Costituzionalismo e democrazia dei partiti a livello europeo

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di Gabriele Conti Dottorando in Teoria dello Stato ed Istituzioni Politiche Comparate Sapienza – Università di Roma Costituzionalismo e democrazia dei partiti a livello europeo 24 DICEMBRE 2014

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di Gabriele Conti Dottorando in Teoria dello Stato ed Istituzioni Politiche Comparate

Sapienza – Università di Roma

Costituzionalismo e democrazia dei partiti a livello europeo

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Costituzionalismo e democrazia dei partiti a livello europeo*

di Gabriele Conti

Dottorando in Teoria dello Stato ed Istituzioni Politiche Comparate Sapienza – Università di Roma

Sommario: 1. La Costituzione europea: limiti e innovazioni dei princìpi del costituzionalismo a

livello europeo. 2. La democrazia dei partiti e la democrazia coi partiti: disciplina dei partiti

politici a livello nazionale ed europeo. 3. Il sistema partitico europeo e la giurisprudenza europea

in tema di gruppi assembleari in seno al Parlamento europeo.

1. La Costituzione europea: limiti e innovazioni dei princìpi del costituzionalismo a

livello europeo

L'innesto teorico dei principi del costituzionalismo nello spazio europeo ha sollevato una serie di

problematiche in merito alla definizione della natura giuridica dell'Unione e ai rapporti tra le

istituzioni europee e gli Stati membri dell'UE. La dottrina si è trovata di fronte una costruzione

ibrida, di difficile categorizzazione dal punto di vista istituzionale, dividendosi pertanto nelle

valutazioni di ordine costituzionalistico nei riguardi del processo di integrazione: l'Unione

europea si è infatti “venuta prospettando secondo moduli originali che sono inevitabilmente influenzati dal

modello organizzativo fornito dallo Stato e da quello delle organizzazioni di Stati”1.

Proprio da tale peculiare dualità muove la difficoltà di definire il tipo di forma di governo

dell'Unione oltre che, in maniera più generale, il sistema costituzionale nel quale quest'ultima

viene a determinarsi. Ciò in primo luogo perché gli stessi concetti di “forma di governo” e quello

* Il presente contributo rientra tra i lavori inviati in risposta alla Call for papers di federalismi “Valori comuni e garanzie costituzionali in Europa” ed è stato sottoposto ad una previa valutazione del Direttore della Rivista e al referaggio dei Professori Cassetti, Curti Gialdino, Gui, Miccù e Ridola. 1 G. DE VERGOTTINI, Forma di governo dell'Unione Europea, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, 2009.

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di “costituzione” sono categorie proprie del diritto costituzionale e fanno riferimento alla

nozione di “Stato”2: essi trovano, in ambito europeo, un terreno solo parzialmente aderente ai

processi di costituzionalizzazione propriamente intesi e necessitano di una ridefinizione in grado

di inglobare anche gli aspetti di carattere internazionalistico caratterizzanti l'ordinamento euro-

unitario.

Una autorevole dottrina3, mettendo a confronto la radice statualistica e quella internazionalistica

del regime giuridico dell'Unione, ha sostenuto come sia piuttosto quest'ultima a prevalere in

termini istituzionali, evidenziando come i due elementi non siano in realtà in conflitto tra di loro,

definendo invero il primo l'insieme dei valori comuni derivanti dagli Stati membri e, il secondo, i

contorni dell'assetto funzionale del sistema, ovvero il modo mediante il quale vengono ad

estrinsecarsi le scelte di fondo sul piano organizzativo, scelte determinate in sede pattizia e che

trovano così la loro fonte originaria nella volontà dei singoli Stati membri.

L'aspetto più propriamente “costituzionalistico” dell'ordinamento euro-unitario si rinviene

pertanto nel suo strato assiologico e troverebbe invece un limite nell'assenza di un assetto

“statuale” ed in particolare nella mancata strutturazione federale dell'Unione: “nel momento in cui gli

Stati hanno deciso di costituire le Comunità e quindi la UE hanno inteso realizzare un'organizzazione che

consentisse di creare un mercato comune. Non hanno tuttavia voluto fondare una nuova comunità politica di

natura federale che eliminasse la loro statualità”4.

L'insieme di valori cui si fa riferimento è tuttavia disciplinato a livello dei Trattati e, in quanto

normativizzato, riesce a plasmare l'anima strutturale dell'Unione, stabilendo anzi per essa dei

contorni istituzionali particolarmente stringenti: il Trattato di Lisbona menziona a più riprese, tra

i valori fondanti dell'Unione, i diritti inviolabili e inalienabili della persona, le libertà fondamentali,

la democrazia, l'uguaglianza e lo Stato di diritto. Tali valori, secondo l'articolo 2 del TUE, “sono

comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione,

dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità fra uomini e donne”. La presenza di

questi valori nelle Costituzioni degli Stati membri è condizione essenziale e necessaria per la loro

permanenza nell'Unione. Allo stesso modo, ai sensi dell'articolo 49 TUE, uno Stato esterno può

2 Si vedano D. GRIMM, Il futuro della Costituzione (1991), in G. ZAGREBELSKY – P. P. PORTINARO – J. LUTHER (a cura di), Il futuro della Costituzione, Torino, Einaudi, 1996, p. 156; ID., Una Costituzione per l'Europa? (1994), in G. ZAGREBELSKY – P. P. PORTINARO – J. LUTHER (a cura di), Il futuro della Costituzione, Torino, Einaudi, 1996, p. 349. 3 G. DE VERGOTTINI, Forma di governo, op. cit.. 4 Ivi.

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aspirare ad entrare a far parte dell'Unione solamente se il suo assetto costituzionale accoglie

pienamente tali principi.

In tal modo, “l'impronta costituzionale” dell'Unione europea verrebbe impressa nel terreno della

comune accettazione di un assetto di valori fondamentali ed è questa accezione puramente

assiologica del costituzionalismo – accezione che troverebbe nella tradizione costituzionalistica

francese la sua massima ispirazione5 – a definire i contorni di quella che può essere intesa come

“costituzione europea”. L'Unione europea, tuttavia, non solo difetta della mancanza di un

impianto normativo sistematico – ovvero “formalmente” costituzionale – ma si inserisce in un

contesto giuridico che declina gli altri elementi propri del costituzionalismo democratico-liberale

secondo una logica articolata o dispersiva, sconfinando in uno spazio disciplinante multiforme sia

dal punto di vista delle dinamiche che governano i processi di normazione, sia per quanto

riguarda i meccanismi di strutturazione degli organi di potere, spazio riconducibile piuttosto alla

categoria della governance6.

Manca, ad esempio, sul piano giuridico europeo, una precisa definizione gerarchica e ordinante

dell'assetto dei poteri e la questione della sovranità viene di fatto scavalcata, dal momento che

non è possibile individuare con precisione quella “autorità governativa di vertice” contro cui il

sistema di diritto posto in essere si contrappone (limitandola). Ed è proprio la mancanza di una

prospettiva oppositiva – tipica invece del sistema costituzionalistico di matrice liberale – a

rovesciare l'impalcatura costituzionale del regime giuridico europeo, definendo per esso una

forma di governo “appiattita”. Si tenga conto, tuttavia, come altra dottrina neghi invece che il

senso proprio del costituzionalismo si possa ridurre alla proiezione negativa delle limitazioni di

potere e che la mancanza di una strutturazione “piramidale” degli organi di potere, in cui il vertice

viene determinato dalla base, non determini necessariamente la perdita del carattere

“costituzionale” di un regime7.

La trasposizione in campo europeo dei valori costituzionali derivanti dagli ordinamenti nazionali

non è stata accompagnata, alla maniera statuale, dall'adozione di un assetto istituzionale in grado

di assicurarne sistematicamente la tutela, se non all'interno di un quadro giuridico che sfocia

direttamente nel regime internazionalistico e dunque all'interno di un differente e ulteriore piano

5 Vedi P. BISCARETTI DI RUFFÌA, “Costituzionalismo”, in Enciclopedia del Diritto, XI, 1962, Milano, Giuffré, p. 131. 6 Vedi A. ARIENZO, A. Dalla corporate governance alla categoria politica della governance, in G. BORRELLI, Governance, Napoli, Dante & Descartes, 2004, pp. 125-162. 7 S. HOLMES, Vincoli costituzionali e paradosso della democrazia (1988), in G. ZAGREBELSKY – P. P. PORTINARO – J. LUTHER (a cura di), Il futuro della Costituzione, Torino, Einaudi, 1996, p. 197.

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disciplinatorio: l'impianto legittimante del sistema euro-unitario è pertanto definito da una logica

intergovernativa che guida i processi normativi e che definisce i criteri di strutturazione degli

organi di potere dell'Unione. Non a caso, la forma di governo europea trova la sua più diretta

ispirazione nel modello statualistico ma, tenendo conto della derivazione essenzialmente pattizia

dell'ordinamento, include anche elementi che esaltano la logica intergovernativa8: all'interno della

tripartizione classica dei poteri, troviamo così una duplice strutturazione istituzionale, con due

organi esecutivi (la Commissione e il Consiglio europeo), due organi legislativi (il Consiglio e il

Parlamento europeo) e due organi giurisdizionali (la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e la

Corte di Giustizia).

La stessa dottrina testé citata non nega che “il nucleo forte della forma di governo comunitario sia ispirato

dai modelli statali”, anche se tale momento statualizzante può essere riferito solo ad una fase

iniziale del processo di integrazione europea. L'assetto istituzionale delle Comunità – ed in

particolare quello della Comunità carbosiderurgica – riprendeva infatti la tradizionale tripartizione

del modello istituzionale statuale 9 , con un organo esecutivo (l'Alta Autorità), un organo

rappresentativo (l'Assemblea) ed un organo giurisdizionale (la Corte di Giustizia). Ma nel

momento in cui il sistema costituzionale è divenuto “modello”, sono stati piuttosto i diritti

fondamentali a definire la base dell'assetto “costituzionale” dell'Unione, mentre l'impianto

istituzionale europeo ha assunto una forma piuttosto peculiare, difficilmente ascrivibile alle

classiche categorie del diritto costituzionale.

Nel corso del processo di integrazione si è proceduto, da un lato, all'inquadramento dei diritti

fondamentali in un complesso strutturalmente disorganico (CEDU, Carta di Nizza e altre carte

ancora) mentre la tutela degli stessi è stata affidata a differenti organi giurisdizionali (Corte

Europea dei Diritti dell'Uomo, Corte di Giustizia). Dall'altro lato, l'impianto istituzionale

dell'Unione ha perso progressivamente la carica costituzionalistica, culminata nel tentativo – poi

fallito – di trattato costituzionale nel 2004. Così, il sistema di principi costituzionalmente rilevanti

ha ottenuto la massima valorizzazione principalmente nell'alveo della tutela giurisdizionale – ed è

soprattutto in tale ambito che altra dottrina, seppur sulla base di differenti prospettive analitiche10,

8 Cfr. L. BARDI, Il Parlamento europeo, Bologna, Il Mulino, 2004. 9 Cfr. M. PATRONO, La forma di governo dell'Unione europea: una breve storia, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, n. 4/2003, pp. 1763 e ss.. 10 Si vedano H. DE WAELE, The Role of the European Court of Justice in the Integration Process: A Contemporary and Normative Assessment, in Hansel Law Review, vol. 6, Issue n. 1, 2010, pp. 3-26; F. FABBRINI, The European Multilevel System for the Protection of Fundamental Rights: A Neo-Federalist Perspective, in Jean Monnet Working Paper, n. 15, 2010; A. RUGGERI, L'integrazione europea attraverso i diritti e il valore della Costituzione, in federalismi.it, n. 12/2014.

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come vedremo, ritaglia il vero nucleo “costituzionale” dell'Unione – mentre l'impianto

istituzionale dell'ordinamento euro-unitario ha mantenuto e, in alcuni casi, esaltato, la logica

intergovernativa.

Il Trattato di Lisbona, seppur fedele ad “una parte consistente delle soluzioni” che erano state

individuate nel trattato costituzionale del 2004, ha posto la Carta dei diritti all'esterno dei Trattati,

sebbene in una posizione di sostanziale eguaglianza sul piano normativo11. In tal modo – scartata

l'opzione “sistematizzante” della Carta costituzionale – il regime europeo è tornato alla originaria

dualità di fondo ed il processo di integrazione è stato impostato nuovamente su una logica di tipo

prevalentemente internazionalistico.

La (rinnovata) contrapposizione tra tendenze costituzionalizzanti e logica intergovernativa è

accentuata d'altro canto dal fatto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia si muove in senso

contrario rispetto al percorso intrapreso formalmente col Trattato di Lisbona. La Corte si è infatti

“pronunciata a favore dell'individuazione dei trattati come Costituzione in senso sostanziale, in quanto nei

trattati è presente un complesso di regole fondamentali sulla disciplina, distribuzione, esercizio e limiti dell'autorità,

sui fini, sui valori e sulle funzioni. [...] La Corte ha riconosciuto nell'originario atto di volontà degli Stati membri

solo un fondamento storico della validità dell'ordinamento comunitario che ormai, secondo la stessa, si

autogiustificherebbe”. La giurisprudenza della Corte di Giustizia porterebbe dunque ad eliminare “la

consolidata convinzione per cui esiste un'accettata differenza tra il trattato basato sull'intesa fra Stati, regolata dal

diritto internazionale, e la Costituzione espressione del potere autoreferenziale di una specifica comunità statale

retta dal proprio diritto”12, traendo così proprio dai Trattati la Grundnorm del sistema euro-unitario.

L'influenza dei singoli ordinamenti statali non viene però annullata dalla Corte, ma solo

ricompresa all'interno di una cornice più ampia in cui il diritto degli Stati ha carattere di fonte

“ausiliaria” da cui attingere, al fine precipuo di tendere alla completezza dell'ordinamento euro-

unitario.

L'idea per cui la costituzione d'Europa si desumerebbe dai Trattati, troverebbe i suoi limiti, a

parere della citata dottrina, nel fatto che i singoli Stati non hanno affatto rinunciato alle rispettive

sovranità, pertanto non si verifica “la trasfigurazione della pienezza del potere originario degli Stati

membri” ed anzi, è stato sottolineato come le corti nazionali (in particolare la Corte costituzionale

italiana e il Tribunale costituzionale tedesco) abbiano “contrastato la possibilità di un esercizio

indipendente di competenze che originasse una vera e propria autodeterminazione degli organi comunitari […].

Pertanto gli Stati non hanno fatto acquiescenza, accettando di perdere il controllo dei trattati e riconoscendo

11 G. DE VERGOTTINI, Forme di Governo, op. ult. cit., 2009. 12 Ivi.

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l'autosufficienza del nuovo ordine giuridico […] e non hanno mai inteso legittimare la normativa inizialmente

contenuta nei trattati come Costituzione”. Ed è per tale motivo che la dottrina citata ritiene che la logica

internazionalistica sia del tutto prevalente rispetto alla pretesa della Corte dell'esistenza di un

ordinamento europeo “autosufficiente”: valendo anzi il principio di attribuzione, all'UE “spettano

soltanto i poteri attribuiti dalla volontà negoziale degli Stati”13.

La posizione della dottrina finora citata non è tuttavia netta, poiché essa riconosce che il principio

di attribuzione è di fatto temperato da quello della flessibilità e tiene inoltre conto del fatto che nel

modello di ripartizione delle competenze fra Unione europea e Stati nazionali è previsto un

(progressivamente più ampio) ambito di intervento esclusivo dell'UE – sebbene il Trattato di

Lisbona abbia previsto che l'esercizio delle competenze debba essere guidato dal rispetto del

principio di sussidiarietà e del principio di proporzionalità, criteri mediante i quali viene messo

invece in primo piano il ruolo dei Parlamenti nazionali.

La dottrina citata fatica però a riconoscere l'esistenza di una “Costituzione europea” poiché non è

possibile stabilire un tertium genus tra due estremi di fatto inconciliabili: “fino ad oggi la realtà

dell'Unione rimane caratterizzata da una forte presenza delle entità statuali preesistenti che mantengono la loro

tradizionale sovranità”14. A sostegno di tale dottrina, valga anche la considerazione per cui se per

“Costituzione europea” si deve intendere un insieme di valori comuni e pertanto riconducibili ad

un sistema omogeneo di principi, il progressivo ampliamento dell'Unione ad altri e diversi

ordinamenti, accentua l'eterogeneità di fondo del regime (europeo) il quale, assorbendo

progressivamente ordinamenti (nazionali) “sensibilmente eterogenei”, rende sempre più difficile

l'individuazione di tale nucleo di principi fondamentali. L'opposizione tra i due criteri posti alla

base del regime giuridico dell'Unione si risolverebbe, in definitiva, secondo questa prima corrente

dottrinaria, a favore della logica internazionalistica.

Altra dottrina riconosce invece l'esistenza di una “costituzione europea”, senza tuttavia fare

ricorso alla formulazione di un tertium genus: la “costituzione europea” troverebbe la propria

sostanza (assiologica e, conseguentemente, istituzionale) nello spazio della tutela giurisdizionale

dei diritti e, sistematicamente, nelle relazioni poste in essere a tal proposito tra le Corti europee e

le Corti nazionali15. Tale dottrina ritiene il concetto di “costituzione” non strettamente legato a

13 Ivi. 14 Cfr. G. DE VERGOTTINI, Tradizioni costituzionali comuni e Costituzione europea, in Identità Europea e Tutela dei Diritti. Costituzione per l'Europa e interesse Nazionale – Atti del Seminario della Fondazione Magna Carta, Roma, 14 Marzo 2005, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2005; ID., La persistente sovranità, in Studi di Consulta Online, 3 Marzo 2014. 15 Cfr. A. RUGGERI, L'integrazione europea, op. cit., 2014.

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quello della statualità, ponendosi la nozione stessa di costituzione al centro di una pluralità di

sistemi (politico-istituzionali, normativi e assiologici) di cui essa stessa si fa sintesi e al contempo

manifestazione.

Il concetto di costituzione ha dunque una “plurima e composita accezione” che nel processo di

integrazione sovranazionale dell'Unione trova nuove valenze e nuovi “modi di atteggiarsi”. Tuttavia,

se ci si muove dal modello costituzionale di matrice rivoluzionaria si possono individuare due

principi fondamentali del costituzionalismo, ovvero il principio della separazione dei poteri e

quello della garanzia dei diritti, principi ritenuti imprescindibili in un regime che voglia definirsi

“costituzionale” e che un'attenta dottrina ha ipostatizzato con le efficaci espressioni di

“Costituzione dei poteri” e “Costituzione dei diritti”16.

Il riferimento al costituzionalismo statuale ed in particolare ai due principi testé individuati, si

rivela quantomeno opportuno per decifrare i contorni del regime europeo, posto che, come visto,

le condizioni di entrata e di permanenza nell'Unione per ciascuno Stato nazionale vengono

dettate proprio da criteri di ordine democratico-liberale: i due livelli costituzionali muovono

pertanto da una medesima radice assiologica che ne caratterizza parimenti l'evoluzione della

struttura organizzativa. Ma la trasposizione del modello di costituzione di stampo liberale nel

campo europeo comporta una ridefinizione del concetto stesso di “costituzione” in senso

generale, poiché la costruzione dell'impianto europeo deriva essenzialmente da un processo

simultaneo di mutazione dei regimi costituzionali di livello nazionale: la costituzione è sempre

stata intesa infatti come unico “punto fermo della unificazione-integrazione di un ordinamento”, definendo

in tal senso un sistema “chiuso” e autosufficiente. Con l'introduzione, nelle Carte costituzionali

nazionali, del principio di apertura al regime internazionale – ed in particolare con la condivisione

delle Carte universali dei diritti – le Carte costituzionali nazionali vengono traslate su un piano

ordinamentale in cui la distribuzione dei valori si sviluppa in un sistema d'azione “aperto”,

plurisoggettivo e pertanto “condiviso”17.

Tale condivisione di valori si riflette necessariamente sulla sovranità – anch'essa, pertanto, diviene

condivisa – attraverso un “graduale e massiccio trasferimento di materie e funzioni dagli Stati all'Unione” e

ciò porta, conseguentemente, all'individuazione di una “Costituzione condivisa”. Si potrebbe

obiettare come, in tal senso, attraverso il processo di apertura, le Costituzioni nazionali si

16 Vedi M. LUCIANI, La Costituzione dei diritti e la Costituzione dei poteri. Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in AA. VV., “Scritti in onore di Vezio Crisafulli”, II Tomo, Padova, CEDAM, 1985, pp. 497 e ss.. 17 Cfr. A. RUGGERI, L'integrazione europea, op. ult. cit., 2014.

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impoveriscano, mentre quella “europea” non sia altro che il “residuo” delle concessioni degli

Stati, ma ciò non è vero nel complesso del processo di integrazione, poiché “la condivisione della

funzione di salvaguardia dei diritti fondamentali (con la Carta dei diritti dell'Unione, la CEDU ed altre Carte

ancora)” valorizza il ruolo della Costituzione in entrambi i livelli. Se si guarda alla giurisprudenza

delle Corti europee e al dialogo che queste intrattengono con le Corti nazionali, soprattutto

nell'ambito della tutela dei diritti etico-sociali, si può rilevare come “le giurisprudenze si immettano

tutte in uno stesso circolo, in seno al quale si ricaricano e rigenerano vicendevolmente, allo stesso tempo tuttavia

distinguendosi alla bisogna, con un andamento all'insegna dello stop and go, che sembra avere quale suo

principio ispiratore quello della salvaguardia – la migliore possibile, alle condizioni oggettive di contesto – dei

diritti”18.

La “costituzione europea” si sostanzierebbe pertanto nella salvaguardia a livello euro-unitario dei

diritti e nell'opera di sollecitazione, da parte delle Corti europee nei confronti dei legislatori e dei

giudici nazionali, al superamento delle lacune interne in relazione alla tutela degli stessi. Si passa

così da un concetto di “costituzione totale” ad uno di “costituzione parziale” non

necessariamente svilente, poiché in primo luogo né in ambito nazionale né in ambito europeo

può stabilirsi una costituzione “in grado di dire tutto su tutto” (e ciò non sarebbe nemmeno

auspicabile 19 ) e, in secondo luogo, perché è proprio attraverso la continua e reciproca

sollecitazione alla salvaguardia dei diritti a rendere maggiormente funzionali e vitali i due livelli

costituzionali.

La “costituzione europea” non ha dunque nulla da invidiare a quelle nazionali poiché le sue

carenze strutturali sono in realtà connaturate all'impossibilità, propria di ogni regime giuridico, di

stabilire in maniera totale e definitiva “il riconoscimento dei diritti, la loro intensità e la loro tutela”. Non

si può, dunque, a parere della citata dottrina, pensare alla nozione di costituzione in sé come a un

qualcosa di “totalizzante”: ogni costituzione, ed in particolare la costituzione europea, deve essere

intesa come il risultato di un processo continuo di razionalizzazione del sistema di garanzia dei

diritti ed in tal senso l'opera delle Corti traduce plasticamente la parzialità che è propria di un

sistema costituzionale. Le Corti europee sono anzi consapevoli di tale parzialità e, mentre nella

“Carta di Nizza-Strasburgo [si] dichiara di non poter fare a meno dell'apporto offerto dalle tradizioni

costituzionali comuni […] allo stesso tempo, la CEDU ritaglia per se stessa un ruolo meramente sussidiario,

18 Ivi, p. 9. 19 D. GRIMM, Una Costituzione per l'Europa? (1994), in G. ZAGREBELSKY – P. P. PORTINARO – J. LUTHER (a cura di), Il futuro della Costituzione, Torino, Einaudi, 1996, p. 347.

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dichiarando di voler valere unicamente laddove si dimostri inadeguata la tutela offerta ai diritti in ambito

nazionale”20.

Il valore autenticamente costituzionale del regime europeo è, in definitiva, quello della “ricerca della

soluzione idonea a dare il più intenso, ottimale, appagamento ai diritti stessi, in ragione della peculiarità del caso”

attraverso un processo di metabolizzazione dei principi costituzionali di derivazione nazionale

che si sviluppa non in senso oppositivo, ma come una vera e propria “gara” tra organi, nazionali

ed europei, “a chi ha da offrire di più e di meglio a beneficio dei diritti”. Non bisogna dunque pensare alla

costituzione europea come ad una fonte sovraordinata, né le Corti europee devono essere

considerate come “supercorti”: quello europeo è un modello intercostituzionale in cui la tutela dei

diritti viene perfezionata simultaneamente tanto a livello europeo quanto a livello nazionale. I due

livelli non entrano dunque in conflitto, ma agiscono reciprocamente “alimentandosi e sorreggendosi a

vicenda”, definendo così un nuovo regime costituzionale (di matrice, appunto, europea) incentrato

sulla tutela giurisdizionale dei diritti21.

Una terza corrente dottrinaria declina infine il concetto di costituzione in un contesto

“postnazionale”, ponendo le basi della cosiddetta teoria del “multilevel constitutionalism”22. Qui il

conflitto tra il livello statuale e quello internazionalistico viene annichilito per fare spazio ad un

vero e proprio tertium genus: l'Unione viene considerata come una “organizzazione sui generis”,

ovvero una “Verfassungsverbund”23 , che si distanzia tanto dal modello statualistico quanto dal

modello delle organizzazioni tra Stati: “though the European Treaties are concluded in the form of

international treaties, the European Union is not an international organization in classical terms. It is not a state

either, though it shows some characteristics of state structures”24.

La dottrina del costituzionalismo multilivello sottolinea anzi come la dimensione

internazionalistica del sistema europeo venga progressivamente arginata e che l'ordinamento

euro-unitario sia il frutto di un vero e proprio processo di costituzionalizzazione: “emerge, dalla più

ampia riflessione giuspubblicistica europea una generalizzata consapevolezza rispetto all'affermazione, nell'ambito

del processo d'integrazione europea, di una tendenza costante alla emancipazione dalla dimensione

internazionalistica che ha contraddistinto l'avvio di tale esperienza d'integrazione nonché, al tempo stesso, di un

20 A. RUGGERI, L'integrazione europea, op. ult. cit., 2014, p. 12. 21 Ibidem, p. 22. 22 Cfr. I. PERNICE, Multilevel constitutionalism in the European Union, in European Law Review, 2002, pp. 511 e ss.. 23 Cfr. W. T. EIJSBOUTS, Classical and Baroque Constitutionalisms in the Face of Change, in Common Market Law Review, n. 37/2000, pp. 213-220. 24 I. PERNICE, Multilevel constitutionalism, op. cit., p. 517.

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graduale avvicinamento, scandito nel tempo dai processi di revisione dei Trattati comunitari e al contributo creativo

della Corte di Giustizia, ad una dimensione sovranazionale essenzialmente costituzionale”25.

L'analisi prospettata dai teorici del costituzionalismo multilivello marginalizza anche il riferimento

alla “tradizione del costituzionalismo democratico e liberale che esaurisce in maniera tendenzialmente esclusiva la

costituzione e il diritto costituzionale nell'ambito del modello […] dello Stato nazionale”. La teoria del

costituzionalismo multilivello muove anzi dalla crisi del modello statuale, sostenendo l'esistenza

di una autonoma dimensione costituzionale all'interno della quale si sviluppa l'ordinamento euro-

unitario, definendo così un nuovo livello disciplinante che coinvolge direttamente i popoli degli

Stati membri dell'Unione.

Si demolisce così la (generalmente incontestata) inscindibilità tra statualità e costituzionalismo,

relegando il primo di tali fattori, per quanto riguarda l'ordinamento euro-unitario, “in una

condizione di non indispensabilità”: in tal modo, trascendendo lo Stato e dunque le problematiche

connesse al rapporto tra Stati Membri ed Unione, si individua nell'ordinamento europeo “un

sistema giuridico e politico stratificato su più livelli, nel quale la compresenza di una pluralità di ordinamenti

costituzionali si declina secondo un rapporto di integrazione e complementarietà […] in grado di ricondurre la

molteplicità dei livelli costituzionali a sintesi”26.

L'elemento edificante di tale sintesi è dato dalla “radice di legittimazione democratica” che dagli Stati

nazionali si riversa in maniera composita nell'ordinamento europeo. L'analisi della dimensione

costituzionale dell'Unione si lega pertanto alla questione della sua legittimità democratica ed in tal

senso, la dottrina del costituzionalismo multilivello compie un passo in avanti rispetto alle

dottrine precedentemente considerate poiché, superata la conflittualità data dalla natura dualistica

del regime giuridico europeo, essa riconosce immediatamente all'Unione una dimensione

costituzionale propria e da questa sviluppa la propria analisi, concentrandosi sull'esigenza di

definire, nel contesto “inedito” del processo di costituzionalizzazione dell'ordinamento europeo, i

contorni della legittimità del potere pubblico europeo e i limiti posti in essere al suo esercizio. La

teoria del costituzionalismo multilivello non si limita pertanto a valutare l'esistenza di una

“Costituzione europea”, ma ne presuppone immediatamente la legittimità.

I soggetti che definiscono la base della legittimità dell'ordinamento europeo non sono più gli Stati

membri ma i cittadini europei: “the masters of the Treaties, if any, can only be the citizens, not the Member

25 P. SCARLATTI, Costituzionalismo multilivello e questione democratica nell'Europa dopo Lisbona”, in Rivista AIC, n. 1/2012, p. 1. 26 Ivi, p. 5.

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States”27. L'istituto della cittadinanza europea rende in maniera efficace la dimensione multilivello

dell'ordinamento: i cittadini europei sono allo stesso tempo cittadini dell'Unione e cittadini

nazionali ed è proprio tale duplicità a rappresentare la “radice di legittimazione comune tra Stati membri

ed Unione europea”28. Facendo un ragionamento a contrario, si può sostenere che i popoli degli Stati

membri, attraverso una volontà mediata dalle procedure previste nelle rispettive Costituzioni e

dunque mediante procedure frutto di quella stessa volontà, confluiscono nel più ampio e

composito “popolo europeo” dando vita ad una Costituzione originale: una Costituzione, per

l'appunto, europea.

Per tale motivo, nel rapporto tra Costituzioni nazionali e Costituzione europea non può esserci

alcun rapporto di prevalenza. Nell'ottica del costituzionalismo multilivello, anzi, “the relationship

between European and national law is not hierarchical but a functional one. Member States must be democratic

and respect the rule of law as well as the fundamental rights, because this is the basis of the political system at the

EU level, and the condition for the proper use by citizens of their rights in each Member State. Since the origin of

the European public authority are the citizens of the Union as much as these citizens are the subjects and source of

legitimacy of their respective national constitutions, there is no a priori supremacy either of European law or of the

national constitutions”29.

Dal punto di vista strutturale, il carattere multilivello della Costituzione europea è dato dalla

completa integrazione dei sistemi costituzionali nazionali e finanche delle autonomie regionali e

locali: il Trattato di Lisbona rappresenta in tal senso un punto di svolta nella definizione del

sistema dei poteri dell'Unione poiché dà “maggiore certezza alla questione […] attinente alla divisione de

poteri tra i diversi piani di governo di cui il sistema costituzionale europeo si compone”. Con il Trattato di

Lisbona si stabilisce un equilibrio tra il principio di attribuzione, “oggetto di una sistematica e coerente

delimitazione” e lo spazio di intervento degli Stati membri, assegnando ai Parlamenti nazionali “un

fondamentale compito di vigilanza” sulla corretta applicazione del principio di sussidiarietà e del

principio di proporzionalità30.

La teoria del costituzionalismo multilivello troverebbe tuttavia un limite nella propria

autoreferenzialità: presupponendo l'esistenza di un fondamento di legittimazione democratica

dell'ordinamento euro-unitario, essa trascura la questione della sua sostanzialità. La legittimità

democratica dell'ordinamento deve insomma essere definita anche, se non soprattutto, sulla base

27 I. PERNICE, Multilevel constitutionalism, op. ult. cit., p. 519. Cfr. P. HÄBERLE, La cittadinanza come tema di una dottrina europea della Costituzione, in Rivista di Diritto Costituzionale, vol. 2, 1997, p. 20. 28 P. SCARLATTI, Costituzionalismo multilivello, op. ult. cit., p. 8. 29 I. PERNICE, Multilevel constitutionalism, op. ult. cit., p. 520. 30 P. SCARLATTI, Costituzionalismo multilivello, op. ult. cit., p. 12.

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degli “strumenti appropriati di manifestazione della volontà e del consenso popolare, [dei] metodi di

partecipazione idonei a garantire un intervento consapevole ed efficace da parte dei cittadini,[delle] sedi di raccordo

e di rappresentanza politica in grado di recepire le istanze che emergono da un'opinione pubblica libera ed

informata” 31 e ciò non solo al fine di dare una risposta alla perdurante crisi dei criteri di

legittimazione che investe ormai da decenni gli ordinamenti nazionali32, ma anche per definire più

a fondo quelle che sono le dinamiche sulle quali si fonda la democrazia dell'Unione e dunque

l'aspetto fondamentale della sua dimensione costituzionale.

2. La democrazia dei partiti e la democrazia coi partiti: disciplina dei partiti politici a

livello nazionale ed europeo

Il Trattato sull'Unione Europea (TUE) dedica ai principi democratici dell'Unione il Titolo II (artt.

9 – 12), intitolato “Disposizioni relative ai principi democratici”. L'articolo 10 TUE dispone anzitutto

che il funzionamento dell'Unione europea è fondato sulla democrazia rappresentativa (par. 1). L'art.

10 TUE prevede inoltre che “ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica

dell'Unione” e che “le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai

cittadini” (par. 3) e stabilisce, infine, che “i partiti politici a livello europeo contribuiscono a

formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell'Unione” (par.

4). Nel successivo articolo 11, il principio democratico viene a configurarsi nella sua accezione

“partecipativa”, disponendo tale articolo, in primo luogo, che “le istituzioni danno ai cittadini e

alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di

scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell'Unione” (par. 1); inoltre,

“le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni

rappresentative e la società civile” (par. 2); infine, “al fine di assicurare la coerenza e la

trasparenza delle azioni dell'Unione, la Commissione europea procede ad ampie consultazione

delle parti interessate” (par. 3). In secondo luogo, l'articolo 11 TUE introduce un vero e proprio

istituto di democrazia diretta, prevedendo la possibilità, per i cittadini europei – in numero di

almeno un milione – di prendere un'iniziativa volta ad “invitare la Commissione europea,

nell'ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle

quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell'Unione ai fini dell'attuazione dei

trattati” (par. 4).

31 Ivi, p. 15. 32 Vedi C. PINELLI, Cittadini, responsabilità politica, mercati globali, in Rivista di Diritto Costituzionale, vol. 2, 1997, pp. 43-90.

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Nel secondo e nel terzo caso (art. 11 par. 1, 2, 3 e art. 11 par. 4) ci si trova dinanzi a strumenti di

partecipazione democratica strutturalmente “limitati”, sia per la particolarità dei soggetti coinvolti

(la “società civile” e le “associazioni rappresentative”), sia per la discrezionalità riservata alle

istituzioni europee per l'attivazione degli stessi (ed in particolare per il ruolo svolto dalla

Commissione nella definizione di alcune condizioni per l'attivazione del diritto di iniziativa dei

cittadini europei).

I primi tre paragrafi dell'articolo 11 del TUE possono essere infatti considerati come il residuato

di una fase del processo di integrazione nella quale la dimensione economicistica era ancora del

tutto prevalente ed in cui i soggetti della cosiddetta “società civile” coincidevano essenzialmente

con altrettanti attori economici portatori di interessi particolari – e non con l'insieme della

cittadinanza europea: “la Commissione [identificava] la cosiddetta 'società civile' in una serie di differenti

attori, che [assumevano] forme giuridiche variabili e un disparato grado di autonomia dal potere politico,

accomunati dal fatto di essere esterni rispetto alle istituzioni dello Stato. Tuttavia l’esecutivo europeo si

[discostava] nettamente da quella posizione che [affermava] come la società civile non [fosse] il 'mercato', né

[cercasse] di realizzare i profitti. La distinzione fra il 'mercato' e la 'società civile' [era], nella realtà, lontana

dall’essere assoluta; ma nell’ottica della Commissione, tale distinzione [perdeva] ogni significato, visto che la

'società civile' europea [era] sostanzialmente composta da gruppi di pressione e [conchiudeva] in sé la

rappresentanza d’interessi per antonomasia economici: [trovavano] scarso rilievo [invece] i cittadini (nel senso

tradizionale del termine)”33.

Tale concezione “elitista” della società civile europea era stata rimarcata da un'attenta dottrina34 la

quale aveva sottolineato, a tal proposito, la limitatezza dei processi di democratizzazione allora in

atto, nonché l'assenza del carattere di efficacia, sul piano giuridico, dei documenti preposti

all'attivazione di canali di partecipazione dei cittadini europei ai processi istituzionali dell'Unione.

Altri avevano segnalato poi la “tendenza involutiva di stampo tecnico-burocratico” in cui versava la

democrazia partecipativa dell'Unione, sostenendo pertanto che si fosse ben lontani da una “reale

partecipazione democratica”35.

Nel periodo pre-Lisbona, come evidenziato anche da taluna dottrina politologica 36 , si era

sostenuto inoltre che l'incertezza istituzionale che caratterizzava (e che caratterizza tuttora37) il

33 D. FERRI, L'Unione europea sulla strada della democrazia partecipativa?, in Istituzioni del Federalismo, n. 2/2011, p. 307. 34 Vedi P. MAGNETTE, Can the European Union be politicized?, in Jean Monnet Working Papers, n. 6, 2001. 35 E. DE MARCO, Percorsi del Nuovo costituzionalismo, Milano, Giuffré, 2008, p. 79. 36 P. NORRIS, Representation and the democratic deficit, in European Journal of Political Research, n. 32/1997, p. 274.

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sistema europeo, da un lato, e la mancanza di un assetto politico polarizzato (e dunque l'assenza

di soggetti partitici in reale competizione tra loro38), dall'altro, avessero determinato un profondo

gap tra la società civile (e, in maniera più generale, tra i cittadini europei) e le istituzioni europee e

ciò portava, conseguentemente, ad un deficit democratico che investiva parimenti anche il campo

della democrazia rappresentativa. In tal senso, si concludeva che la mera previsione dell'elezione

diretta del Parlamento europeo fosse insufficiente a colmare la distanza esistente tra cittadini ed

istituzioni europee.

Con l'adozione del Trattato di Lisbona, si è compiuto un passo importante non solo dal punto di

vista istituzionale, ma anche sul piano democratico, attraverso l'introduzione di una serie di

innovazioni che hanno modificato in profondità l'assetto dell'ordinamento euro-unitario e

mediante le quali si è cercato di colmare “il deficit democratico che ha accompagnato fin dalle origini il

processo di integrazione e che è parso aggravarsi con il progressivo allargamento delle competenze dell'Unione

europea”39.

Il principio democratico è stato accolto nei Trattati nelle sue diverse configurazioni: da un lato,

come visto, con l'articolo 10 del TUE, si è stabilito che il funzionamento dell'Unione deve

fondarsi sulla “democrazia rappresentativa”. Dall'altro, l'articolo 11 del TUE disciplina invece i

contorni della cosiddetta “democrazia partecipativa” ed introduce altresì un diritto di iniziativa dei

cittadini europei che definisce invece un meccanismo di “democrazia diretta”.

È tuttavia all'articolo 10 del TUE che si deve fare riferimento per delineare i contorni

“costituzionali” della democrazia europea, poiché è attraverso quest'ultimo che si vengono a

definire propriamente le basi della legittimità (democratica) dell'ordinamento euro-unitario,

rientrando invece i meccanismi della democrazia partecipativa e quelli della democrazia diretta in

una dimensione “procedurale” interna del sistema. L'articolo 10 TUE individua, in primo luogo,

nell'insieme dei cittadini europei, la “comunità politica” sulla quale si fonda il funzionamento

dell'Unione europea; in secondo luogo, i partiti politici di livello europeo contribuiscono alla

formazione di una coscienza politica dei cittadini europei e operano quali corpi intermedi tra la

comunità politica europea e le istituzioni dell'Unione, definendo così in modo sostanziale il

criterio della “rappresentanza”.

37 Cfr. F. GIGLIONI, Nuove attese per la composizione della Commissione. Ma sono davvero giustificate?, in federalismi.it, n. 11/2014. 38 Vedi P. MAGNETTE, Can the European, op. cit.. 39 Vedi U. DRAETTA, I principi democratici dell'Unione europea nel Trattato di Lisbona, in The Federalist – Il Federalista, n. 2/2008.

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Le disposizioni inserite nell'articolo 10 TUE segnano pertanto un significativo avanzamento nel

processo di costituzionalizzazione dell'ordinamento europeo, poiché danno seguito “ai pressanti

inviti inclusi nella dichiarazione di Laeken [...] la quale […] faceva riferimento ben dodici volte alla necessità di

'legittimità democratica', 'controllo democratico', 'valori democratici' e simili” 40 . La continuità con le

intenzioni espresse nella Dichiarazione di Laeken risponde così all'esigenza di proseguire il

percorso di “costituzionalizzazione” del sistema euro-unitario e segna, al contrario, una rottura

con “quella tendenza alla de-enfatizzazione costituzionale che ha rappresentato [invece] il presupposto del

percorso di elaborazione che ha portato al Trattato di Lisbona”41.

Il riconoscimento, a livello dei Trattati, dei partiti politici di livello europeo sembra anzi ricalcare

quella fase di “incorporazione” giuridica42 dei partiti politici che aveva determinato invece, a livello

nazionale, nella prima metà del XX Secolo, “il consolidamento dello Stato costituzionale rappresentativo”43:

esiste dunque, tanto a livello statuale quanto a livello europeo, una stretta correlazione tra

“processo di costituzionalizzazione” e “processo di democratizzazione” che si manifesta con un

progressivo riconoscimento, sul piano giuridico, dei partiti politici, intesi quali mediatori

privilegiati del rapporto cittadini-istituzioni e dunque come elementi strutturanti della

legittimazione democratica dell'autorità.

Al pari di quanto avvenuto a livello nazionale, anche in campo europeo si è assistito dapprima ad

una fase di indifferenza (Ignorierung) se non proprio di ostilità rispetto ai partiti politici di livello

europeo, almeno nel senso in cui l'elezione del Parlamento europeo è stata impostata su base

nazionale, ovvero nel senso in cui i partiti politici europei sono stati relegati al rango di meri

raggruppamenti di partiti politici nazionali, risultando pertanto del tutto inconsistenti sul piano

elettorale. Solo con il Trattato di Maastricht (art. 138A TCE) i partiti politici di livello europeo

hanno ottenuto un riconoscimento sul piano giuridico (Anerkennung und Legalisierung) mentre con

il paragrafo 4 dell'art. 10 del TUE, questi ultimi sono stati incorporati all'interno dello schema

della rappresentanza democratica dell'Unione, contribuendo così alla definizione della base della

funzionalità dell'ordinamento euro-unitario (e dunque della sua legittimità).

Tuttavia, il modello europeo di incorporazione dei partiti politici riprende, com'è ovvio, solo una

parte degli elementi rintracciabili nei sistemi di disciplina dei partiti politici adottati dagli Stati

membri dell'UE, potendosi anzi rilevare nel panorama continentale una molteplicità di modelli,

40 Ivi. 41 P. SCARLATTI, Democrazia e istituzioni nell'Unione Europea: il Trattato di Lisbona, in Rivista AIC, n. 1/2011, p. 7. 42 Cfr. H. VON TRIEPEL, Die Staatsverfassung und die politischen Parteien, Berlin, Liebmann, 1930. 43 P. RIDOLA, Partiti Politici, in Enciclopedia del Diritto, XXXII, Milano, Giuffré, p. 66.

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ciascuno dei quali caratterizzato da disposizioni strettamente legate al contesto storico e sociale di

riferimento – disposizioni che, proprio per la loro peculiarità, non possono essere considerate

come elementi di un patrimonio “comune” di valori direttamente trasferibile sul piano europeo.

Se si guarda ad esempio al modello della Repubblica Federale di Germania, l'art. 21 del

Grundgesetz definisce un sistema di disciplina dei partiti politici che non trova eguali nel contesto

europeo 44 . L'art. 21 del GG, dispone, infatti, “al primo comma, […], che i partiti concorrono alla

formazione della volontà politica del popolo, che la loro formazione è libera, che la loro organizzazione interna deve

essere democratica. Il secondo comma vieta i raggruppamenti contrari ai principi liberaldemocratici, affida al

Tribunale Costituzionale Federale la competenza per il loro scioglimento e sancisce che la legge deve prevedere le

forme di controllo sulle fonti di finanziamento”45.

L'obiettivo principale del costituente tedesco è stato quello di creare forme di autodifesa del

sistema costituzionale “tali da impedire il ripetersi della esperienza della Repubblica di Weimar che, com'è

noto, non era stata in grado di opporsi all'avvento di un regime totalitario”. Nella Costituzione di Weimar,

infatti, il ruolo dei partiti politici si era venuto consolidando in maniera indiretta, attraverso

l'adozione di un sistema parlamentare, la previsione del suffragio universale e la

costituzionalizzazione del sistema elettorale di tipo proporzionale. Mancavano però, a livello

costituzionale, strumenti in grado di marginalizzare i partiti antisistema: la debolezza del modello

istituzionale tedesco aveva portato alla frammentazione del panorama dei partiti e al loro

progressivo indebolimento, permettendo così alle forze estremiste di rovesciare l'ordine

democratico. Nel corso dei lavori preparatori alla stesura della Legge Fondamentale di Bonn, la

dottrina tedesca aveva sottolineato che il ruolo dei partiti si rivelava “decisivo per la vita dello

Stato”: “i meccanismi costituzionali a difesa della stabilità governativa (primo fra tutti il voto di sfiducia

costruttivo) non apparivano idonei, da soli, ad assicurare una sufficiente forza al regime democratico-

parlamentare” 46 . Si ritenne pertanto necessario “abbandonare la posizione di completa neutralità nei

confronti dei partiti che aveva caratterizzato l'ordinamento costituzionale weimariano” 47 e definire così, a

livello costituzionale, una disciplina dei partiti che stabilisse per essi anche dei limiti relativi alla

loro organizzazione interna.

L'articolo 21 del Grundgesetz disciplina i contorni di diversi aspetti concernenti la vita interna dei

partiti politici tra cui, come visto, quello del loro finanziamento, anche se l'elemento

44 G. LEIBHOLZ, Volk und Parteien im neuen deutschen Verfassungsrecht, in DVBl, 1950, p. 196. 45 S. MANZIN MAESTRELLI, Il partito politico nella giurisprudenza del Tribunale Costituzionale Federale tedesco, Milano, Giuffré, 1991, p. 3. 46 Ivi, p. 27. 47 P. RIDOLA, Partiti Politici, op. cit., p. 74.

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maggiormente caratterizzante del sistema adottato dal costituente tedesco si rinviene nel comma

secondo dell'articolo succitato, laddove viene stabilito che il Bundesverfassungsgericht può decretare

l'incostituzionalità (e sancire conseguentemente lo scioglimento) di un partito politico, qualora

ritenga che “le finalità o il comportamento degli aderenti si prefiggono di attentare

all'ordinamento costituzionale democratico e liberale, o di sovvertirlo, o di mettere in pericolo

l'esistenza della Repubblica Federale di Germania”.

Nell'ordinamento spagnolo, invece, i partiti politici trovano menzione nel “Titulo preliminar” della

Costituzione del 1978, all'art. 6, a testimonianza della “intención del constituyente de consagrar un modelo

de sistema democrático cuyo funcionamiento descansa, esencialmente, en la actividad que desarrollan los partidos, a

los que la misma Constitución va a encomendar unas funciones de importancia decisiva para tal fin: concurrir a la

formación y manifestación de la voluntad popular, ser instrumentos fundamentales de participación política y

expresar el pluralismo político”48.

L'articolo 6 della Costituzione del 1978 dispone che “[i] partiti politici esprimono il pluralismo

politico, concorrono alla formazione e alla manifestazione della volontà popolare e sono

strumento fondamentale di partecipazione politica. La loro creazione e l'esercizio della loro

attività sono liberi sulla base del rispetto della Costituzione e della legge. La loro struttura interna

e il loro funzionamento dovranno essere democratici”. In tale articolo non si prevede, al

contrario di quanto stabilito invece in Germania nell'art. 21.2 del GG, un controllo di

costituzionalità sull'organizzazione interna, sulle azioni o sulle finalità dei partiti politici, sebbene

venga precisato, nell'ultimo paragrafo, che la strutturazione interna e il funzionamento dei partiti

politici debbano essere conformi ai principi democratici. Il rispetto dei principi di democrazia è

considerato da taluna dottrina come una sorta di “contropartita” al fatto che i partiti politici

detengono, a dispetto di altre tipologie di associazioni, alcuni privilegi particolari – come ad

esempio la corresponsione di finanziamenti pubblici per le loro attività – ed esercitano funzioni

“costituzionalmente rilevanti” – come la selezione e la designazione di candidati per le cariche

pubbliche49.

Il Tribunal Constitucional ha spesso fatto riferimento alle altre forme associative per poter definire,

a contrario, i contorni della natura giuridica dei partiti politici e al fine di soppesare la portata del

cosiddetto “diritto alla creazione dei partiti politici”: dalla giurisprudenza dell'Alta Corte spagnola

relativa alla disciplina dei partiti politici ed in particolare dalle decisioni adottate in merito alle

48 J. I. NAVARRO MÉNDEZ, Partidos políticos y tribunal constitucional, in Anales de la Facultad de Derecho, Universidad de La Laguna, n. 17/2000, p. 160. 49 Ivi, p. 163.

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controversie sorte in riferimento alle disposizioni concernenti l'iscrizione dei partiti politici al

cosiddetto al “Registro dei Partiti”, si evince una sostanziale contrapposizione tra “diritto alla

creazione di partiti politici” e “obbligo di iscrizione al Registro”, condizione, quest'ultima, che

sembrerebbe limitare lo stesso diritto di creazione dei partiti, in virtù della prevista possibilità di

rigetto della domanda di iscrizione (e dunque di non riconoscimento, sul piano giuridico, di un

determinato partito politico). Il Tribunale Costituzionale spagnolo tende a far prevalere il diritto

di creazione dei partiti politici ma non ricorre ad una pronuncia di incostituzionalità sull'obbligo

di registrazione (la dottrina citata mette in rilievo infatti che l'obbligo di registrazione risponde

piuttosto all'esigenza di pubblicità che è connaturata ad ogni tipo di associazione). Il favore del

Tribunale nei confronti del diritto alla creazione dei partiti politici deriverebbe essenzialmente

dalla necessità, propria di ogni ordinamento democratico, di salvaguardare il principio del

pluralismo politico. Deve pertanto essere escluso, secondo il Tribunale, ogni “intento injustificado de

paralizar el libre flujo de cualquier género de alternativas partidistas”50.

Nell'ordinamento spagnolo sembra pertanto prevalere, a dispetto del sistema tedesco, il principio

del pluralismo politico rispetto al bisogno di stabilire limiti allo stesso in funzione difensiva,

ovvero rispetto alla necessità di stabilire delle contromisure atte alla tutela sistematica delle

istituzioni democratiche. In linea di principio, per il costituente spagnolo e, in via

giurisprudenziale, a parere del Tribunal Constitucional, la formazione dei partiti politici non deve

incontrare limiti, per quanto le finalità espresse possano risultare, in alcuni casi, “estreme”51.

Ciò non vuol dire che nell'ordinamento spagnolo sia esclusa l'ipotesi di scioglimento dei partiti

politici per motivi legati alle loro finalità o alle azioni che questi pongono in essere: la stessa Ley

54/1978 relativa ai Partiti politici, prevedeva, all'art. 5, la possibilità di scioglimento “ove ai partiti

fosse stata imputata una delle figure delittuose previste dal codice penale, ovvero nel caso in cui le loro azioni fossero

apparse in contrasto coi principi democratici”. Più recentemente, la Ley 6/2002 ha ribadito invece che “le

formazioni partitiche esercitano liberamente la loro attività, nel rispetto dei valori costituzionali, sviluppando la

funzione costituzionalmente ad essi attribuita, con il solo limite dell'osservanza della dialettica democratica”, ma

ha anche stabilito una differenziazione tra quei “movimenti partitici che difendono e promuovono i loro

programmi e le loro ideologie – qualsiasi esse siano, inclusi quelli che pretendono di modificare la cornice

istituzionale – con il pieno rispetto dei principi e dei metodi democratici, da quelli che fondano la loro azione

50 Ivi., p. 168. 51 Ivi, p. 167.

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politica nella connivenza con la violenza, il terrore, la discriminazione, l'esclusione e la violazione dei diritti e delle

libertà”52.

La Ley 6/2002 si limita pertanto ad elencare minuziosamente le cause per le quali possa essere

emessa una declaratoria di “illegittimità” di un partito politico, ponendo particolare enfasi ai

partiti che legano la propria azione o appoggino espressamente o tacitamente il “terrorismo”,

anche se è richiesta, tuttavia, la condizione della reiterazione del compimento delle azioni delittuose

o più in generale delle fattispecie indicate dall'art. 9 della Ley 6/2002 per potersi procedere con la

messa al bando di un partito politico. In tal senso, il legislatore spagnolo non ha posto in essere

“un modello di controllo sulle organizzazioni partitiche fondato esclusivamente sulla conformità (o contrarietà) di

programmi politici, di opinioni o ideologie alla Costituzione” al pari di quanto stabilito, invece, dal

costituente tedesco. Rispetto al modello tedesco – in cui l'estromissione dal panorama partitico di

determinate formazioni politiche si è fondata sulla assunta incompatibilità tra le finalità perseguite da

queste ultime e i principi liberaldemocratici – in Spagna, la declaratoria di illegittimità di un

partito politico è espressamente condizionata per legge “all'esistenza di prove certe e concordanti circa

l'effettivo collegamento tra partito politico e gruppi terroristici” e “la legge esige una reiterazione di azioni che in

maniera inequivocabile dimostri il nesso di strumentalità tra l'attività del partito e le strategie di violenza di

organizzazioni terroristiche che mirano alla distruzione della democrazia”53.

In Italia, infine, la disciplina sui partiti politici è stata a lungo confinata alle disposizioni di

principio stabilite dall'articolo 49 della Costituzione del 1948 con il quale si prevede che i cittadini

possono associarsi liberamente in partiti politici per concorrere con “metodo democratico” alla

determinazione della politica nazionale: “i Costituenti italiani [vollero] evitare che i partiti operassero in

una condizione di completa indifferenza della costituzione formale, ma ad un tempo se ne volle circoscrivere la

Legalisierung in un àmbito che garantisse la maggiore espansione della libertà di associazione in partiti.

L'insistenza sulla estraneità dei partiti alla organizzazione dello Stato-apparato si poneva pertanto in stretta

correlazione con la garanzia della maggiore misura di libertà e di confronto, e con l'esigenza di consentire alla

pluralità dei partiti di rispecchiare nel modo più fedele lo spettro delle aggregazioni politiche esistenti nella

società”54.

L'articolo 49 della Costituzione italiana offre pertanto una generica formulazione, limitandosi

peraltro a determinare solo le relazioni tra partiti nell'ambito della definizione della politica

52 I. NICOTRA, La nuova legge organica sui partiti politici in Spagna al primo banco di prova: il procedimento di illegalizzazione del Batasuna, in Forum di Quaderni Costituzionali, 4 Ottobre 2002, p. 1. 53 Ivi, p. 3. 54 P. RIDOLA, Partiti Politici, op. ult. cit., p. 74.

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nazionale piuttosto che stabilire un criterio generale di rispetto dei principi democratici che

coinvolga la dimensione interna dei partiti: la locuzione “metodo democratico” sembra riferirsi

infatti al concorso per la determinazione della politica nazionale e non alla organizzazione interna

dei partiti politici.

Solo con la l. n.13 del 2014 si è stabilita, finalmente, una disciplina sul finanziamento dei partiti

politici che va ad incidere direttamente anche sulla loro organizzazione interna. La normativa in

questione si è basata essenzialmente su un provvedimento governativo con il quale si era mirato,

in primo luogo, “alla graduale estinzione dei rimborsi elettorali previsti dalla normativa previgente, e la

sostituzione con un sistema misto, di contribuzione privata volontaria e pubblica indiretta in favore dei partiti”55.

Le modalità di accesso ai finanziamenti pubblici si collegano all'organizzazione e alla

strutturazione interna dei partiti politici poiché l'erogazione dei fondi viene subordinata al rispetto

di determinate regole di democrazia interna e di trasparenza (regole con le quali, secondo alcuna

dottrina56 si darebbe attuazione per la prima volta all'art. 49 della Costituzione anche se, come

visto, il “metodo democratico”, si riferisce piuttosto al concorso per la determinazione della

politica nazionale e non ad una dimensione “intestina” dei partiti politici57.

L'art. 3 del d. l. 149/2013 poi convertito in l. 21 Febbraio 2014, n. 13, prevede infatti che i partiti

politici che intendano avvalersi dei benefici previsti, “sono tenuti a dotarsi di uno statuto, redatto

nella forma dell'atto pubblico”. Ciascuno Statuto viene poi trasmesso alla Commissione di garanzia

degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici, la quale, al fine di procedere

all'iscrizione del partito nel registro nazionale, deve verificare la presenza, nello Statuto, degli

elementi indicati all'articolo 3 del d. l., in particolare: “il numero, la composizione e le attribuzioni

degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo”, “la cadenza delle assemblee congressuali”, “i

diritti e i doveri degli iscritti”, i “criteri che assicurano la presenza delle minoranze” e “le azioni

per promuovere la parità di genere”. L'iscrizione al registro nazionale è condizione necessaria per

i partiti politici per l'ammissione ai benefici economici previsti dalle legge. La legge rimette poi al

giudice amministrativo la tutela in giudizio nelle controversie relative al diniego di iscrizione del

partito nel registro nazionale e le controversie relative al diniego di iscrizione di successive

modifiche statutarie. Una parte della dottrina ha sottolineato in tal senso come ci si trovi di fronte

ad un unicum non assimilabile né “ai casi di giurisdizione del giudice amministrativo su iscrizioni in registri o

55 G. SAVOIA, Democrazia interna ai partiti in Italia e nell'Unione europea: discipline a confronto, in federalismi.it, n.6/2014, p. 2. 56 Vedi R. DE NICTOLIS, La giurisdizione esclusiva sul finanziamento dei partiti politici: un nuovo guazzabuglio normativo, in federalismi.it, n. 6/2014. 57 P. RIDOLA, Partiti Politici, op. ult. cit., pp. 74 e ss..

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albi professionali (di regola tale contenzioso è attribuito al giudice ordinario), [né] alla limitata giurisdizione

esclusiva del giudice amministrativo in materia di atti di altre associazioni private quali sono le associazioni

sportive”. L'unicità deriverebbe dal terreno “vergine” in cui si muove il legislatore: “gli scenari inerenti

l'attribuzione della giurisdizione avrebbero potuto essere molteplici: il giudice ordinario, vertendosi palesemente in

materia di diritti soggettivi, la Corte dei Conti, che esercita altre forme di controllo sui partiti politici (segnatamente

il controllo sui rendiconti dei gruppi dei consigli regionali), le stesse Camere, o addirittura la Corte

Costituzionale”58.

Bisogna tuttavia segnalare che l'iscrizione al registro nazionale non determina alcun

riconoscimento soggettivo ai partiti politici, rimanendo questi ultimi “libere associazioni non

riconosciute” ai sensi degli art. 36 e ss. del codice civile, e che lo scopo della registrazione è quello

piuttosto di determinare l'accesso o il diniego ai benefici stabiliti dalla legge n. 13/2014.

Il modello italiano di disciplina dei partiti politici sembra avvicinarsi molto a quello adottato in

sede europea con il Regolamento n. 2004/2003, modificato successivamente nel 2007 e più

recentemente nel 2014. Anche il Regolamento europeo sui partiti politici si concentra “sugli aspetti

legati al finanziamento dei partiti politici europei: per garantire un'equilibrata e democratica partecipazione dei

partiti politici alla vita istituzionale dell'Unione europea, infatti, non sono sufficienti soltanto norme sul

riconoscimento e il controllo dei tali soggetti, ma è necessario tenere conto anche dei costi effettivi di tale

coinvolgimento, introducendo disposizioni che affrontino e risolvano le delicate questioni riguardanti il

finanziamento dei partiti politici a livello europeo, nella convinzione che l'uguaglianza fra i vari soggetti politici

rappresentativi della società civile possa essere ottenuta solo tramite sussidi pubblici concessi con modalità

trasparenti”59.

Esiste pertanto anche in sede europea una stretta correlazione tra il riconoscimento dei partiti

politici sul piano giuridico e la disciplina relativa al loro finanziamento, tale che le modalità di

erogazione dei fondi pubblici e delle altre agevolazioni previste dal Regolamento vengano

ricollegate direttamente ai criteri di strutturazione e di organizzazione interna degli stessi partiti

politici europei. La “soggettività” dei partiti politici europei e, pertanto, il loro ruolo all'interno

dell'ordinamento euro-unitario è così strettamente correlata alla disciplina sul finanziamento,

tanto che la dottrina citata ha messo in evidenza come siano state proprio le norme relative al

finanziamento ad aver favorito il “consolidamento” dei partiti politici europei tanto sul piano

politico quanto sul piano giuridico – e, non a caso, la maggior parte dei partiti politici europei ad

58 R. DE NICTOLIS, La giurisdizione esclusiva, op. cit., p. 5. 59 M. R. ALLEGRI, Il finanziamento pubblico e privato ai partiti politici europei: il regime attuale e le modifiche proposte in vista delle elezioni europee del 2014, in Osservatorio Costituzionale, n. 1/2013, p. 4.

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oggi riconosciuti ha trovato la propria origine solo successivamente all'adozione del

Regolamento. Il Regolamento ha posto in essere una progressiva differenziazione tra gruppi

parlamentari e partiti politici europei60 e tra questi ultimi e i partiti politici nazionali, sebbene solo

con le modifiche introdotte nel 2014 si è giunti alla definizione di un vero e proprio “statuto

organico dei partiti europei” (la stessa definizione di “partito politico europeo” è stata introdotta con

gli emendamenti adottati nel 2014, mentre in precedenza il Regolamento faceva riferimento ai

“partiti politici di livello europeo”).

Ciò che rileva è soprattutto il fatto che il processo di consolidamento dei partiti politici europei è

avvenuto in una fase successiva alla definizione della base “costituzionale” dell'ordinamento e che

pertanto, vi è uno sfasamento temporale tra momento costituente e processo di incorporazione

dei partiti politici che mette in evidenza come vi sia, in realtà, una profonda differenza tra il

modello euro-unitario e l'esperienza costituzionale italiana. In Italia, infatti, i partiti politici hanno

assunto il “ruolo non esclusivo ma concorrente” di modellatori del sistema costituzionale61. Riprendendo

la distinzione semantica avanzata dalla ultima dottrina citata, laddove si mette in evidenza come

nell'ordinamento italiano si sia sviluppata una “democrazia coi partiti” piuttosto che una

“democrazia dei partiti”, è possibile definire allo stesso modo, quella europea, una democrazia

“coi” partiti, nel senso in cui i partiti politici europei vengono riconosciuti dall'ordinamento euro-

unitario solo in un momento successivo al momento fondativo dell'ordinamento stesso: non

sono i partiti politici europei a determinare, con la loro azione, le fondamenta della legittimità su

cui si basa l'ordinamento in cui agiscono.

Al di là del differente ruolo assunto dai partiti politici sul piano della legittimazione

dell'ordinamento, l'elemento discretivo sostanziale tra l'esperienza costituzionale italiana ed il

modello europeo si rinverrebbe nella maggiore restrittività delle condizioni poste in essere

nell'ordinamento dell'Unione nell'àmbito del diritto alla “creazione” dei partiti politici: laddove

nel caso europeo il Regolamento definisce minuziosamente la stessa nozione di “partito” e quella

di “partito politico europeo” e le condizioni di acquisizione della personalità giuridica per i partiti

politici europei, in Italia, la libertà di associazione politica troverebbe i suoi limiti non nell'articolo

49 (dove non vengono posti in essere limiti relativi all'organizzazione interna) né nella legge

13/2014, ma nell'articolo 18 della Costituzione, in cui si stabilisce il divieto di formazione di

60 Ivi, p. 8. 61 A. BARBERA, La democrazia dei e nei partiti, tra rappresentanza e governabilità, in Forum di Quaderni Costituzionali, 24 Luglio 2008.

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associazioni segrete o di associazioni che perseguano scopi politici tramite organizzazioni di

carattere militare.

3. Il sistema partitico europeo e la giurisprudenza europea in tema di gruppi assembleari

in seno al Parlamento europeo

Come visto, il Regolamento sugli statuti e sul finanziamento dei partiti politici europei definisce le

modalità di strutturazione di questi ultimi: “potranno registrarsi come partiti politici europei quelle alleanze

politiche – cioè cooperazioni strutturate fra partiti politici e/o fra cittadini – che non perseguono fini di lucro, che

hanno sede in uno degli Stati membri, che osservano nel programma e nell'azione i valori su cui l'Unione europea

si fonda (cioè la dignità umana, la libertà, la democrazia l'uguaglianza, lo stato di diritto e il rispetto per i diritti

umani, inclusi quelli delle minoranze), che hanno partecipato alle elezioni europee o che semplicemente hanno

espresso pubblicamente l'intenzione di parteciparvi, che sono rappresentati nel Parlamento europeo o nelle assemblee

parlamentari nazionali o regionali in almeno un quarto degli Stati membri […] oppure che hanno ricevuto in

almeno un quarto degli Stati membri, almeno il tre per cento dei voti espressi in ognuno di tali Stati membri in

occasione delle ultime elezioni del Parlamento europeo”62.

La condizione per cui un partito politico europeo debba partecipare alle elezioni europee o avere

almeno un eletto al Parlamento europeo per essere considerato come tale, non è esclusiva, ma si

rivela tuttavia fondamentale per l'ottenimento dei finanziamenti pubblici, dato che l'art. 17.1 del

Regolamento dispone che i contributi provenienti dall'Unione europea sono versati solo ai partiti

che ottengono almeno un rappresentante nel Parlamento europeo, mentre l'articolo 19 dispone

che l'85% dei finanziamenti viene distribuito fra i partiti riconosciuti, proporzionalmente al

numero dei rispettivi rappresentanti del Parlamento europeo.

La permanenza nel Registro dei partiti europei viene subordinata al rispetto dei valori su cui si

fonda l'Unione, ai sensi dell'art. 3 del Regolamento medesimo, anche se non esiste, al pari

dell'ordinamento italiano, un complesso normativo che preveda che gli statuti dei partiti politici

debbano essere improntati ai principi di democrazia interna: come per il sistema europeo, infatti,

“anche per quanto riguarda i partiti politici italiani, il richiamo alla democraticità presente nel titolo della legge

[13/2014, deve] intendersi come riferito alle finalità che il partito si pone e non alla sua organizzazione

interna”63.

62 M. R. ALLEGRI, Il nuovo regolamento sullo statuto e sul finanziamento dei partiti politici europei: una conclusione a effetto ritardato, in Osservatorio Costituzionale, n. 1/2014, p. 3. 63 Ivi, p. 5.

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Come visto, ai partiti politici europei viene riconosciuto uno status giuridico soggettivo che ha la

duplice funzione di stabilire una tutela degli interessi dello Stato membro in cui il partito ha sede

oltre che la tutela degli interessi del partito stesso, da un lato, e di individuare, dall'altro, i caratteri

discretivi necessari per distinguere, sul piano giuridico, i partiti politici europei dai gruppi

parlamentari e dalle cosiddette fondazioni europee. La distinzione tra partiti politici europei e

gruppi parlamentari si muove in funzione di una maggiore emancipazione dei primi nei confronti

dei partiti politici nazionali: sono questi ultimi infatti ad aver determinato, finora, la composizione

dei gruppi assembleari del Parlamento europeo (spesso alcuni gruppi parlamentari europei sono

stati formati da singole formazioni nazionali – è stato il caso, ad esempio, di Forza Europa o,

meno recentemente, del gruppo gollista in seno all'Assemblea della Ceca64).

La strutturazione del sistema politico europeo ha fortemente risentito dell'evoluzione dei gruppi

assembleari e la separazione sul piano giuridico tra questi ultimi e i partiti politici europei ha

contribuito al consolidamento del sistema partitico europeo e, dunque, alla creazione di un

impianto di democrazia rappresentativa autenticamente europea, in cui si tende ad escludere i

partiti politici nazionali dal processo di mediazione nel rapporto tra la cittadinanza europea e le

istituzioni dell'Unione. Tuttavia, bisogna mettere in evidenza come sia stato proprio il modo di

formazione dei gruppi assembleari ad aver determinato lo sviluppo dei partiti politici europei: nel

1953, l'Assemblea della Ceca, che può essere considerata come la prima incarnazione dell'attuale

Parlamento europeo, aveva approvato una Risoluzione che, al contrario di quanto stabilito dal

Trattato istitutivo della Ceca – che faceva invece richiamo alle delegazioni nazionali – “aveva

puntato […] sul principio dell'apparentamento politico e sulla base politica dei gruppi parlamentari” 65 ,

favorendo così un processo di aggregazione tra le forze politiche nazionali accomunate da una

medesima radice ideologica.

Al processo di strutturazione organizzativa dei gruppi assembleari si accompagnerà, negli anni a

venire, un processo di strutturazione di formazioni “extraparlamentari”, collegate ai primi, che

assumeranno progressivamente la forma “partitica europea”: in seno all'Assemblea della Ceca si

erano delineati tre gruppi parlamentari afferenti a tre correnti ideologiche ben definite, ovvero il

Gruppo dei Democristiani, il Gruppo dei Socialisti e il Gruppo Liberale. A questi si aggiunsero

successivamente il Gruppo gollista, il Gruppo Comunista (formatosi dopo l'adesione del Partito

64 Cfr. L. BARDI, Il Parlamento europeo, op. cit.. 65 G. GRASSO, Partiti politici europei, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, Aggiornamento, Torino, UTET, p. 614.

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Comunista Francese, generalmente ostile al processo di integrazione) e il Gruppo Conservatore

(formatosi dopo l'ingresso della Gran Bretagna nella Comunità).

Le prime aggregazioni di carattere extraparlamentare collegate ai gruppi assembleari del

Parlamento europeo erano in realtà le sezioni “europee” delle federazioni di partito già operanti a

livello internazionale: si trattava in particolare della Confederazione dei Partiti socialisti, dell'Unione

europea Democratico Cristiana – poi divenuta Partito Popolare europeo – e della Federazione europea dei

Liberali e Democratici 66 . Con la Decisione del Consiglio 76/787/Ceca, Cee, Euratom, invece,

decisione con la quale si stabilì l'elezione diretta del Parlamento europeo, si accelerò il processo di

aggregazione dei partiti politici nazionali in strutture organizzative di carattere europeo: il Partito

Popolare Europeo fu il primo in tal senso a dotarsi del nomen di “partito europeo” e fu anche la

prima organizzazione “protopartitica” europea ad utilizzare un simbolo comune – si tenga conto,

però, che le elezioni europee erano (e sono tuttora) tenute su base nazionale, pertanto il simbolo

del PPE veniva “inglobato a mo' di pulce” in quello tradizionale di ciascun partito nazionale.

Al PPE e alle già citate federazioni dei socialisti e dei liberali si aggiunsero successivamente

l'organizzazione dei partiti di destra – l'Unione Democratica Europa – e quella dei partiti

regionalisti – l'Alleanza Libera Europea: in realtà, queste ultime federazioni di partito, così come

la federazione dei Verdi europei, formatasi nel 1983, rappresentavano “coordinamenti” di stampo

strettamente ideologico che coinvolgevano anche partiti politici di Paesi extra-comunitari. Al

carattere extra-parlamentare di tali federazioni si aggiungeva pertanto anche la peculiare

connotazione per cui essi rivolgevano la propria “azione politica in direzione di un'Europa più estesa e

non solo comprensiva dei Paesi dell'Unione europea”67.

Così, dal 1979, anno in cui si svolsero le prime elezioni dirette del Parlamento europeo, la

conformazione dei gruppi parlamentari in seno all'assemblea rappresentativa delle Comunità

poteva essere riferita direttamente ad una serie di gruppi extraparlamentari strutturati come veri e

propri partiti, portatori di un “indirizzo politico” di stampo europeo. Si tenga conto, però, che nel

citato atto del 1976, non vi era ancora alcun riferimento ai “partiti europei” e che pertanto sia dal

punto di vista giuridico che dal punto di vista politico, erano i partiti politici nazionali a dominare

l'arena politica europea e a definire la composizione dei gruppi parlamentari.

66 P. DELWIT, Le parti populaire européen étapes et analyse d'une mutation, in P. DELWIT – E. KULACHI – C. VAN DE WALLE (a cura di), Les fédérations européennes des partis, Bruxelles, Editions de l'Université de Bruxelles, 2001, p. 107. 67 G. GRASSO, Partiti politici europei, op. cit., ibidem.

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L'intreccio tra gruppi assembleari e partiti politici nazionali era determinato, dal punto di vista

politico, dal fatto che i primi risultavano da accordi e alleanze stabilite proprio dai singoli partiti

politici nazionali e non vi era, se non limitatamente alle formazioni più grandi, una mediazione

organizzata dalle corrispettive organizzazioni extraparlamentari di rango europeo. Spesso i gruppi

assembleari erano composti da partiti politici legati a tradizioni ideologiche piuttosto distanti tra

loro e, d'altra parte, non tutti i partiti afferenti ad una ideologia ben definita entravano a far parte

del gruppo assembleare europeo di riferimento ideologico.

Del Parlamento del 1979, ad esempio, fece parte anche un Gruppo “misto”, denominato Gruppo

per il Coordinamento Tecnico e di Difesa dei Gruppi e dei Deputati Indipendenti, capeggiato dal radicale

Marco Pannella e che raccoglieva i quattro deputati del partito danese euro-scettico Folkbevægelsen

mod EU (FolkeB), il deputato del partito fiammingo indipendentista Volksunie (Vu) e i cinque

deputati italiani provenienti dalle file dei radicali e dei partiti di estrema sinistra Democrazia

Proletaria e Partito di Unità Proletaria. Il gruppo mancava dunque del necessario requisito della

“affinità politica” stabilito dal Regolamento d'assemblea e ciò metteva in evidenza, da un lato il

predominio dei partiti politici nazionali nell'ambito del processo di formazione dei gruppi

assembleari europei e, dall'altro, l'inconsistenza delle strutture extraparlamentari di riferimento nel

complesso del sistema politico europeo: i gruppi assembleari europei “non [costituivano] la

proiezione di formazioni politiche strutturate e coese, ma semmai lo strumento per favorire lo sviluppo dei partiti

europei, ancora fragili ed ideologicamente differenziati” 68.

La questione del divieto di costituzione di “gruppi misti” o “gruppi tecnici” è stata affrontata solo

nel 1999, allorquando, per la prima volta, “sulla costituzione del Gruppo tecnico dei deputati indipendenti-

Gruppo misto, si mostrava l'opposizione dei presidenti di altri gruppi, anche in relazione al fatto che i membri di

tale gruppo avevano dichiarato pubblicamente di essere privi del carattere dell'affinità politica”69. Il Parlamento

europeo approvò, a seguito della contestazione, una nota interpretativa in cui si dichiarava non

ammissibile la costituzione di un gruppo “che neghi apertamente qualsiasi affinità politica tra i

suoi componenti”. Ciò che rilevava nella nota del Parlamento europeo, era il fatto che il Gruppo

tecnico costituitosi nel 1999 aveva “apertamente dichiarato” la mancanza di qualsiasi affinità

politica tra i suoi componenti ed in tal senso emergeva una chiara differenza tra quei gruppi

“implicitamente” privi del requisito dell'affinità politica e quei gruppi che, al contrario,

dichiaravano “esplicitamente” di non possedere tale requisito.

68 Ivi, p. 631. 69 Ivi, p. 632.

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La nota emanata dal Parlamento europeo fu impugnata successivamente dinanzi al Tribunale di

primo grado da due deputati del Parlamento europeo e dai partiti nazionali che formavano il

gruppo, ovvero il Front National francese e la Lista Emma Bonino: “il giudice di prima istanza, dopo aver

adottato, nel novembre del 1999, un'ordinanza che sospendeva la deliberazione parlamentare, con successiva

sentenza dell'ottobre 2001, […] respingeva nel merito il ricorso. Una pronuncia della Corte di Giustizia […]

chiudeva il caso, dichiarando irricevibile il ricorso presentato dal Front National contro la sentenza del Tribunale

di primo grado, ma annullando quella parte della sentenza che aveva dichiarato ricevibile il ricorso in primo

grado”70.

La motivazione del Tribunale di primo grado poggiava sulla distinzione tra “indipendenza

politica” di ciascun deputato europeo e la esplicita dichiarazione del Gruppo tecnico di “divieto,

fatto a ciascun componente del gruppo, di parlare a nome di tutti i deputati del gruppo”. Nel

ragionamento del giudice di prima istanza, si rileva come il divieto “di costituzione di gruppi

tecnici” non determini in assoluto l'illegittimità del gruppo in questione, dato che il Regolamento

del Parlamento non specifica i contorni della nozione di “affinità politica”.

Sotto un secondo profilo, invece il Tribunale mette in rilievo il differente ruolo dei gruppi

assembleari europei rispetto a quelli dei Parlamenti nazionali: “la duplice esigenza di affinità

politiche e di appartenenza a più di uno Stato membro, sulla quale poggia l'organizzazione dei

deputati in gruppi politici, permette di trascendere i particolarismi politici locali e di promuovere

l'integrazione europea cui mira il Trattato”. La dottrina citata sostiene a tal proposito che

“l'affinità politica, imposta ai gruppi parlamentari dal Regolamento del Parlamento europeo ed irrobustita nel suo

contenuto sostanzialista dal Tribunale di primo grado, può essere davvero il volàno della missione costituzionale dei

partiti politici a livello europeo” 71 , riconducendo pertanto al fine “unitarisitico” individuato dal

Tribunale, un criterio di aggregazione che potrebbe definire una maggiore omogeneità tra

strutturazioni partitiche e gruppi assembleari.

Il Regolamento relativo agli statuti e al finanziamento dei partiti politici europei adottato nel 2003

e successivamente modificato (rispettivamente nel 2007 e nel 2014) sembra infatti andare nella

direzione indicata dalla dottrina citata, poiché impone una sostanziale differenziazione non solo

tra gruppi assembleari e partiti politici europei, ma tra questi ultimi e i partiti politici nazionali,

pur definendone gli elementi discretivi sulla base della disciplina relativa al finanziamento.

Da un lato, l'effetto immediato del Regolamento è stato quello della creazione di nuove

formazioni partitiche, che sono passate a tredici nel 2013: “cioè in buona sostanza le norme sul

70 Ibidem. 71 Ivi, p. 633.

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finanziamento hanno funzionato da strumento di razionalizzazione e di coesione tra i partiti europei” 72 .

Dall'altro si è stabilito invece che i finanziamenti pubblici erogati a favore dei partiti politici

europei non possono essere utilizzati per le spese delle campagne elettorali dei singoli partiti

politici di livello nazionale. Gli stanziamenti provenienti dal bilancio dell'Unione sono ripartiti ai

partiti politici europei secondo il criterio per cui il 15% del totale viene ripartito tra tutti i

richiedenti ed il restante 85% proporzionalmente a tutti i partiti politici europei che hanno

ottenuto almeno un deputato al Parlamento europeo. Si prevede poi che le spese dei partiti

politici europei “possono […] comprendere campagne di finanziamento realizzate dai PPLE nel contesto delle

elezioni al Parlamento europeo cui essi partecipano. Questa disposizione è stata introdotta per evitare che le risorse

provenienti dall'Unione europea siano utilizzate direttamente per finanziare le campagne elettorali, stante

l’oggettiva difficoltà di distinguere tra le spese imputabili ai partiti politici nazionali e quelle riconducibili ai partiti

politici europei; si è allora scelto di consentire ai PPLE di finanziare con le risorse pubbliche solo le attività

strumentali alle campagne elettorali […]. I fondi pubblici non possono essere assolutamente utilizzati per il

finanziamento diretto o indiretto dei partiti politici o dei candidati nazionali né per finanziare campagne

referendarie. Più in generale, […] i PPLE non possono finanziare direttamente o indirettamente altri partiti

politici, in particolar modo partiti politici e candidati nazionali, né con risorse derivanti dal bilancio generale

dell’Unione europea né con fondi di altra natura”73.

La dottrina citata mette in evidenza come l'annullamento del divieto per i partiti politici europei

di finanziare le campagne elettorali per il Parlamento europeo tende a rafforzare il ruolo dei

partiti politici europei nell'ambito del processo elettorale, ruolo che si è venuto anzi rafforzando

nel corso della campagna elettorale del 2014: i maggiori partiti politici europei sono stati chiamati

infatti a presentare un proprio candidato alla presidenza della Commissione, in virtù della

disposizione introdotta a Lisbona in cui si prevede che l'elezione del Presidente della

Commissione venga rimessa al Parlamento europeo, che elegge un candidato proposto dal

Consiglio europeo, il quale a tal proposito deve tenere conto “dei risultati elettorali” al fine della

scelta del candidato da proporre. È in tal senso che alcuna dottrina74 aveva insistito nel sostenere

la necessità che i partiti politici europei dovessero intervenire attivamente nel processo elettorale

attraverso la presentazione dei rispettivi candidati alla Presidenza della Commissione, in maniera

72 Ivi, p. 622. 73 M. R. ALLEGRI, Il finanziamento pubblico, op. cit., p. 30. 74 Cfr. P. RIDOLA, Il voto europeo del 6 e 7 Giugno: la 'sfera pubblica europea', l'integrazione multi livello e le sfide della complessità, in federalismi.it, n. 12/2009.

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tale da rendere sostanziale la previsione per cui il Consiglio europeo deve “tenere conto dei

risultati elettorali”.

Al di là delle implicazioni di carattere puramente giuridico, bisogna sottolineare come il

meccanismo di selezione dei candidati favorisca l'apertura di nuovi scenari tanto in campo

politico quanto in campo istituzionale: da un lato, infatti, tale processo determina per la prima

volta un collegamento diretto tra gli elettori europei e i partiti politici europei rendendo dunque

questi ultimi “consistenti” sul piano elettorale.

Dall'altro, pur mancando un rilievo strettamente giuridico (il Trattato sull'Unione Europea non

impone ai partiti politici europei di indicare i candidati, né il Consiglio europeo è obbligato a

proporre i candidati indicati dai partiti politici europei) il meccanismo di selezione dei candidati

alla presidenza della Commissione europea configura un impianto rappresentativo

strutturalmente debole ma concettualmente analogo ai sistemi di democrazia caratterizzanti gli

Stati nazionali, poiché connette il piano della rappresentanza con quello della governabilità (i

partiti politici europei indicano infatti un proprio candidato per il vertice del cosiddetto “organo

esecutivo” dell'Unione).

Il circuito democratico-rappresentativo europeo soffre tuttavia della mancanza di un assetto

strutturale in grado di definire per i partiti politici europei un ruolo preponderante rispetto ai

partiti nazionali: l'evoluzione del sistema partitico europeo, culminata con l'impegno della

presentazione dei rispettivi candidati alla presidenza della Commissione, sembra andare verso il

consolidamento di un modello democratico compiutamente europeo, ma per potersi definire

veramente tale, servono tempi di metabolizzazione decisamente lunghi, senza contare che gli

attuali meccanismi istituzionali della rappresentanza non sembrano favorire l'impiantazione di

una reale “coscienza europea” nell'elettorato.

Pertanto, a nostro avviso sarebbe opportuno intervenire sul piano istituzionale, ritoccando il

sistema di elezione del Parlamento europeo, attraverso la definizione di una “circoscrizione

europea” o, più drasticamente, mediante il ribaltamento della base elettorale dal piano nazionale

verso quello europeo: solo in un campo elettorale di “respiro” europeo i partiti politici europei

possono infatti agire quali veri intermediari di un sistema di rappresentanza che si possa definire

“autenticamente europeo”.

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