Correre verso il nulla fra colori e sonorità fiabesche. Fassbinder

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di FRANCESCA BORRELLI ●●●Diversamente da tanti altri scrittori che sono andati accordan- do i propri strumenti nel tempo, DeLillo esordì con una voce deci- sa, scandita da punte di asseverati- vità affidate a stilemi che inchioda- no alla pagina associazioni menta- li cui sarebbe rimasto fedele nei decenni. Sia dal punto di vista stili- stico che da quello tematico, ricor- renze via via più insistite determi- nano la riconoscibilità di uno scrit- tore le cui prime prove romanze- sche risalgono agli anni ’70 appe- na avviati; alle spalle qualche rac- conto, e davanti una produttività inizialmente molto intensa, che avrebbe trovato il suo vertice di compattezza formale poco meno di quindici anni dopo, con Rumo- re bianco. Tuttavia, DeLillo non è – come altri – autore di una sola grande opera i cui diversi momenti sareb- bero provvisorie stazioni dove so- stano materiali pronti a trasmigra- re nel titolo successivo e prove- nienti da un magazzino già satu- ro di quelle stesse idee, locuzioni, blocchi tematici. Quasi ogni suo romanzo, infatti, contiene una nuova sfida rappresentativa, che si gioca sul piano dei contenuti af- frontati – la storia americana, il rapporto con il tempo e con il do- lore, gli esiti del consumismo, la violenza e la paura intrinseche al- le nostre vite postmoderne, i luo- ghi sprofondati nella terra dove si svolgono esperimenti atomici e dove si seppellisce la spazzatura, – e solo secondariamente investe la lingua, perché lì lo stato di fi- brillazione è sempre subliminale, in attesa di guadagnare la superfi- cie in brevi esplosioni lessicali, fulminei contatti emotivi di paro- le che si associano al di là della lo- ro consequenzialità logica. La lingua è per DeLillo un mo- vente di tensione esasperata e co- stante ma non è mai un pretesto intorno al quale costruire, di volta in volta, involucri tematici che giu- stifichino autoreferenziali esercizi stilistici. L’antintellettualismo così profondamente americano di De- Lillo, associato alla sua naturale di- sposizione filosofica, determina quello straniamento tanto attraen- te che si sprigiona dalle sue pagi- ne, indipendentemente da ciò che vi si racconta. È quasi in uno stato ipnotico, per esempio, che si segue il rac- conto affollato da tecnicismi di una partita di football americano in End Zone, secondo romanzo pubblicato dallo scrittore nel 1972 e tradotto per la prima volta ora, con perfetta intonazione, da Federica Aceto (Einaudi, pp. 256 19.50, in uscita martedì). Rac- contato in prima persona, il libro ha per protagonista Gary Hark- ness, un ragazzo proveniente da una minuscola cittadina dei mon- ti Adirondack, approdato al Lo- gos College (nome fin troppo elo- quente) dopo essere stato sbattu- to fuori, per motivi diversi, da tre università. Fra un intervallo e l’al- tro, la sperimentazione della noia e del tempo svuotato fino all’intol- lerabile, consentono a Gary di mettere a fuoco la sua «semplice verità»: «Senza il football la mia vi- ta non aveva senso.» Così, accetta l’ingaggio nella squadra di quella università sper- duta nel deserto del Texas occi- dentale, «una terra intontita, inva- riabilmente spenta, una landa ri- dotta al silenzio dalle sue stesse origini nel caldo ruggente, nata morta, pietre piatte a segnare il luogo di sepoltura della memo- ria.» Nelle ore libere dagli allenamen- ti, Gary sviluppa una predilezione per testi che immaginano le deva- stazioni indotte da una guerra nu- cleare: metropoli distrutte, decine di milioni di morti, scenari apoca- littici che si aprono al suono di pa- role prima sconosciute, capaci di esercitare su di lui una «eccitazio- ne pressoché sensuale». DeLillo sperimenta, tra queste pagine, il primo tentativo di quel- la associazione tra lo sport e la guerra che troverà la sua più com- piuta esplicitazione in Underwor- ld, dove uno dei personaggi osser- va come il nucleo radioattivo di una bomba atomica sia della stes- sa grandezza di una palla da base- ball, quella palla che passando di mano in mano istituisce un lega- me tra i diversi personaggi del ro- manzo che ne entreranno via via in possesso. Tutto ciò che avrebbe occupato le quasi novecento pagi- ne di Underworld, del resto, era co- minciato con la leggendaria parti- ta tra i Giants e i Dodgers al Polo Grounds di New York, lo stesso giorno dell’ottobre 1951 in cui l’Unione Sovietica faceva esplode- re una bomba atomica a scopo di test nucleare. Qui, invece, Gary si accontenta di alternare le sue estenuanti per- formance da running back a fre- quentazioni come uditore di corsi dell’aeronautica; ma quando il maggiore, suo insegnante, gli offre di arruolarsi Gary risponde che non ne ha la minima intenzione: della guerra – infatti – gli interessa solo «l’aspetto ipotetico». Il suo esi- lio in quel college situato in una landa rocciosa, popolata solo da in- setti, gli evoca «immagini da fine della storia e una meravigliosa sen- sazione di distanza che mi incen- diava l’anima»; ma questa desola- zione geografica offre a Gary an- che l’opportunità di fortificarsi: «il piccolo monaco fanatico che vive- va aggrappato al mio fegato anda- va a nozze con questi frammenti di ascetismo». E ci sono, comun- que, i compagni di gioco: Taft Ro- binson, l’unico nero della squadra, venerato per la sua straordinaria velocità; Anatole Bloomberg, ap- prodato in quella università remo- ta per emanciparsi dalla storica col- pa intriseca alla sua condizione di ebreo; Billy Mast, che frequenta un corso a numero chiuso sull’indi- cibile da cui è escluso chi conosce il tedesco. E c’è il coach Emmett Creed, il cui unico vero potere – di- ce Gary – stava «nel negarci le paro- le di cui avevamo bisogno.» Lunghe pagine sono dedicate al- la descrizione di una partita anda- ta male: le si legge rapiti senza ca- pire nulla di quanto sta avvenen- do in campo, ma attratti dalla pre- cisione, dalla asciuttezza radicale di un gergo tecnico che a volte va a parare in improvvisi squarci di li- rismo al limite del nonsense. Ciò che interessa DeLillo sta ai due estremi di quanto si aspetta dal linguaggio: ci sono parole – fa di- re a uno studente – alle quali gli uomini «si mantengono fedeli fi- no alla tomba… perché altri uomi- ni prima di loro hanno fatto lo stesso, e forse è più facile morire che ammettere che le parole pos- sano essere svuotate del loro signi- ficato.» Ma più illuminante anco- ra è il commento di Gary al cartel- lo che il padre ha appeso alla sua porta: quando il gioco si fa duro/ i duri cominciano a giocare. «Natu- ralmente quel motto di per sé non era particolarmente esaltan- te, ma avevo l’impressione che fosse dotato di una bellezza che scaturiva dalle parole stesse, dalle lettere, dalle consonanti che in- ghiottivano le vocali, aggressività e tenerezza… Una scoperta al- quanto sinistra da fare a quell’età: le parole hanno la capacità di sot- trarsi al loro significato». Piccoli pezzi di bravura testimo- niano la precoce sicurezza di De- Lillo, all’alba della sua carriera: ce n’è uno esilarante in cui viene da- to il solenne annuncio del fatto che fra i giocatori potrebbe esserci un frocio («queer»); e ce n’è un al- tro in cui lo shock di una cattiva notizia, unito al piacere di farsene latori, si esprime nella reiterazio- ne delle stesse identiche parole, quattro, cinque volte, finché l’arti- ficio retorico non conquista il pri- mo piano proiettando sullo sfon- do il contenuto della notizia. E c’è il pezzo in cui i giocatori di foot- ball, nei minuti che precedono la partita, si incitano a vicenda con grida bestiali, poi si abbandonano a gare di produzione escrementi- zia, e infine sull’autobus che li ri- porta a casa esibiscono l’inventa- rio degli infortuni subiti. E c’è un altro passaggio in cui Gary incon- tra il responsabile della comunica- zione adibito a rilanciare l’immagi- ne del College puntando sulla sua squadra di football: il tamarro si fa trovare con la faccia rivolta verso una lampada solare, gli occhi co- perti da una striscia di alluminio, l’eloquio triviale sintonizzato con gli slogan del marketing. Il suo dia- logo con Gary, per quanto breve, basterebbe da solo a testimoniare la precoce attitudine di DeLillo a rendere vivo un personaggio. OLTRE LA LINGUA DEL FOOTBALL 27 APRILE 2014 ANNO IV, N°17 DOMENICA SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» MA R I WU MING OR ECC HIO R A ST E LL O V A L E R IO WEI G E L BR ENDE L D ÖBL IN F A SSB INDE R MOSTR AA UGUST EA 1937 CA T ACOMB EA P A R I G I TRADOTTO PER LA PRIMA VOLTA IL SECONDO ROMANZO DI DON DELILLO, «END ZONE», PUBBLICATO NEL 1972. LO SPORT ASSOCIATO ALLA GUERRA, E LA RICERCA DELLA FRASE PERFETTA

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di FRANCESCA BORRELLI

●●●Diversamente da tanti altriscrittori che sono andati accordan-do i propri strumenti nel tempo,DeLillo esordì con una voce deci-sa, scandita da punte di asseverati-vità affidate a stilemi che inchioda-no alla pagina associazioni menta-li cui sarebbe rimasto fedele neidecenni. Sia dal punto di vista stili-stico che da quello tematico, ricor-renze via via più insistite determi-nano la riconoscibilità di uno scrit-tore le cui prime prove romanze-sche risalgono agli anni ’70 appe-na avviati; alle spalle qualche rac-conto, e davanti una produttivitàinizialmente molto intensa, cheavrebbe trovato il suo vertice dicompattezza formale poco menodi quindici anni dopo, con Rumo-re bianco.

Tuttavia, DeLillo non è – comealtri – autore di una sola grandeopera i cui diversi momenti sareb-bero provvisorie stazioni dove so-

stano materiali pronti a trasmigra-re nel titolo successivo e prove-nienti da un magazzino già satu-ro di quelle stesse idee, locuzioni,blocchi tematici. Quasi ogni suoromanzo, infatti, contiene unanuova sfida rappresentativa, chesi gioca sul piano dei contenuti af-frontati – la storia americana, ilrapporto con il tempo e con il do-lore, gli esiti del consumismo, laviolenza e la paura intrinseche al-le nostre vite postmoderne, i luo-ghi sprofondati nella terra dove sisvolgono esperimenti atomici edove si seppellisce la spazzatura,– e solo secondariamente investela lingua, perché lì lo stato di fi-brillazione è sempre subliminale,in attesa di guadagnare la superfi-cie in brevi esplosioni lessicali,fulminei contatti emotivi di paro-le che si associano al di là della lo-ro consequenzialità logica.

La lingua è per DeLillo un mo-vente di tensione esasperata e co-stante ma non è mai un pretesto

intorno al quale costruire, di voltain volta, involucri tematici che giu-stifichino autoreferenziali esercizistilistici. L’antintellettualismo cosìprofondamente americano di De-Lillo, associato alla sua naturale di-sposizione filosofica, determinaquello straniamento tanto attraen-te che si sprigiona dalle sue pagi-ne, indipendentemente da ciòche vi si racconta.

È quasi in uno stato ipnotico,per esempio, che si segue il rac-conto affollato da tecnicismi diuna partita di football americanoin End Zone, secondo romanzopubblicato dallo scrittore nel1972 e tradotto per la prima voltaora, con perfetta intonazione, daFederica Aceto (Einaudi, pp. 256€19.50, in uscita martedì). Rac-contato in prima persona, il libroha per protagonista Gary Hark-ness, un ragazzo proveniente dauna minuscola cittadina dei mon-ti Adirondack, approdato al Lo-gos College (nome fin troppo elo-quente) dopo essere stato sbattu-to fuori, per motivi diversi, da treuniversità. Fra un intervallo e l’al-tro, la sperimentazione della noiae del tempo svuotato fino all’intol-lerabile, consentono a Gary dimettere a fuoco la sua «sempliceverità»: «Senza il football la mia vi-ta non aveva senso.»

Così, accetta l’ingaggio nella

squadra di quella università sper-duta nel deserto del Texas occi-dentale, «una terra intontita, inva-riabilmente spenta, una landa ri-dotta al silenzio dalle sue stesseorigini nel caldo ruggente, natamorta, pietre piatte a segnare illuogo di sepoltura della memo-ria.»

Nelle ore libere dagli allenamen-ti, Gary sviluppa una predilezioneper testi che immaginano le deva-stazioni indotte da una guerra nu-cleare: metropoli distrutte, decinedi milioni di morti, scenari apoca-

littici che si aprono al suono di pa-role prima sconosciute, capaci diesercitare su di lui una «eccitazio-ne pressoché sensuale».

DeLillo sperimenta, tra questepagine, il primo tentativo di quel-la associazione tra lo sport e laguerra che troverà la sua più com-piuta esplicitazione in Underwor-ld, dove uno dei personaggi osser-va come il nucleo radioattivo diuna bomba atomica sia della stes-sa grandezza di una palla da base-ball, quella palla che passando dimano in mano istituisce un lega-

me tra i diversi personaggi del ro-manzo che ne entreranno via viain possesso. Tutto ciò che avrebbeoccupato le quasi novecento pagi-ne di Underworld, del resto, era co-minciato con la leggendaria parti-ta tra i Giants e i Dodgers al PoloGrounds di New York, lo stessogiorno dell’ottobre 1951 in cuil’Unione Sovietica faceva esplode-re una bomba atomica a scopo ditest nucleare.

Qui, invece, Gary si accontentadi alternare le sue estenuanti per-formance da running back a fre-quentazioni come uditore di corsidell’aeronautica; ma quando ilmaggiore, suo insegnante, gli offredi arruolarsi Gary risponde chenon ne ha la minima intenzione:della guerra – infatti – gli interessasolo «l’aspetto ipotetico». Il suo esi-lio in quel college situato in unalanda rocciosa, popolata solo da in-setti, gli evoca «immagini da finedella storia e una meravigliosa sen-sazione di distanza che mi incen-diava l’anima»; ma questa desola-zione geografica offre a Gary an-che l’opportunità di fortificarsi: «ilpiccolo monaco fanatico che vive-va aggrappato al mio fegato anda-va a nozze con questi frammentidi ascetismo». E ci sono, comun-que, i compagni di gioco: Taft Ro-binson, l’unico nero della squadra,venerato per la sua straordinariavelocità; Anatole Bloomberg, ap-prodato in quella università remo-ta per emanciparsi dalla storica col-pa intriseca alla sua condizione diebreo; Billy Mast, che frequentaun corso a numero chiuso sull’indi-cibile da cui è escluso chi conosceil tedesco. E c’è il coach EmmettCreed, il cui unico vero potere – di-ce Gary – stava «nel negarci le paro-le di cui avevamo bisogno.»

Lunghe pagine sono dedicate al-la descrizione di una partita anda-ta male: le si legge rapiti senza ca-pire nulla di quanto sta avvenen-do in campo, ma attratti dalla pre-cisione, dalla asciuttezza radicaledi un gergo tecnico che a volte vaa parare in improvvisi squarci di li-rismo al limite del nonsense. Ciòche interessa DeLillo sta ai dueestremi di quanto si aspetta dallinguaggio: ci sono parole – fa di-re a uno studente – alle quali gliuomini «si mantengono fedeli fi-no alla tomba… perché altri uomi-ni prima di loro hanno fatto lostesso, e forse è più facile morireche ammettere che le parole pos-sano essere svuotate del loro signi-ficato.» Ma più illuminante anco-ra è il commento di Gary al cartel-lo che il padre ha appeso alla suaporta: quando il gioco si fa duro/ iduri cominciano a giocare. «Natu-ralmente quel motto di per sénon era particolarmente esaltan-te, ma avevo l’impressione chefosse dotato di una bellezza chescaturiva dalle parole stesse, dallelettere, dalle consonanti che in-ghiottivano le vocali, aggressivitàe tenerezza… Una scoperta al-quanto sinistra da fare a quell’età:le parole hanno la capacità di sot-trarsi al loro significato».

Piccoli pezzi di bravura testimo-niano la precoce sicurezza di De-Lillo, all’alba della sua carriera: cen’è uno esilarante in cui viene da-to il solenne annuncio del fattoche fra i giocatori potrebbe esserciun frocio («queer»); e ce n’è un al-tro in cui lo shock di una cattivanotizia, unito al piacere di farsenelatori, si esprime nella reiterazio-ne delle stesse identiche parole,quattro, cinque volte, finché l’arti-ficio retorico non conquista il pri-mo piano proiettando sullo sfon-do il contenuto della notizia. E c’èil pezzo in cui i giocatori di foot-ball, nei minuti che precedono lapartita, si incitano a vicenda congrida bestiali, poi si abbandonanoa gare di produzione escrementi-zia, e infine sull’autobus che li ri-porta a casa esibiscono l’inventa-rio degli infortuni subiti. E c’è unaltro passaggio in cui Gary incon-tra il responsabile della comunica-zione adibito a rilanciare l’immagi-ne del College puntando sulla suasquadra di football: il tamarro si fatrovare con la faccia rivolta versouna lampada solare, gli occhi co-perti da una striscia di alluminio,l’eloquio triviale sintonizzato congli slogan del marketing. Il suo dia-logo con Gary, per quanto breve,basterebbe da solo a testimoniarela precoce attitudine di DeLillo arendere vivo un personaggio.

OLTRE LA LINGUADEL FOOTBALL

27 APRILE 2014ANNO IV, N°17

DOMENICA

SUPPLEMENTO SETTIMANALEDE «IL MANIFESTO»

MARI •WUMING •ORECCHIO • RASTELLO • VALERIO•WEIGEL • BRENDEL •DÖBLIN • FASSBINDER •MOSTRA AUGUSTEA 1937 •CATACOMBE APARIGI

TRADOTTO PER LA PRIMA VOLTAIL SECONDO ROMANZO DI DON DELILLO,«END ZONE», PUBBLICATO NEL 1972.LO SPORT ASSOCIATO ALLA GUERRA,E LA RICERCA DELLA FRASE PERFETTA

(2) ALIAS DOMENICA27 APRILE 2014

DAVIDE ORECCHIO ■ «STATI DI GRAZIA»

Vite e destini incrociatifra Sicilia e Argentina

MICHELE MARI ■ «RODERICK DUDDLE», SFIDA A ILLUSTRI ESEMPI LETTERARI

Un Oliver Twist di oggisu tracce narrative di ieri

WU MING ■ «L’ARMATA DEI SONNAMBULI»

Storie di sconfittiall’ombra del Terrore

di CARLO MAZZA GALANTI

●●●In un racconto diventato di culto tra ilettori di Michele Mari, intitolato «Otto scrit-tori», il narratore immagina un unico autorecon otto grandi nomi, una specie di idra let-teraria che racchiuda in sé l’essenza del ro-manzo di mare. Alcuni di quegli otto nomisono gli stessi che compongono l’identitàmultipla e fantomatica dell’autore di Roderi-ck Duddle (Einaudi, pp. 496, € 22,00), quelloche si nasconde dietro l’unico nome stampa-to in copertina: Melville, Poe, Conrad, Ste-venson, a cui bisognerà aggiungere Dickens,che non è autore di mare ma almeno dellaprima parte di questo romanzo è la principa-le matrice.

La storia è quella di un novello OliverTwist inconsapevolmente latore di una riccaeredità, con tanto di medaglione a garanziadel lascito, il quale viene risucchiato in un

vortice di complotti truci e dementi messi inatto da un discreto numero di adulti interes-sati ad approfittare di lui: avvocati, avanzi digalera, suore spietate, puttane e gestori dibordelli. La narrazione avanza intricata e in-calzante fino alla fuga di Roderick su una go-letta, tra marinai terribili e affascinanti, tem-peste, ammutinamenti.

L’adesione ai temi, all’immaginario, allestrutture narrative, persino l’intonazione delnarratore (ironico, sornione, prodigo di com-plici apostrofi al lettore secondo una lineapiù sterniana-diderottiana, in questo caso) ècosì precisa, così naturale, che i sottotestipassano rapidamente in secondo piano equello che ci resta tra le mani è un oggettoparadossale, una sfida alla storia della lette-ratura che soltanto uno autore intriso fino almidollo dell’influsso dei suoi padri poteva af-frontare con successo: un romanzo ottocen-tesco puro e semplice. Roderick Duddle sem-

bra «vero», come sembrano veri i sogni, e co-me i sogni paiono emergere da un altroveche non ci appartiene, così questo romanzosembra sfuggire alla paternità del suo autorelegale, esempio concreto e un po’ mostruo-so di borghesiana cancellazione di ogni origi-ne nel labirinto della biblioteca universale.La perfomance è ancora più notevole se con-sideriamo che proviene da un scrittore cheha impresso il proprio inconfondibile mar-chio in ogni libro, facendo della sua cifra stili-stica il cuore e il sangue della propria opera.

Tra i suoi lavori passati soltanto Io venìapien d’angoscia a rimirarti, geniale roman-zetto pseudo-leopardiano recentemente ri-proposto da Cavallo di ferro, potrebbe ricor-dare il «passo a lato» che Mari ha compiutoscrivendo Roderick Duddle: ma dove c’eraaperta finzione e gusto antiquario della falsi-ficazione adesso c’è illusione, dove c’era imi-tazione ora c’è transfert: identificazione pres-

soché totale. Il manierismo e l’artificiositàiperletteraria hanno lasciato il posto a unostile piano, preciso e pulito; il ritmo deglieventi, l’aggrovigliarsi degli intrighi, l’intro-mettersi del poliziesco, quindi del romanzod’avventura, occupano per intero la mentedel lettore privandolo del piacere «adulto» diallontanarsi dalla trama e accostarsi alla vi-sione dell’autore. Impressionante la precisio-ne dei dettagli: dove un romanziere america-no avrebbe ingaggiato una squadra di docu-mentalisti, Mari sembra lavorare per sola vir-tù di memoria letteraria (o quasi). La riscrit-tura, il citazionismo, la parodia sono giuntea un tale grado di perfezione formale da cam-biare natura, da farsi natura; ogni traccia disecondo grado scompare e persino gli am-miccamenti (come le note del traduttore)non fanno che aumentare l’effetto di averetra le mani un oggetto autentico.

Mari ha sempre ri-scritto, ha sempre esibi-to apertamente il «beneficio dell’influenza»come l’ha definito, ribaltando la formula diBloom, in una bella intervista pubblicata direcente sul sito «Le parole e le cose». Ha inol-tre costantemente ricamato sulla fascinazio-ne bovaristica del bambino asociale che vi-ve per procura la sua vita attraverso i libri:ora infine tutto ciò è realizzato, compiuto, ilcitazionismo è diventato lettera e quel bam-bino siamo noi, rapiti da una fantasia di altritempi. C’era nostalgia e sofferenza in ognipagina, in ogni romanzo e racconto di que-sto autore: la nostalgia di una scrittura po-stuma, rivolta al passato, condannata a vive-re in una prigione di carta, e non era questol’ultimo motivo della bellezza dei suoi libri.Adesso è come se le premesse della poeticadi Mari, portate all’estremo, si fossero annul-late: il prigioniero è diventato la sua prigio-ne, è dunque libero, è fuori, nel mondo chesognava. Il dolore è scomparso, lo sostitui-sce una tregua, il piacere della fuga, il diverti-mento beato e ottuso del romanzo romanze-sco come lo abbiamo ereditato dalla suaepoca più gloriosa. E pazienza se il mondova a rotoli, meglio, anzi, se fuori piove, se glielementi si scatenano mentre al sicuro, suldivano, possiamo felicemente abbandonar-ci al nostro vizio impunito.

di ANDREA COLOMBO

●●●Marianna non ha pelle d’alaba-stro, mani curate, capelli lucidi sotto ilberretto frigio. Ha le dita rovinate di chipassa la vita tra la cucina e il lavoro amaglia. Però non sferruzza più solo neituguri popolari del Faubourg Saint-An-toine, roccaforte giacobina, ma anchedi fronte alla Convenzione rivoluziona-ria. Non parla il francese di Chateau-briand, ma il gergo dialettale e ruvidodei quartieri popolari e lo fa sentire for-te e chiaro nel cuore del potere, perchéla Rivoluzione è questo: dare voce a chinon ne aveva, affidare potere a chi hasempre dovuto subirlo.

Tra i molti personaggi di L’armata deisonnambuli (Stile libero, Einaudi, pp.796, € 21.00) l’ultimo romanzo del col-lettivo Wu Ming, che eguaglia e forse su-pera il capolavoro d’esordio Q, firmatoallora Luther Blisset, la vera protagoni-sta è lei, Marianna, il simbolo collettivodelle donne di Parigi e del popolo di Pa-rigi, il cuore sconfitto della Rivoluzione.Ha molti nomi e molti volti: quelli diMarie Nozière, l’operaia dei sobborghiche forse era antenata della famosissi-ma parricida Violette Nozièere, di Clai-re Lacombe, l’attrice proto-femministache tentò di forzare la mano a Robe-spierre reclamando il compimento del-la Rivoluzione nei fatti e non solo nellalettera della Costituzione, della sua ami-ca Paoline Lèon, co-fondatrice della So-cietà delle Repubblicane Rivoluziona-rie, quella che chiedeva di armare e ar-ruolare le donne della Rivoluzione.

Sono personaggi reali, pur se roman-zati, le protagoniste dimenticate dellaGrande Rivoluzione, il lato in ombra del-la storia. Come sono veri quasi tutti glialtri protagonisti di questa epica sagadel Terrore e della Controrivoluzione:l’attore italiano Leonida Modonesi,che, chissà, forse era davvero il rivolu-zionario in maschera diventato dopoTermidoro l’eroe del popolo sconfittodei sobborghi, Scaramouche; il medicoOrphée d’Amblanc, esperto in quelloche si chiamava allora «mesmerismo»,la tecnica d’ipnosi che aveva avuto ilsuo momento di gran gloria in Europasubito prima della Rivoluzione e che,

nella versione dei Wu Ming somiglia al-la Forza di Star Wars. E con loro tutti glialtri, troppi per nominarli tutti, i popola-ni e i dotti, le rivoluzionarie e le cortigia-ne, i sanculotti e i «muschiatini», comevengono qui definiti i «moscardini», latruppa controrivoluzionaria compostada giovani piccolo-borghesi travestitida aristocratici che erano anch’essi, sen-za volerlo e senza saperlo, agenti dellatrasformazione, perché quando mai ilvero ancien régime avrebbe tolleratoche una simile plebglia si camuffasseda squisiti ci-devant?

Di libro in libro, i Wu Ming hannomesso a punto una formula magica cheè facile imitare e difficilissimo eguaglia-re. Lavorano con cura meticolosa sullarealtà storica, ma riescono a farla parla-re con altrettanta precisione del presen-te: questa vicenda di rivoluzione e con-trorivoluzione, cosa ben diversa dallamera restaurazione, è una parabola cheabbiamo vissuto anche noi, nell’Italiadegli ultimi decenni. Procedono lungo ibinari di una narrativa epico-popolare,che guarda a Dumas più che a Ken Fol-lett, ma allo stesso tempo lavorano sullinguaggio con passione sperimentaledegna della più sofisticata avanguardia.Di romanzo in romanzo, i Wu Ming per-seguono un progetto che è tanto lettera-rio quanto politico, spostare i riflettorisui dimenticati della storia, le insorgen-ze cancellate e oscurate dai vincitori per-ché se ne perdesse anche la memoria: icontadini d’Europa infiammati e poi tra-diti dalla Riforma in Q, i partigiani disar-mati e non domati del dopoguerra italia-no in Asce di guerra, le tribù guerriere edestinate allo sterminio nell’America diManituana, le rivoluzionarie e i sancu-lotti di Parigi in quest’ultimo romanzo.Sono storie di sconfitte che invece discoraggiare accendono speranze e resti-tuiscono fiducia. Dicono che, comun-que sia finita, è valsa ogni volta la penadi lacerare, anche solo per un momen-to, l’ordine eterno delle cose. Avvertonoche, per quanto invincibile sembri dopoogni sconfitta il potere, ci sarà sempre,di nuovo, chi sceglierà di camminaresulla testa dei re nel grande spettacolodella Rivoluzione, dove le comparse di-ventano protagonisti.

di G. P.

●●●Un’agiata famiglia siciliana quella degliOlivieri, costituita da padre, madre e quattro ra-gazze di età e di indole varia, porte che si apro-no e si chiudono come sipari che ammettonoo escludono, porte-finestre che danno all’ester-no, soglie poste a protezione di spazi chiusi; epoi il mare, sempre presente e visibile, dovetutto ciò che accade diventa finalmente fermo

e vero, quasi che non si dia dimensione di veri-tà e di autenticità se non davanti al mare, l’inte-ro, e che il sole, i bagni e la tettoia sotto la qua-le i membri della famiglia vanno ad asciugarsiabbiano il potere di portare a compimento iprocessi di comunicazione e di individuazio-ne, perché solo davanti al mare i membri diquesta famiglia parlano davvero e tornano cen-trati su se stessi, riacquistando la capacità diorientarsi e di agire. Il testo di Paola Camassa,La Potente (Nottetempo, pp. 121, € 11,00) svol-ge il tema della famiglia e della lacerazione cheva a turbarne gli assetti: qualcuno rivela allamadre che il padre ha una relazione extraco-niugale. La voce narrante appartiene alla terzadelle figlie, quella più indulgente verso l’infra-zione compiuta dal padre, l’unica che gli obbe-disce quando le altre, schierate a sostenere econdividere il dolore della madre, lo ignoranoo gli mostrano aperto risentimento.

Paola Camassa, al suo primo romanzo, svol-ge la professione di psicoanalista e il testo met-te in scena una delle più classiche situazioniche portano a bussare alla porta di un analista:

il tradimento del compagno, il crollo psichicoche ne consegue e il collasso dei rapporti affet-tivi che va a travolgere l’intero nucleo familia-re. La storia è narrata per quadri narrativi flut-tuanti, il presente e il passato si alternano, e co-sì i punti di vista. Il testo nel suo insieme si con-figura come il processo di ricomposizione at-tuato da uno dei soggetti interessati rispetto auna storia familiare le cui immagini si rifrango-no e si disperdono senza convergere verso unpunto di prospettiva unitario. La rottura è statacomunque irrimediabile e dunque la narrazio-ne non può che rendere testimonianza di unaunità della coppia e del nucleo familiare incri-nati una volta per sempre.

La potente, ovvero la forte intesa sessuale diuna coppia, mostra un volto nuovo. Anchel’aspetto tipografico inusuale delle pagine, coni due punti che introducono le battute dei per-sonaggi, conferma che il testo è offerto nellaforma di un materiale eterogeneo, che non èconcepibile come struttura unitaria, ma chesemmai dispone sul piano materiali di cui ilsoggetto dovrà decidere il senso e l’utilizzo.

SEI PROVE NARRATIVE IN FORMA DI ROMANZO

ITALIANA

PAOLA CAMASSA

«La potente», storiadi un tradimentoraccontato in analisi

di ANGELO FERRACUTI

●●●Comincia in modo misteriosol’ultimo libro di Davide Orecchio,Stati di grazia (il Saggiatore, pp.309, €16,00) con un cambiod’identità che è una delle tantecifre di questa narrazionecaleidoscopica, dove c’è unmescolarsi continuo di vita edestino, coraggio e morte, incontri,fughe improvvise e ritorni. Succedequando il maestro Paride Sanchis,che racconta la sua storia in ungiornale intimo – un uomoordinario della società ruralesiciliana del dopoguerra di Ennacon un matrimonio in crisi e unpessimo rapporto con sua figlia –decide di acquistare un bigliettoper Buenos Aires nell’intento di farperdere definitivamente le suetracce. L’episodio scatenante, lamolla che lo spinge a partire, e afuggire, pare essere la morte delsuo allievo Bartolo, uno dei tantistudenti costretti ad abbandonarela scuola e scegliere il gorgo dellaminiera, dove muore tragicamente

schiacciato da una roccia. Ma nonsarà lui a partire con queidocumenti. Un diversopersonaggio di questa complessamatrioska ne assumerà l’identitàdiventando di fatto «L’altro Paride»,scaraventato nell’agone di unaStoria feroce, quando «l’epocas’imbestialisce»: un personaggioche conoscerà l’Argentina cupadella dittatura e della tortura, e lalotta politica, insieme ai molti«Servi nella luce del giorno,compagni nello scuro: entranonella cricca per difendersi,protestare, stampare proteste,affiggere proteste, sabotaresoprusi». Troverà l’amore di unadonna, Ximena, con la qualecondividere la sua parte di destino,poi vedrà strapparsela via daglisgherri di Videla, che laimprigioneranno prima diucciderla barbaramente, per poiraccontare anche questa parte dellasua storia. Ma anche altri saranno i«testimoni» di quel momento, esuliargentini, politici, comel’indimenticabile Diego Wilchen,

Stefano Mosena, «Bocca», 2007; in alto, Italo Zuffi,«Perimetro», 2000, video

(3)ALIAS DOMENICA27 APRILE 2014

di GRAZIELLA PULCE

●●●Pare che il mondo si dividatra quelli che capiscono e amano lamatematica e quelli che ritengonodi non essere capaci di affrontarla ese ne tengono alla larga. In Italia imembri appartenenti al secondogruppo sono notevolmente più nu-merosi e per solito non se ne fannoun cruccio, anzi portano spesso atesta alta questa loro lacuna, quasifosse il distintivo di una oscura macerta nobiltà. Si discute molto sulperché la matematica susciti, danoi, così scarso entusiasmo, ma lastrada per una soluzione sembrapiuttosto lontana.

È possibile che il recente roman-zo L’almanacco del giorno prima diChiara Valerio (Einaudi, pp. 353, €20,00), lei stessa matematica e edi-tor, sia stato concepito per raccon-tare una storia che apra uno scor-cio suggestivo su alcuni argomentimatematici, applicati sia a un mon-do sconosciuto ai più, come quellodella finanza, le cui alchimie regola-no inimmaginabili flussi di denaro,sia all’ambito dei sentimenti, quan-do si tratta – per esempio – di ipotiz-zare la scelta di dare un bacio. Il let-tore entra dunque in contatto diret-to con il calcolo delle probabilità econ le formule che rendono perspi-cui e prevedibili i comportamentidegli individui e la possibilità cheun evento possa verificarsi.

Chiara Valerio lavora per far sìche diventi visibile ciò che normal-mente è invisibile: da un lato la stra-da che collega cervelli finissimi alletasche dei risparmiatori, dall’altrole probabilità che due persone si in-contrino e si amino. All’interno diquesto set viene introdotto il fatto-re della passione, componente in-trinseca dei comportamenti uma-ni, anche di quelli più improntati al-la razionalità.

La narrazione è articolata in partiche riflettono una scansione tantotemporale quanto ontologica: In-fanzia, Presente, Imperfetto, Doma-ni accadrà. Il libro, soprattutto laprima parte, è un tripudio di fanta-smagorie matematiche. Altro che ir-cocervi, anfesibene e liocorni! Pernutrire l’immaginazione si può ri-correre alla vertigine dei numerienigmatici per eccellenza, i numeriprimi con tutte le loro singolari pro-prietà. Che dire dei numeri triango-lari e di quelli dodecagonali? E del-le proprietà del 77? Quanto alla co-dificazione dei numeri sfenici, poi,si vorrebbe il numero di telefonodel reverendo Dodgson. La secon-da parte invece allinea una serie dimicrotesti, aforismi, battute perlo-più brevi e stereotipate. È appuntoil labirinto del presente, l’agglome-rato caotico e irritante, ordinabile ecomprensibile solo da fuori, assog-gettato alle coordinate legiferanti

del ‘non più’ e del ‘non ancora’.Alessio Medrano, il protagonista,

si occupa di ciò che ha a che farecon il fallimento, ovvero con quel-l’elemento che nel mondo finanzia-rio fino a qualche anno fa restavafuori dai calcoli economici e daimodelli di sviluppo e che è diventa-to invece determinante per preve-dere le scelte economiche degli in-dividui. In particolare Alessio com-pra Life Settlements, polizze assicu-rative a vita di cui l’intestatario, soli-tamente un anziano, non intende onon può sostenere ulteriormentegli oneri. Queste polizze, grazie auna sentenza emessa negli StatiUniti nel 1911 – ricorda l’autrice –sono di fatto una proprietà e cometale possono essere poste in vendi-ta: rappresentano uno degli ele-menti che compongono il cangian-te mondo dei titoli derivati, quelliche hanno contribuito alla crescitasmisurata dell’economia virtuale,la stessa da cui si è originata l’attua-le crisi. «Bond, edge, swap, e tuttequelle parole il cui significato ulti-mo è che i soldi erano o sarannotuoi, ma al presente, non sono tuoimai». Alessio deve calcolare il valo-re finanziario di qualcosa di resi-duale. Comprare le anime di questianziani gogolianamente ‘morte’ eriscuoterne un’ipotesi di sopravvi-venza: un fondo chiamato Orfeo dimilioni di euro vero come è veroche tutti gli intestatari prima o poimoriranno.

Alessio è rappresentato come uncervello che cerca di catturare l’im-magine probabile di un ordine delmondo: gli elenchi telefonici, cheda bambino studia e incredibilmen-te memorizza, le Life Settlements,l’amore per una donna ritrovata do-po decenni. Di fronte a una realtàche cambia in continuazione, il no-stro cervello, continuamente alla ri-cerca di proprietà costanti, ha mes-so a punto meccanismi grazie aiquali è possibile organizzare leesperienze per sopravvivere e ac-quisire conoscenze: l’intelligenza –scrive l’autrice – altro non è cheuna forma di predizione. Coglierela regolarità e la ritmicità dei muta-menti tuttavia non è sufficiente edè su questo che si gioca la scom-messa di questo complicato libro:la speculazione (nella finanza e nel-la filosofia) individua in una seriedi fenomeni ciò che è ordinabile eprevedibile, ma tutto quello chepuò produrre è un modello virtua-le. Questi anziani invece non inten-dono più pagare le polizze per la-sciare denaro a chi sopravviverà;vogliono invece agguantare il pre-sente e goderselo, abbandonare ilfuturo al buio delle Parche e scen-dere nell’incerta luce del loro gior-no. I soldi comprano altri soldi,non il tempo: i lupi della finanzanon hanno mai tempo perché so-no costantemente in fuga dal pre-sente.

«La nostra mente lavora per viearchitettoniche» aveva scritto Chia-ra Valerio in A complicare le cose,come a indicare la nostra facoltà disintetizzare passato e futuro in co-struzioni capaci di sostenere loscorrere del tempo. E anche qui ilprotagonista decide di uscire daglispazi rassicuranti dei diagrammi,correre il rischio di vivere qualcosadi imperfetto e organizzare il pro-prio presente con un elemento im-ponderabile come la passione: «De-vi fare le cose per passione, non pervolontà, la volontà è traditrice».

di ANGELO MASTRANDREA

●●●Leggendo un romanzo-veritàqual è I buoni di Luca Rastello (libroche inaugura la collana «Narrazioni»di Chiarelettere, pp. 204, € 14,00), èdifficile sottrarsi alla tentazione di ve-dere nei suoi protagonisti dei perso-naggi reali. Ed è ancora più arduo,per chi con quel mondo che raccon-ta ha avuto a che fare, arrivare all’ulti-ma pagina senza trascinarsi dietroun senso di inquietudine, come se lastoria che racconta riguardasse lui di-rettamente. I buoni è un libro chescuote dalle fondamenta la militan-za sociale così come l’abbiamo cono-sciuta dal crollo del Muro a oggi, nemette in discussione la stessa impal-catura. Mette in luce le zone d’om-bra del privato sociale, il suo viaggia-re su un doppio binario, quello pale-se «che si recita ogni giorno come unrosario» e che si nutre di un linguag-gio estremamente corretto, progres-sista, buonista. E quello occulto, do-ve un fine supremo e astratto giustifi-ca i mezzi concretamente adottati, ein cui i buoni, man mano che si sca-la la piramide del potere interna, esi-biscono il loro lato peggiore.

C’è Azalea, una ragazza dal nomedi un fiore sottratta a un destino se-gnato nei tombini di una città del-l’est da Andrea, un operatore umani-tario. E don Silvano, un «santo» im-pegnato a migliorare le sorti del-l’umanità e a intessere rapporti di po-tere quanto incurante di quello chegli accade attorno. Attorno a loro, unsottobosco di personaggi che gravita-no nel mondo del welfare privatizza-to, arruolati in un’associazione il cuiscopo principale è combattere le ma-fie, che organizza campi della legali-tà e coinvolge giovani desiderosi dimilitare per una buona causa. Manmano che il romanzo si srotola conagilità emerge la doppia morale dei«buoni»: politicamente attenti nellessico adoperato e nei messaggi lan-ciati all’esterno (è da grande oratoree politico consumato il sermone didon Silvano in occasione di una stra-ge operaia), ipocriti e poco attenti al-

le regole nei rapporti interni: i dipen-denti non vengono licenziati ma «ac-compagnati», la retorica del «questonon è un posto di lavoro» per chiede-re di lavorare di più senza compen-so, le accuse di «sindacalismo» a chisi oppone. Sono le contraddizioniche attraversano il «sociale» organiz-zato: la mancanza di chiarezza e leregole à la carte, il sacrificio impostoin nome di un ideale superiore, unpauperismo di facciata che nascon-de gestioni opache. E ancora, un ma-schilismo profondamente radicato eil cinismo di chi non si nega una bat-tutaccia, al termine dell’orazione fu-nebre di don Silvano: «Ma gli operaisono poi risorti?»

Rastello ha lamentato che questosuo lavoro, che denota una profon-da conoscenza degli ambienti e dellefigure che racconta, sia stato accoltocon troppa attenzione alla «verità» emolta meno al romanzo. Il contrariodi quello che accadde a ErmannoRea ai tempi di Mistero napoletano:per svilirlo alcuni esponenti del Pcinapoletano, di cui lo scrittore raccon-tava il lato oscuro e stalinista, lo de-classarono così: «È solo un roman-zo». È un equilibrio instabile, quellodei romanzi-verità, in cui il pendolo,a seconda delle convenienze, può vi-rare da una parte o dall’altra.

Perché arrovellarsi, dunque, allaricerca di visi familiari e fatti cono-sciuti quando questi non sono espli-citati (al contrario di quanto accade-va in Mistero napoletano)? Il libro diRastello racconta il lato oscuro dei«buoni», guardando dal di dentroun mondo che fa dell’etica la suabandiera e inchiodandolo alle pro-prie contraddizioni. Esso mette in di-scussione il modo in cui è organizza-to il cosiddetto terzo settore in Ita-lia, le sue ambiguità e le zone d’om-bra, la deriva mercatista che non harisparmiato proprio nessuno in que-st’inizio millennio dai sentimenti tri-sti. In fondo, racconta una storiaamara, sviscerata come un noir. Èun romanzo che racconta la verità ei suoi personaggi sono tutti e nessu-no. Non è poco.

GERENZA

LUCA RASTELLO ■ «I BUONI» DA CHIARELETTERE

Il lato opacodegli impegnati

In copertina di «Alias-D»,Garry Gay, «Old Footballon American Flag»;nella foto, Don DeLillo

VALERIO ■ «L’ALMANACCO DEL GIORNO PRIMA»

I rischi matematicidi una vita spesanella imperfezione

medico comunista arrivato nelvillaggio di Hölderlin pieno disogni: «Io. Voglio. Modificare ilmondo. Il mio intervento. Sullarealtà. I benefici che. Desidero.Portare. Donare. Al popolo. A chisoffre. A chi non ha i soldi perpermettersi cure.» Ma da testimonea testimone avviene anche unpassaggio di memoria (a un certo arischio di ingorgo per la presenzadi troppi personaggi e nomi) che ciporta nella Roma degli anni ’80 e sichiude nei giorni nostri a Enna neldiario di Rosaria Caccetta, nipote diParide Sanchis, e poi ancora asorpresa indietro nel tempo, dovetutto era cominciato. Quello checolpisce in questo libro, oltre alcomplesso montaggio dei materialinarrativi, la cui appendice rendemerito di una bibliografia presunta,riguarda i molti registri e variazionitimbriche, una visione coralepolifonica. La lingua è moltoelaborata, frutto di un lavoro, diuna ricerca letteraria assai rari negliscrittori della generazione diOrecchio: sempre densa, ricca,piena di simboli, ma anchecorporale, sensoriale, fatta di odorie sapori, congeniale alle vicenderaccontate, ai paesaggi e agliscenari che mutano come leepoche, anche quelle ricostruitecon abilità, a volte con l’aggiunta –tuttavia – di un appagatovirtuosismo ridondante che dàl’idea del troppo pieno, assolisperimentalistici chesovraccaricano il testo. Una lingualirica che ricorda quella di un altroscrittore, Vincenzo Consolo, alquale forse Orecchio deve qualchepaternità letteraria. Il ritmo èsempre molto incessante eansiogeno, un flusso energico eprensile che agglomera, trasporta,travolge come una piena e non dàtregua. In questo libro, che seguel’opera prima Città distrutte,Orecchio complica la sua ricercapur rimanendo fedele a unprocedimento narrativo chemescola reperto storico emenzogna romanzesca, narrazionetout court e reportage di viaggio,intuizione sociologica e vicendapolitico-sociale, con molti altrielementi che concorrono – in unsedimento di senso compatto ecomplesso, pieno di echi e riverberiinterni – a creare più forti risultatiespressivi e dell’immaginario di un‘900 da dopo esplosione,ricomposto con un effetto dominoin modo che «Ogni progetto, ognidestino che vuol farsi da solo.Prima o poi s’incastra.»

Nel romanzodi Chiara Valeriouna serie di calcolidelle probabilitàche riconduconoalle taschedei risparmiatori

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(4) ALIAS DOMENICA27 APRILE 2014

Pensiero e immaginisulla dialetticadella secolarizzazione

di ROBERTA ASCARELLI

●●●«Una intelligente e acuta di-chiarazione d’amore al vecchiomedium della letteratura». Così ilrecensore della Neue Zuercher Zei-tung definiva il libro che ha tra-ghettato Sigrid Weigel, germanistadi Berlino, femminista e critica mi-litante, nel vasto territorio deglistudi culturali. Quel libro, del2004, aveva un titolo ambizioso, Li-teratur als Voraussetzung der Kul-turgeschichten (Letteratura comepresupposto delle vicende cultura-li) e, contando sulla leggibilità delmondo, si affidava a una caparbiadecrittazione di segni, di quelliconservati nella pagina scritta, maanche di quelli consegnati alla raf-figurazione – topografie, foto,esempi di arte figurativa – alla ri-cerca di nuove piste nella interpre-tazione di autori irrinunciabili nel-la coscienza della modernità – daBenjamin, a Goethe e Kleist, aShakespeare. Nasce dalla abitudi-ne di collegare saperi anche il suolavoro su Benjamin titolato WalterBenjamin La creatura, il caso, le im-magini, uscito in Germania nel2008 e pubblicato ora da Quodli-bet nella inappuntabile traduzio-ne di Maria Teresa Costa (pp. 300,€ 24,00).

Pensare e lavorare per varchi, co-gliendo passaggi fino ad ora trascu-rati dalla critica, chiamare a raccol-ta frammenti e dominarli con lettu-re ampie e golose è la suggestionedi questo libro dedicato al filosofoberlinese: dieci saggi fascinosi, rap-sodici a volte, che si dilatano inpercorsi suggestivi, unendo comela corda di un equilibrista approdidiversi – nel rischio, nella perizia enella sorpresa di un lettore sa-pientemente disorientato.

Un filo rosso tematico, am-pio e accattivante, scorre trai vari capitoli. Si tratta della«dialettica della secolariz-zazione», titolo di un pro-getto accademico berline-se di cui la Weigel è statacoordinatrice e che aveval’obiettivo di cogliere la so-pravvivenza nascosta e de-formata di istanze religio-se in un’epoca dominatadalla sfida (dalla rinunciao dalla violenza) al ‘sacro’.In questa costellazioneBenjamin, pensatore osti-le alla alternativa tra seco-larizzazione e rinnova-mento religioso offre ma-teriali particolarmentepreziosi: sempre aperto ènelle sue posizioni spar-se ed eterogenee il con-fronto tra le dinamichedel profano e l’intensitàmessianica, evidente l’ambizione

di continuare a fecondare nel pen-siero e nella scrittura l’eredità del-la teologia (e quella biblica in mo-do tutto particolare) sia pure inechi spiazzanti e sfuggenti.

«Al centro di questo libro – scri-ve Sigrid Weigel – sta il riconosci-mento da parte di Benjamin delfatto che non pochi concetti delpensiero europeo, e soprattutto ipiù significativi – come quelli di vi-ta, uomo e giustizia – provengonodalla tradizione biblica». Un rico-noscimento che si radica nella vo-lontà che le tracce della Scritturaresistano ai movimenti convulsi espesso disorientati della secolariz-

zazione e si proietti verso un lega-me – cosi afferma con autorevolez-za Stéphane Mosès – con la rivela-zione biblica in un mondo senzaDio.

Oscuro è in Benjamin il luogodella sopravvivenza: non sarà nel-la teologia con la sua retorica inse-diata nella storia e neppure nella fi-losofia condannata da Blumen-berg a riempire il vuoto lasciatodall’allontanamento del divino.

Weigel ne cerca inizialmente letracce in quel confronto tra «il sa-cro» e la «creatura» che ispira scrit-ti rilevanti: lo studio sul drammabarocco, le pagine su Kraus e il sag-

gio sulla critica della violenza – inparticolare sul senso del dogmadella sacertà della vita e su quellenote sulla ‘violenza divina’ in cuiBenjamin si chiede cosa significaprescindere «in casi straordinari»dal comandamento divino di nonuccidere. Sono pagine di estremaricchezza di pensiero e di emozio-ni che, partendo dal confrontocon Schmitt giungono a coinvolge-re l’attualità – il dibattito sulla guer-ra santa, sugli attentatori, sugli Sta-ti canaglia che, oltrepassato l’ambi-to della teoria politica evocano mo-delli teologici o religiosi.

Più che nelle considerazioni

‘sociali’, Sigrid Weigel coglie la resi-stenza della parola biblica soprat-tutto nei suoi testi di critica lettera-ria, quelli su Kraus, su Kafka, sulleAffinità elettive o quelli assai piùproblematici su Brecht; la scorgenella poesia, lì dove si mettono inscena sfondamenti e trasfigurazio-ni e dove «qualcosa, al di là del po-eta irrompe nella parola poetica».Infine la cerca «nel suo pensieroper immagini, nelle sue immaginilinguistiche, di pensiero e dialetti-che», un ambito che illumina gliaspetti immaginali della scritturabenjaminiana e ricostruisce la qua-dreria immaginaria del filosofo:«Mentre la lingua poetica è rilevan-te per la sopravvivenza della lin-gua biblica, nelle immagini si trat-ta della sopravvivenza di significa-ti rituali, sacri e magici. Se la reli-gione sposta il regno del sacro trale nuvole, nelle nuvole dipinte da-gli artisti diventa percepibile l’ap-parire di questo ‘regno sacro’».

La riflessione sulla dialettica del-la secolarizzazione indietreggia(senza mai scomparire), per farespazio al tema della traduzione(per Benjamin e di Benjamin) e, so-prattutto, alla analisi delle immagi-ni: spezzoni di film, foto e fram-menti di capolavori della pittura ditutti i tempi sui quali Benjamin sisofferma (oltre i testi canonici, de-dicati rispettivamente all’Angelusnovus di Klee e alla Melancholia diDürer). Sono prove del caratterecaleidoscopico della scrittura diBenjamin, alchimista della cultu-ra, ma anche collezionista prontoa salvare ciò che sta per scompari-re, i «relitti di un mondo di sogni»(scrive nel saggio sul Surrealismo),considerando il recupero come at-to di sabotaggio contro la manipo-

lazione del presente e come retro-spettiva profezia.

Attraverso le immagini Benja-min instaura lo stesso rapporto al-chemico tra tradizione e contem-poraneità che ritroviamo nei rac-conti radiofonici ripubblicati re-centemente dalla Bur con il titoloBurattini, streghe e briganti (per lacura sapiente di Giulio Schiavoni).Sono scritti di «vigilanza laico-illu-minista» e antiautoritaria, eccentri-ci rispetto ai testi analizzati dallaWeigel, ma che pure appaiono al-trettanto ricchi di «speranza con-tro ogni speranza», di mescolanzee montaggi, di elementi eteroge-nei assemblati in un tessuto di de-scrizioni, visioni, esperienze diret-te e riflessioni che approdano infi-ne all’assalto alla «fodera grigia deltempo». In questo attraversamen-to di rovine che coinvolge in modopotente le immagini (e il loro rac-conto) Weigel illumina ciò che, ap-parentemente insignificante, puòassumere un valore epistemologi-co mentre coglie «lo sguardo fisio-gnomico» di Benjamin: «Non si

esagera – scrive Weigel – dicen-do che incisioni, pitture e stam-pe di artisti formano una partecostitutiva dell’epistemologiabenjaminiana [...]. Benjaminpredilige infatti la contempora-neità alla continuità, la scena al-la successione, i gesti alle asser-zioni, la somiglianza alla con-venzione: in breve, le immagi-ni ai concetti».

Il confronto con i contem-poranei si fa serrato: da con-trapposizioni, dialoghi o sug-gestioni emergono aspetti tra-scurati e affascinanti del filoso-fo berlinese e un vivido qua-dro d’insieme della Germaniaweimariana: da George con ilsuo circolo di sacerdoti dellapoesia e cultori dell’oltreuma-no, a Schmitt con le sue pro-spettive di secolarizzazione al-l’interno delle strutture di pote-

re della modernità, fino ad AbyWarburg di cui l’autrice coglie ine-dite influenze su Benjamin.

ALFRED BRENDEL

Minima moraliacon leggerezzaintorno all’artedel pianoforte:e l’incipriato Haydndiventa avanguardia

Lungo l’assesacro-profanola studiosatedesca montauna ricca seriedi materiali«teologici» e biblici

Teatro delle Marionette, Norimberga,XIX secolo

di ORESTE BOSSINI

●●●La figura del pianista scrittore è unclassico della letteratura musicale. Liszt èstato il capostipite di questa stirpe, come ditante altre forme della vita musicalemoderna, con i suoi numerosi scritti el’appassionata Vita di Chopin, grandetestimonianza letteraria del Romanticismomusicale. In tempi più recenti, abbiamoavuto esempi molto variegati di questogenere di saggismo, dalle riflessioniimprevedibili e illuminanti di Glenn Gouldalla divulgazione erudita di Charles Rosen.Alfred Brendel appartiene alla famiglia delprimo, come aveva già dimostrato nel suoprimo libro pubblicato in Italia da Adelphi,nel 2002, Il velo dell’ordine. Il saggistaBrendel, che ha terminato l’attivitàconcertistica nel 2008, ha pagato forse ilsuo tardivo successo nel nostro paese comeinterprete, sebbene si fosse qualificatosecondo alla prima edizione del ConcorsoBusoni di Bolzano nel 1949. Il suo primolibro infatti, Musical Thoughts andAfterthoughts, risale addirittura al 1976, maè stato tradotto in italiano soltanto nel 1997(Paradosso dell’interprete. Pensieri sullamusica, Passigli Editori). La relativalentezza del successo di Brendel nel nostropaese deriva dall’egemonia del repertoriovirtuosistico ottocentesco, che ha avuto un

peso preponderante sul pianismo italianorispetto allo stile classico. Gli autori piùvicini al mondo di Brendel, a cominciare daBeethoven, erano considerati fino a tempiabbastanza recenti materia daConservatorio e musica per intenditori, piùche nomi di richiamo per le sale daconcerto. Ancora oggi non è frequente neiprogrammi dei concerti pianistici trovareper esempio il nome di un genio dellasonata come Haydn, a cui Brendel riservaalcune osservazioni illuminanti nel suoultimo libro, Abbecedario di un pianista Unlibro di lettura per gli amanti del pianoforte,tradotto in maniera sottile e attenta a certesfumature del linguaggio tipiche dell’autoreda Clelia Parvopassu (Adelphi «PiccolaBiblioteca», pp. 96, € 12.00). In poche frasi,infatti, Brendel racchiude un immensopatrimonio di esperienza e di conoscenzadel mondo di Haydn, dipinto come«scopritore e avventuriero, inventore dinuove forme come la doppia variazione eprimo sovrano dell’elemento comico nelquartetto, nella sinfonia, nella sonata».Impossibile esprimere in maniera piùsintetica e calzante l’essenza della musicadi Haydn, rifuggendo dal cliché stantio delbrillante musicista settecentesco con lalivrea da servitore e la parrucca incipriata.Brendel ci insegna con poche frasi a leggerel’arte di Haydn in relazione al fermento del

tardo Illuminismo, ricco di umori eanimato dal desiderio di trovare nuoveforme espressive. Il grande pianista peròtocca questi temi quasi di sfuggita, conleggerezza, senza atteggiarsi a professore. Ilgusto per il comico, così vicino allo spiritodi Haydn, affiora in ogni letteradell’abbecedario, ravvivando l’interesse peri dettagli curiosi e le più disparateriflessioni, raccolte in maniera rapsodicanella forma di un alfabeto per amanti delpianoforte. Si trova un po’ di tutto, inquesta serie di aforismi. Ci sono dei breviritratti dei musicisti più amati da Brendel,da Bach a Brahms, schizzati a carboncinocon un unico tratto di pensiero, conimmagini di precisione fulminante. DiSchubert, per esempio, si dice che «le sueultime Sonate sono concepite in modoorchestrale e nell’esecuzione, quindi,dovrebbero far pensare a un’orchestra –salvo forse le ultime tre, che si avvicinanodi più a un quintetto d’archi». Dietro aun’osservazione in apparenza così innocuasi nasconde invece un’analisi penetrantedello stile tragico degli ultimi lavori, tra iquali spicca appunto il Quintetto con duevioloncelli, il vertice dell’espressionemusicale di Schubert. In ogni piega delmondo pianistico Brendel è capace discovare l’aneddoto divertente o ilparticolare rivelatore, come quando si

addentra a illustrare le caratteristiche delpedale. Al pianoforte poi dedica una dellevoci più ampie, considerato il generedell’epigramma, che si chiude con unaccenno al lavoro dei tecnici accordatori, aiquali rivolge un pensiero sorprendente perchi nutre il misticismo del tocco pianistico:«La mia collaborazione con loro è una delleesperienze più felici nella mia vita dimusicista». Sullo sfondo dell’Abbecedario,malgrado il tono leggero e umoristico, sicoglie una concezione dell’arte e dellamusica permeata di una profonda visioneetica, che forse si manifesta meglio neltermine originale tedesco Lesebuch, legatoalla pratica degli esercizi spirituali, che inquello italiano libro di lettura. Con unabattuta si potrebbe concludere che questoAbbecedario rappresenti i minima moraliadi un artista per tanti versi accostabile alleggendario Artur Schnabel, per il quale ilvecchio maestro Theodor Leshetizky coniòuna definizione molto perspicace: «Tu nonsarai mai un pianista. Tu sei un musicista».Probabilmente Brendel si sentirebbelusingato da un riferimento ad Adorno,perché i tanti dischi e concerti dedicati intanti anni di carriera a Beethoven, Mozart eSchubert rischiano di far dimenticare che ilpianista austriaco è stato anche ilprincipale interprete del Concerto perpianoforte di Arnold Schoenberg.

BENJAMIN«LA CREATURA, IL CASO, LE IMMAGINI»: UN’INDAGINE DI SIGRID WEIGEL SU WALTER BENJAMIN

(5)ALIAS DOMENICA27 APRILE 2014

di RAUL CALZONI

●●●«Sono tornato dalla guer-ra... non solo con questa stupi-da gamba staccata, ma... senzadi me. Mi è stata rubata anchel’anima. Conosco la storia di pa-pà, di Lord Crenshaw che nontrova il suo io. Non trova il suovero io, cerca, e ogni volta ne hauno diverso. Io non ho niente.Solo un vuoto, un’orribile pau-ra, e poi sogni, in cui vengo assa-lito – è vita, questa?». Così si ri-volge alla madre il soldato ingle-se Edward Allison, protagonistadell’ultimo e intenso romanzodi Alfred Döblin, composto frail 1945 e il 1946, ma pubblicatoin Germania orientale solo nel1956 e, dopo lunghe e comples-se traversie editoriali, da pocoapparso in lingua italiana con iltitolo Amleto La lunga notte staper finire (traduzione e postfa-zione di Liselotte Grevel, Cli-chy, pp. 656, € 14, 00). Le affer-mazioni di Edward, mutilato inoriente in seguito a un attaccoaereo kamikaze alla nave dellamarina militare inglese sullaquale era imbarcato, riassumo-no con la tipica efficacia retori-ca di Döblin i grandi temi, attua-lissimi al tempo della stesuradel romanzo, che quest’operaaffronta: le ricadute della guer-ra sull’integrità fisica e psichicadel reduce, le sue difficoltà areinserirsi nella società d’origi-ne, il difficile rapporto della ge-nerazione dei figli, coloro cheavevano combattuto al fronte,con quella dei padri, ritenuta re-sponsabile della guerra. Temi lacui virulenza era stata già de-nunciata dal teatro tedesco del-l’immediato dopoguerra, neldramma del reduce Fuori dava-ti alla porta di Wolfgang Bor-chert, vengono ora affrontati daDöblin sfruttando la tecnica po-lifonica del montaggio che ave-va uniformato la sua opera piùcelebre: Berlin-Alexanderplatz,il romanzo metropolitano pereccellenza della Repubblica diWeimar.

Per il reduce Edward «la vitasi è trasformata in una succes-sione atemporale di chochs, se-parati da intervalli vuoti, paraliz-zati», scrisse Adorno nei Mini-ma moralia: gli anni erano glistessi in cui Döblin compose ilsuo Amleto, ed entrambi eranoin esilio negli Stati Uniti. Ma incontrasto con quanto Adornoscriveva tra quelle pagine –«l’idea che, dopo questa guerra,la vita potrà riprendere “normal-mente” o la cultura “ricostrui-ta”… è semplicemente “idio-ta”», Döblin credette alla possi-

bilità di ricostruire la cultura te-desca dopo il nazismo. Si sentìanzi chiamato a partecipare inprima linea alla rifondazione in-tellettuale della Germania, do-po averla lasciata nel febbraio1933, all’indomani del rogo delReichstag, per riparare prima inFrancia e poi negli Stati Uniti.Anche perciò, Döblin fu fra i pri-mi intellettuali esiliati di origineebraica a rientrare in Germaniadalla «Weimar sul Pacifico»,quella California che era diven-tata durante la guerra il centrodella cultura tedesca.

È mentre si trova in esilio aHollywood, dove lavora comesceneggiatore per la MetroGoldwin Meyer e si converte alcattolicesimo, che Döblin iniziaa scrivere il romanzo destinatoa contribuire alla rielaborazio-ne del passato, alla denazifica-zione della Germania e alla rie-ducazione dei tedeschi. Obietti-vi che furono anche alla basedel progetto culturale della rivi-sta, che l’autore fondò nel 1946,«Das Golden Tor», traduzionetedesca di Golden Gate, il cele-bre ponte di San Francisco rie-vocato dal titolo della rivista inquanto simbolo di libertà e diun possibile raccordo intellet-tuale fra le due Repubbliche te-

desche al tempo statu nascendi.Nella sua evidenza, il riman-

do all’Amleto di Shakesperare èemblematico della volontà diDöblin di evocare, grazie all’im-magine del principe danese, ilcomplesso di turbe psicologi-che delle quali soffre Edward:un irrisolto complesso edipico,un altrettanto insuperato con-flitto con il padre, la ricerca spa-smodica della verità, una perdi-ta identitaria, la percezione diuno strappo fra verità e immagi-nazione. Sono questi i grandi eamletici temi che il romanzo af-fronta attraverso la strategia delracconto nel racconto, grazie al-la quale Edward cerca rispostealla «lunga notte» che lo ha av-volto dopo l’esperienza del con-flitto. Le 56 prose che compon-gono i cinque libri dell’opera so-no perciò conversazioni, piùche racconti, fra Edward e icomponenti della sua famigliache, a scopo terapeutico, riper-corrono le trame di opere dellatradizione letteraria occidenta-le e orientale. Organizzate dalpadre del protagonista, un fa-moso scrittore isolato nel suomondo fantastico, le serate nar-ranti ripropongono racconti bi-blici, miti antichi, leggende me-dievali, sonetti di Michelangelo,il Re Lear e l’Amleto shakespea-riani, ma pure riflessioni di Kie-rkegaard.

Dietro al padre di Edward si ri-conosce, almeno in parte, l’ulti-mo Döblin, immerso nella pro-pria utopica riproposizione del-la Weltliteratur, attraverso laquale la Germania possa affron-tare la «questione della colpa»,tanto attuale all’epoca grazie al-le tesi di Karl Jaspers. Ma è ilprocedere psicoanalitico a meri-tare attenzione: perché oltre a ri-flettere la prospettiva dell’esiliodalla quale l’autore aveva osser-vato la Germania, questa pro-spettiva innalza il romanzo a os-servatorio pschiatrico di un ioscisso, che si sente «come Amle-to al quale tutti mentono, chetutti vogliono distrarre e che, al-la fine, mandano in viaggio –perché lo temono, perché sache cosa è successo».

Döblin era stato a lungo psi-chiatra nella Berlino di Weimar,dunque in Amleto il piano auto-biografico si interseca con quel-lo della finzione e il romanzofunziona da testimonianza diquella letteratura teorizzata daHeinrich Böll in Adesione allaletteratura delle macerie, unaletteratura di cui si doveva scri-vere «sulla guerra, sul ritorno acasa e su ciò che avevamo vistodurante la guerra e che trovava-mo tornando a casa: ed eranomacerie». Ma Amleto è soprat-tutto un viaggio psicologico allaricerca di se stessi e di una ap-prossimazione alla verità, comesottolinea Liselotte Grevel nellasua preziosa postfazione al ro-manzo: Edward scoprirà, infat-ti, attraverso le «conversazioni»psicanalitico-letterarie, la falsi-tà attorno alla quale il suo io si ècostruito. Per renderne possibi-le la pubblicazione nella Germa-nia orientale, Döblin cambiò ilfinale del romanzo, alludendotra le sue pagine alla realizzatautopia statale del socialismo re-ale e veicolandovi un qualchemessaggio di speranza. È, infat-ti, in una nuova, «brulicante erumorosa città», cui si fa rifer-mento nella conclusione del li-bro, che Edward, sebbene inse-guito dallo «spettro di Amleto»,pare essere giunto a patti con lalunga notte del suo dolorosopassato; allo stesso modo, laGermania, sulla quale si esten-deva l’ombra di Hitler, avrebbepotuto rielaborare il dodicen-nio nero grazie a un confrontocondotto nel nuovo assetto poli-tico-sociale della Repubblica de-mocratica tedesca.

DÖBLIN

La gamba staccatadella Germania

Scritto nel ’45-’46durante l’esiliohollywoodiano,l’ultimo romanzodi Alfred Döblincerca il futurodel popolo tedesconell’io frantumatodi un reduce

R. W. FASSBINDER

Correre versoil nulla fra colorie sonoritàfiabesche,con la biografiadi Jürgen Trimborn

di MICHELE COMETA

●●●Ci sono artisti la cui vita va raccontataperché ha assunto i caratteri di un’opera d’arte,per volere dello stesso artista o del suopubblico. Altre vite d’artista si rendononecessarie per via del valore paradigmatico, nelbene e nel male, rispetto all’epoca che le ospitòo alla società che le ha amate o rifiutate. Avolte, palesemente, ci accorgiamo che l’operapuò fare a meno della biografia poichè vive unavita propria e ce la immaginiamo così persempre; altre ancora abbiamo l’impressioneche la vita realmente vissuta illumini l’operad’una luce troppo forte, dove tutto si confonde.Difficile dire a quale di queste formeappartenga la biografia di Rainer WernerFassbinder scritta da Jürgen Trimborn, cheappare ora in italiano a cura di Anna Ruchatcon il titolo Un giorno è un anno è una vita(traduzione di S. Albesano, A. Luise, A. Rucaht,Il Saggiatore, pp. XXVIII-427, € 35,00). Non deveessere stato facile per Trimborn intrecciare laripetitività ossessiva di una vita che fu unacorsa verso la morte con la storia di unacreatività tra le più sorprendenti del secoloscorso. Fassbinder non è solo l’inventore delcinema tedesco moderno – e certamenteancora oggi la cultura europea avrebbe moltoda imparare dalla sua spudoratezza e dal suocandore nichilista – né solo un sismografo ingrado di percepire profeticamente le vere

tensioni che travagliavano la Germania el’Europa; fu soprattutto, per quanto stranopossa sembrare, un autore destinato a entraretra i classici della cultura tedesca fin dalle sueprime prove. Ricordo ancora l’effetto che ebbesu di me il «primo» film di Fassbinder con unaeffettiva risonanza internazionale, Ilmatrimonio di Maria Braun, in cui il destinoentra in scena come in una tragedia greca, o ilunghi sabato sera passati a guardare in untelevisore b/n le buie immagini di BerlinAlexanderplatz, un classico alla secondapotenza; o le atmosfere rarefatte di Querelle,che ci scandalizzarono non tanto per la retoricaomosessuale ma perché spiegavano com’èpossibile correre verso il nulla tra colori esonorità fiabesche. Classici, dicevamo, non soloperché è possibile rileggerli ancora oggi, nonsolo perché vivono d’una vita autonomarispetto al loro autore, ma perché riassumonoun intero secolo. Eppure il loro autore non fumai animato da intenti didascalici, né pretesedi essere l’interprete del proprio tempo.Opportunamente, in questa biografia impietosaquanto a dettagli sulla vita privata così come èmisurata nella descrizione delle opere e dellevicende cinematografiche, si insiste sui continuispiazzamenti cui Fassbinder ha abituato il suopubblico e la critica. Spiazzamenti di cui eracapace anche nel quotidiano: esilarante lastoria dell’amicizia con Peter Zadek, uno deititani del teatro tedesco del dopoguerra,

contrappuntata da continue rivalità, nonchédall’insubordinazione e dalla sregolatezza diFassbinder, fino alla somma provocazione:adottare un cane cui dare continuamente degliordini in teatro battezzandolo, appunto, Zadek.Deprimente e perverso, invece, il Fassbinderche alla ex moglie, Ingrid Caven, propone disuicidarsi teatralmente insieme a lui, come erariuscito a fare Heinrich von Kleist. Ci sono poile sue ossessioni sessuali, gli abissi dianaffettività e innamoramento, i ritmi di lavorodisumani e il devastante bisogno di amore chetraspare in ogni gesto. Non si tratta di aneddoti,e Trimborn ne dà testimonianza con unasecchezza e una lucidità invidiabili, ma diepisodi che si susseguono in una catena ditrasgressioni, assurdità e perversioni chebruciarono ben presto un fisico e una mentecapaci di soggiogare chiunque, ma del tuttoprigionieri del male di vivere. Forse anchel’autore della biografia alla fine ha ceduto alfascino di Fassbinder inquadrandolo un po’troppo da vicino e lasciando scolorire sullosfondo la Germania e la sua cultura teatrale ecinematografica, che invece, nonostante ogninarcisimo e ogni sregolatezza, emergono incontroluce con una nettezza preclusa aicontemporanei. E non si tratta soltanto dellaGermania dell’epoca di Fassbinder: opera e vitadel regista sono allo stesso tempo archeologia eprofezia della cultura tedesca, ben oltre i pochianni in cui gli fu dato di vivere.

Ernst Ludwig Kirchner,«Ritratto di Alfred Döblin», 1912

PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIANO, «AMLETO. LA LUNGA NOTTE STA PER FINIRE»

(6) ALIAS DOMENICA27 APRILE 2014

UNA RILETTURA DEL BIMILLENARIO AUGUSTEO CELEBRATO NEL 1937 DAL REGIME FASCISTA

di FRANCESCA DE CAPRARIIS

●●●Una curiosa simmetria ha vistoriemergere dall’oblio, nello scorsodecennio, i resti archeologici di alcuniluoghi-chiave della lettura e della culturanel centro di Roma, insieme allatestimonianza diretta di un intellettualeche di questi luoghi era assiduofrequentatore: Galeno. Si tratta delcomplesso di aule attrezzate con gradinatee rivestite di decorazione marmorea,destinate a letture pubbliche, pressoPiazza Venezia e, soprattutto, delleindagini intraprese a partire dal 1998 nelTemplum Pacis, il meno conosciuto deiFori imperiali, appena toccato dagli scavidel Governatorato di Roma e quasiinteramente sepolto e sigillato dalla viadell’Impero. Nel 2005 poi è stato quasiprodigiosamente strappato ad altra formadi oblio, in un monastero pressoSalonicco, il testo del trattato Perì Alupias(de indolentia, o L’Imperturbabilità) diGaleno: in una lunga lettera a un amicoignoto, il medico filosofo indica le

strategie per non abbandonarsi al dolore esi concentra con composto stoicismo sullapropria sventura: l’incendio che nel 192d.C. divampa nel centro della città edistrugge la sua collezione e altri preziosidocumenti di medicina, che egli ritenevaal sicuro in un magazzino presso il tempiodella Pace. A rendere irreparabile laperdita è il fatto che l’incendio tocca edistrugge lo stesso Templum Pacis e lebiblioteche pubbliche del vicino Palatinocontenenti collezioni antiche e autorevoli,e in sostanza molte delle fonti sulle qualierano fondati i suoi lavori. Il trattatocontiene preziose notizie sulla storia deitesti e sulla loro circolazione, sufunzionamento e contenuto dellebiblioteche pubbliche romane, suiproblemi di copiatura, dettatura, di usuradei papiri e ancora su errori dicatalogazione (questi ultimi, per Galeno,cause di turbamento quasi comparabili alrovinoso incendio) che hannoincredibilmente arricchito il dossier diconoscenze e causato in breve tempo unricco fiorire di studi. Su quanto è tangibile

di questi temi si articola la mostra Labiblioteca infinita I luoghi del sapere nelmondo antico (Roma, Colosseo, sino al 5ottobre, a cura di Roberto Meneghini eRossella Rea). La prima partedell’esposizione attinge a quel serbatoioinesauribile di dati e di ricostruzioni che èil Museo della Civiltà Romana, unicagrande eredità della Mostra Augustea dellaRomanità del ’37, e introduce con efficaciaalla dimensione quotidiana della lettura edella scrittura nell’antichità. In primoluogo si percepisce l’ingombro anchefisico degli oggetti, la complicatamanualità che occorreva per dispiegare eripiegare i materiali e il loro stesso pesoche sembrerebbero in qualche modo dareragione al Malpensante di Bufalino sullafatica del leggere. Alla fatica dell’otium siaggiunge la dimensione per noi davverostraniante imposta dalla scriptio continuae dalla conseguente lettura ad alta voce,che faceva della lettura come momentoprivato un’eccezione piuttosto che laregola. Nel panorama delle testimonianzeanche iconografiche viene presentato un

Il falso Augustodi via Nazionale

IDEOLOGIE DEL CLASSICISMOLunedi 28 aprile e martedi 29, in occasione del bimillenario dellamorte di Augusto, si svolgerà al Collegio Ghislieri di Pavia unseminario interdisciplinare, organizzato da Maurizio Harari, sullaMostra Augustea della Romanità del 1937, dal titolo: «Tutta Italiagiurò nelle mie parole» (ulteriori informazioni e il programma delle

giornate di studio sono disponibili ai seguenti indirizzi:www.ghislieri.it; [email protected]). Anticipiamo in queste paginel’intervento che terrà domani pomeriggio Giuseppe Pucci, archeologoemerito dell’Università di Siena e nostro collaboratore, dal titolo «LaMostra Augustea della Romanità: ideologia, estetica, comunicazione».

Chiave ideologicadell’evento, duratooltre un anno,fu l’assimilazionedel Duce a Augusto,che garantivail parallelismotra gloria di Romae «nuovo Impero»

di GIUSEPPE PUCCI

●●●Il primo aspetto che intendotrattare a proposito della grandeMostra Augustea della Romanitàinaugurata nel 1937 al Palazzo delleEsposizioni di Roma, è quello del-l’ideologia. Il fatto che il bimillena-rio della nascita di Augusto – 23 set-tembre del 63 a.C. – cadesse a pocadistanza dalla ‘conquista’ dell’Etio-pia e dalla riapparizione dell’impe-ro sui colli fatali di Roma, rappre-sentò una ghiotta occasione per ilregime. Va sùbito sottolineato chela Mostra non fu voluta da Mussoli-ni, e neppure dal Minculpop, mada studiosi e intellettuali, con in te-sta quel Giulio Quirino Giglioli cheera stato il segretario della mostraarcheologica organizzata nel 1911dal Lanciani per il cinquantenariodell’Unità d’Italia, e che essendonel 1935 diventato deputato avevaaccesso diretto al duce e alla sua se-greteria personale. Giglioli era unformidabile organizzatore, una veramacchina da guerra, ma non avreb-be potuto realizzare un progetto co-sì impegnativo senza la collabora-zione entusiastica di un gran nume-ro di studiosi. Come mai, ci chiedia-mo, tante intelligenze non medio-cri – io stesso ho conosciuto benesia Pallottino che Colini che CarloPietrangeli, vale a dire i tre che furo-no più vicini a Giglioli –; perché que-sti e altri studiosi di valore si fecerocoinvolgere in quell’impresa e bru-ciarono incenso sull’altare della Ro-manità? Alcuni erano ferventi fasci-sti, e lo rimasero anche dopo laguerra, come Pallottino. Qualcun al-tro, certo, lo avrà fatto per opportu-nismo accademico, ma i più furonosemplicemente sedotti dalla possi-bilità di parlare finalmente a unpubblico vasto, di ‘educare le mas-se’, di svolgere un ruolo incisivo nel-la società. Provarono insomma l’il-lusione di essere protagonisti diquel momento storico che esaltaval’antichità come premessa e pro-messa di un grande avvenire. Ilgrande avvenire non ci fu, ma comeha scritto Andrea Giardina, «gli ar-cheologi… furono insostituibili nel-la delicata operazione di incastona-re visivamente e materialmentel’antico nell’attuale, e contribuiro-no in modo determinante all’elabo-razione di quell’estetica della roma-nità che era una componente essen-ziale della rivoluzione antropologi-ca fascista». Va poi detto che colla-borarono pienamente a questa cele-brazione anche istituzioni scientifi-che e studiosi di nazioni «democra-tiche» come la Francia, l’Inghilter-ra, gli Stati Uniti (è noto per esem-pio l’entusiamo manifestato dall’ar-cheologa inglese Eugenie Strong,grande ammiratrice di Mussolini).Unica eccezione rilevante fu la Rus-sia, che non partecipò per ovvi moti-vi politici.

Rivoluzione e pacificazioneMa a proposito dell’ideologia chepresiedette alla Mostra, la chiave divolta fu certamente il parallelo tral’impero romano e l’impero dell’Ita-lia fascista. Il fascismo aveva biso-gno di richiamarsi a un passato glo-rioso per legittimare il proprio ruo-lo: doveva cioè costruire un passatoche potesse dare una coscienza dinazione al paese e convincere gli ita-liani che, in quanto eredi del piùgrande impero della storia, eranopredestinati a conquistarne un al-tro. Le rivendicazioni «imperiali»per l’Italia, in nome della grandezzadi Roma antica, erano già presenti –anche se in modi diversi – in Crispie in Giolitti, e la Mostra archeologi-ca del 1911, realizzata da Lancianialla vigilia dell’impresa di Libia (e ilMuseo dell’Impero che ne fu la filia-zione) preconizzavano chiaramen-te un nuovo impero italiano.

Ora il nuovo impero era acquisi-to, ma bisognava giustificarlo. LaMostra del ’37 servì in primo luogoa questo. A tal fine si equipararonole conquiste del fascismo alla stabili-tà data da Augusto a Roma dopo de-cenni di guerre civili, e si procedet-

te all’assimilazione di Augusto eMussolini. Giglioli nel suo discorsoinaugurale fu esplicito: come Augu-sto, Mussolini ha attuato la rivolu-zione e sùbito dopo la pacificazio-ne, tanto che si possono riferire al-l’uno le parole che furono dette dal-l’altro, «per aver salvato i cittadini[...]tutta Italia giurò nelle mie parolee mi supplicò di essere suo Duce».Il latinista Gino Funaioli stabilì

un’equazione perentoria: «Augustovale rivoluzione, innovazione, tradi-zione. Dare il colpo di grazia a ciòch’è morto, rianimare le risvegliateidealità antiche, creare e ricreare:questo è fascismo».

Se sfogliamo le pubblicazioniscientifiche di quegli anni, vediamoche gli storici fecero a gara nel ricer-care analogie fra Augusto e Mussoli-ni. Entrambi – si sottolineava – ave-

vano favorito la crescita demografi-ca, difeso la morale e la famiglia, ri-lanciato l’agricoltura e i suoi valori,trasformato la milizia di parte in mi-lizia nazionale, promosso grandio-se imprese urbanistiche e architet-toniche. In Augusto e Mussolini, ap-parso proprio nel 1937, Emilio Bal-bo – del quale non sono riuscito astabilire se avesse legami di parente-la con Italo – sosteneva addirittura

la superiorità politica del duce:quando Ottaviano iniziò la sua av-ventura, infatti, «l’impero già esiste-va di fatto e di diritto», mentre «bendiversa è l’opera ciclopica pensataed attuata dal genio di Mussoliniche, in un tempo brevissimo, diuna Italietta […]agitata da continuidisordini, ha saputo costruire un po-tente Impero senza produrre graviscosse al Paese». E concludeva: «per

cercare l’uomo paragone di Musso-lini bisognerebbe chiamare in cau-sa Giulio Cesare». Questo soprattut-to perché mentre Cesare fu ungrande condottiero, le vittorie mili-tari di Augusto si dovettero alla bra-vura e all’esperienza di altri. Nonc’è dubbio che le simpatie dellostesso Mussolini andassero a Cesa-re. Non tutti sanno che nel ’39 il du-ce scrisse un dramma in tre atti suGiulio Cesare in collaborazionecon Giovacchino Forzano. Ma arendere il parallelo con Cesare po-co attraente per Mussolini c’era lafine infausta del dittatore romano,tant’è vero che nel dramma citatola scena del pugnalamento fu elimi-nata, presumibilmente per motiviscaramantici, e sostituita dal rac-conto di un messaggero, alla manie-ra delle tragedie greche. Tutto som-mato, Mussolini trovò più confa-cente identificarsi sul piano milita-re con Scipione l’Africano, il con-dottiero mai sconfitto – e il famosofilm del 1937 fu il suggello dell’ope-razione –, mentre sul piano politi-co si lasciò assimilare ad Augusto,vale a dire a un capo carismaticoautorevole ma misurato. E soprat-tutto longevo.

Naturalmente tutta questa opera-zione si iscrive nella cornice più am-pia del mito della romanità. Lo stes-so Mussolini ebbe a dire – e la fraseera riportata in epigrafe nella salaXXVI della Mostra –: «Roma è il no-stro punto di partenza e di riferi-mento, è il nostro simbolo o se sivuole il nostro mito». Basta pensareai simboli del regime, a partire dalfamoso fascio littorio; al titolo di du-ce, all’organizzazione della milizia,con le sue legioni, coorti, centurie,manipoli; a quella del lavoro, strut-turata sul modello dei corpora e col-legia di età imperiale; alle organizza-zioni para-militari giovanili su quel-lo della Iuventus augustea.

Ma la forza del mito, come ci haspiegato Roland Barthes, consisteprincipalmente nel fatto che essoriesce a naturalizzare il contingen-te, nel senso di farlo percepire co-me un fatto naturale e, come tale,permanente. Proprio a questo servi-va il mito di Roma per il fascismo:fare di esso non un accidente tran-

ROMA, COLOSSEO

Com’era faticosoleggerenell’antichità:strumentie luoghi del saperein una mostra

(7)ALIAS DOMENICA27 APRILE 2014

documento unico di lettura e uso dei testiteatrali, il complesso di tre pannelli dipintida Nemi, scoperto negli anni venti, mapresentato qui per la prima volta: altrocaso, benemerito, di riesumazione daun’altra perniciosa forma di oblio. Su unosfondo di colonne e drappeggi èrappresentata una sequenza di diversearmi, oggetti e calzari insieme a voluminae tavolette di cui sono in parte leggibili itesti. L’ambiente di provenienza è statoricollegato al santuario di DianaNemorense e a un piccolo teatro che sisuppone ospitasse ludi scenici: sitratterebbe in sostanza dellarappresentazione di uno spogliatoio indisordine, quasi una sorta di «camerinonon spazzato» con oggetti di scena,costumi e soprattutto i testi utilizzati perle rappresentazioni. Nella sezione relativaalle biblioteche l’enfasi è sulla storia delformarsi delle biblioteche a Roma esoprattutto sul Templum Pacis, che harestituito recenti e importantitestimonianze e che in effetti costituisce laprima concreta applicazione, è stato

osservato, del modello del Mouseion inambito romano: una ricchissima edenciclopedica raccolta libraria, unacollezione straordinaria di opere d’arte esale per conferenze, dibattiti, recitationes(funzione analoga dovevano avere, inrelazione alle biblioteche del ForoTraiano, le aule messe in luce pressopiazza Venezia). Questi sono i luoghidove, afferma Galeno in altre opere, sisvolgevano accese dispute accademichetra coloro che usavano radunarsi «perpraticare le arti razionali». Il primato delTempio della Pace come centro culturaledella Roma imperiale proseguì anchedopo la ricostruzione a seguitodell’incendio del 192, continuando anchea caratterizzare la vocazione commercialedel quartiere circostante, con botteghe dilibrai e copisti e i magazzini ai qualiGaleno e i compagni di sventura avevanoconsegnato le loro preziose collezioni. Gliscavi hanno chiarito l’articolazione e ladistribuzione degli spazi delle bibliotechee degli auditoria ai fianchi dell’aula diculto del tempio, e restituito, tra le altre

cose, nuovi dati sulle collezioni dellebiblioteche e sulla suppellettile: posizionepreminente hanno due piccoli ritratti diavorio (Settimio Severo nel gestodell’adlocutio; una bellissima testaidentificata con Giuliano l’Apostata) chesono stati messi in relazione con altri bustie ritratti di simili dimensioni, raffigurantiletterati e filosofi per i quali si è ipotizzatauna funzione di «segnalibro», vale a direindicatori, posti sugli scaffali, dellacollocazione delle opere di un autore o diun argomento: un confronto efficace,visibile in mostra, è con i piccoli busti difilosofi e retori provenienti dalla Villa deiPapiri di Ercolano. Un’osservazione finalesulla sede espositiva: il Colosseo, certo,garantisce un flusso rilevante di visitatori;tuttavia per la stessa struttura degli spazi èinadatto all’esposizione di manufatti chenecessitano di una conservazione atemperatura costante: da qui, si presume,l’assenza di documenti papirologici e lasostituzione con copie dei busti in avoriodal Tempio della Pace, avvenuta subitodopo l’inaugurazione.

A fianco, l’«Augusto di Prima Porta» deiMusei Vaticani, foto Schneider-Lengyel: unasua riproduzione in gesso era esposta nellasala principale della «Mostra Augustea» del1937; a sinistra, il Palazzo delle Esposizionia Roma «mascherato» per l’occasione.Sotto, statuetta in avorio di Settimio Severoseduto in «adlocutio», dal Templum Pacis,Roma, Museo Nazionale Romano

La «MostraAugusteadella Romanità»al Palazzodelle Esposizioninon fu volutada Mussolini,ma da Gigliolie dagli intellettuali

seunte ma l’esito naturale – chedunque non poteva essere messoin discussione – di un processo cheaveva salde radici nel passato. Per-ciò sarebbe riduttivo vedere la Mo-stra del ’37 come un evento effime-ro. Nella misura in cui costruiva laromanità come specchio del fasci-smo e delle sue ambizioni, essa for-niva la giustificazione telelologicaall’avvento e alla permanenza di es-so e allo stesso tempo indicava nelnuovo imperialismo il destino ma-nifesto – per usare un’espressionedel lessico politico americano – del-l’Italia.

Un percorso iniziaticoVeniamo ora al secondo punto:l’estetica della Mostra. Qui è impor-tante a mio avviso partire da un fat-to a cui normalmente non viene da-to il giusto risalto, e cioè che nellostesso Palazzo delle Esposizioni divia Nazionale, cinque anni primadella Mostra Augustea, si era tenutala Mostra della Rivoluzione Fasci-sta, che aveva celebrato il decimoanniversario della marcia su Roma.Questa mostra aveva avuto un enor-me impatto, sia per il contenutoche per l’allestimento, dichiarata-mente futurista, a cominciare dallafacciata dell’edificio, costituita daun immenso cubo sovrastato da fa-sci stilizzati alti venticinque metri.Questa facciata mascherava quellaoriginale di Pio Piacentini, che peril suo stile classicheggiante era sta-ta ritenuta poco confacente. All’in-terno erano utilizzate – con un lin-guaggio d’avanguardia, che si ispi-rava, seppure con un rovesciamen-to ideologico, a esperienze di Wei-mar e dell’Unione Sovietica – diver-se forme di espressione artistica(pittura, scultura, architettura, foto-grafia, grafica e arte applicata): unasorta di Gesamtkunstwerk di marcafascista. Artisti di punta come Ma-rio Sironi e Achille Funi crearonouna potente ‘macchina mitopoieti-ca’, che tuttavia gettava anche unponte tra rivoluzione e tradizione.Per esempio, proprio nella sala pro-gettata da Sironi una spada roma-na, con incise le parole DUX e ITA-LIA, spezzava la catena rossa del so-cialismo, a simboleggiare che rin-verdendo la gloria di Roma antica ilfascismo aveva liberato l’Italia dallamorsa marxista-leninista. Ma so-prattutto il percorso della mostraera stato studiato in modo tale darendere la visita una sorta di ceri-monia rituale.

La Mostra Augustea, pur nellasua specificità, non poté non tenerconto di questo antecedente. An-che stavolta la facciata di Pio Piacen-tini fu camuffata, ma il flirt col futu-rismo ormai era finito, lo stile uffi-ciale era ora quello detto Novecen-to, e l’architetto Scalpelli creò unasorta di gigantesco arco romano sti-lizzato che proponeva un’idea qua-si metafisica di romanità, molto si-mile a quella che caratterizzerà gliedifici dell’E42. I quattro grandi fa-sci del ’32 diventano quattro pilastri

che sostengono dei prigionieri bar-bari, copie di quelli del Palazzo deiConservatori. Sul fornice d’ingressoc’è il calco della Vittoria di Metz,mentre ai due lati abbiamo sei iscri-zioni di autori classici e cristianiche esaltano la missione civilizzatri-ce di Roma. Sulla balaustra si ripeta-va per quattro volte la parola REX asinistra e la parola DVX a destra. Ri-spetto alla facciata del ’32, che rom-peva nettamente con la tradizione,questa del ’37 intende piuttosto in-terpretarla modernamente.

Con la mostra del ’32 quella del’37 condivide anche le tecnicheespositive innovative: l’ampio ricor-so a disegni e fotografie, in particola-re sotto forma di fotomontaggio,l’uso di testi e citazioni, una illumi-nazione accuratamente calcolata;mentre i calchi, con il loro biancouniforme, diffondevano meglio diquanto avrebbero fatto gli originaliun senso di rassicurante omogeni-tà. E – cosa ancor più importante –come già nel ’32 il percorso era stu-diato per far sì che la visita si trasfor-masse in un viaggio iniziatico, tra in-dottrinamento ed emozioni esteti-che e spirituali. La citazione di Mus-solini sopra la porta di ingresso defi-niva ab initio la relazione tra passa-to, presente e futuro: «Italiani, fateche le glorie del passato siano supe-rate dalle glorie dell’avvenire!». Lesculture e le iscrizioni sulla facciatae nel vestibolo completavano il mes-saggio, che poi era ribadito nel-l’Atrio della Vittoria, dove eranoesposti la Vittoria bronzea di Bre-

scia, rilievi con altri barbari vinti e ri-tratti di imperatori con corona civi-ca a indicare il trionfo militare.

Proseguendo, il visitatore entravain una sorta di spazio cerimoniale orituale. In fondo all’asse su cui veni-va ora ad affacciarsi, egli già scorge-va la meta, il punto focale del per-corso: la sala di Augusto, e intravve-deva, su un podio colorato in rossoe inquadrata dal pronao del Monu-mentum Ancyranum e da due rilie-vi di Vittorie da Cartagine, la statuacolossale del Genio di Augusto delVaticano. Ma a quella meta non siaccedeva immediatamente: sareb-be arrivata come promessa di unadisciplinata perseveranza. Così, do-po aver fatto tesoro di un’altra cita-zione di Mussolini: «Io non vivo delPassato: per me il Passato non è cheuna pedana dalla quale si prende loslancio verso il più superbo avveni-re», si doveva tornare indietro e at-traversare prima altre sette sale do-ve veniva esposta la storia di Romadalle origini a Cesare. Questo era lospazio più propriamente didattico.

Estetizzazione alla BenjaminLa climax sapientemente costruitaculminava finalmente nella sala X,il cuore – come si è detto – della Mo-stra. Qui, oltre ad ammirare da vici-no la statua del Genio di Augusto, ilvisitatore avrebbe scoperto alla suasinistra l’Augusto di Prima Porta e adestra l’Augusto di via Labicana.Tre opere che riassumevano i ruolipiù importanti del Principe: il bene-fattore che ha garantito l’abbondan-

za (la cornucopia), il capo militare(la corazza), l’autorità religiosa (il ca-po velato del Pontifex Maximus).Sulle pareti varie iscrizioni, tra cui ilpasso di Svetonio: «Tutti spontanea-mente, con unanime consenso, losalutarono padre della patria», a cuifaceva da contrappunto un’altra fra-se di Mussolini: «Nella silenziosa co-ordinazione di tutte le forze, sottogli ordini di uno solo, è il segreto pe-renne di ogni vittoria». L’assimila-zione tra i due capi era a quel puntodefinitiva.

Tuttavia ciò che più attirava l’at-tenzione nella sala era una stele divetro illuminata, in cui, con caratte-ri disposti in modo da formare la sa-goma di una croce, si riportava il te-sto del Vangelo di Luca (2,1-14) rela-tivo alla nascita di Gesù sotto il prin-cipato di Augusto. Questo oggettodi concezione assolutamente mo-derna affiancato alle statue antiche,creava, grazie anche alla luce soffu-sa irradiata dal soffitto e alle paretipraticamente prive di decorazione,uno spazio allo stesso tempo classi-co e moderno. Gli architetti Panico-ni e Pediconi, allievi di Marcello Pia-centini, seppero amalgamare il tut-to in un’unità estetica molto coin-volgente, all’altezza dei migliori ri-sultati della Mostra del ’32.

In questa sala X, dove insieme aun grande imperatore si celebravail punto di svolta della storia del-l’umanità rappresentato dalla nasci-ta di Cristo, era stato creato con so-brietà di mezzi ma con grande rigo-re formale una sorta di spazio misti-

co, concepito in funzione di una co-munità di adepti, di credenti, in cuilo stesso cristianesimo era politica-mente inglobato. Giglioli affermeràche «la Chiesa Cristiana ha costitui-to la continuità di Roma attraversoil medio evo e nei tempi moderni»,fino alla «piena rinascita nel Fasci-smo e nel nuovo Impero», e del re-sto una intera sala, la XXV, fu dedi-cata proprio al cristianesimo. Vispiccava una traduzione dell’Edittodi Milano, che aveva dato a tutti, an-che ai cristiani, libertà di culto, prefi-gurando quei Patti Lateranensi peri quali Mussolini era stato definitodal cardinal Gasparri «l’uomo dellaProvvidenza».

Sùbito dopo la sala del cristianesi-mo veniva l’ultima sala del pianter-reno, intitolata «Immortalità del-l’idea di Roma. La Rinascita dell’Im-pero nell’Italia Fascista». Qui cam-peggiavano solo tre oggetti, nessu-no dei quali antico: una replica (leg-germente ridotta) della Vittoria scol-pita da Attilio Selva per il mausoleodi Nazario Sauro, e ai lati, un bustodi Vittorio Emanuele III e uno diMussolini. Immortalità e rinascitaerano rappresentate visivamentenel fotomontaggio che correva sullepareti, e che – nelle parole di Giglio-li – illustrava «l’idea imperiale roma-na tramandata quale fiaccola, di ge-nerazione in generazione, attraver-so i secoli»: una sorta di summa tele-ologica, da Enea a Mussolini.

Insomma, la Mostra Augusteadella Romanità sembra l’esemplifi-cazione perfetta di quella estetizza-zione della politica da parte del fa-scismo di cui parla Walter Benja-min ne L’opera d’arte nell’epoca del-la sua riproducibilità tecnica, scrit-to nel 1936 – solo un anno primadella Mostra. Per Benjamin il fasci-smo sfruttava l’arte per i propri sco-pi, producendo artificialmente unasorta di falsa aura attorno alla figu-ra del Capo attraverso l’uso di mez-zi di comunicazione moderni appli-cati a riti e culti radicati nel passato.L’estetizzazione della politica consi-steva anche nella creazione di even-ti spettacolari, con scenografie ma-gniloquenti allo scopo di tenere lemasse in uno stato di continua effer-vescenza.

Il marketing di GiglioliE veniamo al terzo e ultimo punto:quello della comunicazione, com-prendente in verità diversi aspettitra loro collegati. L’inaugurazione– cominciamo da lì – fu un esem-pio di politica esteticizzata, con la‘gioventù italiana’ del Littorio adaccogliere il duce sulla scalinatacantando Giovinezza, e Mussolinipiazzato in piedi durante i discorsi,in modo da risultare perfettamente

in asse con Augusto, ben visibiledietro di lui. In questo caso la co-municazione tra il capo e le massefu diretta. Ma nella mostra ci furo-no altri brillanti esperimenti di co-municazione. Un opuscolo a firmadi un certo colonnello Reisoli (unpoligrafo molto attivo in quegli an-ni) si intitolava curiosamente Ciòche si ascolta nella Mostra Augusteadella Romanità. Vi si alludeva alleiscrizioni della sala XXVI, dedicataall’immortalità di Roma e del fasci-smo, metaforicamente ‘risuonanti’alle orecchie del visitatore. Qui –scrive Reisoli – «‘si ascoltano’ le pa-role definitive. Sono gli appelli allapatria di Dante, Petrarca, Leopardi,Carducci, sono le parole di guerrie-ri e di eroi. Lì Machiavelli ammoni-sce che “non l’oro, come grida la co-mune opinione”, è il nervo dellaguerra, “ma i buoni soldati, perchél’oro non è sufficiente a trovare ibuoni soldati, ma i buoni soldati so-no ben sufficienti a trovare l’oro”».E conclude con le parole di Musso-lini: «Non si fa della retorica se sidice che il popolo italiano è il po-polo immortale che trova sempreuna primavera per le sue speran-ze, per la sua passione, per la suagrandezza».

Ma non c’erano solo ‘voci’, inquella sala. C’erano grandi foto del-le opere del fascismo (le bonifiche,le città di nuova fondazione comeLittoria e Sabaudia), che dovevanouna volta di più sottolineare le ana-logie tra l’antico impero e il nuovo,e c’era anche un quadro di Giusep-pe Sciuti, pittore siciliano emulo diAlma-Tadema, raffigurante l’offertadell’oro alla patria da parte dellematrone romane al tempo delleguerre puniche, con accanto la fotodell’offerta della fede da parte dellaRegina Elena. Giglioli si inventò an-che le visite per i ciechi, che, essen-do gli oggetti in mostra dei calchi,erano autorizzati a toccarli.

Anche nel campo della promozio-ne e del marketing furono ricalcatele orme della Mostra della Rivoluzio-ne Fascista, i cui organizzatori ave-vano sperimentato un sistema di in-centivi e di facilitazioni, con scontisui treni, i ristoranti e i teatri. Stavol-ta Giglioli andò oltre: fece diffonde-re volantini e manifesti nelle scuo-le, nelle stazioni, nei dopolavori, fa-vorendo l’organizzazione di gite digruppo nella capitale; per l’esteromobilitò ambasciate e consolati, siappoggiò a istituti stranieri a Roma,fece stampare guide in 24 lingue.L’istituto di Studi romani fece confe-renze in Europa e in America e ci fu-rono perfino degli «augustean pilgri-mages». Naturalmente non mancòl’apporto della radio e del cinema.Uno spot radiofonico diceva: «Nondevi essere un archeologo per esse-re interessato alla Mostra Augu-stea», e l’Istituto Luce ‘coprì’ effica-cemente l’inaugurazione. Anche iReali non si sottrassero alla visita,sempre accompagnati da Giglioli.

Complessivamente la mostra neisuoi 408 giorni di apertura fu vistada circa un milione di visitatori (dicui però solo 770.000 paganti).L’astuto Giglioli fece spostare il gior-no di chiusura al 7 novembre 1938in modo da accaparrarsi tutti gli excombattenti venuti a Roma per lasfilata del 4 novembre, e la cosa fun-zionò talmente bene che l’ultimogiorno si staccarono addirittura20.000 biglietti, ciò che consentì aGiglioli di annunciare che era statoraggiunto il sospirato pareggio di bi-lancio.

Finché restò aperta, la Mostrafunzionò anche come fondale perle parate del regime e per eventistraordinari come la visita di Hitler,nel maggio ’38 – forse il punto piùalto mai toccato dall’estetizzazionedella politica. Il tragico errore del fa-scismo fu credere che alla romanitàpomposamente messa in scena cor-rispondesse una realtà altrettantograndiosa. Ma come in qualsiasiperformance teatrale, c’è un mo-mento in cui cala il sipario e le lucisi spengono. E in questo caso nonci furono applausi.

(8) ALIAS DOMENICA27 APRILE 2014

EXCURSUS GEOLOGICO ■ DA 45 MILIONI DI ANNI FA ALL’ERA LUTEZIANA

Spettatori-speleologinel ventre della città:tenebre e astrazione

di RICCARDO VENTURIPARIGI

●●●Nel 1971 l’artista americanoRobert Smithson immaginava di co-struire un sala cinematografica sot-toterra. Questo cinema cavern nonera tanto un riferimento alla caver-na di Platone – metafora abusata efuorviante in voga tra i filosofi chesi occupano di cinema – quanto untentativo di mettere in tensionedue discipline lontane quali il cine-ma e la geologia, di riportarle per as-surdo a una matrice comune. Il pro-getto non venne mai realizzato, inparte per la difficoltà di trovare unagrotta o una miniera in disuso chesi prestasse all’occasione (l’artistaracconta di essersi recato a Vancou-ver, al Lago Cayuga nello stato diNew York e in California), in parteper la scomparsa prematura di Smi-thson, vittima di un incidente ae-reo mentre sorvolava AmarilloRamp, un suo earthwork nel norddel Texas in fase di lavorazione. Diquesta «atopia cinematografica»,per citare un testo di Smithson, ciresta tuttavia uno schizzo prepara-torio in cui si legge «the movie goeras spelunker», lo spettatore cinema-tografico come speleologo, accantoalla foto di un uomo ripreso di spal-le che avanza in un corridoio stri-minzito. Con Smithson il cinema sifa letteralmente underground,un’etichetta allora diffusa nell’am-biente del cinema sperimentaleamericano che si opponeva al mo-dello hollywoodiano. Su uno scher-

mo scavato nella roccia e dipinto dibianco, sarebbe stato proiettato unsolo film, un documentario sulla co-struzione stessa della sala – un di-spositivo tipico del cinema struttu-ralista – coi sedili di roccia e il pro-iettore protetto in una torretta di le-gno grezzo.

Che Smithson conoscesse a me-moria La Jetée (1962) di ChrisMarker non sorprenderà, se pensia-mo alle scene ambientate dopo laTerza guerra mondiale nei sotterra-nei di Parigi, rifugio di un manipo-lo di scienziati che bisbigliano frasiin tedesco e conducono esperimen-ti sulla memoria della cavia-prota-gonista. Una cavia che, immobile,bendata e immersa nella sua reve-rie, sembra il modello dello spetta-

tore cinematografico. Con un’intui-zione brillante Marker, anziché am-bientare la sua science-fiction inuna sfolgorante astronave sospesanell’iperuranio, scende nei sotterra-nei di Parigi, là dove giace la sua sto-ria.

Questa discesa verticale nellospazio e nel tempo è ormai un’espe-rienza accessibile al pubblico pa-gante. All’interno delle catacombedi Parigi è infatti ospitata l’esposi-zione documentaria La mer à Parisil y a 45 millions d’années (fino al 31dicembre 2014), centrata sul patri-monio geologico parigino, la cosid-detta Era Luteziana. Un raccontosulla storia della Terra dentro la ter-ra. In grande sintesi, 53 milioni dianni fa, giorno più giorno meno e

comunque niente in rapporto ai4500 milioni di anni della Terra, alposto della città che conosciamo viera una pianura paludosa, una sa-vana arboricola piena di mangro-vie baciata, difficile immaginarlo,da un clima tropicale, con tanto dispiagge e di mare (viene in mentel’adagio barese «Se Parigi avesse ilmare...»). In tale ecosistema abbon-davano coralli e molluschi, crosta-cei e gasteropodi, tartarughe mari-ne e pescecani. Finché 47 milionidi anni fa arrivò il mare dal nord Eu-ropa, le deformazioni tettonicheformarono i Pirenei e nacque Lute-zia. Il fango pietrificato diventò cal-care. È l’epoca dei primi mammife-ri – per la comparsa dell’uomo biso-gna armarsi di pazienza (solo200.000 anni fa).

Se le catacombe si estendono sot-to tutta la città – come una sorta dinegativo della rete della metropoli-tana – la parte ufficialmente apertaal pubblico è assai limitata (un paiodi chilometri). Vi si accede da unanonimo ingresso a Denfert-Roche-reau, riconoscibile solo dalla fila in-terminabile che fa il periplo dellapiazza. Per un’inspiegabile ribalta-mento, durante le vacanze pasqua-li, giorni di resurrezione, si potevarestare più di tre ore in coda per ac-cedervi. Raggiunto l’ingresso, siscendeva a venti metri sottoterra, auna temperatura costante di 14 gra-di.

Si tratta in realtà di una cava dicalcare scavata nel XV secolo e con-solidata dall’Inspection généraledes carrières a partire dal 1777. Unintervento necessario, consideratal’importanza del luogo: senza leestrazioni di calcare non vi sarebbe-ro, ad esempio, le arene di Lutezia(fine I sec.), le terme di Cluny (ini-zio II sec.), i monumenti gotici, No-tre-Dame. Le cave divennero tutta-via presto un ossario: sin dal 1786vi furono depositate le ossa del ci-mitero degli Innocenti e di altri ci-miteri. I sotterranei di Parigi si tra-sformarono così in una sterminatanecropoli che finì per ospitare oltresei milioni di scheletri. Diventatoossario municipale, venne apertoal pubblico nel 1809. Per l’occasio-ne le ossa furono disposte in com-posizioni decorative come fosserocestini di frutta, disposte all’inter-no di un percorso in cui si succedo-

no altari, colonne doriche, fontane,lastre incise, cabinets mineralogici.

Cava di calcare, necropoli, mu-seo-mausoleo, le catacombe di Pa-rigi offrono al visitatore una discesavertiginosa nel tempo. In pochi mi-nuti si passa dal contingente livellodell’asfalto a un paesaggio risalentea 45 milioni di anni fa; da un pae-saggio urbano con le sue coordina-te assiali a un ambiente astrattosenza dimensioni; dalla linearitàcronologica degli orologi che scan-disce la vita in superficie a una stra-tigrafia temporale in cui la storiadella città è iscritta sulla pietra, suuna successione di strati geologicispessi 24 metri. Quest’altalena con-vulsa è spezzata giusto prima diuscire, quando il turista s’imbattenel Comptoir des catacombes. Invendita c’è un ricco bric-à-brac digadget con un teschio: penne, ac-cendini, bloc-notes, spille, tazze, os-si di cane, calici, adesivi per il frigo-rifero, tappi per le bottiglie, porta-chiavi e persino un accendino il cuimessaggio fa impallidire l’«Arrête,c’est ici l’empire de la mort» affissoall’ingresso dell’ossario: «Keepcalm and remember you will die».Un ammonimento un po’ nefastoper concludere una visita e una re-censione.

La zona del Trocadéro è cono-sciuta dai cinefili per aver ospitato,nel Palais de Chaillot, la Cinéma-thèque fortissimamente voluta dalvisionario Henri Langlois, figura-chiave per la generazione dellaNouvelle Vague. La sua figura è og-gi celebrata in una mostra che ne ri-percorre la carriera (Le musée ima-ginaire d’Henri Langlois alla nuovaCinémathèque, unico edificio diFrank Gehry in Francia, fino al 3agosto). Ma nel 2004, al Trocadéro,a circa 18 metri sottoterra, è statoscoperto un cinema sotterraneo eclandestino. Un cunicolo telesorve-gliato e protetto dalla registrazionedi cani che abbaiano sbucava suuna sala di 400 metri quadri, congradini tagliati nella pietra e sedieper una ventina di persone, unoschermo, un proiettore, diverse bo-bine di film noir degli anni cinquan-ta e thrillers più recenti, persinouna macchina per fare nonpopcorn ma couscous. Da dove ve-niva l’alimentazione necessaria perfar funzionare il proiettore? Comeinterpretare i graffiti sul soffitto consvastiche, croci celtiche ma anchestelle di David? Chi erano gli autorie i complici di tale cinema cavern?Pochi giorni dopo la polizia fece unsecondo sopralluogo ma nel frat-tempo qualcuno aveva smontatotutto, lasciando solo un laconico bi-glietto: «Ne cherchez pas».

Nella sezione sulle catacombe ele démolitions dei Passages, WalterBenjamin scriveva: «Ancora oggi,per due franchi si possono compra-re i biglietti d’ingresso per visitarequesta Parigi tenebrosa, molto me-no cara e pericolosa di quella super-ficiale». Tuttavia riconosce che que-sta chance era un’eccezione: sindal Medioevo «furbi individui si di-chiaravano disposti, dietro forticompensi e promesse di silenzioda parte dei concittadini, a scende-re lì sotto per mostrare il diavolonella sua maestà infernale». Lo spet-tatore speleologo era nato.

«PARIS DISPARU/PARIS RESTITUÉ» SOTTO NOTRE-DAME

VISITA ALLE CATACOMBE DI PARIGI, E A UNA MOSTRA RELATIVA

DA PARIGICava di calcare,necropoli,museo-mausoleo:il sottosuolodella capitalesuscita richiamialla modernità,dal cinema caverna Benjamin

●●●Situata sull’Ile de la Cité, la Criptaarcheologica sotto il sagrato della Chiesa diNotre-Dame offre l’ennesima occasione nonclandestina per scendere nelle viscere di Parigi.Come descrive l’accurato sito internet, il visitatoretroverà qui, in ordine cronologico inverso, daldiciannovesimo secolo all’epoca romana: traccedelle fognature del periodo haussmaniano,fondazioni dell’ospizio degli Enfants-Trouvés, restidella medievale rue Neuve Notre-Dame,sottosuolo della cappella dell’Hôtel-Dieu, mura dicinta del IV secolo, insediamenti gallo-romani equello più antico di Lutezia. Realizzata nel 1974, inseguito a degli scavi realizzati tra il 1965 e il 1972,aperta al pubblico sin dal 1980, la cripta è ora ancheluogo di esposizione, come testimonia Parisdisparu/Paris restitué (fino al 31 dicembre2014). In realtà Parigi – la Ville lumière – è anche la

città della «cataphilie», ovvero dell’esplorazionenomade e clandestina delle cave della città, attivitàformalmente vietata sin dal 1955. Per renderseneconto basta vedere le foto di Felix Nadar del 1861o leggere la classica guida di oltre 600 pagine diEmile Gérards, Paris souterrain, pubblicata nel 1908e ristampata di recente. Per un approccio piùaccademico resta insostituibile La cité des cataphiles.Mission anthropologique dans les souterrains de Paris(1983, 2008) di Barbara Glowczewski eJean-François Matteudi con un’introduzione di FelixGuattari. Senza dimenticare Lazar Kunstmann,membro del gruppo La Mexicaine De Perforationche ha allestito il cinema sotterraneo scovato dallapolizia nel settembre 2004 sotto il Palais deChaillot, organizzatore di festival di cinemaclandestini, hacker del patrimonio sotterraneo eautore de La culture en clandestins. L’UX (2009).

Uno «sguardo» sulle catacombe di Parigi;in piccolo, «La Visite aux Catacombes»,acquarello, 1804-1814,Parigi, Musée Carnavalet