Il triangolo si è rotto? Annotazioni a margine del dialogo tra Fabrizio Barca e Piero Ignazi sul...

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14/9/2015 maelstrom: Il triangolo si è rotto? Annotazioni a margine del dialogo tra Fabrizio Barca e Piero Ignazi sul rapporto tra partiti, società e Stato. http://www.damianopalano.com/2013/09/il-triangolo-no-non-lavevo-considerato.html 1/10 di Damiano Palano maelstrom martedì 17 settembre 2013 Il triangolo si è rotto? Annotazioni a margine del dialogo tra Fabrizio Barca e Piero Ignazi sul rapporto tra partiti, società e Stato. di Damiano Palano Nell’aprile del 2013, mentre il governo Monti – dopo una lunga agonia – tramontava definitivamente, uno dei ministri dell’esecutivo, Fabrizio Barca, diffondeva una sorta di manifesto dall’ambizioso titolo Un partito nuovo per un nuovo governo. Con quel documento Barca abbandonava i panni del ‘tecnico’ per indossare quelli del politico, o, meglio, dell’intellettuale-militante che cerca di mettere le proprie competenze e la propria esperienza al servizio di una parte politica. Come esplicitava il suo sottotitolo, Memoria politica dopo 16 mesi di governo, la riflessione di Barca nasceva dall’esperienza proprio dell’esecutivo Monti, ma, a differenza di quanto avviene di solito nelle analisi degli osservatori, il focus non era tanto sulle riforme da fare e sulle scadenze da rispettare per ‘salvare il Paese’, quanto sul ‘metodo’ con cui perseguire ogni progetto di riforma. E il ‘metodo’ finiva col coinvolgere proprio i partiti, sovente raffigurati come l’origine di molti mali, e invece rappresentati da Barca come l’anello debole da rafforzare e ripensare. In questo senso, la Memoria costituisce un’autentica eccezione nel dibattito pubblico italiano, perché era probabilmente dagli anni Settanta Seleziona lingua Pow ered by Traduttore Translate Home page Libri Scritti recenti Contatti La democrazia senza qualità. Appunti sulle «promesse non mantenute» della teoria democratica Fino alla fine del mondo. Saggi sul 'politico' nella 'rivoluzione spaziale' contemporanea Volti della paura. Figure del disordine all'alba dell'era biopolitica La soglia biopolitica. Materiali su una discussione contemporanea La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica Partito Pagine "La democrazia senza partiti". Un volume nella collana "Le nuove bussole" di Vita e Pensiero. Dal 17 settembre in libreria! Damiano Palano La democrazia senza partiti Vita e Pensiero Collana "Le nuove bussole" (pp. 140, euro 12.00) ... L’ordine difficile in un mondo senza saggezza. "Ordine mondiale" di Henry Kissinger di Damiano Palano Nel 1954 l’allora ventisettenne Henry Kissinger discusse all’Università di Harvard la propria tesi di laurea, dal t... L’ambivalenza dello straniero. A proposito di un libro di Umberto Curi Per illustrare l’ipotesi sulla cruciale contrapposizione fra amico e nemico, Carl Schmitt, nel suo celebre Begriff des Politischen , ricorre... 11 settembre 2001, fu vera cesura? Che differenza fa un giorno. Su "Undicisettembre" di Luigi Bonanate Post più popolari 0 Altro Blog successivo» Crea blog Entra

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http://www.damianopalano.com/2013/09/il-triangolo-no-non-lavevo-considerato.html 1/10

di Damiano Palano

maelstrom

martedì 17 settembre 2013

Il triangolo si è rotto? Annotazioni a margine deldialogo tra Fabrizio Barca e Piero Ignazi sul rapportotra partiti, società e Stato.

di Damiano Palano

Nell’aprile del 2013, mentre il governo Monti – dopo una lunga

agonia – tramontava definitivamente, uno dei ministri

dell’esecutivo, Fabrizio Barca, diffondeva una sorta di manifesto

dall’ambizioso titolo Un partito nuovo per un nuovo governo. Con

quel documento Barca abbandonava i panni del ‘tecnico’ per

indossare quelli del politico, o, meglio, dell’intellettuale-militante

che cerca di mettere le proprie competenze e la propria

esperienza al servizio di una parte politica. Come esplicitava il

suo sottotitolo, Memoria politica dopo 16 mesi di governo, la

riflessione di Barca nasceva dall’esperienza proprio

dell’esecutivo Monti, ma, a differenza di quanto avviene di solito

nelle analisi degli osservatori, il focus non era tanto sulle riforme

da fare e sulle scadenze da rispettare per ‘salvare il Paese’,

quanto sul ‘metodo’ con cui perseguire ogni progetto di riforma. E

il ‘metodo’ finiva col coinvolgere proprio i partiti, sovente

raffigurati come l’origine di molti mali, e invece rappresentati da

Barca come l’anello debole da rafforzare e ripensare. In questo

senso, la Memoria costituisce un’autentica eccezione nel dibattito

pubblico italiano, perché era probabilmente dagli anni Settanta

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La democrazia senza qualità.Appunti sulle «promesse nonmantenute» della teoriademocratica

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che la forma-partito non veniva collocata al centro della

discussione delle élite dirigenti (o quantomeno al centro di una

discussione non coincidente con la liquidazione del modello

novecentesco del partito di massa e con la generica e

semplicistica esaltazione di un partito ‘leggero’ e aperto alle

istanze della società civile).

La riflessione di Barca

non era dedicata

genericamente ai

partiti, ma si

concentrava piuttosto

sulla forma di un

nuovo partito di

sinistra,

inevitabilmente

identificato con il

Partito Democratico (o con ciò che il Pd dovrebbe diventare in un

prossimo futuro). Ciònonostante, la Memoria sviluppava temi e

argomentazioni molto lontani dalla più classica tradizione della

sinistra italiana, che pure – da Gramsci a Togliatti, fino a

Berlinguer – ha dedicato una parte consistente della propria

riflessione alla forma del «Partito». In effetti il discorso di Barca –

che, vale la pena ricordarlo, era il discorso di un ‘tecnico’,

impegnato per anni ai vertici della macchina amministrativa dello

Stato – si proponeva come un tentativo di mettere a frutto la

lezione dell’esperienza di governo e di superare alcuni degli

ostacoli contro cui l’azione dell’esecutivo Monti si era scontrata.

In altre parole, il manifesto di Barca coinvolgeva i partiti, ma

proprio in quanto i partiti si erano rivelati uno strumento inefficace

dal punto di vista dell’azione di governo. E la causa principale era

così individuata in un rapporto viziato tra i partiti «Stato-centrici»

e la macchina arcaica dello Stato. «In Italia», scriveva per

esempio, «partiti Stato-centrici, macchina dello Stato arcaica ed

élites che li governano vanno d’accordo, sostenendosi

reciprocamente e producendo un equilibrio perverso, di

sottosviluppo: una ‘fratellanza siamese… che porta al

catoblepismo» (F. Barca, Un partito nuovo per un buon governo.

Memoria politica dopo 16 mesi di governo, p. 13). Una delle

conseguenze della «fratellanza siamese» erano sia la diffidenza

dei cittadini nei confronti dei partiti sia l’«insensato conflitto

generazionale» (p. 14), ma l’aspetto per molti versi più

significativo che scaturiva da quell’intreccio – come sottolineava

Barca in uno dei passaggi chiave – era l’inefficienza dell’azione

pubblica: «Il combinato di Partiti Stato-centrici e macchina dello

Stato arcaica tende a impedire politiche pubbliche efficaci e

dunque buon governo, bloccando tutte le fasi del processo

ricorsivo di costruzione dell’azione pubblica. La carenza di partiti

con carattere e missione propri rende inadeguata e

assolutamente opaca la fase iniziale di determinazione degli

indirizzi delle politiche pubbliche, che dovrebbe fondarsi su una

visione e su esperienze condivise attraverso un profondo, aperto

e acceso confronto pubblico, sia la fase successiva del loro

continuo adeguamento innovativo, che richiede la pressione e la

voce robusta e ben indirizzata dei cittadini. La carenza della

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macchina statale ne sabota le altre tre fasi: la definizione delle

azioni con cui attuare gli indirizzi; la loro attuazione concreta nei

diversi luoghi del territorio; l’esame dei risultati ottenuti,

propedeutico all’adeguamento delle azioni e alla eventuale

maturazione di nuovi indirizzi. Partiti Stato-centrici e macchina

dello Stato arcaica sabotano la circolazione di idee e

l’interferenza cognitiva fra centro nazionale livelli locali. Da un

lato, infatti, creano una barriera alla circolazione e al confronto

pubblico delle soluzioni prospettate e sperimentate nei territori,

impedendo a queste di concorrere a formare le preferenze e le

scelte nazionali. Dall’altro, tolgono al centro la cultura, gli

strumenti e l’autorevolezza per intervenire nelle situazioni dove lo

sviluppo e le possibilità di partecipazione effettiva sono ora

bloccati, esercitando una funzione decisiva di riparazione,

promozione e indirizzo nazionale. Piuttosto, partiti e Stato

tendono ad agire nei territori spesso semplicemente per

conservare gli assetti dati, vuoi con decisioni autoritarie,

disattente alle specificità delle persone e dei contesti, vuoi con

complice lassismo» (pp. 14-15).

Per rompere il legame perverso fra partiti e Stato, e per

scongiurare la prosecuzione della pratica di ‘cattivo governo’,

Barca non si limitava a evocare una riforma dei partiti, ma

riprendeva l’idea di uno «sperimentalismo democratico»,

proposta da Charles Sabel. In sostanza, si trattava di evitare le

due distorsioni speculari della visione ‘socialdemocratica’, che

riconosce le competenze per realizzare le politiche di riforma solo

al personale tecnico dell’amministrazione pubblica, e del

‘minimalismo’ liberista, che ritiene invece che le competenze

siano detenute esclusivamente dai grandi soggetti privati. Al

contrario, per Barca «la conoscenza necessaria per assumere

decisioni pubbliche che siano davvero di interesse generale non

è concentrata nelle mani di pochi», ma «è dispersa fra una

moltitudine di soggetti, privati e pubblici, ognuno dei quali

possiede frammenti di ciò che è necessario sapere» (p. 20).

Così, per prendere decisioni efficaci, la macchina pubblica «deve

costruire un percorso, che, convincendo i molteplici detentori di

conoscenza e esperienza a partecipare, promuova il confronto fra

le loro parziali conoscenze, consenta innovazione, e lo traduca in

decisioni assunte secondo le regole di responsabilità

costituzionalmente previste» (p. 21). Ma, per raggiungere un

simile obiettivo, il mutamento della macchina amministrativa dello

Stato non è sufficiente. Ciò che serve sono proprio i partiti,

capaci di articolare conoscenze ma anche di aggregarle in grandi

visioni: «Per poter dare un buon governo al paese, ossia per

migliorare la qualità, la giustizia e l’efficacia delle sue decisioni,

servono, in conclusione, corpi sociali intermedi che non siano

specializzati nella tutela di uno solo degli interessi o valori in

gioco, che abbiano una visione, che permettano un confronto

pubblico acceso e aperto, che consentano flussi di idee (nelle

due direzioni) tra centro e periferia, che alla fine portino queste

idee all’attenzione delle persone che il metodo democratico fa

eleggere o nominare negli organi costituzionali. Insomma,

servono i partiti. Al plurale, perché molteplici ed escludenti sono i

convincimenti generali – soprattutto lungo un’asse sinistra-destra

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– di cui i partiti hanno bisogno per esercitare una carica simbolica

che incentivi la partecipazione, per disporre di un linguaggio con

cui realizzare il confronto, per avere un metro con cui dire i ‘si’ e i

‘no’ alle diverse ipotesi di azione pubblica» (p. 29).

Era da questa specifica prospettiva – top-down più che bottom-

up, si potrebbe dire – che Barca giungeva a delineare il proprio

Che fare?, ossia a descrivere la forma del «partito nuovo». Un

partito di cui certo non era descritta in modo puntiglioso la

struttura, ma che, in ogni caso, mostrava due carattere salienti. In

primo luogo, il partito auspicato da Barca nella Memoria era

infatti «un partito di sinistra saldamente radicato nel territorio che,

essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato di chi ha

altrove il proprio lavoro e traendo da ciò la propria legittimazione

e dagli iscritti parte rilevante del proprio finanziamento, torni,

come nei partiti di massa del passato, a essere non solo

strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali

dello Stato, ma anche ‘sfidante dello Stato stesso’ attraverso

l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione

pubblica» (p. 30). In secondo luogo, il partito che emergeva dal

documento era un «partito palestra», capace di svolgere una

funzione di «mobilitazione cognitiva», consistente prima di tutto

nel «raccogliere, confrontare, selezionare, aggregare e talora

produrre conoscenza sul ‘che fare’ dell’azione di governo

attraverso un confronto pubblico, informato, acceso, aperto e

ragionevole, nei luoghi del territorio, fra iscritti, simpatizzanti e

‘altri’ singoli o membri di associazioni, genuinamente

indipendenti» e, inoltre, nel «trasferire questa conoscenza

attraverso tutti i possibili strumenti della ‘voce’» (p. 32) agli

amministratori locali e alla classe dirigente eletta agli incarichi di

governo. Così, il partito evocato da Barca assumeva una

conformazione piuttosto chiara, caratterizzata da quatto elementi:

a) «Partito che mobilita, produce e pratica conoscenze sulle

azioni pubbliche necessarie per soddisfare i bisogni e le

aspirazioni dei cittadini»; b) «Partito del confronto pubblico

informato, acceso e ragionevole»; c) Partito aperto, «sia a

individui sia ad associazioni» (p. 37); d) «Partito separato dallo

Stato», «sia in termini finanziari, sia in termini di relazione fra i

funzionari del partito, locali, regionali e nazionali, da un lato, e le

persone che il partito stesso concorre a fare eleggere o nominare

negli organi di governo – locali, regionali e nazionali – o che

vengono selezionate con criteri di merito (e non su proposta o

pressione dei partiti) nell’amministrazione, nelle agenzie e

autorità, negli enti di pubblica proprietà, dall’altro» (p. 38).

Apparso in un momento in cui il Partito Democratico, dopo la

delusione delle elezioni di febbraio, pareva a un passo dalla

dissoluzione, il manifesto di Barca sollecitò una serie di critiche e

commenti, oltre che il sospetto di una sorta di ‘scalata’ dei vertici

del partito da parte di un ‘ex-tecnico’. Ora quei sospetti sono

ormai piuttosto lontani, e la partita per la successione di Epifani

al vertice del Pd non sembra coinvolgere – se non indirettamente

– Fabrizio Barca. Ciò nondimeno, la Memoria rimane ancora

oggi un documento interessante per discutere del futuro della

forma-partito evitando le più facili scorciatoie dell’anti-politica, o,

meglio, di quella retorica ‘anti-partito’ di cui Salvatore Lupo ha

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descritto recentemente le

mille declinazioni, oltre che

l’inesauribile forza, lungo il

corso di tutta la storia

repubblicana (cfr. S. Lupo,

Anti-partiti. Il mito

della nuova politica

nella storia della

Repubblica (prima,

seconda e terza),Donzelli, Roma, 2013). Ed è

anche per questo che è molto

utile la lettura del volumetto Il

triangolo rotto. Partiti,

società e Stato,

pubblicato proprio in questi giorni da Laterza (pp. 105, euro

10.00), in cui vengono riprodotte le relazioni tenute da Piero

Ignazi e dallo stesso Barca nel corso di un seminario organizzato

dall’editore nel maggio scorso, insieme agli interventi dei

partecipanti al fitto dibattito (Nando Pagnoncelli, Walter Tocci,

Laura Pennacchi, Carlo Borgomeo, Concita De Gregorio, Luca

Telese, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Goffredo Bettini,

Salvatore Biasco, Marco d’Eramo, Piero Bevilacqua, Andrea

Ranieri, Claudia Mancina, Erica Jozsef).

Non è certo fortuito che a

introdurre la discussione sia

Ignazi. In effetti, gran parte

del ragionamento sviluppato

da Barca nella memoria

procedeva dall’immagine dei

partiti «Stato-centrici»,

un’immagine proposta proprio

da Ignazi nel suo recente

Forza senza legittimità. Il

vicolo cieco dei partiti

(Laterza, Roma - Bari, 2013),

un saggio in cui i partiti

vengono descritti

impietosamente come

«creature gigantesche che si

muovono impacciate e

ingorde come dei Leviatani sgraziati». Nel saggio che introduce Il

triangolo rotto, Ignazi torna naturalmente proprio su quella

immagine, ma tiene anche a chiarire come il deterioramento del

lato del triangolo che unisce i partiti alla società non caratterizzi

esclusivamente l’Italia. In linea generale, scrive comunque Ignazi,

le ragioni del deterioramento possono essere ricondotte a una

principale: «la discrasia tra l’idea, l’immagine ricevuta che ancora

alligna nell’immaginario collettivo di ciò che ‘deve’ essere un

partito, e le trasformazioni socioeconomiche e culturali della

società negli ultimi decenni» (p. 3). In altre parole, a dare

sostanza effettiva alla crisi del rapporto fra società e partiti è il

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tramonto del partito di massa novecentesco, un partito che per

molti versi – a dispetto della sua crisi – continua a costituire una

sorta di «mito fondatore». «Le difficoltà per la tenuta di quel tipo

di partito», scrive Ignazi, «sono sorte quando alla società

industriale è subentrata la società dei servizi, della

comunicazione e dei consumi in cui non c’erano più divisioni di

classe o di appartenenza confessionale rigide e ben definite,

dove gli elettorati erano tendenzialmente più mobili e le

appartenenze plurime e cangianti», «un mondo completamente

diverso rispetto a quello che aveva dato origine ai partiti di

massa» (p. 5). Dinanzi all’irrompere del nuovo mondo post-

industriale, i partiti hanno cercato strade differenti: per un verso,

hanno imboccato il sentiero della Basisdemokratie, ossia di una

struttura in cui il peso della leadership è bilanciato dal ruolo della

base di iscritti e militanti; per un altro, molti dei partiti tradizionali

hanno invece scelto una strada differente e hanno così rinforzato

il loro legame con lo Stato, ritrovando cioè nello Stato (mediante

il finanziamento pubblico, il patronage e le rendite connesse

all’occupazione delle istituzioni) quelle risorse che non erano più

in grado di estrarre dalla società. Ed è proprio questa la via che

conduce i partiti a diventare «Stato-centrici» e a rafforzare i

vertici rispetto alla base: «Dato questo rapporto simbiotico, quasi

saprofitico, con lo Stato, e l’espletamento ormai di una sola

funzione, quella elettorale, il partito radicato nel territorio, stile

vecchio partito di massa, serve a poco: è molto più funzionale

una struttura centralizzata che sovrintenda e provveda, dal

centro, a tutte le necessità» (p. 9). Ma, se si rafforza fino

all’esasperazione il rapporto con lo Stato, il legame dei partiti con

la società diventa tanto sottile da risultare quasi evanescente: «I

partiti, e in particolare gli iscritti ai partiti, sono stati giustamente

definiti gli ambasciatori della società. Essi dovrebbero

rappresentare l’anello di congiunzione con la cittadinanza, quello

che mette in collegamento i cittadini con i decisori. Ebbene,

questo rapporto si è deteriorato, è andato sfilacciandosi nel

tempo, e in molti casi è proprio saltato. Il problema attuale dei

partiti – e possiamo dire anche dei partiti del nostro Paese – è la

loro autoreferenzialità, l’incapacità e la difficoltà di rispondere a

quanto viene richiesto dalla società» (p. 10). Per garantire che la

relazione con la società torni a irrobustirsi, è necessario che i

partiti ricomincino a essere «rispondenti al loro interno e

all’esterno», e cioè che siano «aperti e democratici» (p. 10). Ma,

nonostante ogni sforzo di democratizzarsi e di dare più spazio

agli iscritti e ai simpatizzanti (come nel caso delle primarie), è

evidente come l’immagine dei partiti rimanga piuttosto logora: «Lo

stigma di organizzazioni chiuse e lontane rimane. Per il semplice

fatto che, nonostante tali aperture, i partiti hanno perso appeal:

non incarnano più quegli antichi ideali di passione e dedizione, di

impegno e convinzioni. Hanno perso quell’alone eroico di

difensori disinteressati delle volontà collettive, evidenziando

invece il diffondersi di piccoli interessi materiali e personali. Si

dimostrano tuttora incapaci di suscitare adesioni entusiastiche e

disinteressate nel processo di raccolta e aggregazione delle

domande; e altrettanto carenti nel connettere tali domande con le

decisioni dei governanti. Il lato società-Stato non è più

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efficientemente collegato dai partiti. Perché i partiti hanno

‘mollato’ la società per rifugiarsi nello Stato» (p. 11).

Nel proprio intervento,

Barca non può che

partire proprio da

questo punto, ma –

articolando il

medesimo discorso già

sviluppato nella

Memoria – non

procede tanto dalla

crisi interna dei partiti,

quanto dalla crisi dei

due modelli di governo

della cosa pubblica

che hanno dominato la

scena negli settant’anni, ossia il modello ‘socialdemocratico’ e il

modello ‘minimalista’. In sostanza, il presupposto di tutta l’analisi

è la convinzione che per un ‘buon governo’ sia oggi necessario

attingere al patrimonio di conoscenze che sono diffuse nella

società, e che non possono essere in alcun modo monopolizzate

né dai soggetti pubblici, né da quelli privati. I partiti sono dunque

considerati da Barca come i canali in grado di svolgere un nuovo

ruolo, che non è tanto quello di trasmettere le domande dalla

società verso lo Stato, quanto quello di mettere a disposizione

dell’intervento pubblico quelle competenze e quelle informazioni

di cui lo Stato non dispone e che pure sono indispensabili per

produrre buone politiche. E proprio una prospettiva di questo tipo

potrebbe indurre i militanti e i dirigenti di un partito specifico – il

Partito Democratico – a cambiare direzione, sostenuti magari

anche da ex-disillusi o da associazioni che non hanno rinunciato

definitivamente a incidere sulla cosa pubblica.

Per quanto sia ricca di suggestioni, è abbastanza chiaro che –

per la stessa prospettiva top-down da cui viene concepita – la

riflessione di Barca tralascia di considerare un problema non da

poco. In effetti, ci sono vari modi di guardare il triangolo Partiti-

Stato-società, quantomeno perché non è chiaro se si tratti di un

triangolo equilatero o isoscele, né – per rimanere nella metafora

geometrica – quale sia la base del triangolo. Per molti versi

Barca sembra infatti considerare lo Stato e la sua azione come il

vertice da cui partire, mentre il partito diventa uno strumento per

‘afferrare’ qualcosa che si trova disperso nella società e che

diventa cruciale per governare. Ma, se si può concordare con

questa idea, e se cioè si può riconoscere che il «partito nuovo»

immaginato da Barca potrebbe avere degli esiti positivi

sull’azione di governo, rimane comunque da capire per quale

motivo i singoli individui dovrebbero aderire e sostenere un simile

partito. Ed è invece proprio questo il punto che Barca tende, se

non a sottovalutare, quantomeno a dare per scontato, perché

pare che si tratti soltanto di dare nuove motivazioni a iscritti e

dirigenti, e cioè a qualcosa che esiste già e non a qualcosa che

deve essere sostanzialmente ricostruito.

Non è dunque sorprendente che Ignazi sottolinei l’importanza

degli incentivi alla partecipazione. Perché gli incentivi non

14/9/2015 maelstrom: Il triangolo si è rotto? Annotazioni a margine del dialogo tra Fabrizio Barca e Piero Ignazi sul rapporto tra partiti, società e Stato.

http://www.damianopalano.com/2013/09/il-triangolo-no-non-lavevo-considerato.html 8/10

possono certo essere rappresentati – per lo meno

esclusivamente – dalla convinzione di fare qualcosa di ‘utile’ per

il Paese. Fra gli incentivi a partecipare con una certa continuità

alla vita di un partiti ci possono essere infatti tante componenti,

anche utilitaristiche, ma in ogni caso non può essere

sottovalutato il peso di quelle simboliche, tra cui naturalmente

anche quelle legate alla personalizzazione. E se Ignazi sottolinea

per questo la necessità di una leadership simbolicamente

efficace, non dimentica neppure il ruolo dell’identità e del

sentimento di appartenenza, soprattutto per gli elettori di sinistra:

«Questo sentimento di appartenenza, pur logorato, consente

ancora di attivare momenti di socialità, di tempo trascorso

insieme, estranei al ‘lavoro politico’. Agire su questa sfera è

fondamentale. Si tratta di riattivare e modernizzare l’intuizione

novecentesca delle case del popolo: luoghi di incontro che si

possono sovrapporre ai circoli – o trasformando questi ultimi –

ma che esaltano la dimensione del leisure, del tempo libero. La

vecchia distinzione tra la sezione, luogo serio di lavoro politico, e

la casa del popolo o il circolo ricreativo, luogo frivolo e

‘irrilevante’, non ha più senso. La partecipazione

dell’organizzazione di attività di leisure, tra l’altro, fornisce un

ulteriore cemento identitario (come hanno fatto per decenni le

feste dell’Unità)» (p. 20).

È d’altronde proprio su

questo lato del

triangolo che si

concentrano alcune

delle osservazioni, più

o meno critiche,

indirizzate alla

proposta di Barca,

come per esempio il

ragionamento di

Marco d’Eramo sulla

necessità di una narrazione. Ma fra i molti interventi è forse

quello di Walter Tocci a porre la questioni in termini più radicali, e

forse per questo efficaci. L’idea della «mobilitazione cognitiva»

proposta da Barca, osserva Tocci, è senza dubbio suggestiva,

ma rientra nell’ambito delle «repubbliche immaginarie», e tende

cioè a collocarsi su un terreno molto lontano dalla machiavelliana

«realtà effettuale». In questo senso, Tocci allude esplicitamente

alla disgregazione della cultura della sinistra italiana, diventata

una «sinistra senza popolo»: «Come militante» – scrive Tocci –

«sono cresciuto nella periferia romana e da giovane facevo un

esercizio mentale per mettermi di buon umore. La sera partivo

dalla sede del Partito e andavo sempre in borgata. Lungo la

strada, al succedersi dei palazzi collegavo la crescita dei voti a

sinistra. Adesso per avere la stessa piacevole sensazione devo

fare un’inversione di marcia dalla periferia verso il centro. Da

trent’anni perdiamo i voti popolari e conquistiamo consensi tra i

ceti agiati. Oggi Parioli è un quartiere rosso di Roma» (p. 51). Ma

questa sorta di malinconico viaggio nella memoria è soprattutto la

premessa per una riabilitazione del bistrattato concetto di

populismo. Seguendo (implicitamente) la proposta del filosofo

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Pubblicato da Damiano Palano a 9/17/2013

Reazioni: divertente (0) interessante (0) eccezionale (0)

argentino Ernesto Laclau, Tocci ritiene infatti che il ‘populismo’

non sia un modo per solleticare le masse e carpirne il consenso,

ma un modo di ‘produrre’ il popolo in cui si nasconde il nucleo

stesso del ‘politico’. Come sostiene in questo senso Tocci: «Il

popolo non esiste in natura. Non è un aggregato sociale e tanto

meno una classe. È prima di tutto una costruzione politica. Nasce

un popolo quando il politico decide una linea di frattura sulla

quale attesta la ricomposizione dell’eterogeneità sociale» (p. 52).

Nell’ottica di Tocci, la riabilitazione concettuale del populismo

costituisce la premessa per riconoscere il fallimento della sinistra

italiana (e in particolare del Partito Democratico) dinanzi al

compito della «costruzione politica» di un popolo. Più in generale,

quelle stesse intuizioni possono essere estese anche allo stesso

triangolo Stato-partiti-società. Forse dovremmo infatti chiederci

se non sia già fuorviante intendere quella relazione come un

triangolo, i cui vertici risultano più o meno saldamente legati gli

uni agli altri. Perché dovremmo chiederci se sia davvero corretto

considerare la ‘società’ come una realtà distinta dallo Stato e dai

partiti. Non solo perché, nel corso del XX secolo, i partiti si sono

insediati capillarmente nella società o perché lo Stato sociale ha

invaso la società, ridefinendone i tratti e forse persino

riducendone l’autonomia. Il punto è piuttosto che dovremmo

iniziare a concepire la società, i suoi bisogni e i suoi ‘interessi’

come un prodotto politico, e cioè come il risultato di una

determinata ‘rappresentazione’ della società e delle sue diverse

componenti. Ciò è piuttosto evidente in quelle visioni del pensiero

liberale che raffigurano l’individuo come un consumatore che

agisce spinto in modo esclusivo dal proprio interesse economico,

mentre tutti gli altri soggetti collettivo non sono altro che

alterazioni di questa dinamica ‘naturale’. Ma questo è evidente

che anche in quelle visioni che ritrovano nella società il corpo

sano della nazione, da preservare e rafforzare, o la realtà della

classe operaia, con i suoi interessi e la sua storica missione di

emancipazione.

Naturalmente non sono solo i partiti a produrre le

rappresentazioni della società. Ma forse possiamo riconoscere

che i partiti del XX secolo – proprio i vecchi partiti di massa che

sono ormai tramontati – hanno avuto la capacità di assolvere,

insieme alle altre, la funzione della «costruzione politica» di un

popolo, di rappresentazione della società e di definizione delle

fratture politiche. Se è evidente che oggi quella funzione non

viene più svolta dai partiti contemporanei, non è detto che il

modo migliore per pensare al partito ‘oltre il Novecento’ – e oltre

la realtà dei «partiti Stato-centrici» – non passi proprio da questa

strada. E dunque non è affatto escluso che la vera funzione dei

partiti debba essere ricercata non nella (perduta) ‘mediazione’ fra

Stato e società, ma proprio nella ‘costruzione’ politica del popolo

e della società.

Damiano Palano

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