hanno intaccato, se non marginalmente

(e.g. Loria e Trump 1978: 186, tav. XL 28), il sostrato culturale “ricevente”.

Fig. 20 – A sinistra: coperchio fittile da Vecchiazzano (fonte: www.Vecchiazzano.it); a destra:

piatto litico da Locòe (da Lilliu 1999)

Fig. 21 Bingia ‘Eccia – Dolianova (1) (da Ferrarese Ceruti 1995); Piano Conte – Lipari (2) (da

Bernabò Brea 1960)

69

5 Considerazioni conclusive

A quali evidenze, tratti culturali o segmento cronologico si fa riferimento,

dunque, quando si parla di “cultura di San Ciriaco”? Gli usi funerari sono poco

noti e in nessun caso, tra le evidenze edite, è stato possibile individuare una

tipologia funeraria caratterizzante la cultura in esame; quantitativamente scarsi,

allo stesso modo, sono i dati editi sull’industria litica, sulla tipologia delle

strutture a carattere abitativo e sull’estensione degli stessi abitati. La produzione

ceramica non presenta, a una prima analisi, particolari problemi interpretativi, ma

il quadro si complica quando compare la ceramica pointillée, in modo particolare

in contesti funerari ipogeici. Si è, inoltre, parlato di ibridazione, tanto per indicare

la transizione graduale dei tratti culturali da una cultura a un’altra, quanto per

definire il processo di assimilazione di elementi allogeni; tale concetto deve

necessariamente essere accolto in un’accezione puramente euristica, utile a una

sintesi dei processi, ma poco aderente a una esaustiva spiegazione degli stessi. A

ben vedere, un discorso sull’ibridazione dei tratti culturali è, il più delle volte,

insostenibile, poiché tratti culturali ibridi presuppongono tratti “puri”, che devono

però essere stabiliti in maniera arbitraria, per via della analoga ˗seppur necessaria˗

arbitrarietà con la quale si fissano le scansioni cronologiche. Le obiezioni di

Hodder e Orton (1976) e Renfrew (1977) riguardo alla validità del concetto di

cultura archeologica, muovevano da un discorso sulle associazioni casuali e non-

casuali intese in senso diatopico; nel caso della cultura di San Ciriaco, il discorso

può essere applicato in senso diacronico e, per certi versi, non è invece applicabile

nella sua accezione spaziale, perché l’insularità implica una inevitabile (e non più

arbitraria) rottura di qualsivoglia omogeneità culturale, per quanto mitigata da

eventuali contatti extrainsulari. Questo fatto può, forse, aiutare a comprendere

alcune delle ragioni per le quali il concetto di cultura archeologica si sia

sviluppato (e resti, ad oggi, meno vulnerabile) a supporto di una visione

diffusionista; nondimeno, ristabilire una dicotomia serrata tra evoluzione e

diffusione sarebbe poco opportuno, metodologicamente scorretto e affatto sterile,

dal momento che entrambi i fenomeni esistono, hanno avuto luogo, ed è

necessario tenerne conto. Tuttavia, per una analisi che non sia più meramente

70

descrittiva, ma che si proponga di essere esplicativa delle spinte evolutive in seno

ad una società relativamente omogenea, quale può apparire (anche tenendo conto

delle contraddizioni e delle lacune conoscitive citate poc’anzi) la cultura di San

Ciriaco, è necessario superare i vincolanti confini del concetto di cultura

archeologica fondato sui “tratti culturali”, tanto utile in una fase preliminare della

ricerca, quanto limitante nel momento in cui i dati archeologici e antropologici

vengono forzati all’interno di un quadro tassonomico e interpretativo

necessariamente rigido. La reductio ad unum delle molteplici associazioni di

manufatti datati entro un lasso di tempo e distribuiti in una precisa regione

geografica è un imprescindibile punto di partenza per individuare una omogeneità

culturale e, di riflesso, le discontinuità da cui ha avuto luogo e quelle che ha, a sua

volta, generato; nel momento stesso in cui ci si appresta a comprendere le cause di

tali mutamenti culturali, il concetto di cultura archeologica non solo non è più

sufficiente, ma risulta fuorviante in ragione delle contraddizioni latenti al suo

interno, che i nuovi interrogativi faranno necessariamente emergere. Ogni

cambiamento culturale affonda le sue radici nelle condizioni economiche e sociali,

le quali influenzano a loro volta i fattori ideologici, che ne costituiscono una

rappresentazione. Senza una lettura di tali condizioni, il riconoscimento di

un’evoluzione dei tratti di cultura materiale all’interno di una società resta un

mero esercizio di seriazione tipologica; allo stesso modo, la diffusione dei tratti

culturali ci informa unicamente circa una loro disponibilità, ma non aiuta a

comprendere per quali ragioni essi siano stati assimilati. Si può ragionevolmente

concludere, dunque, che le culture archeologiche costituiscano un valido sistema

di classificazione e di scansione delle fasi archeologiche, laddove manchi un

chiaro quadro crono-tipologico, e per questa ragione è necessario un criterio

univoco nello stabilire quando un “gruppo politetico di tipi di manufatto specifici

e comprensivi che compaiono insieme in modo consistente in insiemi entro

un’area geografica limitata” (Clarke 1968: 190) possa essere considerato una

cultura archeologica. Sebbene, alla luce dei dati emersi fino a questo momento,

possa apparire un’operazione oziosa, non sarà tuttavia superfluo ribadire che

l’associazione di tratti culturali indicata come “San Ciriaco” debba intendersi, a

tutti gli effetti, come una cultura archeologica. Una volta completata la fase

71

classificatoria, i tratti culturali si riveleranno naturalmente come effetti, e non

cause, del mutamento che l’enucleazione della cultura archeologica ha messo in

evidenza, e si potrà procedere a una analisi incentrata sugli aspetti sociali,

economici e ambientali; in questo modo, prendendo come riferimento l’“indiano

che sta dietro al manufatto”, sarà ancora difficile tracciare una storia etnica

dell’indiano, ma sarà altresì superata la fase classificatoria del manufatto, e si

potrà giungere a comprendere quale fosse il sistema sociale che stava dietro ad

entrambi.

72

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