CAPITOLO SETTIMO LE CONVIVENZE E LA FAMIGLIA DI FATTO PREMESSA
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CAPITOLO SETTIMO
LE CONVIVENZE E LA FAMIGLIA DI FATTO
PREMESSA
La convivenza ‘more uxorio’ in Italia rimane ancora priva di una disciplina giuridica organica. In
particolare, un riconoscimento indiretto alla convivenza viene disposto dal richiamato art. 42, legge
8 febbraio 2006, n. 54 – che prevede l’applicazione delle regole concernenti l’affidamento dei figli
di genitori coniugati a quelli conviventi – e, prima ancora, dall’art. 317 bis2, c.c., che attribuisce
l’esercizio della potestà sul figlio naturale ad entrambi i genitori che lo abbiano riconosciuto, se
conviventi. È opportuno ricordare, inoltre, l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 – dapprima confluita nel progetto di Costituzione
Europea ed ora destinata ad acquisire efficacia vincolante con l’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona (1-12-2009) –, secondo cui “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono
garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. La formulazione della norma
sembra riconoscere pari dignità alle più diverse forme di convivenza, anche tra persone dello stesso
sesso.
In assenza di una disciplina legislativa, la stessa terminologia utilizzata nel corso del tempo per
indicare questa realtà si è modificata in sintonia con i mutamenti del costume e degli atteggiamenti
dei giuristi: da concubinato, a convivenza ‘more uxorio’, a famiglia di fatto.
In termini negativi, ciò che sicuramente distingue la famiglia di fatto dalla famiglia fondata sul
matrimonio è la costituzione di quest’ultima attraverso un atto formale, laddove la prima sorge
spontaneamente in assenza di qualsiasi formalizzazione pubblica. In termini positivi, invece, si
valorizza l’‘affectio’ quale elemento di caratterizzazione della convivenza che deve essere
caratterizzata da inequivocità, serenità e stabilità.
I RAPPORTI PERSONALI E PATRIMONIALI TRA CONVIVENTI
Quelli che sono obblighi legali per i coniugi (fedeltà, assistenza materiale e morale, collaborazione,
coabitazione, contribuzione) nella famiglia di fatto sono invece espressione dell’autonomia dei
conviventi; peraltro, l’osservanza di fatto di regole analoghe a quelle in base alle quali l’art. 143 c.c.
organizza l’insieme dei rapporti coniugali, costituisce un vero e proprio indice oggettivo necessario
per qualificare una certa situazione come famiglia di fatto.
Rispetto ai doveri, però, particolare rilevanza assume l’assistenza materiale e la somministrazione
dei contributi necessari al soddisfacimento delle comuni esigenze di vita; oggi la giurisprudenza le
riconduce all’istituto dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.) sul presupposto che quanto prestato
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da un convivente a favore dell’altro ovvero nell’interesse comune trovi la propria giustificazione
nell’adempimento di un dovere di natura morale o sociale caratterizzato dall’irripetibilità.
In ordine ai rapporti patrimoniali si esclude l’applicazione del regime di comunione legale dei beni.
La giurisprudenza ha affermato che il contributo del partner all’acquisto di un bene non è di per sé
rilevante al fine di considerare il bene comune, salva la possibilità di stipulare una convenzione
instaurativa di una sorta di regime di acquisti comuni.
Ugualmente si esclude che il convivente che presti attività lavorativa nell’impresa dell'altro, possa
godere della tutela attribuita al coniuge dall’art. 230 bis c.c.
LA CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA
È opinione ormai consolidata che non vi sia alcun obbligo di risarcire il danno causato dalla rottura
del ménage a carico del convivente che abbia unilateralmente deciso di porre termine alla relazione,
in quanto la convivenza ‘more uxorio’ si caratterizza quale rapporto fondato sulla libertà e
spontaneità dei comportamenti.
In caso di cessazione della convivenza sovente si pone il problema dell’assegnazione della casa
familiare. La persona convivente, in quanto legata al partner proprietario dell’immobile da un mero
rapporto di fatto, non gode di un diritto autonomo alla coabitazione, ma ha soltanto un semplice
godimento di fatto.
Il discorso sull’assegnazione dell’abitazione familiare cambia radicalmente in caso di presenza di
prole, poiché trova applicazione alla fattispecie il disposto dell’art. 155 quater c.c.
In ordine ai profili successori, in caso di morte di un convivente nessuna tutela è prevista per legge
a favore del superstite, a meno che non vi sia un testamento.
Inoltre, il partner ha diritto al risarcimento del danno morale per morte del convivente, nella specie
avvenuta a seguito d’incidente stradale.
LA CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA E I PROVVEDIMENTI RIGUARDANTI I FIGLI
Gli effetti della cessazione della convivenza con riguardo ai figli sono regolati dagli artt. 155 e ss.
c.c.
Secondo la consolidata interpretazione giurisprudenziale – antecedente la riforma del 2006 – le
decisioni relative all’affidamento della prole in caso di contrasto tra i partners erano ripartite tra
tribunale ordinario e tribunale per i minorenni, spettando al primo le statuizioni concernenti il
mantenimento dei figli, e al secondo ogni decisione circa la scelta del genitore affidatario della
prole.
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A seguito dell’entrata in vigore della riforma del 2006, si è affermata la competenza del giudice
ordinario a decidere in ordine ad ogni profilo relativo alla prole (di carattere patrimoniale come di
carattere personale), ma è rimasto dibattuto l’interrogativo circa l’individuazione del giudice
competente per le decisioni concernenti la filiazione naturale. La Corte di Cassazione ha risolto il
conflitto dichiarando competente a decidere il tribunale per i minorenni, sia in ordine alle misure
relative all’esercizio della potestà e all’affidamento del figlio, sia a quelle economiche inerenti al
mantenimento.
I CONTRATTI DI CONVIVENZA
La dottrina ha individuato nel contratto uno strumento potenzialmente idoneo a coniugare le
esigenze di libertà ed autonomia che la convivenza esprime con le istanze di tutela individuale di
ciascuno dei conviventi. Si parla, al riguardo, di contratti di convivenza, convenzioni che i partners
possono stipulare allo scopo di regolare gli aspetti patrimoniali del loro rapporto. Queste intese
mirano principalmente a sottoporre a regole prefissate la soluzione di eventuali conflitti di natura
patrimoniale che potrebbero insorgere durante la vita di coppia.
Quanto ai requisiti soggettivi, la dottrina ritiene necessaria la capacità di agire dei conviventi.
Per quanto riguarda il contenuto, il contratto è nullo se contiene pattuizioni relative agli aspetti
personali, quali la fedeltà, l’assistenza morale, la collaborazione e la coabitazione, in quanto privi
del necessario carattere della patrimonialità.
La pattuizione di prestazioni di carattere economico per il periodo successivo alla cessazione della
convivenza è ritenuta valida, quantomeno se il fine è quello di assistenza o di soccorso al
convivente in condizioni di maggiore difficoltà economica.
In relazione alla forma, valgono i principi generali in materia di contratto, di talché, fermo restando
il principio di libertà delle forme, tali contratti devono assumere la forma eventualmente richiesta
per la validità dei singoli atti di attribuzione.
Diverso è il problema della forma richiesta ai fini della prova. Per poter uscire dallo schema delle
obbligazioni naturali, i contratti di convivenza richiedano che l’accordo risulti da atto scritto.
LE COPPIE OMOSESSUALI
La materia delle convivenze omosessuali, nell’ultimo quindicennio, è stata regolamentata in vario
modo in numerosi Paesi europei ed extraeuropei.
Le forme di protezione accordate variano notevolmente da Stato a Stato.
La prima legge che si è occupata del fenomeno è stata quella danese, del 1989; essa ha istituito il
modello della ‘registered partnership’, per cui la registrazione dell’unione produce i medesimi
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effetti giuridici del matrimonio, salvo quanto previsto in materia di adozione e di potestà dei
genitori. Il modello è stato seguito negli anni successivi anche da Norvegia, Svezia, Islanda, Olanda
e Germania.
Una siffatta evoluzione delle normative nazionali è stata condivisa dal Parlamento europeo, le cui
risoluzioni dell’8 febbraio 1994 e del 16 marzo 2000, finalizzate alla rimozione di ogni forma di
discriminazione verso le persone omosessuali, richiedono un maggiore impegno della Commissione
e degli Stati membri nella tutela delle relazioni familiari fra persone dello stesso sesso, attraverso
l’apertura del matrimonio civile o di uno “strumento giuridico equivalente”.
In Belgio, Catalogna e Francia le normative si basano sulla parificazione rispetto alle coppie di
conviventi; in tal modo, viene offerta alle coppie di persone dello stesso sesso la medesima tutela
prevista per i conviventi.
Recentemente, nei Paesi Bassi, in Belgio e Spagna è stata attuata una radicale riforma della
normativa del matrimonio civile, che ammette alla celebrazione dell’atto anche due persone dello
stesso sesso.
La giurisprudenza italiana in tema di coppie omosessuali è alquanto scarna.
Ci sono state alcune pronunce che hanno equiparato la convivenza tra due persone dello stesso
sesso alla convivenza ‘more uxorio’.
I PROGETTI DI LEGGE
La lacuna legislativa in tema di convivenze ha portato da tempo la dottrina ad interrogarsi
sull’opportunità di un intervento normativo e sulle modalità attraverso cui tale intervento dovrebbe
eventualmente attuarsi.
In particolare, qualche autore si mostra favorevole ad un processo di ampia assimilazione tra la
disciplina della famiglia legittima e quella della famiglia di fatto, da realizzarsi mediante
un’operazione interpretativa che faccia ricorso generalizzato all’analogia.
Altri, avvertendo l’esigenza di evidenziare la profonda differenza intercorrente tra i due modelli
familiari, ritiene che l’unica via che possa assicurare un’idonea tutela giuridica alla convivenza
‘more uxorio’ sia quella dell’autonomia privata. Gli interventi legislativi in materia dovrebbero, di
conseguenza, restare circoscritti e settoriali.
Un terzo indirizzo, ponendosi in una via intermedia, suggerisce di raggiungere un contemperamento
tra “libertà” e “responsabilità” dei conviventi e prospetta, a tal fine, uno “statuto delle coppie
conviventi” destinato ad assicurare alla famiglia di fatto un nucleo minimo di giuridicità solo
tendenzialmente coincidente con la disciplina della famiglia legittima.
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Anche le forze politiche, in anni recenti, hanno dimostrato una notevole attenzione al tema delle
convivenze e numerose proposte di legge sono state presentate al fine di approntare una disciplina
organica del fenomeno.
Nel febbraio 2007 il Governo predispose un disegno di legge che si proponeva di disciplinare i
diritti e i doveri delle persone stabilmente conviventi (cd. DICO). Il progetto prevedeva il sorgere in
capo ai conviventi, per effetto di una dichiarazione resa all’ufficio anagrafe, di un complesso di
diritti, doveri e facoltà. Le relative disposizioni erano indirizzate a persone maggiorenni e capaci,
anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, stabilmente conviventi e che si
prestassero assistenza e solidarietà materiale e morale. In particolare, si prevedeva che in caso di
malattia e ricovero le strutture sanitarie regolassero l’esercizio del diritto di accesso del convivente
per fini di visita e di assistenza; ancora, che ciascun convivente potesse designare l’altro quale suo
rappresentante in caso di malattia o di morte, per concorrere alle decisioni in materia di salute
ovvero per decidere in merito alla donazione di organi o alle celebrazioni funerarie. Con riguardo ai
trattamenti previdenziali e pensionistici, poi, l’art. 10 del d.d.l. prevedeva l’introduzione, in sede di
riordino del sistema pensionistico, dell’attribuzione di una prestazione al convivente – a fronte di un
periodo minimo di convivenza – commisurata alla durata della medesima e tenendo conto delle
condizioni economiche e patrimoniali del convivente superstite. Il disegno di legge prevedeva
altresì che, trascorsi 9 anni dall’inizio della convivenza, il partner potesse concorrere – in misura
variabile a seconda della presenza o meno di altri legittimari – alla successione legittima dell’altro.
Un altro progetto di legge prevedeva l’introduzione nel c.c. della disciplina del “Contratto d’unione
solidale”, contratto concluso da persone maggiorenni per l’organizzazione della vita in comune o
dopo la sua cessazione e diretto a regolare la convivenza tra due individui a prescindere dalle
ragioni sottostanti. Il contratto di unione solidale – da registrarsi presso l’archivio notarile
competente – non sarebbe attributivo di alcun tipo di status familiare, anche se da esso deriverebbe
un non trascurabile complesso di diritti e di doveri. In particolare, i soggetti firmatari dovrebbero
portarsi aiuto reciproco secondo quanto stabilito dal contratto e in proporzione ai propri redditi, alle
proprie sostanze e alle capacità di lavoro professionale e casalingo, nonché rispondere dei debiti
contratti da uno solo in ragione dei bisogni della vita in comune e delle spese relative all’alloggio,
previsione questa che attualmente non ha equivalente neppure nell’ambito della disciplina
matrimoniale.
Ancora, nel contratto d’unione solidale i firmatari potrebbero optare per il regime di comunione dei
beni.
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Gli effetti della cessazione della convivenza – per comune accordo, per decisione unilaterale, per
matrimonio o per morte – verrebbero regolati contrattualmente dai firmatari, salvo l’intervento del
giudice in assenza di un’espressa regolamentazione pattizia.
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CAPITOLO OTTAVO
IL RAPPORTO GENITORI-FIGLI
PREMESSA
L’art. 30 Cost. stabilisce che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare la prole,
anche se nata fuori del matrimonio. Sembra che la norma si riferisca esclusivamente al vincolo
biologico e naturalistico di filiazione, e che quindi non vi sia spazio per discriminazioni tra figli
legittimi e naturali – riconosciuti o non – in dipendenza di meri aspetti giuridico-formali.
Cionondimeno, secondo uno schema risalente ai codici del secolo scorso, anche nell’attuale
normativa la disciplina giuridica della filiazione è ripartita e differenziata a seconda che i genitori
siano o meno uniti nel vincolo del matrimonio; nell’un caso si ha filiazione legittima, nell’altro
naturale a sua volta distinta in filiazione naturale riconosciuta o giudizialmente dichiarata, ovvero
non riconosciuta od irriconoscibile.
In passato, a ciascuna di queste situazioni corrispondeva una ben diversificata situazione giuridica
del figlio. La pienezza dello status di filiazione era attribuita alla sola filiazione legittima che
godeva di ogni tutela: nei confronti dei genitori, obbligati al mantenimento, all’educazione ed
all’istruzione, degli ascendenti, anch’essi tenuti al mantenimento, ed anche dei parenti, soggetti in
determinate circostanze all’obbligo alimentare. Mentre, quanto ai figli naturali, il legislatore
disponeva (e dispone) ‘per relationem’. I figli naturali riconosciuti godevano d’identica tutela, ma
solo nei riguardi del genitore che aveva effettuato il riconoscimento; ai figli non riconosciuti o non
riconoscibili era attribuita una protezione limitata, potendo essi ricevere dal genitore solo un
sussidio di natura alimentare.
Anche sul piano successorio la condizione dei figli nati da genitori uniti in matrimonio era assai
differenziata rispetto a quella degli altri. Ai figli legittimi era, infatti, riservata una quota
indisponibile dell’eredità; i figli naturali riconosciuti erano eredi necessari, ma la loro quota era di
entità ridotta; ai figli non riconosciuti o non riconoscibili era invece attribuito unicamente un
assegno vitalizio di natura alimentare. Infine, la successione per rappresentazione era condizionata
dalla legittimità della filiazione.
Il modello familiare accettato – e quindi legittimo perché conforme al diritto ed al costume – era
quello fondato sul matrimonio, che rappresentava l’unico ambito in cui la filiazione trovava dignità
e piena protezione; il presupposto implicito del sistema – ben avvertito nel costume sociale – era
che la filiazione per essere lecita dovesse sempre originare da genitori uniti in matrimonio.
Matrimonio, all’epoca indissolubile, che da un lato conferiva legittimità alla prole, e dall’altro,
stante il divieto di legge, impediva a chi era coniugato di riconoscere un figlio adulterino, il quale,
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visti i limiti posti alla dichiarazione giudiziale di genitorialità, non poteva agire per l’accertamento
della filiazione. Solo i figli concepiti nel matrimonio ricevevano una vera ed integrale tutela; i nati
da unioni di fatto o da rapporti occasionali, specie se in conflitto col vincolo matrimoniale, subivano
un trattamento deteriore. L’obiettivo della legge non era tanto quello di discriminare le categorie di
figli sulla base di valutazioni etiche, bensì di conferire dignità e quindi di rafforzare la sola famiglia
legittima, intesa quale unica entità sociale e giuridica – vera e propria istituzione – capace di
assolvere ai compiti di mantenimento, istruzione ed educazione necessari per assicurare un’ordinata
vita sociale; ed altresì come struttura in grado di garantire la conservazione e la trasmissione del
patrimonio.
Si evitava così che si potesse creare una struttura familiare parallela a quella legittima, arrivando a
sacrificare le posizioni individuali con esso configgenti, ed in modo particolare quelle dei figli
adulterini.
Per contro, talvolta la tutela del nucleo legittimo conduceva alla conseguenza opposta, poiché il
rigore del sistema poteva agevolare l’acquisto ed il mantenimento dello status di figlio legittimo
anche contro la verità biologica della procreazione. Infatti, la presunzione di paternità del marito e
gli ostacoli frapposti all’esercizio dell’azione di disconoscimento di paternità finivano talvolta per
attribuire lo status di legittimità anche al figlio di donna coniugata che era stato concepito
sicuramente al di fuori del matrimonio.
Oggi la legge ha profondamente mutato prospettiva: alla filiazione naturale – è scomparsa
l’espressione illegittima – si è data la stessa dignità di quella legittima, attraverso la sostanziale
parificazione tra le due categorie di figli e l’abolizione di quei divieti che di fatto impedivano
l’accertamento della verità biologica e proteggevano, anche contro l’evidenza, il nucleo legittimo.
Infatti, la parità è stata stabilita sia nell’ambito dei rapporti personali sia successori. Inoltre, le
norme che hanno rimosso il divieto dell’accertamento giudiziale nei riguardi dei figli adulterini e di
quelli nati da genitori legati da vincoli di parentela in linea retta e in linea collaterale nel secondo
grado ovvero di affinità in linea retta, e quelle che hanno fissato i principi della libertà della prova e
dell’imprescrittibilità dell’azione consentono al figlio naturale di conseguire agevolmente
l’accertamento del proprio status giuridico.
E, in ultimo, la legge 54/2006 prevede un trattamento uniforme per l’affidamento dei figli a seguito
della rottura del rapporto genitoriale.
La famiglia legittima non rappresenta più l’unico modello di convivenza familiare approvato dal
legislatore, nonostante la codicistica sia ancora fortemente improntata sull’accertamento del vincolo
di filiazione, prima che sul rapporto genitore-figlio.
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Tutt’ora, infatti, tale disciplina è collocata nel Capo IV – Dei diritti e dei doveri che nascono dal
matrimonio – del Titolo VI – Del matrimonio – e ai figli naturali la disciplina si applica solo per
richiamo.
Si preannuncia quindi una riforma integrale della materia. È stato proposto un disegno di legge
delega che prevedeva la parificazione di tutte le forme di filiazione, in attuazione del principio di
eguaglianza dettato dalla Costituzione, il quale implica la tutela della filiazione in sé ed il
superamento di ogni differenza di disciplina del rapporto genitoriale. Si prevedeva pertanto – oltre
ad una modifica lessicale che sostituiva alla dizione “filiazione legittima” quella di “filiazione nel
matrimonio” e alla denominazione “filiazione naturale” quella di “filiazione fuori del matrimonio”
– l’accorpamento dei capi I e II del titolo VII del primo libro del codice in unico capo titolato
“Dello stato di figlio”, l’unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei
genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e fuori del matrimonio e l’adeguamento della
disciplina delle successioni e delle donazioni al principio di equiparazione tra le due categorie.
In questa prospettiva il progetto di legge proponeva la riforma dell’istituto della parentela, per
superare il restrittivo orientamento interpretativo dell’art. 258 c.c. – in forza del quale il
riconoscimento produce effetti solo nei confronti del genitore che riconosce – che esclude la
configurabilità di un rapporto di parentela tra fratelli naturali.
Assodata la tendenziale unitarietà dello status di filiazione, deve tuttavia ricordarsi che il codice e le
leggi speciali dettano differenti modalità di attribuzione dello status a seconda che la filiazione sia
legittima o naturale. Affinché sorga il vincolo giuridico genitore-figlio, infatti, è necessario che si
formi un titolo di stato, cioè, un atto di nascita – di figlio legittimo o naturale, a seconda dei
presupposti – altrimenti il rapporto genitore-figlio resta confinato nell’ambito di quanto disposto
dagli artt. 279, 580 e 584 c.c. (figli non riconoscibili, genitore putativo). Inoltre, in mancanza del
titolo dello stato, e cioè qualora il figlio risulti iscritto allo stato civile come di ignoti, la legge
stabilisce, salvo eccezioni, che si dia corso immediatamente alla procedura di adozione, cosicché
ogni rapporto giuridico coi genitori biologici è destinato a cessare.
In passato, se i genitori erano coniugati, il titolo dello stato si formava automaticamente – a
prescindere dal loro consenso – in sede di denunzia di nascita; se, invece, non lo erano, il titolo
dello stato poteva formarsi solo in dipendenza di una dichiarazione del(i) genitore(i) o, in
mancanza, di un accertamento giudiziale richiesto dal figlio.
Nel 1997 è stata introdotta per la madre la facoltà, anche se coniugata, di non essere nominata
nell’atto di nascita, attribuendo quindi alla donna il potere insindacabile di impedire la formazione
di qualsiasi titolo dello stato – poiché il figlio, in detta ipotesi, viene dichiarato come d’ignoti – o di
consentire la formazione di un titolo dello stato di figlio naturale.
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L’art. 30 del d.p.r. n. 396/2000 ha abrogato il precedente ordinamento dello stato civile, poiché
prevede l’indicazione delle generalità dei genitori legittimi, purché la madre non si opponga, e di
quelli naturali, qualora i medesimi rendano la dichiarazione di riconoscimento o abbiano espresso,
con atto pubblico, il proprio consenso, ad essere nominati.
IL COGNOME
Ancorché manchi un’espressa disposizione di legge, al nato da unione legittima viene imposto il
cognome del marito, secondo una norma desumibile dal sistema frutto della radicata tradizione
sociale per cui la famiglia legittima deve avere un unico cognome.
In verità in altri ordinamenti si danno soluzioni più rispettose dell’eguaglianza tra i coniugi. In
Spagna, ad es., al figlio viene trasmesso il cognome da parte di entrambi i genitori.
Nell’ordinamento tedesco i coniugi hanno la facoltà di scegliere il cognome della famiglia.
I criteri per determinare il cognome da attribuire al figlio naturale sono dettati all’art. 262 c.c., in
base al quale l’assunzione esclusiva del cognome paterno è prevista nell’ipotesi del riconoscimento
contestuale effettato da entrambi i genitori, mentre qualora il riconoscimento avvenga in tempi
diversi la regola è quella della priorità del riconoscimento, salva la possibilità per il figlio, nel caso
di riconoscimento successivo da parte del padre, di assumere il cognome paterno in aggiunta o in
sostituzione a quello materno.
Altro ordine di questioni si pone allorché si verta in ipotesi in cui il figlio, legittimo o naturale,
perda il cognome paterno a seguito di un’azione di contestazione o disconoscimento, ovvero
all’annullamento dell’atto di riconoscimento in virtù del quale aveva assunto il cognome paterno.
L’art. 953, d.p.r. n. 396/2000 prevede che in detti casi l’interessato può comunque richiedere il
riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo
costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale. Uguale facoltà di scelta è
concessa al maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito
della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché al figlio d’ignoti
riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente
da entrambi.
È attualmente in discussione un progetto di legge che propone di introdurre la regola secondo la
quale l’ufficiale di stato civile deve attribuire al figlio nell’ordine il cognome del padre e quello
della madre. È comunque riconosciuta ai genitori la possibilità di stabilire un ordine diverso con
dichiarazione concorde resa all’ufficiale di stato civile all’atto del matrimonio o, in mancanza,
all’atto della registrazione della nascita del primo figlio. Al fine di assicurare che i figli degli stessi
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genitori abbiano il medesimo cognome, il progetto di legge propone che ai figli successivamente
generati dai medesimi genitori sia attribuito lo stesso cognome del primo figlio.
Sempre per garantire pari dignità ad entrambi i genitori, la riforma prevede che nel caso di
riconoscimento successivo di uno dei genitori il cognome del genitore che ha effettuato il
riconoscimento successivo, ovvero nei confronti del quale è stata accertata successivamente la
filiazione, si aggiunga a quello del genitore che ha riconosciuto per primo. Infine, nell’ottica di
evitare un fenomeno di moltiplicazione dei cognomi nelle generazioni successive alla prima, è stata
introdotta la regola secondo la quale il figlio cui sono stati attribuiti i cognomi di entrambi i genitori
può trasmetterne al proprio figlio uno soltanto.
Alle norme sull’attribuzione del cognome si affiancano quelle relative alle aggiunte o modifica del
cognome: è prevista la possibilità per chiunque di fare richiesta per cambiare il cognome o
aggiungerne un altro al proprio. I soggetti richiedenti sono titolari di un mero interesse legittimo
all’accoglimento della richiesta di aggiunta o modifica; il Ministero dell’Interno, infatti, nel
decidere sulla richiesta, dovrà valutare se le ragioni addotte dagli istanti siano idonee a giustificare
la concessione. In particolare l’organo competente deve contemperare (secondo un principio di
discrezionalità) l’interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome, quale mezzo
d’identificazione della persona, con gli interessi privati – sia di ordine economico sia di ordine
morale – addotti dai richiedenti.
LA POTESTÀ DEI GENITORI
La legge non definisce la potestà genitoriale, ma si limita a stabilire che il figlio deve rispettare i
genitori (art. 315 c.c.) e che è soggetto alla loro potestà sino all’età maggiore o all’emancipazione
(art. 316 c.c.).
La potestà dei genitori è quell’insieme di poteri-doveri finalizzato alla crescita spirituale e fisica del
figlio, da esercitarsi nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni.
L’art. 147 è probabilmente il momento più impegnativo di tutta la riforma in quanto in precedenza i
genitori erano tenuti ad educare e istruire secondo i principi morali (e addirittura nel testo originario
del ’42, secondo il sentimento nazionale fascista): oggi non si fa più riferimento a modelli astratti
più o meno condivisi, ma si valorizza la struttura personale dell’individuo.
Ciò nonostante si è da alcuno evidenziato che il minore continua ad essere considerato non quale
soggetto di diritto, bensì quale destinatario incidentale di una serie di decisioni altrui. Tale
situazione di passività del minore sarebbe conseguenza di una normativa che tuttora lo considera
privo di autonomia ed inabile al compimento di qualunque scelta prima del raggiungimento della
maggiore età: promuovere la libertà del soggetto debole, oltre che la sua protezione finirebbe per
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determinare un positivo mutamento di prospettiva nella disciplina della potestà, che verrebbe
interpretata come “responsabilità genitoriale”, ossia non più solo quale potere-dovere esercitato in
posizione di disparità, bensì quale collaborazione ed indirizzo, in un piano di parità e nel rispetto
della personalità del minore.
Peraltro, è evidente come ad un simile risultato non possa giungersi soltanto attraverso strumenti
normativi.
Nella medesima direzione si muove un recente progetto di legge, il quale propone di inserire nel
corpo dell’art. 315 c.c. la previsione secondo la quale il figlio ha diritto, se capace di discernimento,
di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. In quest’ottica il concetto di
potestà si sposta verso quello di responsabilità.
La riforma affida la potestà genitoria ad entrambi i genitori, che devono esercitarla congiuntamente,
con la possibilità per entrambi di rivolgersi al giudice.
L’attuazione del principio paritario, relativamente alla potestà dei genitori, ha subito alcuni
temperamenti al fine di evitare il coinvolgimento dei minori nelle possibili crisi della vita coniugale:
in particolare, rimane attribuito al padre il potere di adottare provvedimenti urgenti ed indifferibili
in caso d’incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio.
Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all’età maggiore e all’emancipazione, ma nulla dice
in ordine al momento in cui sorge la potestà genitoriale. L’inizio della potestà si colloca in un
momento precedente alla nascita poiché i genitori hanno il potere di rappresentare il nascituro,
quello di accettare eredità o donazioni devolute a suo favore, nonché di amministrare le eredità
devolute ai nascituri concepiti.
Circa la fine della potestà, l’art. 3161, c.c. dispone che essa perdura sino all’età maggiore o
all’emancipazione del figlio; inoltre la potestà viene meno per morte del figlio o dei genitori, a
seguito della dichiarazione di adottabilità e di adozione, del provvedimento di decadenza dalla
potestà, nel caso di disconoscimento della paternità, di accoglimento dell’impugnativa del
riconoscimento, di accertamento della sussistenza di un rapporto di filiazione non riconoscibile.
IL DOVERE DI MANTENIMENTO
In base all’art. 30 Cost. è il primo obbligo dei genitori.
Il mantenimento deve essere commisurato ai redditi, alla consistenza del patrimonio ed all’idoneità
lavorativa e professionale dei genitori; in particolare, si ritiene che non possa esaurirsi nelle cure
prestate al figlio nella normale convivenza, ma riguardi anche la sfera della vita di relazione e le
esigenze di sviluppo della personalità. L’obbligo in esame si differenzia da quello alimentare sotto
vari aspetti: 1) la prestazione dovuta a titolo di mantenimento ha un contenuto più esteso non
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essendo limitata al soddisfacimento dei bisogni elementari di vita, ma comprende anche ogni altra
spesa necessaria per arricchire la personalità del beneficiario; 2) il mantenimento non è subordinato
allo stato di bisogno del beneficiario e discende automaticamente dalla posizione del singolo
all’interno della famiglia, a prescindere da qualunque altro presupposto, 3) l’onerato per essere
esonerato deve dimostrare, oltre alla mancanza di mezzi, anche l’incolpevole impossibilità di
procurarseli.
Il mantenimento dei figli grava su ciascun genitore chiamato a contribuirvi in proporzione alle
proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro. Il coniuge che abbia integralmente adempiuto
l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all’altro coniuge, è legittimato
ad agire ‘iure proprio’ nei confronti di quest’ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il
periodo anteriore alla domanda. Tale principio vale anche con riferimento alla filiazione naturale,
qualora il genitore che ha mantenuto il figlio intenda agire nei confronti dell’altro, una volta che sia
emersa la genitorialità a seguito di riconoscimento o dichiarazione giudiziale. In caso
d’inadempimento, potranno trovare applicazione le limitazioni della potestà previste negli artt. 330
e 333 c.c., e potrà anche giungersi alla dichiarazione dello stato di adottabilità se dovesse
configurarsi la condizione di abbandono del minore.
L’obbligo non viene meno con la maggiore età, ma perdura fino a che i figli non siano in grado di
inserirsi nel mondo del lavoro ed ottenere un’autonoma fonte di sostentamento, ovvero non si siano
volontariamente messi in condizione di conseguire un proprio reddito.
Oggi l’art. 155 quinquies c.c. fissa esplicitamente la sussistenza dell’obbligo di mantenimento dei
figli maggiorenni non indipendenti economicamente. Ancorché la norma sia riferita alla fase di
separazione dei genitori, è evidente che il principio affermato vale in sé e per sé ed integra quanto
previsto dall’art. 30 Cost. e dall’art. 147 c.c.
La citata disposizione dell’art. 155 quinquies c.c. prevede che il mantenimento in linea di massima
si attui mediante il pagamento di un assegno periodico versato direttamente al figlio. Tale modalità
varrà tendenzialmente anche con riferimento ai figli di genitori non separati, ma in detta ipotesi il
giudice potrebbe disporre diversamente qualora il figlio continui a convivere con i genitori, per es.,
prevedendo forme di mantenimento diretto, anche in relazione alle condizioni economiche della
famiglia.
Nei riguardi del figlio maggiorenne portatore di handicap grave, l’art. 155 quinquies2, c.c. sancisce
l’integrale applicazione delle disposizioni in tema di affidamento previste per i figli minori. È
certamente applicabile anche a genitori non separati e che pare prevedere l’obbligo dei genitori di
darsi carico per sempre della cura del figlio portatore di handicap.
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In attuazione del dettato costituzionale, l’art. 148 c.c. disciplina l’ipotesi in cui i genitori non
abbiano mezzi sufficienti per adempiere l’obbligo di mantenimento, individuando negli ascendenti,
legittimi e naturali, in ordine di prossimità, i soggetti tenuti a fornire ai genitori i mezzi necessari
per l’adempimento dei loro doveri. Rispetto alla disciplina previgente, occorre segnalare una
significativa differenza: mentre in precedenza l’insufficienza dei mezzi dei genitori determinava una
sorta di trasferimento del dovere di mantenimento da questi ultimi agli ascendenti, che così
assumevano un’obbligazione nei confronti dei discendenti minori, attualmente gli ascendenti sono
tenuti a fornire i mezzi per il sostentamento ai genitori stessi. In tal modo, il legislatore ha inteso
escludere ogni intromissione degli ascendenti nell’esercizio della potestà parentale tutelando, da un
lato, i genitori, ai quali spetta in via esclusiva il compito di stabilire come il contributo dei nonni
debba essere impiegato, dall’altro, gli stessi minori, ai quali viene garantito il mantenimento del
legame familiare in tutti i suoi aspetti, anche nei casi di difficoltà economica. La norma presenta
una fisionomia particolare rispetto alle altre disposizioni codicistiche che impongono obblighi
alimentari, in quanto attribuisce il diritto di credito non alle persone i cui bisogni debbono essere
soddisfatti, bensì ad altri soggetti (i genitori) ai quali spetta ‘iure proprio’ il diritto di pretendere
l’adempimento di tale obbligazione.
La violazione dei doveri che ciascun genitore ha nei confronti dei figli può far sorgere una
responsabilità ex contrattuale ed il conseguente obbligo di risarcire loro il danno cagionato.
IL DOVERE DI ISTRUZIONE
La Costituzione riconosce e tutela un diritto all’istruzione non soltanto in relazione al rapporto tra
genitori e figli (art. 301, Cost.), ma anche con riguardo a quello tra minore e istituzioni esterne alla
famiglia (art. 34 Cost.); si tratterebbe, pertanto, di una medesima funzione, attribuita a soggetti
diversi e realizzata con strumenti diversificati. All’interno della famiglia, i figli devono essere
istruiti nelle forme e nei limiti connaturati alle possibilità dei genitori, e nello stesso tempo, deve
essere consentito loro di esercitare il proprio diritto all’istruzione in una sede diversa da quella
familiare. Allo Stato spetta il dovere di predisporre le strutture attraverso le quali i genitori possano
adempiere al compito loro affidato, senza che, pertanto, si possa configurare una sostituzione a
questi ultimi nella guida all’insegnamento.
Più specificamente, agli organi scolastici e agli enti locali viene attribuita da un lato, la funzione di
predisporre le strutture affinché sia a tutti consentita una regolare frequenza della scuola
dell’obbligo, dall’altro, quella di vigilare al fine dell’individuazione della dispersione scolastica.
Per quanto attiene ai genitori, occorre evidenziare come la responsabilità per l’istruzione dei figli
fino a 14 anni venga sanzionata dall’art. 731 c.p., che punisce chiunque, rivestito di autorità o
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incaricato della vigilanza sopra un minore, ometta senza giusto motivo di impartirgli o di fargli
impartire l’istruzione elementare (da estendersi anche a quella media alla luce dell’art. 34 Cost.).
IL DOVERE DI EDUCAZIONE
Il vigente testo dell’art. 147 c.c. privilegia il soggetto nei cui confronti deve essere realizzata la
funzione educativa, obbligando i genitori a tener conto delle capacità, dell’inclinazione e delle
aspirazioni dei figli.
Quanto al contenuto, nella Costituzione non vengono indicati i principi a cui attenersi
nell’educazione della prole, mentre risulta soltanto che il compito educativo appartiene alla
famiglia, alla quale deve essere riconosciuta piena libertà nella scelta dei criteri e dei mezzi
educativi ritenuti più idonei. La libertà educativa, peraltro, incontra un primo limite nei principi
fondamentali dell’ordinamento, risultanti dalle disposizioni costituzionali e dalla legislazione
penale, dalle quali si evince una sorta di minimo etico imprescindibile per una convivenza civile.
La funzione educativa all’interno della famiglia deve essere svolta mettendo al centro il concetto di
persona, in quanto il principio costituzionale di uguaglianza non ammette la discriminazione del
minore per la sua giovane età rispetto agli adulti.
La famiglia è la prima di quelle formazioni sociali previste all’art. 2 Cost. in cui si svolge la
personalità dell’individuo, e deve quindi adempiere al ‘potenziamento della persona’, ponendo il
soggetto al centro e rendendolo partecipe nella realizzazione del rapporto educativo.
Può emergere un conflitto tra libertà di espressione del minore e autorità dei genitori, che deve
essere risolto contemperando i diritti primari del minore e il principio di unità della famiglia.
Il punto di equilibrio fra queste opposte esigenze si è identificato nella capacità di discernimento del
minore, intesa come gradualità dello sviluppo della persona, da valutare in concreto e in relazione
alle situazioni.
La giurisprudenza di merito ha da tempo riconosciuto un dovere dei genitori di rispettare le scelte
dei figli, soprattutto con riferimento allo studio, alla formazione professionale, all’impegno politico-
sociale, alla fede religiosa.
La giurisprudenza ha quindi cercato di individuare i limiti entro i quali debba essere correttamente
esercitata la potestà dei genitori, al fine non solo di garantire l’autonomia delle scelte del minore,
ma anche di costituire attorno a quest’ultimo una struttura familiare aperta in vista di un armonico
sviluppo della sua personalità.
Al riguardo, deve richiamarsi l’elaborazione giurisprudenziale relativa alla problematica dell’uso di
mezzi di correzione nell’esercizio dell’attività educativa. La Corte di Cassazione ha stabilito che le
norme del c.p. che disciplinano l’abuso dei mezzi di correzione (artt. 571 e 572 c.p.) vanno
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interpretate alla luce della Costituzione e del vigente art. 147 c.c., tenuto anche conto di quanto
stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (New York, 1989), e dalla
Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli (Strasburgo, 1996). Ne deriva che,
secondo la Suprema Corte, il termine ‘correzione’ va assunto come sinonimo di educazione. In ogni
caso non può più ritenersi lecito l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi. Ciò sia per il
primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, oramai soggetto
titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di
disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un
risultato di armonico sviluppo della personalità sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di
convivenza, utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice.
I DOVERI DEI FIGLI VERSO I GENITORI
I doveri dei figli verso i genitori sono disciplinati all’art. 315 c.c., che prevede in capo al figlio sia il
dovere di rispettare i genitori, sia quello di contribuire, in relazione alle proprie sostanze e al proprio
reddito, al mantenimento della famiglia, finché convive con essa. La norma in esame presenta
sensibili innovazioni rispetto al testo previgente. Sotto il profilo dei rapporti personali si registra la
sostituzione dell’espressione ‘onorare e rispettare’ con il semplice dovere di ‘rispettare’ i genitori.
Tale formulazione chiarisce che la posizione dei figli rispetto ai genitori non deve concepirsi in
termini di soggezione e obbedienza, ma di semplice rispetto nei confronti di coloro che sono
investiti della potestà.
Sotto il profilo dei rapporti patrimoniali, il sorgere del dovere di contribuzione in capo al figlio
presuppone che egli conviva con la famiglia ed abbia propri redditi e/o sostanze proprie, mentre non
è in alcun modo collegato né al profilo dell’età né a quello del rapporto di parentela che lo lega agli
altri componenti della famiglia con i quali convive.
L’ABBANDONO DELLA CASA FAMILIARE
L’art. 318 c.c. sancisce il dovere del figlio di non abbandonare la casa dei genitori (o del genitore
che esercita su di lui la potestà) e riconosce in capo a questi ultimi il potere di richiamarlo anche
ricorrendo, se necessario, al giudice tutelare. Il genitore, dunque, potrà ricondurre all’abitazione
familiare il figlio allontanatosi anche mediante l’uso della coercizione fisica; conseguentemente,
secondo un’opinione, persino i comportamenti che integrano i reati di cui agli artt. 605 c.p.
(sequestro di persona) e 610 c.p. (violenza privata) dovrebbero in linea di principio ritenersi
scriminati dall’esercizio di tale diritto. L’intervento del giudice viene in considerazione solo qualora
i genitori non riescano autonomamente a ricondurre il figlio alla casa familiare.
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L’ESERCIZIO CONGIUNTO DELLA POTESTÀ ED IL RICORSO AL GIUDICE
In conformità all’art. 30 Cost., l’art. 3162, c.c. attribuisce la titolarità della potestà ad entrambi i
genitori, che sono tenuti ad esercitarla di comune accordo, determinando insieme l’indirizzo
generale che ciascuno poi potrà attuare anche separatamente.
Il legislatore ha disciplinato l’eventualità di un disaccordo dei genitori; e così il terzo comma
dell’art. 316 c.c., con una disposizione che sembra estendere al rapporto genitori-figli il principio
stabilito dall’art. 145 c.c. per l’ipotesi di disaccordo dei coniugi, prevede, in caso di contrasto su
questioni di particolare importanza, la possibilità per ciascuno dei genitori di ricorrere senza
formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più opportuni. In tal caso, il giudice,
sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore di anni 14, suggerisce le determinazioni che ritiene più
adeguate nell’interesse del figlio e dell’unità familiare (intervento conciliativo). Qualora, poi, il
contrasto permanga, il giudice può attribuire il potere di decidere, nel singolo caso, al genitore che
ritenga più idoneo a curare l’interesse del figlio (intervento a carattere sostitutivo).
L’ESERCIZIO DELLA POTESTÀ NELLA FILIAZIONE NATURALE
Dal combinato disposto dagli artt. 317 bis e 261 c.c. è dato ricavare la disciplina della potestà nei
casi di filiazione naturale. L’esercizio del potere spetta al genitore che abbia effettuato il
riconoscimento e, nel caso in cui entrambi abbiano proceduto al riconoscimento, ad ambedue, se
conviventi o al solo genitore con cui il figlio convive; infine, qualora manchi il presupposto della
convivenza, la potestà è esercitata da quello dei genitori che per primo abbia riconosciuto il figlio. Il
giudice, nell’esclusivo interesse del minore, può disporre diversamente e può anche nominare un
tutore, escludendo entrambi i genitori dall’esercizio della potestà.
Solo in caso di violazione dei doveri da parte dei genitori, o in caso di loro incapacità, potrà
ammettersi la nomina di un tutore e la conseguente cessazione della potestà dei genitori.
Le disposizioni in materia di potestà non sono generalmente ritenute applicabili alla prole
irriconoscibile.
IL CONTROLLO GIUDIZIARIO SULLA POTESTÀ
Il legislatore ha previsto, nel caso in cui il genitore violi o trascuri i suoi doveri o abusi dei suoi
poteri o tenga comunque una condotta pregiudizievole nei confronti del figlio, la possibilità di
predisporre, ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c. le misure necessarie ad assicurare al minore
un’effettiva tutela del suo interesse. Quando i genitori non esercitino adeguatamente l’ufficio
nell’interesse del figlio, il giudice può intervenire privandoli della potestà, dettando prescrizioni o
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addirittura sostituendosi ad essi al fine di assicurare al minore il soddisfacimento pieno dei suoi
diritti.
I provvedimenti che possono essere adottati variano in misura della condotta dei genitori e della
gravità del pregiudizio che essa arreca al minore. Lo strumento più incisivo è senz’altro la
pronuncia di decadenza della potestà, che può essere comminata quando il genitore viola o trascura
i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio (art. 330 c.c.).
Quando invece il comportamento dei genitori non sia tale da richiedere la decadenza dalla potestà
ma appaia comunque pregiudizievole, il giudice può adottare i provvedimenti che, sotto il profilo
educativo, ritenga convenienti nell’interesse del figlio.
In entrambi i casi, il giudice può, per gravi motivi, disporre anche l’allontanamento del genitore o
convivente che maltratta o abusa del minore.
Lo strumento dell’allontanamento del soggetto abusante consente al giudice di proteggere il minore
senza sradicarlo dal contesto familiare, come avveniva in passato.
L’art. 334 c.c., infine, nel caso in cui il patrimonio del minore sia male amministrato, prevede che il
tribunale possa rimuovere uno o entrambi i genitori dall’amministrazione, provvedendo, in
quest’ultimo caso, a nominare un curatore.
LA DECADENZA DALLA POTESTÀ E LA SUA REINTEGRAZIONE
Il giudice può pronunciare la decadenza della potestà quando il genitore viola o trascura i doveri ad
essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio (330 c.c.).
In giurisprudenza, la decadenza dalla potestà genitoriale è stata comminata, ad es., rispetto al
genitore separato non affidatario che ometta di tenere presso di sé i figli per determinati periodi di
tempo, oppure nel caso di maltrattamenti a carico del solo coniuge, e non nei confronti dei figli
minori, quando quei maltrattamenti possano turbare l’equilibrio psicofisico dei figli, o ancora in
situazioni connesse all’uso di sostanze stupefacenti da parte dei genitori; in linea di massima sembra
potersi affermare che l’orientamento dei giudici minorili sia quello di comminare la sanzione della
decadenza non tanto per il fatto in sé dell’uso di droga, ma quando la personalità del genitore
tossicodipendente evidenzi un disinteresse per i figli e non faccia intravvedere una volontà di
riabilitarsi.
La decadenza dalla potestà genitoriale può inoltre essere conseguente all’irrogazione di una
condanna penale nei casi previsti dalla legge: così in ipotesi di condanna all’ergastolo, od alla
reclusione per reati d’incesto, supposizione o soppressione di stato, alterazione di stato,
occultamento di stato di un fanciullo legittimo o naturale riconosciuto; ancora, in caso di condanna
per delitti attinenti alla sfera sessuale, ed infine, per il reato d’impiego di minori nell’accattonaggio.
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La decadenza determina l’effetto di sospendere tutti i diritti-doveri connessi alla potestà, salvo
l’obbligo di mantenimento, che del resto si ritiene comunemente estraneo al contenuto della potestà
genitoriale.
Il genitore nei cui confronti è stata pronunciata la decadenza rimane privato della potestà sul figlio,
il cui esercizio spetterà in via esclusiva all’altro genitore. Nei casi più gravi, oltre a pronunciare la
decadenza il giudice può disporre l’allontanamento del minore dalla residenza familiare, oppure del
genitore o del convivente che maltratta o abusa del minore.
L’art. 332 c.c. stabilisce che il giudice possa reintegrare nella potestà il genitore che ne è decaduto,
quando, cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata, è escluso ogni pericolo di
pregiudizio per il figlio. La reintegrazione comporta il riacquisto dei poteri inerenti la potestà,
compreso l’usufrutto legale.
I PROVVEDIMENTI «CONVENIENTI» PREVISTI DALL’ART. 333 c.c.
Quando il comportamento di uno o di entrambi i genitori non sia tale da richiedere una pronuncia di
decadenza dalla potestà, ma appaia comunque pregiudizievole nei confronti del figlio, l’art. 333 c.c.
consente al giudice di adottare, secondo le circostanze, i provvedimenti che ritenga opportuni,
compreso, se necessario, l’allontanamento del minore o del genitore dalla casa familiare. Tali
provvedimenti sono comunque revocabili in qualsiasi momento dal tribunale, quando siano venuti
meno i motivi per cui erano stati emanati.
I casi di giurisprudenza sono stati:
- Rifiuto ingiustificato dei genitori di autorizzare i trattamenti sanitari necessari per
salvaguardare la salute del minore, ravvisando in tale diniego un comportamento
pregiudizievole nei confronti della prole;
- Il comportamento del genitore che, senza apparente giustificazione, impedisca al figlio ogni
contatto con i nonni, sicché si è riconosciuto a questi ultimi la facoltà di ricorrere al giudice
per conseguire un provvedimento che, limitando la potestà del genitore, assicuri loro la
possibilità di mantenere proficui rapporti con il minore.
LA RAPPRESENTANZA E L’AMMINISTRAZIONE
L’art. 320 c.c. stabilisce che i genitori, o il genitore che esercita in via esclusiva la potestà,
rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni.
L’esercizio dei poteri di rappresentanza e amministrazione deve avvenire congiuntamente con
riguardo agli atti di straordinaria amministrazione nonché ai contratti con cui si concedono o si
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acquistano diritti personali di godimento, mentre può avvenire disgiuntamente quando si tratti di
compiere un atto di ordinaria amministrazione.
La rappresentanza concerne sia gli atti aventi natura patrimoniale che quelli a carattere personale.
Sotto l’aspetto patrimoniale, la rappresentanza viene in considerazione con riguardo
all’amministrazione del patrimonio. Sotto il profilo della cura della persona del minore, i genitori
agiranno in qualità di rappresentanti, in primo luogo, per la tutela dei diritti della personalità del
minore, con particolare riguardo alla manifestazione del consenso per i trattamenti sanitari.
Sono esclusi dalla rappresentanza i cd. atti personalissimi. I genitori non possono, ad es., in vece del
loro figlio, fare testamento o procedere al riconoscimento di un suo figlio naturale. Essi non
possono inoltre stipulare donazioni.
La funzione sostitutiva dei genitori concerne non solo i nati ma anche i nascituri.
Gli atti di straordinaria amministrazione, oltre che richiedere la partecipazione congiunta dei
genitori, non possono essere compiuti se non per necessità o utilità evidente del figlio, e solo dopo
l’autorizzazione del giudice tutelare.
Qualora i genitori non vogliano ovvero siano nell’impossibilità di compiere uno o più atti
nell’interesse del figlio che eccedano l’ordinaria amministrazione, può essere nominato un curatore
speciale che provveda al compimento di tali atti.
Dovranno ritenersi invalidi gli atti compiuti senza la prescritta autorizzazione del giudice tutelare.
L’annullamento potrà avvenire quando sia stato posto in essere da uno solo dei genitori un atto per il
quale è prevista la partecipazione congiunta, oppure quando i genitori abbiano agito in conflitto
d’interessi, infine nell’ipotesi in cui l’atto sia stato compiuto direttamente dal minore.
L’USUFRUTTO LEGALE
L’art. 324 c.c. dispone che i genitori esercenti la potestà hanno in comune l’usufrutto dei beni del
figlio.
Si ritiene che la previsione dell’usufrutto legale dei genitori sia ispirata dal generale principio della
solidarietà familiare; in questa prospettiva, la funzione dell’usufrutto legale consiste nel realizzare
un contributo del figlio al mènage della famiglia.
L’art. 3243, c.c. indica alcune categorie di beni sottratte all’usufrutto legale: i beni che il figlio ha
acquistato con i proventi del proprio lavoro; i beni lasciati o donati al figlio per intraprendere una
carriera, un’arte o una professione; i beni lasciati o donati con la condizione che i genitori esercenti
la potestà o uno di essi non ne abbiano l’usufrutto; i beni pervenuti al figlio per eredità, legato o
donazione e accettati nell’interesse del figlio contro la volontà dei genitori esercenti la potestà. In tal
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caso il figlio accetta per mezzo di un curatore speciale e i genitori vengono investiti della sola
amministrazione ma privati dell’usufrutto legale.
LA TUTELA E LA CURATELA DEL MINORE
La tutela è diretta alla cura del minore rimasto privo di genitori esercenti la potestà e trova
fondamento costituzionale nell’art. 302, Cost., ove è previsto che, in caso d’incapacità dei genitori,
sia la legge a disporre che siano assolti i loro compiti. In tali condizioni, al minore è quindi
nominato un tutore che lo rappresenta di fronte ai terzi e che, sostituendosi ai genitori, provvede alla
cura della sua persona e del suo patrimonio. Oltre all’ipotesi tipica su indicata, l’istituto della tutela
offre attualmente risposta anche alla sempre più numerosa presenza di minori stranieri non
accompagnati, per i quali la distanza rende impossibile l’esercizio della potestà genitoriale, pur non
potendosi considerare il minore completamente privo di un ambiente familiare idoneo.
L’organo deputato a sovrintendere la tutela, con l’assistenza dei competenti organi della p.a. (servizi
sociali, ecc.), è il giudice tutelare; è quindi il g.t. che nomina il tutore e il protutore – destinato a
sostituire il primo ove questi si venga a trovare in conflitto d’interessi con il minore ovvero quando
il tutore per qualsiasi motivo, venga a mancare – appena avuta notizia del fatto da cui deriva
l’apertura della tutela.
Le funzioni di tutore e protutore sono svolte gratuitamente; tuttavia, in considerazione dell’entità
del patrimonio del minore e delle relative difficoltà di amministrazione, il g.t. può assegnare al
tutore un’equa indennità ed eventualmente autorizzarlo a farsi coadiuvare da persone stipendiate.
È comunque possibile, per il genitore che ha esercitato per ultimo la potestà, indicare nel
testamento, ovvero con un atto pubblico o una scrittura privata autenticata, la persona che più
ritiene idonea ad assumere il ruolo di tutore del proprio figlio. In tal caso, il g.t. potrà discostarsi da
tale designazione solo per gravi motivi, che generalmente si sostanziano nella mancanza dei
requisiti d’ineccepibile condotta, idonei a fondare l’affidamento sulle capacità del designato di
educare e istruire il minore, conformemente a quanto prescritto nell’art. 147 c.c., in relazione ai
doveri dei genitori verso i figli. Nell’ipotesi in cui manchi la designazione da parte del genitore,
ovvero questa non possa essere presa in considerazione per gravi motivi, è compito del g.t.
individuare la persona più idonea al ruolo di tutore, preferibilmente scegliendolo tra gli ascendenti o
gli altri parenti prossimi o affini del minore. Prima della nomina, il g.t. deve sentire il minore che
abbia già compiuto 16 anni; se opportuno si può procedere all’audizione anche del minore
infrasedicenne.
Una volta individuato, il tutore deve prestare giuramento davanti al g.t. di esercitare il proprio
ufficio con fedeltà e diligenza; tale atto testimonia la rilevanza pubblicistica dell’istituto e deve
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essere prestato anche dal protutore. Solo dopo il giuramento il tutore assume formalmente l’ufficio;
prima di questo momento è quindi compito del g.t., d’ufficio o su richiesta del p.m., assumere i
provvedimenti urgenti necessari alla cura del minore o all’amministrazione del suo patrimonio.
LE FUNZIONI DEL TUTORE: Il tutore ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti
gli atti civili e ne amministra i beni. La disposizione vuole ricalcare quanto previsto in materia di
potestà dei genitori, ed in tal senso dispone anche che il minore, così come verso i genitori, deve
rispetto e obbedienza al tutore.
I poteri del tutore relativi alla cura della persona, pur disegnati a somiglianza di quelli previsti in
materia di potestà, sono meno estesi e soggetti a maggiori controlli rispetto a quelli dei genitori; il
tutore non è tenuto a convivere con il minore, né ha alcun obbligo di mantenimento nei suoi
confronti, deve, infatti, seguire le direttive impartite dal g.t. con riguardo a tutte le principali
decisioni in materia d’istruzione ed educazione del minore, dovendo inoltre sempre prendere in
considerazione la volontà espressa dal minore che abbia raggiunto la capacità di discernimento.
Sentito il parere del tutore, spetterà dunque al g.t. deliberare sul luogo ove il minore deve essere
allevato, sul suo avviamento agli studi e sulla spesa annua occorrente per il suo mantenimento. Le
somme necessarie per la crescita del minore devono essere reperite all’interno del patrimonio dello
stesso e, in caso d’incapienza, saranno erogate da un ente di assistenza.
Il generale potere di rappresentanza del minore in capo al tutore trova limite nel cd. ‘atti
personalissimi’ (matrimonio, riconoscimento del figlio naturale, ecc.), con riferimento ai quali il
tutore sarà semplicemente sentito dal g.t., il quale, a sua volta, dovrà valorizzare la volontà del
minore che abbia raggiunto una sufficiente capacità di discernimento.
Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia,
rispondendo dei danni cagionati in violazione dei propri doveri; in analoga responsabilità incorre il
protutore per la violazione dei doveri del proprio ufficio. Larga parte della dottrina afferma che
l’istituto della tutela mostri invero maggiore attenzione al profilo patrimoniale, piuttosto che alla
cura della persona.
Il primo atto cui il tutore deve provvedere, entro 10 giorni dalla nomina, è l’inventario dei beni del
minore, con il quale si documenta analiticamente la composizione e l’ammontare del patrimonio del
minore; prima che sia compiuto l’inventario il tutore deve limitarsi agli affari che non ammettono
dilazione, depositando danaro, titoli al portatore e preziosi, che eventualmente appartengano al
minore, presso un istituto di credito indicato dal g.t. Solo al termine dell’inventario, il tutore e il
protutore assumono e possono svolgere pienamente le proprie funzioni.
Appurata così la natura e la consistenza del patrimonio del minore, il tutore, previa autorizzazione
del g.t., deve investire i relativi capitali, cioè i beni mobili idonei a produrre reddito, con modalità
23
tali da contemperare le esigenze di sicurezze con quelle di fruttuosità dell’investimento stesso
(individuati dall’art. 372 c.c. nell’acquisto di titoli di Stato, d’immobili posti nello Stato, ecc.). Se,
nel patrimonio del minore, esiste un’azienda commerciale o agricola, si procede a un inventario
separato; spetterà poi al g.t. deliberare se continuare l’esercizio dell’impresa commerciale ovvero
alienarla, salva l’autorizzazione del Tribunale.
A maggiore garanzia del minore, per tutti gli atti di straordinaria amministrazione del suo
patrimonio, il tutore deve richiedere la preventiva autorizzazione del g.t. (per es., per l’acquisto di
beni non necessari per la vita quotidiana; per l’accettazione o la rinuncia all’eredità; per la
sottoscrizione di contratti di locazione ultranovennali; per la promozione di giudizi) o del tribunale
(per l’alienazione di beni, ad eccezione di quelli mobili soggetti a usura; per la costituzione di pegni
o ipoteche; per transizioni ecc.), sempre previo parere del g.t. Gli atti compiuti dal tutore senza
osservare le autorizzazioni giudiziali su indicate possono essere annullati, su istanza dello stesso
tutore, del minore o dei suoi eredi o aventi causa. Allo stesso modo, possono essere annullati gli
acquisti di beni o diritti del minore effettuati dal tutore o dal protutore, ai quali è vietato anche
prendere in locazione beni del minore, senza la previa autorizzazione e le cautele fissate dal g.t.
Il tutore, infine, deve tenere regolare contabilità della sua amministrazione e renderne conto al g.t.
una volta all’anno; quest’ultimo può decidere di sottoporre il rendiconto all’esame del protutore o di
qualche prossimo parente o affine del minore. Tenuto conto della particolare natura ed entità del
patrimonio del minore, il g.t. può imporre al tutore di prestare una cauzione, determinandone
l’importo e le modalità.
LA CESSAZIONE DALL’UFFICIO: Il tutore del minore non è tenuto a continuare l’esercizio del
proprio ufficio oltre i 10 anni, ad eccezione degli ascendenti. Al di là del decorso di questo termine,
il g.t. può sempre esonerare il tutore, qualora l’esercizio dell’ufficio sia divenuto soverchiamente
gravoso (es., per età, malattia, ecc.) e se vi sia altra persona idonea a sostituirlo. L’esonero
costituisce, dunque, una causa di cessazione dall’ufficio pronunciata nell’interesse del tutore, che
concreta un’attenuazione del principio di obbligatorietà della tutela. Fino al momento in cui il g.t.
non procede alla sostituzione, il tutore rimane comunque nel pieno esercizio del proprio ufficio.
Un’altra ipotesi di decadenza dall’ufficio tutorio, pronunciata questa volta nell’interesse del minore,
si ha nel caso in cui il g.t. rimuova il tutore che si sia reso colpevole di negligenza, abbia abusato
dei propri poteri o si sia dimostrato inetto o comunque inadeguato all’ufficio, anche per atti estranei
alla tutela (per es. sia divenuto insolvente). Il tutore che cessi dalle proprie funzioni deve
consegnare immediatamente i beni del minore e prestare al g.t. il conto finale dell’amministrazione
entro due mesi, salva proroga concessa dallo stesso g.t.
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L’apertura e la chiusura della tutela, la nomina, l’esonero o la rimozione del tutore, le risultanze
dell’inventario e del conto finale sono iscritti, a cura del cancelliere, nel registro delle tutele istituito
presso ogni g.t.; dell’apertura e della chiusura della tutela il cancelliere dà notizia, entro 10 giorni,
anche all’ufficiale dello stato civile per l’annotazione a margine dell’atto di nascita del minore.
LA CURATELA DEL MINORE EMANCIPATO: Il minore che abbia compiuto 16 anni e sia stato
autorizzato a contrarre matrimonio viene emancipato di diritto, acquisendo la capacità giuridica di
compiere autonomamente gli atti di ordinaria amministrazione, mentre, per gli atti di straordinaria
amministrazione, egli necessita dell’assistenza di un curatore. Si noti che il concetto di ‘assistenza’
comporta che il curatore debba limitarsi ad affiancare l’emancipato nelle decisioni più rilevanti, che
non possa imporgli una determinata decisione, dovendo invece esercitare la sua influenza perché il
minore opti per una soluzione condivisa da entrambi. Ove non si pervenga a tale soluzione, il
minore può ricorrere al g.t., il quale, se stima ingiustificato il rifiuto, nomina un curatore speciale
per assisterlo nel compimento di quel determinato atto. Analogamente, un curatore speciale è
nominato anche nel caso in cui sorga un conflitto d’interessi tra il curatore e il minore emancipato;
il curatore speciale ha gli stessi poteri che avrebbe avuto il curatore ordinario, pur con riferimento al
singolo atto per il quale è stato nominato.
Per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, oltre all’assistenza del curatore, è necessaria
l’autorizzazione del g.t.; per gli atti di cui all’art. 375 c.c. (alienazione di beni non di uso
quotidiano, costituzione di pegni o ipoteche, sottoscrizione di compromessi e transizioni), se il
curatore non è il genitore del minore, è invece necessaria l’autorizzazione del tribunale, su parere
del g.t. Gli atti compiuti senza la necessaria assistenza del curatore o senza l’autorizzazione
giudiziale (del g.t. o del tribunale) sono annullabili su istanza del minore o dei suoi eredi o aventi
causa.
L’autorizzazione del tribunale, previo parere del g.t. e sentito il curatore, è necessaria anche per
permettere all’emancipato di esercitare un’impresa commerciale. Il minore così autorizzato acquista
una capacità ‘semipiena’, in quanto può compiere da solo anche gli atti che eccedono l’ordinaria
amministrazione, pur se estranei all’impresa, sia perché chi è ritenuto capace di compiere atti
d’impresa, per loro natura particolarmente rischiosi, deve essere ritenuto capace di compiere anche
gli atti della vita civile, sia perché sarebbe difficile individuare una netta demarcazione tra atti
attinenti l’impresa e atti di straordinaria amministrazione ad essa estranei. L’autorizzazione è
subordinata all’accertamento della maturità e capacità necessarie in capo al minore, dovendo essere
considerati, in particolare, l’eventuale pregressa partecipazione all’impresa familiare e le altre
esperienze lavorative del minore, naturalmente in relazione alle difficoltà gestionali dell’impresa
che si vuole continuare o intraprendere e alla concreta convenienza della stessa. Si tratta comunque
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ancora di una capacità ‘limitata’ rispetto a quella del maggiorenne, rimangono, infatti, fermi, per
esempio, il divieto di fare donazioni e di accettare eredità senza il beneficio d’inventario.
MINORI E MASS MEDIA
Al di là dei compiti genitoriali è oramai maturata la consapevolezza che il minore, quale soggetto in
formazione, necessiti di tutele appropriate che devono essere approntate fuori dall’ambiente
familiare, e ciò con specifico riguardo ai suoi rapporti con i mass media.
Il rapporto minore/mass media deve contemperare il diritto di cronaca e il diritto del minore alla
riservatezza e a crescere in un ambiente idoneo, ricevendo adeguata educazione, tutti valori tutelati
costituzionalmente.
Il minore ha dunque diritto, in quanto soggetto passivo dei mass media, a fruire di programmi
adeguati alle proprie conoscenze e corrispondenti alle sue necessità di apprendimento, e quando
eventuale soggetto attivo, di tutele adeguate in termini di privacy.
Il primo intervento a riguardo fu quello di cui alla l. 8 febbraio 1948, n. 47, che sanzionò le
pubblicazioni destinate ai fanciulli e agli adolescenti, se offensive del loro sentimento morale o se
idonee a costituire per essi un incitamento alla corruzione, al delitto o al suicidio, ovvero ancora
quando la descrizione o l’illustrazione di vicende poliziesche e di avventure sia fatta,
sistematicamente o ripetutamente, in modo da favorire lo sviluppo d’istinti di violenza e
d’indisciplina sociale.
In ambito penalistico la l. n. 66/1996 introdusse a tutela del minore vittima di atti di violenza
sessuale, lo svolgimento del dibattimento a porte chiuse, con conseguente divieto di pubblicazione
dei relativi atti e di tutti i documenti idonei, anche indirettamente, a identificare il minore. Anche al
di fuori di fatti a rilevanza penalistica, il d.lgs. n. 196/2003 pone il divieto di pubblicazione e
divulgazione di notizie idonee a consentire l’identificazione del minore coinvolto a qualsiasi titolo
in un procedimento giudiziario, anche in materie diverse da quella penale.
Il d.lgs. n. 177/2005, cd. “Testo unico della radiotelevisione”, all’art. 4, rubricato “Principi generali
del sistema radiotelevisivo a garanzia degli utenti”, prevede che la disciplina del sistema
radiotelevisivo garantisca, a tutela degli utenti, la trasmissione di programmi che rispettino i diritti
fondamentali della persona, essendo comunque vietate le trasmissioni che anche in relazione
all’orario di trasmissione, possano nuocere allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori o che
presentino scene di violenza gratuita o insistita o efferata ovvero pornografiche; analogamente le
trasmissioni pubblicitarie e di televendite devono essere leali ed oneste, rispettare la dignità della
persona e non arrecare pregiudizio morale o fisico a minorenni. Inoltre, è prevista l’applicazione di
specifiche misure a tutela dei minori nella fascia oraria di programmazione dalle ore 16 alle ore 19 e
26
all’interno dei programmi direttamente rivolti ai minori, con particolare riguardo ai messaggi
pubblicitari, alle promozioni e ad ogni altra forma di comunicazione commerciale e pubblicitaria.
Specifiche misure devono essere osservate nelle trasmissioni di commento degli avvenimenti
sportivi anche al fine di contribuire alla diffusione tra i giovani dei valori di una competizione
sportiva leale e rispettosa dell’avversario, per prevenire fenomeni di violenza legati allo
svolgimento di manifestazioni sportive.
L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (istituita con l. n. 249/1997) ha, tra l’altro, il
compito di garantire l’effettività delle disposizioni sopra citate, monitorando le telecomunicazioni,
specie quelle radiotelevisive, per individuare eventuali violazioni dei diritti degli utenti.
Con riferimento alla pubblicità ingannevole e comparativa, in qualsiasi forma veicolata, sono state
emanate norme a tutela dei giovani spettatori, definendo ‘ingannevole’ la pubblicità che minacci,
anche indirettamente, la sicurezza dei bambini e adolescenti, o abusi della loro naturale credulità o
mancanza di esperienza, oppure che, impiegando bambini ed adolescenti in messaggi pubblicitari,
abusi dei naturali sentimenti degli adulti verso i più giovani (d.lgs. n. 145/2007).
LA SOTTRAZIONE INTERNAZIONALE DI MINORI
Negli ultimi anni ha assunto crescente rilievo il fenomeno della sottrazione internazionale di minori
(cd. ‘kidnapping’), ovvero del ‘rapimento’ del bambino da parte di uno dei genitori, per condurlo in
uno Stato diverso da quello ove egli abitualmente risiede.
Al fine di contrastare tale fenomeno sono state stipulate la Convenzione europea di Lussemburgo
del 20 maggio 1980, sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei
minori e di ristabilimento dell’affidamento, e quella dell’Aja del 25 ottobre 1980, sugli aspetti civili
della sottrazione internazionale di minori, il cui scopo è garantire l’immediato rientro del minore
illecitamente sottratto nel luogo di residenza abituale, e, conseguentemente, la sua restituzione al
genitore il cui diritto di custodia è stato violato.
Le Convenzioni predispongono un procedimento facilmente accessibile e rapido, il cui fulcro è
rappresentato dall’istituzione in ciascuno Stato contraente di un’Autorità centrale, che ha il compito
di intrattenere rapporti di collaborazione e scambio d’informazioni con le Autorità centrali degli
altri Stati contraenti al fine di agevolare l’immediato rientro del minore.
La celerità e sommarietà dei procedimenti rispondono all’esigenza di evitare che le lungaggini
processuali si traducano nel radicamento del minore nel luogo ove è stato condotto. L’art. 12 Conv.
dell’Aja prevede che le autorità giurisdizionali (o amministrative) possano ordinare il ritorno del
minore se adite entro il termine di un anno dall’avvenuta sottrazione; trascorso tale termine il
giudice potrà pur sempre ordinare il ritorno, salvo che non venga dimostrato che il minore si sia
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integrato nel nuovo ambiente. L’art. 81, lett. b), Conv. Lussemburgo prevede un termine ancora più
breve, fissato in 6 mesi dal trasferimento illecito.
La Convenzione di Lussemburgo presuppone che, anteriormente al trasferimento del minore, sia
stato emanato un provvedimento sull’affidamento, ovvero che, successivamente al trasferimento,
sia stato emanato un provvedimento sull’affidamento che abbia statuito sull’illiceità del
trasferimento predetto. Chiunque abbia ottenuto un provvedimento relativo all’affidamento di un
minore può, con l’attivazione del predetto strumento convenzionale, ottenere il riconoscimento o
l’esecuzione del provvedimento in un altro Stato contraente mediante il ricorso all’Autorità
centrale. Tale riconoscimento, però, non avviene automaticamente, ma è subordinato ad un
procedimento nel quale il giudice adito dovrà verificare l’esistenza di alcune condizioni tra cui la
competenza dell’autorità che ha emanato il provvedimento sull’affidamento o sul diritto di visita di
cui si chiede il riconoscimento e l’esecuzione, il rispetto del contraddittorio, la non contrarietà del
provvedimento medesimo ai principi fondamentali che regolano il diritto di famiglia e dei minori
dello Stato richiesto, la corrispondenza effettiva della decisione all’interesse del minore.
La Convenzione dell’Aja, invece, mira a ripristinare la custodia come situazione di fatto mediante il
rientro immediato del minore illecitamente sottratto alla custodia del genitore affidatario. Essa
prevede l’attivazione di un procedimento volto ad emettere un ordine di rientro da parte
dell’autorità giudiziaria o amministrativa del luogo ove il minore è stato illecitamente condotto.
La Convenzione dell’Aja appronta strumenti differenti a seconda che sia stato leso un diritto di
custodia – il quale comprende i diritti concernenti la cura della persona del minore e in particolare il
diritto di decidere riguardo al suo luogo di residenza – o un diritto di visita, il quale comprende il
diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato
di tempo. Nell’ipotesi in cui venga violato un diritto di custodia, scopo della Convenzione è quello
di ripristinare la situazione precedente la sottrazione e, dunque, l’immediato rimpatrio del minore
nel luogo di sua residenza abituale, mentre, qualora venga violato il diritto di visita del genitore non
affidatario, lo strumento convenzionale permette di avviare una procedura legale volta a garantire
l’esercizio (o l’organizzazione) di tale diritto.
In caso d’illecito trasferimento di un minore, il soggetto istante potrà attivare il procedimento per il
rimpatrio solo qualora, prima della sottrazione, esercitasse effettivamente il diritto di custodia.
Solo in casi tassativi il giudice può negare il rimpatrio al minore, ovvero quando la persona
affidataria non eserciti effettivamente il diritto di affidamento al momento del trasferimento o del
mancato rientro, o abbia consentito, anche successivamente, al trasferimento o al mancato rientro;
quando sussista un fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, a
pericoli fisici o psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile; infine, quando
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l’autorità giudiziaria o amministrativa accerti che il minore si oppone al ritorno e che ha raggiunto
un’età ed un grado di maturità tali che sia opportuno tener conto del suo parere.
In nessun caso, però, il giudice adito potrà ammettere nel giudizio questioni attinenti alla
sussistenza del ‘diritto di custodia’ in capo al genitore istante. Dette questioni determinerebbero,
infatti, un allungamento del procedimento e, in ogni caso, rischierebbero di tramutarsi in scorciatoie
per ottenere un giudizio sul merito davanti a un tribunale di propria scelta (dando vita al fenomeno
del cd. ‘forum shopping’).
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CAPITOLO NONO
L’ACCERTAMENTO DELLO STATO DI FILIAZIONE
LO STATO DI FIGLIO LEGITTIMO
In base alle regole vigenti, figli legittimi sono quelli generati dai coniugi in costanza di matrimonio.
L’ordinamento riconosce, infatti, al matrimonio l’attitudine a determinare lo status personale dei
figli concepiti dai coniugi, poiché comporta l’obbligo di fedeltà e quindi l’esclusività della relazione
sessuale, che appunto consente al legislatore di affermare che il marito è padre del figlio concepito
durante il matrimonio (art. 231 c.c.).
Presupposti della legittimità della filiazione sono i seguenti: a) matrimonio dei genitori; b) parto
della moglie; c) concepimento in costanza di matrimonio; d) paternità del marito.
a) Il matrimonio dei genitori può essere civile, oppure religioso con effetti civili. Non è necessario
che il matrimonio sia valido, poiché, secondo l’art. 128 c.c., gli effetti del matrimonio valido si
producono anche rispetto ai figli nati o concepiti durante il matrimonio dichiarato nullo, nonché
rispetto ai figli nati prima del matrimonio e riconosciuti anteriormente alla sentenza che dichiara la
nullità. Rispetto ai figli, gli effetti del matrimonio valido si producono anche qualora entrambi i
coniugi siano in mala fede – cioè conoscano la causa d’invalidità del vincolo – salvo che la nullità
dipenda da bigamia o da incesto.
b) in ordine all’accertamento della maternità, in primo luogo deve mettersi in risalto che non
necessariamente la donna che ha dato alla luce un figlio ne risulta giuridicamente la madre.
Nell’atto di nascita sono individuati il luogo, l’anno, il mese, il giorno e l’ora della nascita, le
generalità, la cittadinanza e la residenza dei genitori legittimi, nonché di quelli che rendono la
dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale. Sono altresì indicati il sesso del bambino e il
nome che gli viene dato.
c) L’art. 231 c.c. stabilisce che il marito è il padre del figlio concepito durante il matrimonio; si
tratta di una presunzione in forza della quale la paternità del figlio nato da donna coniugata viene
attribuita per legge, senza che sia necessaria alcuna dichiarazione da parte del marito, né tanto meno
una concreta ricerca dell’effettiva paternità.
Secondo quanto disposto dall’art. 232 c.c. si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato
quando sono trascorsi 180 giorni dalla celebrazione e non ne siano ancora trascorsi 300
dall’annullamento, dallo scioglimento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio. La
legge (art. 233 c.c.) reputa legittimo, salva l’esperibilità del disconoscimento della paternità, anche
il figlio nato prima che siano trascorsi 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio.
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Il figlio nato dopo i 300 giorni non acquista lo status di legittimità, salva la prova di una gravidanza
di eccezionale durata.
LA PROVA DELLA FILIAZIONE, TITOLO DELLO STATO E POSSESSO DI STATO
L’art. 236 c.c. stabilisce che la filiazione legittima si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri
dello stato civile secondo le modalità già esposte. L’atto di nascita prova legalmente la filiazione
legittima e dunque fornisce la prova di tutti gli elementi che la costituiscono: maternità, matrimonio,
concepimento in costanza di matrimonio e paternità, quest’ultima, attribuita per legge proprio in
forza dell’atto di nascita. L’atto di nascita è titolo dello stato di filiazione; esso, peraltro, non ha
carattere costitutivo, tant’è vero che in mancanza di atto di nascita la filiazione legittima può essere
provata con il possesso continuo dello stato di figlio legittimo.
L’art. 237 c.c. dispone che il possesso di stato risulta da una serie di fatti che nel loro complesso
valgono a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela tra una persona e la famiglia a cui essa
pretende di appartenere. Le figure del possesso di stato e dell’atto di nascita differiscono dal punto
di vista strutturale, in quanto la prima si riassume in un insieme di fatti che a loro volta devono
essere provati, mentre la seconda è prova documentale. Esse, tuttavia, sono assimilabili sotto il
profilo funzionale, essendo entrambe prove legali dello stato di figlio legittimo, e in quest’ambito si
vengono a trovare in rapporto di sussidiarietà, atteso che il possesso di stato vale come prova dello
status di figlio legittimo solo in assenza dell’atto di nascita.
Quando manca l’atto di nascita o il possesso di stato o il figlio fu iscritto sotto falsi nomi o come
nato da genitori ignoti, la prova della filiazione legittima può essere data anche per testimoni (241
c.c.); essa tuttavia risulta limitata nella sua ammissibilità dalla sussistenza di un principio di prova
per iscritto (art. 242 c.c.). Ulteriore caso di ammissione della prova per testimoni si ha qualora
esistano presunzioni e indizi abbastanza gravi da determinare l’ammissione della prova.
LE AZIONI DI STATO LEGITTIMO IN GENERALE
Con l’espressione azione di stato si definisce l’azione con la quale si chiede al giudice una
pronunzia sullo stato della persona.
Le azioni di stato legittimo disciplinate dalla legge sono:
⇒ l’azione di riconoscimento della paternità;
⇒ l’azione di contestazione della legittimità;
⇒ l’azione di reclamo della legittimità.
Esse sono dirette ad ottenere una pronunzia giudiziale relativa allo stato di figlio legittimo.
I caratteri delle azioni di stato sono:
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1) l’indisponibilità delle situazioni familiari;
2) l’esclusiva competenza del tribunale di tutte le cause relative allo stato delle persone;
3) il divieto di rimettere ad arbitri le controversie che riguardano questioni di stato.
Dalle azioni di stato si distinguono le azioni di rettificazione degli atti dello stato civile, queste
ultime differenti dalle prime in quanto essenzialmente rivolte alla correzione di errori materiali e ad
integrare atti incompleti.
IL DISCONOSCIMENTO DELLA PATERNITÀ
L’azione di disconoscimento della paternità è diretta a privare il figlio dello stato di legittimità
attribuitogli in forza degli artt. 231, 232, 233 cc.
Le azioni di disconoscimento della paternità sono due:
⇒ l’una disciplinata dall’art. 233 c.c. consente il disconoscimento del figlio nato prima che
siano trascorsi 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio;
⇒ l’altra, di cui all’art. 235 c.c. si esercita nell’ipotesi di figlio concepito - in forza della
presunzione di legge - durante il matrimonio.
Sono legittimati ad agire oltre al marito anche la madre e il figlio. Inoltre, l’azione può essere
promossa da un curatore speciale, nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni su istanza
del figlio minore che abbia compiuto i 16 anni, o del p.m. quando si tratti di minore di età inferiore;
in proposito si ritiene che il tribunale, prima di disporre la nomina, debba valutare se il
disconoscimento sia conveniente al minore.
L’esercizio di tale azione è subordinato a due presupposti:
⇒ la nascita del figlio;
⇒ l’esistenza del titolo di stato di figlio legittimo.
Si è esclusa la proponibilità del disconoscimento prima della nascita, poiché l’inesistenza del titolo
dello stato impedisce il sorgere dell’interesse all’azione; infatti, presupposto dell’esercizio
dell’azione di disconoscimento della paternità è l’esistenza del titolo dello stato di figlio legittimo (o
del possesso di stato) in capo al disconoscendo. Si ritiene che sino a quando non si sia forma l’atto
di nascita – che è titolo dello stato in quanto contiene l’accertamento della maternità e dà quindi
efficacia alla presunzione di paternità – non sorga alcuno stato di legittimità da disconoscere. Da ciò
deriva che l’azione sarà ammissibile solo se diretta a contestare uno stato accertato e documentato
dall’atto di nascita.
L’art. 235 c.c. consente l’azione di disconoscimento nei seguenti casi:
⇒ se i coniugi non hanno coabitato nel periodo compreso tra il 300° e 180° giorno prima della
nascita: è necessario e sufficiente provare la mancanza di coabitazione e, quindi, l’assenza di
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rapporti intimi tra i coniugi per tutto il periodo legale del concepimento; la prova può essere
raggiunta anche per presunzioni. Ne consegue che l’attore dovrà necessariamente provare il
fatto della mancata coabitazione e che l’azione sarà rigettata qualora il convenuto riesca a
provare una riunione, anche temporanea, che abbia reso possibile il concepimento;
⇒ se durante il tempo predetto il marito era affetto d’impotenza anche solo di generare:
l’impotenza può essere sia coëundi che generandi. Secondo l’interpretazione che appare
preferibile, al termine impotenza va dato un significato restrittivo, escludendo, quindi che
possa ricomprendersi in questa ipotesi l’inidoneità del marito di procreare un figlio con
determinate caratteristiche somatiche; nel caso in cui, nonostante l’impotenza, vi sia
produzione di seme del marito idonea a consentire un’inseminazione artificiale omologa, i
convenuti potranno fornire la relativa prova in via d’eccezione, all’esito della quale la
domanda dovrà essere rigettata. Nel caso in cui il marito impotente abbia acconsentito
all’inseminazione eterologa della moglie – nonostante il divieto di legge – egli non può agire
in disconoscimento.
⇒ se nel detto periodo la moglie ha commesso adulterio o ha tenuto celata al marito la propria
gravidanza e la nascita. Questa ipotesi deve essere accomunata da prove del DNA. Infatti, in
tali casi, ossia provato l’adulterio o il celamento, l’attore è ammesso a dimostrare che il
figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del
presunto padre, o ogni altro fatto tendente ad escludere la paternità.
La Corte Costituzionale ha di recente dichiarato illegittimo l’art. 2351, n. 3, c.c. nella parte in cui
subordina l’esame delle prove genetiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. La
Corte ha statuito come detta subordinazione probatoria sia, da un lato irragionevole, con
conseguente violazione dell’art. 3 Cost., attesa l’irrilevanza della prova dell’adulterio al fine
dell’accoglimento nel merito della domanda di disconoscimento e, dall’altro, comporti un
sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost.
L’intervento della Consulta è molto significativo poiché, in sostanza, ha accantonato l’impianto
casistico sul quale si fondava l’azione di disconoscimento ed ha incentrato l’esito dell’intero
procedimento sui risultati degli esami genetico-ematologici, ritenuti idonei, da soli, a fondare
l’accoglimento della domanda.
Il termine di decadenza per esercitare l’azione di disconoscimento della paternità è disciplinato
dall’art. 244 c.c.:
⇒ la madre deve proporre l’azione entro sei mesi dalla nascita del figlio o dalla scoperta
dell’impotenza del marito;
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⇒ il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno, che decorre dal giorno della
nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio, oppure il
giorno del suo ritorno nel luogo in cui è nato il figlio o in cui è la residenza familiare se egli
al tempo della nascita era lontano;
⇒ l’azione può essere promossa dal figlio entro un anno dal compimento della maggiore età o
dal momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il
disconoscimento.
La sentenza che accoglie l’azione travolge lo stato di legittimità del figlio con effetto retroattivo.
LA CONTESTAZIONE DI LEGITTIMITÀ
L’azione di contestazione di legittimità è diretta a far dichiarare l’inesistenza dello stato di
legittimità dal soggetto contro cui è rivolta. Presuppone in capo al figlio un titolo di stato di
filiazione legittima o di un possesso di stato.
L’azione può essere esercitata attaccando uno dei seguenti presupposti di legittimità:
⇒ esistenza o validità del vincolo matrimoniale dei genitori;
⇒ effettività del parto della donna indicata come madre dall’atto di nascita;
⇒ corrispondenza tra l’identità del nato e quella risultante dall’atto di nascita;
⇒ concepimento in matrimonio.
Primo presupposto della legittimità è dunque l’esistenza di un matrimonio tra i genitori. Lo stato di
legittimità può quindi essere impugnato accampando l’inesistenza del matrimonio, perché mai
celebrato, o perché, trattandosi di matrimonio religioso, non poteva essere trascritto.
Con limiti molto ristretti l’azione di contestazione può anche basarsi sulla nullità del matrimonio. Il
caso in cui l’invalidità del vincolo matrimoniale consente l’accoglimento dell’azione di
contestazione è quello di nullità del vincolo, contratto in malafede da entrambi i coniugi, purché la
nullità dipenda da bigamia o da incesto e sia stata dichiarata in apposito atto. Tutte le altre ragioni di
nullità non incidono sullo status dei figli.
Con riferimento alla maternità, vengono in rilievo le ipotesi di supposizione di parto o sostituzione
di neonato: l’azione di contestazione sarà, infatti, diretta ad inficiare le risultanze dell’atto di nascita
in cui si documenta non solo il fatto del parto, ma anche l’identità della donna che ha partorito.
L’attore mira quindi a provare che la donna che risulta essere madre di un determinato soggetto in
realtà non l’ha partorito.
L’azione di contestazione della legittimità spetta a chi dall’atto di nascita del figlio risulti suo
genitore e a chiunque vi abbia interesse. In tale ampia dizione va ricompreso anche il figlio poiché
non è detto che chi ha un titolo dello stato di figlio legittimo abbia sempre interesse a conservarlo,
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anche quando il titolo documenta uno stato che non è il suo. L’azione di contestazione, cui il figlio è
stato legittimato, ha sempre carattere autonomo ed è indipendente dall’eventuale azione di reclamo.
Non incombe sugli attori l’onere di provare l’interesse ad agire, che può essere sia di natura
patrimoniale che di indole esclusivamente morale.
Passivamente legittimati sono i titolari del rapporto, cioè il figlio e i genitori; l’azione è
imprescrittibile.
IL RECLAMO DI LEGITTIMITÀ
L’azione di reclamo della legittimità, menzionata espressamente dall’art. 249 c.c., risulta
disciplinata dagli artt. 241, 242 e 243 c.c.
I presupposti dai quali sorge l’interesse all’azione di reclamo di legittimità sono:
⇒ la mancanza dell’atto di nascita o del possesso di stato;
⇒ pur esistendo l’atto di nascita, che il figlio risulti come di ignoti;
⇒ pur esistendo l’atto di nascita, che il figlio sia stato iscritto sotto falso nome per cui i veri
genitori non sono quelli indicati nell’atto.
Nella prima e nella seconda ipotesi non esiste alcun titolo dello stato per cui l’azione di reclamo è
sicuramente esperibile, mentre nella terza ipotesi il reclamante è pur sempre fornito di un titolo
dello stato – quello di figlio legittimo delle persone indicate come genitori nell’atto di nascita – per
cui si rende necessaria la rimozione, attraverso l’azione di contestazione della legittimità, di quel
titolo.
L’azione in esame rimane sempre preclusa a chi sia titolare di uno stato di figlio legittimo derivante
da adozione piena, che, facendo cessare ogni legame con la famiglia d’origine, rende improponibile
qualsiasi domanda volta all’accertamento della filiazione legittima o naturale.
Colui che reclama lo stato di figlio legittimo deve provare tutti i presupposti necessari per
l’esistenza di tale stato: maternità, matrimonio tra i genitori, concepimento in costanza di
matrimonio, paternità. Il matrimonio dei genitori si prova con l’atto di celebrazione estratto dai
registri dello stato civile. La prova della maternità si risolve nella prova del parto della donna che si
pretende essere la madre e dell’identità del figlio di lei e del reclamante. La prova del concepimento
in costanza di matrimonio risulterà dal confronto della data di nascita con quella di celebrazione o
di scioglimento del matrimonio. Se il figlio è nato nei 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio
egli ha l’onere di provare la paternità del marito, se è nato dopo i 300 giorni dallo scioglimento deve
darsi la prova della gravidanza di eccezionale durata.
L’art. 241 dopo aver sancito che in mancanza di atto di nascita, od in presenza d’iscrizione del figlio
come di ignoti o sotto falsi nomi, la prova della filiazione può essere data per testimoni, dispone, al
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secondo comma, che tale prova non può essere ammessa che quando vi è un principio di prova per
iscritto, ovvero quando le presunzioni e gli indizi sono abbastanza gravi da determinare
l’ammissione della prova. Il principio di prova scritta, cui in definitiva è subordinato l’esercizio
dell’azione, risulta dai documenti di famiglia, dai registri e dalle carte private del padre o della
madre, dagli atti pubblici e privati provenienti da una delle parti che sono impegnate nella
controversia o da altra persona, che, se fosse in vita, avrebbe interesse nella controversia (art. 242
c.c.).
Legittimato all’azione di reclamo è il figlio, oppure i suoi discendenti se questi non l’abbia
promossa e sia morto in età minore o nei 5 anni dopo aver raggiunto la maggiore età.
È opportuno ricordare che l’azione non potrà mai essere promossa da chi dal titolo risulta genitore
ed è quindi titolare della potestà sul minore. In tal caso, infatti, l’azione di reclamo presuppone il
previo (o contestuale) esercizio dell’azione di contestazione della legittimità che, se accolta, fa venir
meno i poteri di rappresentanza del genitore. Sarà quindi indispensabile, per l’esercizio dell’azione
di reclamo, la nomina di un nuovo rappresentante. Qualora, invece, il figlio sia un minore
emancipato o un maggiorenne inabilitato, si è concordi nel ritenere che l’azione possa essere
autonomamente esercitata, senza necessità di assistenza.
L’azione è dichiarata imprescrittibile riguardo al figlio. L’azione deve essere proposta contro
entrambi i genitori, se sono vivi, e, in caso di morte di questi o di uno solo di essi, contro gli eredi.
Legittimati passivi sono i genitori o, in mancanza i loro eredi. Infine, sempre necessario, a pena di
nullità rilevabile d’ufficio, è l’intervento del p.m.
IL RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO NATURALE
Il riconoscimento del figlio naturale è un atto unilaterale, spontaneo ed irrevocabile del genitore –
da effettuarsi nell’atto di nascita o nell’apposita dichiarazione posteriore alla nascita o al
concepimento nelle forme indicate dall’art. 254 c.c. – in forza del quale un soggetto dichiara la
propria maternità o paternità nei confronti di una determinata persona.
Caratteristica del riconoscimento è la sua spontaneità, stante l’assoluta discrezionalità del genitore
nell’effettuarlo. Trattasi peraltro di una discrezionalità variamente condizionata: innanzitutto,
perché presuppone la veridicità del rapporto biologico che mira ad accertare; inoltre, perché il
mancato riconoscimento consente la dichiarazione giudiziale di genitorialità; occorre considerare
infine che, in mancanza di riconoscimento da parte di entrambi i genitori, di regola si dà luogo
all’apertura della procedura di adozione.
Nel sistema di legge, anche dopo la riforma, il riconoscimento rappresenta una facoltà e non un
obbligo del genitore.
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Si discute se possa configurarsi un diritto del genitore al riconoscimento.
Anche ad ammettere l’esistenza di un “diritto alla genitorialità”, resta il fatto che in concreto detto
diritto risulta limitato, non solo con riguardo alla sussistenza dell’interesse del minore, ma anche per
ragioni attinenti il buon costume o l’ordine pubblico. Una lettura complessiva di queste disposizioni
conferma la priorità dell’interesse del minore rispetto al pur esistente diritto del genitore al
riconoscimento.
Il riconoscimento è un atto giuridico in senso stretto, in quanto atto umano volontario, in cui
l’elemento volitivo risulta circoscritto al compimento dell’atto e non ai suoi effetti, visto che la
volontà nulla può in ordine alla disciplina del rapporto, che risulta interamente regolato dalla legge.
L’art. 2581 c.c. dispone che il riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui fu
fatto, salvo i casi previsti dalla legge. La regola dunque è che il rapporto di filiazione s’instaura tra
il genitore e il figlio; qualora il riconoscimento sia effettuato da entrambi i genitori, tra gli stessi non
sorge alcun rapporto giuridico, costituendosi invece due distinti rapporti di filiazione.
Dall’impossibilità del rapporto di filiazione di espandere i suoi effetti oltre la relazione genitore e
figlio, la dottrina ha però tratto la convinzione dell’irrilevanza della parentela naturale al di fuori
delle ipotesi espressamente previste e della conseguente inesistenza di legami giuridici tra il figlio
naturale ed i parenti del genitore che lo ha riconosciuto.
A ben vedere, nell’ordinamento possono rintracciarsi numerose ipotesi in cui assume rilevanza il
rapporto tra il figlio naturale ed i parenti del genitore, così come vi sono ampi riferimenti al
riconoscimento del valore e dell’importanza dei vincoli di solidarietà e affetto su cui si fondano le
relazioni parentali. È sufficiente pensare al riconoscimento, nella nuova legge sull’affidamento
condiviso, del diritto per il figlio di continuare a frequentare ascendenti e parenti dei propri genitori
anche naturali.
Secondo quanto disposto dall’art. 250 c.c. il figlio naturale può essere riconosciuto dal padre e dalla
madre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento; pertanto la
legge, superando antichi divieti, consente il riconoscimento del figlio adulterino.
Il riconoscimento dei figli nati da genitori legali da vincoli di parentela è ammesso solo in casi
determinati.
I REQUISITI PER EFFETTUARE IL RICONOSCIMENTO: Il riconoscimento del figlio naturale
può essere effettuato solo dal genitore, che deve avere la capacità legale di agire. Tuttavia, il minore
che ha compiuto il sedicesimo anno di età è ammesso al riconoscimento sul presupposto che il
minore ultrasedicenne abbia raggiunto la necessaria maturità.
Al fine di ovviare al rischio che il figlio di minore infrasedicenne sia, per questo solo fatto, posto in
adozione, si è stabilito che nei casi di non riconoscibilità per difetto di età dei genitori la procedura
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sia rinviata, anche d’ufficio, sino al compimento del sedicesimo anno di età dal genitore naturale o
dai parenti fino al quarto grado o in altro modo conveniente, permanendo comunque un rapporto
con il genitore naturale.
La legge prevede espressamente che è impugnabile il riconoscimento fatto dall’interdetto giudiziale,
mentre l’interdetto legale può procedere validamente al riconoscimento.
L’ASSENSO DEL FIGLIO ULTRASEDICENNE: La legge richiede, quali condizioni di efficacia
del riconoscimento rispettivamente l’assenso del figlio se ultrasedicenne, ovvero, se infrasedicenne,
il consenso del genitore che lo ha riconosciuto per primo; solo per il minore di 16 anni non
riconosciuto è possibile un riconoscimento immediatamente efficace.
La norma dell’art. 250 c.c. intende evitare riconoscimenti interessati o sgraditi, in quanto effettuati a
grande distanza di tempo dalla nascita nei confronti di un soggetto socialmente ben caratterizzato,
che potrebbe subire un pregiudizio dal riconoscimento.
IL CONSENSO AL RICONOSCIMENTO: Il genitore che intende riconoscere il figlio
infrasedicenne, già riconosciuto, deve ottenere il consenso dell’altro. Lo scopo della disposizione è
sempre quello di impedire riconoscimenti tardivi prestati contro l’interesse del minore; interesse la
cui tutela viene affidata al genitore che per primo lo ha riconosciuto, salvo comunque prevedere un
controllo giudiziale nel caso in cui il consenso venga rifiutato.
L’art. 2504 c.c., sul presupposto che il riconoscimento deve rispondere all’interesse del figlio,
dispone che il consenso dell’altro genitore non possa essere rifiutato nell’ipotesi in cui sussista
l’interesse del minore. Cosicché, in caso di opposizione, il genitore che intende effettuare il
riconoscimento può rivolgersi al tribunale per i minorenni, il quale, sentito il minore in
contraddittorio col genitore che si oppone e con l’intervento del p.m., decide con sentenza.
In giurisprudenza si è negato il riconoscimento solo in casi eccezionali, ad es. quando il genitore
abbia una personalità morale negativa, soprattutto se accompagnata ad una situazione economica
precaria oppure quando vi sia il rischio che il riconoscimento turbi la situazione affettiva in cui vive
il minore.
IL DIVIETO DI RICONOSCIMENTO DEI FIGLI NATI DA PERSONE LEGATE DA VINCOLO
DI PARENTELA: L’art. 251 c.c. stabilisce il divieto di riconoscimento di figli nati da persone tra le
quali esiste un vincolo di parentela, anche naturale in linea retta all’infinito, oppure in linea
collaterale nel secondo grado ovvero un vincolo di affinità in linea retta.
Il divieto non opera nel caso in cui i genitori all’epoca del concepimento, ignorando il vincolo tra
essi intercorrente, fossero in buona fede; ovvero allorquando sia stato dichiarato nullo il matrimonio
dal quale deriva l’affinità. Quando uno dei due genitori era in buona fede, il riconoscimento del
figlio spetta solo a lui. Tuttavia, in tutti questi casi, che costituiscono eccezioni al divieto, il
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riconoscimento dovrà essere autorizzato dal giudice, avuto riguardo all’interesse del figlio e alla
necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.
L’impianto codici stico sembra riflettere una precisa politica del diritto, alla stregua della quale il
divieto di riconoscimento suona quale sanzione di un comportamento cosciente dei genitori
contrario alla morale ed al diritto. L’interesse del figlio al conseguimento dello status di figlio
riconosciuto appare rilevante in via subordinata, e cioè se sia comprovato che il comportamento dei
genitori – in quanto in buona fede – non è sanzionabile: solo in detta ipotesi, infatti, (oltre a quella
in cui sia dichiarato nullo il matrimonio da cui deriva l’affinità) il giudice potrà autorizzare il
riconoscimento valutandone la convenienza per il minore.
Secondo l’orientamento attualmente prevalente, la sussistenza della buona fede è presunta; stante la
necessità di autorizzazione al riconoscimento, non si pone più il problema di una valutazione della
buona fede da parte dell’ufficiale di stato civile; naturalmente è sempre possibile che il
riconoscimento autorizzato e ricevuto dall’ufficiale di stato civile sia poi impugnato da chiunque vi
abbia interesse per difetto di buona fede, che, in conformità alla regola generale, dovrà essere
provato dall’attore.
L’INAMMISSIBILITÀ DEL RICONOSCIMENTO IN CONTRASTO CON LO STATO DI
FIGLIO LEGITTIMO: L’art. 253 c.c. fissa il principio dell’inammissibilità di un riconoscimento in
contrasto con lo stato di figlio legittimo o legittimato in cui la persona si trova. Il divieto origina in
quanto diversamente si porrebbe in contrasto con le risultanze dell’atto di nascita di figlio legittimo.
Tale prescrizione comporta che l’inammissibilità operi esclusivamente qualora il figlio che
s’intende riconoscere risulti legittimo perché dotato del corrispondente titolo dello stato. Ne
consegue che sarà sempre possibile riconoscere il nato da donna coniugata quando non si sia
formato l’atto di nascita di figlio legittimo.
Data la ratio, che è quella di non creare confliggenti titoli di stato, la disposizione in oggetto deve
essere interpretata estensivamente, nel senso che dovrà essere applicata anche nelle ipotesi di un
soggetto che sia già titolare dello stato di figlio naturale riconosciuto.
Qualora venga effettuato un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo, legittimato
o riconosciuto di cui è titolare il figlio, il riconoscimento non è efficace; peraltro, il successivo venir
meno del titolo di stato di cui era titolare il figlio – per es. a seguito di disconoscimento della
paternità o d’impugnativa del precedente riconoscimento – consente al riconoscimento di acquistare
effetti, stante il carattere retroattivo della sentenza che fa venir meno l’originario status del figlio.
LA FORMA DEL RICONOSCIMENTO: Il primo comma dell’art. 254 c.c. dispone che il
riconoscimento del figlio naturale è fatto nell’atto di nascita, oppure con apposita dichiarazione,
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posteriore alla nascita o al concepimento, davanti all’ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico
o in un testamento, qualunque sia la forma di questo.
Alla forma pubblica dell’atto è sottesa l’esigenza di garantire il più alto grado possibile di certezza
in ordine al tempo e all’autore del riconoscimento e di richiamare l’attenzione del dichiarante
sull’importanza dell’atto.
L’atto di riconoscimento è pubblicizzato attraverso l’iscrizione nei registri dello stato civile
separatamente dalla dichiarazione di nascita.
Quando la documentazione pubblica si realizza mediante atto separato dalla dichiarazione di
nascita, alle predette formalità si accompagna l’annotazione nell’atto di nascita.
Dal disposto dell’art. 2582, c.c., il quale vieta l’inserimento nell’atto di riconoscimento d’indicazioni
relative all’altro genitore, si evince l’impossibilità per il padre di effettuare il riconoscimento del
figlio nascituro qualora esso non sia stato riconosciuto anche dalla madre in precedenza, o
contestualmente.
L’IMPUGNATIVA DEL RICONOSCIMENTO PER DIFETTO DI VALIDITÀ: L’art. 263 c.c.
stabilisce che il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dell’autore del
riconoscimento da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse; l’azione è
imprescrittibile. L’art. 264 c.c. disciplina l’impugnazione per ipotesi di minore età ed interdizione
del figlio, stabilendo in alcuni casi la nomina di un curatore speciale.
Legittimato attivo, oltre all’autore del riconoscimento (o, se interdetto, al suo tutore) e a colui che è
stato riconosciuto, è chiunque abbia un interesse apprezzabile e attuale, quindi anche l’altro
genitore, il figlio cui spetterebbe il titolo di figlio legittimo in quanto nato in costanza di
matrimonio, il marito di colei che abbia falsamente riconosciuto il proprio figlio come naturale
anziché come figlio legittimo del marito. In questo caso il difetto di veridicità potrà essere
dimostrato mediante accertamenti genetici da cui risulti la paternità del marito della donna che ha
falsamente riconosciuto come naturale il proprio figlio; rimosso il riconoscimento il figlio acquista
lo status di legittimo in base alle regole generali.
Qualora l’azione sia proposta dal genitore, legittimato passivo è il figlio, mentre qualora il giudizio
sia promosso dal figlio, è legittimato passivo il genitore. Genitore e figlio sono invece entrambi
legittimati passivi nell’ipotesi in cui l’azione sia proposta da altri.
L’art. 74, l. n. 184/1983, ha introdotto la possibilità che il tribunale per i minorenni nomini d’ufficio
un curatore speciale che proceda alla impugnazione del riconoscimento di un figlio naturale non
riconosciuto dall’altro genitore effettuato da persona coniugata. Il problema che la legge ha inteso
risolvere è quello dei falsi riconoscimenti diretti ad aggirare la normativa sull’adozione e funzionali
al cd. commercio dei minori. Al fine di evitare che nelle more del procedimento si consolidino
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situazioni affettive che provocherebbero ulteriori traumi al minore, è prevista la possibilità di negare
l’autorizzazione all’inserimento del figlio nella famiglia legittima e di disporre un affidamento
familiare finché il giudizio non sia definito.
Il falso riconoscimento può essere effettuato in buona fede – nel senso che l’autore sia convinto di
essere il genitore – ovvero in malafede; a quest’ultima ipotesi è riconducibile anche il cd.
riconoscimento “per compiacenza”, quando un uomo proceda al riconoscimento del figlio della
donna con cui si coniuga o convive, frutto di una precedente relazione di quest’ultima. La
consapevolezza della non veridicità del riconoscimento non è di ostacolo all’ammissibilità
dell’impugnazione, senza limiti di tempo.
La legge in tema di procreazione medicalmente assistita prevede il caso in cui una coppia di
conviventi proceda (contro il divieto di legge) ad inseminazione con materiale genetico di persona
diversa dal partner, stabilendo che, in ogni caso, il figlio consegua lo status di riconosciuto e
ponendo il divieto d’impugnativa per difetto di veridicità.
L’IMPUGNATIVA DEL RICONOSCIMENTO PER VIOLENZA E INCAPACITÀ: Il
riconoscimento può essere impugnato, oltre che per difetto di veridicità, anche per violenza (art.
265 c.c.) ed anche qualora sia stato effettuato da interdetto giudiziale (art. 266 c.c.).
Nel primo caso, l’impugnazione può essere effettuata entro un anno dal giorno in cui la violenza è
cessata, mentre se autore del riconoscimento è un soggetto minore, entro un anno dal
raggiungimento della maggiore età.
Si ritiene che la violenza sia causa di annullamento del riconoscimento anche quando proviene da
un terzo, mentre non rilevano né il timore reverenziale, né la minaccia di far valere un diritto.
L’art. 266 c.c. dispone che il riconoscimento può essere impugnato anche per l’incapacità che deriva
da interdizione giudiziale, mentre non è consentita l’impugnazione per incapacità naturale.
LA DICHIARAZIONE GIUDIZIALE DI PATERNITÀ E MATERNITÀ
Le azioni di dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità sono consentite in tutti i casi in cui il
riconoscimento è ammesso.
La dichiarazione è anche consentita – ancorché il riconoscimento sia vietato – nei riguardi di
genitori incestuosi.
La relativa prova della paternità può essere data con ogni mezzo.
Pertanto il concepimento viene in considerazione nella sua oggettività, indipendentemente da
qualsiasi legame con la volizione dei soggetti coinvolti; il dato biologico, grazie al principio della
libertà di prova, valorizzato ulteriormente dai progressi scientifici, si pone quale condizione
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necessaria e sufficiente affinché sia dichiarata la paternità, salvo l’accertamento dell’interesse del
figlio.
Rispetto al passato, la situazione dell’uomo e quello della donna si sono esattamente capovolte, nel
senso che quest’ultima, potendo adottare misure atte ad impedire il concepimento, oppure decidere
di interrompere la gravidanza, ovvero di non riconoscere il figlio e di abbandonarlo, con
conseguente automatica apertura della procedura di adozione speciale che rende poi inammissibile
l’accertamento della genitorialità naturale, può disporre riguardo allo status genitoriale; al contrario,
di fronte alle evidenze biologiche, il padre non potrà in alcun modo sottrarsi all’accertamento della
paternità.
L’art. 270 c.c. prevede che l’azione per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità
sia promossa dal figlio, riguardo al quale è imprescrittibile. In caso di morte prima dell’inizio
dell’azione, questa può essere promossa dai discendenti legittimi, legittimati o naturali riconosciuti,
entro due anni dalla morte, mentre l’azione promossa dal figlio, se egli muore, può essere
proseguita dai discendenti legittimi, legittimati o naturali riconosciuti.
L’art. 273 c.c. consente che l’azione in questione possa essere promossa, nell’interesse del minore,
dal genitore che esercita la potestà prevista dall’art. 316 c.c. o dal tutore, quest’ultimo previa
autorizzazione del giudice; in tal caso, il giudice può nominare un curatore speciale. Ancora, detta
norma richiede il consenso del figlio che abbia compiuto 16 anni per promuovere o proseguire
l’azione.
La domanda per la dichiarazione di paternità o maternità naturale deve essere proposta nei confronti
del presunto genitore o in mancanza nei confronti dei suoi eredi. Alla domanda può contraddire
chiunque ne abbia interesse.
Il principio dell’imprescrittibilità dell’azione consente che la sentenza che accerti lo status di
filiazione naturale intervenga anche dopo la morte del genitore convenuto e quindi rende incerto se,
decorsi 10 anni dall’apertura della successione, il figlio possa accettare l’eredità. Si è sostenuto che
essendo la norma generale che la prescrizione inizi a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere
fatto valere, la prescrizione non può decorrere fino al momento in cui sia passata in giudicato la
sentenza che dichiara la filiazione: così, quando l’accertamento segua la morte del genitore, il figlio
potrà agire in riduzione e la relativa azione inizierà a prescriversi dal passaggio in giudicato della
sentenza che accerta lo status di filiazione. In questo contesto i coeredi non possono invocare
l’usucapione ventennale al fine di paralizzare l’azione di riduzione.
LA PROVA DELLA PATERNITÀ E DELLA MATERNITÀ: In ordine all’accertamento giudiziale
della maternità naturale, la legge ribadisce che la maternità è dimostrata provando l’identità di colui
che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna che si assume essere la madre.
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Può darsi la prova della filiazione, in mancanza di tale dimostrazione, con ogni altro mezzo, anche
presuntivo. Nella pratica l’azione di dichiarazione della maternità naturale assume uno scarso
rilievo, soprattutto perché il mancato riconoscimento della madre, in concreto, coincide con
l’abbandono del figlio, tant’è vero che nel caso in cui non risulti l’esistenza di genitori naturali che
abbiano riconosciuto il minore, o la cui paternità o maternità sia stata dichiarata giudizialmente, il
tribunale per i minorenni, senza eseguire ulteriori accertamenti, provvede immediatamente alla
dichiarazione dello stato di adottabilità; intervenuta l’adozione, la dichiarazione di maternità è
preclusa.
Relativamente alla prova della paternità naturale, la legge, nel consentire all’attore di fornirla con
ogni mezzo, in primo luogo autorizza il giudice a considerarla raggiunta tutte le volte in cui si
verifichi una delle fattispecie previste dalla legge prima della riforma; con la differenza che,
all’epoca, quelle ipotesi avevano carattere tassativo, mentre oggi esse (cioè la convivenza dei
presunti genitori all’epoca del concepimento, la paternità risultante indirettamente da sentenza civile
o penale, l’esistenza di un’inequivoca dichiarazione scritta del presunto padre, il ratto o la violenza
carnale al tempo del concepimento, il possesso di stato di figlio naturale) rappresentano semplici
circostanze sulle quali il giudice può fondare la propria decisione, soprattutto in mancanza di
eccezioni da parte del convenuto.
Il pregresso delle scienze mediche ha valorizzato moltissimo il principio della libertà di prova:
infatti, attraverso analisi ematiche o genetiche rifacentisi allo studio comparativo del DNA dei
soggetti, risulta oggi possibile risalire all’autore del concepimento con un grado di probabilità
pressoché equivalente alla certezza assoluta.
Di conseguenza, in assenza di altre risultanze sufficienti a fondare il proprio convincimento, il
giudice potrà disporre i necessari prelievi, su richiesta dell’attore o anche d’ufficio. Tuttavia,
affinché sia attuato il provvedimento del giudice che dispone il prelievo, è necessario il consenso
del presunto padre, in omaggio al principio costituzionale dell’inviolabilità della persona.
Nell’ambito del giudizio di dichiarazione di paternità e di maternità, a fronte del legittimo ma
immotivato rifiuto del convenuto di sottoporsi alle indagini genetiche, la giurisprudenza è sempre
stata constante nel ritenere che il giudice possa assumere argomenti di prova a norma dell’art. 1162,
c.p.c.
IL GIUDIZIO DI AMMISSIBILITÀ: Il legislatore del ’75 aveva conservato all’art. 274 c.c. la
regola per cui l’azione doveva essere preventivamente ammessa dal tribunale competente per il
giudizio di merito, dai più criticata e ritenuta non conforme alla Costituzione.
Il tribunale, pur godendo di larga discrezionalità in questa fase, doveva motivare in ordine alla
sussistenza del ‘fumus boni iuris’ dell’interesse del minore.
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Nell’intenzione del legislatore del ’42, lo scopo originario del giudizio di ammissibilità era quello di
impedire azioni temerarie o ricattatorie ai danni del preteso genitore.
A seguito dell’intervento della Corte costituzionale, si è avuto un significativo mutamento
dell’originaria funzione della fase di ammissione. Infatti, la Consulta ha dichiarato parzialmente
illegittimo l’art. 274 c.c. nella parte in cui non prevedeva che l’azione promossa nell’interesse del
figlio infrasedicenne fosse ammessa solo quando il giudice avesse ritenuto l’accertamento
rispondente all’interesse del figlio minore. In forza di quella pronuncia, il tribunale, pur godendo in
questa fase di ampia discrezionalità, era così tenuto a motivare il decreto conclusivo non solo in
ordine alla sussistenza del ‘fumus boni iuris’, ma anche dell’interesse del minore.
Di recente, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 274 c.c. nella
sua integrità, cosicché oggi l’azione può essere intrapresa senza alcuna preventiva indagine.
GLI EFETTI DELLA DICHIARAZIONE: La sentenza che dichiara la filiazione naturale produce
gli effetti del riconoscimento. Con la sentenza stessa il giudice può anche dare i provvedimenti che
stima utili per il mantenimento, l’istruzione, l’educazione e per la tutela degli interessi patrimoniali
del figlio. Il genitore che abbia provveduto da solo mantenimento del figlio minore riconosciuto, ha
diritto ad ottenere dall’altro il rimborso di quanto sarebbe stato a carico di quest’ultimo, a partire
dalla nascita.
LA FILIAZIONE NON RICONOSCIBILE
La condizione del figlio non riconoscibile è regolata da combinato disposto degli artt. 278, 279 c.c.
La legge, attuando appieno la formula costituzionale, attribuisce anche ai figli non riconoscibili il
diritto al mantenimento, all’istruzione e all’educazione, e, una volta raggiunta la maggiore età – o,
l’indipendenza economica in rapporto alla condizione degli obbligati e dell’avente diritto – agli
alimenti, ricorrendo allo stato di bisogno.
La determinazione in concreto delle prestazioni non patrimoniali conseguenti all’obbligo
d’istruzione e di educazione spetta a colui che esercita la potestà o la cura della persona (l’altro
genitore che ha riconosciuto o è stato dichiarato tutore), salvo il controllo del tribunale per i
minorenni o del giudice tutelare.
In sede successoria, ai figli privi di stato viene riconosciuto il trattamento enunciato nell’art. 580
c.c. che stabilisce che ai figli naturali aventi diritto al mantenimento, all’istruzione e all’educazione
spetta un assegno vitalizio pari all’ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbe
diritto, se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta. I figli naturali hanno diritto di ottenere
su loro richiesta la capitalizzazione dell’assegno loro spettante, in denaro, ovvero, a scelta degli
eredi legittimi, in beni ereditari. Inoltre, l’art. 594 c.c. obbliga eredi, legatari e donatari, in
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proporzione a quanto hanno ricevuto, a corrispondere ai figli privi di stato un assegno vitalizio nei
limiti stabiliti dall’art. 580 c.c., se il genitore non ha disposto per donazione o testamento in favore
dei figli medesimi.
L’azione di cui all’art. 274 c.c., di competenza del tribunale ordinario anche quando riguardi minori,
deve essere previamente autorizzata dal giudice ai sensi dell’art. 274 c.c. e può essere promossa dal
figlio, oppure, in caso di minore età, da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del
p.m. o del genitore che esercita la potestà.
L’azione può essere esercitata anche dai figli riconoscibili che non siano stati però, in concreto,
riconosciuti dai genitori. Costoro, infatti, potrebbero esercitare l’azione di dichiarazione giudiziale
che conferisce lo status vero e proprio di figlio naturale riconosciuto, in considerazione del fatto che
diversamente si consentirebbe ai genitori di sottrarsi ai doveri previsti dall’art. 30 Cost.
Non può pertanto escludersi che anche colui che ha lo stato di figlio legittimo altrui possa far valere
nei confronti del proprio genitore naturale i diritti contemplati agli artt. 580 e 594 c.c. e quelli
previsti dall’art. 279 c.c., sempre ché, in detto ultimo caso, il mantenimento, l’educazione e
l’istruzione non gli siano già garantiti dal genitore legittimo.
LA LEGITTIMAZIONE DEL FIGLIO NATURALE
La legittimazione, istituto in forza del quale viene attribuito a colui che è nato fuori dal matrimonio
la qualità di figlio legittimo (art. 280 c.c.), ha avuto una notevole importanza in passato, quale
possibilità che ai figli naturali si offriva di affrancarsi dalla condizione nettamente deteriore in cui
erano posti rispetto ai figli legittimi. La riforma del diritto di famiglia, equiparando – ancorché non
in modo totale – la posizione dei figli naturali a quella dei figli legittimi, ha certamente ridotto, se
non addirittura svuotato come sostengono alcuni, la rilevanza dell’istituto dal punto di vista
funzionale. Sicché ormai da tempo si discute se esso conservi una propria giustificazione alla luce
dell’attuale regime della filiazione, ovvero se, com’è avvenuto in altri ordinamenti non sia più
corretto abrogarlo.
Il codice civile prevede due diverse forme di legittimazione per susseguente matrimonio dei genitori
del figlio naturale, o per provvedimento dell’autorità giudiziaria.
Il susseguente matrimonio dei genitori ha l’effetto di legittimare automaticamente e
indipendentemente dalla volontà dei coniugi i figli nati anteriormente ad esso.
L’art. 283 c.c. richiede espressamente che il figlio sia stato riconosciuto da entrambi i genitori, non
che lo abbiano fatto contestualmente. La disposizione in esame prevede la possibilità che il
riconoscimento sia effettuato anteriormente al matrimonio, all’atto dello stesso, ovvero anche
posteriormente, stabilendo, in detta ipotesi, che gli effetti decorrano a partire dal riconoscimento.
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Qualora il riconoscimento sia contestuale, la relativa dichiarazione è inserita nell’atto di
matrimonio, ma mantiene rispetto allo stesso una propria autonomia, con la conseguenza che
eventuali vizi di sostanza o di forma del matrimonio non si ripercuotono per ciò solo sulla validità
del riconoscimento.
La legittimazione per provvedimento del giudice è prevista per i casi in cui vi sia l’impossibilità
ovvero gravissimo ostacolo alla legittimazione per susseguente matrimonio.
La lettera dell’art. 284 c.c., come modificata dalla riforma, introduce alcune rilevanti innovazioni,
tra cui, prima tra tutte e caratterizzante l’istituto, la prioritaria valutazione dell’interesse del figlio,
che capovolge la precedente ratio diretta a tutelare la dignità del genitore impossibilitato a
coniugarsi.
Il legislatore lascia al giudice un certo margine di discrezionalità per la valutazione di tale interesse
che non deve essere apprezzato aprioristicamente, attraverso criteri generali ed astratti, ma con
riguardo al caso specifico.
Ai sensi dell’art. 284 c.c. la legittimazione può essere concessa con provvedimento del giudice se,
oltre a corrispondere all’interesse del figlio, concorrano altre condizioni indicate dalla norma: 1)
richiesta (‘domanda’), presentata separatamente ovvero congiuntamente, da parte dei genitori o di
uno di loro, che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età; 2) impossibilità ovvero gravissimo
ostacolo alla legittimazione della prole per susseguente matrimonio; 3) assenso del coniuge del
richiedente, se questi è unito in matrimonio e non è legalmente separato; 4) in caso di difetto di
precedente riconoscimento, il consenso del legittimando ultrasedicenne ovvero dell’altro genitore o
di un curatore speciale, se il figlio ha meno di 16 anni; 5) infine, nell’eventualità in cui vi siano figli
legittimi o legittimati del richiedente, audizione degli stessi se di età superiore ai 16 anni.
LA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA
Già da qualche tempo e con particolare frequenza negli ultimi anni, si sono sviluppate tecniche
mediche atte a realizzare il concepimento di un essere umano indipendentemente dalla
congiunzione fisica dell’uomo con la donna. La fecondazione può avvenire direttamente nell’utero
della donna oppure ‘in vitro’, mediante formazione di embrioni, che vengono successivamente
trasferiti nel corpo della madre.
Nonostante la diffusione della fecondazione assistita, a cui si può ricorrere senza particolari
difficoltà, e nonostante le delicate problematiche etiche e giuridiche che le relative tecniche
comportano, il legislatore italiano è intervenuto solo di recente a regolare la materia, a compimento
di un travagliato iter parlamentare, caratterizzato da profonde divisioni e differenze di opinioni tra
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le forze politiche, che hanno fortemente inciso sulla l. 19 febbraio 2004, n. 40, recante le attese
norme in materia di procreazione medicalmente assistita.
Le ragioni del ritardo con cui il legislatore italiano è intervenuto e del carattere limitativo e
sanzionatorio della legge si spiegano in considerazione delle opposte visioni della vita umana che
caratterizzano la società italiana, in questo senso differenziata da quella dei numerosi stati europei
ove si è legiferato in materia senza eccessivi traumi. In Italia è ancora ampiamente condivisa una
concezione sacrale della vita umana – che ha nella Chiesa cattolica la sua massima, ma non
esclusiva sostenitrice – che condanna senza eccezione qualsiasi intervento dell’uomo nella sfera
della riproduzione e più in generale della sessualità. Una simile concezione non può che condurre
ad una legislazione in termini di divieto delle pratiche di fecondazione assistita; divieto che però
confligge con la altrettanto diffusa concezione cd. utilitaristica della vita umana, alla cui stregua,
entro limiti da prefissarsi, gli interventi su di essa sono consentiti quando siano diretti al
perseguimento del benessere della persona.
Nel contesto europeo le leggi in materia sono apparse già a partire dagli inizi degli anni 80,
determinando i limiti, le condizioni e le modalità di accesso alle tecniche di fecondazione.
Un primo approccio alla questione della liceità – i cui limiti sono oggi positivamente regolati dalla
legge vigente in termini molto ristretti – deve necessariamente muovere dall’indagine preliminare
circa la sussistenza di un diritto soggettivo alla procreazione, che conferisca la titolarità di un
interesse giuridicamente rilevante e degno di tutela a ricorrere a mezzi artificiali.
Il nostro ordinamento contempla il diritto alla procreazione, correlato all’esercizio del diritto alla
propria libertà sessuale. Questo diritto è anche desumibile da una fonte di legge ordinaria, cioè
dall’art. 1, l. 22 maggio 1978, n. 194, disciplinante l’interruzione volontaria della gravidanza. Ma, a
ben vedere, lo stesso art. 2 Cost., nel riconoscere i diritti inviolabili della persona, non può non
contemplare quello alla libertà di trasmettere la vita.
La l. n. 40/2004 si presenta quanto mai restrittiva nel disciplinare la materia, nel dichiarato intento
di limitare il ricorso alle tecniche, che è consentito solo qualora non vi siano altri metodi terapeutici
efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità.
Tutto l’impianto della legge è caratterizzato dall’intento di porre limiti rigorosi alle tecniche di
procreazione assistita: in primis, l’inseminazione eterologa è vietata; ciò non di meno il legislatore
ha poi previsto che, in caso di violazione del divieto, il nato consegue lo status di figlio legittimo del
marito (o naturale del partner), che detto status non può essere impugnato e che il donatore dei
gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale. Si pensi, più in generale, ai limitati casi
di ricorso alle tecniche, ai rigidi requisiti soggettivi ed al circostanziato consenso informato,
all’indispensabile autorizzazione regionale della struttura in cui gli interventi possono
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esclusivamente essere realizzati, al relativo registro nazionale in cui le medesime devono
obbligatoriamente essere iscritte.
È, infine, prevista la possibilità per i sanitari di sollevare l’obiezione di coscienza.
Tale legge è stata notevolmente criticata.
L’atteggiamento di prudenza del legislatore trova la sua ratio dichiarata nell’intento di assicurare i
diritti di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento procreativo, compreso il concepito, che viene
elevato al rango di soggetto in favore del quale sono dettate specifiche misure di tutela. L’embrione
umano, in conformità ad un orientamento condiviso anche in ambito internazionale, è così
destinatario di una tutela molto circostanziata, relativa alla fase della sua produzione – lecita solo
per fini procreativi nei limiti rigorosi previsti dalla legge – e della sua esistenza, che giustifichi il
divieto di sperimentazione e crioconservazione.
La tutela dell’embrione ispira infine le norme dell’art. 142 e 4, che stabiliscono il divieto di produrre
più di 3 embrioni per ogni ciclo terapeutico e prevedono che tutti quelli prodotti siano impiantati
contemporaneamente. La riduzione embrionaria di gravidanza plurima, conseguente al
trasferimento di più embrioni, è vietata, salvo che, ai sensi della l. n. 194/1978, essa sia fonte di
rischio per la salute psico-fisica della donna.
L’ACCESSO ALLE TECNICHE: La l. n. 40/2004 dispone che il ricorso alle tecniche di
procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di
rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di
sterilità o d’infertilità inspiegate o dipendenti da cause accertate: in ogni caso occorre una
certificazione medica in proposito.
Il ricorso alle tecniche presuppone una vera e propria impossibilità della procreazione, il che
significa, ad es., che coppie ipofertili non solo ammesse alle tecniche; allo stesso modo, si era
ritenuto che coppie fertili ma portatrici di malattie genetiche non potessero far ricorso alla
fecondazione ‘in vitro’, poiché ciò avrebbe permesso di procedere ad indagini diagnostiche
dell’embrione al fine di accertarne le condizioni di salute per poi attuare il trasferimento in utero
solo qualora gli accertamenti avessero dato riscontro favorevole.
A seguito del D.M. 11 aprile 2008, con cui il Ministro della Salute ha proceduto all’aggiornamento
delle linee guida, sono state introdotte innovazioni sostanziali, che concernono la soppressione di
talune disposizioni collegate all’indagine reimpianto sull’embrione, nonché l’estensione della
condizione d’infertilità, e dunque di accesso alle tecniche, anche agli uomini portatori di malattie
virali sessualmente trasmissibili per infezioni da HIV, epatite B ed epatite C. Per quanto attiene alla
diagnosi reimpianto, in connessione alla più recente evoluzione della giurisprudenza ordinaria, è
stato soppresso il limite costituito dalla sola indagine di tipo osservazionale, che consentiva di
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valutare la compattezza e l’aggregazione delle cellule, ma non di individuare eventuali anomalie
genetiche. Con il che, fermo il divieto di diagnosi preimpianto a finalità eugenetica, si ammette la
diagnosi preimpianto se effettuata allo scopo di conoscere lo stato di salute dell’embrione. In merito
all’ulteriore novità relativa alla possibilità di ricorrere alla PMA anche nei casi in cui vi siano
uomini portatori delle sopra citate malattie virali sessualmente trasmissibili, l’estensione si fonda
sul convincimento che le predette malattie, in ragione del rischio elevato d’infezione per la madre o
per il feto, costituiscano, di fatto, causa ostativa della procreazione, in quanto imponendo l’adozione
di precauzioni che si traducono, necessariamente in una condizione d’infecondità, rappresentano
casi d’infertilità maschile severa da causa accertata e certificata da atto medico, come tali idonei a
consentire l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Le tecniche di procreazione devono essere applicate con gradualità e nei riguardi di soggetti che
abbiano reso il loro consenso informato.
La legge fa espresso divieto di ricorso alla procreazione di tipo eterologo, cioè effettuata con
materiale genetico di soggetto diverso dai membri della coppia.
Alla base del divieto sta l’idea che il legame genetico con uno solo dei genitori sia in contrasto con
l’ordine naturale della famiglia e possa ledere l’integrità psicologica dei soggetti interessati alla
fecondazione, specie in casi di crisi familiare.
Peraltro, la legge è, a questo proposito, incoerente, poiché, da un lato vieta l’inseminazione
eterologa, e dall’altro attribuisce comunque al nato lo status di figlio legittimo del marito, o naturale
del convivente, frustrando così l’unico possibile fondamento razionale del divieto che è quello di
assicurare il diritto all’identità genetica della persona, tutelato dall’art. 2 Cost.
Alla luce di queste considerazioni, sarebbe stato più conforme alla finalità del legislatore, e più
rispettoso dell’identità genetica del figlio, attribuire a quest’ultimo lo status di figlio naturale della
sola madre ed eventualmente di adottato del marito, ovvero di prevederne una sua responsabilità per
il mantenimento.
Possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di
sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile; i membri della coppia devono
essere entrambi viventi (art. 5).
È rilevante che il legislatore abbia equiparato alla coppia coniugata quella convivente eterosessuale
ed abbia per di più giudicato sufficiente, ai fini dell’accertamento della convivenza, una
dichiarazione sottoscritta dai richiedenti.
È invece proibita la fecondazione assistita del single o di chi viva in una coppia omosessuale, in
considerazione del diritto del figlio alla doppia figura genitoriale che, secondo un’opinione
ampliamente condivisa, trova sia fondamento costituzionale, che solide basi psicopedagogiche.
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Il divieto di fecondazione eterologa ed il ricorso a tecniche nei riguardi di soggetti non aventi le
caratteristiche di cui all’art. 5 sono sanzionati penalmente solo nei riguardi del medico.
IL CONSENSO INFORMATO: Nella l. n. 40/2004 assume un ruolo centrale il consenso informato,
analiticamente regolato dall’art. 6, che prevede l’obbligo del medico di fornire alla coppia
informazioni estremamente dettagliate di vario genere al fine di garantire il formarsi di una volontà
consapevole e consapevolmente espressa.
Tra la manifestazione della volontà della coppia, da esprimersi per iscritto, e l’applicazione delle
tecniche deve intercorrere un termine non inferiore a 7 giorni.
La volontà può essere revocata insindacabilmente sino al momento della fecondazione dell’ovulo da
ciascun membro della coppia.
Con lo stabilire che una volta prodottosi l’embrione a seguito di fecondazione dell’ovulo la revoca
non è ammessa, la legge sembra imporre, alla coppia e al medico, l’obbligo di procedere in ogni
caso al trasferimento dell’embrione, eccettuata la sussistenza di un motivo di ordine medico-
sanitario, quale una grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della
donna non prevedibile al momento della fecondazione.
Ci si è chiesti, pertanto, se addirittura la disposizione in esame renda praticabile un trasferimento
forzoso dell’embrione nell’utero di una donna che non vi consenta, nonostante l’iniziale consenso
legittimamente manifestato, alla stregua di un trattamento sanitario obbligatorio (art. 322, Cost.).
Tale conclusione è da escludersi, sia perché violerebbe i principi di libertà (art. 13 Cost.) nonché il
disposto costituzionale secondo il quale la legge non può in nessun modo violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana (art. 322 Cost.), sia perché, più in generale, la l. n. 40/2004 non
dispone un trattamento sanitario obbligatorio determinato, come invece richiesto dall’art. 32 Cost. Il
che consente di affermare che la donna possa revocare il proprio consenso procreativo sino
all’effettivo trasferimento in utero e, successivamente, possa decidere di interrompere la gravidanza
ai sensi della l. n. 194/1978.
Per contro, l’uomo potrà efficacemente revocare il proprio consenso sino al momento della
fecondazione, dopo di che la revoca sarà senza effetto ed il medico non potrà tenerne alcun conto.
Qualora si prospettasse una separazione tra coniugi nelle more delle pratiche fecondative il giudice
non potrebbe accogliere la pretesa dell’uomo che, revocato il consenso al trasferimento in utero
dell’embrione, intenda far valere il diritto a non diventare padre contro la sua volontà.
Vi è dunque una sorta di disparità di trattamento tra la situazione dell’uomo e quella della donna,
che tuttavia non appare incongrua od in violazione dell’art. 3 Cost., stente la diversa funzione dei
partners nel processo riproduttivo ed il diritto della donna ad opporsi ad un trattamento sanitario
indesiderato.
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Non è chiara la sorte dell’embrione formatosi, una volta che la donna ne rifiuti il trasferimento.
Secondo un orientamento, l’ipotesi potrebbe rientrare fra quelle in cui la legge ne consente la
crioconservazione.
LO STATO DEL NATO: L’art. 8 della legge determina lo stato giuridico del nato a seguito
dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, che è di figlio legittimo se
la coppia genitoriale è riconosciuta.
La legge stabilisce che qualora la coppia non sia coniugata il figlio consegua lo stato di figlio
riconosciuto.
L’art. 92, stabilisce che la madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione
medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata. La disposizione in
esame appare di difficile applicazione poiché l’ufficiale di stato civile non ha possibilità di sapere se
la nascita che gli viene denunziata come da donna che non consente di essere nominata sia
conseguenza di fecondazione medicalmente assistita.
Di notevole rilevanza è il principio affermato dall’art. 93, secondo il quale in caso di applicazione di
tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’art. 43, il donatore dei gameti non
acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti
alcun diritto, né essere titolare di obblighi.
Le moderne tecniche mediche non hanno coinvolto il solo profilo della paternità: anche la
maternità, infatti, ha dato luogo a questioni rilevanti, sia sul piano etico che giuridico. Il fenomeno
più noto è quello cd. della “maternità surrogata”, che vede una donna assumersi l’obbligo di portare
a termine una gravidanza per conto di una coppia sterile, alla quale s’impegna poi a consegnare il
bambino. La donna che si presta a condurre a termine la gravidanza può essere fecondata
artificialmente con il seme del marito, oppure può ricevere il trasferimento di un embrione già
concepito ‘in vitro’. Nel primo caso, si parla di maternità surrogata o di madre in affitto, nel
secondo di maternità portante o affitto di ventre.
La l. n. 40/2004 pone espressamente il divieto, sanzionato penalmente in maniera molto severa
anche nei riguardi della coppia committente e della madre portante, oltre che del medico.
Inoltre, il disposto dell’art. 93, conferma che la donna che ha partorito è l’unica cui va attribuita la
maternità, essendo irrilevante giuridicamente il fatto che l’embrione che le è stato impiantato in
utero fosse formato da materiale genetico di un’altra donna (la madre committente).
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CAPITOLO DECIMO
L’ADOZIONE E L’AFFIDAMENTO
L’EVOLUZIONE DELL’ISTITUTO
La legge riconosce al fanciullo il diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia. Per
assicurare l’effettivo soddisfacimento di tale diritto, come richiesto dall’art. 31 Cost., ed al fine di
prevenire l’abbandono, sono previsti interventi di sostegno e di aiuto da parte dello Stato, delle
regioni e degli enti locali.
Per l’ipotesi in cui la famiglia biologica non sia in grado di provvedere alla crescita e all’educazione
del fanciullo, la legge disciplina gli istituti dell’affidamento e dell’adozione. L’affidamento ha lo
scopo di fornire un ambiente familiare idoneo al fanciullo che ne sia temporaneamente privo,
mentre con l’adozione si crea un pieno rapporto di filiazione fra soggetti che non sono unita da
vincolo di sangue.
Negli ultimi decenni l’istituto dell’adozione ha conosciuto una profonda evoluzione, che ha finito
per modificarne l’originaria funzione.
In passato, l’adozione aveva, infatti, principalmente lo scopo di consentire a soggetti privi di figli di
trasmettere il proprio cognome ed il proprio patrimonio. Tale funzione – che peraltro non è venuta
meno del tutto, essendo ancora assolta dall’adozione dei maggiorenni – non è più quella che,
attualmente, l’istituto è chiamato a svolgere.
L’adozione ha, infatti, fondamentalmente lo scopo di consentire l’inserimento di un fanciullo, privo
di una famiglia che sia in grado di provvedere alle sue esigenze di vita, all’interno di una nuova
famiglia, nell’ambito della quale possa trovare un ambiente adatto alla sua crescita. L’adozione si
pone, dunque, come strumento essenzialmente diretto a tutelare l’interesse dell’adottato ad avere
una famiglia idonea e, solo in via indiretta, assolve la funzione di soddisfare l’interesse degli
adottanti ad avere un figlio.
La svolta fra vecchia e nuova adozione fu attuata dalla l. 5 giugno 1967, n. 431, che introdusse la
cd. adozione “speciale” avente carattere legittimante; la successiva l. 4 maggio 1983, n. 184, ha
adeguato la legge del 1967 ai principi espressi nella Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967.
Essa ha abolito l’originario limite massimo di età di 8 anni, rendendo possibile l’adozione per tutti i
minori abbandonati, ed ha anche regolato l’adozione internazionale, la cui disciplina è stata
successivamente riformata dalla l. 31 dicembre 1998, n. 476, che ha ratificato e dato esecuzione alla
Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993.
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Infine, con la l. 28 marzo 2001, n. 149 il legislatore è nuovamente intervenuto a modificare la l. n.
184/1983, provvedendo, fra l’altro, a cambiarne l’intitolazione – ora “Diritto del minore ad una
famiglia” – e ad introdurre una nuova disciplina processuale.
Il mutamento di titolo della legge non ha esclusivo carattere formale. Esso anzi intende sottolineare
l’intenzione del legislatore di mettere al centro della disciplina legale l’interesse del minore che è in
prima istanza quello di crescere ed essere educato nella propria famiglia e non può essere ostacolato
dalle condizioni d’indigenza dei genitori; per questo motivo sono disposti interventi di sostegno e di
aiuto, e, solo quando la famiglia non sia in grado di provvedere alla crescita e all’educazione,
possono trovare applicazione gli istituti dell’affidamento e dell’adozione.
Le disposizioni dell’art. 28, in cui, per la prima volta, si contempla il diritto dell’adottato ad essere
informato dai genitori adottivi della propria condizione, onde evitare che segreti e menzogne
disturbino le relazioni familiari e la crescita del fanciullo, che, una volta raggiunto il 25° anno di
età, potrà accedere alle informazioni relative alle sue origini.
L’AFFIDAMENTO DEI MINORI
L’affidamento, nel disegno del legislatore, costituisce un rimedio destinato ad operare per un
periodo limitato di tempo. Affinché l’affidamento possa essere disposto occorre che a causa di
circostanze di carattere transitorio, i genitori del minore non siano in grado di offrirgli le cure che
gli necessitano. Può farsi luogo all’affidamento solo laddove gli interventi di sostegno e di aiuto
disposti a favore della famiglia non abbiano dato buoni risultati.
L’affidamento viene disposto a favore di una famiglia o di una persona singola. Solo qualora ciò
non sia possibile, può farsi luogo all’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare, o in
un istituto di assistenza pubblico o privato. Si deve ritenere peraltro che il ricovero in istituto è un
rimedio oramai in via di superamento: il legislatore ha, infatti, stabilito che dopo il 31 dicembre
2006 gli affidamenti potranno essere disposti solo nei confronti di famiglie o di comunità di tipo
familiare, ed ha anche vietato il ricovero in istituto per minori di età inferiore ai 6 anni.
Nel caso in cui i genitori esercenti la potestà abbiano manifestato il consenso dell’affidamento (c.d.
affidamento consensuale), questo viene disposto dal servizio sociale locale, sentito il minore che
abbia compiuto dodici anni, ed anche il minore di età inferiore in considerazione della sua capacità
di discernimento. Il provvedimento del servizio sociale viene poi reso esecutivo con provvedimento
del giudice tutelare.
Qualora invece il consenso dei genitori manchi, l’affidamento può essere disposto dal tribunale per i
minorenni (c.d. affidamento contenzioso).
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Il provvedimento deve indicare le motivazioni per le quali l’affidamento è stato disposto, i tempi e i
modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario, nonché le modalità tramite cui i genitori e
gli altri componenti del nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il fanciullo; disposizione,
quest’ultima, di notevole rilievo poiché l’affidamento è destinato ad operare per un periodo di
tempo limitato, in attesa che la famiglia d’origine superi difficoltà contingenti. Nel provvedimento è
anche indicato il servizio sociale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza e il
potere di vigilanza durante l’affidamento; il servizio sociale deve inoltre informare il tribunale per i
minorenni sull’evolversi della situazione, con l’obbligo di presentare una relazione semestrale. Il
provvedimento deve infine indicare la presumibile durata del periodo di affidamento, da rapportarsi
ai prevedibili tempi di recupero della famiglia. La l. n. 149/2001 ha stabilito che tale durata non può
superare i 24 mesi, pur essendo prorogabile dal tribunale per i minorenni qualora la sospensione
dell’affidamento sia suscettibile di recare pregiudizio al minore.
La legge attribuisce all’affidatario quel complesso di facoltà che si fanno rientrare nella cd. potestà
interna: egli ha il dovere di accogliere il minore presso di sé e di provvedere al suo mantenimento,
alla sua istruzione ed educazione, tenendo comunque conto delle prescrizioni fissate dall’autorità e
delle indicazioni dei genitori che non siano stati dichiarati decaduti dalla potestà (o del tutore),
nonché delle capacità e delle inclinazioni naturali del minore. La l. n. 149/2001 ha altresì specificato
che l’affidatario esercita i poteri relativi ai rapporti ordinari con l’istituzione scolastica e con le
autorità sanitarie e che dev’essere sentito nei procedimenti in materia di potestà, di affidamento e di
adottabilità relativi al minore affidato. Il compito di agevolare i rapporti fra il minore e la sua
famiglia di origine e di favorire il rientro nella stessa spetta al servizio sociale, che si occupa inoltre
di svolgere opera di sostegno educativo e psicologico. Queste stesse disposizioni si applicano in
quanto compatibili nel caso di minori ospitati presso una comunità di tipo familiare o che si trovino
presso un istituto di assistenza pubblico o privato. A vantaggio delle persone affidatarie la legge
riconosce taluni benefici e misure economiche di sostegno.
L’affidamento familiare cessa quando la situazione di temporanea difficoltà della famiglia sia stata
superata, oppure qualora la sua prosecuzione risulti pregiudizievole per il minore. Viene meno
anche nel caso in cui sopravvenga una definitiva situazione di abbandono, dovendosi procedere, in
tal caso, ad aprire la procedura di adottabilità; allo scopo di salvaguardare i rapporti affettivi già
sorti fra il minore e gli affidatari, l’affidamento preadottivo potrà eventualmente essere disposto a
favore di questi ultimi, sempre che essi abbiano i requisiti richiesti per adottare.
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L’ADOZIONE DEI MINORI
L’adozione rappresenta un rimedio estremo cui fare ricorso solo quando la famiglia d’origine non
possa offrire al minore quel minimo di cure e di affetto che sono indispensabili per una crescita sana
ed equilibrata.
L’adozione è consentita solo nei confronti dei minori dichiarati in stato di adottabilità: in particolare
vengono dichiarati in stato di adottabilità, dal tribunale per i minorenni del distretto nel quale si
trovano, i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e
materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, che, sono quelli entro il quarto
grado. Ad escludere lo stato di abbandono non è sufficiente che tali soggetti si limitino a
manifestare la loro disponibilità per il futuro, ma occorre che abbiano già maturato con il bambino
un rapporto continuativo da cui sia scaturito un vincolo di affetto. La situazione di abbandono
sussiste, sempre che vi siano le condizioni appena indicate, anche quando i minori si trovino
ricoverati presso istituti pubblici o privati, o presso comunità di tipo familiare, ovvero siano in
affidamento familiare.
Il legislatore ha formulato una previsione generale ed elastica, lasciando così alla giurisprudenza il
compito di individuare in quali casi concretamente si configuri una situazione di abbandono. In
proposito è frequente l’affermazione secondo cui la situazione di abbandono presuppone una
mancanza di quel minimo di cure materiali, calore affettivo e aiuto psicologico indispensabili per lo
sviluppo e la formazione della personalità del fanciullo. Si precisa peraltro che lo stato di
abbandono non richiede necessariamente un comportamento omissivo dei genitori, ma sussiste
anche quando questi ultimi, con comportamenti commissivi, espongano ad un grave e irreversibile
pregiudizio il sano sviluppo psico-fisico del figlio. L’abbandono comunque, secondo un consolidato
orientamento, va inteso in senso oggettivo, prescindendo da qualsiasi elemento di volontarietà o di
colpevolezza dei genitori e dando perciò rilievo unicamente alla violazione dei diritti del figlio. È
stata affermata la sussistenza di uno stato di abbandono, ad es., in ipotesi di condotta gravemente
immorale o disordinata dei genitori, di maltrattamenti ai danni del fanciullo – anche se posti in
essere nella convinzione che costituiscano una forma di educazione –, d’induzione
all’accattonaggio, di abusi sessuali, di malnutrizione, di cattiva cura dell’igiene personale del figlio,
di tossicodipendenza dei genitori. È stata invece negata la sussistenza di uno stato di abbandono
nell’ipotesi in cui i genitori risultino affetti da anomalie della personalità, a meno che queste non si
traducano in incapacità di allevare ed educare la prole.
Integra altresì lo stato di abbandono l’affidamento prolungato ad una coppia estranea cui si
accompagni un sostanziale disinteresse da parte dei genitori o il ricovero in istituto quando vi sia
una ragionevole probabilità che detta situazione si cronicizzi.
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La legge impedisce la dichiarabilità dello stato di abbandono quando la mancanza di assistenza
morale e materiale sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio, da intendersi come
causa contingente e comunque reversibile, estranea alla condotta dei genitori: la rilevanza di tale
situazione è stata esclusa, ad es., in caso di detenzione, essendo quest’ultima la conseguenza di un
comportamento criminoso del genitore, posto in essere nella consapevolezza della possibile
carcerazione; è stata anche esclusa in caso di malattia inguaribile del genitore e di disoccupazione
volontaria. Per espressa disposizione, non sussiste causa di forza maggiore in caso d’ingiustificato
rifiuto delle misure di sostegno offerte dai servizi sociali locali.
Il giudice deve comunque tener conto, al fine di escludere la sussistenza dello stato di abbandono,
anche di sopravvenute manifestazioni di disponibilità provenienti da genitori che in precedenza
avevano trascurato il minore, fermo restando che non sono sufficienti formali dichiarazioni d’intenti
non accompagnate da un autentico e profondo interesse e dettate solo da un mero proposito di
riscatto o di reazione.
I REQUISITI DEGLI ADOTTANTI: La legge stabilisce i requisiti che devono possedere coloro i
quali aspirano ad adottare un fanciullo. In particolare richiede che gli aspiranti adottanti siano uniti
in matrimonio da almeno tre anni e che fra loro non sussista e non abbia avuto luogo negli ultimi 3
anni uno stato di separazione personale, neppure di fatto. Il requisito della stabilità del rapporto può
ritenersi realizzato anche quando i coniugi hanno convissuto prima del matrimonio per un periodo
di 3 anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della
convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto.
La legge, sul presupposto che la famiglia adottiva debba costituirsi sul modello di quella biologica e
contemplare quindi sia la figura materna che quella paterna, non prevede la possibilità di adottare da
parte di una persona singola, se non in casi particolari.
Altro requisito di carattere formale richiesto dalla legge è quello dell’età: l’età degli adottanti deve
essere superiore a quella dell’adottato di almeno 18 anni, mentre la differenza massima di età è stata
portata a 45 anni.
I limiti suindicati possono essere derogati qualora il tribunale per i minorenni accerti che dalla
mancata adozione deriverebbe al minore un danno grave e non altrimenti evitabile; l’adozione non è
preclusa quando il limite massimo di età sia superato solo da uno degli adottanti in misura non
superiore ai 10 anni, oppure quando essi siano già genitori di figli “naturali” (espressione usata in
senso atecnico) o adottivi, di cui almeno uno sia in età minore, ovvero quando l’adozione riguardi
un fratello o una sorella del minore già dagli stessi adottato.
Sotto il profilo sostanziale si richiede che i coniugi siano affettivamente idonei e capaci di educare,
istruire e mantenere i minori che intendono adottare.
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IL PROCEDIMENTO E GLI EFFETTI: L’adozione legittimante viene pronunciata al termine di un
complesso procedimento che si snoda attraverso 3 passaggi: la dichiarazione dello stato di
adottabilità, l’affidamento preadottivo e il provvedimento di adozione.
Il procedimento di adottabilità deve svolgersi sin dall’inizio con l’assistenza legale del fanciullo e
dei genitori o degli altri parenti che abbiano rapporti significativi con il medesimo.
Prima di emanare i singoli provvedimenti, vi è l’obbligo di ascoltare il minore che abbia compiuto i
dodici anni; mentre il minore infradodicenne, può essere sentito in considerazione della sua capacità
di discernimento.
Lo stato di adottabilità viene dichiarato dal tribunale per i minorenni del distretto in cui il minore si
trova, previo accertamento della situazione di abbandono.
Chiunque ha facoltà di segnalare all’autorità pubblica situazioni di abbandono; per i pubblici
ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio e gli esercenti un servizio di pubblica necessità, la
legge pone invece un obbligo di segnalazione al procuratore della Repubblica presso il tribunale per
i minorenni. Uno specifico obbligo d’informativa è posto a carico degli istituti pubblici e privati e
delle comunità di tipo familiare, che semestralmente devono trasmettere al procuratore della
Repubblica l’elenco dei minori che sono collocati presso di loro: quest’ultimo, a sua volta, ogni 6
mesi effettua ispezioni negli istituti di assistenza, potendo procedere in ogni tempo ad ispezioni
straordinarie. Un obbligo di segnalazione grava infine anche su chi, non essendo parente entro il
quarto grado, accolga stabilmente presso di sé un minore per un periodo superiore ai 6 mesi; il
medesimo obbligo opera anche per il genitore: l’omissione della segnalazione può comportare, nel
primo caso, l’inidoneità ad ottenere affidi familiari o adottivi, mentre nel secondo caso la decadenza
dalla potestà sul figlio e l’apertura della procedura di adottabilità.
Il procuratore della Repubblica, assunte le informazioni necessarie, chiede con ricorso al tribunale
per i minorenni di dichiarare l’adottabilità di quelli fra i minori segnalati o collocati presso istituti di
assistenza, comunità di tipo familiare o presso una famiglia affidataria, che risultino in situazione,
di abbandono specificandone i motivi.
Ricevuto il ricorso del procuratore della Repubblica, il presidente del tribunale, o un giudice da lui
delegato, provvede all’immediata apertura della procedura: dell’apertura del procedimento sono
avvisati i genitori o in mancanza, i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi
con il minore, che vengono anche invitati a nominare un difensore e informati sulla circostanza che,
altrimenti, verrà loro nominato un difensore d’ufficio.
Il tribunale dispone, valendosi dei servizi sociali e degli organi di pubblica sicurezza, l’effettuazione
di più approfonditi accertamenti sulle condizioni del minore al fine di verificare se sussista
effettivamente lo stato di abbandono.
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Allo scopo di evitare che il protrarsi della situazione di abbandono possa recare al minore pregiudizi
ulteriori, la legge consente al tribunale di disporre in ogni momento e fino all’affidamento
preadottivo, tutti i provvedimenti provvisori che appaiano opportuni nell’interesse del minore,
compresi il collocamento temporaneo presso una famiglia o una comunità di tipo familiare – cd.
affidamento provvisorio – la sospensione della potestà dei genitori, la sospensione dell’esercizio
delle funzioni del tutore e la nomina di un tutore provvisorio.
Se il minore ha i genitori o i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con lui,
essi vengono convocati innanzi al tribunale per essere sentiti e per verificare la loro disponibilità a
prendersi cura del minore: qualora se ne ravvisi l’opportunità, potranno essere loro impartite
prescrizioni a tutela del fanciullo stabilendo al tempo stesso periodici accertamenti. Il tribunale
provvede a dichiarare lo stato di adottabilità se i genitori e i parenti, ritualmente convocati, non si
siano presentati senza giustificato motivo, se la loro audizione ha dimostrato la persistenza della
mancanza di assistenza morale e materiale e la non disponibilità ad ovviarsi, ovvero se le
prescrizioni impartite siano rimaste inadempiute.
Se invece dalle indagini effettuate i genitori risultino deceduti e non vi siano parenti entro il quarto
grado che abbiano mantenuto significativi rapporti con il minore, il tribunale dichiara lo stato di
abbandono, a meno che non vi siano istanze di adozione semplice: in quest’ultimo caso il collegio
decide nell’esclusivo interesse del minore. Ugualmente si provvede all’immediata dichiarazione
dello stato di adottabilità se i genitori sogni ignoti, a meno che non venga fatta istanza di
sospensione da parte di chi, affermando di essere il genitore naturale, chieda un termine, la cui
durata massima è di due mesi, per procedere al riconoscimento; qualora invece il genitore naturale
abbia meno di 16 anni – e non sia quindi stato in grado di effettuare il riconoscimento – la
procedura è rinviata e può restare sospesa per ulteriori due mesi dopo il compimento del 16° anno.
In entrambi i casi occorre comunque che nel frattempo al minore sia garantita un’adeguata
assistenza; se necessario il tribunale potrà nominare un tutore provvisorio: trascorsi i termini
suindicati, se il riconoscimento avviene, la procedura si conclude, in mancanza, viene invece
dichiarato con sentenza lo stato di adottabilità.
Durante lo stato di adottabilità la potestà dei genitori è sospesa: qualora non abbia già provveduto in
precedenza, il tribunale nominerà al minore un tutore.
Una volta dichiarato, lo stato di adottabilità cessa per adozione e per raggiungimento della maggiore
età; esso può altresì cessare per revoca, sempre che non sia già in atto l’affidamento preadottivo: la
revoca è pronunciata dal tribunale per minorenni nell’interesse del minore, qualora, dopo
l’emanazione della sentenza dichiarativa dello stato di adottabilità, sia venuta meno la situazione di
abbandono.
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Alla dichiarazione dello stato di adottabilità segue l’affidamento preadottivo del minore ad una
coppia di coniugi che abbia presentato la relativa domanda al tribunale per i minorenni; la domanda,
che può essere inoltrata anche a più tribunali minorili, decade dopo 3 anni dalla presentazione, ma
può essere rinnovata. Il tribunale per i minorenni, accertata la sussistenza dei requisiti, dispone
l’effettuazione di adeguate indagini, dando la precedenza nell’istruttoria alle domande dirette
all’adozione di minori di età superiore ai 5 anni o con handicap accertato. Sulla base delle indagini
svolte, il tribunale procede ad una valutazione comparativa delle coppie che aspirano all’adozione e
sceglie quella maggiormente in grado di corrispondere alle esigenze del minore.
Durante il periodo di affidamento, il tribunale, avvalendosi anche del giudice tutelare e dei servizi
sociali e dei consultori, esercita un’attività di vigilanza allo scopo di verificarne il buon andamento.
In caso di accertate difficoltà, provvede a convocare anche separatamente gli affidatari e il fanciullo
allo scopo di valutare le cause che ne sono all’origine, disponendo ove necessario interventi di
sostegno psicologico e sociale e, se del caso, revocando l’affidamento.
Decorso un anno dall’affidamento preadottivo, il tribunale per i minorenni, previa verifica della
sussistenza di tutti i presupposti richiesti, e dopo aver sentito i coniugi affidatari ed i loro figli
legittimi o legittimati se maggiori di 14 anni, il minore che abbia compiuto gli anni 12 e anche il
minore di età inferiore in considerazione della sua capacità di discernimento, il p.m., il tutore e
coloro che hanno svolto l’attività di sorveglianza e di sostegno, si pronuncia sull’adozione con
sentenza. Il minore che abbia compiuto i 14 anni deve espressamente manifestare il proprio
consenso ad essere adottato dalla coppia prescelta.
Se durante l’affidamento preadottivo uno dei coniugi muore o diviene incapace, l’altro coniuge può
comunque domandare che l’adozione venga pronunciata a favore di entrambi: in tal caso
l’adozione, per il coniuge deceduto, produce effetto dalla data di morte anziché dal momento in cui
la sentenza diviene definitiva. Se durante l’affidamento preadottivo i coniugi si separano, l’adozione
può essere pronunciata nell’esclusivo interesse del minore, a favore di entrambi o di uno solo,
qualora venga avanzata istanza in tal senso.
La sentenza definitiva, trascritta nell’apposito registro tenuto presso la cancelleria del tribunale,
viene inoltre annotata a margine dell’atto di nascita dell’adottato: in forza di tale pronuncia
l’adottato diviene figlio legittimo degli adottanti assumendone e trasmettendone il cognome;
vengono meno, per contro, tutti i rapporti con la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali.
L’adozione non è suscettibile di revoca.
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L’ADOZIONE DEI MINORI NEI CASI PARTICOLARI: LE SINGOLE IPOTESI
L’adozione dei minori in casi particolari si differenzia dall’adozione legittimante, oltre che per un
più ristretto ambito applicativo, per la previsione di requisiti meno rigidi per gli aspiranti adottanti e
per la maggiore semplicità del procedimento.
Le peculiarità di tale figura riguardano soprattutto gli effetti, che sono più limitati, non importando
un’interruzione dei rapporti fra l’adottato e la sua famiglia d’origine – verso cui l’adottato mantiene
tutti i diritti e doveri – né la creazione di rapporti di parentela con i parenti dell’adottante.
Inoltre, non è necessaria la sussistenza di uno stato di abbandono in capo al minore di cui trattasi.
L’adozione particolare può essere pronunciata a favore:
⇒ di persone coniugate o di persone singole unite al minore da un vincolo di parentela entro il
sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo qualora il minore sia orfano;
⇒ del coniuge, qualora il minore sia figlio (anche adottivo) dell’altro coniuge;
⇒ di persone coniugate o anche di persone singole, quando si tratti di minore orfano affetto da
handicap;
⇒ di persone coniugate o anche di persone singole, nell’ipotesi in cui vi sia la constatata
impossibilità di procedere all’affidamento preadottivo.
Se l’adottante è persona coniugata e non separata, l’adozione potrà essere pronunciata solo su
istanza di entrambi i coniugi: se ne deduce che il singolo può adottare solo se non sia sposato o
qualora sia separato. L’adozione è consentita anche in presenza di figli legittimi.
È comunque vietata l’adozione del proprio figlio naturale.
L’ADOZIONE INTERNAZIONALE: la Convenzione dell’Aja e la riforma del 1998
Con l’espressione adozione internazionale si fa riferimento ad ogni ipotesi in cui gli adottanti
abbiano nazionalità diversa da quella dell’adottato. Il fenomeno ha trovato per la prima volta una
regolamentazione organica nella l. n. 184/1983, che, tuttavia, è apparsa sotto alcuni aspetti
inadeguata. Essa lasciava, infatti, ampio spazio all’iniziativa degli aspiranti adottanti, liberi di
recarsi all’estero e di prendere contatto tramite intermediari non qualificati, o anche direttamente,
con operatori stranieri o addirittura con la famiglia d’origine del minore. Vi era dunque il rischio di
abusi; inoltre, in diversi Paesi esteri le condizioni per fare luogo all’adozione sono molto meno
rigorose rispetto a quelle fissate dalla legge italiana (addirittura in alcuni Stati il giudice si limita ad
apporre un visto ad un accordo privato intercorso fra le parti).
A questi problemi ha inteso dare una soluzione la Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 per la
tutela dei bambini e la cooperazione nell’adozione internazionale di cui anche l’Italia si è resa
firmataria.
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La Convenzione individua in modo preciso le condizioni necessarie affinché l’adozione possa avere
luogo: dichiarazione di adottabilità del minore da parte delle autorità straniere; accertamento da
parte delle stesse autorità dell’impossibilità di far luogo all’affidamento del fanciullo nello stato di
origine, di modo che l’adozione internazionale, in relazione al suo preminente interesse, appaia
l’unica via praticabile (cd. criterio di sussidiarietà); svolgimento della necessaria attività di
consulenza a beneficio dei soggetti il cui consenso è richiesto ai fini dell’adozione, consenso che
deve essere da loro manifestato senza alcun corrispettivo e per iscritto, previa adeguata
informazione circa le sue conseguenze, in particolare in ordine all’eventuale cessazione di ogni
vincolo giuridico fra il minore e la sua famiglia d’origine (in special modo è richiesto che il
consenso della madre, ove occorra, sia stato prestato dopo la nascita del bambino); svolgimento
della necessaria attività di consulenza anche a beneficio del minore, il cui consenso, ove richiesto,
dovrà essere manifestato in piena libertà, gratuitamente e per iscritto e preceduto da adeguata
informazione circa i suoi effetti.
La Convenzione afferma poi la necessità che ogni singolo Paese aderente individui un’Autorità
centrale, cui sono attribuiti molteplici e disparati compiti, al fine di garantire il rispetto delle
previsioni della Convenzione stessa. La l. 31 dicembre 1998, n. 476, con cui l’Italia ha ratificato e
ha dato esecuzione alla Convenzione, ha opportunamente riservato al tribunale per i minorenni i
compiti propriamente giudiziari, attribuendo invece quelli di carattere amministrativo e di politica
generale alla Commissione per le adozioni internazioni. Quest’organismo, istituito presso la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato introdotto ex novo dalla legge di riforma: si compone
di 11 membri a prevalente nomina governativa ed è presieduto da un magistrato avente esperienza
nel settore minorile. La Commissione ha numerosi compiti: essa oltre a rilasciare l’autorizzazione
agli enti, autorizza l’ingresso del minore in Italia, certifica la conformità dell’adozione alla
Convenzione dell’Aja, conserva tutti gli atti relativi alla procedura, promuove iniziative di
formazione per coloro che operano nel campo dell’adozione, collabora con le Autorità centrali degli
altri Stati.
La nuova legge ha anche introdotto l’obbligo per coloro che aspirano all’adozione internazione di
rivolgersi ad uno degli enti autorizzati, con ciò ponendo fine al fenomeno delle “adozioni fai da te”.
Agli enti sono attribuiti compiti estremamente delicati, quali, in particolare, di svolgere tutte le
pratiche necessarie, di ricevere le proposte d’incontro formulate dall’autorità straniera, di assistere i
coniugi in tutte le attività da svolgersi all’estero, di ricevere dall’autorità straniera l’attestazione
circa la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 4 della Conv. dell’Aja e di concordare con essa
l’opportunità di procedere all’adozione, di chiedere alla Commissione per le adozioni internazionali
l’autorizzazione ad introdurre il fanciullo in Italia e di vigilare sul suo trasferimento, di svolgere
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insieme ai servizi locali un’attività di sostegno a beneficio del nucleo adottivo una volta che il
minore sia stato condotto in Italia. Vista la rilevanza dei compiti loro affidati, la legge richiede agli
enti che aspirino ad ottenere il riconoscimento il possesso di determinati requisiti: in particolare si
richiede che l’ente sia diretto e composto da persone aventi adeguata preparazione e competenza nel
campo dell’adozione internazionale e con idonee qualità morali; che si avvalga dell’ausilio di
professionisti in campo sociale, giuridico, psicologico iscritti nei relativi albi; che disponga di
un’adeguata struttura organizzativa; che non abbia fini di lucro; che non operi discriminazioni fra
gli aspiranti all’adozione.
L’autorizzazione viene rilasciata agli enti dalla Commissione per le adozioni internazionali, che
cura la tenuta del relativo albo, vigila sul loro operato e in caso di gravi inadempienze dispone la
revoca.
IL DIRITTO DELL’ADOTTATO A CONOSCERE LE PROPRIE ORIGINI
La l. n. 149/2001 introduce principi nuovi rispetto al passato, primo fra tutti quello per cui il
fanciullo deve essere informato della sua condizione dai genitori adottivi, che devono provvedervi
nei modi e termini che ritengono più opportuni.
Sono state introdotte disposizioni innovative in ordine alla possibilità per l’adottato di avere notizie
sulla propria famiglia d’origine, possibilità che in precedenza veniva generalmente negata anche
dopo il raggiungimento della maggiore età, eccettuato il caso in cui la richiesta di conoscere
l’identità dei genitori biologici fosse giustificata dalla necessità di salvaguardare la salute dello
stesso adottato.
È riconosciuta poi, durante la minore età, la possibilità per i genitori adottivi, di avere informazioni
sull’identità dei genitori biologici, previa autorizzazione del tribunale per i minorenni, qualora vi
siano gravi e comprovati motivi. Il tribunale è obbligato ad accertare che l’informazione sia
preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore. Le informazioni
possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera, se vi sia necessità ed
urgenza e sussista un grave pericolo per la salute del minore.
L’adottato, raggiunta l’età di 25 anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e
l’identità dei suoi genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e
comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale
per i minorenni del luogo di residenza. L’autorizzazione del tribunale per i minorenni occorre anche
per chi ha già compiuto il 25° anno di età, pur senza l’ulteriore requisito dei gravi e comprovati
motivi attinenti alla salute psico-fisica; e quindi l’autorizzazione del giudice minorile si ritiene
necessaria in ogni caso.
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Il tribunale sente le persone di cui ritiene opportuno l’ascolto e assume le informazioni di carattere
sociale e psicologico allo scopo di valutare che l’accesso alle notizie richieste non nuoci gravemente
all’equilibrio psico-fisico del richiedente.
L’art. 1772, del D.lg. 30 giugno 2003, 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) si
limita ad impedire l’accesso alle informazioni nei soli confronti della madre che abbia dichiarato di
non volere essere nominata.
L’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiorenne quando i genitori adottivi siano
deceduti o siano divenuti irreperibili.
L’ADOZIONE DEI MAGGIORENNI
L’adozione delle persone maggiori di età soddisfa l’interesse dell’adottante, privo di discendenti
legittimi o legittimati, ad acquisire un figlio cui trasmettere il proprio cognome e le proprie
sostanze. Resta tuttora l’impossibilità di procedere all’adozione di persone maggiori di età per chi
abbia figli legittimi minori o maggiorenni non consenzienti e anche per chi abbia figli naturali
riconosciuti minori o maggiorenni non consenzienti.
Fra l’adottante e l’adottato deve intercorrere una differenza di età di almeno 18 anni: ne discende
che l’adottante deve avere 36 anni, anche se è prevista la possibilità per il tribunale di autorizzare
comunque l’adozione al compimento dei 30 anni, qualora eccezionali circostante lo consiglino.
Nessuno può essere adottato da più di una persona, a meno che gli adottanti non siano coniugi. È
vietato adottare i propri figli nati fuori dal matrimonio.
Affinché l’adozione possa essere pronunciata occorre il consenso dell’adottante e dell’adottando, i
quali possono revocarlo finché non sia intervenuta la pronuncia del tribunale; occorre altresì
l’assenso dei genitori dell’adottando e l’assenso del coniuge dell’adottante e dell’adottando che non
sia legalmente separato. Il tribunale, previa verifica della convenienza dell’adozione per
l’adottando, si pronuncia con sentenza, dalla cui data decorrono gli effetti dell’adozione. La
sentenza definitiva che dispone l’adozione è trascritta in un apposito registro tenuto presso la
cancelleria del tribunale ed annotata a margine dell’atto di nascita dell’adottato.
Gli effetti dell’adozione dei maggiorenni sono i medesimi dell’adozione particolare: mantenimento
dei vincoli con la famiglia d’origine, acquisto del cognome e acquisto dei diritti successori solo in
capo all’adottato.
L’adozione può essere revocata per indegnità dell’adottato o dell’adottante: la competenza spetta al
tribunale ordinario.
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CAPITOLO UNDICESIMO
LA PARENTELA, L’OBBLIGO ALIMENTARE E LA SOLIDARIETÀ FAMILIARE
LA PARENTELA E L’AFFINITÀ
La parentela è il legame di sangue che unisce persone discendenti da un medesimo stipite.
L’intensità del vincolo va determinata tenendo conto di due elementi: la linea, e il grado.
Sono parenti in linea retta le persone che discendono l’una dall’altra (ad es., nonni, genitori, figli),
mentre sono parenti in linea collaterale coloro che hanno un ascendente comune, ma che non
discendono l’uno dall’altro (fratelli, cugini, ecc.). Il grado è l’intervalle generazionale che separa tra
loro due o più soggetti: nella linea retta, per ogni generazione si computa un grado, ma si deve
escludere lo stipite (tra padre e figlio intercorre, quindi, una parentela di primo grado); nella linea
collaterale, il computo deve essere eseguito effettuando la somma dei gradi che intercorrono tra
ognuno dei due parenti e il comune ascendente, il quale deve essere escluso dal computo (due
fratelli sono, infatti, parenti di secondo grado).
Il vincolo di parentela non viene riconosciuto dalla legge oltre il sesto grado, salvo che per alcuni
effetti specificamente determinati.
La parentela viene tradizionalmente distinta in legittima, che intercorre tra individui legati da un
vincolo di sangue scaturente dalla generazione in costanza di matrimonio, e naturale, basata sul solo
legame di sangue.
La parentela naturale pone questioni alquanto dibattute in dottrina. In particolare, prima della
riforma del diritto di famiglia, si riteneva che la parentela naturale fosse circoscritta al rapporto tra il
genitore, il figlio riconosciuto e i discendenti di questo; le novità introdotte con la riforma hanno
spinto a riconsiderare il concetto di parentela naturale, tant’è che si tende oggi a riconoscerle
capacità espansiva, quanto meno in linea retta. Inoltre, si rinvengono ipotesi in cui assume rilevanza
il rapporto tra il figlio naturale ed i parenti del genitore: l’art. 148 c.c., che stabilisce il dovere degli
ascendenti legittimi o naturali di fornire, in ordine di prossimità, ai genitori privi di mezzi sufficienti
quanto necessario affinché questi possano, a loro volta, adempiere ai loro doveri nei confronti dei
figli; l’art. 1551, c.c. – introdotto dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54, che disciplina l’affidamento
condiviso dei figli – che, trovando applicazione anche alla filiazione naturale, tratta come parenti
quelli naturali, prevedendo che, anche in caso di separazione personale dei genitori, il minore ha
diritto a mantenere rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale; l’art. 433, nn. 2 e 3, c.c., il quale parifica i discendenti e gli ascendenti naturali ai
legittimi in ordine agli alimenti; infine, l’art. 467 c.c., che riconosce ai figli naturali il diritto di
succedere per rappresentazione al proprio ascendente che non voglia o non possa accettare l’eredità.
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È invece molto controversa la rilevanza della parentela naturale in linea collaterale. In sintesi,
coloro che ammettono un rapporto di parentela tra fratelli naturali giungono a tale conclusione
osservando come l’art. 433, n. 6, c.c. stabilisca l’obbligo di prestare gli alimenti a carico dei fratelli
dell’alimentando, senza fare alcuna distinzione fra fratelli legittimi e naturali.
Per contro, la tesi che esclude la configurabilità di un rapporto di parentela tra fratelli naturali, fa
essenzialmente leva sull’istituto della legittimazione, il quale, essendo lo strumento per attribuire al
figlio naturale lo stato di figlio legittimo, sarebbe spogliato di qualsiasi utilità ove lo stato di
filiazione naturale fosse idoneo a generare un rapporto di parentela uguale a quello che sorge con lo
stato di figlio legittimo.
Appare comunque certo che una visione discriminante dei rapporti di parentela naturale si ponga in
conflitto non solo con significativi indici normativi d’indole sopranazionale, ma anche con i principi
fondamentali espressi dalla Costituzione e con quelli introdotti dalla riforma del 1975.
La parentela è produttiva di effetti patrimoniali e non patrimoniali. Tra i primi meritano menzione
quelli previsti nel campo della successione necessaria, legittima, nonché in ordine agli alimenti.
Per quanto, invece, concerne gli effetti non patrimoniali, i più significativi sono quelli di cui agli
artt. 87 c.c. (impedimento a contrarre matrimonio), 348 c.c. (idoneità a ricoprire il ruolo di tutore),
417 c.c. (legittimazione a proporre istanza d’interdizione o inabilitazione), e 251 c.c. (non
riconoscibilità dei figli incestuosi). La prova, tanto del rapporto, quanto del grado di parentela, si
fornisce attraverso le risultanze degli atti dello stato civile oppure, qualora vi sia l’impossibilità di
avvalersene, con qualsiasi altro mezzo.
L’affinità è il vincolo che unisce un coniuge ai parenti dell’altro coniuge. Anche l’affinità è
computata in virtù della linea e del grado, in quanto nella linea e nel grado in cui taluno è parente di
uno dei coniugi, egli è affine dell’altro coniuge. L’affinità non viene meno per morte, anche senza
prole, del coniuge da cui essa deriva, mentre cessa qualora il matrimonio sia dichiarato nullo,
ancorché permanga l’impedimento alle nozze per gli affini in linea retta. Un punto controverso
concerne l’idoneità della pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del
matrimonio a far cadere il vincolo di affinità, anche se sembra prevalere l’orientamento favorevole
alla permanenza del vincolo dopo la pronuncia di divorzio.
LA TUTELA DEI SOGGETTI DEBOLI NELLA FAMIGLIA
Negli anni recenti si è sviluppata una notevole riflessione circa il ruolo della famiglia nell’ambito
della tutela dei soggetti deboli (portatori di handicap, anziani, ecc.).
Merita di essere in tale prospettiva richiamata la l. 9 gennaio 2004, n. 6, la quale ha introdotto
l’amministrazione di sostegno; tale istituto sottende una nuova più ampia prospettiva di ‘cura’, che
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si estende al di là degli aspetti di natura meramente patrimoniale, fino a ricomprendere ogni
esigenza, globalmente intesa, del soggetto debole. Per tal via l’ordinamento offre tutela e protezione
a favore di chi, per infermità o menomazione fisica o psichica, si trovi nell’impossibilità di curare
autonomamente i propri interessi.
Il nuovo istituto dell’amministrazione di sostegno s’ispira ai principi di gradualità e flessibilità, per
offrire tutela alla persona non autonoma con la minore limitazione possibile della capacità di agire.
Si è quindi voluto predisporre una “protezione su misura”, che tuteli la persona in quanto tale,
piuttosto che i suoi interessi patrimoniali e che – a differenza dell’interdizione e dell’inabilitazione
– possa diversamente atteggiarsi a seconda delle esigenze del singolo beneficiario, alla luce del
principio di proporzionalità tra disagio e rimedio, non avendo un contenuto predeterminato ex lege,
bensì definito dal giudice volta per volta.
Nel segno di una maggiore flessibilità si muovono anche le innovazioni apportate dalla l. n. 6/2004
alle tradizionali figure dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Il nuovo testo dell’art. 427 c.c. prevede che il giudice possa stabilire che taluni atti di ordinaria
amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto, senza l’intervento ovvero con la mera
assistenza del tutore e che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti
dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore.
Ai fini del discorso in svolgimento assume particolare rilievo la disposizione che disciplina la scelta
dell’amministratore di sostegno; infatti, il giudice tutelare, avendo esclusivo riguardo all’interesse
del beneficiario, deve, ove possibile, preferire il coniuge che non sia legalmente separato, la persona
stabilmente convivente, uno dei genitori, i figli, i fratelli del beneficiario ovvero un parente entro il
quarto grado oppure, ancora, il soggetto designato dal genitore in un testamento, in un atto pubblico
o in una scrittura privata autenticata.
La preferenza viene accordata dal legislatore affinché i compiti di cura siano assolti in prima istanza
proprio nel contesto delle relazioni familiari.
Quanto sopra trova conferma con riferimento agli obblighi attualmente previsti in capo ai genitori di
figlio portatore di handicap grave. L’art. 155 quinquies2, c.c., dettato in materia di affidamento dei
figli a seguito di crisi coniugale – ma in realtà riferibile a qualsiasi coppia genitoriale –, prevede che
ai figli maggiorenni portatori di handicap siano applicabili le disposizioni in materia di affidamento
dei minori. Il legislatore non ha voluto disporre puramente e semplicemente un’equiparazione tra
figlio minore e figlio maggiorenne portatore di handicap, che in sé porrebbe rilevanti dubbi di
natura costituzionale, quanto piuttosto esplicitare a carico dei genitori il perdurare, anche dopo il
raggiungimento della maggiore età del figlio, degli obblighi di cura. Ciò peraltro pare non
comportare necessariamente il dovere che la predetta cura sia attuata mediante un’assistenza diretta
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del figlio, che, anche in considerazione delle patologie da cui sia affetto, potrà essere prestata anche
mediante il ricorso a personale e strutture a ciò deputate, dovendosi peraltro ritenere la sussistenza
in capo ai genitori di una sorta di dovere di direzione e di sorveglianza.
IL RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE
L’imponente flusso migratorio che da vari anni interessa il Paese pone in termini nuovi il problema
del rispetto della vita familiare e dell’attuazione dei doveri di solidarietà ad essa connessi.
Al riguardo è particolarmente rilevante la disciplina del ricongiungimento familiare, mediante il
quale si consente a chi risiede o soggiorna regolarmente in uno Stato diverso da quello di
appartenenza di essere raggiunto dai familiari provenienti da altri Paesi, che può genericamente
ricondursi nell’area delle norme costituzionali a tutela dell’unità familiare (artt. 29, 30, 31 Cost.), ed
è positivamente riconosciuto da accordi internazionali, quali l’art. 10 della Convenzione
internazionale sui diritti del fanciullo (New York, 1989), l’art. 44, n. 2 della Convenzione
internazionale sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie (New York, 1990), l’art. 8 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma,
1950), a tutela del rispetto della vita privata e familiare.
Nonostante le fonti richiamate paiano ricondurre l’istituto del ricongiungimento familiare entro
l’area dei diritti inviolabili dell’uomo, come tali meritevoli di una tutela assoluta, non si rinviene un
riconoscimento pieno ed incondizionato. Questo in considerazione del fatto che l’ingresso dello
straniero nel territorio nazionale coinvolge svariati interessi pubblici – sicurezza, ordine pubblico,
sanità –, la cui ponderazione spetta in primo luogo al legislatore interno, che appare legittimato a
bilanciare l’interesse dello Stato a controllare i flussi migratori in entrata con le esigenze di tutela
della vita familiare dello straniero.
Il diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini dell’U.E. risulta consacrato nella direttiva
2004/38/CE, mentre quello dei cittadini extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio di
uno Stato membro dell’Unione viene disciplinato dalla direttiva 2003/86/CE, cui lo Stato italiano si
è adeguato solo di recente con d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5, contenente modifiche ed integrazioni al
d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). L’art. 29 del t.u., contenente la
disciplina del ricongiungimento familiare, ha, subito nel tempo numerose modifiche: dapprima, con
l. 30 luglio 2002, n. 189 (cd. legge Bossi-Fini), che ha introdotto sensibili limitazioni alla
concessione del visto di ingresso per il ricongiungimento familiare; poi, con il citato d.lgs. n.
5/2007, che ha semplificato le procedure e mitigato le condizioni per l’esercizio del
ricongiungimento familiare; da ultimo, con d.lgs. 3 ottobre 2008, n. 160, che, nel modificare ed
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integrare il d.lgs. n. 5/2007, ha reintrodotto requisiti più restrittivi ed onerosi per l’accesso al
ricongiungimento familiare.
L’art. 291, così come da ultimo novellato, riconosce allo straniero legalmente soggiornante in Italia
il diritto di ricongiungersi con i seguenti familiari: a) il coniuge non legalmente separato e di età
non inferiore ai 18 anni; b) i figli minori, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non
coniugati, a condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso. Ai figli
minori sono espressamente equiparati i minori adottati o affidati o sottoposti a tutela. La
giurisprudenza è arrivata a estendere il ricongiungimento familiare ai minori legati allo straniero da
un legame che abbia un contenuto sostanzialmente paragenitoriale, indipendentemente dal ‘nomen
iuris’ e dalla coincidenza assoluta di effetti tra la misura straniera a protezione dei minori e gli
istituti italiani testualmente richiamati dalla norma.
Sono poi previste, quali ulteriori restrizioni introdotte dal d.lgs. 3 ottobre 2008, n. 160 per essere
ammessi al ricongiungimento familiare, l’innalzamento del livello di reddito dello straniero e il
ricorso all’esame del DNA per comprovare i suoi legami parentali con il soggetto da ricongiungere
qualora manchi idonea documentazione rilasciata dalle competenti autorità straniere o sussistano
fondati dubbi sulla sua autenticità.
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CAPITOLO DODICESIMO
LA RESPONSABILITÀ CIVILE NELLE RELAZIONI FAMILIARI
I NUOVI DANNI NELLA FAMIGLIA CHE CAMBIA
La progressiva valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia ha fatto
emergere il problema della responsabilità civile all’interno della stessa, in particolare, rispetto ai cd
‘nuovi’ danni alla persona e alle mutate relazioni giuridiche tra familiari.
In conseguenza di questi due temi da un lato, si è ampliata la categoria dei danni risarcibili e,
dall’altro, sono state create nuove figure che riflettono una più marcata attenzione dell’ordinamento
nei confronti della persona e delle sue prerogative, non più attinenti alla capacità di reddito, quanto
piuttosto alla sfera fisica ed esistenziale. La più recente giurisprudenza ha, infatti, abbandonato la
tradizionale ottica patrimonialista, che relegava la risarcibilità del danno non patrimoniale al solo
caso in cui il fatto integrasse un reato; interpretazione legata alla lettura restrittiva dell’inciso
contenuto nell’art. 2059 c.c., secondo cui i danni non patrimoniali possono essere risarciti nei soli
casi determinati dalla legge, sino ad un recente passato individuati, appunto, nelle sole ipotesi a
rilevanza penalistica. Al contrario, oggi l’interpretazione corrente vede nell’espressione “danno non
patrimoniale”, di cui all’art. 2059 c.c., una formula comprensiva non solo del danno morale in senso
stretto (danno morale soggettivo), ma anche di tutte le lesioni di valori costituzionalmente protetti
inerenti alla persona e non connotati da rilevanza economica, da ritenersi precettivi ed
immediatamente efficaci nei rapporti tra privati.
La stessa centralità della persona contraddistingue oggi la disciplina giuridica dei rapporti familiari
e l’illecito civile ha conquistato nuovi spazi nei rapporti tra coniugi e tra genitori e figli. Come ha
affermato la Corte di Cassazione, nel sistema delineato dal Legislatore del 1975, il modello di
famiglia-istituzione, al quale il c.c. del ’42 era ancorato, è stato superato da quello di famiglia-
comunità, i cui interessi non si pongono su un piano sovraordinato, ma s’identificano con quelli
solidali dei suoi componenti.
È stato, infatti, evidenziato come il sistema della responsabilità civile debba, in linea di principio,
applicarsi anche ai rapporti tra coniugi, poiché non vi sono motivi per ritenere che lo status di
coniuge possa comportare una riduzione ed una limitazione alla tutela della persona; tuttavia, ciò
presuppone che la condotta del coniuge che abbia cagionato un danno ingiusto, ex art. 2043 c.c.,
nell’ambito della sfera d’interessi dell’altro, senza, peraltro, che ciò porti a concludere che la
semplice violazione dei doveri matrimoniali possa in sé legittimare una condanna al risarcimento
del danno, in quanto all’assunzione di un dovere matrimoniale si contrappone un diritto inviolabile
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di libertà (si pensi all’obbligo di fedeltà, al quale corrisponde la libertà di autodeterminarsi,
comprensiva anche della libertà di separarsi e divorziare).
Tale ricostruzione interpretativa è confermata dalle nuove norme in materia di affidamento
condiviso, in particolare laddove, nell’art. 709 c.p.c., si prevede espressamente la possibilità di
condannare il genitore che sia inadempiente ai provvedimenti del giudice in ordine all’esercizio
della potestà al risarcimento dei danni nei confronti del minore o dell’altro genitore; si è quindi così
pervenuti alla prima “tipizzazione” dell’illecito endofamiliare.
RAPPORTO DI CONIUGIO E RESPONSABILITÀ CIVILE
La constatazione che il rispetto dei doveri coniugali sia affidato all’osservanza spontanea piuttosto
che alla forza del diritto non ne sminuisce tuttavia l’attitudine a caratterizzare la stessa relazione
matrimoniale, che s’identifica proprio con l’adempimento di quei doveri; ciò semplicemente
testimonia un mutato atteggiamento dell’ordinamento, che sembra aver rinunciato a sanzionare il
rispetto di regole indirizzate essenzialmente all’intima coscienza della persona.
Peraltro, negli anni più recenti si è assistito ad una rivalutazione della rilevanza giuridica dei doveri
coniugali, la cui violazione, in circostanze determinate, è stata ritenuta da talune recenti pronunce
fonte di responsabilità da fatto illecito in capo al coniuge che l’abbia posta in essere. A lungo si è
dibattuto sulla possibilità di ottenere, in caso di violazione dei doveri coniugali, il risarcimento dei
danni extracontrattuali cagionati da un coniuge all’altro, in aggiunta ai rimedi specifici previsti dal
diritto di famiglia, come la dichiarazione di addebito nella separazione.
I primi segnali di apertura del sistema delle relazioni familiari alla responsabilità civile sono
pervenuti dalla giurisprudenza di merito, mossa dalla considerazione della scarsa rilevanza pratica
della declaratoria di addebito della separazione; la perdita del diritto all’assegno di mantenimento,
infatti, presenta il duplice limite di colpire soltanto il coniuge che ne avrebbe avuto diritto e di non
avere alcuna conseguenza in presenza di modeste capacità finanziarie dell’obbligato. Anche la
perdita del diritto a succedere è una sanzione nella pratica svuotata di significato dall’istituto del
divorzio. Pertanto, la dichiarazione di addebito può essere inidonea al fine di riparare le
conseguenze negative provocate dalla condotta illecita di un coniuge nella sfera d’interessi
dell’altro. Nondimeno, è da escludere che la funzione risarcitoria sia svolta dall’assegno di
mantenimento o di divorzio, la cui natura è esclusivamente assistenziale.
Anche le sanzioni penali di norma sono insufficienti a tutelare il coniuge, anzitutto perché i caratteri
restrittivi delle fattispecie delittuose sembrano ostacolare un’applicazione ampia e adattabile alle
diverse situazioni bisognevoli di tutela, ma anche in quanto è improbabile che nell’ambito delle
relazioni familiari la tutela penale possa condurre a risultati effettivi.
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Attualmente dottrina e giurisprudenza riconoscono la risarcibilità del danno endofamiliare, sempre
che la condotta del coniuge contraria ai doveri nascenti dal matrimonio abbia cagionato un danno
ingiusto suscettibile di essere risarcito ai sensi degli artt. 2043 ss. c.c. Il presupposto è dunque la
clausola generale dell’ingiustizia del danno, di cui all’art. 2043 c.c. Tale norma, infatti, prevede che
il risarcimento debba essere accordato ogniqualvolta si verifichi un danno ingiusto, identificabile
con il danno che l’ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima e che perciò
deve essere trasferito sull’autore del fatto, in quanto lesivo d’interessi giuridicamente rilevanti,
quale che sia la loro qualificazione formale. L’esistenza dell’ingiustizia del danno non può essere
messa in discussione e non può subire limitazioni per il fatto che il danno sia stato cagionato dal
coniuge, anzi, semmai ciò può comportare un aggravamento delle conseguenze a carico del
familiare responsabile.
La semplice violazione dei doveri matrimoniali non può tuttavia legittimare una condanna al
risarcimento del danno: l’adempimento dei doveri coniugali è normalmente affidato allo spontaneo
atteggiarsi del rapporto matrimoniale, tanto che, con riferimento ai doveri di carattere personale si è
assistito ad un processo di tendenziale degiuridificazione, derivante dall’affermazione dei valori di
autonomia della famiglia e di libertà nella famiglia; la loro violazione non può costituire materia di
pretese coercibili, poiché al soggetto attivo del rapporto non è accordata alcuna azione per
l’adempimento.
Il comportamento di un coniuge in violazione dei doveri matrimoniali può, infatti, provocare
l’addebito della separazione soltanto se ha determinato l’intollerabilità della prosecuzione della
convivenza, oppure il grave pregiudizio all’educazione della prole.
Ai fini dell’operatività delle regole della responsabilità aquiliana, dunque, è necessario qualche cosa
in più, cioè che si verifichi un danno ingiusto. Il risarcimento del danno, pertanto, può essere
accordato nel caso in cui la condotta, particolarmente grave, del coniuge abbia violato non solo uno
dei diritti nascenti dal matrimonio, ma abbia provocato anche la lesione di un interesse ulteriore
tutelato dall’ordinamento. In tal caso, infatti, se non si riconoscesse il risarcimento del danno, tale
interesse rimarrebbe privo di tutela, perché non potrebbe essere compensato con i rimedi specifici
previsti nell’ambito del diritto di famiglia.
L’ingiustizia del danno, quindi, non può essere ravvisata nella “crisi coniugale”, in sé e per sé
considerata, ovvero nella separazione o nel divorzio, poiché ciascun coniuge ha diritto di separarsi,
di divorziare, di contrarre un nuovo matrimonio e formare una nuova famiglia. Pertanto, il danno
che eventualmente un coniuge possa subire per il fatto stesso della rottura del vincolo coniugale non
è un danno risarcibile, perché ciascun coniuge – al verificarsi dei presupposti di legge – ha diritto di
porre fine al rapporto coniugale.
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La violazione dei doveri matrimoniali, pertanto, deve rappresentare il presupposto della concreta
lesione di un interesse tutelato. La Corte di Cassazione ha messo in evidenza come il rapporto tra
violazione dei doveri coniugali e responsabilità aquiliana debba essere inquadrato nel più ampio
contesto del risarcimento del danno per lesione di un interesse costituzionalmente rilevante ex art.
2059 c.c. L’art. 2059 c.c., infatti, consente di offrire tutela risarcitoria alla persona che abbia subito
la lesione di situazioni giuridiche non patrimoniali costituzionalmente garantite.
Uno dei più significativi casi che dimostrano l’opportunità dell’apertura del diritto di famiglia alle
norme sulla responsabilità civile ha avuto ad oggetto il comportamento tenuto dal marito ai danni
della moglie affetta da una patologia psichica, la quale si era progressivamente isolata dal mondo
esterno, rinchiudendosi nel salotto di casa, senza che il primo si preoccupasse in alcun modo della
situazione. La donna aveva quindi vissuto, nella più completa incuria, per 4 anni, fino a quando il
marito, dovendo rilasciare l’abitazione, richiese un trattamento sanitario obbligatorio. La donna fu
allora ricoverata per oltre 40 giorni e il marito si recò a visitarla solo due volte, rifiutando inoltre di
riaccoglierla in casa una volta dimessa dall’istituto di cura. Nell’accertamento del fatto, il tribunale
appurò che la patologia psichica della moglie non era causalmente ricollegabile al logorato rapporto
coniugale, ma che l’aggravarsi della stessa era invece da ricondursi a un inescusabile ritardo nel
fornire gli adeguati e necessari sussidi terapeutici; ritardo che, da un lato, aveva rallentato il
recupero della paziente e, dall’altro, aveva determinato la definitiva perdita di parte delle
potenzialità psichiche della stessa. In ciò ravvisando la sussistenza di tutti gli elementi necessari ad
integrare un fatto illecito, cioè la dolosa omissione da parte del marito (stante il suo dovere di
prestare assistenza morale e materiale), il danno ingiusto, ravvisabile nella lesione del diritto alla
salute della moglie ed il nesso causale tra i due elementi indicati, evidenziato dal fatto che le
condizioni della moglie si erano notevolmente aggravate in conseguenza del comportamento del
marito e del trascorrere del tempo senza gli idonei trattamenti terapeutici, il tribunale ha dunque
condannato il marito al risarcimento del danno in favore della moglie, essendo evidente come, in
caso contrario, si sarebbe prodotta una paradossale ‘immunità’ proprio nei confronti di quel
soggetto che, in virtù del vincolo familiare, era più vicino al danneggiato.
Con riferimento all’obbligo di assistenza morale e materiale, è stata pronunciata la risarcibilità del
danno in favore della moglie in un caso in cui una coppia di coniugi tentava da tempo di avere un
figlio, anche sottoponendosi ad esami e trattamenti medici; non appena la moglie rimase incinta,
tuttavia, il marito dichiarò di non voler diventare padre e di non avere più interesse nemmeno al
vincolo coniugale, iniziando ad allontanarsi spesso da casa, senza dare proprie notizie anche per
giorni, comunicando con la moglie solo attraverso biglietti scritti e disinteressandosi totalmente
all’evoluzione della gravidanza. In tale situazione, la moglie sviluppò una sindrome depressiva ed il
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feto subì un rallentamento della crescita. Il tribunale ha perciò ravvisato, nel comportamento del
marito, non solo la violazione dell’obbligo di assistenza morale e materiale di cui all’art. 143 c.c.,
ma anche un illecito civile, trattandosi, nel caso di specie, di una condotta lesiva dei diritti
inviolabili della persona, tutelati in modo pieno ed assoluto ex art. 2 Cost. anche nelle formazioni
sociali ove si svolge la personalità di ogni individuo, e quindi anche nell’ambito familiare.
Anche con riferimento alla violazione del dovere di fedeltà, i giudici di merito hanno ritenuto che la
tutela aquiliana possa trovare applicazione; ciò in particolare quando la relazione extraconiugale sia
stata svolta, rispetto all’ambiente in cui i coniugi vivono, con modalità tali da offendere la dignità e
l’onore dell’altro coniuge. In ipotesi di questo genere, l’ingiustizia del danno non deve essere
ravvisata nella violazione del dovere di fedeltà, bensì nella violazione dell’onore del coniuge.
A tal riguardo è significativa una pronuncia di merito, poi riformata in seconda istanza, che aveva
riconosciuto, come fonte di responsabilità extracontrattuale nei confronti della moglie, l’infedeltà
omosessuale del marito, ritenendo che tale comportamento fosse in sé gravemente lesivo della
personalità della donna nella sua dignità e nell’esplicazione della sua personalità all’interno della
famiglia. Il tribunale sosteneva che il comportamento era rilevante sia ai fini della separazione, sia
quale fatto generante responsabilità aquiliana. La decisione è stata riformata in grado di appello,
non potendo attribuirsi rilevanza automatica al carattere omosessuale dell’infedeltà ai fini della
sussistenza dell’ingiustizia del danno. In secondo grado, dunque, si è pervenuti all’affermazione
dell’insussistenza, nel caso di specie, di un danno ingiusto, sulla base del rilievo che la relazione
extraconiugale, sia essa omosessuale o eterosessuale, non è mai di per sé idonea a determinare la
lesione d’interessi meritevoli di tutela dell’altro coniuge, dovendosi raggiungere la prova specifica
dell’esistenza della predetta lesione ai fini di una condanna risarcitoria.
RAPPORTO DI FILIAZIONE E RESPONSABILITÀ CIVILE
La nuova dimensione dei doveri genitoriali è stata integralmente recepita dalla giurisprudenza con
specifico riguardo all’applicazione dei principi della responsabilità civile nell’ambito dei rapporti di
filiazione, segnatamente per l’ipotesi in cui il genitore li abbia trascurati arrecando al figlio un
danno ingiusto.
Appare in proposito molto significativa una sentenza di merito la quale ha affermato la
responsabilità di un padre, giudizialmente dichiarato, che si era completamente disinteressato della
propria figlia naturale – ignorandone volutamente la nascita, le sorti, la vita, le esigenze economiche
–, rilevando la conseguente violazione di diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale. Il
concepimento, infatti, non si riduce a un fatto meramente materiale, poiché la Carta costituzionale
obbliga i genitori, anche naturali, ad assistere materialmente e moralmente la prole; si tratta dunque
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di un obbligo non meramente patrimoniale, ma esteso all’assistenza educativa. Solo in caso di
assenza o d’incapacità di costoro la stessa fonte costituzionale prevede forme sostitutive di
assistenza (tutela, curatela); non assolvere tale obbligo costituisce dunque un fatto illecito. Laddove,
cioè, la condotta del genitore sia ‘contra ius’ l’applicazione delle regole della responsabilità civile
consente al figlio di conseguire un ristoro tanto del danno patrimoniale, quanto di quello non
patrimoniale.
Nella prima voce di danno vengono risarciti i pregiudizi arrecati alla sfera patrimoniale del figlio
per non aver goduto del mantenimento, dell’istruzione e dell’educazione che il genitore
“inadempiente” avrebbe potuto offrirgli. A tal riguardo, la giurisprudenza ha precisato come la
quantificazione di tali danni debba essere effettuata sulla base della differenza tra quanto
effettivamente percepito dal figlio ad opera del genitore “adempiente” e quanto avrebbe potuto
ricevere dal genitore assente, tenuto conto della posizione patrimoniale e reddituale di quest’ultimo.
Il danno va perciò quantificato alla luce di una valutazione probabilistica che tenga in
considerazione le possibilità di cui il figlio non ha in concreto goduto, ma delle quali avrebbe
invece potuto giovarsi ove il proprio genitore non fosse stato inadempiente; devono, quindi, essere
presi in considerazione, tra l’altro, i pregiudizi relativi alla perdita della prospettiva di un
inserimento sociale e lavorativo adeguato alla classe socio-economica di appartenenza del genitore
inadempiente, perdita direttamente ricollegabile alla mancanza dei dovuti apporti finanziari, ma
anche alla mancanza di quei consigli e di quel sostegno morale che, nella fisiologia del rapporto
genitori-figli, favoriscono la formazione della personalità, della cultura, della capacità di
intrattenere relazioni sociali di livello pari a quello che la famiglia del genitore inadempiente
avrebbe potuto/dovuto offrirgli.
Tali ultimi profili di danno, di natura non patrimoniale, si collegano alla lesione del diritto
fondamentale del figlio al rapporto parentale, all’educazione e all’assistenza morale e sono oggi
risarcibili ex art. 2059 c.c. a seguito di recenti sviluppi giurisprudenziali.
In tal senso si è anche espresso lo stesso legislatore, introducendo l’art. 709 ter c.p.c., secondo cui il
giudice – in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od
ostacolino il corretto svolgimento della modalità di affidamento – può non solo “ammonire” il
genitore inadempiente, ma anche condannarlo al risarcimento del danno in favore dell’altro genitore
o del figlio, ovvero condannarlo al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria.
La natura sanzionatoria delle previsioni relative all’ammonimento e alla sanzione amministrativa
pecuniaria appare indubbia, mentre non è chiaro se il risarcimento del danno previsto dalla
medesima norma abbia natura riparatoria ovvero anche punitiva. In quest’ultimo caso, ai fini del
risarcimento sarebbe necessario e sufficiente fornire la prova dell’inadempienza del genitore, la cui
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gravità sarebbe poi lasciata all’apprezzamento del giudice, mentre l’esistenza e la prova di un danno
patrimoniale effettivamente subito dall’altro genitore o dal figlio non costituirebbe un presupposto
indefettibile del risarcimento. La giurisprudenza che fino ad oggi si è espressa in argomento sembra
propendere nettamente per la teoria del danno punitivo, affermando che la funzione della norma è
da individuare nella volontà legislativa di offrire soluzione al fino ad oggi irrisolto problema
dell’effettività dei provvedimenti giudiziali pronunciati in materia di affidamento dei minori e di
esercizio della potestà.
Con l’art. 709 ter c.p.c., si ritiene, quindi, che il giudice sia stato dotato di quel potere coercitivo,
prima sostanzialmente assente, diretto a rendere attuabili in concreto i provvedimenti assunti, sulla
base della coazione anche psicologica (oltre che economica) dell’obbligato all’adempimento.
LA RESPONSABILITÀ DEI GENITORI PER L’ILLECITO DEI FIGLI MINORI
La responsabilità dei genitori per l’illecito dei figli minori è espressamente disciplinata dall’art.
2048 c.c., ai sensi del quale la responsabilità del minore concorre con quella del padre e della
madre. Secondo l’orientamento prevalente, il disposto della predetta norma va coordinato ed
integrato con quello dell’art. 2047 c.c., che genericamente disciplina la responsabilità del
sorvegliante dell’incapace in considerazione di quanto previsto dall’art. 2046 c.c., alla cui stregua
non risponde del fatto lesivo chi non aveva la capacità di intendere o di volere nel momento in cui
lo ha commesso.
Ne consegue che il quadro normativo di riferimento è rappresentato dagli artt. 2047 e 2048 c.c., i
quali trovano applicazione all’evento dannoso cagionato dal minore a seconda rispettivamente che
sia privo o meno della capacità naturale.
La prima delle anzidette norme, rubricata “danno cagionato dall’incapace” – che la giurisprudenza
ritiene applicabile anche ai genitori relativamente ai fatti commessi dai figli minori incapaci –,
prevede la responsabilità dei sorveglianti d’incapaci per i fatti dannosi posti in essere da questi
ultimi e trova applicazione ove si riscontri la simultanea presenza dell’incapacità del danneggiante,
dell’evento lesivo da questi cagionato, nonché dell’obbligo di sorveglianza posto in capo al soggetto
responsabile.
La ricorrenza del primo requisito, ossia della condizione d’incapacità dell’agente, va accertata dal
giudice caso per caso, facendo non solo ricorso a criteri di comune esperienza ed alle nozioni di
scienza, ma considerando anche l’età, gli studi frequentati, lo sviluppo fisico e intellettivo, nonché
l’assenza di eventuali malattie ritardanti. L’accertamento dell’imputabilità è tuttavia escluso laddove
il danno sia stato determinato da un soggetto in tenera età, data la quale la prova dell’incapacità si
ritiene ‘in re ipsa’.
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Quanto al secondo presupposto, è comune opinione che l’atto lesivo dell’incapace debba rivestire
carattere di antigiuridicità, ossia presentare tutti gli estremi dell’illecito aquiliano richiesti dall’art.
2043 c.c.
Venendo infine all’obbligo di sorveglianza, esso va riferito a chi, in base alla legge, sia tenuto ad
adoperarsi affinchè il comportamento dell’incapace non costituisca fonte di danno, vale a dire ai
genitori, ai tutori, agli affidatari familiari ed agli affidatari preadottivi. Il dovere di vigilanza può
tuttavia temporaneamente gravare su determinati soggetti in ragione del proprio ufficio (si pensi alle
istituzioni competenti a svolgere attività d’istruzione, cura e simili), della specifica attività
professionale svolta (è il caso della babysitter) o in forza della scelta di accogliere l’incapace nella
propria sfera personale e familiare, assumendo spontaneamente il compito di prevenire od impedire
che il suo comportamento possa arrecare danno ad altri (è quanto accade, ad es., con riguardo al
convivente del genitore o ai nonni).
Stando al dettato dell’art. 2047 c.c., i soggetti appena menzionati possono andare esenti da
responsabilità laddove dimostrino di “non avere potuto impedire il fatto”. Anche il contenuto del
dovere di vigilanza – la quale deve essere costante ed ininterrotta – va determinato con particolare
riguardo all’età del minore, allo sviluppo intellettivo e fisico, all’assenza di eventuali malattie
ritardanti, nonché alla forza del carattere; esso deve inoltre rapportarsi alle circostanze di tempo,
luogo, ambiente, pericolo, che, considerando la natura e il grado d’incapacità del soggetto
sorvegliato, possano consentirne o facilitarne il compimento di atti lesivi.
Il capoverso dell’art. 2047 c.c., prevede, infine, che il danneggiato possa ottenere un’equa indennità
dall’incapace laddove non sia dato ottenere il risarcimento dal sorvegliante.
Il disposto dell’art. 2048 c.c. trova applicazione qualora il minore che cagioni danno a terzi sia
capace di intendere e di volere e prevede la concorrente responsabilità del padre e della madre per
l’illecito del figlio non emancipato con essi coabitante, del tutore per il fatto danno determinato
dalla persona soggetta a tutela, nonché dei precettori e dei maestri d’arte per gli eventi lesivi
compiuti dagli allievi e dagli apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. La stessa
norma stabilisce ulteriormente che tutti i soggetti indicati possono liberarsi da responsabilità
fornendo la prova di “non aver potuto impedire il fatto”.
Per quanto concerne i genitori una consolidata giurisprudenza ritiene che siffatta prova liberatoria
implichi la dimostrazione di avere impartito al figlio un’adeguata educazione e di avere esercitato
sul medesimo la vigilanza necessaria al fine di prevenire il compimento di fatti illeciti nei riguardi
dei terzi. I doveri di educazione e di vigilanza non vengono comunque intesi in senso assoluto,
bensì relativo, poiché il primo viene valutato sulla base della personalità del minore e delle
condizioni ambientali e sociali nelle quali è inserito, mentre l’obbligo di sorveglianza – che non
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implica la protratta presenza fisica accanto al figlio – è commisurato all’età, al carattere e all’indole
del figlio stesso, ovvero alla sua personalità e capacità di discernimento.
I “precettori” – tale locuzione designa qualsiasi tipo d’insegnante – ed i maestri d’arte sono invece
chiamati a rispondere del fatto illecito degli allievi e degli apprendisti solo in ragione di omessa
sorveglianza e non anche in virtù di una carenza nell’educazione ad essi impartita: la loro
responsabilità concorre quindi con quella dei genitori, i quali, per andare esenti da responsabilità,
possono, in tal caso, limitarsi a dimostrare di avere impartito al minore un’educazione adeguata a
prevenire comportamenti illeciti.