ArNoS - Archivio Normanno-Svevo, 2 (2009)

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ArNoSARCHIVIO NORMANNO-SVEVO

Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIIIdel Centro Europeo di Studi Normanni

Texts and Studies in Euro-Mediterranean Worldduring XIth-XIIIth Centuries

of Centro Europeo di Studi Normanni

22009

Miscellanea Giovanni Orlandi

ArNoSARCHIVIO NORMANNO-SVEVO

Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIIIdel Centro Europeo di Studi Normanni

COMITATO SCIENTIFICO

G. Arnaldi, Th. Asbridge, P. Bouet, M. Caravale, G. Coppola, M. D’Ono-frio, H. Enzensberger, S. Fodale, C.D. Fonseca, J. France, G. Galasso,

V. Gazeau, E.C. van Houts, Th. Kölzer, C. Leonardi (†), O. Limone, G.A.Loud, J.M. Martin, E. Mazzarese Fardella, F. Neveux, M. Oldoni, A. Pa-ravicini Bagliani, A. Romano, V. Sivo, W. Stürner, A.L. Trombetti, H. Ta-

kayama, S. Tramontana

SEGRETERIA DI REDAZIONEL. Russo, T. De Angelis

COMITATO DI DIREZIONEA. Cernigliaro, E. Cuozzo, E. D’Angelo, O. Zecchino

Editrice Il GirasoleNapoli

[email protected]

ArNoS 2 (2009)

Sommario

F. DELLE DONNE, Autori, redazioni, trasmissioni, ricezione. Iproblemi editoriali delle raccolte di Dictamina di epoca svevae dell’Epistolario di Pier della Vigna

A. SPIEZIA, La falconeria nell’Inghilterra anglosassone.

M. IADANZA, I rapporti tra Cristianesimo e Islam nella testi-monianza dei Dialoghi con un musulmano di Manuele II Pa-leologo (1350-1425). La VII Discussione.

L. ESPOSITO, Nel castrum di Pontelatone nasce l’arcipretura.L’inventario delle chiese del 1282.

P. GRECO, Appunti sulla sintassi della Cronaca di Santa Mariadella Ferraria

E. D’ANGELO, Produzione letteraria e manufatti librari delloscriptorium di San Vincenzo al Volturno. Nuove ipotesi

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1 Sulla sua vita cfr. soprattutto J.L.A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Vie et correspondancede Pierre de la Vigne, Paris 1865; H.M. SCHALLER, Della Vigna Pietro, in Dizio-nario Biografico degli Italiani, XXXVII, Roma 1989, pp. 776-784; F. DELLE

DONNE, Nobiltà minore e amministrazione nel Regno di Federico II. Sulle originie sui genitori di Pier della Vigna, «Archivio Storico per le Province Napoletane»116, 1998, pp. 1-9.

AUTORI, REDAZIONI, TRASMISSIONI, RICEZIONE.I PROBLEMI EDITORIALI DELLE RACCOLTE DI DICTAMINA DIEPOCA SVEVA E DELL’EPISTOLARIO DI PIER DELLA VIGNA

FULVIO DELLE DONNE

Tra le fonti relative all’età di Federico II di Svevia e dei suoi successorial trono del Regno di Sicilia, un ruolo di preminente importanza va attri-buito, senz’alcun dubbio, all’epistolario di Pier della Vigna, in quanto per-mette di approfondire la conoscenza e la comprensione di quell’epoca nonsolo dal punto di vista istituzionale, amministrativo o politico-ideologico,ma anche da quello culturale e letterario. Tuttavia, le conoscenze che si pos-sono rica vare dai testi che esso contiene sono rese piuttosto problematichedalla loro stessa natura, ovvero dal fatto che, concepiti originariamentecome epistolae di tipo ufficiale o privato, sono stati successivamente tra-sformati in dicta mina, ovvero in modelli esemplificativi di tipo retorico-formale o argomen tativo-politico, e quindi decontestualizzati e spessoprivati degli iniziali rife rimenti più contingenti. Infatti, l’epistolario di Pierdella Vigna, o meglio il cosiddetto epistolario di Pier della Vigna contienecirca 550 dictamina tra manifesti, mandati, epistole e documenti di vario ge-nere risalenti al periodo che va dal 1198 al 1264 e oltre: molti di essi, dun-que, sicuramente non po tettero essere scritti dal dictator capuano, chedovette entrare a far parte della cancelleria federiciana intorno al 1220 emorì all’inizio del 12491.

L’epistolario è tramandato, innanzitutto, da circa 125 codici che, in variomodo, raccolgono il materiale in maniera sistematica, nonché da altri 30, al-

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2 Cfr. H.M. SCHALLER, Zur Entstehung der sogenannten Briefsammlung des Pe-trus de Vinea, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 12, 1956, pp.114-159 (ristampato in H.M.S., Stauferzeit. Ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993,pp. 225-270); H.M. SCHALLER, L’epistolario di Pier della Vigna, in Politica e cul-tura nell’Italia di Federico II, cur. S. Gensini, Pisa 1986, pp. 95-111 (ristampato intedesco in SCHALLER, Stauferzeit, pp. 463-478). H.M. SCHALLER, Handschriften-verzeichnis zur Briefsammlung des Petrus de Vinea, Hannover 2002, descrive, intotale, 246 manoscritti.3 La prima edizione (contenente solo 33 lettere del libro I) venne stampata a Ha-genau nel 1529, ed. Johannes Setzer (Secerius). Altre edizioni, complete, furonostampate a Basilea nel 1566, stampatore Paul Queck (Paulus Quecus), editoreSimon Schard (Schardius); ad Amberg nel 1609, stampatore Johannes Schönfeld,editore (probabilmente) Melchior Goldast; a Basilea nel 1740, editore Johann Ru-dolf Iselin (Iselius; ristampa anastatica con introduzione di H. M. Schaller, Hilde-sheim 1991).4 Cfr. SCHALLER, Zur Entstehung, passim; SCHALLER, L’epistolario, pp. 103-105.

l’incirca, che hanno la forma di frammenti e florilegi estratti da raccolte or-dinate. Accanto a questo tipo di tradizione si pone quella non sistematica (o,più semplicemente, “stravagante”), attestata da un’altra trentina di mano -scritti, nonché da altri 80, circa, che riportano lettere singole spesso noncomprese nelle raccolte sistematiche. Altri 50 manoscritti, circa, sono infineandati dispersi o distrutti in epoca moderna2.

Il motivo per cui le lettere di Pier della Vigna abbiano goduto, antica -mente, di tanta fortuna, non solo manoscritta ma anche a stampa3, risiedenon solo nel loro significato politico e quindi storico, ma anche e soprattuttonel loro particolare rilievo retorico. Non sappiamo, tuttavia, né quando, nédove l’epistolario sia stato riunito e redatto. I testi in esso contenuti presen -tano caratteristiche troppo varie per pensare che possano essere stati raccoltida destinatari, anch’essi, del resto, troppo numerosi. Le lettere, quindi,dove vano essere già inserite in registri o in quaderni, oppure dovettero es-sere riu nite da uno o più funzionari della cancelleria sveva, che, forse, di-sponevano di quel materiale per uso personale.

Il tentativo, o meglio i tentativi di raccogliere quei documenti in ma-niera più o meno sistematica, comunque, non dovettero necessariamenteavere luogo nella cancelleria del regno. Anzi, in base agli studi condotti daHans-Martin Schaller, l’ipotesi più probabile è proprio quella che un primolavoro di redazione e codificazione sistematica sia stato compiuto negli ul-timi de cenni del Duecento presso la curia papale4, e non tanto per studiaree disinnescare le armi della propaganda politica avversa, quanto per il loroalto valore retorico, se è vero, come sembra, che in quell’ambiente furono,con temporaneamente, raccolti anche altri epistolari di eminenti dictatores.Presso la curia papale, però, quel lavoro di redazione e di codificazione si -stematica non dovette essere condotto in maniera univoca e definitiva, dal

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5 Per i caratteri e per la composizione di questa redazione cfr. SCHALLER, Zur En-tstehung, pp. 121-123, con l’elenco dei manoscritti; SCHALLER, L’epistolario, p.109, dice che i codici che contengono la raccolta grande in sei libri sono 12, senzaperò elencarli.6 SCHALLER, Zur Entstehung, pp. 129-131.7 SCHALLER, Zur Entstehung, pp. 130-132,8 SCHALLER, Zur Entstehung, p. 134. Per questa redazione, come anche per le altre,i manoscritti variano il contenuto in maniera più o meno sensibile, o per lacune mec-caniche, o per interventi attribuibili al copista o all’organizzatore della raccolta. 9 SCHALLER, Zur Entstehung, pp. 130-131; SCHALLER, L’epistolario, pp. 108-109.

momento che l’epistolario è giunto secondo quattro tipologie di redazionesistematica ben distinte: la «grande in sei libri» (M6), tramandata da 11 co-dici, che contiene un numero massimo di 477 lettere5; la «piccola in seilibri» (P6), che ha goduto della maggiore diffusione in quanto tramandatada circa 95 codici e che riporta in genere 366 lettere6; la «grande in cinquelibri» (M5), tramandata da 7 codici, che accoglie in genere 279 lettere7; la«piccola in cinque libri» (P5), tramandata da 3 codici, che riunisce in genere133 lettere8. Tutti questi gruppi sono naturalmente legati tra loro, ma non èancora chiaro il modo in cui essi si vennero a formare. Hans-Martin Schal-ler ha avanzato con cautela l’ipotesi che le redazioni in cinque libri siano lepiù antiche, e che la redazione “grande in sei libri” sia quella più recente,for matasi come un ampliamento della redazione “piccola in sei libri”, pursenza escludere del tutto il percorso inverso9.

Nelle raccolte in sei libri, le lettere di Pier della Vigna sono divise se-condo la seguente tipologie generale:

Libro I: lettere e manifesti di protesta e di polemica scritte in occasionedello scontro con il papato;

Libro II: lettere di narrazione di battaglie e di vittorie;Libro III: lettere sulla nascita dei figli dell’imperatore; commercio epi-

stolare, di argomento privato, tra Pier della Vigna e l’arcivescovo di Capua;elogi di Federico e di Pier della Vigna; lettere sullo Studium di Napoli; esor-tazioni alla fedeltà verso l’imperatore;

Libro IV: lettere consolatorie;Libro V: lettere e mandati relativi a problemi amministrativi;Libro VI: privilegi ed esordi di privilegi.In quest’organizzazione, spicca il fatto che il quarto libro è dedicato alle

consolationes, così come nell’epistolario di Tommaso di Capua, a cui quellodi Pier della Vigna, come vedremo ancora, è strettamente legato. Per cui sipuò ipotizzare che l’epistolario di Pier della Vigna fosse stato strutturatoini zialmente in cinque libri, e che poi, su imitazione di quello di Tommasodi Capua, siano state scorporate dal terzo libro e, con l’aggiunta di altre let-tere, sia stato creato un libro specificamente dedicato a quel tipo di testi,

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10 Sulle consolationes mi si consenta il rimando a F. DELLE DONNE, Le consolatio-nes del IV libro dell’epistolario di Pier della Vigna, «Vichiana» 4, 1993, pp. 268-290.11 Cfr. SCHALLER, L’epistolario, p. 107, H.M. SCHALLER, Einführung alla ristampaanastatica (Hildesheim 1991) dell’edizione Iselin (Iselius) dell’epistolario di Pierdella Vigna (Basilea 1740), p. X, dove si ipotizza che la divisione in sei libri possarimandare allo schema di organizzazione del Corpus iuris canonici (cinque libri diDecretales e Liber sextus).12 Cfr. SCHALLER, Zur Entstehung, p. 147; SCHALLER, L’epistolario, pp. 103-105.L’ipotesi è ricordata e ampiamente ridiscussa anche in B. GRÉVIN, Rhétorique dupouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage po-litique européen XIIIe-XIVe siècle, Roma 2008, pp. 65-120.13 Cfr. NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003, pp. LXXX-LXXXII; F. DELLE DONNE, Una costellazione di epistolari del XIII secolo: Tom-maso di Capua, Pier della Vigna, Nicola da Rocca, «Filologia Mediolatina» 11,2004, pp. 143-159.

molto importanti per i dictatores dell’epoca10; infine, che a quel nuovo librosia stato attribuito, per omologia con il modello o per comodità di ricercadelle epistole che interessavano, lo stesso numero d’ordine che aveva nel-l’epistolario di Tommaso di Capua11.

L’operazione di costituzione di questi epistolari dovette, in ogni caso,du rare diversi decenni, e c’è da credere che essi arrivarono alla loro piùampia diffusione solo quando vennero impiegati come strumenti finalizzatiall’insegnamento e alla trasmissione delle tecniche retoriche: quindi inun’epoca anche molto successiva a quella in cui vissero gli autori a cui lelettere venivano attribuite. Questa circostanza, per un verso, spiega il fattoche la tradizione dell’epistolario di Pier della Vigna si confonde e si inter -seca con quella degli epistolari di altri dictatores, come Tommaso di Capua,oppure Trasmondo, Pietro di Blois, Riccardo da Pofi e Nicola da Rocca:non di rado, infatti, le epistole di uno si trovano nell’epistolario dell’altro.Ma, per un altro verso, rende plausibile l’ipotesi che tutti quegli epistolarifurono raccolti nello stesso luogo e forse anche dalla stessa persona: comegià detto, non è possibile pensare che siano state raccolte dai destinatari let-tere tanto varie e scritte nell’arco di molti decenni; e non possono esserestate raccolte, ovviamente, nemmeno dai mittenti, perché non avrebberoconfuso le proprie lettere con quelle scritte da altri. Molto probabilmentequel luogo – come già detto – fu la curia papale. Schaller propone l’ipotesiche a compiere quel la voro di raccolta sia stato Nicola da Rocca, dal mo-mento che, dopo aver lavo rato presso la cancelleria sveva, fino a pochi annifa si riteneva che negli anni successivi al 1266 avesse offerto i propri ser-vigi presso la curia pa pale12. La lettura completa e approfondita delle letteredi Nicola da Rocca, tuttavia, ha permesso di correggere quell’ipotesi13. In-fatti, ci furono due Nicola da Rocca (zio e nipote) e non fu Nicola da Roccasenior, notaio della cancelleria sveva, a operare presso la curia papale, mail suo omonimo ni pote, che è attestato come cappellano del cardinale Si-

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14 Cfr. NICOLA DA ROCCA, Epistolae, p. XX, e le lettere 57, 76, 77, 83 e 84.15 Cfr. soprattutto P. SAMBIN, Un certame dettatorio tra due notai pontifici, Roma1955; ma si vedano anche le lettere edite in NICOLA DA ROCCA, Epistolae, nn. 203e 214, e in Una silloge epistolare della seconda metà del XIII secolo. I dictaminaprovenienti dall’Italia meridionale del ms. Paris, Bibl. Nat., Lat. 8567, ed. F. DelleDonne, Firenze 2007, n. 182.16 Cfr. E. HELLER, Die Ars dictandi des Thomas von Capua, «Sitzungsberichte derHeidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil.-hist. Kl.», 1929, pp. 7-8; H.M.SCHALLER, Studien zur Briefsammlung des Kardinals Thomas von Capua, «Deut-sches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 21, 1965, pp. 407-410.17 Cfr. A. PARAVICINI BAGLIANI, I testamenti dei cardinali del Duecento, Roma1980, p. 17.18 G.B. LADNER, Formularbehelfe in der Kanzlei Kaiser Friedrichs II. und die‘Briefe des Petrus de Vinea’, «Mitteilungen des Instituts für Österreichische Ge-schichtsforschung. Ergänzungsband» 12, 1933, pp. 92-198: 150-153, parla di unacollezione primitiva («Ur-Petrus de Vinea») ricavata sostanzialmente dai registri dicancelleria. Non è da escludere che alcune lettere abbiano quella origine, ma ri-sultano valide le obiezioni di SCHALLER, Zur Entstehung, pp. 118-120.19 Va considerato, a questo proposito, che la notizia più antica relativa a un mano -scritto contenente l’epistolario di Pier della Vigna è contenuta in un inventario deicodici posseduti da Pietro Peregrosso, camerario della Chiesa romana, morto nel1295: cfr. D. WILLIMAN, Bibliothèques ecclésiastiques au temps de la papautéd’Avignon, I, Inventaire de bibliothèques et mentions de livres dans les Archives duVatican (1287-1420), Paris 1980, p. 105; F. CENNI, Il valore del libro ‘vecchio’ aSiena nel XIII secolo: alcuni esempi e prime considerazioni, in Liber/Libra. Il mer -

mone Paltinerio di Monselice e che dovette lavorare anche al servizio delcardinale Giordano di Terracina14. Il cardinale Giordano di Terracina fu uninfluente vicencancelliere della curia pontificia e fu anche un illustre dic-tator15. Inol tre, Giordano di Terracina appare essere il presumibile racco-glitore delle lettere di Tommaso di Capua16. A questo punto, non appare deltutto pere grina l’idea che sia stato sempre Giordano di Terracina a organiz-zare la rac colta anche delle lettere di Pier della Vigna, che magari gli eranostate date da Nicola da Rocca senior o dal suo omonimo nipote: questo po-trebbe spiegare non solo la confusione tra le tradizioni degli epistolari diPier della Vigna e di Tommaso di Capua, ma anche il fatto che alcune let-tere di Nicola da Rocca siano confluite tanto nell’epistolario di Tommasodi Capua, quanto in quello di Pier della Vigna. In ogni caso, il raccoglitoredelle lettere di Pier della Vigna – come già visto – non dovette riuscire a ul-timare in maniera de finitiva il suo lavoro, dato che di quell’epistolario esi-stono ben quattro rac colte sistematiche di tipo diverso. E questo potrebbeforse essere dovuto alla morte del cardinale Giordano di Terracina, avvenutail 9 ottobre del 126917: circostanza che permetterebbe anche di datare, inmaniera più o meno ap prossimativa, una primitiva18 organizzazione reda-zionale19. Ma non è da escludere, tuttavia, che alcune riorganizzazioni del-

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cato del libro manoscritto nel medioevo italiano, cur. C. Tristano - F. Cenni, Roma2005, pp. 31-61, qui 53; inoltre, GRÉVIN, Rhétorique du pouvoir, pp. 108 e 555-556.I manoscritti datati di cui si ha attestazione sembrano, del resto, rimandare allacuria papale: Paris, BNF, lat. 4042, contenente la redazione M6 e databile, almenoper una sua parte (pur se non quella contenente l’epistolario di Pier della Vigna),al 1294 (cfr. SCHALLER, Handschriftenverzeichnis, n. 155, p. 233); Sankt Gallen,Stadtbibl., Vadian. Samml. 299, contenente la redazione M5 ed esemplato nel 1303dallo scriptor papale Nicola Campellensis de Fractis (cfr. SCHALLER,Handschriftenver zeichnis, n. 196, pp. 329-330); Paris, BNF, lat. 8563, contenentela redazione P6 e databile anteriormente al 1318 (cfr. SCHALLER, Handschriften-verzeichnis, n. 158, p. 237-238; GRÉVIN, Rhétorique du pouvoir, pp. 510 ss.).20 Cfr. SCHALLER, Zur Entstehung, pp. 124-129; SCHALLER, L’epistolario, pp. 109-110, dove viene avanzata l’ipotesi che la raccolta grande in sei libri sia stataorganiz zata presso l’università di Parigi. Su tale ipotesi, tuttavia, cfr. F. DELLE

l’epistolario siano state approntate anche in altri luoghi, diversi dalla curiapapale, e forse anche in ambito universitario, dove a quanto pare furonoesemplati alcuni manoscritti secondo la tecnica della pecia20.

Comprendere il modo in cui tali raccolte si andarono formando costitui -sce la premessa necessaria alla preparazione di un’edizione critica, che è lostrumento imprescindibile per ogni studio che tenti di esaminare non solola lingua e lo stile di uno dei rappresentanti più illustri dello stile epistolaredel XIII secolo, ma che voglia anche comprendere meglio lo svolgersi deglieventi di quel periodo. Si possono, infatti, riscontrare in ogni lettera del-l’epistolario di Pier della Vigna – allo stesso modo di altre raccolte di dic-tamina attribuite ai dictatores più famosi – differenze anche molto evi denti,di cui, spesso, non si può venire a capo ricostruendo uno stemma codi cumdi tipo tradizionale.

A parte il fatto che, comunque, nel caso di testi dalla tradizione molto va -ria e mobile, come quelli contenuti nelle raccolte di dictamina, risulta, difatto, impossibile ricostruire uno stemma codicum vero e proprio. E che, sepure si riuscisse a delineare le principali linee di trasmissione del testo, cisi troverebbe a un bivio in cui, se si seguisse una strada, solo con grandediffi coltà si riuscirebbe a ricongiungerla con l’altra. Ovvero, si dovrebbedeci dere se seguire la linea che fa capo all’originale inteso nel senso tradi-zionale del termine, oppure quella che fa capo alla ricezione del testo, cioèal testo che è stato generalmente letto, citato, imitato e riusato. Insomma,si do vrebbe decidere se attribuire al testo prevalentemente il significato difonte letteraria oppure quello di fonte storica. Il problema, però, consiste nelcapire e nello spiegare le differenze che ci si trova ad affrontare, quando sianalizza la tradizione di un testo. E per fare questo – data la natura e il con-tenuto dei documenti – bisogna riuscire a fondere insieme gli strumentidella ricerca filologica con quelli della ricerca storica, e incrociare i datiche ne risultano. Qualche esempio tratto dall’edizione dei documenti rela-

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DONNE, Un’inedita epistola sulla morte di Guglielmo de Luna, maestro presso loStudium di Napoli, e le traduzioni prodotte alla corte di Manfredi di Svevia, «Re-cherches de Théologie et Philosophie Médiévales» 74, 2007, pp. 225-245, qui 239.21 F. DELLE DONNE, «Per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum»: edi-zione e studio dei documenti relativi allo Studium di Napoli in età sveva, «Bullettinodell’Istituto storico italiano per il Medioevo» 111, 2009, pp. 101-225, ri pubblicatoin volume col titolo «Per scientiarum haustum et seminarium doctrina rum». Sullastoria dello Studium di Napoli in età sveva, Bari 2010, si veda anche G. ARNALDI,Fondazione e rifondazioni dello studio di Napoli in età sveva, in Università e societànei secoli XII-XVI, Pistoia 1982, pp. 81-105 (ristampato in Il Pragmatismo degli in-tellettuali. Origini e primi sviluppi dell’istituzione universitaria, cur. R. Greci, To-rino 1996, pp. 109-23); F. VIOLANTE, Federico II e la fondazione dello ‘Studium’napoletano, «Quaderni Medievali» 54 2002, pp. 29-33; G. ARNALDI, Studio di Na-poli, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, II, Roma 2005, pp. 803-808.22 Cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, n. 21, p. 203.23 Cfr. l’introduzione a NICOLA DA ROCCA, Epistolae, e a Una silloge epistolare.

tivi alle vicende dello Studium di Napoli in epoca sveva21 può, probabil-mente, rendere questo assunto più evidente e chiaro.

Nel cosiddetto epistolario di Pier della Vigna è conservata, come ema-nata da Federico II di Svevia, una lettera (la nr. 67 del III libro) che annun-cia ai maestri dello Studium di Bologna l’invio della traduzione latina dialcuni trattati logici e matematici di Aristotele e di altri autori scritti in grecoe in arabo. Tale lettera è riportata solo dalla redazione piccola in sei libri(P6) dell’epistolario di Pier della Vigna, quella che ebbe maggiore diffu-sione, e quindi fu quella che venne maggiormente letta e usata; e secondoquesta re dazione la lettera fu prodotta dalla cancelleria di Federico II escritta da Pier della Vigna, dato che è inserita nel suo epistolario. Tuttavia,questa lettera è riportata anche da un manoscritto “stravagante” rispetto allatradizione che organizza l’epistolario in maniera sistematica. Secondo que-sto codice, con servato a Parigi (Bibliothèque Nationale Lat. 8567, che pos-siamo siglare P), a far scrivere quella lettera non fu Federico II, ma suofiglio Manfredi, e de stinataria fu non l’università di Bologna, ma quella diParigi22. E qui nascono i problemi. Quale delle due tradizioni, quella che facapo alla redazione si stematica o quella “stravagante”, riporta le informa-zioni corrette? Per com prenderlo, bisogna esaminare attentamente tutto ilmanoscritto P, che attri buisce la lettera a Manfredi. Facendo questa opera-zione ci si rende conto che questo manoscritto stravagante spesso offre le-zioni più convincenti: ma potrebbe trattarsi di un’impressione. Tuttavia,spesso, questo manoscritto fa conoscere anche il nome dell’autore delle let-tere che riporta: nome che non sempre coincide con quello della tradizionesistematica, ma che risulta cor retto incrociando informazioni prosopogra-fiche e diplomatico-documenta rie23. E questo attribuisce un valore premi-nente al codice parigino.

Ma nel caso della lettera relativa alle traduzioni, il ms. parigino P non ri -porta il nome dell’autore. Insomma, la lettera fu scritta da Pier della Vignaper conto di Federico II, quindi in un’epoca anteriore al 1249 (come si ri-cava dalla tradizione sistematica), oppure (come afferma il ms. parigino)fu scritta da un ignoto dictator per conto di Manfredi, probabilmente in-torno 126324, quando Manfredi riuscì a ricostituire lo studium di Napoli,centro in cui fu rono fatte le traduzioni? La questione non è di secondaria im-portanza, so prattutto per chi si occupa di filosofia medievale e dell’influenzache ebbero le traduzioni dei commenti aristotelici; i quindici anni di diffe-renza che, come minimo, intercorrono tra le due possibili datazioni pos-sono sembrare pochi, ma costituiscono un discrimine imprescindibile, tantoche qualche anno fa padre René-Antoine Gauthier ha dedicato alla que-stione un saggio specifico che continua a essere considerato fondamentale25;e ancora adesso la questione suscita notevole interesse26.

Ora, come si spiega tale divergenza di informazioni tra i manoscritti cheriportano la redazione P6 dell’epistolario di Pier della Vigna, che attribui-sce la lettera a Federico II, e il codice parigino che attribuisce la lettera aMan fredi? Si tratta di differenti redazioni, di successive riutilizzazioni del-l’epistola, o addirittura di falsificazioni coscienti mirate ad alterare il testooriginale, così come ha supposto padre Gauthier? La risposta a tali que-stioni non è semplice, ma è possibile. Però bisogna fare un piccolo passo in-dietro e prendere in considerazione quello che accade nella trasmissioneanche di al tre lettere del cosiddetto epistolario di Pier della Vigna. Per con-tiguità tema tica è opportuno soffermersi su tre lettere che riguardano lo Stu-dium fondato a Napoli da Federico II nel 1224.

Questi tre documenti sono trasmessi da manoscritti che riportano il co -siddetto epistolario di Pier della Vigna. Più specificamente, due sono conte -nuti in manoscritti che trasmettono, rispettivamente, ciascuna delle quattroredazioni dell’epistolario organizzato in maniera sistematica, nonché da altrimanoscritti che lo trasmettono organizzato in maniera non sistematica (traquesti, per il primo c’è anche il ms. P, lo stesso che riporta la lettera sulle tra-duzioni27): si tratta delle lettere III 12 e III 10 dell’edizione a stampa del-

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24 Su tale ipotesi di datazione cfr. J.F. BÖHMER - J. FICKER - E. WINKELMANN, DieRegesten des Kaiserreichs unter Philipp, Otto IV., Friedrich II., Heinrich (VII.),Conrad IV., Heinrich Raspe, Wilhelm und Richard 1198-1272, in Regesta Imperii,V, 1-3, Innsbruck 1881-1901, 4750, nonché DELLE DONNE, Per scientiarum haus-tum, p. 202, nota 1.25 Cfr. R.A. GAUTHIER, Notes sur les débuts (1225-1240) du premier “Averroïsme”,«Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques» 66, 1982, pp. 321-374.26 Su tale questione cfr. DELLE DONNE, Guglielmo de Luna, pp. 225-245.27 Il primo documento (III 12) è riportato anche da altri mss. che non contengonoredazioni sistematiche, ma che sono con esse strettamente legati, come può risul-

l’epistolario28. Mentre il terzo documento è trasmesso solo da quattro mano -scritti che tramandano l’epistolario organizzato in maniera non siste matica29.

Per quanto riguarda quest’ultimo documento, tutti i manoscritti – che, varibadito, contengono l’epistolario organizzato in maniera non sistematica– fanno riferimento a Salerno come sede dello Studium che è stato rifor-mato, ovvero riorganizzato30; due manoscritti31, poi, ricordano nella rubricache il mittente dell’epistola fu Corrado, mentre gli altri codici ne omettonoil nome32. Dunque, da questa lettera si viene a sapere che Corrado riformòlo Studium e lo spostò a Salerno: e questo è un primo dato di fatto.

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tare evidente leggendo gli apparati all’edizione contenuta in DELLE DONNE, Perscientiarum haustum, n. 13, pp. 186-188. Anche il secondo documento (III 10) è ri-portato da un certo numero di mss. che non contengono redazioni sistematiche, maper evitare elenchi (che qui risulterebbero inutili) e confusioni, si farà riferimentoa due soli di essi: Wroclaw (Breslavia), Biblioteka Uniwersytecka, R 342, che è an-dato perso, ma di cui, per il documento in questione possediamo la trascrizione diP. SCHIRRMACHER, Die letzten Hohenstaufen, Göttingen 1871, pp. 590-591 (lo si-gleremo R); e Città del Vaticano, Vat. Lat. 4957 (S). Per questo documento si vedaanche l’edizione in DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, n. 15, pp. 190-194.28 Per l’edizione a stampa dell’epistolario di Pier della Vigna si fa riferimento aquella curata da Johann Rudolf Iselin (Iselius), Basilea nel 1740. Queste letteresono state edite anche in DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, come indicatonella nota precedente.29 Si tratta dei seguenti codici: Berlin, Staatsbibliothek, Lat. fol. 188 (B); Cam-bridge, University Library, Add. 3040 (C); Leipzig, Univ.-Bibilothek, 1268 (L);Wien, Österreichische Nationalbibliothek, 526 (V). I primi tre manoscritti risul-tano strettamente connessi tra loro. Si veda anche l’apparato all’edizione in DELLEDONNE, Per scientiarum haustum, n. 14, pp. 189-190.30 Così si dice: «cumque noster animus secum ipse disceptarit interdum, ubi studiumfundare predictum et eius sedem statuere deberemus, fidelem civitatem nostramSalerni amenitate situs, fertilitate rerum et habilitate loci singulariter refulgentemgimnasiorum hospitium, immo propriam domum eligimus ad eorum stabilem in-colatum, ubi doctores et discipulos universaliter singulos et singulariter universosomni gaudere volumus privilegio libertatis, qua dudum per dominum augustumclare memorie dominum patrem nostrum in Neapolitano et Salernitano studio ute-batur, preter illud quod eis favorem nostrum, honorem et gratiam pollicimur»:DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, n. 14, p. 189. In corsivo sono state se-gnalate le parti che fanno riferimento alla città e al sovrano che ha emanato il do-cumento. Sulle riorganizzazioni dello Studium in epoca sveva cfr. DELLE DONNE,Per scientiarum haustum, pp. 109-111.31 Sono quelli che nella nota 29 abbiamo siglato B e C. La loro rubrica è la se-guente: «invitat rex Conradus studentes ad scolas quas statuerat in Salerno».32 Il ms. che nella nota 29 abbiamo siglato L scrive: «Invitat rex studentes ut vadantad scolas quas statuerat in Salerno», omettendo solo il nome di Corrado; il ms. V,invece, non riporta alcuna la rubrica.

Per i primi due documenti, invece, la situazione è più complessa, sia peril numero dei testimoni che li trasmettono, sia per la loro differente carat-terizzazione. Infatti, alcuni dei manoscritti che contengono l’epistolario diPier della Vigna organizzato in maniera non sistematica, ma non tutti, fannoriferimento a Salerno come sede dello Studium riformato, e a Corrado comemittente; mentre gli altri testimoni parlano di Napoli come sede e di Fede-rico II come mittente33.

Ci si trova, insomma, nella stessa situazione della lettera relativa all’in-vio delle traduzioni dal greco e dall’arabo dei trattati logici e matematici. Eanche a questo proposito la questione, naturalmente, assume un significatopreponderante per la storia istituzionale del Regno di Sicilia, per quelladelle università medievali, per quella della cultura dell’epoca, etc. Perchédalla soluzione di questo problema ne dipendono altri, relativi non solo allevicende amministrative del Regno o alla ideologia politico-culturale sveva,ma anche alla struttura organizzativa dello Studium, alle materie che vi ve-nivano insegnate, alla presenza o meno di scuole locali, alla sopravvivenzadella scuola medica salernitana, e così via.

Dunque, il problema può e deve essere risolto. E, attraverso l’esame delcontenuto delle lettere, si deve concludere che i due documenti non potet-tero certamente essere scritti per conto di Federico II, perché in essi il mit-tente dice di voler seguire l’esempio dei progenitori nella gestione delloStudium34, e si richiama al tempo in cui regnava il padre, che viene definitoanche divus Augustus35. Dunque, se si fa riferimento a un predecessore nellagestione dello Studium, colui che emanò il documento non può certamenteessere Federico II, che fondò lo Studium e quindi non ebbe predecessori. Percui, per riconoscere il mittente e le lezioni “corrette”, bisogna affidarsi sen-

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33 Cfr. gli apparati in DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, n. 13, pp. 186-188,e nr. 15, pp. 190-194. I mss. che menzionano Salerno e Corrado sono P per il primodocumento; e quelli che nella nota 30 abbiamo siglato R e S per il secondo docu-mento. Come già detto, tali documenti sono riportati anche da altri mss. che con-tengono l’epistolario di Pier della Vigna organizzato in maniera non sistematica.34 Nel primo documento (III 12) si dice: «ad quod licet progenitorum nostrorum nosclara prioritas invitet exemplis [...]» (cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum haustum,n. 13, p. 187); e nel secondo (III 10): «ad quod, etsi progenitorum nostrorum nosmemoranda prioritas invitet exemplis [...]» (cfr. DELLE DONNE, Per scientiarumhaustum, n. 15, p. 191).35 Nel secondo documento (III 10), «te igitur, quem antique fidei prescripta since-ritas et prestita dudum felicis memorie domino patri nostro grata servitia nobis ef-ficaciter recommendant [...]», scrivono concordemente tutti i mss. che qui abbiamopreso in esame (cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, n. 15, p. 193). Nelprimo documento (III 12), invece, si dice: «ad hoc igitur tam salubre convivium ma-

z’altro a quei testimoni “stravaganti” che riportano come mittente un so-vrano diverso da Federico II, e cioè Corrado IV.

Questi testimoni, costituiti da manoscritti che contengono il cosiddettoepistolario di Pier della Vigna organizzato in maniera non sistematica, oltrea farci sapere questo, ci dicono anche che la sede dello Studium riformatoera, in quell’occasione, Salerno e non Napoli36, e, in un caso, fanno sapereanche il tempo e il luogo in cui il documento fu emanato, ovvero «in obsi-dione Neapolis»37: dato omesso dagli altri codici. Se a tali manoscritti bi-sogna necessariamente concedere la preferenza per quanto riguarda il nomedel mittente, logica vuole che lo stesso criterio spinga anche a pensare cheil nome corretto della città sia quello di Salerno, e che esso sia stato modi-ficato in Napoli nelle redazioni sistematicamente organizzate dell’epistola-rio di Pier della Vigna. Del resto, si sa da una fonte normativa che CorradoIV ebbe effettivamente l’intenzione di spostare da Napoli a Salerno la sededello studium38. Quindi, incrociando dati filologici e storici, si può conclu-dere che la lettera scritta «in obsidione Neapolis» risalga al periodo com-preso tra il maggio e l’ottobre del 1253, quando Corrado, appunto, assediòNapoli, dopo che si era ribellata39. E che le altre scritte in suo nome risal-gano a quello stesso periodo: per inciso, il 21 maggio 1254 Corrado muore.

Come si spiegano queste differenze così notevoli tra diversi manoscrittie diverse tradizioni? Lo si vedrà tra poco, dopo essere tornati alla lettera dacui siamo partiti, quella relativa alle traduzioni dal greco e dall’arabo.

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gistros quoslibet et scolares hilariter invitamus, fidelitati tue mandantes quatenuspresens beneplacitum nostrum per iurisdictionem tuam solemniter studeas publi-care, firmam singulis fiduciam oblaturus, quod immunitates et libertates omnes,quibus olim tempore divi Augusti tam in Neapolitano quam Salernitano studio utiet gaudere sunt soliti, faciemus universis et singulis illuc ire volentibus inviolabi-liter observari», dove, comunque, «tempore divi Augusti» viene riportato solo daP (cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, n. 13, p. 188).36 Nel primo documento (III 12), seguendo il ms. P si arriva a questa edizione: «vo-lentes itaque super hoc antiquorum gratam renovare temperiem, et regni nostri fa-stigia tripudialibus novitatis nostre primitiis augmentare, universale studium incivitate nostra Salerni, consulta nuper deliberatione, providimus reformandum»(cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, n. 13, p. 188). Nel secondo (III 10),seguendo R e S, si può leggere: «civitatem Salerni [...], generale studium in civi-tate ipsa mandavimus reformari [...]» (cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum hau-stum, n. 15, pp. 192-193).37 Si tratta dell’epistola III 10, dove la data è fornita dai mss. R e S: cfr. DELLEDONNE, Per scientiarum haustum, n. 15, p. 194.38 Nella Curia di Foggia del febbraio 1252 viene deliberato «quod studium, quodregebatur apud Neapolim, regatur in Salerno»: cfr. B. CAPASSO, Historia diploma-tica Regni Siciliae inde ab anno 1250 ad annum 1266, Neapoli 1874, p. 28.39 Cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, p. 190, nota 1.

Seguendo il criterio esposto riguardo alle lettere relative allo Studiumdi Salerno, si può concludere che anche la lettera relativa alle traduzionivenne inviata da Manfredi e non da Federico II, e che la versione del testopiù vi cina all’originale, come nel caso delle lettere relative a Salerno, siaquella trasmessa dal manoscritto che tramanda una raccolta di dictaminaorganiz zata non sistematicamente (P). Innanzitutto, come si è appena visto,anche altrove P riporta in maniera corretta il nome del mittente. Inoltre,congruen temente con l’attribuzione a Manfredi o a Federico, nel finale dellalettera, il ms. che trasmette la raccolta non organizzata sistematicamente(P) invita i maestri e gli studenti parigini ad accogliere con gratitudine ildono inviato dall’amicus rex («libros ipsos tamquam amici regis enxeniumgratanter acci pite»), mentre nei manoscritti che trasmettono l’epistolario diPier della Vigna organizzato in maniera sistematica si parla dei Bolognesie del dono offerto dall’amicus cesar, con un appellativo, cesare, che siadatta a un impe ratore e non a un “semplice” re40. Quindi, attribuendola aManfredi, la lettera in questione si può datare al 1263, circa, in una fase incui Manfredi inter venne per ristrutturare lo Studium, che frattanto era tor-nato da Salerno a Napoli41.

Ma se questa è la situazione che caratterizza la tradizione di queste let -tere, è necessario capire perché essa si è verificata. E bisogna tornare alladomanda che è stata posta prima: tali divergenze che appaiono macroscopi -che quando si tratta di nomi, ma che riguardano anche lezioni apparente -mente meno significative, costituiscono la spia di differenti redazioni, disuccessive riutilizzazioni, di falsificazioni coscienti?

Come si è visto, il cosiddetto epistolario di Pier della Vigna, quello si -stematicamente organizzato, contiene molte lettere che sicuramente furonoscritte in periodi che non concordano con gli anni in cui egli fu attivo pressola corte sveva, e che quindi non potettero certamente essere scritte da lui.Ma perché potessero essere inserite nell’epistolario che venne trasmessosotto il suo nome, dovevano essere necessariamente modificate in manieratale da ri sultare congruenti con il contesto e con il contenuto dell’epistola-rio prodotto da chi, di fatto, resse la cancelleria di Federico II. Dunque, inconcreto, per fare riferimento agli esempi sopra proposti, i manoscritti cheriportano l’epistolario di Pier della Vigna organizzato in maniera sistema-tica mutano i nomi di Corrado e di Manfredi in quello di Federico II, per-ché Pier della Vigna lavorò per Federico II e non per i suoi figli; trasformanoSalerno in Napoli, perché in quella città, e non a Salerno, Federico II – alquale aveva prestato i suoi servizi Pier della Vigna – aveva fondato lo Stu-dium; Parigi in Bologna, perché con l’università di Bologna Federico II

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40 Cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, n. 21, p. 205.41 Cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, p. 202, nota 1.

ebbe rapporti frequenti, anche se non sempre pacifici42. Invece, in genere,i manoscritti che tramandano le lettere in maniera non sistematicamente or-ganizzata sono quelli che riportano le informazioni esatte e trasmettono itesti in una versione più vicina all’originale, perché i loro copisti o orga-nizzatori, non dovendo costringere le lettere entro le strutture di una raccoltasistematica da attribuire a un ben determinato dictator, non sentirono la ne-cessità di operare modifiche e adeguamenti. Si è detto in genere perché ca-pita anche che i manoscritti che riportano raccolte non sistematiche abbianoantologizzato lettere prese proprio dalla raccolta sistematica. Per cui vasempre valutato con attenzione ogni singolo manoscritto e ogni singolo do-cumento in esso contenuto, e non bisogna cadere nell’errore di consideraresempre più attendibile il codice che tramanda la raccolta non sistematica;tanto più che anche le raccolte non sistematiche possono risultare “corrette”solo per alcune lettere, ma non per tutte. Pur se, in linea di massima, so-prattutto nei casi in cui si riscontrino divergenze nei nomi di persona o diluogo, spiegabili secondo i criteri prima proposti, si può attribuire una mag-giore “affidabilità” a quelle raccolte non sistematiche di cui si sia riuscita adimostrare una generale attendibilità.

Insomma, le lettere organizzate in raccolta sistematica di dictamina fu ronotrasmesse sotto il nome di Pier della Vigna, perché egli fu considerato a lungoun maestro indiscusso di dictamen, e il suo stesso nome costituiva, da solo,una garanzia di bellezza stilistica e perfezione formale. Pertanto, le modifi-che che si possono riscontrare nei testi risultano motivate da esigenze di adat-tamento a una collezione resa forzatamente unitaria dall’attribuzione a ununico autore; e tali modifiche sono, inoltre, giustificate dal fatto che, nel-l’intenzione del suo organizzatore (o dei suoi organizzatori), l’epistolario diPier della Vigna doveva essere usato, dai contemporanei, non come fonte diinformazioni storiche, ma come raccolta di lettere-modello, ovvero come“manuale” di bello stile per maestri e studenti di retorica. Quindi, quell’epi-stolario, così come quello di altri illustri dictatores dell’epoca, funse sem-plicemente da collettore di epistole ritenute utili dal punto di vista reto rico,e di cui poteva essere imitato lo stile. Questo spiega perché – come si è giàdetto – alcune lettere dell’epistolario di un dictator sono presenti anche nel-l’epistolario attribuito a un altro dictator, e fa sospettare che tali raccolte si-stematiche trovarono tutte una primitiva organizzazione nello stesso luogo,e probabilmente presso la cancelleria papale, il luogo verso cui, come si èvi sto, portano alcune tracce, e il principale luogo, del resto, in cui, in quel-l’epoca, c’era l’organizzazione e l’interesse ad approntare tali raccolte.

D’altronde, la natura di modello retorico di tali testi è inequivocabil-

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42 Cfr. DELLE DONNE, Per scientiarum haustum, p. 107 ss., da cui si possono rica-vare ulteriori riferimenti.

mente confermata dal modo in cui essi furono messi assieme: non secondouna consequenzialità cronologica, ma secondo la loro contiguità tematica,e, non di rado, si riscontrano successioni di lettere che recano all’incirca lostesso incipit. Dunque, la costituzione dell’epistolario di Pier della Vigna –così come quello di altri eminenti dictatores – dovette essere inizialmentedeter minata soprattutto da un’esigenza pratica e funzionale, innanzituttoprofes sionale e, solo in seconda battuta, didattica. Simili compilazioni do-vevano essere considerate alla stregua di prontuari, da tenere a portata dimano, in nanzitutto, nelle cancellerie, e poi (o, magari, anche nello stessotempo) nelle scuole finalizzate essenzialmente alla preparazione dei notai.Probabilmente molti notai se ne fabbricarono uno a uso e consumo perso-nale, specifica mente adatto al proprio ufficio e ai propri corrispondenti, riu-nendo lettere proprie mischiate a quelle di altri dictatores, magari ancheattingendo, tal volta, direttamente ai registri di cancelleria. Non è detto, però,che tali copie fossero esemplate sulle redazioni definitive, quelle ultimatedagli autori delle epistole. È possibile, infatti, che alcuni manoscritti atte-stino una redazione primitiva, quella di una minuta che sarebbe stata sotto-posta a ulteriore revi sione: eventualità che probabilmente si può riscontrarenel ms. P a proposito dell’elogio di Pier della Vigna scritto da Nicola daRocca, dictator a cui sembra che si possa ricondurre, in definitiva, quel co-dice43. Tale possibilità, che già mette fortemente in crisi il sistema ecdoticotradizionale in situazioni più semplici, finisce per rendere addirittura im-possibile pensare – come ab biamo già anticipato – di poter mettere ordinecon uno stemma codicum tra dizionale a un intrico di tradizioni testuali chesi pongono su più livelli. Tanto più che la situazione è complicata ulterior-mente dalla natura pubblica di molti documenti, che vennero prodotti in unufficio che proprio in epoca federiciana venne organizzato in maniera sem-pre più tecnica.

A partire dal 1220, con Federico II, viene sviluppato un efficiente uffi-cio di scrittura nell’ambito della curia, strettamente legato soprattutto al-l’amministrazione centrale delle finanze44. E il frammento di registro di

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43 Sull’ipotesi che per tale elogio il ms. P presenti una fase redazionale primitiva deltesto cfr. l’introduzione a NICOLA DA ROCCA, Epistolae, pp. LXXII-LXXIV.44 Cfr. gli elenchi dei notai in K.A. KEHR, Die Urkunden der normannisch-sicili-schen Könige, Innsbruck 1902, pp. 64-65; ENZENSBERGER, Beiträge zum Kanzlei-und Urkundenwesen der normannischen Herrscher Unteritaliens und Siziliens,Kallmünz 1971, pp. 50-52; T. KÖLZER, Urkunden und Kanzlei der Kaiserin Kon-stanze, Königin von Sizilien (1195-1198), Köln-Wien 1983, pp. 52-55; H.M. SCHAL-LER, Die Kanzlei Kaiser Friedrichs II. Ihr Personal und ihr Sprachstil, «Archivfür Diplomatik» 3, 1957, pp. 207-286; 4, 1958, pp. 264-327; SCHALLER, Die Kan-

can celleria del 1239-124045, che contiene più di mille registrazioni per solisette mesi, attesta l’aumento della mole di lavoro, che da un lato testimo-nia le tecniche di registrazione, con l’adozione di sistemi di semplificazionee di snellimento procedurale, come l’accorciamento o la totale omissionedelle parti protocollari ed escatocollari, come l’intitulatio, l’inscriptio, lasalutatio o la datatio46, che si riscontra anche nelle raccolte di dictamina47;dall’altro spiega il motivo per cui si dovette ricorrere a una precisa regola-mentazione. Così, già negli anni Quaranta del Duecento, furono emanate daFederico specifiche Ordinanze di cancelleria, che permettono di conoscere,sia pure non nei più minuti dettagli, l’iter che le pratiche avrebbero dovutocom piere48. In tali ordinanze viene stabilito il modo in cui petizioni e letteredeb bono essere accolte davanti alla cancelleria; quello con cui si devonopren dere decisioni per la risposta, che vengono appuntate summatim sulretro della petizione; e sul modo in cui devono essere distribuite ai notaiperché essi redigano il documento. Dopo la stesura, i documenti dovevanoessere letti ancora una volta («littere vero omnes relegentur») dinanzi aidue giudici della magna curia, Pier della Vigna e Taddeo di Sessa, e munitidel loro si gillo personale a garanzia della regolarità dell’atto. Infine, tutti idocumenti ultimati venivano portati ai sigillatores, e convalidati dal cap-pellano Filippo, che apponeva sul documento la sua parafa. Insomma, l’iterera abbastanza complesso, e prevedeva diverse fasi di scrittura, lettura e ri-lettura, che, evi dentemente, comprendeva anche occasioni di correzione oriscrittura dei do cumenti. In quelle prime Ordinanze non si fa menzione diun obbligo di te nere registri, che pure doveva essere implicito, dal momentoche parte delle scritture ufficiali accompagnava la corte nei suoi sposta-menti, mentre un’altra parte rimaneva in sedi fisse49. Del resto, dopo la con-quista di Lu cera, nell’agosto del 1269, Carlo I d’Angiò incaricò Innocenzo

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zlei, 3, 1957, pp. 207-286, qui 258-260; la seconda parte dell’articolo è apparsa nelvolume successivo della stessa rivista, 4, 1958, pp. 264-327. Su tali questioni, inol-tre, si veda R. DELLE DONNE, Le cancellerie dell’Italia meridionale (secoli XIII-XV), «Ricerche Storiche» 24, 1994, pp. 361-388.45 Cfr. C. CARBONETTI VENDITTELLI, Il registro della cancelleria di Federico II del1239-1240, Roma 2002.46 Cfr. CARBONETTI VENDITTELLI, Il registro, pp. LXIII-LXV.47 Questo non significa, però, necessariamente, che i dictamina delle raccolte sianostati tratti direttamente dai registri di cancelleria. Tale prassi “compendiaria” do-vette essere senz’altro comune ai notai di quella e della successiva epoca, che, comevedremo, furono tra i principali organizzatori e fruitori di quelle raccolte.48 Cfr. E. WINKELMANN, Acta imperii inedita, I, Innsbruck 1880, n. 988, pp. 733-737.49 Cfr. CARBONETTI VENDITTELLI, Il registro, pp. L-LI. Del resto, già nelle primeOrdinanze, si fa riferimento a un luogo determinato, una domus, in cui aveva sedela cancelleria: cfr. F. DELLE DONNE, Una perduta raffigurazione federiciana de-

di Termoli, Iozzolino ed Angelo della Marra di recarsi a Lucera, Canosa eMelfi, per cercare i registri dei sovrani svevi custoditi in quei castelli e por-tarli a corte50. In ogni caso, in un’ordinanza del 1268 relativa all’ufficio delprotonotario, Carlo I d’Angiò, rifacendosi alle prassi procedurali della pre -cedente tradizione sveva51, stabiliva così: «Item prothonotarius habebit rege -strum in cancellaria pro habenda noticia negociorum et precedenciumlittera rum»52. E in un’altra ordinanza di cancelleria, probabilmente risalenteal 1272, si prescriveva che «omnes insuper littere tam patentes quam clause,que pondus important, regestrentur in tribus registris, quorum unum habeatcancellarius, aliud magistri rationales et reliquum prothonotarius»53. Puòdarsi che questa prescrizione sia stata applicata solo sotto Carlo II54, maforse non è assolutamente impensabile che già in epoca sveva potesseroesi stere prassi di registrazione multipla. E se così fosse, si moltiplichereb-bero i possibili punti d’origine della tradizione dei dictamina contenuti nellevarie raccolte organizzate o meno in forma sistematica.

Comunque, una volta ultimato l’iter strettamente amministrativo, talilet tere erano ancora lungi dall’aver compiuto il loro percorso. Infatti, al dilà dei registri ufficiali, si è già detto che i notai dovettero approntare raccoltedi dictamina da utilizzare come modelli nello svolgimento del proprio la-voro: dictamina esemplati direttamente dalle stesure in mundum del docu-mento, da quelle compendiate riportate nel registro o nei registri dicancelleria, o anche dalle minute del singolo scriptor. Ma, molto presto do-vette accadere anche che le lettere venissero, per dir così, antologizzate aduso degli studenti delle piccole scuole locali di retorica, a cui attinsero sia

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scritta da Francesco Pipino e la sede della cancelleria imperiale, «Studi Medie-vali» 38, 1997, pp. 737-749 (ripubblicato con lievi modifiche in F.D.D., Politica eletteratura nel Mezzogiorno Medievale, Salerno 2001, pp. 111-126).50 Cfr. E. STHAMER, Die Reste des Archivs Karls I. von Sizilien im Staatsarchive zuNeapel, «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken»14, 1911, pp. 124-125. 51 Cfr. E. STHAMER, Die Verwaltung der Kastelle im Königreich Sizilien unter Kai-ser Friedrich II. und Karl I. von Anjou, Leipzig 1914, pp. 27-28, 84; E. STHAMER,Bruchstücke mittelalterlicher Enqueten aus Unteritalien, «Abhandlungen der preu-ßischen Akademie der Wissenschaften. Phil.-hist. Kl.», 2, Berlin 1933, p. 14. L’ideadella continuità tra regno svevo e regno angioino risulta, del resto, è riaffermata co-stantemente in Le eredità normanno-sveve nell’età angioina. Persistenze e muta-menti nel Mezzogiorno, cur. G. Musca, Bari 2004.52 WINKELMANN, Acta, n. 990, p. 741.53 WINKELMANN, Acta, n. 992, p. 745.54 Cfr. P. DURRIEU, Les Archives angevines de Naples. Étude sur les registres du roiCharles Ier (1265-1285), I, Paris 1887, pp. 43-44.

la cancelleria papale, sia quella regia dell’Italia meridionale. Risulta essereavvenuto piuttosto di fre quente, almeno per la Terra di Lavoro, che i notaipiù eminenti della cancel leria imperiale costituissero proprie scuole per l’in-segnamento del dicta men55, generando quella tradizione retorica che im-propriamente è stata defi nita “capuana”56. Questa prassi può spiegareprobabilmente l’esistenza di quei manoscritti che non offrono gli epistolariorganizzati in maniera siste matica per autore (ma che pure presentano unasia pur minima struttura in terna) e che forniscono testi più vicini alla formaoriginaria. Mentre i mano scritti contenenti le epistole organizzate entro unaprecisa e sistematica struttura, probabilmente, devono la loro più tarda dif-fusione (si badi, non ne cessariamente l’origine) soprattutto al fatto che fu-rono usati, e modificati, presso studia o università. Anche se, pure in seguitoa questa nuova fase, continuarono a essere prodotte “antologie” più o menoampie, che univano le lettere prese dalle raccolte sistematicamente orga-nizzate ad altre ricavate da altre fonti.

Insomma, proprio la complessa e intricata trasmissione di questo tipo ditesti rende oltremodo difficile la constitutio textus dei singoli dictamina, ol -tre che quella delle loro raccolte complessive, siano esse di tipo sistematicoo non sistematico. Ovvero, è possibile, in via teorica, la ricostruzione deglistemmi delle diverse redazioni sistematiche: cosa comunque resa problema -tica dalle continue e difficilmente riconoscibili interferenze contaminativetra redazioni sistematicamente organizzate, da un lato, e redazioni non si -stematicamente organizzate, dall’altro. Ma quand’anche si riuscisse a com -piere l’operazione di ricostruzione stemmatica che seguisse i criteri ecdoticitradizionali, quale testo si riuscirebbe a ricostruire?

La situazione prospettata rende labile il concetto stesso di “originale” e,quindi, anche quello di “autore”57. Si tratta di concetti che già di per sestessi, nel Medio Evo e in precedenza, risultano problematici, dal momento

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55 Cfr. F. DELLE DONNE, La cultura e gli insegnamenti retorici latini nell’Alta Terradi Lavoro, in ‘Suavis terra, inexpugnabile castrum’. L’Alta Terra di Lavoro dal do -minio svevo alla conquista angioina, cur. F. Delle Donne, Arce 2007, pp. 133-157.56 L’espressione “scuola capuana” risale a K. HAMPE, Über eine Ausgabe der Ca-puaner Briefsammlung des Cod. lat. 11867 der Pariser Nationalbibliothek, «Sit-zungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.»,1910, 8. Per una rettifica e una puntualizzazione della questione, tuttavia, cfr. DELLEDONNE, Le consolationes, pp. 287-290; DELLE DONNE, La cultura e gli insegnamenti,pp. 133-157. Sulla diffusione della tradizione retorica campana cfr. da ultimo B.GRÉVIN, Les mystères rhéthoriques de l’État médiéval. L’écriture du pouvoir en Eu-rope occidentale (XIIIe-XVe siècle), «Annales. Histoire, Sciences Sociales» 63, 2008,pp. 271-300, qui 278-281; inoltre, GRÉVIN, Rhétorique du pouvoir, pp. 267-270.57 Il concetto di “autore”, tra l’altro, in questo contesto, è complicato ulteriormentedal fatto che, per i documenti cancellereschi di tipo ufficiale, l’autore, almeno in via

che chiunque poteva ritenersi libero, senza incorrere in alcuna condannamo rale o giuridica, di appropriarsi di brani di un’opera altrui, oppure dirico piarli o di riutilizzarli ad altri fini58. Questa libertà nella gestione e nel-l’utilizzo delle opere spiega, naturalmente, anche le notevoli trasforma zionidei testi, che intervengono lungo il percorso della loro trasmissione.

Questa sorta di “infedeltà” che, di fatto, rende i copisti, allo stesso tempo,anche “autori”, in quanto scelgono cosa trascrivere, stabiliscono in chemodo organizzare i testi e li modificano, probabilmente rende perspicuaanche ai nostri dictamina la distinzione, proposta soprattutto per i testi ro-manzi, tra tradizione “quiescente”, che riproduce il testo in maniera mec-canica, e tradi zione “attiva”, che innova continuamente e su larga scala iltesto che ripro duce. A distinguere i due tipi di tradizione è essenzialmentel’atteggiamento dello scriba, che nella tradizione quiescente dimostra ri-spetto per il testo e, quando innova, lo fa con uno spirito restaurativo; nellatradizione attiva, invece, il copista ritiene il testo qualcosa di non defini-tivo, e, quindi, lo ricrea attualizzandolo e innovandolo59.

Ma entro quali limiti la tradizione di un testo può considerarsi attiva opersonalizzata? Ovvero, è possibile che quella tradizione innovativa e attua -lizzante dia vita a un testo diverso? È difficile rispondere in maniera univocaa queste domande, che comportano, di conseguenza, le scelte editorialidiffe renti a cui si è accennato prima, ovvero mirate alla ricostruzione del-l’originale o alla riproduzione del testo che circolò. È difficile rispondere,perché ogni testo, ovvero ogni manoscritto, andrebbe considerato nella suaspecifica natura, nonché nel suo specifico contesto: cosa assai ardua, per-

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formale, è il sovrano o l’imperatore che li emana. Per un’analisi del problema del-l’attribuzione a Federico II dei testi tradizionalmente a lui attribuiti cfr. E. D’AN-GELO, Federico II scrittore, Avellino 2006, dove si parla più specificamente dellascrittura giuridica alle pp. 41-60.58 Cfr. L. HOLTZ, Autore, copista, anonimo, in Lo spazio letterario del Medioevo.Il Medioevo latino, I/1, cur. G. Cavallo - C. Leonardi - E. Menestò, Roma 1992, p.334. Cfr. anche F. TRONCARELLI, L’attribuzione, il plagio, il falso, nello stesso vo-lume alle pp. 373-90; P.G. SCHMIDT, Perché tanti anonimi nel medioevo? Il pro-blema della personalità dell’autore nella filologia mediolatina, «Filologiamediolatina» 6-7, 1999/2000, pp. 1-8; e, per l’età tardo-medievale e rinascimentale,cfr. M. ROSE, Authors and Owners: the Invention of Copyright, Cambridge (Mas-sachusset) 1993, e C.J. BROWN, Poets, Patrons and Printers: Crisis of Authority inLate Medieval France, Ithaca - London 1995.59 Cfr. A. VARVARO, Critica dei testi classica e romanza, «Rendiconti dell’Accade-mia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli» 45, 1970, pp. 73-117, qui pp.86-87; inoltre F. DELLE DONNE, Le formule di saluto nella pratica epistolare me-dievale. La Summa salutationum di Milano e Parigi, «Filologia Mediolatina» 9,2002, pp. 251-279.

ché quasi mai si riescono a ricavare con precisione assoluta tali informa-zioni. E, oltre a ciò, andrebbe considerato l’atteggiamento del copista-or-ganizzatore, e soprattutto il suo grado di consapevolezza nel compierel’operazione di co pia, ovvero di riscrittura. Ma forse, se ci si basa soprat-tutto sulla consapevo lezza di tali copisti-organizzatori, si arriva alla con-clusione che essi, quando modificarono i testi, non ebbero mai davverol’ambizione di farsi “autori”. Almeno non più di un funzionario che tiene inordine i suoi strumenti di la voro, o di un insegnante che prepara il materialedidattico più adatto ai pro pri studenti, se è vero quanto si è supposto, ossiache furono essenzialmente notai di cancelleria e maestri a organizzare leraccolte di dictamina al fine di poterne ricavare modelli esemplificativi dautilizzare ogni volta che se ne fosse presentata la necessità.

Questa conclusione, se condivisa, comporta alcune conseguenze nonsolo sul piano teorico della natura delle raccolte di dictamina, ma anche suquello più concreto del metodo ecdotico da adottare, giacché conduce aescludere che, per l’edizione di testi di questo tipo, ci si possa basare su ununico ma noscritto, sia pure il migliore o l’unico che riporta in maniera esattaalcune informazioni. Questo perché, da un lato, come si è visto, nessun ma-noscritto può considerarsi esente da interventi o rimaneggiamenti di chi loesemplò o lo organizzò; dall’altro perché nessun manoscritto può dare l’im-magine del testo in un ben determinato momento o in una ben determinatazona, se contemporaneamente ci sono altri testimoni che, nello stesso mo-mento o nella stessa zona, offrono un’immagine diversa.

A questo punto, sia consentita una ulteriore riflessione conclusiva suiproblemi connessi col lavoro di edizione del cosiddetto epistolario di Pierdella Vigna. Le soluzioni operative, naturalmente, possono essere varie emolteplici, pur se riconducibili, sostanzialmente, a due principali linee:quella che porta alla fase della ricezione e quella che, invece, riconduce almomento della produzione originaria del testo. Il primo tipo di edizione,fa cendo perno sulle redazioni sistematicamente organizzate, o principal-mente su una di esse60, mira a rappresentare l’epistolario come un’operastruttural mente unitaria, indipendentemente dalla correttezza delle infor-mazioni stori che in esso contenute, dalla datazione delle singole lettere edalla loro attri buzione a persone diverse da Pier della Vigna o, in ultimaistanza, da Federico II; consentirebbe, quindi, di ricostruire – almeno agrandi linee – le influenze culturali esercitate. Il secondo tipo, conferendoil dovuto risalto alla tradizione stravagante, prende in esame le lettere come

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60 Varie soluzioni sono prospettate in SCHALLER, Zur Entstehung, pp. 157-158, dove,tuttavia, risulta prevalere l’orientamento a seguire l’ordine della redazione grandein sei libri (M6). Su questa linea sembra che intendano muoversi i Monumenta Ger-

unità indipen denti dalla loro collocazione all’interno di una struttura siste-matica, permet tendo di evidenziare – come si è visto – le corrette informa-zioni contenute nei documenti ai fini della ricostruzione storica.

Le due ipotesi sembrano irrimediabilmente alternative, e il discrimine ècostituito dalla funzione preminente che si vuole attribuire alla raccolta, de -rivante dalla caratterizzazione della sua natura come fonte retorico-lettera-ria oppure storico-istituzionale. Tuttavia, questa apparente impassemetodolo gica può essere risolta seguendo alcune fondamentali indicazionimetodolo giche offerte da Giovanni Orlandi: «dovendo rassegnarsi a intra-prendere edi zioni provvisorie di testi patristici o mediolatini dalla tradi-zione sconfinata [...] una condotta pragmatica come quella del Lachmann,fondata su una scelta anche violenta e talora aprioristica dei testimoni e sultenersi le mani libere nella constitutio textus (fatta salva l’individuazione deigruppi princi pali dei mss. utilizzati, ma senza insistere nel delineare unostemma troppo rigido) può ancora rendere buoni servigi»61.

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maniae Historica: cfr. R. SCHIEFFER, Monumenta Germaniae Historica. Berichtüber das Jahr 2007/08, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters» 64,2008, pp. IX-X: «Prof. K. Borchardt hat mit Dienstantritt im Institut die Edition derBriefsammlung des Petrus de Vinea übernommen und unter Verwendung des Nach-lasses von Hans Martin Schaller mit der Bearbeitung der großen sechsteiligenSammlung begonnen. Angestrebt wird, für das erste Buch einen kritischen Textauf der Basis der elf vorhandenen Handschriften mit Variantenapparat und wenig-stens provisorischem Kommentar zu erstellen, um mit dieser Erfahrung dann denZuschnitt der genannten Edition festlegen zu können». Questa scelta ha il vantag-gio indubbio di essere più facilmente gestibile, dato il numero piuttosto contenutodi manoscritti che tramandano questa redazione, ma comporta, a mio parere, moltiproblemi dal punto di vista dei risultati, dal momento che la redazione M6, da unlato, non è quella che circolò normalmente, e che ci permetterebbe di ricostruire –almeno a grandi linee – le influenze culturali che esercitò l’epistolario; dall’altro,non riproduce nemmeno la forma più vicina all’originale, quella che ci consenti-rebbe di usare le informazioni contenute ai fini della ricostruzione storica. Quindi,non fa perno né sul momento della produzione, né, veramente, su quello della ri-cezione, tanto più che i manoscritti che riportano la redazione M6 non presentanotutti la medesima struttura, e che, se risulta condivisibile quanto è stato detto finora,l’organizzatore di quella redazione non aveva neanche l’ambizione di trasformarsiin autore. Oltre a ciò, poi, è da tenere presente che nella redazione grande in sei librimancano più di settanta lettere rispetto alla piccola in sei libri (quella che ebbemaggiore diffusione), e tra queste anche alcune (nel terzo e quinto libro) che risal-gono al periodo federiciano e che potrebbero essere state compilate proprio da Pierdella Vigna, o che, addirittura, risultano proprio da lui scritte in forma privata (comela III 81, indirizzata a Roffredo Epifanio di Benevento).61 G. ORLANDI, Perché non possiamo non dirci lachmanniani, «Filologia Mediola-tina» 2, 1995, pp. 1-42, qui 25 (ristampato in G.O., Scritti di filologia mediolatina,Firenze 2008, pp. 95-130). Il metodo suggerito da Orlandi è stato già seguito nel-

Dunque, l’edizione di testi contenuti in raccolte di dictamina può essereapprontata con l’intento di dare l’immagine più ampia e, al tempo stesso, piùaffidabile possibile della complessità della tradizione manoscritta, utiliz -zando solo un numero limitato di manoscritti che contengono le redazionisi stematicamente organizzate62. Data l’intricata e vastissima tradizione diquei documenti, ad ogni modo, i codici non possono essere scelti a caso: inbase alle indicazioni fornite da Hans-Martin Schaller63, andranno presi inconsiderazione esemplari rappresentativi di ciascuna delle quattro redazioniordinate sistematicamente dell’epistolario di Pier della Vigna64. Tuttavia, alfine di recuperare le corrette informazioni contingenti, va collazionato ancheun certo numero manoscritti che recano raccolte non ordinate sistematica -mente. Questo soprattutto in considerazione del fatto che, come si è visto,essi, talvolta, recano i testi in una versione che non ha subìto i pesanti filtrie gli adattamenti (come nei nomi dei sovrani o di luogo, ad esempio) chein vece si riscontrano nei testimoni che trasmettono le organizzazioni piùsi stematiche, e quindi possono fornire lezioni più vicine a quelle originali:perciò, in alcuni casi ritenuti significativi e spiegabili sulla base di tale prin -cipio, possono essere preferite le lezioni offerte da questo tipo di tradizione.

Una possibile soluzione metodologica consiste nell’impostare l’edizionedelle singole lettere finalizzandola, per quanto possibile, alla ricostruzionedell’originale e non della forma che ebbe maggiore circolazione: un’edi-zione “pragmatica” e “non definitiva” (se pure è mai concepibile una edi-zione “de finitiva”), che ha il vantaggio di essere condotta in tempi piuttostorapidi, e di avere un sufficiente livello di affidabilità e verificabilità, con-servando sempre l’opportunità di recuperare le varianti caratterizzanti diuna determinata redazione: infatti, se si segue tale sistema ecdotico, è ne-cessario segnalare in apparato il maggior numero di varianti – a volte deci-samente numerose – giudicate in qualsiasi modo significative, conl’esclusione, natu ralmente, di quelle grafiche relative a nomi non di per-

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l’edizione di testi contenuti in raccolte di dictamina: cfr. soprattutto NICOLA DAROCCA, Epistolae, Una silloge epistolare, DELLE DONNE, Per scientiarum haustum.62 Considerando sempre come ineludibile l’avvertimento pasqualiano sintetizzatonella formula «recentiores non deteriores», bisogna, tuttavia, convenire che «il li-mitarsi allo strato dei vetustiores dovrebbe almeno in parte garantire dal deteriora-mento o dall’entropia inevitabile col trascorrere dei secoli» (ORLANDI, Perché nonpossiamo, p. 6).63 SCHALLER, Zur Entstehung, pa WINKELMANN, Acta, passim.64 Per la redazione grande in sei libri si potranno, ora, mettere a frutto le importanticonclusioni raggiunte da A. BOCCIA, La redazione maggiore dell’epistolario di Pierdella Vigna. Rapporti tra i testimoni e prospettive editoriali, «Archivio Normanno-Svevo» 1, 2008, pp. 151-160.

sona. Questo perché, non essendo possibile disegnare uno stemma codicumpreciso e affidabile, ogni lezione, anche quella singolare (specialmente seriportata da tradizione stravagante), potrebbe essere importante65.

Quanto alla disposizione delle singole lettere, l’ipotesi più funzionaleed economica, probabilmente, è quella di seguire l’ordine offerto dall’edi-zione a stampa di S. Schard, poi ripreso, con alcune aggiunte, anche da J.R.Iselin (Iselius)66: tale ordine non solo rimanda sostanzialmente alla reda-zione pic cola in sei libri, quella che ebbe maggiore diffusione, ma costitui-sce anche il punto di riferimento tradizionale per gli studi, sia storici sialetterari, relativi all’epoca sveva. Le altre lettere contenute nelle restanti re-dazioni possono, invece, trovare collocazione adatta in una o più appen-dici, e contestualizza zione adeguata in appositi indici e in tavole diriscontro67. Queste soluzioni avrebbero il vantaggio di coniugare, entro i li-miti del possibile, l’interesse sia letterario sia storico che hanno quei testi.Testi che ci permettono di ve nire a capo di una tradizione retorica che, svi-luppatasi nell’Italia centro-me ridionale del XIII secolo, si diffuse in tuttaEuropa68, ma che ci consentono anche di definire con precisione le vicendeistituzionali e politiche che ca ratterizzarono il regno svevo.

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65 Sull’impossibilità di disegnare uno stemma codicum in senso proprio cfr. ancheSCHALLER, Zur Entstehung, pp. 154-155.66 Iselin aggiunse, dopo la lettera II 37, tre epistole che aveva trovato in un mano-scritto (Bern, Burgerbibl., 237) da lui utilizzato per migliorare l’edizione di Schard,il quale, a sua volta, aveva inserito, alla fine del primo libro, cinque lettere (35-39), che non sono trasmesse da alcuna raccolta sistematica: cfr. SCHALLER, Einfü-hrung, pp. XIX.XX.67 Altre soluzioni sono prospettate in SCHALLER, Zur Entstehung, pp. 157-158, dove,tuttavia, sembra prevalere l’orientamento a seguire l’ordine della redazione grandein sei libri.68 Cfr. soprattutto E.H. KANTOROWICZ, Petrus de Vinea in England, «Mitteilungendes Österreichischen Institut für Geschichtsforschung» 51, 1937, pp. 43-88; E.H.KANTOROWICZ, The prologue to ‘Fleta’ and the school of Petrus de Vinea, «Specu-lum», 32 (1957), pp. 231-249 (i due saggi sono ripubblicati, in ordine inverso, inE.H.K., Selected Studies, Locust Valley - New York 1965, pp. 167-183 e 214-245);H. WIERUSZOWSKI, Rhetoric and Classics in Italian Education of the ThirteenthCentury, «Studia Gratiana», 11 (1967), pp. 169-208 (ripubblicato in H.W., Poli-tics and Culture in Medieval Spain and Italy, Roma 1971, pp. 589-627; e, da ultimomolto più ampiamente, GRÉVIN, Rhétorique du pouvoir.

LA FALCONERIA NELL’INGHILTERRA ANGLOSASSONE.

PRACTICA AVIUM E METAFORA DEL POTERE.

ANNA SPIEZIA

I. L’Occidente altomedievale

La caccia “al potere”Nell’alto medioevo la caccia alla selvaggina di taglia grossa rappresen-

tava un momento emblematico della vita di corte, un’occupazione altamentesimbolica, autocelebrativa della regalità e della nobiltà, che, pur non esclu-dendo del tutto le sembianze del gioco, riproduceva le strategie di una bat-taglia, esaltando la virtus bellica dell’autorità regia1.

Nella società germanica, in cui la guerra costituiva l’attività predomi-nante del re, la caccia del sovrano era intesa soprattutto come un rito, re-golarmente celebrato, teso a mostrare ai sudditi la fermezza e il coraggioindispensabili per esercitare con responsabilità il suo ufficio: cacciare beneera dunque un modo per riconfermare la propria legittimità agli occhi deipares.

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1Sull’argomento, cfr. H. ZUG TUCCI, La caccia da bene comune a privilegio, in Sto-ria d’Italia. Annali, VI, Economia naturale, economia monetaria, cur. R. Romano– U. Tucci, Torino 1983, pp. 397-445; C. VILLANI, Il bosco del re: consuetudini dicaccia negli Annales regni francorum, in Il bosco nel Medioevo, cur. B. Andreoli– M. Montanari, Bologna 1988, pp. 73-81; P. GALLONI, L’ambiguità culturale dellacaccia nel medioevo, «Quaderni medievali» 27, 1989, pp. 14-37; P. GALLONI, Im-magini e rituali della regalità. La caccia con l’arco di Teodorico II re dei Visigoti,«Quaderni medievali» 31-32, 1991, pp. 107-119; P. GALLONI, Il cervo e il lupo:caccia e cultura nobiliare nel Medioevo, Roma-Bari 1993; P. GALLONI, La cacciae i giochi, in I Normanni popolo d’Europa 1030-1200 (catalogo della mostra), cur.M. D’Onofrio, Venezia 1994, pp. 155-160; A.L. TROMBETTI BRUDIESI, De arte ve-nandi cum avibus. L’arte di cacciare con gli uccelli, introduzione di O. Zecchino,Bari 2000, pp. IX-XIII.

La pratica venatoria era parte integrante del sistema educativo aristo-cratico ed era finalizzata all’apprendimento delle tecniche dell’insegui-mento, del combattimento corpo a corpo e di una rigorosa disciplinamilitare.

Nelle cronache sono frequenti sia testimonianze d’imprese eroiche disovrani cacciatori, nel corso di ardimentose battute, sia notizie d’incidentimortali accaduti a illustri personaggi sui campi di caccia, perché, non dirado, per aumentare il rischio si preferiva cacciare nel periodo della ripro-duzione quando la selvaggina era più aggressiva2.

La caccia compare nella Vita Karoli e negli Annales Francorum: «fre-quentissima, ritualizzata nel tempo e nelle scadenze, dovere e gioco as-sieme, finzione di guerra ed esercizio di forza»3. Secondo Incmaro, pressoil sacrum palatium si trovavano venatores principales quatuor, falconariumunum4.

Alla caccia erano riservati tempi stabiliti, in particolare l’autunno (i mesidi settembre e ottobre, ma non solo). I luoghi deputati erano, innanzitutto,le ampie foreste delle Ardenne e dei Vosgi: qui il sovrano poneva il suocampo, alternando battute di caccia agli incontri diplomatici.

La passione per la caccia durante il medioevo fu tale che la Chiesa sisforzò invano di distogliere i chierici da un’attività poco compatibile con illoro ruolo. Già i concili di Agde (a. 506) e di Epaone (a. 517) avevano pre-visto, per chi violava le prescrizioni, tre mesi di scomunica per i vescovi,due mesi per i preti, un mese per i diaconi. In epoca carolingia molti altriconcili, particolarmente quelli di Magonza, di Tours, di Chalon-sur Saonenell’813, ed i capitolari imperiali del 769 e dell’802, ripetevano la stessa in-terdizione. La Chiesa invero non condannava una venatica utilis et honesta,

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2 I re Merovingi sono cacciatori appassionati: Clotario I muore di febbre durante lecacce d’autunno nella foresta Cuise. Childerico I viene assassinato tornando dallacaccia nel suo dominio di Chelles. Childeberto II subisce la stessa sorte duranteuna caccia nella foresta di Logues, e più tardi Teodoberto, re d’Austrasia, nella fo-resta di Woevre, in R. GRAND - R. DELATOUCHE, Storia agraria del medioevo, Mi-lano 1968, pp. 494-495. Diversi gli incidenti mortali ricordati dalle fonti (lo stessoCarlo Magno era stato più volte in pericolo di vita durante la caccia al cinghiale):Carlo il Fanciullo, (864) figlio di Carlo il Calvo; Carlo Magno III (884); Lambertodi Spoleto (899); Ludovico IV di Westfranken (954); Bonifacio di Canossa (1053),in TROMBETTI BRUDIESI, De arte venandi cum avibus, p. X. Vittime di un insegui-mento al cervo anche Guglielmo Rufus, suo fratello maggiore Riccardo e suo ni-pote Riccardo, figlio di Roberto II di Normandia, in R. BARLETT, England under theNorman and Angevin Kings (1075-1225), Oxford 2002, p. 240.3 VILLANI, Il bosco del re, p. 73.4 Hincmarus, De ordine palatii, ed. A. Boretius, MGH, CCRRFF, II, Hannover1897, c. XVI, p. 523; c. XXIV, p. 525.

diretta a trarre profitto per il bene comune (come quella che si prefiggeval’eliminazione di animali pericolosi e dannosi all’uomo quali lupi o ser-penti), ma certamente non la incoraggiava, e ciò che avversava erano le at-tività venatorie mosse da privatae voluptati5.

Per la nobiltà medievale la caccia rappresentava un perfetto completa-mento dei tornei e delle giostre che in tempo di pace tenevano in esercizioe istruivano al combattimento. Ne derivava che la caccia agli animali inof-fensivi e con strumenti quali reti e trappole fosse poco apprezzata, essa an-dava lasciata ai rustici e ai semplici cittadini6. Solo alcuni animali di piccolataglia diventavano preda dei signori, perché se ne apprezzavano, come nellalepre, la scaltrezza e la capacità di eludere i cacciatori, ma allora ad affron-tarli non era il nobile ma il suo uccello rapace così che il confronto potessediventare ludus.

Per Galloni, è possibile distinguere tra una caccia decisamente sbilan-ciata verso la simulazione della guerra e un’altra in cui le componenti lu-diche erano più forti. Nella prima era utilizzata principalmente un’arma dacombattimento come la spada, nella seconda compariva l’arco che il guer-riero disdegnava in guerra. Nella falconeria l’aspetto ludico era predomi-nante rispetto alla caccia grossa, perché, praticabile a piedi in spazi apertie coltivati (estesa anche alle donne), introducendo un mediatore tra uomoe animale, trasformava il cacciatore in osservatore7.

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5 ZUG TUCCI, La caccia, pp. 399-407.6 «Widukindo di Corvey dice dello straordinario talento venatorio di Enrico l’Uc-cellatore, capostipite della dinastia Sassone, quando lo vuole presentare come ilmigliore successore possibile al trono imperiale. C’era, tuttavia, un neo nel com-portamento venatorio di Heinrich “der Finkler” o «der Vogler»: prima di essere re,aveva l’abitudine di catturare gli uccelli con le reti. Se ne stava proprio presso lesue trappole, aggiustando le reti per l’uccellagione come un vecchio contadino,quando giunsero alla sua dimora dei messaggeri per rendergli omaggio e procla-marlo re. Fu la prontezza della moglie Matilde a risolvere abilmente l’imbaraz-zante situazione: ella invitò i messi a sedersi a tavola e, mentre si rinfrescavano,mandò a chiamare Enrico da alcuni cavalieri affinché sembrasse che egli stava ri-tornando da una battuta di caccia a cavallo more nobilium. All’aristocratico, infatti,la caccia con le reti non procurava gloria, bensì schimpfe: disonore, ed Enrico, cosìsi narra, abbandonò per sempre le abitudini venatorie tipiche dei rustici e, da so-vrano, fu cacciatore prode, che non esitava a porre a rischio la propria vita, comesi conveniva ad un re, tanto più al capostipite di una dinastia» (Jahrbücher desdeutschen Reichs unter König Heinrich I., ed. G. Waitz, Darmstadt 1963, pp. 209-214; Helmoldi Chronica Slavorum, ed. G.W. Pertz, MGH, SS, XXI, Hannover1869, II 18, p. 138), in TROMBETTI BRUDIESI, De arte venandi cum avibus, p. XI.7 GALLONI, La caccia e i giochi, p. 156.

Le origini della falconeria In questa sede il termine “falconeria” sarà usato per indicare sia la cac-

cia con i falconidi (cui appartengono rapaci dagli occhi neri come i sacri, ipellegrini, i lanari e gli smerigli) sia la caccia con gli accipitridi (dagli occhigialli come gli astori, gli sparvieri, le aquile e le albanelle)8.

È possibile rintracciarne le origini9 presso i popoli delle steppe sud asia-tiche (nelle pianure a nord del Ponto e del Caucaso) nel corso del II mil-lennio a.c.

Nel III secolo la falconeria si diffondeva nei territori dell’impero dei Sa-sanidi e poi degli Abbasidi.

È assai probabile che tale costume sia stato introdotto in Europa attra-verso i contatti tra Sarmati e i Goti orientali (o a seguito delle migrazioni dipopoli delle steppe come Unni e Alani) e adottato dai Germani con il pre-valente ruolo di caccia a scopo alimentare.

Le prime sicure attestazioni di tale pratica datano al V secolo. Nell’Eu-charisticos, Paolino di Pella10, che trascorse la maggior parte della sua vitaa Bordeaux, ricorda il suo giovanile desiderio di possedere, oltre ad un cav-allo con bardatura fine, un cane veloce e uno splendido astore (accipiter11).

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8 La scelta dei rapaci da utilizzare per un battuta di caccia dipende dal tipo di preda.Alle due categorie corrispondono tipi di caccia al volo che presentano caratteristi-che differenti: la falconeria (o caccia di «volo alto») e l’astoreria (definita di «volobasso»). I rapaci di volo alto volano ad alta quota e catturano la preda in volata, glialtri possono inseguire la preda da vicino, a bassa quota, attraverso la vegetazione.Cfr. F. VIRÉ́, La fauconnerie dans l’Islam médiéval (d’après les manuscrits arabes,du VIIIème au XIVème siècle), in La Chasse au Moyen Age, Nice 1980, pp. 189-197; B. VAN DEN ABEELE, La fauconnerie au Moyen Âge. Connaissance, affaitageet médecine des oiseaux de chasse d’après les traités latins, Paris 1994, pp. 45-48.9 Sull’argomento, cfr. H.J. EPSTEIN, The Origin and Earliest of Falconry, «ISIS.History of Science Society» 34, 1943, pp. 497-509; M.D. GLESSGEN, La traduzionearabo-latina del Moamin eseguita per Federico II: tra filologia testuale e storia,«Medioevo Romanzo» 25, 2001, pp. 66-67; VIRÉ́, La fauconnerie dans l’Islam mé-diéval, p. 189; CH.A. DE CHAMERLAT, La fauconnerie et l’art, Paris 1986, pp. 72-80; TROMBETTI BRUDIESI, De arte venandi cum avibus, pp. XXVI- XXXVI.10 «Pulcher equus falerisque ornatior esset, strator procerus, velox canis et specio-sus accipiter», in Paulinus Pellaeus, Eucharisticos, ed. W. Brandes, Leipzing 1888,p. 297.11 Van de Abeele fa notare che nella documentazione altomedievale la terminolo-gia è fluttuante. Nei testi non tecnici o scientifici, come le prescrizioni sinodali,può alludere in generale agli uccelli per la caccia al volo. Agli accipiter apparten-gono due specie: gli astori (accipiter gentilis) e gli sparvieri (accipiter nisus), mala distinzione nelle fonti si fa più chiara con Federico II, tuttavia è possibile rile-vare che l’impiego del termine spesso, specie nei paesi dell’Europa germanica,

Un ricordo simile si incontra in una lettera di Sidonio Apollinare, vescovodi Plaisance, indirizzata al cognato Ecdicius, in cui l’autore fa riferimentoai piaceri della giovinezza12. Altrove Sidonio rileva l’abilità di un certo Vec-tius, «in equis, canibus, accipitribus instituendis spectandis circumferendisnulli secundus»13.

Le informazioni sulla falconeria praticata dai Germani si trovano es-senzialmente nella legislazione. Le leggi Saliche (ca. 500) contengono alriguardo la regolamentazione più antica14. La legislazione longobarda è l’e-sempio più estensivo di un ordinamento in materia cinegetica15. Dal corpusnormativo è evidente che la falconeria abbia costituito per le popolazionigermaniche una forma ben consolidata di venatio e non sia stata esercitatasemplicemente come occasionale intrattenimento16.

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equivaleva al significato ristretto di astore. Cfr. VAN DEN ABEELE, La fauconnerieau Moyen Âge, pp. 75-78. 12 «Omitto quod hic primum tibi pila pyrgus, accipiter canis, equus arcus ludofuere», in Gaii Sollii Apollinaris Sidonii Epistulae et Carmina, ed. C. Luetjohann,MGH, AA, VIII, Berlin 1887, III 3, p. 41.13 Gaii Sollii Apollinaris Sidonii Epistulae, IV 9, p. 61.14 A seguire: la legge dei Burgundi (ca. 500-505), la legge dei Franchi Ripuari (ca.530-570), la legge dei Bavari (ca. 635), la legge dei Longobardi (643), la legge deiFrisoni (VIII sec.), la legge degli Alamanni (inizi VIII sec.) tutte notevoli per laricchezza del vocabolario cinegetico e per l’importanza data ai reati concernentil’esercizio della caccia (fa eccezione la legge dei Visigoti del 681 che sulla cacciapresenta solo due articoli); al riguardo cfr. in particolare, EPSTEIN, The Origin, pp.506-507.15 Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, cur.C. Azzara e S. Gasparri, Milano 1992, pp. 309-311.

16 Lex Salica, ed. K.A. Eckhardt, MGH, LLNNGG, IV 2, Hannover 1969, p. 38:«c. VII. De furtis avium. § 1. Si quia acceptorem de arbore furaverit, mallobergohocticla, (sunt dinarii CXX qui faciunt) solidus III culpabilis iudicetur excepto ca-pitale et dilatura. § 2. Si quis acceptorem de pertica furaverit, mallobergo veganusantete 1, (sunt dinarii DC qui faciunt) solidus XV culpabilis iudicetur excepto ca-pitale et dilatura. § 3. Si quis acceptorem deintro clavem furaverit, mallobergo ortofugia, (sunt dinarii M(D)CCC qui faciunt) solidus XLV culpabilis iudicetur ex-cepto capitale et dilatura. § 4. Si quis sparvario furaverit, mallobergo sundelino 2,(sunt dinarii CCXL qui faciunt) solidus VI culpabilis iudicetur excepto capitale etdilatura». Leges Burgundionum, ed. L.R. Salis von, MGH, Leges Nationum Ger-manicarum II-I, Hannover 1892, p. 113: «c. XCVIII. De acceptoribus. Si quis ac-ceptorem alienum involare praesumpserit, aut VI uncias carnium, acceptor ipsesuper testones ipsius comedat, aut, certe si noluerit, VI solidos illi, cuius acceptorest, cogatur exsolvere, multae autem nomine, solidos II». Lex Ribuaria, ed. R.Sohm, MGH, Leges Saxonum V, Nachdruck 1875-1889, pp. 231-232: «§ 11. Auc-

Se per l’alto medioevo la caccia (in generale e quindi anche la caccia alvolo) può essere considerata una pratica aperta a tutti gli strati sociali, senzadistinzioni di classe, dai primi dell’XI secolo, i potentes avrebbero condi-zionato la pratica venatoria, costringendo gli abitanti delle campagne al pa-gamento di tributi a fronte della possibilità di cacciare, con la costituzionedi grandi riserve private17.

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ceptorem non domito per 3 solidos tribuat. Cummorsum gruarium pro sex solidistribuat. Aucceptorem mutatum pro 12 solidis tribuat». Lex Baiuwariorum, ed. J.Merkel, MGH, Leges Alamannorum III, Nachdruck 1863, pp. 330-331 e p. 334: «c.XX. De canibus et eorum compositione § 6. De eo cane, qui dicitur hapuhhunt,pari sententia subiaceat. c. XXI. de accipitribus. Si accipitrem occiderit quem chra-nohari dicunt, cum solidis conponat et simile [et] cum 1 sacramentale iuret ut ad-volare et capere simile sit. De eo qui dicitur canshapuh qui anseres capit, cum 3solidis conponat et similem reddat IIlum quem anothapuh dicimus cum solido 1 etsimile conponat. De sparavariis·vero pari sententia subiaceat, cum 1 solido et similerestituendi, et cum sacramento, ut tales sint., quales sint interfectione damnavit. Sivero furto ablati fuerint, per omnia furtivo [more] cogantur solvere; ut lex conpel-lit. De his avibus quae de silvaticis per documenta humana domesticentur indu-stria et per curtes nobilium mansuescunt volitare atque cantare, cum 1 solido etsimile conponat, atque in super ad sacramento. c. XXII. De pomeriis et eorum con-positione: § 11. Pari modo de avibus sententia subiacetur, ut nullus de alterius silva,quamvis prius inveniat, aves tollere praesumat: nisi eius conmarcanus fuerit quemcalasneo dicimus. Et si aliter praesumpserit, semper restitutionis sacramentum iniu-stum putamus; quamvis minima sit querela, cum 6 sacramentales iurare lex con-pellit de istis sufficit». Le leggi dei Longobardi, p. 86: «§ 317. De aves domesticas.Si quis acceptare, grova aut cicino domestico alieno intrigaverit, sit culpabiles sol.sex. § 320. De acceptorìs. Si quis de silva alterius accepturis tulerit, excepto ga-hagium regis, habeat sibi. Nam si dominus selvae supervenerit, tollat acceptaris, etamplius culpa adversus eum non requirat. Et hoc iubemus: si quis de gahagio registulerit accepturis, sit culpabiles solido duodicem. § 321. Si quis de arbore signatoin silva alterius acceptures de nido tulerit, conponat solidos sex». Lex Frisionum,ed. K. Richthofen von, MGH, Leges Alamannorum III, p. 662: «tit. IV. De servo autiumento alieno occiso § 4. Hoc inter Laubaci et Sincfalam: Canem acceptoricium,vel braconem parvum, quem barmbraccum vocant, 4 solidis componat; eum autem,qui lupum occidere solet, tribus solidis; qui lacerare lupum, et non occidere solet,duobus solidis. Canem custodem pecoris solido componat». Leges AlamannorumLantfridana, ed J. Merkel, MGH, Leges Alamannorum III, p. 117: «c. XCV § 1. Siacceptor, qui auca mordit, occiderit, 3 solidos solvat; si grue, 6 solidos componat.§ 2. Si verre occiderit, ipso pro eo reddat aut 3 solidos solvat». 17 Sulla questione: C. PETIT-DUTAILLIS, Les Origines Franco-Normandes de la ForêtAnglaise, in Mélanges d’Histoire Offerts a M. Charles Bémont, Paris 1913, pp. 59-76; H.L. SAVAGE, Hunting in the Middle Ages, «Speculum» 8, 1933, pp. 30-41;H.C. DARBY, Domesday Woodland, «Economic History Review» 3, 1950-1951,pp. 21-43; GRAND-DELATOUCHE, Storia agraria, pp. 491-604; M. PACAUT, Esquisse

Già in epoca carolingia, come spiega Montanari, si verifica una crescenteprivatizzazione che tuttavia non compromette l’uso degli incolti, accessibilinon più liberamente da parte della popolazione contadina ma previa corre-sponsione di canoni e tributi, dal momento che perfino il re apriva i suoi bo-schi allo sfruttamento comune. La caccia veniva sottoposta a canone e adecima esattamente come le altre attività economiche, agricole o silvopa-storali, ciò significa che essa era ritenuta, ancora in età carolingia e postca-rolingia, un’attività abituale e quotidiana: l’imperatore, infatti, l’avevainclusa fra le opere servili di cui era vietato l’esercizio nei giorni di festa.Dalla fine del IX secolo, e soprattutto dal X, il sopravvento della signorialocale significò un aumento degli abusi e delle sopraffazioni ai danni dei cetirurali, che si espresse anche, in tanti casi, nell’esclusione di questi dall’usodell’incultum. Ciò avvenne nel momento in cui gli spazi incolti comincia-vano a scarseggiare sia perché la pressione demografica costringeva a di-sboscarli e dissodarli, sia perché sui restanti si esercitava una crescentepressione da parte del ceto signorile per sottrarli all’uso comune e trasfor-marli in riserve esclusive. Alla fine dell’impero carolingio corrispose il raf-forzamento dei poteri locali sul territorio: i nobili pervennero in misurasempre maggiore al possesso dei diritto forestali e la caccia da diritto co-mune si trasformava in un privilegio di pochi18.

Se prima, la caccia alla selvaggina di grossa taglia aveva esaltato, so-prattutto, l’aspetto magico-bellicoso della regalità, nel periodo successivo,per soddisfare il plaisir dell’aristocrazia, andarono progressivamente dif-fondendosi altre attività venatorie come la caccia al cervo e poi la falcone-ria. Quest’ultima, nel corso del XII secolo, sollecitata dal mondo arabo,diventava un pratica “paneuropea”19, attività preferita dai nobili in tempo dipace e fulcro dell’educazione cortese, assumendo un forte rilievo nella sim-

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de l’evolution du droit de chasse au haut moyen-age, in La Chasse au Moyen Age,pp. 59-67; G. GISLAIN, L’evolution du droit de garenne au moyen age, in La Chasseau Moyen Age, pp. 37-58; ZUG TUCCI, La caccia, pp. 397-445; M. MONTANARI, Vi-cende di un’espropriazione: il ruolo della caccia nell’economia e nell’alimenta-zione dei ceti rurali, in M.M., Campagne medievali: strutture produttive, rapportidi lavoro, sistemi alimentari, Torino 1984, pp. 174-190; F. PRATESI, Gli ambienti na-turali e l’equilibrio ecologico, in Storia d’Italia. Annali, VIII, Insediamento e ter-ritorio, cur. C. De Seta, Torino 1985, pp. 53-109; M. MONTANARI, La caccia dadiritto comune a privilegio sociale, in M.M., Uomini terre, boschi nell’occidentemedievale, Catania 1992, pp. 139-149; GALLONI, Il cervo e il lupo; GALLONI, Lacaccia e i giochi, pp. 155-160.18 MONTANARI, Vicende di un’espropriazione, pp. 174-190; MONTANARI, La cac-cia, pp. 139-149.19 GLESSGEN, La traduzione arabo-latina del Moamin, p. 66.

bologia della corte e del potere nobiliare20. L’animale, come ha messo inluce Cardini, incarnava lo stesso sistema di valori del cavaliere, era unasorta di suo doppio, proiezione dell’ardimento, della fierezza del nobile edella sua virilità21.

Si assiste, inoltre, nel corso del basso medioevo a una tendenza costanteverso l’esclusività sociale della falconeria, dovuta anche ai costi che essacomportava relativi all’equipaggiamento del falconiere, all’acquisto e al-l’addestramento degli uccelli da preda, solo per fare un esempio: nel XIIIsecolo in Inghilterra un astore costava la metà (£10) del reddito annuale diun cavaliere (£20)22.

II. L’inghilterra anglosassone Un rituale dei re

Le origini della falconeria in Inghilterra la connotano come un’attivitàessenzialmente reale; le fonti, infatti, la qualificano come un intrattenimentoabituale dei re anglosassoni23. Dalla corrispondenza di San Bonifacio si ap-prende che, tra il 745 ed il 746, l’arcivescovo di Magonza inviò, «pro signoveri amoris et devote amicitiae», come doni al re Etelbaldo di Mercia «ac-cipitrem unum et duos falcones»24, e che tra il 748 e il 755 re Etelberto IIdel Kent chiese a Bonifacio due uccelli da preda: «unam rem preterea avobis desidero mihi exhiberi, quam vobis adquirere valde difficile esse,iuxta quod mihi indicatum est, nullatenus reor; hoc est duos falcones, quo-rum ars et artis audatia sit: grues velle libenter captando arripere et arri-

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20 «Like the art of warfare, hunting was part of the education of every knight, whotook as much pride in the falcon on the fist as in the sword at his side»: W.H.FORYSYTH, The Noblest of Sports: Falconry in the Middle Ages, «The Metropoli-tan Museum of Art Bulletin», 2, 1944, p. 253. 21 F. CARDINI, Il banchetto del falcone ovvero l’amante mangiato, «Quaderni me-dievali» 17, 1984, pp. 45-71.22 R.S. OGGINS, Falconry in Anglo-Saxon England, «Mediaevalia. A journal of me-diaeval studies» 7, 1984 [ma 1981], pp. 195-196.23 Sull’argomento: R.S. OGGINS, Falconers in the English Royal Household to 1307,«Studies in Medieval Culture» 4, 1974, pp. 321-329; R.S. OGGINS, Falconry inAnglo-Saxon England, pp. 173-208; G.R. OWEN-CROCKER, Hawks and Horse-Trap-pings: the Insignia of Rank, The Battle of Maldon AD 991, Oxford 1991, pp. 220-237; R.S. OGGINS, The Kings and Their Hawks: Falconry in Medieval England,Yale UP 2004, pp. 36-49.24 S. Bonifatii et Lulli epistolae, ed. E. Dummler, MGH, EE, III, Berlin 1892, p.337, n. 69.

piendo consternere solo [probabilmente due girfalchi25]. Ob hanc etenimcausam de harum adquisitione et transmittendarum ad nos avium vos ro-gamus, quia videlicet perpauci huius generis accipitres in nostris regionibus,hoc est in Cantia, repperiuntur, qui tam bonos producant foetus et ad su-pradictam artem animo agiles ac bellicosi educantur et edomantur ac doce-antur»26.

Per gli stessi anni ci si può avvalere di altre due testimonanze. La primaè il falconiere scolpito, a figura intera, sulla croce monumentale di Bewca-stle nel Cumberland, nel quale è stato individuato l’aristocratico donatore27;la seconda è di tipo letterario: il ricordo di «buoni astori che volavano»,nelle lamentazioni dell’ultimo guardiano del tesoro, nel poema epico delBeowulf, ascritto dai più all’VIII secolo28.

Dal tardo VIII secolo gli astorieri sonoconsiderati membri della casa reale di Mer-cia. Nel 792 re Offa di Mercia confermavai privilegi garantiti alle chiese ed ai mona-steri del Kent dai re Wihtred ed Etelbaldo,e garantiva loro l’immunità per aver ospi-tato i servi del re, i suoi cani, i suoi astori, isuoi cavalli o gli uomini che li custodi-vano29.

Bewcastle nel Cumberland

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25 K. DOBNEY - D. JAQUES, Avian Signatures for Identity and Status in Anglo-SaxonEngland, «Acta zoologica cracoviensia» 45, 2002, p. 15.26 S. Bonifatii et Lulli epistolae, p. 392, n. 105.27 É. Ó CARRAGAÁIN, Christian Inculturation in Eighth-Century Northumbria: TheBewcastle and Ruthwell Crosses, «Colloquium Magazine» 4, 2007, on line<http://www.yale.edu/ism/colloq_journal/vol4/carragain1.html›. In area scozzese,per l’VIII secolo si registrano tre rappresentazioni scultoree di falconieri: una crocemonumentale nella cattedrale di Elgin, una croce monumentale a Fowlis Wester, unsarcofago nella cattedrale di St. Andrew. Per approfondimenti, cfr. A. CARRING-TON, The Horseman and Falconers in Pictish Sculpture, «Proceedings of the Soci-etes of Antiquaries of Scotland» 126, 1996, pp. 459-468. Si tratta di immagini,secondo l’A., che riflettono gli interessi della classe dominante e ne rafforzano laposizione sociale e politica. In area anglosassone, nella chiesa di Sockburn dellacontea di Durham, un bassorilievo del X secolo rappresenta un cavaliere che mo-stra un uccello, la foto è pubblicata da OWEN-CROCKER, Hawks and Horse-Trap-ping, p. 226.28 OGGINS, Falconry in Anglo-Saxon England, p. 178.29 Cartularium Saxonicum, ed W. de Gray Birch, London 1885-93, II, n. 848.

Simili provvedimenti furono presi da Ceolwulf di Mercia nell’822; Be-orhtwulf di Mercia tra 843 e 844; Burgred di Mercia nell’855; Edoardo ilVecchio del Wessex nel 90430.

Alfredo il Grande del Wessex, stando al suo biografo, praticò «omnemvenandi artem», e mai cessò di istruire i suoi «falconarios et accipitrarioscanicularios quoque»31. Questa testimonianza è significativa sia perché proval’interesse del re per entrambe le forme di caccia al volo sia perchè dimostral’esistenza di due distinte professionalità dedite rispettivamente alla cura eall’addestramento dei falconi (falconarii) e degli astori (accipitrarii)32.

Il solo piacere terreno dell’ascetico Edoardo era rappresentato dai suoiuccelli che ispezionava ogni giorno dopo la messa: «diuinis enim expedi-tus officiis quibus libentur quotidiana intendebat deuotione, jocundabaturplurimum coram se allatis accipitribus uel huius generis auibus, uel certe de-lectabatur applausibus multorum motuum canibus. His et talibus interdumdeducebat diem, et in his tantummodo ex natura uidebatur aliquam mundicaptare delectationem»33.

Dal Domesday Book è possibile identificare alcuni astorieri del sovrano:Guglielmo che aveva ricevuto una proprietà di 63 acri nel Kent (morto nelo prima del 1066)34; Godwin con 60 acri nello Hampshire35 e probabilmenteToli di Sandiacre, thegn del Derbyshire36. Sivardo accipitrarius, registratonell’Exon Domesday, aveva diverse proprietà nel Somerset (oltre 840 acriper un valore di oltre 6£)37. Rodolfo di Hauville, uno dei servientes di Edo-

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30 Cartularium Saxonicum, I, n. 370; II, nn. 443, 488-89, 612. Sull’argomento, cfr.F. STENTON, Anglo-Saxon England, Oxford 2001, pp. 287-289.31 «Interea tamen rex, inter bella et praesentis vitae frequentia impedimenta, nec-non paganorurn infestationes et cotidianas corporis infirmitates, et regni guber-nacula regere, et omnem venandi arterm agere, aurifices et artifices suos omnes etfalconarios et accipitrarios canicularios quoque docere…», in Asser’s Life of KingAlfred, ed. W.H. Stevenson, Oxford 1904, p. 59.32 OGGINS, Falconers in the English Royal Household, p. 321-322; OGGINS, Fal-conry in Anglo-Saxon England, p. 180.33 Vita Edwardi regis qui apud Westmonasterium requiescit, ed. H.R. Luard, Lon-don 1858, p. 414.34 Domesday-Book: seu liber censualis Willelmi primi regis Angliæ, inter archivosregni in domo capitulari Westmonasterii asseruatus: jubente rege augustissimoGeorgio tertio prælo mandatus typis..., ed. A. Farley, London 1783, I, fol. 14 (cfr.Domesday Book. A Complete Translation, ed. A.Guglielmos – G.H. Martin, Lon-don 2003, p. 35. Da ora DB. Traslation).35 Domesday-Book, I, fol. 50v (cfr. DB. Traslation, p. 124).36 Domesday-Book, I, fol. 278v (cfr. DB. Traslation, p. 754).37 V. OGGINS - R.S. OGGINS, Some Hawkers of Somerset, «Proceedings Somerset-

ardo nel Wiltshire, invece potrebbe essere stato falconiere reale. Si trattadel primo membro noto della famiglia Hauville d’Inghilterra, i cui espo-nenti furono falconieri al tempo dei Plantageneti (da Enrico II ad EdoardoIII)38. Tra gli astorieri di Edoardo, Guglielmo, Godwin e Sivardo furonoanche al servizio del Conquistatore. Guglielmo accipitrarius ricevette unaproprietà a Woolwich, Godwin a Steventon39, mentre Sivardo a Dinnin-gton40. Probabilmente furono al servizio del Conquistatore anche l’astoriereToli di Sandiacre ed il falconiere Rodolfo di Hauville41.

Re Etelstano includeva gli uccelli da preda tra i tributi annuali imposti alGalles: «... ut ei nomine vectigalis annuatim viginti libras auri, trecentas ar-genti, penderent, boves viginti quinque milia annumerarent, praeterea quotliberet canes qui odorisequa nare spelaea et diverticula ferarurn deprehen-derent, volucres quae aliarum avium praedarn per inane venari nossent…»42.

Intorno al 971 re Edgardo intervenne per porre un freno a quei chiericiche si dedicavano ai «canes et aves et talia ludicra»43.

Dal tardo XI secolo fu comune per un thegn (aristocratico al serviziodel re che prestava servizio nell’esercito, partecipava alla riparazione dellefortezze e alla manutenzione dei ponti44), donare al sovrano i suoi falconi ei suoi cani alla propria morte45. Il primo esempio di questo genere di testa-mento è datato tra il 973 ed il 987: Brihtric e sua moglie Aelfswith lascia-rono al sovrano, tra le altre cose, quattro cavalli, due astori e tutti i lorosegugi46.

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shire Archaeological and Natural History Society» 124, 1980, pp. 51-53; V. OGGINS- R.S. OGGINS, Hawkers and Falconers: The Prosopography of a Branch of theEnglish Royal Household, «Medieval Prosopography» 3, 1982, p. 65.38 Domesday-Book, I, fol. 74v (cfr. DB. Traslation, p. 196); OGGINS, Falconry inAnglo-Saxon England, p. 192; OGGINS, The Kings and Their Hawks, pp. 47 e 57.39 OGGINS, Falconry in Anglo-Saxon England, pp. 191-192.40 OGGINS-OGGINS, Some Hawkers of Somerset, p. 53.41 OGGINS-OGGINS, Hawkers and Falconers, p. 65.42 Willelmi Malmesbriensis monachi De gestis regum Anglorum libri quinque, ed.W. Stubbs, London 1887, I 2, p. 148; cfr. OGGINS, Falconry in Anglo-Saxon Eng-land, pp. 180-182.43 Cartularium Saxonicum, III, n. 1276. Si vedano anche Wulfstan’s Canons ofEdgar, ed. R. Fowler, London 1972, pp. 14-15 (Canone 65), e Ancient Laws and Is-titutes of England, ed. B. Thorpe, London 1840, II, p. 259 (Canone 64). 44 Per la definizione si rimanda al glossario in E. LEONARDI, Terra e potere: la si-gnoria in Inghilterra tra X e XII secolo, «Nuova Rivista Storica» 2, 2007, pp.445-446.45 Domesday-Book, I, fol. 56v (cfr. DB. Traslation, p. 136).46 Cartularium Saxonicum, III, nn. 1132, 1133.

Il poema anglo-sassone sulla battaglia di Maldon (a. 991) conferma il le-game tra la nobiltà e la falconeria. Il conte Byrhtnoth, parente di Offa, la-scia volare il suo astore dal pugno prima di lanciarsi nella battaglia controi Danesi: poteva essere ucciso e non essere più in grado di prendersi curadi lei47; e l’Exter Book (della seconda metà del X secolo) fornisce la testi-monianza del favore riservato a questa pratica cinegetica nel sistema so-ciale anglosassone, il testo infatti contiene due poemi, il Gifts of Men e ilFortunes of Men, che descrivono la falconeria come una professione ac-creditata (a meno che l’autore non fosse egli stesso un falconiere doveva es-sere considerata una pratica socialmente rilevante)48.Eadmer e Guglielmo di Malmesbury49 nel criticare il costume dei monacidi Canterbury, registrano che la falconeria fu uno dei passatempi preferitidella nobiltà anglosassone nella metà dell’XI secolo. Due calendari dell’XI secolo (il Ms Cotton Julius A VI, fol. 7v ed il MsCotton Tiberius B, fol. 7v della British Library di Londra50) mostrano lafalconeria come occupazione del mese di ottobre.La caccia con i falconi o gli astori, comunque, rappresentava l’obiettivo fi-nale di un lungo addestramento. I falconi venivano allenati per rientrare allavista del logoro, gli astori del pugno guantato del falconiere ma soprattutto

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47 OGGINS, Falconry in Anglo-Saxon England, pp. 183-184; OWEN-CROCKER,Hawks and Horse-Trapping, p. 220; OGGINS, The Kings and Their Hawks, p. 42.Solitamente gli uccelli utilizzati nella caccia al volo erano femmine, più grandi deimaschi, in OGGINS, Falconry in Anglo-Saxon England, p. 195 nota 1. 48 OGGINS, Falconry in Anglo-Saxon England, pp. 186-187.49 «Quantum autem percussio istius valuerit ad correctionem eorum qui in ipso mo-nasterio monachi erant facile est videre omnibus qui unde ad quid ordo monasti-cus ab eo tempore illic profecerit sciunt. Sciunt quippe quia qui prius in omni gloriamundi, auro videlicet, argento, variis vestibus ac decoris cum pretiosis lectister-niis, ut diversa musici generis instrumenta, quibus saepe oblectabantur, et equos,canes et accipitres, cum quibus nonnunquam spatiatum ibant, taceam, more comi-tum potius quam monachorum vitam agebant», in Eadmeri Miracula Sancti Du-stani, ed. W. Stubbs, London 1874, pp. 237-238.«Monachi Cantuarienses, sicut omnes tunc temporis in Anglia, secularibus haudabsimiles erant, nisi quod pudicitiam non facile proderet. Canum cursibus avocari;avium predam raptu aliarum volucrum per inane sequi; spumantis equi tergum pre-mere, tesseras quatere, potibus indulgere; delicatiori victu et accuratiori cultu; fru-galitatem nescire, parsimoniam abnuere; et cetera id genus, ut magis illos consulesquam monachos pro frequentia famulantium diceres», in Willelmi Malmesbirien-sis Monachi De gestis pontificum Anglorum libri quinque, ed. N.E.S.A. Hamilton,London 1870, I 44, p. 70.50 Early Drawings and Illuminations, cur. W. de Gray Birch – H. Jenner, London1879.

erano addestrati ad attaccare uccelli di grossa taglia come aironi e gru. I so-vrani dovevano ingaggiare falconieri e astorieri deputati all’addestramentodegli uccelli reali.

Ms Cotton Julius A VI, fol. 7v della British Library di Londra

Il valore di questi rapaci (variabile secondo la taglia e la specie) e il costodell’addestramento naturalmente rendevano la falconeria uno sport da no-bili: quando a cacciare era la gente comune, infatti, faceva ricorso a piccoliastori catturati localmente laddove la caccia poteva ancora rappresentareun importante complemento dell’alimentazione (uccellagione51).

Ms Cotton Tiberius B, fol. 7v della British Library di Londra

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51 L’uccellatore è una delle dodici occupazioni descritte nei Colloquy di Aelfric,una raccolta di dialoghi scritti in latino ed inglese intorno alla fine dell’XI secolodall’abbate di Eynsham per insegnare il latino ai suoi novizi, in OGGINS, Falconryin Anglo-Saxon England, p. 188.

III. L’arazzo di Bayeux

Una testimonianza iconograficaUno dei primi documenti di origine inglese e cultura anglo-normanna

che testimonia di uno stretto legame tra il falco e il nobile è l’arazzo di Ba-yeux, ove in cinque diversi momenti della narrazione figurata (scene 2, 4,8, 13, 14)52 sono rappresentati alcuni cavalieri con il falco sul pugno.

Innanzitutto non si tratta di un “arazzo” nel senso tecnico della parola,bensì di un ricamo tracciato con fili di lana di otto colori differenti su unafascia di tela di lino greggio. Il ricamo misura 64,38 m, è costituito da novepannelli di tela di lino di una larghezza di 50 cm circa e di lunghezza va-riabile tra i 6.60 m ai 13.75 m53. In questa sede ci si avvarrà comunque deltermine ‘arazzo’ perché di uso prevalente nell’identificazione del manu-fatto di Bayeux.

Gli eventi, oggetto della decorazione tessile, coprono un periodo di treanni: dall’invio di Aroldo II, cognato di re Edoardo di Inghilterra, in Nor-mandia nel 1064, al trionfo del Conquistatore ad Hastings alla fine del-l’anno 1066.

Gli avvenimenti storici sono rappresentati nel fregio centrale, ma i mar-gini, con le favole di Esopo, animali fantastici ed esotici e scene di vita quo-tidiana, svolgono una funzione decorativa e qualche volta allusiva rispettoalla scena centrale54.

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52 La numerazione delle scene corrisponde all’edizione di L. MUSSET, The BayeuxTapestry, Woodbridge 2005, da cui sono tratte le riproduzioni dell’arazzo. 53 Per gli aspetti tecnici: The Artefact as Textile, in The Bayeux Tapestry: Embroi-dering the Facts of History, cur. P.F. Bouet - B. Neveux- Levy, Caen 2004, pp. 65-123. 54 B. YAPP, Animals in Medieval Art: The Bayeux Tapestry as an example, «Jour-nal of Medieval History» 13, 1987, pp. 33-70; S.A. BROWN, The Bayeux Tapestry:a Critical Analysis of Publications 1988-1999, in The Bayeux Tapestry: Embroi-dering, pp. 40-41; MUSSET, The Bayeux Tapestry, pp. 72-75.

I personaggi e gli eventi storiciRe Edoardo, che apre il racconto fugurato dell’arazzo, era figlio del re

Etelredo II del Wessex e dellasua seconda moglie Emma diNormandia (figlia del ducaRiccardo I).

Nel 1013 i Danesi guidatida Sveyn I (Barbaforcuta)avevano conquistato l’Ighil-terra mentre Etelredo II erastato costretto a riparare inNormandia.

Alla morte di Sweyn nel1014, suo figlio Canuto II(detto il Grande) divise il go-verno dell’Inghilterra con Ed-mondo II, figlio di Etelredo edella sua prima consorte Æl-fgifu di Northumbria. Lamorte di Edmundo nel no-

vembre del 1016 lasciò Canuto come unico sovrano. Canuto sposò Emmadi Normandia, vedova di Etelredo, e proclamò il figlio, nato dalla lorounione, erede di Inghilterra e Danimarca. Questi, detto Canuto l’Ardito (IId’Inghilterra e III di Danimarca), nel 1035 riconobbe reggente d’Inghilterrasuo fratello Aroldo I (figlio di Canuto II e di Ælfgifu di Northampton) e nel1041 alla morte di questi chiese a Edoardo (figlio di Emma e di Etelredo II)di rientrare dall’esilio in Normandia per diventare suo co-regnante ed erede.

Nel 1042, alla morte di Canuto III, Edoardo assunse il trono inglese, ri-pristinando la linea reale sassone, e sposò Edith, figlia di Godwin, contedel Wessex e capo della fazione anglo-danese che aveva supportato Canutoil Grande e i suoi figli.

Nel 1064 re Edoardo inviò in Normandia suo cognato Aroldo II (fratellodi Edith) presso il duca Guglielmo, erede al trono inglese. Guglielmo era fi-glio illegittimo di Roberto I duca di Normandia (figlio di Riccardo II, fra-tello di Emma) e della sua concubina Hèrleve di Falaise. Nel 1050 avevaimposto la sua autorità in Normandia. Nel 1052, ritornato dall’Inghilterradove aveva incontrato Edoardo per discutere della successione al trono, siera unito in matrimonio con Matilda di Fiandra, figlia di Baldovino V e diAdele di Francia. La madre di Guglielmo aveva sposato il visconte nor-manno Herluin de Conteville, da questo matrimonio nacquero Odo vescovo

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Scena 1: Edoardo in trono

di Bayeux e Roberto conte di Mortain al quale il Conquistatore garantì laCornovaglia e il sud ovest dell’Inghilterra55.

È probabile che la missione di Aroldo in Normandia riguardasse la que-stione della successione al trono inglese. L’arazzo descrive il viaggio diAroldo, la sua prigionia presso Guido di Ponthieu, le negoziazioni per il suoriscatto e la liberazione per intervento del duca Guglielmo, il giuramento difedeltà al Conquistatore, la morte del Confessore, il tradimento e l’incoro-nazione di Aroldo, la reazione di Guglielmo e la battaglia di Hastings.

L’arazzo è certamente una fonte storica della massima importanza, ep-pure resta soprattutto un’opera d’arte. La tecnica del ricamo non consentivauna narrazione particolarmente dettagliata, ma, tenendo presente le sem-plificazioni visive imposte dal medium espressivo, le raffigurazioni propo-ste appaiono affidabili56.

La composizione dell’arazzo è cronologica e logica. Questo significache in qualche caso la sequenza delle scene privilegia l’armonia composi-tiva rispetto alla cronologia degli episodi che risultano invertiti57.

Si apre con Edoardo in maestà mentre al centro presenta Aroldo II co-ronato re. Non è possibile stabilire come in origine si concludesse il ricamoperché l’usura della tela ha portato alla perdita delle ultime scene.

Il racconto termina conla morte di Aroldo e lafuga degli Anglo-Sassoni.La scena finale verosimil-mente doveva ristabilire lalegittimità regale con Gu-glielmo I in maestà.

Iscrizioni in latino alettere capitali permettonodi identificare alcuni per-sonaggi e confermare ilsenso delle scene figurate.

La prima parte (scene1-30) si riferisce alla mis-sione di Aroldo in Nor-

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55 MUSSET, The Bayeux Tapestry, pp. 76-81; R. HUSCROFT, Ruling England (1042-1217), Edinburgh Gate 2005, pp. 3-20; F. NEVEUX, L’aventure des Normands.VIIIe-XIIIe siecle, Paris 2006, pp. 44-47, 95-97, 129-144.56 L. MUSSET, L’«Arazzo» di Bayeux, in I Normanni popolo d’Europa, p. 111.57 F. NEVEUX, The Bayeux Tapestry as Original Source, in The Bayeux Tapestry:Embroidering, pp. 190-193.

Scena 30: Aroldo in trono

mandia e al giuramento fatto a Bayeux sulle reliquie dei santi della catte-drale. Questa parte, alla quale si collegano gli episodi secondari della cat-tura di Aroldo da parte di Guido de Ponthieu e la spedizione militare inBretagna, termina con la morte di Edoardo e l’incoronazione di Aroldo.

La seconda parte (dalla scena 31 alla fine) riporta gli avvenimenti del-l’anno 1066: l’usurpazione di Aroldo e il suo tradimento, che provocaronola reazione del duca Guglielmo e la sua decisione di conquistare con laforza il trono che gli era stato destinato, la preparazione della spedizionemilitare e la battaglia d’Hastings che si chiude con la morte di Aroldo e lafuga degli Angli.

Le questioni storiograficheLa sola testimonianza relativa al ricamo fino al XVIII secolo (nel 1720

furono pubblicate a Parigi le incisioni di Nicolas-Joseph Foucault inten-dente di Caen), risale al 1476 quando risulta registrato nell’inventario deltesoro della cattedrale di Bayeux. Secondo la descrizione dell’inventario, ilricamo lungo e stretto con immagini e scritte riguardanti la conquista del-l’Inghilterra, era steso intorno alla nave della cattedrale durante la secondasettimana di luglio, comprendente l’anniversario della sua dedicazione.

Il dibattito storiografico si è concentrato sulla committenza, la destina-zione, la datazione, il luogo della sua manifattura questioni sulle quali, no-nostante la vasta letteratura, ancora esiste una sostanziale incertezza58.

Il committente Sebbene la tradizione locale (forse coeva alla riscoperta) faccia riferi-

mento alla regina Matilde moglie del Conquistatore, non ci sono evidenzeche possano supportare questa ‘romantica’ teoria.

Generalmente il committente dell’opera è indicato in Odo vescovo diBayeux, fratellastro del Conquistatore. Odo diventò conte del Kent dopo il1066, quando gli venne assegnato il patrimonio di Aroldo. Incarcerato pervolontà di Guglielmo nel 1082, terminò la carriera a Palermo, dove trovòla morte nel 1097, quando si trovava in viaggio verso Gerusalemme con iNormanni della prima crociata. Odo svolge una parte significativa nella descrizione figurata, inferiore soloa Guglielmo e Aroldo.

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58 Per la letteratura sull’argomento si rimanda a: S.A. BROWN, The Bayeux Tapes-try. History and bibliography, Woodbridge 1988, pp. 23-44; F. NEVEUX, The GreatBayeux Tapestry Debate (19th-20th Centuries), in The Bayeux Tapestry: Embroi-dering, pp. 17-25; BROWN, The Bayeux Tapestry: a Critical Analysis, pp. 27-47;MUSSET, The Bayeux Tapestry, pp. 14-17.

Scena 35: Gu-glielmo e Ododanno disposi-zioni per la co-struzione dellaflotta.

Il vescovo viene nominato due volte per nome e indubbiamente appare inaltri due punti dell’arazzo (scene 35, 43, 44, 54). Secondo la versione rica-mata, Odo gioca un ruolo importante nei preparativi della spedizione, dàordini per la costruzione della flotta e partecipa alla battaglia59. Tra i per-sonaggi identificati nell’arazzo, Vital e Wadard sono stati riconosciuti comesuoi vassalli. Per il suo status di vescovo in Normandia e di signore feudalein Inghilterra, si trovava nella posizione più favorevole per commissionareun lavoro tanto dispendioso come l’arazzo e la trasportabilità dell’operaavrebbe permesso al suo entourage di dislocare l’opera, per la sua esibi-zione, a seconda dell’opportunità.

La destinazione La tradizione secondo cui l’arazzo venisse steso ogni anno tra i pilastri

della navata della cattedrale di Bayeux durante la festa delle reliquie ha sug-gerito l’ipotesi che in origine fosse stato realizzato per la consacrazionedella cattedrale nel luglio 1077. La cattedrale fu ricostruita tra il 1049 e il1077 e consacrata il 14 luglio del 1077 alla presenza dell’arcivescovo Lan-franco, re Guglielmo e la regina Matilda. Secondo Musset, sarebbe stato ilmomento perfetto per presentare il ricamo60.

L’ipotesi alternativa indica nella hall di un castello o di una dimora si-gnorile la collocazione più adatta all’arazzo per le sue qualità secolari e itoni narrativi61.

L’identificazione della destinazione, religiosa o secolare, dipende il largaparte dall’interpretazione del tono dominante della narrazione, tuttavia, que-

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59 NEVEUX, The Bayeux Tapestry as Original Source, pp. 179-189.60 MUSSET, The Bayeux Tapestry, p. 16.61 C.R. DODWELL, The Bayeux Tapestry and the French Secular Epic, «The Burling-ton Magazine» 108, 1966, pp. 549-560.

sta distinzione appartiene alla riflessione moderna piuttosto che al punto divista medievale62. Molti studiosi, tra i quali Lucien Musset, suggerisconoche il ricamo combini storia secolare e ideale religioso e che il motivo do-minante sia celebrare la vittoria normanna come una conferma della vo-lontà divina in merito alla successione inglese. Il ricamo sembratestimoniare la fondatezza della conquista normanna, la morte di Aroldocome giusta punizione per il suo tradimento, la vittoria di Guglielmo comeindicazione di legittimità della sua successione, designata da Edoardo63.

È probabile che l’arazzo non fosse pensato per una posizione perma-nente e che sarebbe potuto essere esposto in entrambi i contesti (chiesa e pa-lazzo vescovile, qualora Odo ne fosse il committente) a secondadell’occasione64.

La datazioneLa questione della datazione è strettamente connessa alla questione della

destinazione.In assenza di documentazione, gli studiosi si sono serviti di indizi in-

terni, iconografici e formali.Le indagini di Wormald e Dodwell65, in particolare, hanno rappresen-

tato una svolta nello studio del ricamo. Manoscritti dell’XI secolo di pro-venienza inglese (come il Ms Cotton Claudius B IV e il Ms Harley 603della British Library) sono ormai considerati indicativi per il corpus di mi-niature che condivide affinità stilistiche con le immagini del ricamo e cheriflette probabilmente lo sfondo e la formazione dell’artista responsabiledei disegni preparatori.

L’opinione corrente e quasi unanime indica, dunque, per la datazionedel ricamo l’XI secolo, ma gli anni della sua manifattura oscillano tra il1066 e il 1096.

Il termine post quem è l’ottobre del 1066, data della battaglia di Ha-stings cui si riferisce l’ultima scena. La morte del vescovo Odo nel 1097 èl’ultima data possibile per l’arazzo di Bayeux, se davvero ne fu l’ispiratore.

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62 BROWN, The Bayeux Tapestry: a critical analysis, pp. 31-32.63 MUSSET, L’«Arazzo» di Bayeux, pp. 107-112; MUSSET, The Bayeux Tapestry, p.17 e pp. 76-81.64 BROWN, The Bayeux Tapestry: a Critical Analysis, p. 32.65 F. WORMALD, Style and Design, in The Bayeux Tapestry. A Comprehensive Sur-vey, cur. F. Stenton, London 1957, pp. 25-36; C.R DODWELL, L’originalitè icono-graphique de plusieurs illustrations anglo-saxones de l’Ancient Testament,«Cahiers de Civilisation Médiévale» 14, 1971, pp. 319-328; C.R DODWELL, Laminiature Anglo-Saxonne. Un reportage sur la société contemporainé, «Dossiersde l’Archéologie» 14, 1976, pp. 56-63; C.R DODWELL, Anglo-Saxon Art: A NewPerspective, Manchester 1982.

Pierre Bouet suggerisce che l’arazzo sia stato completato entro un paiodi anni dalla battaglia di Hastings66.

Per coloro i quali l’arazzo fu concepito per la consacrazione della cat-tedrale di Bayeux, nel luglio 1077, questa diventa il suo terminus ante quem.Per quelli che privilegiano l’ipostazione laica, la rottura tra il vescovo Ododi Bayeux e il fratello Guglielmo avvenuta nel 1082 diventa la data entrola quale il ricamo deve essere stato creato67.

Chi preferisce attardare la data di realizzazione, come la Brown, avanzal’ipotesi che potrebbe essere stato commissionato da Odo, come dono perGuglielmo, proprio durante il periodo del loro contrasto (1082-1087) cometentativo di riconciliazione, ricordandogli il sostegno offerto durante l’in-vasione dell’Inghilterra68.

Il luogo di produzione Non meno controverso, il luogo di produzione è stato rintracciato in In-

ghilterra o in Normandia.La tesi che il ricamo sia stato realizzato nel sud dell’Inghilterra si basa

sulle somiglianze stilistiche con miniature anglosassoni, alcune idiosincra-sie nelle iscrizioni latine e la fama della produzione tessile del Kent nel me-dioevo.

Le iscrizioni, in particolare, rivelano peculiarità ortografiche e influenzeanglo-sassoni nelle abbreviazioni69.

Attualmente, molti specialisti, sia britannici sia francesi, condividonol’idea che l’arazzo sia stato prodotto nel sud dell’Inghilterra: Canterbury,Winchester, Worcester e Wilton sono state indicate di volta in volta come ipossibili luoghi di produzione. A seguito delle indagini formali, l’opinionepiù diffusa indica in un monaco di Canterbury il responsabile del disegno.

La provenienza inglese, tuttavia, è stata negata dal Grape che per primone ha ravvisato l’origine in Normandia, con molta probabilità nella stessaBayeux. L’analisi del Grape si fonda su un’estesa disamina di miniature esculture continentali dell’XI secolo in funzione della quale può collocare ilricamo in un contesto culturale ben più ampio di quello anglosassone70.

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66 P. BOUET, Is the Bayeux Tapestry Pro-English?, in The Bayeux Tapestry: Em-broidering, pp. 213-214.67 MUSSET, The Bayeux Tapestry, p. 16.68 BROWN, The Bayeux Tapestry: a Critical Analysis, p. 34.69 MUSSET, The Bayeux Tapestry, pp. 34-39.70 W. GRAPE, The Bayeux Tapestry: Monument to a Norman Triumph, Munich-New York 1994.

In ogni caso al di là del luogo di produzione, come afferma Neveux, ilricamo può considerarsi il primo prodotto di una società in evoluzione‘anglo-normanna’ che ha in Odo il leader più rappresentativo71.

Il messaggio Deliberatamente enigmatico sembra il senso da attribuire al ricamo. Gli

studiosi ne hanno indagato i livelli di significato, le strategie narrative(esplicito-propagandistiche e implicito-sociali), i dialoghi silenti, le refe-renze intratestuali. Il ricamo si presta a multivalenti interpretazioni che pre-vedono il coinvolgimento del pubblico (come in una performance) nellacostruzione del suo significato.

Se per molto tempo il ricamo è stato interpretato dal punto di vista nor-manno, come una versione degli eventi che intendesse celebrare la conqui-sta, l’ipotesi di una manifattura anglosassone ha rivelato le contraddizionidi una simile lettura72. La questione è stata approfondita da Wissolik, Ber-nstein e Bachrach. Bernstein, in particolare, ritiene che il ricamo contengal’animus anglosassone nelle scene allegoriche dei bordi, e che nasconda unmessaggio sovversivo: la speranza di liberazione dagli oppressori prefigu-rata dalla morte di Aroldo, accecato da una freccia come re Zedekiah, uc-ciso da Nabucodonosor di Babilonia per essersi ribellato alla sua autorità73.

Per Musset la principale motivazione dell’opera è religiosa: mostrare at-traverso l’illustrazione delle disgrazie capitate ad Aroldo e al popolo in-glese quali conseguenze provocasse l’inosservanza di un giuramentosolenne prestato sulle sante reliquie74.

Aroldo IITra i protagonisti dell’arazzo un ruolo di primo piano è svolto senza dub-

bio da Aroldo che viene mostrato 27 volte. Nato tra il 1020 ed il 1026, erasecondo figlio del potente Godwin conte del Wessex e della consorte daneseGytha Thorkelsdaettir. Nel 1051 una crisi politica determinò l’espulsione diGodwin e della sua famiglia. Mentre il padre fu esiliato nelle Fiandre, Aroldofuggì in Irlanda. Nel 1052 i Godwin rientrarono in Inghilterra, ristabilironoil loro potere e furono reintegrati dei loro possessi. Alla morte del padre e delfratello maggiore, Aroldo fu riconsciuto conte del Wessex.

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71 NEVEUX, The Bayeux Tapestry as Original Source, p. 179.72 BROWN, The Bayeux Tapestry: a Critical Analysis, p. 37.73 R.D. WISSOLIK, The Saxon Statement: Code in the Bayeux Tapestry, «AnnualeMedievale» 19, 1979, pp. 69-97; D.J. BERNSTEIN, The Mystery of the Bayeux Tap-estry, London 1986, pp. 144-195; B. BACHRACH, Some Observations on the BayeuxTapestry, «Cithara» 27, 1987, pp. 5-28.74 MUSSET, The Bayeux Tapestry, p. 17 e pp. 76-81.

Divenuto re, combattè strenuamente contro Aroldo Hardrada di Norve-gia, che rivendicava il trono d’Inghilterra, con il quale, intanto, si era al-leato il fratello del sovrano, Tostig, deposto conte di Northumbria. AroldoII sconfisse i suoi rivali in una memorabile battaglia a Stamfordbridge (25settembre), uccidendo entrambi sul campo di battaglia (poco prima di essereucciso egli stesso ad Hastings, il 14 ottobre).

Scena 23: Aroldopresta giuramento aGuglielmo

Guglielmo di Ju-mieges, Guglielmodi Poitiers e la VitaEdwardi regis necondividono la lode,concordano nel de-

scrivere la ricchezza, l’onorabilità, e il prestigio di Aroldo75. L’arazzo descrive un Aroldo nobile e coraggioso, ne mette in luce le

qualità morali, politiche e militari: la pietas nella preghiera a Bosham primadella partenza (scena 4); l’autorevolezza al timone della nave (scena 5); ilcoraggio di fronte a Guido di Ponthieu (scena 6); l’abilità politica nel con-durre negoziati (scena 9); l’eroismo mostrato nell’attraversamento del fiumeCouesnon, nella baia di Mont Saint Michel, quando salva la vita a due Nor-manni dalle sabbie mobili (scena 17); l’abilità militare nella spedizione Bre-tone per la quale ottiene il riconoscimento di Guglielmo (scena 21); ladeferenza nei confronti di re Edoardo (scene 1, 25, 27), persino la sua in-coronazione è presentata come una scelta dei membri della Witanegemonte non come una sconveniente iniziativa personale (scena 30)76.

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75 The Gesta Normannorum ducum of Guglielmo of Jumieges, ed. E. Van Houts,Oxford 1992-1995, II 7, c. 13 (31), pp. 158-161; Guillaume de Poitiers, Gesta Guil-lelmi ducis Normannorum et regis Anglorum, ed. R.H.C. Davis – M. Chibnall, Ox-ford 1998, I 41, pp. 68-69; Vita Edwardi regis, pp. 408-409. In proposito si vedaH.E.J. COWDREY, King Harold II and the Bayeux Tapestry. A Critical Introduction,in King Harold II and the Bayeux Tapestry, cur. G.R. Owen-Crocker, Woodbridge2005, pp. 1-15.76 MUSSET, The Bayeux Tapestry, Parte II, Commentary, pp. 86-89; NEVEUX, TheBayeux Tapestry as Original Source, pp. 171-195; BOUET, Is the Bayeux TapestryPro-English?, pp. 197-215.

Una lettura neutrale della rappresentazione di Aroldo nell’arazzo diBayeux mostra chiaramente come questi incontrasse il favore del commit-tente dell’opera e del suo designer. Al riguardo sono state fornite divergentispiegazioni77: il ritratto favorevole di Aroldo, ad esempio, poteva risultarefunzionale a magnificare le gesta del Conquistatore, in grado di trionfare suun avversario tanto valoroso, nel solco della tradizione epica, ovvero a con-dannare Aroldo per non aver mantenuto fede al giuramento prestato, perchécon le sue qualità a rege secundus erat 78.

La benevolenza assegnata ad Aroldo e la discrezione con cui l’arazzo favalere le prerogative normanne sul trono inglese, potrebbe essere spiegatacon la linea politica di conciliazione prevista dal Conquistatore subito dopola sua vittoria ad Hastings79.

Secondo Bouet, l’arazzo di Bayeux può essere considerato come un‘open work’ aperto a due linee di interpretazione, a seconda che il ‘lettore’sia Inglese o Normanno80. Presenta un doppio focus, apparentemente con-traddittorio, mentre celebra il trionfo del vincitore, ritrae la nobiltà dei vinti.Quest’ambiguità non è il risultato di un puro caso ma una scelta deliberatada parte dei progettisti, che hanno voluto affermare la legittimità normannae riconoscere la dignità inglese, rendere omaggio al vincitore senza deni-grare i vinti. In questo modo, l’arazzo di Bayeux varrebbe come un

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77 Cfr. BOUET, Is the Bayeux Tapestry Pro-English?, p. 203.78 Guillaume de Poitiers, Gesta Guillelmi, I 42, pp. 70-71.79 BOUET, Is the Bayeux Tapestry Pro-English?, p. 208. In proposito, cfr. P. BAUDIN,Les modèls anglo-normands en questions, in Nascita di un regno. Poteri signorili,istituzioni feudali e strutture sociali nel Mezzogiorno normanno (1130-1194), cur.R. Licinio - F. Violante, Bari 2008, pp. 54-61.80 È il caso della scena 14 che rappresenta la morte di Edoardo. Sul suo letto, allapresenza di sua moglie Edith e di un sacerdote, Edoardo sta parlando a un nobileche può essere solo Aroldo. L’iscrizione è estremamente vaga. Edoardo potrebbeaver indicato Aroldo come leggittimo successore (come attestano l’Anglo-SaxonChronicle: testo E, ed. M. Swanton, New York 1998, p. 195 e il Chronicon exchronicis di Florence di Worcester, ed. B. Thorpe, London 1848-1849, I, pp. 224-225), ovvero avrebbe potuto incaricare Aroldo di proteggere il regno fino a realiz-zare la successione di Guglielmo (secondo la versione di Guillaume de Poitiers,Gesta Guillelmi, I 42, pp. 70-71, ripresa da Wace, The Roman de Rou, ed. G.S.Burgess - E. Van Houts, Jersey 2002, III vv. 5673-5680, p. 222). Il Conquistatoreè il legittimo erede al trono secondo la legge normanna, perché il primo ad esserestato designato, mentre Aroldo è il legittimo erede al trono secondo la legge in-glese, perché ultimo designato. Aroldo ha giurato di sostenere Guglielmo: per iNormanni si è trattato di un giuramento sacro, la cui rottura equivale a falsa testi-monianza; mentre per gli Inglesi potrebbe essersi trattato di un giuramento “con-dizionato” ad una decisione che Edoardo aveva revocato poco prima della suamorte, in BOUET, Is the Bayeux Tapestry Pro-English?, pp. 209-210.

promemoria: la vittoria finale non è in alcun modo dovuta ai meriti degli uo-mini ma è un dono concesso da Dio. Se si segue quest’argomentazionel’ideazione dell’arazzo verrebbe a collocarsi subito dopo la battaglia e il ri-camo stesso sarebbe stato realizzato molto rapidamente, tra il 1067-6881.La presenza dell’arcivescovo Stigand all’incoronazione di Aroldo confer-merebbe una data entro il 1070, quando fu rimosso dalla sede di Canter-bury82.

Tutto fa pensare ad un programma iconografico congiuntamente ideatoda artisti insulari e continentali. Un lavoro di propaganda forse destinatoad essere trasportato dalla chiesa al palazzo e dal palazzo in chiesa, sia inInghilterra sia in Normandia. Gli inglesi avrebbero ammirato il loro eroesfortunato, ma nobile e valoroso, mentre i Normanni avrebbero celebrato illoro dux, esultante e vittorioso83.

Dal punto di vista artistico, Musset e Baylè sono dell’avviso che il dis-egno preliminare sia stato realizzato da un artista (eventualmente assistito)nello/dello scriptorium di Canterbury e che il ricamo, sebbene di origineinglese, debba essere inserito nel contesto dell’Europa occidentale al qualeappartengono sia l’Inghilterra anglosassone che la Normandia ducale, in unmilieu culturale fortemente influenzato dal mondo scandinavo84.

I libri di AroldoNel suo trattato di astoreria, De cura accipitrum (inizi XII secolo), Ade-

lardo di Bath sostiene di aver usato tra le fonti «i libri di Aroldo» (c.1): «Eaigitur disseremus que et modernorum magistrorum usu didicimus et nonminus que Haraoldi regis libris reperimus scripta»85, sollevando la questionedell’esistenza di un trattato di falconeria inglese più antico. Come fa rilevareHaskins, la frase è piuttosto vaga non solo perchè ci fu più di un sovrano conquel nome ma anche perché i libri potrebbero essere stati scritti da lui o de-

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81 BOUET, Is the Bayeux Tapestry Pro-English?, pp. 213-214. Probabilmente com-pletato entro la fine del 1067 dato che Eustace di Boulogne, presente nella scena55 tra le fila dell’esercito del Conquistatore, si ribellò al duca nel settembre del1067: BOUET, Is the Bayeux Tapestry Pro-English?, pp. 187-188.82 B. ENGLISH, The Coronation of Harold in The Bayeux Tapestry, in The BayeuxTapestry: Embroidering, pp. 377-378; F. NEVEUX, The Cerisy Colloqium Conclu-sions, in The Bayeux Tapestry: Embroidering, p. 405.83 BOUET, Is the Bayeux Tapestry Pro-English?, pp. 214-215.84 MUSSET, The Bayeux Tapestry, p. 22; M. BAYLÈ, The Bayeux Tapestry and Dec-oration in North-Western Europe: Style and Composition, in The Bayeux Tapes-try: Embroidering, pp. 305-325.85 Adelard of Bath, Conversations with his nephew: On the same and the different,Questions on natural science, and on birds, ed. Ch. Burnett et alii, Cambridge1998, pp. 238-239.

dicati a lui. Se si assume che si tratti di Aroldo II «la cui devozione alla fal-coneria – secondo Haskins e Burnett – è illustrata dall’arazzo di Bayeux»,i libri di Aroldo potrebbero essere sopravvissuti in una biblioteca reale nor-manna, dove avrebbe potuto consultarli Adelardo, al tempo di Henry I86.

Signum domini o dono diplomatico?È il momento di soffermarsi sulle scene con i rapaci per comprenderne ilsenso ed il rilievo storico 87.

Scena 2: Aroldo e i suoi cavalieri si dirigono verso Bosham

La scena 2 mostra Aroldo in tutto lo splendore del suo rango, a capodella scorta, il falco sul pugno e i cani da caccia che lo precedono. Cinquecavalieri inglesi, baffuti, disarmati e in abiti civili, fanno parte del suo se-guito. Lo individua l’iscrizione con il titolo di dux Anglorum. SecondoBouet, questo uso del termine dux è tanto più sorprendente in quanto, subitodopo la conquista, il titolo di comes è stato utilizzato come l’equivalentelinguistico di earl. Nelle carte reali di Guglielmo I, solo Edwin conte diMercia e Waltheof conte di Northumbria sono chiamati dux, in compagniadi Guglielmo Rufus e Roberto Courteheuse, figli del Conquistatore. L’is-crizione dell’arazzo intende porre l’accento sul ruolo di prestigio svolto daAroldo nel regno d’Inghilterra e lo pone allo stesso livello di Guglielmo diNormandia, dux Normannorum88.

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86 C.H. HASKINS, King Harold’s Books, «English Historical Review» 37, 1922, p.399; Adelard of Bath, Conversations with his nephew, p. XXXV (per l’edizionedel testo, pp. 238-267).87 Per la disamina delle scene cfr. MUSSET, The Bayeux Tapestry, Parte II, Com-mentary, pp. 86-91.88 BOUET, Is the Bayeux Tapestry Pro-English?, p. 198.

Scena 4: Aroldo sta per imbarcarsi alla volta della Normandia

Nella scena 4 due Inglesi stanno per imbarcarsi, a piedi nudi nell’acquabassa tirano su le loro vesti e issano due cani da caccia. Il primo è senza dub-bio Aroldo con un falco sul pugno. Alle loro spalle, in attesa sulla spiaggia,due aiutanti che trasportano remi o pali e un qualche tipo di scalmiere ogirone. Questa scena, a differenza di quella dell’imbarco del Conquistatore(scena 37), non mostra nessun carico di armi o di forniture militari.

La neutralità, forse deliberata, della didascalia ha aperto un dibattito sulmotivo del viaggio di Aroldo. Diverse le ipotesi avanzate, molto probabil-mente Aroldo fu inviato presso Guglielmo per discutere della successioneal trono inglese; oppure per trattare il rilascio di suo fratello e suo nipote,Wulfnoth e Hakon, ostaggi dei Normanni da dodici anni (un suggerimento,questo, del quasi contemporaneo Eadmer, successivamente confermata daWace89); o forse stava considerando il matrimonio con Adela, figlia diGuglielmo90.

Durante il viaggio la nave fa naufragio a causa di una tempesta. Appenasbarcati, Aroldo viene sequestrato da due uomini armati, agli ordini delconte Guido di Ponthieu.

In quel tempo, secondo la testimonianza di Guglielmo di Poitiers e Gu-glielmo di Malmesbury91, la tratta delle vittime di naufragio era un’attività

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89 Eadmeri Historia Novorum in Anglia, ed. M. Rule, London 1884, p. 6; Wace, TheRoman de Rou, III vv. 5439-5444, p. 218 e vv. 5585-5587, p. 220.90 Cfr. The Gesta Normannorum ducum, II 7, c. 13 (31), p. 160; Wace, The Romande Rou, III vv. 5677-5679, p. 222.91 Guillaume de Poitiers, Gesta Guillelmi, I 41, pp. 68-69; Willelmi Malmesbrien-sis monachi De gestis regum Anglorum, I 2, p. 279.

comune lungo le coste nord occidentali dell’Europa quale importante fontedi reddito per le signorie costiere. Fu solo nel 1150, nei primi anni del regnodi Enrico II, che questo costume fu soppresso.

Guido I di Ponthieu aveva ereditato la contea nel 1053 dopo la morte inbattaglia di suo fratello Enguerrand II. Questi si era scontrato inutilmentecon il potere normanno e Guido aveva dovuto riconoscersi come vassallodi Guglielmo nel 1059. Egli potrebbe aver preso parte con il fratello e il fi-glio, alla battaglia di Hastings nelle fila dell’esercito normanno. Morì nel1100. I cronisti Anglo Normanni gli prestano poca attenzione. Guglielmo diMalmesbury lo definisce semiviro Guidoni, forse a causa del suo compor-tamento nei confronti Aroldo in questo episodio92.

Aroldo viene condotto al castello di Beaurain (Beaurainville in Pas-de-Calais). Se Guglielmo di Poitiers e Guglielmo di Jumièges93 scrivono cheAroldo e i suoi compagni furono incarcerati, l’arazzo al contrario mostraAroldo trattato come un ospite di riguardo.

Scena 8: Aroldo viene fatto prigioniero

Nella scena 8 anche se è ancora circondato da un distaccamento di ca-valieri, gli è concesso l’onore del rango: al pari del conte Guido, è ancoramostrato con un falco sul pugno e i cani al seguito. I suoi accompagnatori,sebbene armati di scudo e freccia, non sono in armatura e il suo status di pri-gioniero è ambiguo: la didascalia sottolinea con enfasi che Guido eum te-nuit.

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92 Willelmi Malmesbriensis monachi De gestis regum Anglorum, I 2, p. 279.93 «Capti in custodiam traduntur ipse et comitatus eius», in Guillaume de Poitiers,Gesta Guillelmi, I 41, pp. 68-69; «quem idem comes captum cum suis confestimin custodia trusit», in The Gesta Normannorum ducum, II 7, c. 13 (31), p. 160.

Scena 8: Aroldo viene condotto a Beaurain dal conte Guido

Questa è la scena dell’arazzo nella quale più di tutte i rapaci assumonoun significato preciso di riconoscimento sociale. Il “prigioniero” e il suo“oppressore” superano la dicotomia dei rispettivi ruoli per riconoscersi nel-l’appartenenza alla medesima classe sociale (più che il trasferimento di unprigioniero sembra un’aristocratica battuta di caccia). I due comes, condi-vidono il titolo e con esso il sistema di valori cortesi e cavallereschi chepresto troveranno espressione nella fusione anglo-normanna delle rispet-tive culture. Non c’è motivo per il quale in questa scena il conte Guidodovrebbe apparire con il falco se non l’autoderminazione di classe94.

Cattedrale di Winchester, fonte battesimale con storie di San Nicola

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94 Anche nell’iconografia cristiana dei Santi, Louis Reau individua il falcone come«emblème de haute niassace» in diversi casi, tra i quali: Bavone di Gand (III-1, p.189); Uberto (III 2, pp. 685-663); Giuliano l’Ospedaliere (III 2, pp. 766-769); Ti-baldo di Provins (III 3, pp. 1264-1265), in L. REAU, Iconographie de l’art chretien.Iconographie des Saints, III, Paris 1958-1959. Cfr. C. BECK - E. REMY, Le faucon,favori des princes, Paris 1990, pp. 58-59.

Scena 13: Guido e Aroldo incontrano Guglielmo

A questo proposito può risultare utile un confronto con il fonte battesi-male, con storie di San Nicola, della cattedrale di Winchester degli inizi delXII secolo. Secondo la tradizione agiografica, cui fa riferimento lo scul-tore, il santo salvò dalla cattiva sorte tre ragazze troppo povere per trovaremarito lasciando per tre notti nell’umile casa un sacco (o una palla) d’orozecchino: la dote permise alle fanciulle di fare un buon matrimonio e alpadre della sua estrazione sociale95.

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95 OWEN-CROCKER, Hawks and Horse-Trapping, p. 224. Per esempi analoghi ma piùtardi (secc. XIII-XIV), cfr. H. PETERS, Falke, Falkenjagd, Falkner and Falkenbuch,in Reallexikon zur deutschen Kunstgeschichte, VI, cur. O. Schmitt, München 1973,coll. 1316-1317; per il ricco corredo iconografico cfr. anche DE CHAMERLAT, Lafauconnerie et l’art.

Nell’arazzo, dunque, il falcone diventa «icona di cortesia»96, specchiodel nobile e della sua superiorità culturale ed economica, veicolo della rap-presentazione del potere.

A Beaurain, Guido garantì al suo prigioniero un’udienza formale. Nonsi conosce l’argomento della loro conversazione, ma dovette trattarsi delsuo riscatto. I negoziati sarebbero stati presto intrapresi con la corte nor-manna. Aroldo non è certo in una posizione di forza e appare adeguata-mente deferente al suo rapitore, gli si avvicina a piedi porgendogli la spadae la didascalia laconicamente riporta Aroldo et Wido parabolant.

Il dramma iniziato con la cattura di Aroldo raggiunge il suo climax nellascena 13. Due contingenti di cavalieri armati avanzano l’uno verso l’altro.

Alla testa del gruppo di sinistra sono Guido e Aroldo, ciascuno con ilproprio falcone come nella scena 8. Guido indica con la mano destra Aroldoal duca di Normandia che guida l’altro contingente. I cavalieri di entrambele truppe sebbene armati non indossano l’elmo e l’usbergo.

Scena 14: Aroldo e Guglielmo fanno ritorno a Rouen

Nella scena 14 il contingente normanno torna a Rouen. Guida il corteoAroldo, identificabile dai caratteristici baffi, preceduto dai suoi cani, losegue il Guglielmo con un falcone sul pugno.

Si può notare, in effetti, che i falconi accompagnano Aroldo, nonostante

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96 A. FERIOLI, Falchi e falconieri nella letteratura medievale italiana, «Quadernimedievali» 53, 2002, pp. 6-21; cfr. J.O. BENOIST, La chasse au vol. Techniques dechasse et valeur symbolique de la volerie, in La Chasse au Moyen Age, p. 124; B.VAN DEN ABEELE, Le Faucon sur la main. Un parcours iconographique médiéval,in La Chasse au Moyen Age: societe, traites, symboles, cur. A. Paravicini Baglianie B. Van Den Abeele, Firenze 2000, pp. 95-96.

le sue vicissitudini, fino a quando non raggiunge il palazzo di Guglielmo aRouen, da quel momento scompaiono.

Come rileva Dodwell97, si sa dai poemi epici che falchi e cani eranoritenuti doni molto preziosi, erano, per esempio, tra i regali promessi dal repagano Marsilio a Carlo Magno nella Chanson de Roland, e Wace, scriveche Edoardo (a. 1051) aveva offerto a Guglielmo «mult li dona chiens eoisels e altres aveirs boens e bels, e quantque il trover poeit, que a hauthome conveneit»98.

È dunque possibile che il falcone condotto da Aroldo in Normandia fosseun dono diplomatico per il duca? Questi, secondo Guglielmo di Poitiers,«saepe falconum, saepissime accipitrum volatu oblectatur»99. Il futurosovrano, in effetti, avrebbe confermato tra i membri della sua household gliastorieri e i falconieri di re Edoardo, accanto ai quali il Domesday Book re-gistra al suo servizio altri sei astorieri: Osbern che possedeva terre nelloHampshire100; Bernard con 60 acri nel Berkshire101; Savino con proprietànell’Huntingdon e nel Cambridgeshire (poco prima del 1086 Sauuinus ac-cipitrarius aveva ricevuto dall’abate di Ramsey in Hemingford, ob amo-rem regis, 120 acri nel Cambridgeshire che un tale Godric ancipitrarius102,uomo dell’abate di Ramsey, aveva posseduto al tempo di re Edoardo)103;Judikell già astoriere del conte Rodolfo di Norfolk104; Edric di Norfolk105

(forse già in servizio per Edoardo, ma la questione è ancora aperta106) ed unastoriere anonimo107. Un Arnolfo o Arnaldo falconarius di Oxfordshire,Wilthshire e Northamptoshire, invece, è registrato nei documenti di SaintOsmund di Salisbury108.

Di questi, gli astorieri, Savino, Judikell, Sivardo e probabilmente Toli,

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97 DODWELL, The Bayeux Tapestry and the French Secular Epic, p. 554 nota 33;YAPP, Animals in Medieval Art, p. 31.98 Wace, The Roman de Rou, III vv. 5405-5408, p. 216.99 Guillaume de Poitiers, Gesta Guillelmi, I 17, pp. 24-25.100 Domesday-Book, I, fol. 49v (cfr. DB. Traslation, p. 121).101 Domesday-Book, I, fol. 63 (cfr. DB. Traslation, p. 158).102 Inquisitio Comitatus Cantabrigiensis, ed. N.E.S.A. Hamilton, London 1876, p.92 col. A; cfr. OGGINS-OGGINS, Hawkers and Falconers, p. 80 nota 6.103 Domesday-Book, I, fol. 201, 204v, 208 (cfr. DB. Traslation, p. 546, 554, 561).104 Domesday-Book, II, fol. 125 (cfr. DB. Traslation, p. 357), cfr. BARLETT, Eng-land, p. 241.105 Domesday-Book, II, fol. 272 (cfr. DB. Traslation, p.1178).106 OGGINS, Falconry in Anglo-Saxon England, p. 204, nota 68.107 Domesday-Book, I, fol. 24 (cfr. DB. Traslation, pp. 57-58).108 Cfr. OGGINS-OGGINS, Hawkers and Falconers, p. 66, p. 84 nota 24.

insieme ad Ared falconarius109, sono i primi possessori noti di sergeanty te-nures (proprietà terriere concesse in feudo in cambio di servigi personali),ancora esistenti nel XIII secolo110. Secondo il Domesday Book, inoltre, lecontee di Wiltshire, Oxford, Northampton e Warwick e la città di Leicesterdovevano ognuna al re 10£ all’anno per un astore; la contea di Worcesterdoveva 10£ oppure un astore norvegese111; e non mancano le registrazionidi astori (o sparvieri in un caso) concessi in luogo di pagamenti112.

Il dono del falcone al futuro sovrano di Inghilterra, suggerito dal ricamodi Bayeux, corrisponde ad una scelta precisa di valori e modelli. In primoluogo, l’atto del donare e quello di ricevere il dono (e del ricambiarlo), cos-tituiscono il fondamento della società feudale, in nome di ideali quali il do-vere, l’onore, l’amicizia, e la liberalità (pro signo veri amoris et devoteamicitiae aveva scritto san Bonifacio), ebbene, tra i doni più significativiche si potessero offrire vi era senz’altro il falcone. Nel contesto dell’arazzoil gesto di Aroldo si presta ad essere letto come un dono ‘nobile’ fra ‘nobili’,un gesto politico, con un intento pacifico, che prefigura accordi di naturadiplomatica. Dal punto di vista di Guglielmo ricevere il dono esprimebenevolenza verso il suo messaggero113.

Nella scena precedente anche il conte Guido mostrava un falcone, per-chè? Verosimilmente riteneva di dover compiere lo stesso gesto cortese neiconfronti del duca di Normandia, atto a celare il mercimonio della liber-azione di Aroldo. Guglielmo di Poitiers scrive che il conte fu lautamente ri-compensato dal Conquistatore: «terras tradidit amplas ac multum opimas,addidit insuper in pecuniis maxima dona»114.

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109 Regesta Regum Anglo-Normannorum, I, ed. H.W.C. Davis - R.J. Whitwell, Ox-ford 1913, p. 90, n. 347; Regesta Regum Anglo-Normannorum, II, ed. C. Johnson- H.A. Cronne, Oxford 1956, p. 38, n. 673; p. 75, nn. 854-856; p. 95, n. 956; p. 96,n. 961.110 OGGINS-OGGINS, Hawkers and Falconers, p. 66. cfr. M. CARAVALE, Ordinamentigiuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, pp. 326-329 111 Domesday-Book, I, fol. 64v, 154v, 219, 238, 230, 172 (cfr. DB. Traslation, p.162, 424, 589, 650, 627, 474).112 Domesday-Book, I, fol. 36v, 179v, 187, 256, 259, 264, 310v; II, fol. 117v, 118v(cfr. DB. Traslation, p. 87, 495, 515, 702, 710, 721, 814, 1058).113 Per altri esempi FERIOLI, Falchi e falconieri, pp. 21-25. Cfr. BENOIST, La chasseau vol, p. 124; B. VAN DEN ABEELE, La fauconnerie dans les lettres francaises du12. au 14. siecle, Leuven 1990, pp. 37-40; B. VAN DEN ABEELE, Falconeria, in En-ciclopedia dell’arte medievale, VI, cur. A.M. Romanini, Roma 1995, p. 75; B. VANDEN ABEELE, Le Faucon sur la main, pp. 96-98.114 Guillaume de Poitiers, Gesta Guillelmi, I 41, p. 70. Wace precisa che al contefu concessa una tenuta sulle rive del fiume Eaulne, cfr. Wace, The Roman de Rou,III vv. 5663-5664, p. 222.

I rapaciÈ opportuno dire in premessa che per identificare gli uccelli gli orni-

tologi valutano diverse caratteristiche, quali il colore, la taglia, il rapportotra la coda e le ali, il volo, ma riconoscere gli uccelli ricamati su un supportotessile, come in questo caso, è piuttosto complesso, innanzitutto perché inconseguenza del mancato realismo dell’iconografia medievale questi ele-menti sono più difficili da decifrare. Il colore, inoltre, non è sempre un in-dizio attendibile, sia per la disponibilità di una gamma ridotta sia perchèl’esposizione alla luce potrebbe aver danneggiato i tessuti, e non ultimo ilductus del disegno potrebbe risultare alterato per ragioni meccaniche, pereffetto dello stiramento o della contrazione delle fibre. Altre caratteristiche,dunque, devono esere usate nell’analisi quali la forma, le proporzioni tra leparti, l’attitudine degli uccelli e soprattutto il contesto della rappresen-tazione115.

Se osserviamo i rapaci dell’arazzo, tenendo a mente le semplificazioneimposte dal medium, è tuttavia possibile identificarne la specie.

La classificazione medievale, distingueva tra i rapaci i falconidi, adattiagli spazi aperti, con ali strette, lunghe, terminanti a punta, e una silhouetteasciutta, e gli accipitridi, adatti a zone boschive, dotati di ali più larghe,corte, non appuntite, e con la coda più lunga.

In base a questa distinzione il rapace che Aroldo mostra sul pugno nellescene 2, 4, 8, 13 è un accipitride, in relazione alla taglia molto verosimil-mente è un astore (accipiter gentilis), lo stesso dicasi per Guido nella scena8 e nella scena 13 e Guglielmo nella scena 14.

Nel tardo medioevo gli astori erano considerati socialmente inferiori aifalconi116 ma questa distinzione non sembra valida al tempo degli Anglo-sassoni (si è detto che re Alfredo aveva entrambe le specie).

Il rapace di Guglielmo mostra chiaramente non solo i geti intorno allezampe, usati per trattenere il rapace, ma anche i sonagli intorno alla codache ne facilitano la localizzazione117.

I rapaci di Bayeux hanno le ali striate con una funzionalità innaturale,differiscono nei colori, ma sembrano della stessa specie. Il rapace mostratoda Aroldo nella scena 13, secondo Yapp, si differenzia dagli altri per una

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115 YAPP, Animals in Medieval Art, p. 26.116 Libro di st. Alban (XV sec), in J. CUMMINS, The Hound and the Hawk: the Artof Medieval Hunting, London 1988, pp. 188-194. Cfr. D. EVANS, The Nobility ofKnight and Falcon, in The Ideals and Practice of Medieval Knighthood III. Pa-pers from the Fourth Strawberry Hill Conference 1988, cur. C. Harper-Bill – R.Harvey, Woodbridge 1990, pp. 79-99.117 Cfr. OWEN-CROCKER, Hawks and Horse-Trapping, p. 228.

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Scena 2: Aroldo Scena 4: Aroldo Scena 8: Guido

Scena 8: Aroldo Scena 13:Aroldo Scena 13: Guido

Scena 14: Guglielmo Scena 6, bordo inferiore Scena 49, bordo inferiore

maggiore aderenza alla realtà: questo potrebbe indicare l’intervento di un ri-camatore diverso dagli altri, esperto di astori118.

Accipiter gentilis e accipiter nisus furono entrambi utilizzati nel volodai re inglesi. Il primo raggiunge una lunghezza tra i 46 e i 63 cm edun’apertura alare tra 89-122 cm; la femmina pesa tra 820 g-2.20 kg, il ma-schio tra i 517 g-1.11 kg. Il secondo raggiunge una lunghezza tra i 28 e i 40cm ed un’apertura alare tra 56-78 cm; la femmina pesa 185-350 g, il ma-schio 105-196 g. In Inghilterra gli astori avevano un maggior valore eco-nomico (in effetti, l’accipiter nisus nativo poteva essere utilizzato anche daun membro non nobile della società dedito all’uccellagione119). Nel regnodi Edoardo I gli uomini responsabili degli astori ricevevano un onorario di20s l’anno, quelli degli sparvieri di 10s. L’astore bianco era particolarmentestimato e in particolare l’astore della Scandinavia. In Inghilterra erano uti-lizzati soprattutto per le anatre, i fagiani, le pernici e i corvi120.

La lepre è la selvaggina più comune per gli astori, nel bordo inferioredella scena 49 (in cui Guglielmo interroga Vital di Canterbury) c’è un ra-pace che sta per catturare la sua preda, potrebbe essere un astore ma il suoaspetto non persuade del tutto121.

Un altro uccello da preda compare nel bordo inferiore della scena 6 de-dicata alla traversata della Manica di Aroldo. Qui è rappresentata la favoladi Esopo, della rana e del topo. Nelle versioni moderne della favola è un nib-bio a punire la rana, ma in questo caso dovrebbe essere un nibbio bruno chein Inghilterra per quanto è noto non è mai comparso, la sola specie di nib-bio nota era il nibbio rosso del Galles (lo stesso dicasi per il nord della Fran-cia), per Yapp, potrebbe trattarsi di una cornacchia, come nella versionegreca più antica della storia122. Infine, tra i rapaci rappresentati nell’arazzo,non mancano alcune aquile nei bordi123.

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118 YAPP, Animals in Medieval Art, p. 31.119 OGGINS, The kings and Their Hawks, p. 39.120 OGGINS, The kings and Their Hawks, p. 15-16.121 YAPP, Animals in Medieval Art, p. 57.122 YAPP, Animals in Medieval Art, p. 57.123 YAPP, Animals in Medieval Art, p. 55.

Scena 37: bordo superiore

Scena 37: bordo inferiore

Scena 37-38: bordo superiore

In conclusione, se l’interesse per la falconeria da parte di Aroldo nonpuò essere dimostrato (come affermano Haskin e Burnett) ricorrendo al ri-camo di Bayeux, è abbastanza certo, stabilito che dalla sua comparsa in Oc-cidente, ed in particolare in Inghilterra, la practica della falconeria sia stataassociata agli ambienti aristocratici, che al tempo della sua messa in operaogni nobile, anglosassone o normanno, fosse a conoscenza delle tecnichebasilari della caccia al volo e tra questi anche Aroldo dux Anglorum124.

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124 OGGINS, Falconry in Anglo-Saxon England, p. 193; OGGINS, The kings and TheirHawks, p. 48.

I RAPPORTI TRA CRISTIANESIMO E ISLÀM NELLA TESTIMONIANZA DEI DIALOGHI CON UN MUSULMANO DI

MANUELE II PALEOLOGO (1350-1425).LA VII DISCUSSIONE

MARIO IADANZA

Questo contributo ha per oggetto i Dialoghi con un musulmano del-l’imperatore Manuele II Paleologo (1350-1425)1, una testimonianza moltosignificativa per l’autorevolezza dell’autore sui rapporti tra Cristianesimoe Islàm, che si ascrive cronologicamente nell’«autunno» dell’Impero bi-zantino; un’opera ben nota nell’ambito scientifico, anche se solo da un de-cennio si può disporre dell’edizione critica completa corredata da un ottimocommento; un testo che ha conquistato le prime pagine dei giornali e tele-giornali perché citato da Benedetto XVI nella lectio academica da lui tenutanella sua antica università di Ratisbona il 12 settembre 2006. La lezione delpontefice, tanto complessa quanto fraintesa, ricca di riferimenti e intessutadi citazioni, era incentrata sul rapporto tra scienza e fede e poneva domandefondamentali, purtroppo banalizzate e bruciate dalle polemiche che ne se-

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1 C.B. Hase ha pubblicato per primo la Dedica, il Prologo e il I e II Dialogo, ri-stampati in PG, CLVI, coll. 125-174; per il VII Dialogo: MANUEL II PALÉOLOGUE,Entretiens avec un musulman, 7e Controverse, introduction, texte critique, traduc-tion et notes par TH. KHOURY, Paris 1966 (Sources chrétiennes, 115); per l’edizionecritica e l’analisi dell’intero testo si vedano: MANUEL II. PALAIOLOGOS, Dialoge miteinem «Perser», ed. E. TRAPP, Wien 1966 (Wiener Byzantinistische Studien, 2);MANUEL II. PALAIOLOGOS, Dialoge mit einem Muslim, ed. K. FÖRSTEL, 3 voll., Wür-burg-Altenberge 1993-1996. Il VII Dialogo nell’edizione curata dal Khoury e pub-blicata dalle Sources chrétiennes è stato tradotto in italiano in MANUELE IIPALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, ed. T. Khoury, trad. it.di F. Artioli, Roma-Bologna 2007. Un’altra versione in italiano della Dedica, delPrologo e dei Dialoghi I e VII condotta sull’edizione di Erich Trapp è stata pub-blicata in MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, prefazione di R. FI-SICHELLA, introduzione, traduzione e note di F. COLAFEMMINA, Soveria Mannelli(CZ) 2007 (Le bighe, 1). Nel prosieguo di questo lavoro la VII discussione vienecitata nella versione italiana dell’Artioli, mentre la Dedica e il Prologo (sotto ladizione di Proemio) sono dati nella traduzione del Colafemmina.

guirono e rapidamente digerite dal circo mediatico che, come Kronos, amamangiare i propri figli.

Il presente lavoro è articolato in 3 momenti: - Manuele II e il suo tempo;- I Dialoghi con un musulmano: circostanze della composizione, genere

letterario, contenuto;- La VII discussione.

§- 1. L’imperatore Manuele II Paleologo I due secoli (1261-1453) durante i quali i Paleologi occuparono il trono

di Costantinopoli sono contrassegnati dal costante declino dell’Impero bi-zantino. Nel periodo in cui l’Europa occidentale vedeva l’affermarsi dellemonarchie nazionali, il sorgere di nuovi tipi di società, lo sviluppo del-l’economa artigiano-mercantile, la forza della Roma d’Oriente lentamentedeclinava: «La storia bizantina di questo periodo non offre nulla di lonta-namente paragonabile alla giovanile vitalità dei centri urbani dell’occidente,sorretta dall’ascesa di nuove forze sociali: al contrario, i sintomi di vec-chiaia si fanno più che mai evidenti. La crescente debolezza interna dellostato bizantino compromette sempre più la sua capacità di resistenza ai ne-mici esterni, e qui risiede la causa ultima del suo crollo finale»2.

In particolare, nel secolo XIV l’Impero bizantino vive una difficile,lunga e talora drammatica stagione: carente si rivela l’organizzazione sta-tale, militare e finanziaria; gravi le crisi interne quali le ininterrotte guerrecivili e le laceranti controversie sull’esicasmo e sul palamismo, che ne mi-nano irrimediabilmente una qualunque prospettiva di stabilità e di resi-stenza; ostili le forze esterne che ne minacciano in ogni momentol’esistenza: i Serbi, i Bulgari, le repubbliche marinare di Genova e Venezia,e soprattutto i Turchi Ottomani che conquistano gradualmente le varie pro-vince dell’Impero, prima in Asia Minore e poi in Europa, riducendolo quasialla sola capitale3. A fine secolo il sultano Bāyazīd I (1389-1402) pose ilblocco alla stessa Costantinopoli, nelle quale le ristrettezze e la mancanzadi cibo che da anni opprimevano la capitale raggiunsero il massimo grado,mentre le zone lontane erano sottoposte a nuove devastazioni e conquiste.Tessalonica, la seconda città dell’Impero, venne attaccata e definitivamente

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2 G. OSTROGORSKY, I Paleologi, in J.M. HUSSEY - D.M. NICOL - G. COWAN, L’im-pero bizantino, Torino 1978, p. 559.3 F. TAESCHNER, I Turchi ottomani fino al 1453, in J.M. HUSSEY - D.M. NICOL - G.COWAN, L’impero bizantino, pp. 677-701; A. BOMBACI, La Turchia dall’epoca pre-ottomana al XV secolo, in A. BOMBACI - S.J. SHAW, L’Impero ottomano (Nuovastoria universale di popoli e civiltà, VI/2), Torino 1981, pp. 5-365.

presa dai Turchi il 12 aprile 1394. E, se le illusioni di una nuova crociata oc-cidentale si bruciarono con la sconfitta di Nicopoli il 25 settembre 1396, lasalvezza momentanea arrivò dai Mongoli di Tīmūr, che in una memorabilebattaglia presso Ancyra (Ankara) sconfisse l’esercito ottomano. Bāyazīdcadde nelle mani del vincitore e morì prigioniero in Mongolia4.

Nello stesso arco temporale l’Impero bizantino era percorso da sor-prendenti e splendidi fermenti culturali, tanto che molti studiosi parlano aragione di un Umanesimo bizantino5 che precedette e influenzò i fenomenianaloghi che si manifestarono in Italia nel corso del Quattrocento6.

Manuele, figlio di Giovanni V Paleologo e di Elena Cantacuzeno, nac-que il 27 giugno 13507. Giovanni V (1341-1391) con la madre Anna di Sa-

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4 Sul quadro storico generale si vedano: G. OSTROGORSKY, Storia dell’impero bi-zantino, trad. ital. Torino 1968, in particolare pp. 430-527; G. OSTROGORSKY, I Pa-leologi, pp. 559-618; A. GUILLOU - F. BURGARELLA, Dalla restaurazione al crollodell’impero, in A. GUILLOU - F. BURGARELLA - A. BAUSANI, L’ Impero bizantino el’Islamismo (Nuova storia dei popoli e delle civiltà, VI/1), Torino 1981, in parti-colare pp. 55-65; A. DUCELLIER, Bisanzio, Torino 1988; M. KAPLAN, Bisanzio: l’oroe la porpora di un impero, Milano 1993; M. ANGOL, L’impero bizantino: una sto-ria politica, Napoli 1992; A. CARILE, Materiali di storia bizantina, Bologna 1994;I. DJURIC, Il crepuscolo di Bisanzio, Roma 1995; W. TREADGOLD, Storia di Bisan-zio, Bologna 2001; S. RONCHEY, Lo Stato bizantino, Torino 2002; A. DUCELLIER-M. KAPLAN, Bisanzio (IV-XV secolo), Cinisello Balsamo (MI) 2005; R.-J. LILIE,Bisanzio. La seconda Roma, Roma 2005.5 Il TREADGOLD titola il § 6 dell’ultimo capitolo del suo studio: Un Rinascimentomancato: TREADGOLD, Storia di Bisanzio, p. 289. 6 Sul tema si danno le seguenti indicazioni bibliografiche essenziali: G. CAMMELLI,I dotti bizantini e le origini dell’Umanesimo, I. Manuele Crisolora, Firenze 1941;I. THOMSON, Manuel Chrysoloras and the Early Italian Renaissance, «Greek,Roman and Byzantine Studies», 7, 1966, pp. 63-82; N.G. WILSON, From Byzantiumto Italy. Greek Studies in the Italian Renaissance, London 1992. 7 Sulla figura e l’opera di Manuele II si vedano: la Notice di M.C.B. Hase (apparsain Notices et Extraits des manuscrits de la Bibliothèque royale, Paris 1810-1813)ristampata in PG, CLVI, coll. 111-126; L. PETIT, Manuel Paléologue, in Diction-naire de Théologie catholique, IX/2, Paris 1927, coll. 1925-1932; G. HOFMANN,Manuele II Paleologo, in Enciclopedia Cattolica, VII, Città del Vaticano 1951,coll. 1992-1993; P. SCHREINER, Manuel II. Palaiologos, in Lexikon des Mittelal-ters, VI, München-Zürich 1993, coll. 209-210; L.P. RAYBAUND, Le gouvernementet l’administration central de l’ empire byzantin sous les premiers Paléologues,Paris 1968; T.G. DENNIS, Reign of Manuel II Paleologus in Tessalonica (1382-1387), Roma 1960; J.W. BARKER, Manuel II Palaeologus (1391-1425). A study inLate Byzantine Statesmanship, New Brunswick (N . Y.) 1969. Si vedano soprattutto:J. BERGER DE XIVREY, Mémoire sur la vie et les ouvrages de l’empereur Manuel Pa-léologue, Paris 1853; Lettres de l’ Empereur Manuel Paléologue, ed. E. Legrand,Paris 1893.

voia, il patriarca di Costantinopoli Giovanni Caleca e il mega dux AlessioApocauco, da una parte, e il nonno materno Giovanni Cantacuzeno (inco-ronato imperatore nel 1346 con il titolo di Giovanni VI), dall’altra, furonoprotagonisti di una lunga guerra civile che insanguinò l’Impero dal 1341 al1354 e coinvolse anche i potenti ed infidi vicini, quali i Serbi e i Turchi Ot-tomani. Essa si concluse con l’abdicazione del Cantacuzeno che divennemonaco con il nome di Giuseppe e si dedicò alla stesura della sua famosaopera storica e di vari trattati teologici in difesa dell’esicasmo8.

La fanciullezza di Manuele fu assai breve, poiché egli venne presto coin-volto nelle dolorose lotte che dividevano la sua famiglia e nei gravi avve-nimenti che attraversavano l’Impero. Nella Lettera ad Alexis Iagoup, scrittaprobabilmente nei primi anni del XV secolo, così si esprime: «appena uscitodall’infanzia, prima ancora di aver raggiunto l’età adulta, fummo gettati inuna vita piena di mali e di torbidi»9. Nello stesso testo egli evoca anche laprecaria situazione dello Stato e le preoccupazioni dalle quali fu riempita lasua esistenza: «Se nella nostra età giovanile avevamo assaporato i fruttidello studio, da allora ne fummo quasi totalmente sottratti. Fummo trasci-nati ad altre cure, circondati da tutte le parti dall’intrecciarsi degli eventi. Ledifficoltà degli affari, le vicissitudini delle guerre, i pericoli di ogni sorta,si succedevano l’un l’altro intorno a noi come un turbine impetuoso che ciimpediva di respirare»10.

Benché secondogenito nella successione al trono (il fratello maggioresi chiamava Andronico), già all’età di sedici anni, nella primavera del 1366,accompagnò il padre in Ungheria per mendicare l’aiuto del re Luigi ilGrande contro i Turchi, che agli inizi degli anni sessanta del secolo XIVavevano occupato la Tracia e minacciavano la Serbia e la Bulgaria. L’avan-zata turca fu seguita da sforzi di colonizzazione, la popolazione indigena ingran numero venne deportata in schiavitù nell’Asia Minore e i coloni tur-chi si stanziarono nelle aree conquistate. Ma il re Luigi di Ungheria ribadìla condizione preliminare ad ogni impegno successivo: la fine dello scismae la riunificazione con la Chiesa di Roma. Peraltro lo stesso Giovanni V in

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8 Sulla dottrina telogica dell’esicasmo, su Gregorio Palama e sulla controversia pa-lamita: J.M. HUSSEY - T.A. HART, Speculazione teologica e spiritualità bizantina,in HUSSEY - NICOL - COWAN, L’impero bizantino, pp. 450-472, in particolare pp.463-464; M. JUGIE, Palamas, Grégoire, in Dictionnaire de Théologie catholique,XI/2, Paris 1932, coll. 1735-1776; M. JUGIE, Palamite, controverse, nello stessovolume, coll. 1777-1818; T. ŠPIDLÍK, Esicasmo, in Dizionario degli Istituti di per-fezione, III, Roma 1976, coll. 1306-1310. Si vedano anche le indicazioni bibli-ografiche di OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, p. 518, nota 118.9 Citato da BERGER DE XIVREY, Mémoire, p. 26, n. 1.10 BERGER DE XIVREY, Mémoire, p. 26, n. 1.

una lettera del 1355 indirizzata a Innocenzo VI (1352-1362) aveva chiestoaiuto militare al papa impegnandosi in cambio a portare il suo popolo entrosei mesi alla fede romana e offrendo garanzie ampie, tra cui l’invio ad Avi-gnone di Manuele come ostaggio11. Il progetto fallì per l’opposizione po-polare a Bisanzio, sostenuta in particolare dal monachesimo athonita; etuttavia nel 1369 a Roma durante una fastosa cerimonia l’imperatore bi-zantino abiurò la fede ortodossa alla presenza del pontefice, ma tale gesto(dettato probabilmente non solo da ragioni di opportunità politica ma ancheda sincera devozione verso la Chiesa romana, essendo cresciuto sotto l’in-flusso di una madre cattolica) non gli ottenne vantaggi politici e militaritangibili, né riuscì a salvare l’Impero dalla catastrofe definitiva che si av-vicinava12. Sulla via del ritorno, a Venezia Giovanni V ebbe a subire per in-solvenza l’umiliazione della prigionia, da cui fu liberato grazieall’intervento del figlio Manuele e poté ritornare a Costantinopoli nell’ot-tobre del 137113. Il viaggio - osservò Demetrio Cidone che accompagnòl’imperatore - «fu una vana fatica senza alcuna utilità per la nostra patria»14.

Intanto i Turchi avanzavano occupando la Macedonia dopo la vittoriamilitare presso Černomen sulla Marizza del 26 settembre 1371 e lo stessoImpero bizantino fu costretto a divenire stato vassallo e tributario (in denaroe nel servizio di guerra) degli Ottomani e lo stesso destino fu condivisodalla Bulgaria15. Nella primavera del 1373 l’imperatore Giovanni V inadempimento dei suoi obblighi accompagnò il sultano Murād I (1362-1389)in una campagna in Asia Minore e durante la sua assenza il figlio AndronicoIV approfittò dell’occasione per ribellarsi contro il padre, ma venne scon-fitto e fu privato del diritto alla successione16. A questo punto Manuele di-venne erede al trono e fu incoronato co-imperatore il 25 settembre 1373;governò Tessalonica dal 1382 al 1387 e, alla morte del padre avvenuta il 16febbraio 1391, nonostante l’opposizione del giovane nipote Giovanni VII,figlio di Andronico IV, gli successe sul trono di Costantinopoli17. Ormai laresponsabilità della carica imperiale costituiva più un peso che un privile-

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11 OSTROGORSKY, Storia dell’ impero bizantino, pp. 481-482; OSTROGORSKY, I Pa-leologi, p. 598.12 OSTROGORSKY, Storia dell’ impero bizantino, p. 484.13 R.-J. LOENERTZ, Jean Paléologue à Venise (1370-1371), «Revue des Etudes By-zantines» 16, 1953, pp. 217-219; OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, p.485 e p. 522, nota 183.14 DÉMÉTRIUS CYDONÈS, Correspondance, ed. R.-J. Loenertz, I, Città del Vaticano1956 (Studi e testi, 186), n. 37, 5. 15 OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, pp. 485-486.16 OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, pp. 486-487.17 OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, pp. 496-497.

gio. Ogni giorno portava con sé nuove umiliazioni, nuove miserie e nuoviterrori per l’imperatore dei Romani. La pressione ottomana cresceva in-cessantemente e il pericolo della fine diveniva sempre più minaccioso eprossimo. Nel 1394 i Turchi intrapresero l’assedio più lungo della storia diBisanzio (che terminò solo con la sconfitta mongola subita nel 1402 comeè stato già detto) e Manuele II si rivolse al papa, al doge di Venezia, al gran-duca di Mosca, ai re di Francia, d’Inghilterra e di Aragona. Nel 1399 intra-prese un lungo viaggio passando per le principali capitali europee (Venezia,Padova, Milano, Pavia, Parigi, Londra…)18 e dappertutto mendicò denaroe armati contro gli Ottomani, ottenendo attenzione, stima, solidarietà. E, sei risultati della permanenza del colto imperatore e del suo seguito nelle piùimportanti città occidentali ebbe un considerevole significato culturale peri rapporti stretti tra mondo greco-bizantino e occidente latino, sul piano mi-litare alla simpatia si accompagnarono solo vaghe promesse mai mante-nute19.

A rompere l’assedio di Costantinopoli al momento ci pensarono i Mon-goli che sconfissero i Turchi ad Ancyra. Manuele II ritornò nella capitaledopo quattro anni di assenza nel 1403: intanto la sigla del trattato di Galli-poli con il nuovo sultano turco scioglieva l’Impero dall’obbligo di vassal-laggio ed anzi prevedeva la restituzione ai Bizantini della penisola Calcidicacon il monte Athos, delle isole di Skiatos, Skopelos e Skiros e di alcunitratti di costa del Mar Nero20. Il centro vitale dell’Impero si era spostatonella Morea (il Peloponneso) e precisamente nel suo cuore politico, la cittàfortificata di Mistrà21 di cui era despotes il fratello di Manuele II, Teodoro,al quale sono dedicati i Dialoghi con un musulmano. Sono questi anni di re-lativa tranquillità politica e militare, almeno sul fronte turco, poiché allamorte di Bāyazīd scoppiarono le lotte di successione al sultanato che vi-dero Süleymān (1410-1411) sconfitto da fratello Mūsā (1411-1413). Il vin-citore finale della guerra civile ottomana fu però Mehmed I (1402-1421,dal 1413 unico sovrano), che con l’appoggio di Manuele II e del despotesStefano Lazarević sconfisse Mūsā nel 1413. Con la morte di quest’ultimoe l’ascesa al trono del figlio Murād II (1421-1451) il periodo di tregua vennemeno: costui infatti consolidò la propria posizione e riprese la politica diespansione di Bāyazīd. L’8 giugno 1422 ebbe inizio un regolare assedio diuna Costantinopoli nella quale imperversava una grave pestilenza, mentrelo stesso imperatore venne colpito da una semiparalisi che gli impediva di

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18 G. SCHLUMBERGER, Byzance et Croisades, Paris 1927, pp. 87-147: «Un empereurde Byzance à Paris et à Londre».19 OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, pp. 496-497.20 OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, pp. 497-498.21 OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, p. 498.

montare a cavallo. La città ancora una volta fu salvata dalle sue possenti for-tificazioni e dalla ribellione di un altro pretendente al trono, il giovane Mu-stafà fratello minore di Murād II. La spallata decisiva era però solo rinviatadi una trentina di anni, ma con l’assedio del 1422 l’agonia dell’Impero bi-zantino (o meglio di ciò che rimaneva dell’Impero bizantino) era iniziata22.

Intanto anche la vicenda umana di Manuele II si avviava a conclusione:l’imperatore, che aveva ceduto la correggenza al figlio Giovanni VIII(1425-1448), si ritirò in monastero (assumendo il nome di Matteo) e con-cluse la sua drammatica e travagliata esistenza il 21 luglio 1425. L’Eulogiafunebre fu pronunciata da Bessarione di Trebisonda, il futuro cardinale dellaChiesa romana, e le spoglie mortali vennero tumulate nella basilica del Pan-tokrator con grande concorso e dolore di popolo, quale mai si era visto peraltri imperatori.

A Bisanzio il XIV secolo, che aveva raccolto l’eredità culturale del pas-sato, fu caratterizzato da una fioritura di spiriti enciclopedici, preoccupatidi valorizzare i tesori dell’antichità greca e interessati a farli rivivere215. Lafede nel valore assoluto della cultura classica non si era indebolita; al con-trario, essa aveva acquisito ancor maggior vigore, da quando le minaccenemiche (in particolare quelle ottomane) avevano ridestato il sentimentonazionale, in uno sforzo disperato per salvaguardare le conquiste perenni(culturali e spirituali) dell’ellenismo. Si continuava dunque a pensare, sullascia delle migliori intelligenze delle precedenti generazioni, che la lettera-tura, la filosofia e le scienze classiche potessero garantire una formazionecompleta dell’uomo, o almeno costituire la preparazione e il supporto indi-spensabili per l’accoglienza della dottrina cristiana24.

Su tale terreno sembra che, a distanza di secoli, sia ancora feconda la le-zione dei Padri Cappadoci (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gre-

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22 OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, p. 499.23 Della vasta letteratura sul tema si indicano i seguenti titoli: K. KRUMBACHER,Letteratura greca medievale, Palermo 1970; A. GUILLOU, La civiltà bizantina dalXII al XV secolo. Aspetti e problemi, Roma 1981; A. GUILLOU - F. BURGARELLA, Lacultura, in GUILLOU - BURGARELLA - BAUSANI, L’Impero bizantino e l’Islamismo,pp. 208-268; Bisanzio nella sua letteratura, cur. U. ALBINI-E.V. MALTESE, Milano1984, in particolare pp. 691-850; M. FANTUZZI, Letteratura greca antica, bizantinae neoellenica, Milano 1989; C. MANGO, La civiltà bizantina, cur. P. CESARETTI,Roma-Bari 1998; E.V. MALTESE, Bisanzio tra storia e letteratura, Brescia 2003; Lacultura bizantina, cur. G.CAVALLO, in Lo spazio letterario del Medioevo. 3. Le cul-ture circostanti, dir. M. CAPALDO - F. CARDINI - G.CAVALLO - B. SCARCIA AMORETTI,I, ROMA 2004.24 KHOURY, Introduzione, in MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano.VII discussione, p. 13.

gorio di Nissa), i quali realizzarono la fusione tra sentire cristiano e pai-deia greca al livello più elevato sia di spiritualità cristiana che di forma-zione classica, promuovendo l’ideale di un cristianesimo colto che sapesseaccettare tutto ciò che di valido aveva espresso la grecità antica, senza al-terare le linee portanti del messaggio cristiano, armonizzando, in tal modo,raffinatezza letteraria e speculazione filosofica, razionalità greca e fede cri-stiana in una sintesi che rimase paradigmatica nella cristianità orientale.

Bisanzio nel Trecento pullulava di grammatici, filologi, retori, filosofi,studiosi, teologi, che reclutavano numerosi allievi provenienti da tutti gli an-goli dell’Impero e anche da qualche paese d’Europa, soprattutto dall’Italia.Vanno ricordati durante la prima metà del secolo, Niceforo Cummeno(1261-1326) e soprattutto il celebre Teodoro Metochite (1260-1332), mae-stro di tutta una generazione di intellettuali, che viene considerato uno degliscrittori più significativi nella storia della filosofia bizantina. Per gli annisuccessivi dello stesso secolo si devono richiamare almeno i nomi di Ni-ceforo Gregora (ca. 1295-1359/60), di Giovanni Cantacuzeno (ca. 1290-1383), di Nicola Cabàsila (ca.1320-dopo il 1388), Massimo Crisoberga(?-prima del 1429), di Manuele Crisolora (ca. 1350-1415), di Manuele Ca-leca (?-1410), di Demetrio Cidone (ca. 1324-1397/98), di Procoro Cidone(1330-ca. 1368); né in questa lista molto o forse troppo essenziale possonomancare i nomi famosi di due grandi personalità, che risultano essere al-meno per un certo arco cronologico contemporanei di Manuele II: GiorgioGemisto Pletone (ca. 1355-ca. 1452) e Bessarione (1402-1472)25.

Proprio Demetrio Cidone, uno dei grandi spiriti del secolo XIV, con-temporaneamente accorto uomo di stato, teologo solido e aperto, letteratofine accurato e di buon gusto26, fu maestro di Manuele II (ma ebbe altri di-scepoli famosi, quali Manuele Caleca27, Manuele Crisolora28, Massimo Cri-

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25 KHOURY, Introduzione, pp. 13-14.26 Si veda il giudizio di K. krumbacher, Geschichte der byzantinischen literatur,München 18972, p. 487. 27 R.G. LOENERTZ, Caleca, Manuele, in Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vati-cano 1949, col. 343; K.-P. TODT, Kalekas Manuel, in Lexikon des Mittelalters, V,München-Zürich 1991, coll. 865-866; G. MERCATI, Notizie di Procoro e DemetrioCidone, Manuele Caleca e Teodoro Meliteniota ed altri appunti per la storia dellateologia e della letteratura bizantina del secolo XIV, Città del Vaticano 1931 (Studie Testi, 56), in particolare pp. 62-171; Correspondance de Manuel Calecas, ed. R.-J. Loenertz, Città del Vaticano 1950 (Studi e Testi, 152).28 Su Manuele Crisolora, il restauratore degli studi del greco in Italia e in Occidente,si veda la bibliografia essenziale in MANUELE CRISOLORA, Roma parte del cielo.Confronto tra l’Antica e la Nuova Roma, introduzione di E.V. MALTESE, traduzionee note di G. CORTASSA, Torino 2000, pp. 47-49. Si veda anche supra, nota 6.

soberga29) e cercò di far partecipare il suo allievo al potente slancio checontrassegnava all’epoca la fioritura della cultura classica nell’Impero30.Nel conflitto che talora poteva insorgere tra passione per la conoscenza edoveri imposti dalla carica imperiale, mai Manuele sacrificò i secondi avantaggio della prima: «Una prova delle mie eccessive occupazioni - scrissea Demetrio Crisolora31 - è che ho lasciato completamente da parte i libri elo studio, e mi trovo privato di questo piacere, piacere che poi va tutto aprofitto delle anime. Mi affliggo per questa privazione, ma senza porvi ri-medio, perché prima di tutto devo le mie cure ai doveri del mio rango»32.Tuttavia, pur essendo così fedele ai suoi doveri, Manuele non seppe rasse-gnarsi completamente, aspirò costantemente al momento in cui qualche le-gittima sosta gli potesse permettere di tuffarsi nuovamente nellaconsuetudine con i libri e le composizioni letterarie. La corrispondenza congli amici testimonia l’espressione dei suoi rimpianti e della sua pena, comesi evince da una lettera spedita al maestro Demetrio Cidone dall’Asia Mi-nore dove si trova insieme con le truppe turche: «Non veder niente, nonudire niente, non far nulla di ciò che può contribuire a formare e perfezio-nare la nostra anima, è cosa estranea alla nostra educazione, alle nostre abi-tudini, alla nostra natura. Nulla di più felice potrebbe accaderci dellaliberazione da una situazione simile»32.

Peraltro, Manuele aveva degli illustri predecessori come imperatori let-terati e sapienti, ad un tempo autori essi stessi e protettori delle lettere33. È

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29 Su Massimo Crisoberga: R.G. LOENERTZ, Massimo Crisoberga, in EnciclopediaCattolica, VIII, Città del Vaticano 1952, coll. 308-309; Correspondance de Ma-nuel Calecas, pp. 57-63. 30 Su Demetrio Cidone si vedano: A. PALMIERI, Cydonius Démétrius, in Diction-naire de Théologie catholique, III/2, Paris 1923, coll. 2454-2458; R.G. LOENERTZ,Cidone (Cidonio, Kydones), Demetrio, in Enciclopedia Cattolica, III, Città del Va-ticano 1949, coll. 1595-1596; V. LAURENT, Dèmétrius Cydones, in Dictionnaired’histoire et de géographie ecclésiastiques, XIV, Paris 1960, coll. 205-208; F. TIN-NEFELD, Kydones Demetrius, in Lexikon des Mittelalters, V, München-Zürich 1991,col. 1595; G. MERCATI, Notizie di Procoro e Demetrio Cidone, Manuele Caleca eTeodoro Meliteniota; Les recueils des lettres de Démétrius Cydonès, ed. R.-J. LOE-NERTZ, Città del Vaticano 1947 (Studi e testi, 131): la bibliografia è data alle pp. ix-xii; DÉMÉTRIUS CYDONÈS, Correspondance, ed. R.-J. Loenertz, I, Città del Vaticano1956 (Studi e testi, 186); II, Città del Vaticano 1960 (Studi e testi, 206).31 Su Demetrio Crisolora si vedano: l’Introduzione e le indicazioni bibliografichein DEMETRIOS CRYSOLORAS, Cento epistole a Manuele II Paleologo, ed. F. CONTIBIZZARRO, Napoli 1984.32 MANULE II, Lettera 44 a Demetrio Crisolora, in Lettres de l’empereur ManuelPaléologue, p. 59. Per la traduzione italiana cfr. KHOURY, Introduzione, p. 12.33 MANULE II, Lettera 16 a Demetrio Cidone, in BERGER DE XIVREY, Mémoire, pp,.56-57. Per la traduzione italiana cfr. KHOURY, Introduzione, p. 12.

stato già citato Giovanni Cantacuzeno, nonno materno di Manuele, al qualeegli tributava una meritata ammirazione per la solidità della sua scienzateologica e la purezza squisitamente attica del suo stile. Altro modello eraper Manuele Teodoro II Lascaris, imperatore di Nicea (1254-1258), che rac-comandava, in tempi anch’essi tumultuosi: «Per quanto grandi possano es-sere le necessità della guerra e della difesa, è essenziale trovare il tempoper coltivare il giardino del sapere»34.

Difatti Manuele coltivò con cura appassionata il «giardino del suo sa-pere»: cominciò con lo studio della grammatica, si iniziò alla morfologia,alla sintassi, ai metodi di commento linguistico; fu assiduo nella lettura deiclassici, di cui lesse commenti mitologici, filosofici e stilistici. È alla scuoladei maestri dell’antichità che imparò a gustare le belle espressioni ed è quiche scoprì i segreti dell’arte del parlare forbito. Gli studi di retorica gli for-nirono le regole dell’estetica oratoria ed esercitarono su di lui un’influenzadurevole, tanto che egli manifestò una costante preferenza per lo stile clas-sico puro e per le eleganze di un atticismo di buona lega35. Ma la ricerca dibelle forme nel linguaggio e il gusto per le finezze stilistiche si accompa-gnarono sempre alla fierezza per l’appartenenza alla stirpe dei maestri del-l’antichità classica. Manuele intese essere fedele, per quanto possibile, alpatrimonio culturale nazionale e, come lottò fino all’estremo per prolungarel’esistenza politica di Bisanzio, erede e simbolo dell’ellenismo, così volleesprimere con la prosa l’adesione alle forme dello stile classico in ambitoculturale e la fedeltà alle posizioni dottrinali della tradizione ortodossa bi-zantina sul terreno religioso36. Sincero è infatti il suo attaccamento al pen-siero ufficiale della Chiesa ortodossa, per cui, nonostante tutta l’amicizia ela deferenza nei confronti del maestro Demetrio Cidone, Manuele non solonon lo seguì nel suo interesse per la teologia occidentale, ma mancano at-testazioni di una sua apertura verso il pensiero e la speculazione filosoficae teologica dell’Europa occidentale37. Non si interessò, per esempio, alleopere di Tommaso d’Aquino, nemmeno dopo la loro traduzione in grecoproprio da parte del Cidone38. Quest’ultimo tradusse anche l’opera contro

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34 Bisanzio nella sua letteratura, p. XXIV: «Almeno una mezza dozzina di impe-ratori bizantini si possono definire letterati. L’imperatore Leone VI e Costantino VIIdella dinastia macedone e l’imperatore Manuele II Paleologo costituiscono degli ec-cellenti esempi».35 Cit. da J.M. HUSSEY, Le monde byzantin, Paris 1958, p. 175.36 KHOURY, Introduzione, pp. 14-15.37 KHOURY, Introduzione, pp. 15-16.38 Si veda l’osservazione di LAURENT, Dèmétrius Cydones, col. 208: «Demetrio Ci-done seppe infondere il gusto per il latino in parecchi dei suoi migliori allievi, qualeManuele Caleca che si farà domenicano e soprattutto Manuele Crisolora al qualesi deve la restaurazione delle lettere greche in Italia».

Maometto e l’Islàm del domenicano Ricoldo da Monte Croce (ca. 1243-1320)39 e inviò una copia della traduzione a Manuele nel 1385-86. L’operaè citata con elogi nei Discorsi polemici contro l’Islàm del Cantacuzeno40.Ora, Manuele, pur facendo riferimento all’opera di suo nonno41, si guardabene dal citare Ricoldo e anche dall’assumerne parti di una qualche impor-tanza dall’opera42.

In effetti nei secoli XIII-XV numerosi teologi bizantini si mostraronointeressati alla teologia occidentale e prepararono traduzioni di opere latineo perfino adottarono i metodi della scolastica. Tra i nomi spiccano Mas-simo Planude (1260-1310), che tradusse il De Trinitate di Agostino e il Deconsolatione philosophiae di Boezio, i teologi Nilo Cabasila (morto nel1363), Giuseppe Briennio (morto nel 1430-31) e Giorgio Scolario (mortoverso il 1473) e soprattutto il già menzionato Demetrio Cidone che non soloaderì al cattolicesimo romano ma tradusse in greco brani della Summa con-tra Gentiles e tutta la Summa Theologica di Tommaso d’Aquino, tradusseanche scritti di Anselmo d’Aosta e di altri autori di lingua latina, tra cui ilDe fide ad Petrum di Fulgenzio di Ruspe, mentre il fratello Procoro Cidonepubblicò una versione del De ente et essentia dell’Aquinate43. Tuttavia inlinea generale si può osservare che i contatti tra i teologi di Bisanzio e quellid’Occidente rimanevano piuttosto superficiali; le traduzioni in greco diopere latine erano piuttosto rare e i teologi bizantini continuavano a mo-strarsi poco convinti del valore e della solidità di un pensiero che si fondavatroppo sulla filosofia aristotelica trascurando il platonismo che era appuntoritornato in auge nel XIV secolo44.

Comunque sia, Manuele seppe incarnare contemporaneamente le qualitàdell’imperatore coraggioso e prudente e insieme del letterato di talento si-

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39 Questa prospettiva culturale e spirituale «segnatamente greco-bizantina» dei Dia-loghi con un musulmano di Manuele II sembra non sia stata adeguatamente consi-derata o almeno viene sottaciuta da FISICHELLA nella Prefazione, in MANUELE IIPALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, pp. 5-16.40 Per la versione greca di Demetrio Cidone dei Libri Fratris Richardi ordinisPraedicatorum, contra Mahometi asseclas: PG, CLIV, coll. 1035-1170. L’opera diRicoldo da Monte Croce è citata anche con i titoli Confutatio Alcorani o Improba-tio Alcorani.41 Per i IV Discorsi contro l’Islàm di Giovanni Cantacuzeno si veda: PG, CLIV,coll. 583-692. Ai IV Discorsi vanno aggiunte le IV Apologie per le quali cfr. lostesso volume alle coll. 371-584.42 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, Proemio, n. 3, p. 45.43 KHOURY, Introduzione, p. 16.44 HUSSEY - HART, Speculazione teologica e spiritualità bizantina, pp. 462-463.

curo45; in una parola egli sembrò far vivere la figura del perfetto «umani-sta» e perciò, in molti momenti della sua vita, poté presentarsi agli occhidegli intellettuali dell’Impero come il simbolo e la speranza dell’ellenismo,nel suo duplice aspetto politico-nazionale e culturale46.

§-2. I Dialoghi con un musulmanoI Dialoghi con un musulmano sono una delle opere più originali e più in-

teressanti di Manuele II47 e perciò possono rivelarsi a tutt’oggi di un qual-che interesse nella dinamica interculturale di un mondo che è divenutoglobalizzato. Gli interlocutori affrontano qui l’insieme dei problemi dibat-tuti per secoli tra controversisti cristiani e musulmani. Molti altri - e Ma-nuele lo sa- avevano redatto opere sullo stesso argomento, da GiovanniDamasceno48 ad Abū Kūrra49, da Eutimio il Monaco50 a Bartolomeo diEdessa51, da Niceta di Bisanzio52 a Giovanni Cantacuzeno53 alla traduzionein greco della menzionata Confutatio Alcorani di Ricoldo da Monte Croce54,

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45 Sul tema: M. JUGIE, Démétrius Cydonès et la théologie latine a Byzance aux XIVe

et XVe siècles, «Echos d’Orient» 27, 1928, pp. 385-403; LAURENT, Dèmétrius Cy-dones, col. 208.46 Si veda anche il giudizio di OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, p. 491.47 KHOURY, Introduzione, pp. 17-18. 48 Per l’opera teologica, morale, apologetica e letteraria di Manuele II cfr. la Noti-tia altera in PG, CLVI, coll. 84-92; PETIT, Manuel Paléologue, coll. 1926-1932.49 JEAN DAMASCÉNE, Écrits sur l’Islam, ed. R. LE COZ, Paris 1992 (Sources chré-tiennes, 383). Si vedano anche le traduzioni italiane: GIOVANNI DAMASCENO, Con-troversia tra un Saraceno e un Cristiano, ed. G. RIZZI - M. MIGLIARINI, Milano1998; La centesima eresia: l’Islam, cur. G. RIZZI, Milano 1997.50 Teodoro Abū Kūrra (o Abū Qurra) scrisse 43 Opuscula in greco (la maggior partedei quali contro i musulmani), ristampati in PG, XCIV, coll.1585-1597; PL, XCVII,coll. 1461-1610. Si vedano anche le versioni italiane: T. ABU QURRA, La libertà, cur.P. PIZZI, Torino 2001; T. ABU QURRA, La difesa delle icone. Trattato sulla venera-zione delle immagini, cur. P. PIZZI, Milano 1995.51 EUTHYMIUS ZIGABENUS, Disputatio de fide cum philosopho Saraceno in urbe Me-litine, in PG, CXXXI, coll. 19-40.52 BARTHOLOMAEUS EDESSENUS, Elenchus et confutatio Agareni, in PG, CIV, coll.1381-1448; BARTHOLOMAEUS EDESSENUS, Contra Muhammed, nello stesso volumecoll. 1447-1458. 53 NICETAS BYZANTINUS, Confutatio falsi libri quem scripsit Mohamedes Arabs, inPG, CV, coll. 669-806; NICETAS BYZANTINUS, Item Refutatio Agarenorum episto-lae ad Michaelem imperatorem…, nello stesso volume alle coll. 807-822; NICETASBYZANTINUS, Confutatio et eversio secundae epistolae eb Agarenis missae ad Mi-chaelem imperarorem…, nello stesso volume alle coll. 821-842.54 Si veda supra, nota 41.

tanto per rimanere in ambito greco-bizantino che è quello proprio di Ma-nuele II55.

Tuttavia questa nuova impresa si giustifica con ciò che essa ha di origi-nale.

Anzitutto l’opera riprende vere discussioni, che hanno realmente avutoluogo e Manuele ne fornisce nel prologo le coordinate spazio-temporali:«Fu …quando la gloria dell’Impero era maggiore, e combattevo contro gliSciiti, a vantaggio di coloro che ora rivolgono contro di noi quel potere checon fatica e pericoli noi stessi gli facemmo acquistare. Allora, ad Ankara,città a quei tempi onorabile, ma oggi ricca di empietà, dal momento che do-vevo trascorrervi un non certo breve lasso di tempo, mi capitò di essereospite di un certo vecchio, da poco giunto lì, a dire il vero (allora tornavada Babilonia), al quale portavano un grande rispetto. Dalla sua bocca infattipendevano tutti i giudici e i maestri della loro sapienza. Veniva chiamatoMuteriz, nome che indica la preminenza e l’onore. Così, durante la pausainvernale, spesso trascorsi le notti a discorrere con lui»56.

È piuttosto raro - osserva il Khoury - incontrare nella letteratura bizan-tina relativa all’Islàm un resoconto di discussioni reali che non sia statotroppo rimaneggiato e ristrutturato in un momento successivo: «Quando silegge la Controversia attribuita a Giovanni Damasceno, taluni opuscoli diAbū Kūrra, la Controversia sulla fede di Eutimio il Monaco, non è possi-bile dubitare di essere in presenza di riassunti promemoria, sistemati ad usodegli apologisti o anche di controversisti principianti»57. Anche i Dialoghidi Manuele sono stati scritti in un secondo momento, sulla base di annota-zioni e di ricordi dei dibattiti, ma l’autore si è sforzato di riferire nel loroesatto tenore i discorsi del suo interlocutore o almeno la loro essenza. Neitesti polemici di altri autori, si nota che le considerazioni sulla morale hannouno scopo dottrinale: in base all’eccellenza o alle deficienze della moralesi vuol dimostrare l’autenticità del messaggio cristiano e l’errore della re-ligione musulmana. Nel VII Dialogo le due etiche sono considerate in sestesse e i due interlocutori cercano di stabilire un parallelo in base al qualeciascuno dei due intende provare l’eccellenza della propria legge, mentre glialtri testi presentano i musulmani che si difendono o che attaccano i mistericristiani, mai, o molto raramente, la morale del cristianesimo58.

In secondo luogo nei Dialoghi di Manuele II c’è una constatazione di

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55 Si veda supra, nota 40.56 Sul tema si veda: A.-TH. KHOURY, Les Théologiens byzantins et l’Islam, I, Textesat auteurs, Munster 1969; II, Polémique byzantine contre l’Islam, Munster 1973.57 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, Proemio, n.1, pp. 43-44.58 KHOURY, Introduzione, pp. 18-19.

metodo di grande interesse59. L’imperatore rinuncia - non senza rammarico- all’argomento scritturistico così caro alla tradizione teologica e apologe-tica bizantina e soprattutto, oltre al corrente argomento ad hominem, praticail ricorso costante al ragionamento di convenienza: «…In non poche occa-sioni in cui c’era bisogno dell’alleanza delle Scritture, ero costretto a com-battere, per così dire, armato alla leggera, privo della forza determinantedelle Scritture e delle armi che da esse provengono, e ad utilizzare nellaconversazione per lo più argomentazioni ed esempi al posto di quelle, e talida essere adeguati alla potenzialità degli uditori. Ciò mi arrecò grandedanno da una parte, mentre d’altro canto apportò anche qualcosa di utile. In-fatti credo che ognuno potrebbe facilmente ricordare, pur non essendogli fa-miliari discorsi simili, le argomentazioni che utilizzammo l’uno control’altro, e utilizzarle qualora ne avesse bisogno come uno strumento più sem-plice e a portata di mano che non le interpretazioni delle Sacre Scritture. Co-loro infatti che vogliano discutere sino in fondo a partire da queste, bisognache siano bene esercitati su di esse, che abbiano un animo più acuto e unamaggiore ispirazione divina, elementi che è arduo vedere racchiusi in unasola persona»60.

Quali le circostanze storiche dei Dialoghi e la data di composizione del-l’opera?

Nel 1371 Giovanni V Paleologo, padre di Manuele, aveva dovuto con-cludere con il sultano Murād I un trattato in conformità al quale l’impera-tore di Bisanzio era ridotto allo stato di vassallo del sultano: ciò comportavache l’imperatore ogni anno era tenuto a recarsi alla corte del sultano con iltributo stabilito e le truppe ausiliarie e accompagnare il sovrano ottomanonelle sue spedizioni militari61. A Murād I succedette il figlio Bāyazīd, cheben presto si impegnò in una campagna d’armi in Asia Minore. Così Ma-nuele nel 1390 dovette combattere a fianco di Bāyazīd contro la bizantinaFiladelfia (che fu conquistata tra il 13 settembre 1390 e 16 febbraio 1391e, secondo ogni probabilità, alla fine del 1390) e appoggiare con le truppebizantine la conquista da parte del sultano delle ultime città bizantine inAsia Minore62. Manuele, dunque, prese parte alla campagna fino al giornoin cui gli giunse la notizia della morte del padre, sopravvenuta il 16 febbraio1391. Si affrettò allora a sottrarsi alla corte di Bāyazīd e a rientrare a Co-stantinopoli. Divenne unico imperatore l’8 marzo 1391. Il sultano convocòdi nuovo i suoi vassalli europei ad Ankara, l’antica Ancyra, nell’invernodel 1391-92. Manuele vi si recò, ma il 7 gennaio 1392 era già di ritorno

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59 KHOURY, Introduzione, p. 19.60 Sul metodo seguito da Manuele II si veda: KHOURY, Introduzione, pp. 115-130.61 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, Proemio, n. 4, pp. 47-48.62 OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, pp. 487-488.

nella sua capitale. È appunto nel corso di una di queste due campagne, cheva situata la sosta invernale ad Ancyra di cui Manuele parla nella Dedica deisuoi Dialoghi, raccontando al fratello Teodoro, signore di Morea, al qualel’opera viene dedicata, le circostanze che lo portarono a intrattenersi in con-versazioni religiose con un musulmano. Era bloccato in un accampamentoinvernale, lui e i suoi uomini, per un tempo «tutt’altro che breve», ad An-cyra e aveva trovato alloggio presso un anziano maestro arrivato di recenteda Babilonia (cioè da Bagdad). Egli si sentiva stanco e soffriva una situa-zione che gli pareva crudelmente ironica: sostenere anche militarmente ilsultano ottomano, vale a dire il più pericoloso nemico di Bisanzio, un «sa-trapo nobilissimo e scaltrissimo»63. In tali angustie ebbe almeno la conso-lazione di essere ospitato da una persona gentile e di grande sapere, moltostimato tra la sua gente, un dottore la cui sentenza e il cui giudizio sono ac-colti con deferenza e senza discussione dai suoi correligionari. Manuele lodesigna con titolo di Mudarris, «nome che indica la preminenza e l’onore»64.Costui aveva manifestato il desiderio di ottenere dal suo ospite informa-zioni di prima mano sulla fede cristiana: «Così, dunque, durante la pausa in-vernale, spesso trascorsi le notti a discorrere con lui. Ed egli ne traeva ungran piacere. Sembrava certo un brav’uomo, non gioiva infatti delle di-scussioni verbali, ma, anche se non si lasciava convincere facilmente da chiaffermava la verità (i pregiudizi sono davvero terribili in chiunque), in uncerto qual modo dava il suo assenso»65.

Prendevano parte alla conversazione anche due figli del Mudarris, cheManuele giudica istruiti e intelligenti, uno dei due, anzi, pare fosse un kadì.Altri uditori venivano a ingrossare il circolo: abitanti di Ancyra e anchestranieri di passaggio; c’erano infine dei curiosi, la cui attenzione facilmentesprofondava nel sonno. L’imperatore non annota con precisione la presenzadi uditori greci, e però la conversazione era piuttosto difficoltosa sia perchéi temi e le argomentazioni non erano alla portata di chiunque (si pensi alladottrina cristiana sulla Trinità) e sia perché gli interlocutori non parlavanouna lingua comune: i musulmani non conoscevano il greco e Manuele nonsapeva né il turco, né il persiano né l’arabo. Fu necessario allora ricorrerea un interprete, un musulmano nato da genitori cristiani, ma delle cui co-noscenze religiose e della competenza filosofica Manuele tace.

I Dialoghi ebbero dunque effettivamente luogo durante l’inverno 1390-91 oppure 1391-92; la redazione definitiva del testo è però successiva, pre-parata probabilmente sulla base dei ricordi e di rapide note prese durante lesedute. Manuele afferma infatti che intende citare le parole sue e dell’in-

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63 OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, p. 491 e p. 524 nota 215.64 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, Proemio, n. 4, p. 46.65 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, n. 1, p. 44,

terlocutore tanto fedelmente quanto la memoria glielo permette e prometteche comunque non tradirà il contenuto del loro pensiero e che riprodurrà idiversi argomenti a cui ci si appellava da una parte e dall’altra, senza pe-raltro precludersi ornamenti e abbellimenti retorici (e quasi certamente am-pliamento di determinati ragionamenti): «Ma io stesso evitando di fartivenire a noia l’argomento, proprio quelle parole meglio dette e più oppor-tunamente al Muteriz, cercherò di esprimerle, per quanto ricordo dei di-scorsi che affrontai con il vecchio. Ti riferirò le sue parole, nell’intenzionedi rallegrarti: sarei certo ingiusto se tralasciassi di metterti per iscritto pro-prio quelle cose che in tua presenza ti farebbero deliziare»66.

Il terminus ad quem per la redazione definitiva dei Dialoghi è l’anno1399, allorquando Manule II in viaggio per l’Europa, nel mese di dicembrepassò per la Morea, dove era despotes il fratello Teodoro, per lasciarvi lamoglie e i figli. In quella occasione l’imperatore letterato offrì il preziosodono a colui al quale l’opera era stata dedicata: «Dell’Augusto e Filocri-stiano Re Manuele Paleologo all’amato suo Fratello Il Felicissimo DespotaPorfirogenito Teodoro Paleologo Dialogo che svolse con un Persiano, chericopriva la carica di Muteriz, ad Ankara città della Galazia»67. Se si partequindi dal 1392 come seconda data possibile delle conversazioni occorse adAncyra, l’arco temporale va dal 1392 al 1399 e l’ipotesi più plausibile èche Manuele abbia compilato i Dialoghi durante l’assedio di Costantinopolida parte del sultano Bāyazīd iniziato nel 1394, approfittando forse di qual-che momento di pausa nel riposo forzato della capitale assediata68.

La parola dialogo è la versione del termine greco διάλογος, usato al sin-golare per indicare l’intera opera. Come titolo di ciascuna conversazione, laparola abituale è διάλεξις, che si rende in italiano con discussione (anche seil Khoury ha preferito il termine francese controverse, rendendo διάλογοςcon entretien), mentre il resoconto della quarta seduta ha come titolo oµιλία(cioè conversazione, dialogo). Dei due traduttori in italiano il Colafemminaha utilizzato il termine dialogo sia per designare l’intera opera che per in-dicare le singole conversazioni, mentre l’Artioli ha scelto la parola discus-sione per le diverse sedute e dialoghi per l’opera nel suo complesso.

Infatti i Dialoghi con un musulmano si compongono di 26 conversa-zioni, che si estendono a tutto l’ambito delle strutture della fede contenutenella Bibbia e nel Corano e si soffermano in modo particolare sull’imma-gine di Dio e sulla concezione dell’uomo che le due religioni esprimono69.

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66 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, n. 1, p. 44.67 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, n. 3, p. 46.68 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un Persiano, Dedica, p. 41.69 KHOURY, Introduzione, pp. 27-28.

In particolare tale risulta l’articolazione e la successione delle tematiche di-stribuite nelle diverse sedute:

- I conversazione: presentazione degli interlocutori; discussione sullanatura degli angeli e delle anime; la creazione; le creature come via checonduce al Creatore;

- II conversazione: genesi del mondo (sul cielo e sulla terra); la cadutadi Adamo; il giudizio di Cristo; il paradiso di Muhammād;

- III conversazione: si riprende la discussione sulla concezione del pa-radiso nella dottrina dell’Islàm;

- IV conversazione: si esamina la tesi di certi studiosi musulmani, iquali sostengono che gli animali hanno un’anima assai simile a quelladegli uomini;

- V conversazione: le prove addotte da Muhammād e la prosperità poli-tica, quali criteri di verità dell’Islàm;

- VI conversazione: si tenta di stabilire un parallelo tra Mosè e Mu-hammād, entrambi fondatori di due religioni;

- VII conversazione: confronto tra le tre leggi apportate da Mosè, GesùCristo e Muhammād;

- VIII conversazione: dibattito sul Paraclito, che i musulmani identifi-cano con il profeta Muhammād;

- IX conversazione: si discute sul dubbio e sulla fede. Manuele dissertasulla nozione di «scienza divina»;

- X conversazione: introduzione al dibattito sulla Cristologia e sulla dot-trina trinitaria;

- XI conversazione: Cristo è la parola sostanziale e l’eterno Figlio di Dio;- XII conversazione: l’incarnazione del Logos e la nascita umana di Gesù; - XIII conversazione: ancora sull’incarnazione. Manuele risponde alle

obiezioni e alle domande degli interlocutori;- XIV conversazione: il mistero della Trinità; - XV-XIX conversazioni: le cinque sedute sono dedicate ai diversi

aspetti della dottrina trinitaria, con risposte da parte di Manuele, in parti-colare, all’accusa di politeismo rivolta al Cristianesimo;

- XX conversazione: le manifestazioni esteriori del culto cristiano. Giu-stificazione da parte di Manuele della venerazione delle immagini;

- XXI conversazione: la dottrina cristiana della redenzione e soddisfa-zione in relazione alla passione e morte in croce di Gesù Cristo;

- XXII-XXIV conversazioni: ancora sulla dottrina cristiana della reden-zione e della soddisfazione;

- XXV conversazione: la missione degli Apostoli è all’origine della dif-fusione del Cristianesimo e della costituzione visibile della Chiesa;

- XXVI conversazione: si dà seguito all’argomento della seduta prece-dente, cui segue una breve esposizione relativa all’Eucarestia, che concludel’opera.

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§-3. La VII discussioneNella VII discussione i due interlocutori (Manuele e il Mudarris) si pro-

pongono di stabilire un raffronto e un ordine di superiorità fra le Leggi diMosè, di Gesù Cristo e di Muhammād70. Il termine nell’accezione del testo«Legge» indica soprattutto il rapporto con l’ordine morale e con la formadi vita che la religione determina nella comunità dei fedeli. Anzitutto i dueinterlocutori confermano il loro accordo sull’origine divina della Legge diMosè71 ma nello stesso tempo convengono sul suo carattere imperfetto eprovvisorio, tanto che - e qui si seguono i passaggi fondamentali del ragio-namento del Mudarris - dopo Mosè fu Gesù ad essere incaricato di recareil messaggio di Dio agli uomini e di aiutarli sulla via della salvezza. LaLegge di Gesù è quindi superiore a quella di Mosè, perché ne colma le ca-renze e le insufficienze72. Tuttavia anch’essa si rivela imperfetta, non avendoadattato gli obblighi morali e legali alla debolezza umana: precetti pesantie duri quelli di Gesù, tali da rivelarsi impraticabili dagli uomini: «Ho detto,dico e dirò che la Legge di Cristo è veramente bella e buona, molto mi-gliore dell’antica, ma che la mia è migliore di entrambe. Considera ciò chevorrei dire: forse ascolterai qualcosa che non condannerai del tutto. La vo-stra Legge è, sì, bella e buona, ma per il fatto di essere così ardua e pesante,difficilmente può essere utile. Avviene come per i farmaci troppo amari:anche per essa non ci si sbaglierà se si dice che non è perfetta»73. Qualiesemplificazioni della sua tesi il Mudarris porta il comando cristiano del-l’amore dei nemici e l’obbligo di non opporre resistenza al malvagio74,l’esortazione alla povertà75, il precetto della verginità76.

Il persiano conclude perciò che la legge di Muhammād, manifestatasidopo le altre due, risulta essere la più perfetta; colma ciò che manca al-l’antica Legge, mentre argina gli eccessi della Legge di Gesù, abolendoquegli obblighi che la rendono impraticabile: «Dunque la Legge intermedia,cioè la tua, visto che offre molte occasioni a simili opinioni, evidentementenon è perfetta, ma, mentre è assolutamente migliore a quella che l’ha pre-ceduta, rispetto invece a quella che la segue, passa al secondo posto. Dun-que l’ultima Legge si mostra più elevata delle altre, come accade per gli

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70 Sulla struttura del testo: KHOURY, Introduzione, pp. 33-55; M.C.B. HASE, Notice,in PG, CLVI, coll. 121-126; PETIT, Manuel Paléologue, coll. 1929-1930.71 Per un esame analitica della VII discussione: KHOURY, Introduzione, pp. 56-114.72 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 1.b, pp.139-141.73 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 6.a, p.155; 35. b, p. 211.74 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 5.a, p. 149.75 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 5.e, p. 151.76 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 5.e, p. 151.

edifici….Per dirla in breve, accade così: i giudei vivevano la retta fede finoall’avvento di Cristo: dopo, solo quelli che avevano creduto in lui, mentregli altri non potevano più osservare la Legge, né credere a Mosè che avevaparlato di lui, e ciò anche se adempivano tutti i comandamenti, anche se di-cevano di venerare e onorare Mosè, subito dopo Dio stesso. Quanto a co-loro che hanno creduto in Cristo, hanno continuato ad essere tutti popolo diDio fino al momento in cui è venuto Maometto a portare la Legge più per-fetta. Ma da quel momento sono popolo di Dio solo quanti aderiscono aquesta Legge. Pertanto, quanti hanno aderito a Maometto, questi sono ve-ramente discepoli di Cristo e di Mosè. Quanti sono più zelanti del dovuto,e per questo si sono fermati a Leggi abrogate, provocano all’ira i legislatorie, con la loro follia, si affaticano per la loro perdizione»77. Non solo, maLegge di Muhammād supera le altre due anche e soprattutto per il fatto diessere moderata; essa cioè ha nella cifra della moderazione il carattere fon-damentale rispetto a quelle di Mosè e di Gesù, che si traduce nella ricercadel giusto mezzo tra due estremi: «La Legge di Maometto…ha preso la viadi mezzo e, dando disposizioni che si possono soddisfare, ben più miti eadatte all’uomo, supera del tutto le altre Leggi proprio per il fatto di esseremoderata. Colma infatti ciò che mancava all’antica Legge con le aggiunteche fa, mentre d’altro canto, argina gli eccessi della Legge di Cristo. Mo-stra così di prendere da entrambe, ma contemporaneamente le supera.

A mio avviso, evitando sia la povertà che l’incompletezza della Leggegiudaica, sia l’elevatezza dei precetti di Cristo, la loro difficoltosa altezza,il loro peso, il loro eccesso e la loro impraticabilità sino ad ora da partedegli uomini - perché in qualche modo forza la nostra natura terrestre a sca-lare i cieli, per così dire - fuggendo dunque le difficoltà di entrambe, in tuttoonora la moderatezza, e quindi è ed appare migliore di tutte le Leggi chel’hanno preceduta.

Tu sai di certo, infatti, che le virtù, rifuggendo dagli estremi e mante-nendosi rigorosamente nel giusto mezzo, proprio per questo sono dette esono virtù. Ciò che è virtù, questo è giusto mezzo, e ciò che non è giustomezzo, neppure è virtù, anche tu prima lo hai detto»78.

L’analisi filologica e concettuale di termini quali «moderazione, giustoordine, le virtù come medietà» lascia trasparire la matrice filosofica, plato-nica e aristotelica, che costituisce l’humus culturale dei due interlocutori.

La risposta di Manuele II parte dalla considerazione che la morale cri-stiana non consta solo di comandamenti o precetti che sono assolutamente

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77 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 5. f-h,pp. 151-155.78 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 5.i-6.b,pp. 155-157.

e universalmente cogenti: così rispettare i comandamenti di Dio è doverosoe obbligatorio79. In essa altresì ci sono i consigli e le esortazioni, che nonsono imposti a tutti, bensì vengono proposti ai più perfetti, quale appello allalibera volontà delle anime generose che si dichiarano pronte ad un amoredi Dio più grande e ad una sequela di Cristo più totale80. Dunque la Leggedi Gesù non presenta nulla di eccessivo, anche perché sulla strada della per-fezione l’uomo usufruisce della grazia divina; ma in questa prospettiva Ma-nuele non può essere seguito dal Mudarris, perché il mistero della grazia edella trasformazione ontologica dell’uomo che essa opera è estraneo al-l’Islàm, così come è estranea la tesi cristiana della elevazione umana al-l’ordine soprannaturale81. Tra le osservazioni proposte da Manuele sonodegni di nota due limiti sostanziali che egli individua nella Legge di Mu-hammād. Anzitutto essa, lungi dall’essere via mediana tra la Legge di Mosèe quella di Gesù, segna spesso il ritorno alle prescrizioni mosaiche, comenel caso dei divieti alimentari, della legge del taglione, della poligamia e delripudio, della circoncisione: «Spiegami dunque come può essere miglioredell’antica questa tua Legge che, come è stato ben chiaramente provato,prende dall’altra quei titoli che le permettono di essere da voi considerataLegge. E come può, se sta nella via di mezzo, cosa che tu trovi così impor-tante, aver oltrepassato la Legge di Cristo alla quale certo non è giusto nem-meno paragonarla?»82. Dunque «questo Maometto aveva precisamentel’ambizione di mostrarsi quale sommo legislatore, e tuttavia ciò non appareaffatto dalle sue opere. Infatti, i princìpi, come è stato detto, e le sue ideefondamentali li ha presi dalla Legge di Mosè e dalla nostra. Così dunque,sia la circoncisione, sia l’astensione da certi cibi e gli altri precetti analoghi,perfezionano l’uomo grazie a Mosè che li ha decretati, e tuttavia conven-gono a bambini e sono divenuti superflui grazie a Cristo che, in luogo diquesti, ha introdotto ciò che giova agli uomini di Dio. Ma se sono decretibuoni e perfetti la circoncisione e quant’altro Maometto ha sottratto fra iprecetti della Legge, allora non è buona le Legge del Salvatore che ha vo-luto abolirli e, al momento opportuno, li ha annullati tutti e ne ha introdottoaltri. Se il Salvatore ha fatto tutto bene - come tu stesso dichiari con verità

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78 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 5. b-d, p.149.79 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 10.a, p.161.80 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 10.b, pp.161-163.81 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 11.a-d,pp. 163-167; 13.a-b, pp. 167-169; 15.a-21.c, pp. 169-189.82 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 32.b, pp.205-207.

- a trasformarli in disposizioni migliori, dunque chi tenta di riportarli a ciòche erano prima, è manifestamente un distruttore di beni. O piuttosto, unadelle due: o apparirà come un uomo delirante e smarrito. O come uno chesi è procurato l’arte di ingannare le persone semplici»83. La conclusione diManuele segue tale logica stringente: «Per prima è venuta la Legge di Mosè,che anche tu dichiari imperfetta, e ha introdotto per iscritto la norma dellacirconcisione e quant’altro la tua Legge ha preso di lì…In seguito ecco ilbattesimo, la crismazione e gli altri nostri misteri, e una Legge migliore epiù perfetta della precedente - questo, infatti, lo hai sempre ammesso - epoi di nuovo la circoncisione e quasi tutto il resto della Legge precedente!E tu questo lo chiami progresso, qualcosa che apporta ordine e struttura-zione? Se infatti passiamo dalla circoncisione alla circoncisione, proce-diamo come in un cerchio: passando dalle realtà più elevate, torniamo aquelle più meschine. Credo che chiunque direbbe che quando poi cercate diottenere da noi a questo modo il posto più elevato, ciò non è altro che vanafatica»84.

In secondo luogo essa sembra mancare di ragionevolezza in alcune pre-scrizioni, quali ad esempio la legge del djihad o guerra santa. Il djihad è ilmezzo previsto dal Corano per assicurare l’espansione della religione diAllah. Nessun diritto può prevalere contro il diritto di Allah all’ubbidienzadegli uomini, per cui l’invito alla conversione all’Islàm deve essere rivoltoa tutti. Dalla risposta dipende l’atteggiamento della comunità musulmananei confronti dei non credenti: quelli che si convertono all’Islàm vengonointegrati nella comunità, «la migliore fra quelle fatte sorgere fra le genti»85.Costoro otterranno con questo tutti i diritti e i privilegi dei credenti, ma sa-ranno anche sottomessi agli stessi doveri della guerra santa «nella via diAllah». Nel caso in cui gli infedeli non si convertano si deve distinguere tra«le genti del Libro», ebrei, cristiani e i zoroastriani da un lato e i sempliciinfedeli dall’altro. I primi, in considerazione della rivelazione che hannoricevuto, possono conservare la loro religione e concludere un patto di vas-sallaggio con la comunità che li porta ad assumere la condizione dei dhimmi(«i protetti»): acquistano così il diritto di mantenere la loro fede parzial-mente vera agli occhi dell’Islàm, di essere retti da uno statuto proprio ispi-rato alle disposizioni della loro Legge, di esercitare il loro culto. Ma perquesto sono tenuti al pagamento di un tributo e rimangono in una condi-

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83 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 33. a-b,p. 209.84 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 35.b-c,p. 211.85 Il Corano, testo arabo con la versione letterale integrale, cur. G. MANDEL, Torino2004, sura 3, v. 110, p. 32.

zione di inferiorità giuridica rispetto a quella dei credenti. Inoltre, se al-l’inizio hanno combattuto contro i musulmani, subiscono determinate re-strizioni alla libertà politica e alle manifestazioni pubbliche del loro culto.Quanto a tutti gli altri infedeli, essi non hanno diritto ad alcun trattamentodi favore: devono semplicemente sottomettersi e abbracciare l’Islàm op-pure divengono preda della comunità. Così dunque, la legge del djihad deveassicurare il predominio della religione di Allah e impedire agli infedeli diportare detrimento ai diritti universali dell’Islàm. È nella via di Allah, cheil musulmano conduce la guerra santa. Il versetto del Corano: «Nessuna co-strizione nella religione»86 risale al periodo che precede le grandi lotte diMuhammād, mentre le determinazioni relative al djihad si trovano nellasura 9 che sono l’espressione dell’ultima rivelazione al riguardo87. La leggedella guerra santa è giudicata da Manuele contro ragione e blasfema. Nellapropagazione della fede con le armi «di tre fatti, doveva verificarsene perforza uno: o gli uomini di tutta la terra si accostavano alla Legge, o paga-vano tributi e in qualche modo erano ridotti a schiavi, oppure, se niente diquesto accadeva, venivano senza riguardi recisi dal ferro.

Ma questo è del tutto assurdo. Perché? Perché Dio non può rallegrarsidel sangue, e agire senza ragione è estraneo a Dio (…και το µη συν λογωποιειιν αλλοτριον Θεου� ). Mentre ciò che tu dici oltrepassa o quasi, i li-miti dell’irrazionale. Prima di tutto, infatti, come non sarà del tutto assurdoche quanti offrono denaro acquistino la possibilità di vivere una vita cattivae contraria alla Legge?

Inoltre, la fede è frutto dell’anima, non del corpo, e a chi vuole indurrealla fede è necessaria lingua eloquente e mente retta, non violenza, né mi-naccia, né alcunché capace di ferire o intimorire. Poiché, mentre è neces-saria la costrizione per una natura irrazionale, e non si può usare lapersuasione, invece l’anima razionale la si persuade senza bisogno di forza,né di flagelli, né di altro che minacci morte.

Non si può dunque pretendere di fare il male, però contro la propria vo-lontà, solo perché è un comando di Dio. Poiché se fosse buona cosa irrom-pere con la spada contro tutti quelli che sono del tutto non credenti, e questafosse una legge di Dio discesa dal cielo, come sosteneva Maometto, allorabisognerebbe uccidere tutti quelli che non accedono a questa Legge e a que-sta predicazione: perché è proprio empio comprare la pietà per denaro. O tipare che le cose non stiano così? Non credo proprio. E come, infatti? Comedunque ciò non è bene, neppure uccidere è certo molto meglio»88.

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86 Il Corano, sura 2, v. 256, p. 22.87 Il Corano, sura 9, pp. 87-92.88 MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, 3.a-d,pp. 143-145.

Tre sembrano essere i nuclei argomentativi dell’imperatore: la fede èfrutto dell’anima e perciò solo la persuasione può condurre ad essa, noncerto la costrizione e la violenza fisica; una legge che faccia delle armi edella forza lo strumento della propagazione della fede religiosa non può es-sere buona, perché è contraria alla sapienza divina, e «agire senza ragioneè estraneo a Dio»; infine è blasfemo acquistare con il denaro, pagando cioèil tributo dei dhimmi, la possibilità di vivere nell’incredulità e nell’errore.Si potrebbe notare con il Khoury che Manuele sembra sottacere la distin-zione fatta dall’Islàm tra «le genti del Libro» e gli infedeli politeisti, che pe-raltro il Mudarris non rileva, almeno secondo quanto riporta il testo89. Maquesti sono dettagli! Invece l’essenza del discorso - significativa anche perl’oggi - è un’altra. Nella concezione teologica dell’Islàm Dio è l’assoluta-mente trascendente; la sua volontà e il suo agire non sono legati da nessunadelle categorie umane, nemmeno da quella della razionalità e quindi dellaragionevolezza. Per il cristiano Manuele, nutrito di filosofia greca, risultainvece evidente il principio secondo cui «agire senza logos è estraneo allarealtà e alla natura di Dio». Non recita forse il Prologo del Vangelo di Gio-vanni «In principio era il Logos»? (èEν aèρχη̃ η̃ν oéΛόγος)90. Entro l’oriz-zonte dell’essere si articola la stessa razionalità, pur nella diversità dei gradie delle modalità, che vale per Dio e per l’uomo; non c’è nulla nella crea-zione che sia stato abbandonato all’irrazionalità, cioè all’insignificanza.

ConclusioneQuesta lezione, nell’interpretazione di Manuele, ci provoca nelle odierne

difficoltà di individuare e intravedere nel logos l’orizzonte condiviso dellaconoscenza, dell’agire, del dialogo interpersonale, dal momento che logossignifica ragione, ma anche discorso: il logos-ragione diviene il fondamentodel logos-discorso, cioè del logos che tenta le ardue vie della verità. Forseattraverso questi passaggi (logos-ragione, logos-discorso, dialogo-verità) sicostruiscono i percorsi di pace all’interno della famiglia umana. Ma taleobiettivo però non sembra essere dietro l’angolo, anche perché alla ricor-rente domanda di Pilato «Quid est veritas?»91 sembra accompagnarsi unaprogressiva limitazione autodecretata dalla ragione a ciò che è verificabile.

E allora quale ragione (lògos)? Ma questo è davvero un altro discorso (lògos)!

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89 KHOURY, Introduzione, pp. 108-109.90 Ioh. 1, 1.91 Ioh, 18, 38.

NEL CASTRUM DI PONTELATONE NASCE L’ARCIPRETURA.

L’INVENTARIO DELLE CHIESE DEL 1282

LAURA ESPOSITO

Le origini di Pontelatone come spesso accade per i centri minori sonooscure e poco chiare, sia per mancanza di fonti archeologiche o documen-tarie, dirette e indirette, sia per la scarsità di contributi storici ad esso dedi-cati. Rimandando in nota la quaestio relativa al nome1, possiamo provare,in questa sede, a formulare qualche ipotesi e a correggere un errore in cuisono incorsi alcuni studiosi, che non avendo avuto la possibilità di avere adisposizione tutta la documentazione prodotta sul castello e quella ad essorelativa, hanno perseverato circa la nascita del castrum Pontis Latroni. Ber-

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1«Sorge ancora un dubbio sopra la vera denominazione di questo piccolo Comune,se debba, cioè, chiamarsi Pontelatone, ovvero Ponteladrone», questo è ciò che scri-veva Gabriele Iannelli a proposito di un privilegio di Ferdinando I d’Aragona del22 dicembre 1459, nel quale la baronia di Formicola insieme a Pontelatone, Sassoed altri casali erano incorporati a Capua («Atti della Commissione conservatrice deimonumenti ed oggetti di antichità e belle arti della Provincia in Terra di Lavoro»18, 1887, pp. 93-94). Iannelli, infatti, sulla base del suddetto privilegio del 1459,sul repertorio delle pergamene di Capua compilato dal Manna nel 1588 e su quelloredatto dal Granata nel 1700, sostiene che il vero nome sia Pontelatone, conte-stando l’affermazione fatta dal Giustinani nel suo studio: «Ponteladrone, in Terradi Lavoro, diocesi di Caiazzo. Questa terra, che sempre è denominata nelle situa-zioni del regno Ponteladrone, non saprei perché mutarle il nome in quello di Pon-telatone» (L. GIUSTINIANI, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli,I-X, Napoli, 1797-1805, VII, p. 246). Nei documenti caiatini dei secoli X-XV com-paiono sempre i toponimi «Pontis Latronis» e «de Pontelatrone», come anche nellaversione volgarizzata del Necrologio della Chiesa Cattedrale del 1547, nel quale silegge in data 18 novembre: «Ioanni Cossa de Ponte Latrone». L’erudito AlessioSimmaco Mazzocchi nel riportare l’iscrizione del C. Terenzio Carino, che un tempoera situata a Pontelatone, ora conservata nel Museo Campano, così scrive: «ex ine-dita inscriptione, quae in Ponte Latronis (an Latonae?) in agro Calatino extat», nonchiarisce la questione e non prende una posizione, anzi resta nel dubbio (A.S. MAZ-ZOCCHI, In Mutilum Anphitheatri titulum aliasque nonnullas Campanas Inscrip-tiones Commentaris, Napoli 1727, p. 48). In realtà, in tutti i documenti presenti nelfondo pergamenaceo dell’archivio vescovile di Caiazzo, la denominazione è sem-

nardino Di Dario, studioso di storia patria del secolo XX, riferisce che eraopinione comune tra gli storici dei secoli XVIII e XIX che il castello diPontelatone fosse sorto agli inizi del secolo XII; il Di Dario, infatti, affer-mava che «Pietro Diacono narra che i Normanni atterriti per l’arrivo di En-rico V in Roma e l’arresto di Pasquale II, edificarono in fretta Castelli efortezze»2. In quegli anni era conte di Caiazzo Roberto, e le cronache deltempo, insieme alla tradizione di studi locali, identificarono in quell’arcotemporale l’erezione dei castelli di Pontelatronis, Strangulagalli e Sclavi(ora Liberi)3. Tale ipotesi, già segnalata come errata da Giuseppe Tescione,il quale considerava «fallace la tradizione riportata dagli studiosi locali»4

senza però specificarne la motivazione, è da considerarsi ormai superata,sulla base della tradizione documentaria. Il castrum, infatti, era già esistentenella prima metà del secolo XI, poiché in un documento capuano del no-vembre 1053, si legge che Sichelgarda, figlia del fu Landolfo, vende unaparte di una sua proprietà sita in Caiazzo in località «ubi dicitur Casa Mar-cella», a Sasso e a sua moglie Maria, entrambi abitanti a Caiazzo, e preci-

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pre riferita a Pontelatrone: «in presencia Nicolai Saxe, Formicule et Pontis Latro-nis iudicis», maggio 1240; «abate Galterio de Costancia de Pontelatrone», 16 aprile1282; «Gemma uxor quondam Thomasii de Aylana habitatrix de loco Pontis La-tronis», gennaio 1285; «dopnus Iohannes de Ponte Latrone» febbraio 1293; «inpertinentiis Pontis Latronis» 27 dicembre 1305; rettore della chiesa di S. Martinode Pontelatrone» 10 agosto 1395; «de castro Pontis Latronis» 7 ottobre 1444; «apudterram Pontis Latronis» 16 maggio 1484. Tale denominazione persiste ancora nelsecolo XVI, poiché nella versione volgarizzata del necrologio redatto dal canonicoStefano Crescarello risalente al 1547, il castrum si trova così citato: «Iohanni Cossade Ponte Latrone» (Il Necrologium, tradìto sic o tràdito sic o tràdito nel codicepergamenaceo Vat. Lat. 14736, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, ètutt’ora inedito; è stato oggetto di un solo lavoro da parte di Matteo Villani nel-l’ambito dello studio della tipologia documentaria degli obituari, M. VILLANI, Ilnecrologio di Caiazzo: clero diocesano e mondo dei laici, in Medioevo, Mezzo-giorno, Mediterraneo. Studi in onore di Mario Del Treppo, cur. G. Rossetti - G.Vitolo, Napoli 2000, I, pp. 161-178. Il Necrologium è attualmente oggetto, da partedi chi scrive, di uno studio per una prossima pubblicazione). E ancora, in un elencodi decime afferenti la diocesi di Caiazzo, manoscritto che la cui redazione PasqualeIadone fa risalire al 1600, si legge: «Per Santa Maria di Pontelatrone ducati uno, tarìdue e grana diecesette» (P. IADONE, Quinterno de una decima del Episcopato, Ca-pitolo, Clero et Diocesi de Cayaza, Caiazzo, Biblioteca Civica Comunale “Giu-seppe Faraone”, ms. s. n., s. d., c. 5).2 B. DI DARIO, Notizie storiche della città e diocesi di Caiazzo, Lanciano 1941, p. 266.3 DI DARIO, Notizie storiche, p. 266.4 G. TESCIONE, Roberto conte normanno di Alife, Caiazzo e S. Agata dei Goti, «Ar-chivio Storico di Terra di Lavoro» 4, 1975, pp. 33-34 e n. 83.

samente a Pontelatone5; per cui un primo insediamento doveva necessaria-mente essere esistito quanto meno agli inizi del secolo XI, ma non prima del979. Tale anno è da considerarsi post quem, giacché, nella chartula confir-mationis del 1° novembre redatto a Capua, con il quale l’arcivescovo ca-puano Gerberto, in presenza dei vescovi delle diocesi suffraganee edell’intero Capitolo, confermava a Stefano, neo-vescovo di Caiazzo, e alsuo episcopato la giurisdizione su tutte le chiese di pertinenza della diocesi,il toponimo Pontelatone non compare6. Un primissimo insediamento, dun-que, può essere individuato in un arco temporale compreso tra il 979 e il1053. Si può anche aggiungere, verosimilmente, considerando l’anno 1053una data nella quale il casale di Pontelatronis compare già ben strutturato,che l’erezione del castrum sia avvenuta nei primi decenni del secolo XI,ossia nell’ultimo periodo del dominio longobardo nel Sud della penisola.Siamo nel territorio della Longobardia minor, e più precisamente del Prin-cipato di Capua, che, a seguito della sua elevazione a Contea nel secolo IX,e successivamente, centro del principato prima longobardo (900-1058) epoi normanno (1058-1134)7, aveva assorbito numerosi gastaldati, tra i qualiCaserta, Alife e Caiazzo; Pontelatone, che era nel territorio del gastaldatodi Caiazzo, entra a far parte nella giurisdizione della sede capuana. Durantela seconda metà del secolo XII, il castrum di Pontelatone fu posseduto in de-manio da Guglielmo di Montefusco che lo tenne insieme al feudo di MonteMigulo8, quale premio donatogli da Guglielmo II per l’appoggio ricevuto

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5 «[…] Ego mulier nomine Sikelgarda fila quondam Landolfi et uxor videlicet Lan-delfredde, filio cuiusdam Iohanni, […] per hanc carta alieno, idest do et trado tibiSassi, filio quondam Iohannis in vice tua et in vice et parte Marie uxori tue, filiequondam Sellicti, qui estis abitatores de finibus Caiatie, loco ubi dicitur castroPonte latronu […]» (H. BLOCH, Monte Cassino in the Middle Age, Roma 1986, I,pp. 545-546, a cui si rimanda anche per la storia e la traditio del documento; ancheM. MONACO, Sanctuarium Capuanum, apud Octavium Beltranum, Neapoli 1630,p. 641).6 MONACO, Sanctuarium Capuanum, pp. 571-575; F. UGHELLI, Italia sacra sive deepiscopis Italiae et insularum adiacentium (editio secunda cura et studio N. Coleti),Venetiis 1720, VI, coll. 442-444; D. MARROCCO, Documentazione storico-liturgicasu S. Stefano di Caiazzo, «Associazione Storica del Medio Volturno», 1981, pp.91-104. Entrambi questi studi riportano la trascrizione integrale del documento de-perdito, il cui testo è riportato in Appendice, collazionando la tradizione del Mo-naco, più antica, con quella dell’Ughelli, riportando in nota le differenti lezioni.7 N. CILENTO, Le origini della Signoria Capuana nella Longobardia minore, Roma1966, p. 154.8 Catalogus Baronum, ed. E. Jamison, Roma 1972, p. 174 n. 971: «Guillelmus deMontefuscolo tenet demanium in Dracono feudi VII militum, et de Baia IIorum mili-

nella guerra contro i Longobardi9. Nella prima metà del XIII secolo il ca-strum era già ben strutturato con le sue chiese e i suoi possedimenti e, so-prattutto, con una tradizione notarile ben definita, testimoniata da unacharta dationis del maggio 1240, nella quale Alfiero concede libellario no-mine ai fratelli Gualtiero e Lorenzo, figli dell’abate Burrello, una peccia diterra di pertinenza della chiesa di San Pietro, ubicata in castro Pontis La-tronis, in località detta Buccapiczane; nell’atto Alfiero è citato come cu-stode e rettore della chiesa di San Pietro de castro Pontis Latronis, insiemea Nicola citato come «Saxe, Formicule et Pontis Latronis iudicis»10. Dopola battaglia di Tagliacozzo del 1268, Carlo I d’Angiò assegnò Pontelatonealla città di Capua, mentre sotto il regno di Carlo II il castrum divenne pro-prietà della famiglia Rogosia di Dragoni che ne ebbe il possesso fino ai pri-missimi anni del secolo XIV11, per poi passare nel 1306 a TommasoMarzano, duca di Sessa. Quando nel 1321, a seguito di nuove minacce diattacchi da parte degli aragonesi, Roberto d’Angiò ordinava la realizzazionedi opere difensive lungo il litorale tirrenico da Castellammare a Gaeta, Tom-maso Marzano fortificò il castello di Pontelatone al punto da farlo diventare

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tum, et de Ponte Latrone et de Monte Migulo feudum V militum, et de Squilla feu-dum II militum que sunt inter totum feudum militum XVI et augumentum eius mili-tes XX et inter feudum et augumentum demanii sui milites XXXVI et servientes LX».9 C. AURILIO, Pontelatone e la baronia dei Carafa, in Pontelatone dall’età longo-barda all’età aragonese, Caserta 1989, p. 21.10 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1007-1265), cur. C. Salvati -M.A. Arpago - B. Jengo - A. Gentile - G. Fusco - G. Tescione, Caserta 1983, I, pp.176-177. Il giudice Nicola aveva la facoltà di svolgere tale funzione in più castraconfinanti tra essi, come era prescritto nella Costituzione, senza però essere nativodi quei medesimi luoghi, cfr. G. FARAONE, Caiazzo patria di Pier della Vigna con-tro Gabriele Iannelli di Capua, Caiazzo 1888, p.192.11 Per gli anni relativi ai regni di Carlo I e Carlo II d’Angiò, il castrum risulta es-sere così definito e unito ad altri feudi, tra i quali Dragoni, Sasso e Formicola:«mandatum pro subventione a vassallis petita a Goffrido de Dragone, mil., dom.Baronie castri S. Angeli de Ripacanina, Pontis Latronis et castri Draginis», da I re-gistri della cancelleria angioina ricostruiti, da Riccardo Filangieri con la collabo-razione degli archivisti napoletani, I-XLIX, Napoli 1950-2006 (in seguito RCA),XIII, 1275-1277, 1959, p. 300; «notatur Goffridus de Tragone miles qui petit sub-ventionem a vassallis suis castri Dragoni, castri Sancti Angeli de Ripacanina, ca-stri Pontis Latronis, castri Bayranum, castri Formicule, castri Sixti et castriSquillarum», RCA, XXIV, 1280-1281, 1976, p. 17; «nob. dom. Goffrido de Dra-gono, remissio medietatis residuorum que debent vassalli terrarum suarum et suntcastrum Sancti Angeli de Rupacanina, castrum Saxe, castrum Squille, castrum Dra-gonis, Pons Labonus et Formicula. Sub die XIV apr. III ind.», RCA, XXXII, 1289-1290, 1982, p. 11; «nob. dom. Goffrido Dragono relaxatio medietatis resudui debiti

un baluardo inespugnabile12. Dopo l’avvento degli aragonesi e l’espulsionedegli angioini, Pontelatone passò nel 1420 al nobile Cubello d’Antignanodi Capua e, nel 1445, alla famiglia Della Ratta13, imparentata con quella deiMarzano; mentre nel dicembre 1459 Ferrante I d’Aragona incorporò ilfeudo di Pontelatone alla città di Capua14. Nel 1465, lo stesso Ferrante ri-costituì la Baronia di Formicola, unendovi anche Pontelatone, e la affidò aDiomede Carafa, conte di Maddaloni, i cui discendenti ne rimasero in pos-sesso fino al 180615.

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a castris suis que sunt castrum S. Angeli de Rupecanina, castrum Baianum, castrumSaxe, castrum Squille, castrum Dragonis, castrum Pontis Labronis et Formicula.Sub die XIV aprelis, III ind.», p. 200. Nel giugno 1280 il castrum si trova inseritonel Quaderno del Giustiziere di Terra di Lavoro e Contado del Molise, nel qualesono annotate tutte le terre tassate per il pagamento dello stipendio delle milizie,RCA, XXII, 1279-1280, 1969, p. 111.12 Il castrum rimase imprendibile anche dopo il lungo assedio che Ferrante I d’Ara-gona pose al castello nel corso della guerra scaturita a seguito della rivolta dei ba-roni. Nel corso delle lotte tra Ferrante e il cognato Marino di Marzano, Pontelatonefu più volte assediata: «Da li lì? condusse col campo su quel di Cerreto, e ferma-tosi fra Caiazzo e Teleso, s’impadronì di molti castelli; e giunto a Pontelodrone, ilquale posto sotto il monte oltre il Volturno discosto sei miglia di Capua, l’assediòda due parti, non potendo chiuderlo intieramente per l’altezza delle rupi, e de’ fossi,che vi sono; e fattevi appressar l’artiglierie, con le quali si mandò giù una torrequadrata, che si inalzava sopra la porta, i terrezzani la rimediarono con funi, edaltre machine. Durò più giorni questo assedio per non potersi cingere il castello, néproibire, per una sola porta vi era, né l’entrare, né l’uscire alle genti, che il Marzanovi mandava in soccorso la notte, molto favorite dalla fredda stagione; onde a quelledel Re non era possibile a reggersi a lungo andare e perciò gli parve espediente ab-bandonar l’impresa, avvisato che il Marzano ponendo gran numero di fanti insiemepotea occupargli il monte, il quale difficilmente potea da lui guardarsi; e temeaanco, che avesse da far impeto nell’altro campo che tenea alloggiato oltre la valle»(G.A. SUMMONTE, Historia della città e regno di Napoli, Napoli, nella Stamperiadi Giuseppe Raimondi e Domenico Vivenzio, 1748-1749, IV, pp. 456-457).13 F. SENATORE, Spazi e tempi della guerra nel Mezzogiorno aragonese: l’itinera-rio militare di Ferrante (1458-1465), Salerno 2002, p. 240.14 SUMMONTE, Historia, IV, p. 457; F. GRANATA, Storia civile della fedelissima cittàdi Capua, Napoli, nella Stamperia Muziana, 1752, II, p. 119; AURILIO, Pontela-tone e la baronia dei Carafa, pp. 20-21.15 DI DARIO, Notizie storiche, pp. 266-268; AURILIO, Pontelatone e la baronia deiCarafa, pp. 20-21.

Il documento pergamenaceoLa pergamena datata 16 aprile 1282 è conservata presso l’Archivio di

Stato di Napoli, dove è depositato l’intero fondo pergamenaceo denomi-nato Pergamene dell’Archivio vescovile di Caiazzo. Dal punto di vista delladiplomatica degli atti, il documento si discosta dagli altri rogiti redatti nellostesso periodo, essendo privo di quei caratteri estrinseci e intrinseci pecu-liari dell’atto privato, benché esso possa essere considerato di natura privata.Il documento non si apre con la formula dell’invocatio simbolica e verbale,ma con quella che potrebbe essere definita una specie di intitulatio, nellaquale è indicato il nome del compilatore dell’inventario; di seguito si leggeil riferimento al mandato del vescovo di Caiazzo per la quale utilità si èresa necessaria tale redazione; il dettato del documento prosegue con la for-mula della datatio, che risulta essere non corretta16. Lo stesso dicasi per laparte finale del documento: benché sia presente la roboratio, è assente la ro-gatio e le altre formule di autenticazione tipiche dei documenti coevi re-datti nel medesimo territorio, la cui presenza è di fondamentale importanza,poiché ne costituisce la fides; l’escatocollo è privo della sottoscrizione au-tografa del compilatore dell’inventario e di quella dei personaggi che lohanno assistito nella compilazione, e della sottoscrizione di un eventualenotaio o giudice. Queste piccole anomalie, l’assenza dell’invocazione, l’er-rata datazione, l’assenza della rogatio e dell’escatocollo, potrebbero far sor-gere il sospetto di trovarsi davanti a un documento falso. Di contro, propriol’assenza di questi elementi, sembra suggerire la natura stessa del docu-mento e il suo specifico uso. A mio avviso, credo che si tratti, più che altro,di uno strumento a uso esclusivamente interno alla diocesi, per cui la pre-senza degli elementi su indicati non era necessaria nell’atto, e ciò giusti-fica la poca attenzione versata nella redazione dello stesso. Siamo, infatti,di fronte a un elenco di chiese e non a un atto notarile vero e proprio, conla funzione speculare di promemoria per il vescovo di Caiazzo, come silegge in un passo del rogito «pro cautela dicti Maioris Ecclesie Cayacie[…] et futuram memoriam», per cui il compilatore Bartolomeo evidente-mente non essendo un notaio, quindi non avvezzo alla prassi notarile, nonè stato in grado di fare beni il computo degli anni dei due regni di Carlo,quello di Sicilia e quello di Gerusalemme, congiuntamente a quello del-l’indizione. Ciò risulta evidente anche dalla sequenza della datatio, che,

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16 Gli elementi cronologici non concordano, poiché l’anno del regno di Gerusa-lemme di Carlo I corrispondente al mese di aprile del 1282 dovrebbe essere il 6°,mentre l’anno del regno di Sicilia dovrebbe essere il 17°, come anche l’indizioneche dovrebbe essere la X.

oltre ad essere chiaramente errata, non indica quale anno corrisponde aquale regno, come invece si legge nei rogiti coevi, nei quali, dopo la formula«Anno ab incarnatione eius millesimo ducentesimo octuagesimo secundoregnate autem feliciter domino nostro Karolo Dei gratia invictissimo Ieru-salem et Sicilie rege ducatus» etc., il notaio specifica, ad esempio, «regno-rum vero eius Ierusalem anno sexto, Sicilie anno septimo decimo», chedistingue il computo degli anni dei due differenti regni17.

Nel nostro documento manca l’indicazione dell’anno del regno di Sici-lia che è stato così integrato: dopo la formula «regnante domino nostro Ka-rulo Dei gratia Ierusalem et Sicilie rege, ducatus Apulie et principatusCapue, Andegavie, Provincie, Tomodorii et Forchalquerii comite regnorumeius anno quinto» il compilatore aggiunge la frase ‹Sicilie vero anno› cheprecede il computo dell’anno «sexto decimo».

L’inventarioLa pergamena contiene un inventario compilato dall’arcipresbitero Bar-

tolomeo Denugone di Formicola, insieme ai dompni Silvestro Nicola eGualtiero Vitali di Formicola e all’abate Gualtiero de Costanza di Pontela-tone, su espresso ordine del vescovo di Caiazzo Andrea di Ducenta18. L’in-ventario, particolare nel suo genere, elenca tutte le chiese esistenti nel XIIIsecolo che facevano parte dell’arcipretura di Pontelatone, con l’indicazionedella rendita dovuta alla Maior Ecclesia di Caiazzo, e della festività in cuiessa doveva essere versata. Il documento ci restituisce un’istantanea del-l’estensione geografica dell’arcipresbiterato attraverso la cospicua quantitàdi chiese sottoposte all’arcipretura di Santa Maria di Pontelatone nella se-conda metà del secolo XIII. Esso costituisce una fonte importante che per-mette di seguire il processo di espansione del patrimonio ecclesiastico diuno dei più importanti arcipresbiterati facenti parte del territorio di Terra diLavoro. L’inventarium, inoltre, consente di identificare il momento del-l’erezione di nuove chiese, laddove sia possibile farlo, o, nel caso di scar-sità di informazioni, quanto meno fissare la loro esistenza a cavallo tra isecoli XII e XIII, o, infine, il passaggio di giurisdizione di alcune di essedall’arcipresbiterato di Santa Maria ad un’altra arcipretura.

L’inventarium, comparato con la già citata chartula confirmationis del979, emanata dal metropolita di Capua dà modo di individuare la presenza

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17 Si veda, ad esempio, ASNA, Pergamene dell’Archivio vescovile di Caiazzo, perg.288.18 Sulla figura del vescovo Andrea de Ducenta si rimanda a Le pergamene dell’ar-chivio vescovile di Caiazzo (1266-1285), cur. L. Esposito, Napoli 2005, pp. 18-19.

delle chiese elencate e di localizzarne il casale di appartenenza nella diocesidi Caiazzo nel secolo X; inoltre, è possibile seguirne il susseguente svi-luppo con l’ausilio di testimonianze documentarie, edite e inedite, relativeai secoli successivi che giungono fino al 1500. Tale comparazione è ulte-riormente arricchita dagli studi di Pasquale Iadone, erudito e storico localedi Terra di Lavoro e, in particolare, della zona del caiatino, che ci ha tra-mandato alcuni manoscritti dei primi decenni del secolo XIX. In uno diquesti, lo studioso analizza i documenti dagli originali in pergamena – moltidei quali non più esistenti nel suddetto archivio vescovile – nonché alcunefonti narrative, collazionandoli con gli elenchi delle decime del secolo XVI.Egli ci ha tramandato un prezioso inventario delle Chiese afferenti alla dio-cesi di Caiazzo, localizzate nei diversi casali di appartenenza, con l’indica-zione del pagamento delle decime19. Queste fonti diplomatichecostituiscono un materiale di primo ordine per approfondire la conoscenzadei vari aspetti della cura animarum e dell’organizzazione dell’arcipresbi-terato di Santa Maria e per delineare un quadro sintetico del panorama eco-nomico e sociale del castrum di Pontelatone. Ed è per questo motivo che lapubblicazione dell’inventarium del 1282 costituisce un rilevante contributocongiuntamente alle importanti testimonianze citate.

Le chiese presenti nell’inventario possono essere divise in tre gruppi: lechiese delle quali si conosce l’esistenza perché nominate nel documentodel 1282, ma delle quali non si conoscono altre informazioni non essendomenzionate in altri documenti e non essendo state oggetto né di studi né dicitazioni; le chiese elencate nell’inventario ma presenti anche nell’elencodelle Rationes decimarum del 1326 e/o del 1327; infine, le chiese che sonopresenti nell’inventario la cui esistenza è attestata a cavallo tra i secoli X eXIV, poiché, o sono citate nelle Rationes o in documenti anteriori e/o suc-cessivi al 1282.

Le chiese di San Biagio di Formicola, San Martino de Caviano20, SanMartino de Cernarecza21, San Martino de Grece22, San Salvatore de Cen-

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19 IADONE, Quinterno de una decima del Episcopato; IADONE, Manoscritto miscel-laneo, Caiazzo, Biblioteca comunale “Giuseppe Faraone”, ms, s.n., s.d.20 La Chiesa versa la rendita annuale all’episcopato caiatino per l’usufrutto di duepeccie di terra situate a Caviano, territorio sul quale essa è edificata. La Chiesacompare nell’inventario del 1620 nell’elenco dei benefici rurali di Formicola (P. IA-DONE, Notamento delle Chiese Curate e cappelle rurali beneficiali esistenti in tuttadetta Diocesi di Caiazzo nel 1620 come si rileva dalla Platea della Mensa Vesco-vile fatta nel detto anno essendo vescovo nostro Filomarino, Caiazzo, BibliotecaCivica Comunale ”Giuseppe Faraone”, ms. misc., s. n., s. d., c. 19).21 La Chiesa è presente anche nell’inventario del 1620 (IADONE, Notamento delleChiese Curate, c. 31).22 La Chiesa versa la rendita annuale all’episcopio caiatino per l’usufrutto di una

tura23, San Pietro de Ursanis, San Prisco di Formicola24, sono presenti nel-l’inventarium, ma assenti sia nel documento di Gerberto del 979, sia nel-l’elenco delle Rationes per gli anni 1326-132725. Le prime quattro chieseversano alla Maior Ecclesia di Caiazzo una decima annuale di dodici graninelle due festività, Ogni Santi e Pasqua, mentre le restanti tre rendono al-l’episcopato un tarì e cinque grani d’oro da versarsi nei medesimi giorni.Purtroppo non abbiamo altre informazioni su queste chiese; l’assenza di ci-tazioni può essere dovuta a due cause: alla scomparsa della chiesa dovutaa crolli o a nuove edificazioni, o alla variazione della intitolazione dellachiesa, non insolita nel territorio26, la cui dedicazione mutua in favore diun santo a discapito di un altro.

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terra sulla quale essa è edificata, ubicata nei pressi di un monte. Essa è presenteanche nell’inventario del 1620 (IADONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 19). Iltoponimo Creci compare in un documento redatto a Caiazzo del novembre 1060,nel quale Landone, figlio del fu Samuele, offre alla chiesa di Santa Maria alcuneterre, una parte delle quali ubicate a Camporalonga in località detta «Creci» (Lepergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1007-1265, I, p. 42).23 La Chiesa versa la rendita annuale all’episcopio caiatino per l’usufrutto di unapeccia di terra, sulla quale essa è edificata, situata nei pressi di una località dettaBurrellorum. La Chiesa è presente anche nell’inventario del 1620 (IADONE, Nota-mento delle Chiese Curate, c. 31).24 La Chiesa versa la rendita annuale all’episcopio caiatino per l’usufrutto di duepeccie di terra, su una delle quali essa è stata costruita, mentre l’altra peccia di terraè situata in località detta Lu Fundu. Essa è presente nell’elenco redatto da Iadonea proposito delle decime degli anni 1523-1533, «Dono Ioandomenico de Formicolaper Sancto Prisco tarì dui, et grana quattuordece et dinari tre» (IADONE, Quinternode una decima del Episcopato, c. 7). La Chiesa è presente anche nell’inventario del1620, come chiesa facente parte del casale di Formicola nel 1523 (IADONE, Nota-mento delle Chiese Curate, cc. 18, 33).25 In realtà nell’elenco delle Rationes per l’anno 1326 la Chiesa di San Biagio è ci-tata in questo modo: «S. Blasii et S. Marie de Casale», priva quindi, della specifi-cazione de Formicula, per cui non si può essere sicuri che si tratti della stessaChiesa; lo stesso dicasi per la chiesa di San Prisco, la quale compare nell’elencodelle decime per gli 1326-1327, ma accanto a essa non vi è altra specifica, per cuinon possiamo essere certi che la Chiesa sia di pertinenza del casale di Formicola,cfr. Rationes decimarum, nn. 1835, 1836, 1949.26 La chiesa Cattedrale aveva come titolo principale e più antico quello di SantaMaria Assunta, testimoniato da una serie di documenti redatti tra il secolo X e l’ini-zio del secolo XIII (Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1007-1265,I, pp. 27-34, 41-44, 46-48; II, pp. 267-269: «pro parte dicte ecclesie Sancte Marie,que est episcopium»; Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1286-1309,cur. L. Esposito, Napoli 2009,). All’antico nome di Santa Maria fu aggiunto quellodi Santo Stefano vescovo e, per alcuni anni i due titoli hanno convissuto (Le per-

Il secondo gruppo di chiese, Sant’Andrea de Casalichio27, Sancta Chri-stinitatis28, San Giovanni de P(er)ciis29, Sant’Ilario30, San Lorenzo31, Santa

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gamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1266-1285, p. 185 e ASNA, Pergamenedell’Archivio vescovile di Caiazzo, perg. 274: «pro reverentia gloriose virginisMarie et beati Stephani confessoris»). Nel 1284, quando la cattedrale fu consa-crata, il vecchio titolo di Santa Maria lasciò il posto al nuovo titolo di Santo Ste-fano, come testimona anche un documento di traslazione del corpo di Santo Stefanoriportato dal Di Dario, «ad divini cultus augmentum et Dei sanctorumque omniumet praecipue S. Stephani Episcopi et Confessoris Patroni et Titularis CathedralisEcclesiae et Civitatis gloriam et honorem» (DI DARIO, Notizie storiche, p. 200).27 La Chiesa nel 1468 è attestata come facente parte del casale di Treglia unita-mente alla sua parrocchia (IADONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 20).28 La Chiesa versa la rendita annuale all’episcopio caiatino – unitamente a tre polliche corrisponde nel giorno della festa di Santa Maria nel mese di agosto – per l’usu-frutto di due peccie di terra, ubicate una in località detta Fundus, mentre l’altra si-tuata nel Casale Mayrany e delimitata da una terra di proprietà di Giovanni d’Isola(Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1266-1285, p. 77: Ysola è citatacome località). La Chiesa è presente nell’elenco redatto da Iadone a proposito delledecime relative al decennio 1523-1533, attestata nella giurisdizione del casale diFormicola, separata da Pontelatone, «lo archipreite de Formicola per Sancta Chri-stianitatis ducato uno tarì dui et grana dece» (IADONE, Quinterno de una decima delEpiscopato, c. 7). Essa è attestata come arcipretura nel 1523 nel territorio di For-micola (IADONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 18).29 La Chiesa è presente nell’elenco redatto da Iadone a proposito delle decime deglianni 1523-1533, passata sotto la giurisdizione diretta della diocesi di Caiazzo, «perSancto Iohanne de li Perzi grana quindice» (IADONE, Quinterno de una decima delEpiscopato, c. 5). Essa è presente anche nell’inventario del 1620 (IADONE, Nota-mento delle Chiese Curate, cc. 19, 30).30 La Chiesa versa la rendita annuale all’episcopio caiatino per l’usufrutto di unapeccia di terra, sulla quale essa è edificata, ubicata nelle vicinanze della terra delgiudice Giacomo Burrelli (il patronimico Burrellus, già presente nella zona del ca-iatino sin dalla prima metà del secolo XIII, è abbastanza diffuso ed è attestato anchenella seconda metà del 1300, per cui potrebbe non costituire elemento di aiuto o diriscontro nell’identificazione della Chiesa (Le pergamene dell’archivio vescovile diCaiazzo, 1007-1265, passim; G. BOVA, Le pergamene normanne della Mater Ec-clesia Capuana, 1091-1197, Napoli 1996, pp. 194-196, 242; Le pergamene del-l’archivio vescovile di Caiazzo, 1266-1285, passim). Nonostante ciò, è singolareche la prima citazione del cognome sia presente nel documento del 1240, nel qualecompare l’abate Guglielmo Burrellus in una transazione riguardante una proprietàubicata a Pontelatone, e precisamente in località Buccapiczane, di pertinenza dellachiesa di San Pietro (Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1007-1265,I, p. 176). La Chiesa, inoltre, è presente nell’elenco redatto da Iadone a propositodelle decime degli anni 1523-1533, «per Santo Ylario grani sette et dinari tre» (IA-DONE, Quinterno de una decima del Episcopato, c. 7).31 La Chiesa è presente nell’elenco redatto da Iadone a proposito delle decime degli

Maria ad Casali32, Ogni Santi di Formicola33, San Lorenzo34, San Pietro aCornito35, San Pietro a Castilluczo36 e San Tamarro37 non presentano atte-stazioni precedenti l’inventarium e nessuna di essa compare nella bolla diGerberto, ma tutte sono presenti nell’elenco delle Rationes decimarum pergli anni 132638 e 132739. Le prime quattro rendono una decima annuale allaMaior Ecclesia di Caiazzo di un tarì e cinque grana, che le suddette versanonel giorno della festa di Ogni Santi e nel giorno di Pasqua; mentre le restanti

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anni 1523-1533, «per Sancto Laurenzo grani sette et dinari tre» (IADONE, Quin-terno de una decima del Episcopato, c. 7).32 La Chiesa versa la rendita annuale all’episcopio caiatino per l’usufrutto di unapeccia di terra, sulla quale essa è edificata, ubicata nei pressi del Mons Curie. Essa,inoltre, è presente nell’elenco redatto da Iadone a proposito delle decime degli anni1523-1533, passata sotto la giurisdizione diretta della diocesi di Caiazzo, «per San-cta Maria ad Casale grana quattro» (IADONE, Quinterno de una decima del Epi-scopato, c. 5). Nell’inventario del 1620, la Chiesa è attestata nell’elenco dei beneficirurali di Formicola (IADONE, Notamento delle Chiese Curate, cc. 19, 30).33 La Chiesa versa la rendita annuale all’episcopio caiatino – unitamente a tre polli– per l’usufrutto di una peccia di terra, sulla quale essa è edificata, situata in loca-lità chiamata Fundus de Sancti. Essa, inoltre, è citata nell’inventario del 1620: essaè localizzata nel casale di Fondola unita alla chiesa di San Michele nel 1468 (IA-DONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 18).34 La Chiesa è presente nell’elenco redatto da Iadone a proposito delle decime deglianni 1523-1533, «per Sancto Laurenzo grani sette et dinari tre» (IADONE, Quin-terno de una decima del Episcopato, c. 7).35 La Chiesa è presente nell’elenco redatto da Iadone a proposito delle decime del-l’anno 1523-1533, «Clerico Tomase de Pisa per Sancto Petro ad Cornito, tarì duiet grana undece» (IADONE, Quinterno de una decima del Episcopato, c. 6). Essa èattestata anche nell’inventario del 1620 (IADONE, Notamento delle Chiese Curate,cc. 19, 28).36 La Chiesa compare nell’inventario del 1620 nell’elenco dei benefici rurali di For-micola (IADONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 19).37 Di questa Chiesa non si conoscono altre notizie, mentre della chiesa di S. Pietro,alla quale è unita nell’elenco delle Rationies, si conoscono alcuni dati. Essa nel se-colo XV è documentata nella località detta Li Marzi, la quale villa era unita a Pon-telatone (IADONE, Notamento delle Chiese Curate, cc. 18, 28).38 Santa’Andrea de Casalicchio due tarì e mezzo, Sancta Cristinitatis un tarì e un-dici grani e mezzo, Sant’Ilario e San Lorenzo per un totale di dieci grani, SantaMaria ad Casali (insieme alla chiesa di San Biagio) per un totale di dieci grani equattro denari, Ogni Santi di Formicola tre tarì e tre denari, San Pietro a Cornito duetarì, San Pietro a Castilluczo (insieme alla chiesa di San Felice) per un totale didieci grani, San Tamarro (insieme alla chiesa di San Pietro de Marcis) per un to-tale di due tarì e mezzo (rispettivamente Rationes decimarum, nn. 1843, 1835,1834, 1852, 1848, 1842).39 Sant’Andrea di Casalicchio un tarì e quindici grani, Sancta Christinitatis cinque

sei Chiese versano una quota annuale di 12 grani nei giorni delle predettedue festività.

Per quanto riguarda le altre chiese la situazione è la seguente: la chiesadi Sant’Angelo ac Toro, non comparendo nella chartula confirmationis delvescovo Stefano, per una prima menzione bisogna attendere la redazionenell’inventarium, nel quale essa compare per la prima volta. Dopo il 1282,la successiva attestazione del toponimo Torum, come anche della Chiesa, silegge in una charta confirmationis dationis redatta a Capua nel giugno1285, nella quale Siffridina Miliczani, signora di Strangolagalli, dona ai fra-telli Adenolfo e Giroldo di Capua, due peccie di terra; la seconda di questepeccie è situata in località Sant’Angelo de Toro e confina, a uno dei quat-tro lati, con la terra della chiesa di Sant’Angelo40. Nelle Rationes, la Chiesasembrerebbe non comparire, ma essa è certamente presente: nell’elencodelle decime, infatti, al numero 1853 corrisponde una chiesa priva del nomeproprio preceduto dall’attributo ‘San’ e seguita dalla specificazione adTorum; essa è da attribuirsi alla nostra Chiesa, poiché con tale denomina-zione nei secoli XIII-XIV era attestata un’unica chiesa nel casale di Ponte-latone. La somma dell’imposta ammonta a sei grani per l’anno 132641.

La chiesa di San Giovanni ac Turone42, non presente nel documento diGerberto, è assente anche nelle Rationes. Il toponimo «Turones» è attestatoin una charta concessionis dell’aprile 1258, redatta a Caiazzo, come loca-lità nella quale è ubicata la sesta di dieci peccie di terra che Giovanni e An-drea, figli del fu Michele Paldo, dichiarano di aver ricevuto in concessionedalla Chiesa di Caiazzo43. La Chiesa rende alla Maior Ecclesia di Caiazzododici grani nelle consuete due festività, Ogni Santi e Pasqua, per una terrasulla quale la stessa è edificata, ubicata nei pressi di un ruscello dal sugge-stivo nome Mare Morte, del quale non si hanno altre testimonianze.

I documenti concernenti la chiesa di Santa Maria di Strangolagalli sonoin numero copioso rispetto a quelli riguardanti le chiese dipendenti dall’ar-

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grani, San Giovanni de Perciis (citata come San Giovanni de Prestiis), Ogni Santidi Formicola cinque grani; cfr. rispettivamente Rationes decimarum, nn. 1945,1950, 1946, 1947.40 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1266-1285), p. 227.41 Rationes decimarum, n. 1853.42 La Chiesa è presente nell’elenco redatto da Iadone a proposito delle decime deglianni 1523-1533, passata sotto la giurisdizione diretta della diocesi di Caiazzo, «perSancto Iohanne ad Turona grana dece» (IADONE, Quinterno de una decima del Epi-scopato, c. 5). Essa è presente anche nell’inventario del 1620 (IADONE, Notamentodelle Chiese Curate, cc. 19, 30).43 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1007-1265), II, p. 379. In unaltro documento del febbraio 1256, invece, un toponimo affine compare come iden-

cipretura di Santa Maria di Pontelatone. La Chiesa, benché non sia attestatanella chartula confirmationis dell’arcivescovo di Capua, come anche il vil-laggio in cui essa sorge44, è comunque ben nota. La sua più antica attesta-zione si trova in un rogito redatto a Caiazzo nel maggio del 1221, nel qualeStanzio e Daliboldo, per parte della Congregazione di Caiazzo, della qualesono entrambi procuratori e rettori, concedono a Gaydolfus sei peccie diterra, la prima delle quali è ubicata nella Piana di Caiazzo «ubi connomi-natur ad Fontanam de Curte», e confina nel lato meridionale con una terradi pertinenza della chiesa di S. Maria di Strangolagalli45. Nel giugno del1242, in una charta concessionis redatta Caiazzo compare tale Nicola, chie-rico capuano, abbas et rector della suddetta chiesa di Santa Maria, il qualecon il consenso del vescovo caiatino Giacomo, concede a Ruggero de Nuvauna peccia di terra situata in località detta Vallis Curcium46. Ancora in unacharta alienationis del settembre 1254, Santa Maria è citata quale confinesettentrionale di una peccia di terra che Giovanni Gaydulfi e sua moglieGemma alienano alla Santa Congregazione di Caiazzo nelle persone deisuoi procuratori e rettori, Simone Secelgayte e Giovanni de Merio47. LaChiesa è citata in una charta dationis dell’agosto del 1269, redatta a Capua,nella quale Bartolomeo de Episcopo, canonico della Sancta Capuana Ec-clesia, custode e rettore della chiesa di Santa Maria di Strangolagalli, con-cede una peccia di terra a Tommaso Gisi; essa è citata quale subdita dellaMaior Ecclesia Caiacciana e risulta essere anche la destinataria del con-sueto versamento che il compratore, in questo caso il beneficiario della do-nazione, è solito fare relativamente ad una certa quantità di libbre di cera48.In una charta dationis del maggio 1278 compare Andrea Pandonus, cu-

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tificativo di una peccia di terra concessa dal vescovo di Caiazzo al giudice Andreade Nicola, ubicata fuori Porta Vetere «ad criptam Sancti Cataldi prope monticellumTuronis» (Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1007-1265), II, p. 337).44 Il villaggio di Strangolagalli sorse dopo il 979, poiché non è nominato nel docu-mento emanato dal metropolita di Capua. Per la storia del casale si rimanda a DIDARIO, Notizie storiche, pp. 269-275. Nel novembre 1270 il castrum si trova nel-l’elenco delle collette del Giustizierato di Terra di Lavoro: «mandat Rex ut super-sedeat exactione collectarum apud homines […] propter eorum paupertatem.Similes facte sunt pro hominibus Strangulagalli», RCA, VI, 1270-1271, 1954, p. 57.Due anni dopo signore del castrum è così citato: «mandatum pro servitio prestandoin Romania a Roberto de Muluczano, dom. castri Stangulagalli», RCA, IX, 1272-1273, 1957, p. 243.45 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1007-1265), I, p. 127.46 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1007-1265), II, pp. 199-201.47 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1007-1265), II, pp. 324-326.48 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1266-1285), p. 126.

stode e rettore della chiesa di Santa Maria di Strangolagalli, insieme a tuttii membri del clero, concede a Pietro de Benedetto, una pecciola di terra;anche in questo caso la Chiesa beneficia del versamento delle libbre dicera49. Lo stesso Andrea Pandonus, custode e rettore della chiesa di SantaMaria di Strangolagalli, compare in un’altra charta dationis redatta a Capuanel gennaio 1283 – la chiesa è citata sempre quale subdita Maioris Eccle-sie Caiacciane – nella quale, con il consenso di tutto il clero della chiesa diSanta Maria, Andrea, che è anche canonico e cappellano della Sancta Ca-puana Ecclesia, concede a Simeone de Raone, una peccia di terra; il pos-sedimento, situato in località detta Fundus, è di pertinenza della chiesa diSanta Maria – adiacente alla terra in questione – la quale risulta essere anchela beneficiaria del versamento della consueta libbra di cera50. Infine, in unacharta confirmationis dationis del giugno 1285 redatta a Capua, la chiesadi Santa Maria compare come confine di una peccia di terra concessa da Sif-fridina Miliczani, signora di Strangolagalli ai fratelli Adenolfo e Giroldusdi Capua51. Nell’inventarium del 1282 la chiesa di Santa Maria rende an-nualmente alla mensa episcopale un tarì. Nell’elenco delle Rationes laChiesa è elencata per la decima del 1326 con la somma di tre tarì e dodicigrani, mentre per l’anno successivo la somma ammonta a diciotto grani52.

La chiesa di San Vitagliano de Agaczano53 è assente nel documento diGerberto. Essa potrebbe essere quella Chiesa citata in un documento delmarzo 1261, nel quale al tempo del vescovo di Caiazzo Andrea, il giudiceGiovanni de Monaco vende un tenimento a Giovanni Orso composto daundici peccie di terra situate nel casale di Strangolagalli; nell’elenco delleterre l’ottava peccia reca come confine settentrionale la chiesa di San Vita-gliano54. Considerando la stretta vicinanza del casale di Strangolagalli conil castrum di Pontelatone, l’ipotesi è più che plausibile. Ad avallare questatesi conforta il fatto che il tenimento oggetto della transazione è situato neipressi di una località denominata Balignano, «tenimentum […] quod estinfra fines civitatis Caiaccie in pertinenciis Strangulagalli Tori et prope Ba-

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49 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1266-1285), p. 178.50 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1266-1285), p. 209.51 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1266-1285), p. 227.52 Rationes decimarum, nn. 1856, 1953.53 La Chiesa è presente nell’elenco redatto da Iadone a proposito delle decime deglianni 1523-1533, «clerico Cesare de Monella per Sancto Vitagliano tarì dui et granadece» (IADONE, Quinterno de una decima del Episcopato, c. 7). La Chiesa è atte-stata nel 1450 nel casale di Agaczano, località di pertinenza di Pontelatone (IA-DONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 19).54 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1007-1265), II, p. 422.55 Rationes decimarum, nn. 1727, 1930.

lignanum», e poiché vi è la presenza di una chiesa di San Vitaliano de Ba-lignano citata nelle Rationes per gli anni 1326-132755, elencata nella diocesidi Caiazzo sotto la giurisdizione in archipresbiteratu Plani Caiacciani, po-trebbe trattarsi con ogni probabilità della medesima Chiesa. Inoltre, nellaPlatea redatta dal Filomarino nel 1620, nell’elenco dei benefici afferenti ilseminario annesso alla diocesi di Caiazzo, si legge che la chiesa di San Vi-tagliano de Balignano è situata «in territorio Pontis Latoni»56. Essa rendealla Maior Ecclesia un tarì e cinque grani da versarsi nelle due consuete fe-stività, Ogni Santi e Pasqua, per una terra situata presso un monte.

La chiesa di San Silvestro de Casa Marcella è assente nel documento diGerberto e nell’elenco delle Rationes decimarum57. La prima attestazionedella Chiesa risale al novembre 1053, come si legge un documento redattoa Capua nel quale Sichelgarda, figlia di Landolfo, con il permesso del ma-rito Lanfredo, vende a Sasso e alla moglie Maria entrambi di Caiazzo, unapeccia di terra situata nel territorio caiatino «ubi dicitur Casa Marcella» epiù precisamente «propincu ecclesia Sancti Silvestri»58. Nel gennaio 1085Giovanni detto Mairani e Ricca badessa del monastero di San Giovannidelle Monache convengono alla presenza del giudice Maraldi per la pro-prietà di due peccie di terra, situate a Caiazzo. Queste due peccie di terraerano state donate da Maria pro anima al suddetto monastero e sono en-trambe ubicate in località Casa Marcella, anch’essa «propinqua ecclesiamSancti Silvestri»59. La Chiesa rende alla Maior Ecclesia dodici grani da ver-sarsi nelle due consuete festività, Ogni Santi e Pasqua, per due peccie su unadelle quali è stata edificata la Chiesa; la seconda è situata in località dettaFulgnano.

La chiesa di Sant’Angelo de Casa Marcella è l’unica chiesa della qualesi può dire con certezza essere presente nel documento di Gerberto del 979.L’arcivescovo di Capua – come si vedrà nel documento posto nell’Appen-dice documentaria – nel confermare al vescovo Stefano i territori e le chiesesuffraganee alla diocesi di Caiazzo, esclude il casale di Casa Marcella conle annesse chiese: nell’elenco dei territori, la sesta peccia di terra è situata

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56 P. FILOMARINO, Platea di tutti i beni e dritti della Mensa di Caiazzo, PiedimonteMatese, Biblioteca Diocesana “San Tommaso d’Aquino”, ms., s.n., s.d., c. 69r.57 In realtà è presente una chiesa di San Silvestro nelle Rationes per la decima del1326, ma accanto a essa non vi è altra specifica, per cui non possiamo essere sicuriche la Chiesa sia ubicata a Casa Marcella (Rationes decimarum, n. 1846).58 MONACO, Sanctuarium Capuanum, p. 641; BLOCH, Monte Cassino, I/2, pp. 545-546; Documenti: per la storia della diocesi e contea di Caiazzo (ante 599-/309),cur. L. Esposito, Napoli 2010, pp.83-84. 59 Le pergamene di Capua, cur. J. Mazzoleni, I-II/1-2, Napoli 1957-1960, I, pp. 13-16; Documenti: per la storia della diocesi e contea di Caiazzo, pp. 90-93. Nella

«prope Sancti Angelo», facente parte del tenimento. La Chiesa è presentenell’indice delle Rationes del 1326, anno in cui versa una decima di seigrani sommati a dodici tarì e dodici grani «pro beneficiis inter omnes»60.Essa, come si legge nell’inventarium, rende alla Maior Ecclesia dodici granida versarsi nelle due consuete festività, Ogni Santi e Pasqua, per due pec-cie di terra su una delle quali essa è edificata, situata «iuxta montem curie».

La chiesa di Santa Maria di Pontelatone61, assente nel documento di Ger-berto, è presente nelle Rationes con una decima di tre tarì e tredici graniper l’anno 1326 e con la somma di due tarì e quindici grani per il 132762.La prima attestazione della Chiesa si legge in un memoratorium venditio-nis redatto a Caiazzo mercoledì 16 gennaio 1269, nel quale Martino de Do-menico dichiara di ricevere da tale Peregrino e da suo figlio Pietro, unapeccia di terra confinante da uno dei quattro lati con la chiesa di Santa Mariadi Pontelatone63. La chiesa di Santa Maria è attestata come arcipretura nel1282, come si evince dall’Inventarium «est capud dicti archipresbiteratus»,motivo per il quale essa è esente dal versamento della tassa annuale allaChiesa di Caiazzo «ecclesia Sancte Marie de Ponte Latroni tenetur profranca»; la Chiesa nel secolo XV64 mantiene ancora il titolo e la funzionedi arcipretura. Nella Platea redatta dal canonico Filomarino nel 1620, l’ar-cipretura di Pontelatone è ancora presente, benché si trovi citata con un’al-tra denominazione, non più intitolata a Santa Maria ma sub titulo di SanMichele e a San Pietro65; essendo privi di altri riferimenti bibliografici edocumentari, si può ipotizzare che ciò sia da attribuirsi, probabilmente, o adun diverso indirizzo nel culto popolare, o alla soppressione dell’anticachiesa come arcipretura e l’erezione di un’altra.

L’erezione della chiesa di Santa Maria ad arcipretura avvenne a seguitodell’edificazione del castello di Pontelatone, a scapito della chiesa di SantaMaria a Peti66, di antica fondazione, nucleo principale dell’omonimo vil-

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charta convenientiae è presente come inserto buona parte del documento del no-vembre 1053, più volte citato.60 Rationes decimarum, n. 1858.61 La Chiesa è presente nell’elenco redatto da Iadone a proposito delle decime deglianni 1523-1533, «per Santa Maria de Pontelatrone ducato uno, tarì dui et grana de-cesette» (IADONE, Quinterno de una decima del Episcopato, c. 6). Essa è presenteanche nell’inventario del 1620 (IADONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 28).62 Rationes decimarum, nn. 1845, 1944.63 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1266-1285), p. 116.64 IADONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 19; DI DARIO, Notizie storiche, p.269.65 FILOMARINO, Platea di tutti i beni e dritti, c. 86.66 La Chiesa vanta attestazioni che risalgono al secolo X. Infatti, oltre ad essere

laggio annesso poi al castrum, e che era stata matrice delle Chiese vicine ead essa afferenti67. Tale chiesa doveva già costituire una forma primitiva diarcipretura, poiché ad essa era sottoposte già alla fine del secolo X un nu-mero notevole di chiese e di terreni per quel tempo, come mostra chiara-mente la chartula confirmationis di Gerberto del 979. Se, come afferma ilTomassini, «singule plebes archipresbyterum habeant»68, e che sotto il nomedi plebes s’intendeva un unione di più chiese o parrocchie, la chiesa di SantaMaria ad Peti, che aveva funzione di plebes rurale, poiché era presieduta daun arciprete e possedeva una fonte battesimale69, può verosimilmente esseredefinita un’arcipretura o comunque una struttura organizzativa ad essamolto vicina. Tale doveva essere, quindi, l’ufficio tenuto dalla chiesa diSanta Maria ad Peti, il quale fu poi trasferito alla chiesa di Santa Maria diPontelatone, con la fondazione, come già detto, dell’omonimo castrum.Come si è appena visto, l’arcipretura di Santa Maria nel 1282 era costituitada ben 23 chiese diffuse in maniera più o meno regolare nel territorio delladiocesi di Caiazzo, e nello specifico nel castrum di Pontelatone. In tale strut-tura vennero annesse chiese di nuova edificazione, come è probabilmenteil caso di Sancta Christinitatis o San Pietro de Ursanis, ma anche Chiese diantica fondazione, come il caso delle chiese di San Lorenzo, di Sant’Angeloe di San Vitaliano, quest’ultima unita all’arcipretura anche a seguito del-l’annessione del casale di Balinianu, nel quale la chiesa sorgeva, al castrumdi Pontelatone. La struttura organizzativa delle chiese prevedeva la pre-senza di un canonicus, un primicerius, o anche di un abbas, i quali, nel caso

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presente nella chartula di Gerberto del 979, Santa Maria è citata in un rogito del-l’ottobre 986 redatto a Capua, nel quale l’arcivescovo capuano Adenolfo e il mo-nastero di San Giovanni in Capua, si contendono una peccia di terra situata «locoPeti» e di pertinenza della chiesa di Santa Maria (MONACO, Sanctuarium Capua-num, p. 639; BLOCH, Monte Cassino, pp. 543-545). Nonostante non sia più arci-pretura, la Chiesa continua a rivestire un ruolo importante nel territorio, dalmomento che essa, oltre ad essere citata in un documento del 1012 (Le pergamenedell’archivio di Caiazzo, 1007-1265, I, pp. 27-34), è presente nell’elenco delle de-cime per l’anno 1326 con la somma di dieci grani (Rationes decimarum, n. 1849).Inoltre, è attestata nell’indice redatto da Iadone a proposito delle decime degli anni1523-1533, «per Santa Maria ad Petri tarì uno» (IADONE, Quinterno de una decimadel Episcopato, c. 6). Essa è presente anche nell’inventario del 1620 (IADONE, No-tamento delle Chiese Curate, cc. 19, 28).67 DI DARIO, Notizie storiche, 269.68 L. THOMASSINO, Vetus et nova ecclesiae disciplina circa beneficia et beneficia-rios, Lugduni, sumptibus Anisson et Joannis Posuel, 1706, I/2, p. 227.69 P. IADONE, Memorie istoriche dell’antica città di Trebula e della baronia di For-micola, Piedimonte Matese, Biblioteca dell’Associazione Storica del Medio Vol-turno, ms., s.n., s.d., c. 32; IADONE, Memorie istoriche di Dragoni, Latina e Baia.

in cui reggevano chiese con una pratica religiosa e una cura animarummolto intensa, risultavano essere, nella maggior parte dei casi, anche pro-curatores et rectores. Nel corso del secolo XIII, con l’aumento della consi-stenza patrimoniale di questi collegi ecclesiali, tali figure si andaronosempre più definendo come un corpo ben delineato e circoscritto di fun-zionari facenti le funzioni della curia vescovile e soprattutto di ammini-stratori dei beni della mensa del vescovo e del Capitolo, con la facoltà diacquistare e vendere case e terreni, che spesso poi danno in concessione oin enfiteusi alla popolazione locale e di gestire lasciti testamentari. È que-sto, ad esempio, il caso della chiesa di Santa Maria di Strangolagalli – cheannovera spesso tra i suoi governatori membri della Chiesa di Capua, ma dairogiti, risulta essere sempre subdita Ecclesie Caiaciane – i cui vicari ve-scovili, nell’avvicendarsi in questo ruolo, vantano, durante tutto il secoloXIII, una tradizione di amministratori dei beni della Chiesa di Caiazzo dinotevole portata, accumulando una consistenza patrimoniale più che co-spicua. L’aumento del numero delle chiese e delle parrocchie, che si accre-sceva sia nella quantità, sia nella consistenza patrimoniale, provocò, diconseguenza, l’estensione della stessa diocesi e fece nascere l’esigenza diun nuovo impianto organizzativo. Difatti, una gestione così complessa e ar-ticolata delle chiese si andava necessariamente configurando secondo unatrama più ampia e soprattutto organica, tra il centro, costituito dalla dio-cesi, e la periferia, le chiese locali, con l’inserimento di un anello interme-dio di congiunzione e di coordinamento, l’ecclesia presbyteralis, cherispondeva perfettamente alle nuove esigenze religiose, culturali ed econo-miche. Per cui, come già rilevato da Bruno Ruggiero, i termini «“archipre-sbyteratus” e “archipresbyter” sono le nuove parole destinate ad avere piùlunga fortuna e vitalità, per designare, rispettivamente un distretto della dio-cesi e chi vi avrà giurisdizione patrimoniale e liturgico sacramentale, innome o per delega dell’ordinario»70.

La nascita dell’arcipretura di Santa Maria di Pontelatone si inserisce per-fettamente nella nuova struttura organizzativa nella diocesi di Caiazzo in ar-cipresbiterati, che è da collocarsi, quindi, nel corso della prima metà delsecolo XIII, quando si ebbe un aumento del numero delle chiese come anchedelle cappelle elevate al rango di chiese rurali. Tale fenomeno è da ricercarsicertamente in rapporto ad un equilibrato aumento della popolazione, dislo-cata nei diversi castrum, casali e villaggi «in territorio Cayacie». Non si

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Appendice alla Dissertazione di Saticola, Capua, Biblioteca del Museo Campano,ms. 54[1833], cc. 12 e passim.70 B. RUGGIERO, Le istituzioni ecclesiastiche di base nel Medioevo. Una messa apunto, in B.R., Potere, istituzioni, chiese locali. Aspetti e motivi del Mezzogiornomedioevale dai Longobardi agli Angioini, Spoleto 1991, p. 179.

può, purtroppo, seguire con precisione il processo di espansione territorialee patrimoniale di ogni singola chiesa presente nella diocesi di Caiazzo,come anche della nascita di ogni singola struttura arcipresbiterale – per al-cune delle quali non si esclude l’ipotesi che interi distretti ecclesiastici pos-sano essere stati creati ex novo – dal momento che non vi sono altretestimonianze di rilievo, almeno per ora, della portata dell’inventarium del1282. Bisognerà aspettare la prima metà del secolo XIV, quando le eccle-sie archipresbiterali, come si è visto, lasceranno tracce evidenti della loroesistenza attraverso i collettori delle decime del secolo XIV. Nella diocesidi Caiazzo, infatti, ci saranno ben 8 arcipresbiterati, poste a capo di comu-nità ecclesiastiche, che vanteranno al loro attivo la giurisdizione comples-sivamente su ben 171 chiese71.

Il territorioNell’area di Pontelatone, probabilmente già verso la fine del secolo XI

gravitavano insediamenti dell’entità di Puzanu, con le chiese di San Lo-renzo, San Maria e San Matteo, Balunianu, con le chiese di San Nazario eSan Vitagliano, Vivaru, con la chiesa di San Cosma, ad Sorba, con la chiesadi San Terenziano, ad Palma, con le chiese di San Pietro e Sant’Angelo, ilcasale di Casa Marcella72 ad oriente di Pontelatone, Peti con le chiese diSanta Maria e San Felice, e infine Mayrany73 afferente a Formicola, con lechiese di San Pietro e San Prisco. Questi territori poi, nel corso del secolosuccessivo, ma soprattutto durante il secolo XIII, nel processo di amplia-mento e di sviluppo di quest’area di Terra di Lavoro, sono confluiti sotto la

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71 Rationes decimarum, pp. 134-139.72 Il casale, situato a Pontelatone, che vanta antiche origini. La prima attestazionerisale al 1° novembre 979, anno di redazione della già citata chartula confirmatio-nis emanata dall’arcivescovo di Capua Gerberto, nel quale il metropolita nel con-fermare al neo eletto Stefano, vescovo di Caiazzo, tutti i territori e le chiesesuffraganee alla diocesi caiatina, esclude il casale di Casa Marcella con le annessechiese. Ma la sua costituzione doveva essere sicuramente anteriore vista la notevoleestensione territoriale che essa mostra di avere già alla fine del secolo X (IADONE,Manoscritto misc., c. 7). Nel novembre del 1053 è menzionata una terra, oggettodi una vendita fatta da Sikelgarda ai coniugi Sasso e Maria, ubicata a Caiazzo inlocalità «ubi dicitur casa Marcella» (BLOCH, Monte Cassino, I, pp. 545-546). Suc-cessive attestazioni sono presenti per i secoli XIII-XIV (DI DARIO, Notizie storiche,p. 269; Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1266-1285, pp. 222-224).73 Il casale è di antica fondazione, poiché la sua prima attestazione è data da un do-cumento capuano del febbraio 967 nel quale sono nominati, tra gli altri, Gariper-tus, Aldemundus, Benedictus e Lupus, fratelli e figli di Geremundus, tutti abitanti«de finibus trans fluvio loco Malianu»; la stessa dicitura si trova nell’ottobre 986,

giurisdizione del castrum, come testimonia lo stesso inventarium, all’in-terno del quale, oltre alle Chiese suffraganee dell’arcipretura di Santa Maria,sono citate alcune località assenti nel documento del 979, quali Fundus74,Cavianus75, Fulgnano, Castelluczum76 e Toru77.

Le dimensioni territoriali di alcuni di queste località, come ad esempio

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quando nello iudicatum redatto a Capua, relativo a una controversia sorta tra l’ar-civescovo capuano e il monastero di San Giovanni a proposito di una peccia diterra, si richiama alla memoria il medesimo atto (rispettivamente MONACO, San-ctuarium Capuanum, pp. 636 e 639; BLOCH, Monte Cassino, pp. 534-536 e 543-545). Il toponimo compare anche nella chartula di Gerberto del 979 conl’appellativo «Malianu». Alla fine del XIII secolo il casale si trova gravitante nellabaronia di Dragoni, nel momento del passaggio di possesso dal miles Ruggiero deMayrano al figlio miles Pandolfo: «Pandolfo de Mayrano, militi, filio et herediquondam Rogerii de Mayrano, militis, mortui die 22 iulii 4 indictionis, investitu-ram casalium Mayrani et Perforte [sic] in Terra Labonus, sub dominis baronie Dra-gonis sub servicio duorum roncinorum annuo valore unciarum 8» (RCA, XXXVIII,1291-1292, 1991, p. 58). Un’attestazione tarda, risalente al 1384, si trova in un an-tico processo dibattuto tra gli anni 1471-1473, per una disputa sorta tra il conte diCaiazzo e Nicola Monforte, signore di Ruviano, nel quale sono contenuti, comespesso accadeva, atti documentari del secolo precedente (G. SPARANO, Il feudo diCaiazzo descritto in alcuni documenti del Tre-Quattrocento, «Archivio Storico delCaiatino» 6, 2008, pp. 114, 119).74 In realtà, nel documento di Gerberto del 979, nell’elencazione dei tenimentiesclusi dalla giurisdizione della diocesi caiatina, vi è al punto della quinta pecciadi terra l’uso del termine «fundus» a cui segue «prope predictas Sancte Marie» perindicare quanto appena descritto. Mancando altre testimonianze sull’origine deltoponimo, non si può confermare che si tratti dello stesso luogo, benché, se cosìfosse, si tratterebbe della sua prima attestazione. Il toponimo Fundus è attestatocon certezza per la prima volta in un documento redatto a Capua del gennaio 1283,come località facente parte dei territori pertinenti il casale di Strangolagalli (Lepergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo 1266-1285, p. 209). Nei secoli XV-XVI, compare invece come località facente parte del territorio di Formicola (IA-DONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 18). Si veda anche in V. D’AQUINO, Cennistorici sulle chiese arcivescovili, vescovili e prelatizie del Regno delle Due Sicilie,Napoli 1848, p. 147, nel quale Fondola è nominata quale casale facente parte delladiocesi.75 Il casale di Cavianus è ancora oggi esistente con il nome La Cava.76 Il toponimo Castelluczum compare per la prima volta in un documento redatto aCapua nel maggio del 1216, quale casale facente parte di Caiazzo (Le pergamenedell’archivio vescovile di Caiazzo, 1007-1265, I, pp. 177-178). La località com-pare anche negli anni successivi, lungo tutto il secolo XIII, citato come villa o ca-sale (Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1007-1265, II, p. 327; Lepergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1266-1285, pp. 154, 173, 221, 225).77 La località è di antica attestazione. La prima di esse, infatti, risale all’ottobre

Peti, testimoniano la rilevanza della regione e al tempo stesso un suo in-tensivo sfruttamento. Ciò si evince da alcune notizie: la prima si legge in undocumento redatto a Capua nel febbraio del 967 – il toponimo Peti compareper la prima volta – nel quale Offa, figlia di Landolfo castaldus, offre al-l’abate Aligerno di Montecassino, un campo e dieci moggi di terra coltivatia frutteto e vigna, ubicati «in finibus trans flubio loco qui nominatur adPeti»78; la seconda riguarda la nona peccia di terra nominata nella bolla del979 emanata dall’arcivescovo Gerardo denominata ad Castanetum, nel ter-ritorio di Casa Marcella, toponimo esistente a tutt’oggi con la medesimacoltura79. Per quanto riguarda la località Casa Marcella essa doveva esseredi estensione e di importanza non indifferente. Nella famosa chartula del979, infatti, l’arcivescovo di Capua, Gerberto, esclude dalle pertinenze ter-ritoriali da confermare al neo vescovo Stefano, il tenimento di Casa Mar-cella con le relative chiese, insieme a dieci peccie di terra tenute in possessodella chiesa di Santa Maria a Peti, poiché il tutto faceva parte dell’ereditàdi Perundo e Leo, figli di Andrea balneatores, i quali erano «famuli» del-l’arcivescovo capuano, come si legge nello iudicatum dell’ottobre 98680. Ilcasale è attestato anche in un documento redatto a Capua nel gennaio 1285,nel quale il primicerius Pietro Galamarus, vende ai fratelli Adenolfo e Gi-roldo di Capua la metà di un tenimento comprendente otto peccie di terrafacenti parte delle proprietà di Siffridina Miliczani, signora di Strangola-galli, l’altra metà delle otto peccie di terra sono di proprietà di Simone Pa-store del casale di Casamarcella81. Se è vero che la chartula del metropolitacapuano Gerberto enfatizza il peso territoriale del tenimento di Casa Mar-cella, che faceva parte del territorio di Pontelatone, è vero anche che la suaimportanza non perde vigore nei secoli successivi, poiché ben due chieseelencate nell’inventarium, Sant’Angelo e San Silvestro, sono ubicate in que-

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1176, anno nel quale il miles Marco, figlio del fu Raimo, dà a Gualtiero, figlio diMartino de Trotta, una peccia di terra situata a Caiazzo «que est infra fines predictecivitatis loco ubi dicitur lu Toru» (Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo,1007-1265, I, p. 74). La località è citata in altri due documenti emanati del vescovodi Caiazzo, Andrea, entrambi redatti a Caiazzo nell’agosto del 1259. Nel primoAndrea vende a Pietro de Cancia due peccie di terra, una delle quali situata a luToru, luogo di pertinenza di villa Cornelli; nel secondo il vescovo loca ai fratelliTaddeo e Rainone, figli di Maria, una peccia di terra situata nel casale Cornelli «inloco ubi dicitur lu Toru» (Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo, 1007-1265, II, pp. 387, 389).78 MONACO, Sanctuarium Capuanum, p. 636; BLOCH, Monte Cassino, pp. 534-536.79 Pontelatone dall’età longobarda all’età aragonese, Caserta 1989, p. 13.80 MONACO, Sanctuarium Capuanum, p. 639; BLOCH, Monte Cassino, pp. 543-545:«Perondolo et Leo balneatores, famuli nominati archiepiscopatui».81 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1266-1285), p. 222.

sto casale, per cui la sua estensione doveva essere di proporzioni non in-differenti.

Di notevole importanza ed estensione è senza dubbio anche il casale diStrangolagalli82, il cui villaggio sorse dopo il secolo X, poiché non è nomi-nato nel citato documento emanato dal metropolita di Capua. Nel marzodel 1261, oggetto di una transazione tra il giudice Giovanni Monaco e Gio-vanni Orso è un tenimentum di proprietà della Chiesa di Caiazzo, situato inlocalità detta Strangulagalli Tori83. In quell’anno il castrum doveva esseregià alquanto esteso, poiché il tenimentum in questione è di ben undici pec-cie di terra. Nel novembre 1270 il castrum si trova nell’elenco delle collettedel Giustizierato di Terra di Lavoro84, mentre due anni dopo signore del ca-strum risulta essere Ruggiero de Muluczano85. Nel 1275 sono concessi al ca-strum di Strangolagalli gli stessi privilegi dei quali gode la cittadina diCaiazzo, giacché il territorio «fuerit et semper sit de territorio et demanioCayatie»86.

Relativamente alle chiese elencate nell’inventarium del 1282, soltanto diSant’Angelo de Casa Marcella (nel documento del 979 ad Palma) si puòaffermare con certezza essere presente nella chartula di Gerberto del 979;di altre tre chiese, San Lorenzo, San Vitagliano e San Prisco di Formicola,attestate rispettivamente ad Palma, in Balunianu e nel casale Mayrani, si ri-mane un po’ nel dubbio, poiché essendo prive di altre citazioni che possanoavallare o smentire l’ipotesi, non possono essere ricondotte con certezza

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82 Per la storia del casale si rimanda al DI DARIO, Notizie storiche, pp. 269-275.83 Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1007-1265), I, p. 421.84 «Mandat Rex ut supersedeat exactione collectarum apud homines […] proptereorum paupertatem. Similes facte sunt pro hominibus Strangulagalli», RCA, VI,1270-1271, 1954, p. 57.85 «Mandatum pro servitio prestando in Romania a Roberto de Muluczano, dom. ca-stri Strangulagalli», RCA, IX, 1272-1273, 1957, p. 243.86 «XIX aprilis, ibidem. Scriptum est Iurato Cayatie etc. Pro parte hominum casa-lis Fragulagalli (sic) … fuit expositum quod, cum pred. Casale ab antiquo fueritsempre et sit de territorio et demanio Cayatie, et homines ipsi gaudere debeant eoprivilegio et ipsis libertatibus quibus pred. Homines Cayatie gaudent, nunc Rober-tus dictus de Comite, Casertanus, dom. eiusdem casalis, cogit ipsos homines… adsubveniendum sibi pro adohamento, quod dictus Robertus prestasse dicitur proservitio casalis predicti. Unde, cum scire volumus si pred. Casale est de demanio… terre Cayatie et quo iure casale ipsum tenet pred. Robertus, d. t. mandamus qua-tenus… pred. Robertum per emptorie cites ex parte nostra, iuxta tenorem Consti-tutionis Regni, ut… cum omnibus rationibus quas habet de pred. Casali coram Mag.Rationalibus… se debeat presentare… predictas statim pred. Roberto quod, si ca-sale ipsum tenet ex dono qd. Comitis Casertani vel aliunde, deferat secum rationeset iura omnia, si qua inde habet, ut si feudum quaternatum est, scire volumus qua-liter ipsum tene. Dat. ut supra», RCA, XIV, 1275-1277, 1961, pp. 27-28.

alle chiese che nel secolo X facevano parte dell’episcopato di Caiazzo. Conmaggior difficoltà si attribuiscono le chiese di San Giovanni ac Turone, SanPietro a Cornito, San Giovanni de Perciis, San Martino de Grece, San Sal-vatore de Centura, San Martino de Cernarecza, le quali, però, trovano ri-scontro, attraverso il toponimo, nello studio fatto dal vescovo Ottavio MirtoFrangipane nel 1588 e riportato nell’Inventario del 162087; è questo il casodella chiesa di San Vitagliano, attestata nel casale di Agaczano nel 1450. Perle altre Chiese, delle quali purtroppo non si hanno altre notizie dopo il 1282,si può supporre che siano state soppresse o, più verosimilmente, comespesso accadeva, che siano state unite ad altre Chiese, o siano passate sottouna differente giurisdizione territoriale; questo è il caso delle chiese di SanMartino de Caviano, San Pietro de Castilluczo, Santa Maria ad Casale, SanCristianità, tutte attestate nel secolo XVI nel territorio di Formicola88, allostesso modo della chiesa di Sant’Andrea de Casalicchio che nel 1468 è ci-tata nel casale di Treglia89. Il territorio di Formicola, inoltre, nello stessosecolo XV risulta essere ormai separato da Pontelatone, giacché la stessachiesa di Sancta Christinitatis, si trova menzionata come arcipresbiteratodel medesimo casale nel 152390.

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87 Inventario di tutti i beni della mensa vescovile di Caiazzo tanto nel territorio diCaiazzo quanto fuori di detto territorio et de tutti li beni redditii et che devono adetta mensa et delle quarte de grano che pagano li curati et del pastor bonus pa-gnano tutti li beneficiati all’istessa mensa estratto dall’Inventarii antiqui fatti perordine de Vescovi passati et in particolare dell’anno 1588 al tempo de MonsignoreOttavio Mirto fatto per ordine de Monsignore Illustrissimo et Reverendissimo Do-mino Paulo Filomarino Vescovo di Caiazzo nell’anno 1620, Caiazzo, Bibliotecadella Diocesi Archivio vescovile, ms. s.m., 1620.88 IADONE, Notamento delle Chiese Curate, cc. 18-19, 33.89 IADONE, Notamento delle Chiese Curate, c. 20.90 IADONE, Notamento delle Chiese Curate, cc. 18, 33.

ConclusioniLa giurisdizione dell’arcipretura di Santa Maria di Pontelatone orbitante

su di un’area molto vasta della regione di Terra di Lavoro andò progressi-vamente estendendosi nel corso del secolo XIII a causa di due fattori che,in questa sede, sono emersi con chiarezza: l’aumento del numero dellechiese ad essa suffraganee e l’allargamento del territorio del castrum diPontelatone. Con la pubblicazione del prezioso documento che si è rivelatoessere l’inventarium del 1282, edito integralmente per la prima volta nel-l’Appendice documentaria a questo saggio, e con una nuova lettura dellachartula confirmationis del novembre 979 dell’arcivescovo di Capua Ger-berto, si ha un quadro abbastanza completo della consistenza del patrimo-nio ecclesiastico dell’arcipretura di Pontelatone. Essa, identificata nellachiesa di Santa Maria, sembra raggiunge il suo massimo sviluppo propriodurante la seconda metà del secolo XIII e durante tutto il corso del secoloXIV, vantando al sua attivo ben ventitre chiese subordinate alla sua circo-scrizione territoriale. Nonostante, come si è visto, per alcune di esse nonsiano emerse ulteriori notizie nei studi di settore coeve e/o successive al se-colo XIII – in alcuni casi le chiese risultavano essere strutture di piccole di-mensioni o, addirittura, semplici cappelle, la cui minore importanza non halasciato evidenti tracce nella storia e nella documentazione locale – le chieseerano, in ogni caso, sottoposte alla giurisdizione dell’arcipretura di Ponte-latone e soggette, sino alla fine del secolo XIII, al versamento annuale delladecima. Inoltre, il fatto che la maggiore parte delle chiese elencate nell’in-ventarium non sia chiaramente riconducibile a quelle citate nel documentoemanato dall’arcivescovo capuano, è indicativo del fatto che la crescita ter-ritoriale connessa con il relativo incremento del numero di chiese, sia daricondursi agli inizi, o almeno nella prima metà, del secolo XIII. L’amplia-mento della sede dell’arcipresbiterato di Pontelatone è avvalorato oltre-modo da un’ampia estensione territoriale dello stesso castrum dovutaall’annessione di numerosi casali, avvenuta a partire già dagli ultimi anni delsecolo XII e che prosegue maggiormente e in maniera consistente nel secolosuccessivo. Questi due elementi sono altamente significativi di un’impor-tanza e di una ricchezza, che si viene delineando con estrema chiarezza,sulla precisa estensione geografica di questo territorio.

Con questo studio si spera di poter risvegliare un’attenzione, soltantosopita, su Pontelatone, luogo ricco di storia e di tradizioni, che inserito nelterritorio di Terra di Lavoro, merita ancora particolare attenzione e che restain attesa di ulteriori studi di storia patria.

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Tabella sinottica delle Chiese (979-1327)91

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91 L’uso del diverso colore presuppone una differenza per alcune Chiese, sulle quali,a proposito della presenza nella chartula del 979, si resta nel dubbio.

APPENDICE DOCUMENTARIA

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979 novembre 1, in sacratissima sede.

Gerberto, arcivescovo di Capua, alla presenza dei vescovi suffraganeiAlderico di Caserta, Leone di Sora, ricorda e conferma la consacrazione diStefano alla cattedra episcopale di Caiazzo e indica i confini della diocesidi Caiazzo.

Originale: deperdito, un tempo conservato nell’archivio vescovile di Caiazzo (noti-zia riportata da Michele Marrocco e da Ferdinando Ughelli) [A].Edizione: MONACO, Sanctuarium capuanum, pp. 571-575; UGHELLI, Italia sacra,VI, pp. 442-444; MARROCCO, Chronologia episcoporum Civitatis Calatie, cc. 3-7:«in cancelleria episcopali Calatine»; MARROCCO, Documentazione storico-liturgica,pp. 91-104; L. ESPOSITO, La documentazione degli arcivescovi di Capua: dal “pri-vilegium” alla “carta” (X-XIII secc.), tesi di Laurea, Napoli 2001, pp. 112-114; G.BOVA, Le pergamene longobarde della Mater Ecclesia Capuana (787-1055), Na-poli 2008, pp. 119-121; Documenti per la storia della diocesi e contea di Caiazzo,pp.14-18 doc. II. Transunto: C. FIMIANI, De ortu et progressu metropoleon eccle-siasticarum in regno neapolitano et siculo, Neapoli ex officina Michaelis Morellii,1776, pp. CLXXXI-CLXXXII.Citazione: N. DE SIMONE, Super statutis municipalibus civitatis Calatiae observa-tiones, Neapoli, ex Typographia Josephi Severini, 1740, pp. 13, 36; IADONE, Me-morie istoriche di Dragoni, Latina e Baia, c. 4; IADONE., Manoscritto miscellaneo,III, cc. 7-9 e passim; P. DE’ JORII, Dissertazione sul sito della distrutta città di Com-bulteria, Napoli 1834, p. 44; «Atti della Commissione conservatrice» 26, 1895, p.18; P.F. KEHR, Italia Pontificia, sive repertorium privilegiorum et litterarum a Ro-manis Pontificibus ante annum 1198 Italiae ecclesiis monasteriis civitatibus singu-lisque personis concessorum, VIII: Regnorum Normannorum-Campania, Berolini1935, p. 271; DI DARIO, Notizie storiche, p. 150.La trascrizione che si riporta di seguito è ripresa dall’edizione del Monaco, la più an-tica [B], collazionata con quella dell’Ughelli [C], con le differenti lezioni riportatein nota.

Gerbertus sancte Capuane sedis gratia Dei archiepiscopus, fidelibus om-nibus orthodoxis clero, ordini et plebi consistenti Caiacie ecclesie per apo-stolicam institutionem nostro archiepiscopatui subiecte, dilectissimis filiisin Domino salutem.

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Probabilibus desideriis nihil attulimus tarditatis, fratrem iam et coepi-scopum nostrum Stephanum, vobis ordinavimus sacerdotem, cui dedimusin mandatis, ne unquam ordinationem presumat illicitam, nè1 bigamum, autqui virgine non est sociatus uxore, neque illiteratum, vel in qualibet partecorporis vitiatum aut expenitentem vel curie, aut cuilibet conditioni obno-xium, notatumque, ad sacrum ordinem permittat accedere, et si quos huiu-smodi forte reppererit, non audeat promovere; afros passim ad ecclesiasticosordines pretendentes, nulla ratione suscipiat, quia aliqui eorum Manichei,aliqui rebaptizati sepius sunt probati; ministerio atque ornatu2 ecclesie, velquidquid illud3 est in patrimonio eiusdem, non minuere audeat, sed augere.Insuper concessimus ei diocesim per has fines ab ipso ribo, qui est iuxtaPretamala, et quomodo continet ipse totus Caiacie comitatus, cum istis ec-clesiis, que hic subtus declaramus: hoc est, in Balunianu ecclesia Sancti Na-zarii et ecclesia Sancti Vitaliani4 et Sancti Cosmas in Vivaru; et SanctusTerentianus5 ad Sorba; Sanctus Petrus ad Pile, Sanctus Petrus, Sanctus An-gelus ad Palma; Sanctus Felix6 et Sancta Maria in Malianu; Sanctus Dona-tus in Ceperano; Sanctus Petrus in Palude; Sancta Maria et SanctusIanuarius in Marcianisu; Sanctus Victor in Persoli; Sanctus Nazarius in Cri-spianisi; Sancta Maria et Sanctus Felix in Peti; Sanctus Petrus ad Sassa7;Sanctus Petrus et Sanctus Priscus in Mairanu; Sanctus Ioannes et SanctusSecundinus in Treple; Sanctus Laurentius et Sancta Maria et Sanctus Mat-theus in Puzanu; Sanctus Rufus in Ceseranu; Sancta Maria in Vulanu; San-ctus Petrus et Sanctus Laurentius in Liczanu; Sanctus Angelus et SanctusFelix et Sanctus Ioannes in Campanianu; Sanctus Petrus, Sanctus Vitus,Sanctus Cosmas in Rainanu; Sanctus Ioannes, Sancta Maria, cum SanctoAngelo, Sanctus Felix, Sanctus Nicander in Predi Caiacie; Sanctus Ange-lus et Sanctus Salvator et Sanctus Vitalianus8 in Campora Longa; SanctusMaurus in Alvinianu; Sanctus Angelus in Auxilio; Sanctus Vitus in Bage;Sanctus Andreas et Sanctus Petrus, Sanctus Vi‹n›centius9 et Sanctus An-dreas et Sanctus Cesarius in Traguni; Sancta Maria et Sanctus Priscus adCuultere; Sanctus Laurentius ad Atina; et Sanctus Sebastianus in Squille; etSanctus Secundinus in Raianu; et Sancta Maria ad Baniolo; et Sanctus An-gelus in Poscari. Cum omnibus ecclesiis et terris ad ipsas ecclesias perti-nentes, que inter has fines sunt, que modo habere, et possidere videntur, etin antea pro parte ipsarum Ecclesiarum acquirere potueris, et cum presby-teris, et cum omnibus ecclesiasticis ordinibus ad predictam vestram dioce-

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1 In C nec. 2 In C ornatui. 3 In C aliud.4 In C Vitelliani.5 In C Ferentianus.6 Assente in C da et Sancta Maria in Malianu a Sancta Maria et Sanctus Felix.7 In C Saxe.8 In C Vitellianus.9 In C corretto.

sim10 pertinentibus; excepto, quod non damus vobis cuncta territoria in CasaMarcella et Ecclesias, que ibidem sunt, et hereditatem filiorum Andree bal-neatoris, idest Pertundo et Leo et filiis Ursoli, que fuerunt et pertinueruntiam dicte Sancte Marie à11 Peti, per has subtus declaratas fines. Prima petia,ubi ipsi sedent: uno latu via antiqua, aliu12 latu terra Rodoaldi, uno13 capuvia publica, aliu14 capu in Serra de Monte. Secunda petia, ibi propinquo:uno latu terra nominate Sancte Marie et ipso ribo et aliu latu terra Bene-rusi15 cum ipso intersicu nostro, uno capu via publica, aliu capu ‹terra›16

Deodedi presbyteri ipse predictus intersicus noster, uno latu via puplica,aliu latu terra Benerusi17 et de fratris eius, uno capu terra Deodedi presby-teri. Tertia petia in Iuvenelli: uno latu terra Andree cum ipso intersicu no-stro, aliu latu terra Paldolfi, que fuerunt Summi, uno capu in Silice18, aliucapu in ribo. Quarta petia ibique: uno latu terra Paldolfi19, que fuit Summi,aliu latu via, qui decernit ipsa cava, uno capu in Silice, aliu capu in ribo.Quinta petia ibique: uno latu iam fate ecclesie Sancte Marie, aliu latu ec-clesia Cici et Musi, uno capu in Silice, aliu capu terra Landolfi20 et Cici,fratris eius, ipse fundus prope predicta Sancta Maria, amba latera ipsius ec-clesie Sancte Marie, uno capu in ribo, aliu capu terra, que fuit Leopardi.Sexta petia prope Sancto Angelo ad Palma: uno latu est terra Summi et aliuLupi clerici, aliu latu terra Landolfi comitis, uno capu in via, aliu capu terrasopranominata Sancta Maria. Septima petia à Centuru: uno latu terra Mar-tini Turelle, aliu latu terra Adifulole, uno capu in ribo, qui dicitur Lata, aliucapu in via publica. Octava petia, que dicitur ad Argellaru21: uno latu inmonte, aliu latu in ribo, qui temporaliter habet aqua, uno22 capu terra Lan-dulfi comitis, aliu23 via antiqua. Nona petia ad Castanetum24: uno latu terraAudoaldi et monte, aliu latu terra filii Geremundi, uno capu via puplica,aliu capu terra Sabini clerici et fratris eius. Decima petia iuxta ecclesiam su-pranominata25 Sancta Maria: uno latu terra Andrea, aliu latere terra Lan-dulfi et Audoaldi, uno capite in Silice, aliu capu in monte. Tali itaque ordine

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10 In C dięcesim.11 In C de.12 In C in.13 In C in.14 In C alia.15 In C Beneruti.16 In C terra.17 In C Beneruti.18 In C Silica non preceduta da in.19 In C Padulfi.20 In C Landulfi.21 In C Argellatu.22 In C unde.23 In C alia.24 In C Castanesum.25 In C supranominate.

et ratione, ut subidentur archiepiscopatus26 aut nostre abbatie, vel quali-scumque servus nostri archiepiscopatus hereditates habuerint, aut in anteaparare potuerint, sive per causationem acquisierint nostri nostrorumque suc-cessorum, sint27 in potestate. At non dedimus vobis vestrisque successori-bus ecclesiam Sancti Angeli in Melanico, quam in nostra nostrorumquesuccessorum potestate reservamus. De redditu vero Ecclesie, vel oblationefidelium, quatuor faciat portiones, quarum una sibi ipse retineat, altera cle-ricis28 pro filiorum suorum sedulitate distribuat, tertia pauperibus et pere-grinis, quarta ecclesiasticis fabricis reservandam, de quibus erit redditurusdivino iudicio rationem. Ordinationes vero presbyterorum seu diaconorum,non nisi primi, quarti, septimi et decimi mensium ieiuniis et ingressu qua-dragesimali atque29 mediane, vespere sabbati30 noverit celebrandas. Sacro31

autem Baptismi sacramentum non nisi in Paschali festivitate et Penteco-sten32 noverit esse prebendum, execeptis his, qui morte33 urgente periculo,ne in eternum pereant, talibus oportet remediis subvenire. Huic34 ergo sedisnostre precepta servantes, devotis animis obsequi vos oportet, ut inrepre-hensibile35 placidumque fiat corpus Ecclesie per Christum Dominum no-strum, qui vivit et regnat cum Deo Patre in unitate Spiritus Sancti per omniasecula seculorum. Amen. Anno Deo propitio archiepiscopatus domini Ger-berti tertii archiepiscopi in sacratissima sede beati protomartyris Stephani,in ipsa die kalendis novembris, indictione octaba.Ego Aldericus Calactine ecclesie episcopus consensi et subscripsi.Ego Leo Surane sedis episcopus consensi.Ego Bonus presbyter cardinalis Sancte Capuane Ecclesie me subscripsi.Ego Ioannes presbyter Sancte Capuane Ecclesie cardinalis me subscripsi.Ego Avioaldus diaconus Sancte Capuane Ecclesie me subscripsi.Ego Petrus diaconus Sancte Capuane Ecclesie me me36 subscripsi.Ego Toto37 subdiaconus me subscripsi.Ego Ioannes subdiaconus Sancte Capuane sedis me subscripsi.Datum per manum Ioannis subdiaconi nostri bibliotecharii in kalendis iamdictis, per suprascriptam indictionem. Bene valete.

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26 In C subdentur archiepiscopatui.27 In C sit.28 In C alteram alterius.29 Assente in C.30 In C vesperi sabbathi.31 In C sacrum.32 In C Pentecosten.33 In C quibus mortis. 34 In C hic. 35 In C irreprehensibile.36 Così in B ma non in C.37 In C Toro.

2

1282 aprile, indizione XI1.

L’arcipresbitero Bartolomeo Denugone di Formicola, insieme al dom-pnus Silvestro Nicola, al dompnus Gualtiero Vitali di Formicola e all’abateGualtiero de Costanza di Pontelatone, per ordine di Andrea di Ducenta, ve-scovo di Caiazzo, compila un inventario nel quale sono elencate le renditedi tutte le Chiese sottoposte all’arcipresbiterato di Pontelatone, le quali de-vono corrispondere alla Maior Ecclesia Cayacia.

Originale: ASNA, Pergamene dell’Archivio vescovile di Caiazzo, perg. 287 [A].Dimensioni: mm 540 x 400.La pergamena presenta piccole lacerazioni sui margini destro e sinistro, un foro sulmargine inferiore sinistro e alcune macchie di umidità.È visibile la rigatura.La lettera I della parola «Inventarium» è sormontata da una piccola croce latina leg-germente potenziata. Al primo rigo, alcune lettere iniziali di parola, sono scritte conle lettere in maiuscolo, di modulo più grande rispetto al resto del testo e alcune diesse, sono delicatamente arricchite con qualche svolazzo: la F di «Factum», la P di«Per», la B di «Bartholomeus», la D di «Denugone», la D e la F di «De Formicola»,la A di «Archipresbiterum», la R di «Reverendi», la D del secondo «domini».Note sul verso: «[…et renditi», di mano posteriore; «[ASNA]», di mano forse coeva;«Inventarium redditum archipresbyteratus Pontislatone ad 1282», di mano poste-riore.Non sono stati segnalati in nota evidenti errori di scrittura e di concordanza latina,poiché eccessivamente ripetuti e dovuti alla scarsa istruzione del compilatore, comead esempio l’uso indiscriminato di «ecclesie» in funzione di «ecclesia», l’uso di «etalios confinos», per «alios confines», «allios» e «alliis» per «alios» e «aliis», e tantialtri.Regesto completo: Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1266-1285), p.202.Citazione: FARAONE, Caiazzo patria di Pier della Vigna, p. 307; DI DARIO, Notiziestoriche, pp. 264, 266.

† Inventarium factum per me dompnum Bartholomeum Denugon(e) de

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1 Cfr. ivi p. 113 e nota 16.

Formic(u)la archipresbiterum reverendi in Christo Patris domini, dominimei episcopi Caia|2 ciani de mandato ipsius domini me in archipresbiteratuPont(is) Lat‹r›onis2, uno cum dompno Silvestro Nic(o)lai, Galterio Vitalide Formic(u)la3 abatis |3 Galterio de Co(n)stancia de Po(n)t(e) Latron(i) deomnibus renditibus ecclesiarum dicti archipresbiteraru Po(n)t(is) Latronisdebentibus rendere Maiori Ecclesie |4 Cayacie, prout infra scribimus subanno domini millesimo duocentesimo octuagesimo secundo, regnante do-mino nostro Karulo Dei gratia Ier(usa)l(e)m et |5 Sicilie rege, ducatus Apu-lie et principatus Capue, Andegavie, Provincie, Tomodorii et Forchalqueriicomite regnorum eius anno quinto, ‹Sicilie vero anno› sexto |6 decimo,mense aprilis, undecime indictionis. Quod inventarium fecimus ante pre-senciam dicti domini episcopi pro cautela dicte Maioris Ecclesie Cayacie406

scriptum |7 de manu5 mea dicti do‹m›pni Barth(olome)i archipresbiteri, unacum predictis dompno Galterio Vitali, dompno6 Silvestro Nicolai et abateGalterio de |8 Costancia propris manibus roboratum. Primo videlicet eccle-sie Omnium Sanctorum de Formic(u)la7 debet rendere eidem Maiori ec-clesie8 omni anno in festa9 Omnium Sanctorum tarenum unum |9 et grana V,in festo Pasce tarenum I et grana V, in festo Sancte M(ari)e10 de mense agu-sto pulli III pro terra qua est constructa ecclesia ipsa que dicitur Fundus deSancti. Item ecclesia Sancti |10 Martini11 de Caviano debet rendere eidemMaiori Ecclesie omni anno in festo Omnium Sanctorum grana XII, et in festoPasce Maioris grana XII, pro duabus peciis |11 terrarum sitis in Caviano. Itemecclesia Sancti Prisci de Formic(u)la debet rendere eidem Maiori Ecclesiein festo Omnium Sanctorum tarenum unum et grana V, et in festo PasceMaioris |12 tarenum I et grana V, et in festo Sancte M(ari)e12 de mense agu-sti pulli III, pro duabus pecii terrarum videlicet: in una ipsarum terrarumdicta ecclesia est constructa, |13 alia est ibidem ubi dicitur Lu Fundu iuxtaviam plubicam13 ad duabus partibus14 et alios confinis. Item ecclesia15 San-cte Christinitatis debet rendere |14 eidem Maiori Ecclesie omninu15 anno in

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2 O nell’interlineo.3 R nell’interlineo.4 Cie nell’interlineo.5 Titulus superfluo.6 Segue [S] erasa.7 R nell’interlineo.8 Prima c nell’interlineo.9 Così in A.10 E nell’interlineo.11 R nell’interlineo.

festo Omnium Sanctorum tarenum unum et grana quinque, in festo PasceMaioris tarenum unum et grana quinque, et in festo |15 Sancte Marie demense agusti pulli tres pro duabus peciis terrarum, quarum una est ubi di-citur Lu fundu iuxta rium et alios confinos; alia est in |16 Casali Mayrany17

iuxta terrarum domini Io(hanni) de Ysola et alios confinos. Item ecclesieSancte M(ari)e18 ad Casali debet rendere eidem Maiori Ecclesie omni anno|17 in festo Omnium Sanctorum grana XII, et in festo Pasce Maioris grana XII,pro terra in qua est constructa dicta ecclesia iuxta montis curie et alios con-finos. |18 Item ecclesie Sancti Blasii de Formic(u)la19 debet rendere eidemMaiori Ecclesie omni anno in festo Omnium Sanctorum grana XII, et in festoPasce Maioris grana XII, pro |19 terra in qua est constructa dicta ecclesiaiuxta viam plubicam iuxta rium et alios confinos. Item ecclesie SanctiTamar(r)i debet rendere eidem Ecclesie Maiori |20 omni anno in festo Om-nium Sanctorum grana XII, et in festo Pasce Maioris grana XII, pro terra inqua est constructa dicta ecclesia iuxta rium a tribus partibus422 et |21 aliosconfinos. Item ecclesia Sancti Petri de Ursanis debet rendere eidem MaioriEcclesie omni anno in festo Omnium Sanctorum tarenum I et grana V, infesto Pasce Maio|22ris tarenum I et grana V, pro terra in qua est constructadicta ecclesia iuxta viam plubicam et alios confinos. Item ecclesia Sancti Vi-taliani de Agaczano debet |23 rendere eidem Maiori ecclesie omni anno infesto Omnium Sanctorum tarenum I et grana V, in festo Pasce Maioris ta-renum I et grana V, pro terra una sita ibidem iuxta |24 montem et alios con-finos. Item ecclesia Sancte M(ari)e21 de Po(n)t(e) Lat(r)oni tenetur profranca, quia est capud dicti archipresbiteratus. Item ecclesie Sancti Iohan-nis de P(er)ciis |25 debet rendere eidem Maiori ecclesie omni anno in festoOmnium Sanctorum tarenum I et grana V, et in festo Pasce Maioris tare-num I et grana V, et pro una spalla porci |26 grana X, et in festo SancteM(ari)e24 de mense agusti pulli quatuor, pro terra in qua30 est constructadicta ecclesia iuxta rium et alios confinos. Item ecclesia Sancti Andree de|27 Casalicho debet rendere pro idem Maiori ecclesie omni anno in festoOmnium Sanctorum tarenum I et grana V, et in festo Pasce Maioris tare-num I et grana V, et pro una |28 spalla porci grana X, et in festo Sancte

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120 E nell’interlineo.121 Così in A e anche di seguito; si intenda publicam.122 R nell’interlineo.123 Segno abbreviativo superfluo.124 Così in A, si intenda omni.125 Prima a, scritta nell’interlineo, corregge o.126 E nell’interlineo.127 R nell’interlineo.128 R nell’interlineo.

M(ari)e426 de mense agusti pulli quatuor, pro terra in qua est constructa dictaecclesia iuxta viam plubicam et alios confinos. |29 Item ecclesia Sancti Lau-renti debet rendere eidem Maiori Ecclesie omni anno in festo Omnium San-ctorum grana XII, et in festo Pasce Maioris grana XII, pro terra in qua |30 estconstructa dicta ecclesia iuxta rium et alios confinos. Item ecclesia SanctiYlarii debet rendere eidem Maiori Ecclesie omni anno in festo427 |31 Om-nium Sanctorum grana XII, et in festo Pasce Maioris grana XII, pro terra inqua est constructa dicta ecclesia iuxta terrarum iudicis Iacobi Burrelli etalios |32 confinos. Item ecclesie Sancti Martini428 de Cernarecza debet ren-dere eidem Maiori ecclesie omni anno in festo Omnium Sanctorum granaXII, et in festo Pasce Maioris429 grana XII, |33 pro terra in qua est constructadicta ecclesia iuxta430 rium et alios confinos. Item ecclesie Sancti Salvato-ris de Centura debet rendere eidem Maiori Ecclesie omni anno |34 in festoOmnium Sanctorum grana XII, et in festo Pasce Maioris grana XII, pro terrain qua est constructa dictam ecclesiam iuxta Burrellorum431 et alios confi-nos. Item ecclesie |35 Sancti Angeli de Casa Marcella debet rendere eidemMaiori Ecclesia omni anno in festo Omnium Sanctorum grana XII, et in festoPasce Maioris grana XII, pro tribus |36 peciis terrarum: in una ipsarum estconstructa432 dictam ecclesiam iuxta viam plubicam a duabus partibus etall(is)433 confinis; et alia est non nimis a longe eiusdem |37 ecclesie iuxtamont(em) Curie et all(is) confin(is); alia est a Sancto Marcello iuxta viamplubicam et alios confinos. Item ecclesia Sancti Silvestri de Casa Mar-cella434 debet rendere |38 eidem Maiori ecclesie omni anno in festo OmniumSanctorum grana XII, et in festo Pasce Maioris grana XII, pro duobus peciisterrarum: in una ipsarum est constructa dicta |39 ecclesia iuxta viam plubi-cam a duabus partibus et all(is) confin(is); alia est a Fulgnano iuxta viamplubicam est alios confinos. Item ecclesie Sancti Ioh(ann)is ac Turon(e)

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129 E nell’interlineo.130 R nell’interlineo.131 Nell’interlineo.132 E nell’interlineo.133 Segue [V] depennata.134 R nell’interlineo.135 Prima i corregge r.136 I corregge u.137 Prima r nell’interlineo.138 Titulus superfluo su uc.139 Così in A e di seguito.140 R nell’interlineo.141 R nell’interlineo.142 R nell’interlineo.143 Così in A, si intenda pro.

debet |40 rendere omni anno in festo Omnium Sanctorum grana XII, et infesto Pasce Maioris grana XII, pro terra in qua est constructa dictam eccle-siam iuxta rium que dicitur Mare |41 Morte435 et all(ios) confin(os). Item ec-clesie Sancto Petro a Cornito436 debet rendere omni anno in festo OmniumSanctorum grana XII, et in festo Pasce Maioris grana XII, per437 duabus |42 pe-ciis terrarum: in una ipsarum est constructa dicta ecclesia iuxta viam plu-bicam a duabus partibus et all(is) confin(is); alia est ibidem iuxta viamplubicam |43 a tribus partibus et all(is) confin(is). Item ecclesia Sancti An-geli ac Toro debet rendere eidem Maiori Ecclesie omni anno in festo Om-nium Sanctorum grana XII, et in festo |44 Pasce Maioris grana XII, in qua estconstructa dicta ecclesia, pro peciis terrarum duabus: in una ipsarum estconstructa dicta ecclesia, alia est ibi prope. Item |45 ecclesie Sancti Petri aCastilluczo debet rendere omni anno438 eidem Maiori Ecclesie omni annoin festo Omnium Sanctorum grana XII, et in festo Pasce Maioris grana XII,pro |46 duobus peciis terrarum: in una ipsarum est constructa dicta ecclesiaiuxta viam plubicam, alia est ibi prope iuxta dictam viam plubicam etall(ios) confin(os). |47 Item ecclesie Sancte M(ari)e439 de Stringula Gallodebet rendere omni anno eidem Maiori Ecclesie in Mensa dicti domini epi-scopi auri tarenum I. Item ecclesia Sancti Martini440 de |48 Grece debet ren-dere eidem Maiori Ecclesie omni anno in festo Omnium Sanctorum granaXII, et in festo Pasce Maioris grana XII, pro terra in qua est constructa |49

dicta ecclesia iuxta mont(em) et all(ios) confin(os). Quid441 inventariumscriptum est manus mei dompni Barth(olome)i supra dicti pro cautela eiu-sdem Maioris Ecclesie |50 […orum]442 inter est et in[…]443 est poterit conti-nendum futuramque memoriam et predictorum presbiterorum roboratum.Datum ut supra.

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144 Omni anno depennato.145 E nell’interlineo.146 R nell’interlineo.147 Così in A, si intenda quod.148 Taglio orizzontale.149 Dilivato.

APPUNTI SULLA SINTASSI DELLACRONACA DI SANTA MARIA DELLA FERRARIA

PAOLO GRECO

1. Introduzione

La lingua dei documenti di epoca alto-medievale ha attirato l’interessedei filologi e dei linguisti fin dalla seconda metà dell’Ottocento, e numerosilavori comparsi nel corso degli ultimi due secoli hanno indagato le pecu-liarità linguistiche e letterarie di queste opere. A partire almeno dalla finedegli anni Settanta del Novecento, si è inoltre potuta osservare una nuovafioritura degli studi sulla transizione dal latino alle lingue romanze, che hacontribuito sensibilmente alla produzione di numerose indagini sulle carat-teristiche linguistiche dei testi latini alto-medievali.

I documenti dei secoli successivi alle prime attestazioni scritte delle lin-gue romanze non hanno invece goduto di eguale fortuna, e le indagini stret-tamente linguistiche sui testi latini basso-medievali sono molto menonumerose.

Il panorama degli studi linguistici sui testi storiografici prodotti in Ita-lia centro-meridionale in epoca normanno-sveva non fa eccezione rispettoal quadro precedentemente delineato, ed anzi risulta quasi del tutto privo distudi. Come ha giustamente sottolineato Edoardo D’Angelo all’inizio diuno dei rari libri in cui si ritrovano osservazioni ed analisi propriamentelinguistiche sulle opere storiografiche di epoca normanno-sveva,

[l]a scrittura storiografica prodotta in Italia meridionale nei secoli XI-XIVnon si sottrae alla regola generale, per cui le opere storiografiche del Me-dioevo, intensamente studiate e sfruttate ai fini delle diverse tipologie di ri-costruzione ‘storica’, vengono molto meno analizzate ‘in sé’ in quanto cioèprodotti specifici della letteratura mediolatina (D’ANGELO 2003: 1)1.

125

1 D’ANGELO (2003: 65-69) presenta anche un breve quadro dei principali studi sullalingua dei testi latini provenienti dal mezzogiorno normanno-svevo.

Questa minore attenzione nei confronti delle opere latine basso-medie-vali rivela tuttavia, a nostro avviso, una prospettiva miope. La lingua diquesti testi, infatti, sebbene probabilmente lontana dalla maggior parte deiregistri parlati, era senza dubbio parte integrante del campo variazionaleentro cui si muoveva la comunicazione.

D’altronde, la peculiare posizione sociolinguistica di questi documentili rende in un certo senso particolarmente interessanti dal punto di vista lin-guistico: come sottolinea acutamente Edoardo D’Angelo, le scelte lingui-stiche degli autori, proprio perché lontane da quelle della quotidianità equindi probabilmente più “pensate” e meno “automatiche” si fanno semprepiù significative. Nell’uso di una lingua che non era più, o era solo margi-nalmente, la lingua della comunicazione quotidiana, insomma, «le sceltedegli scriventi potrebbero paradossalmente essere più ‘libere’, e dunque più‘significanti’, che in situazioni di comunicazione letteraria normale»2. Que-sto latino caratterizzato da rapporti probabilmente molto blandi con la mag-gior parte dei registri parlati presenta quindi un’importantissima estrettissima relazione tra lingua e stile. In questo senso uno studio linguisticopuò anche aiutarci a capire meglio le intenzioni di un autore e ad interpre-tare in maniera più complessa, e forse più corretta, i messaggi comunicativisottesi ai testi che analizziamo.

2. Analisi2.1. Caratteristiche generali del testo della Cronaca di Santa Maria della

FerrariaIl documento che oggi conosciamo come Cronaca di Santa Maria della

Ferraria è un’opera latina anonima pubblicata per la prima volta nel 1888con il titolo Ignoti monachi cisterciensis S. Mariae de Ferraria Chronica abanno 781 ad annum 1228 (GAUDENZI 1888), e recentemente riedita in unaversione che mantiene il testo latino della prima edizione, e ne propone unatraduzione italiana (CAPERNA 2008). L’opera ci è stata tramandata da unsolo manoscritto, il codice oggi contrassegnato dalla segnatura A 144 dellabiblioteca comunale di Bologna. Si tratta di un testimone risalente proba-bilmente all’inizio del XV secolo (si veda GAUDENZI 1888: 2) che contiene,oltre alla nostra cronaca, parte della Storia ecclesiastica di Beda, il De ra-tione temporum e il De sex aetatibus mundi dello stesso autore, e un ulte-riore testo, che possiamo identificare con una prima redazione dellaCronaca di Riccardo di San Germano3. Il codice è vergato da una sola

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2 D’ANGELO (1996: 101).3 Si tratta della cosiddetta redazione minor del testo. Si veda anche GARUFI (1938:

mano, anche se in margine al testo si trovano aggiunte di una mano poste-riore.

Possiamo ipotizzare che l’autore della nostra cronaca fosse un monacodell’abbazia cistercense di Santa Maria della Ferraria (in Terra di Lavoro)sia per l’importanza che nel testo è conferita al cenobio, sia per le numerosenotizie specifiche sul monastero che si trovano soltanto in questo testo4.L’opera è stata presumibilmente composta nella prima metà del XIII se-colo, anche se è molto probabile che nel testo siano state aggiunte alcune in-formazioni intorno al 13005. Gli avvenimenti narrati, in ogni caso, vanno dal781 fino all’anno 1228.

La fonte principale della Cronaca di Santa Maria della Ferraria, dal-l’inizio del XII secolo fino almeno al 1139 è il Chronicon Beneventanum diFalcone Beneventano6; l’anonimo cistercense si è tuttavia servito di nume-rosi altri testi per la narrazione degli eventi che precedono e che seguonoquelli narrati dal cronista di Benevento, oltre al Liber Pontificalis è possi-bile identificare brani tratti da opere come gli Annales Casinenses, gli An-nales Ceccanenses o la Historia di Ugo Falcando. È infine plausibile che,per gli eventi che seguono la consacrazione dell’abbazia di Santa Mariadella Ferraria (1184), ed in particolar modo per gli accadimenti del XIII se-colo, il cronista abbia utilizzato fonti orali locali e la propria memoria7.

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XVI-XXVI ed in particolare XVI-XXII), il quale sottolinea che questa versionedella cronaca «non si allontana punto da una Cronaca monastica essenzialmenteCassinese» (GARUFI 1938: XVII).4 Si veda GAUDENZI (1888: 3). Si noti tuttavia che la Cronaca di Santa Maria dellaFerraria presenta caratteristiche atipiche rispetto a quelle della maggior parte dellealtre cronache monastiche: la storia del cenobio non rappresenta quasi mai il ful-cro della narrazione. L’anonimo cistercense segue piuttosto le vicende dell’Italiacentro-meridionale, tanto che la cronaca può essere interpretata in larga misuracome una celebrazione dell’avvento del potere normanno e poi svevo. 5 Su questi aspetti si veda SCHMEIDLER (1906: 53-57) e, in parte, GAUDENZI (1888: 4).6 Sulle fonti della cronaca si vedano almeno KEHR (1902), SCHMEIDLER (1906),BERTOLINI (1923: 37-42 e 76-81, 85 e 96), GERVASIO (1939: 70-77). KEHR (1902)in particolar modo, propone, sulla base di un confronto stilistico, che l’anonimocronista di Santa Maria della Ferraria abbia attinto al testo di Falcone, oltre che peril periodo 1103-1139, anche per gli anni 1099-1101 e 1140-1144. Gervasio (1939)ritiene invece che gli eventi del 1099 non siano stati ripresi dalla stessa fonte (suquesti aspetti si veda anche D’ANGELO (1994: 175-180), che, con argomenti con-vincenti, sostiene non solo che gli accadimenti del 1099 siano di stampo falco-niano, ma che anzi una parte più ampia del racconto di quell’anno abbia avutocome fonte il cronista di Benevento).7 Si veda a questo proposito anche quanto affermato da SCHMEIDLER (1906: 51).

2.2. Caratteristiche generali della sintassi della Cronaca di Santa Mariadella Ferraria. I rapporti con la lingua del Chronicon Beneventanum di Fal-cone di Benevento

La Cronaca di Santa Maria della Ferraria è caratterizzata da un dettatomedio, sostanzialmente privo di afflato lirico e di picchi emotivamente forti,che mira a informare piuttosto che a coinvolgere il lettore. Nel testo si al-ternano fasi in cui la sintassi si fa più complessa a fasi in cui la progres-sione informativa avviene attraverso la giustapposizione di periodi piuttostosemplici.

D’altronde, da questo punto di vista, la cronaca risente inevitabilmentedella sua struttura. La prima parte, in cui viene riportato l’elenco dei Papi,dei duchi longobardi e dei re carolingi, è ovviamente caratterizzata da unasintassi piuttosto lineare e semplice, dotata di una serie di strutture che si ri-petono inframmezzate da brevi frasi di trapasso riguardanti eventi ritenutidi particolare importanza.

Si vedano ad esempio i seguenti brani:

(1) Cui successit Paulus papa, annos x, mensem j. Et huic successit Stephanus papatertius, annos iij, menses v, dies xxvij. Huic successit Constantinus, annum j men-sem j. Cui successit Adrianus papa annos xxiij, menses x, dies xvij (Ferr., 11).

(2) Liupert annos ij, menses vj. Aripert annos xij. Huius temporibus hedificatur mo-nasterium Sancti Vincentii. Ansprand menses iij, dies j. Liuprandus annos 31 etmensem i. Ilprand menses viij. Rachis annos v, menses vj. Aystulfus annos v,menses vj. Hic persequens Romam nitebatur eam invadere, et a singulls Roma-nis, ut se redimerent, petebat aureum. Desiderius annos xviij, menses ij, dies x.(Ferr., 11).

Terminato l’elenco dei papi, dei duchi e dei re, inizia la cronaca vera epropria, con la narrazione dei saccheggi e delle distruzioni dei Saraceni.Come abbiamo sottolineato nel paragrafo 1, a partire dagli eventi del 1103(ma forse dal 1099) e fino almeno all’anno 1139 (ma forse anche fino al1144) la fonte principale della nostra cronaca è il Chronicon Beneventanumdi Falcone da Benevento. Ci sembra tuttavia importante evidenziare che, sedal punto di vista della narrazione storica il ricorso a Falcone è innegabile,dal punto di vista linguistico l’influenza del Chronicon Beneventanum nonè sempre così forte. Bisogna infatti sottolineare che, in molte occasioni, nellaCronaca di Santa Maria della Ferraria si osserva una rielaborazione, e inparticolar modo una sintesi, del testo di Falcone. La distanza linguistica dalChronicon Beneventanum sembra disporsi in effetti lungo un gradiente.

D’altronde è a nostro avviso necessario riflettere sulle differenze tra idue testi: l’anonimo cronista della Ferraria aveva infatti forse a disposizioneun manoscritto contenente un testo del Chronicon Beneventanum sensibil-mente diverso da quello che è giunto fino a noi (e probabilmente dotato di

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una maggiore estensione cronologica)8. Differenze microlinguistiche tra iltesto della Cronaca di Santa Maria della Ferraria e quello del ChroniconBeneventanum così come ci è pervenuto potrebbero dunque essere anche le-gate alle diverse lezioni presenti nel manoscritto dell’opera di Falcone Be-neventano utilizzato dall’anonimo cistercense.

Qui di seguito riportiamo un paio di casi in cui le due cronache diver-gono solo marginalmente:

(3) Anno Mcxij mense Martii idem papa, faciens Rome synodum, fregit pactumquod fecerat cum Henrico rege. Eodem anno ceptum est oratorium Sancti Bar-tholomei in Benevento. Sed Beneventani, cernentes se variis predarum doloribusundique affligi, miserunt supplicantes ad eundem apostolicum quatinus succur-rere dignaretur civitati sue periture (Ferr., 16).

(4) Mense martio papa Paschalis faciens Romae synodum fregit pactum, quod fe-cerat cum Henrico rege. Hoc anno inceptum est edificari oratorium Sancti Bar-tholomei Apostoli. His et aliis ita decursis, cernentes Beneventani se variispredarum doloribus affligi, consilio habito, Landulphum archiepiscopum et Io-annem iudicem ad prefatum Apostolicum delegaverunt, quatenus cives illos tantaoppressos calamitate ad portum salutis erigere dignaretur... (Chr. Ben., 4-6).

(5) Innocentius papa simul cum Lothario imperatore Romam venerunt cum duobusmilibus hominum, qui a Romanis cum gaudio et honore maximo suscipiuntur.Innocentius in Laterano et imperator circa monasterium sancti Pauli cum exer-citu suo viriliter castramentatur. Qui, ut fertur, misit ad Anacletum quatinus con-municato consilio religiosorum virorum ipse adesset et, spiritu sancto mediante,tanti erroris et homicidiorum magnitudini finis imponeretur. Quod Anacletus fa-cere contempsit (Ferr., 19).

(6) Innocentius papa simul cum Lothario imperatore Romam pervenerunt; audivi-mus re vera duo milia militum secum duxisse. Apostolicus itaque honeste su-sceptus palatium Lateranense ingreditur, ibique gaudio magno et honoris copiasupersedit: imperator autem circa monasterium Sancti Pauli cum exercito suo vi-riliter castrametatur. Misit namque, sicut audivimus, ad Anacletum ut, consilioreligiosorum virorum communicato, adesset, et Spiritu Sancto mediante, tanti er-roris et homicidii magnitudini finem poneret; quod Anacletus ille, sicut accepi-mus, facere contempsit (Chr. Ben., 148).

La prima parte dell’esempio (3) presenta evidentemente differenze mi-nime rispetto al testo della fonte (si tratta sostanzialmente di alcuni dimo-strativi che variano nelle due cronache)9. Tuttavia, già alla fine del brano in(3), il dettato falconiano viene riassunto e se ne traggono solo le notiziefunzionali al racconto dell’anonimo cistercense; la sintassi viene variata, e

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8 Si vedano a questo proposito almeno le riflessioni svolte da D’ANGELO (1994:174-180), ed in particolar modo lo stemma proposto da D’ANGELO (1994: 181).9 Sull’uso dei dimostrativi in questo ed in altri brani della Cronaca di Santa Mariadella Ferraria, si sofferma brevemente anche SCHMEIDLER (1906: 39-40). Si vedain ogni caso anche il paragrafo 2.3. della presente ricerca.

del testo del Chronicon Benventanum restano solo dei relitti lessicali, sin-gole parole o brevi locuzioni che ricorrono in entrambe le opere.

Le somiglianze tra il brano presentato in (5) e quello mostrato in (6)sono anch’esse molto strette. Il testo della Cronaca di Santa Maria dellaFerraria segue in effetti molto da vicino quello del Chronicon Beneventa-num, sebbene non manchino alcune trasformazioni sintattiche che difficil-mente possono essere ascritte alle differenze tra il manoscritto della cronacadi Falcone usato dal cronista della Ferraria e quello che è giunto a noi. Seinfatti si possono spiegare con questa motivazione divergenze minori comel’uso di venerunt al posto di pervenerunt, più arduo ci sembra proporre unaspiegazione simile per il brano «cum duobus milibus hominum, qui a Ro-manis cum gaudio et honore maximo suscipiuntur. Innocentius in Lateranoet imperator circa monasterium sancti Pauli cum exercitu suo viriliter ca-stramentatur» che nella fonte corrisponde al seguente passaggio: «audivi-mus re vera duo milia militum secum duxisse. Apostolicus itaque honestesusceptus palatium Lateranense ingreditur, ibique gaudio magno et honoriscopia supersedit: imperator autem circa monasterium Sancti Pauli cum exer-cito suo viriliter castrametatur».

A parte la sezione finale del brano (da imperator circa a castramentatur),in cui si possono osservare solo minime variazioni tra i due testi, il resto delpassaggio presenta una certa divergenza dal punto di vista sintattico. Se in-fatti il lessico appare fortemente influenzato da quello della fonte (si ve-dano ad esempio le coppie cum duobus milibus hominum/duo milia militum,cum gaudio et honore maximo/gaudio magno et honoris copia e suscipiun-tur/susceptus), la sintassi del Chronicon Beneventanum, pur non essendostravolta, risulta chiaramente modificata. In particolar modo, le due co-struzioni prive di preposizioni duo milia militum e gaudio magno et hono-ris copia sono sostituite da due strutture introdotte dalla preposizione cum.

Gli ultimi righi degli esempi (5) e (6), come si vede, sono quasi del tuttoidentici, e l’anonimo cistercense ricalca molto da vicino il testo di FalconeBeneventano: non ci sembra da escludere che anche le piccole divergenzetra i due testi possano ricondursi alle differenze tra il manoscritto del Chro-nicon Beneventanum utilizzato dal cronista della Ferraria e quello che è in-vece giunto fino a noi10.

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10 Si noti in ogni caso in questo passaggio l’uso di ut fertur nella Cronaca di SantaMaria della Ferraria, cui corrisponde nel Chronicon Beneventanum l’espressionesicut audivimus. Questa trasformazione ci sembra interessante sul piano dei metodidi designazione della fonte delle proprie notizie. Falcone infatti sottolinea la co-noscenza diretta della fonte, mentre l’anonimo cistercense in qualche modo se nedistanzia attraverso il generico ut fertur che, a nostro avviso, potrebbe essere legatoal fatto che le informazioni del cronista sono tratte da Falcone, il quale a sua voltasostiene di narrare un avvenimento che ha solo sentito raccontare.

Come abbiamo sottolineato più sopra, tuttavia, in molti casi l’opera diFalcone Beneventano rappresenta sostanzialmente soltanto una cornice, oun canovaccio, da cui selezionare informazioni per la propria narrazione,senza che nel testo di arrivo permanga qualcosa di più che qualche relittolessicale o qualche influenza generica sulla strutturazione della sintassi11.

In ogni caso, sebbene il testo del Chronicon Beneventanum venga spessorielaborato, il racconto della Cronaca di Santa Maria della Ferraria scorrelineare e non si ritrovano, se non molto raramente, periodi sintatticamentecaotici. L’anonimo cistercense è in grado di selezionare le informazioni chetrova interessanti nel Chronicon Beneventanum e di utilizzarle all’internodella propria sintassi, eventualmente legandole anche con frasi di trapasso.

Si prenda ad esempio il lungo racconto dell’anno 1132, in cui l’anonimocistercense seleziona attentamente il materiale di Falcone Beneventano, espesso mantiene il Chronicon Beneventanum come un modello ampio, dacui trarre informazioni, ma non la lingua. In molti casi del testo falconianorestano solo alcune parole, mentre la sintassi è propria dell’anonimo ci-stercense.

La narrazione degli eventi del 1132 è infatti costruita alternando parti incui si può osservare una sorta di parafrasi (piuttosto fedele al testo di par-tenza) di Falcone e sezioni in cui la rielaborazione è invece molto più evi-dente e cospicua. Qui di seguito presentiamo un paio di casi in cui si puòosservare una ripresa sostanzialmente diretta del Chronicon Beneventanume che dunque si possono in qualche modo avvicinare agli esempi (3) e (5).

(7) Luna splendorem proprium deserens vertitur in sanguinem in mense Martii.Quod aspicientes, prodigium fore credebant (Ferr., 18-19).

(8) Luna splendorem ortus sui derelinquens in sanguinis colorem conversa est, quamnos aspicientes, prodigium fore credidimus (Chr. Ben., 120).

(9) Promisitque Beneventanis facere eis libertatem de fidantiis et de omnibus exac-tionibus, quibus Normanni eos subposuerant (Ferr., 19).

(10) Promittebat ideo pacem civitati Beneventanae daturum, et Beneventanorumhereditates a Normandorum servitute et tributibus liberare (Chr. Ben., 128).

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11 Su questo aspetto si vedano anche i confronti testuali proposti da SCHMEIDLER(1906: 35-38), il quale, al termine della comparazione tra un brano della Cronacadi Santa Maria della Ferraria e il corripsondente passaggio del Chronicon Bene-ventanum sottolinea che «[d]ie Wiedergabe ist sehr frei, es entspricht sich nur We-niges wörtlich, doch werden alle tatsächlichen Angaben des Ferrariensers durchFalco gedeckt, sodass an der Abhängigkeit nicht zu zweifeln ist» (SCHMEIDLER1906: 36).

Si noti tuttavia che, se il rapporto tra (7) e (8) è del tutto evidente, e laparafrasi operata dal cronista di Santa Maria della Ferraria è veramente mi-nima, l’analisi dei brani presentati in (9) e (10) mostra che l’anonimo ci-stercense, anche nelle situazioni in cui sembra mantenersi più fedele aldettato falconiano, mantiene una certa indipendenza nella strutturazionedella sintassi del proprio testo. Se infatti nella fonte il verbo promitto reggele due costruzioni a verbo non finito coordinate pacem civitati Beneventa-nae daturum e Beneventanorum hereditates a Normandorum servitute ettributibus liberare, nel testo della cronaca cistercense lo stesso verbo (flessoal perfetto e non all’imperfetto) regge un’unica struttura infinitiva (facereeis libertatem de fidantiis et de omnibus exactionibus) da cui dipende unasubordinata relativa (quibus Normanni eos subposuerant).

Il lungo episodio del 1132 riguardante la battaglia di Nocera tra l’eser-cito del re Ruggero II e quello dei suoi nemici, il principe Roberto II e ilconte Rainulfo di Alife, alleati con Raone di Fragneto e Ugone Infante(Ferr., 72-76, Chr. Ben., 134-140) risulta invece da una rielaborazione moltopiù massiccia del testo di Falcone; in questo contesto il Chronicon Bene-ventanum rappresenta una fonte in senso piuttosto ampio e soprattutto nelcontenuto evenemenziale piuttosto che nella forma12.

In realtà, anche dal punto di vista contenutistico, il messaggio veicolatodalla Cronaca di Santa Maria della Ferraria è piuttosto diverso da quellodel testo di Falcone di Benevento. L’anonimo cistercense, infatti, non èschierato in favore dei ribelli ed è, come d’abitudine, molto più concisonella narrazione. Nella nostra cronaca non vi è quasi alcuna traccia del rac-conto delle diverse fasi della battaglia, ed è del tutto assente l’afflato liricoe il tono patetico di Falcone. Il pathos di cui è impregnato il dettato falco-niano è ridotto a poche espressioni13: il racconto è scarno e limitato aglieventi essenziali alla comprensione della preparazione, dello svolgimentoe dell’esito dello scontro.

Dal punto di vista strettamente linguistico, oltre a un generica ripresadegli argomenti trattati, nella Cronaca di Santa Maria della Ferraria nonsi ritrovano dunque che singole locuzioni usate da Falcone nella narrazionedi questo episodio. Si tratta di poche espressioni come terga vertentes (Ferr.,74, Chr. Ben., 136) o valde munitus / munitissimum (riferito al castrum No-

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12 Su questo episodio si è soffermato anche SCHMEIDLER (1906: 38), che sottolineain particolar modo la diversa distribuzione delle informazioni nelle due narrazioni.Quella dell’anonimo cistercense risulta infatti meno rispettosa dell’ordine crono-logico degli avvenimenti ed, in un certo senso, più caotica.13 Al termine dello scontro, il re Ruggero è ad esempio descritto come dolens ac tre-pidus; sono invece decine gli aggettivi attraverso cui Falcone delinea i sentimentidei contendenti nello svolgimento delle diverse fasi della battaglia.

cerium, Ferr., 74, Chr. Ben., 134), ma la strutturazione della narrazione èprofondamente diversa e la sintassi dei due testi diverge chiaramente.

Il rapporto con il Chronicon Beneventanum, strettissimo e al contemponon sempre lineare, risulta dunque fondamentale per una comprensione piùcompleta della Cronaca di Santa Maria della Ferraria nella doppia chiavedelle consonanze e delle dissonanze, tanto linguistiche quanto contenuti-stiche.

2.3. Sulla sintassi della Cronaca di Santa Maria della Ferraria: l’uso deiparticipi

La Cronaca di Santa Maria della Ferraria è, come abbiamo avuto mododi accennare nei paragrafi precedenti, un testo caratterizzato da uno stilemedio, che si appoggia su una sintassi in genere piuttosto semplice. L’in-cassamento delle frasi dipendenti non va quasi mai oltre il secondo livellodi subordinazione, e gli schemi compositivi del testo risultano piuttosto ri-petitivi. D’altronde, il rapporto generalmente piuttosto libero con le fonti dalpunto di vista linguistico garantisce una certa continuità stilistica tra le di-verse parti dell’opera.

Una struttura compositiva assai tipica della progressione narrativa nellaCronaca di Santa Maria della Ferraria è ad esempio costituita dalla suc-cessione di una subordinata participiale (un ablativo assoluto o un partici-pio congiunto) e di una frase reggente.

Ancora una volta il confronto tra la Cronaca di Santa Maria della Fer-rara e il Chronicon Beneventanum risulta illuminante per indagare la co-struzione della sintassi dell’anonimo cistercense. Si vedano ad esempio idue brani seguenti, entrambi facenti parte del breve capitoletto sull’anno1137:

(11) Millesimo coxxxvijo et viij anno eiusdem Innocentii pape, mensi Martii, idem In-nocentius de Pisis egrediens, eundem imperatorem allocuturus aput Viterbiumproperavit (Ferr., 21).

(12) Anno millesimo centesimo trigesimo septimo, et anno octavo pontificatus do-mini Innocentii, mense Martio, quinta decima indictione. Prefatus ApostolicusInnocentius, qui tunc Pisis morabatur, consilio communicato, de civitate Pisanaexivit et apud civitatem Bitervum advenit, prefatum imperatorem allocuturus(Chr. Ben., 177-178).

(13) Qui veniens simul cum eodem apostolico, Albanum et Campaniam totam ei sub-posuit. Romam quidem ingredi idem apostolicus noluit ne Romanorum negotiisimpediretur (Ferr., 21).

(14) Apostolicus autem continuo Romanos fines advenit et civitatem Albanum etprovinciam totam Campaniae suae obtinuit fidelitati; Romam quidem ingredinoluit, ne in Romanorum negotiis impediretur (Chr. Ben., 178).

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Oltre all’inserimento di numerosi dimostrativi (aspetto sul quale torne-remo nel prossimo paragrafo), risulta immediatamente chiaro dal confrontotra gli esempi (11) e (13) e tra gli esempi (12) e (14) in che modo la sintassidi Falcone Beneventano sia stata piegata verso lo schema compositivo “su-bordinata participiale + reggente”.

La locuzione de civitate Pisana exivit di (12) viene infatti trasformatadall’anonimo cistercense in de Pisis egrediens e viene posta immediata-mente prima della frase reggente. Allo stesso modo il participio veniens delbrano in (13) corrisponde sostanzialmente al verbo di modo finito advenitnella fonte.

Lo schema “subordinata participiale + reggente”, evidenziato dai pe-riodi presentati in (11) e (13), costituisce d’altronde una tipologia di co-struzione dell’enunciato assai tipica della narrazione dell’anonimocistercense. Si vedano ad esempio i seguenti brani, tratti sia dalla parte dellacronaca la cui fonte è rappresentata dal Chronicon Beneventanum sia daparti del testo prive di una fonte scritta a noi nota.

(15) Quibus principes et comites cum baronibus auditis, promiserunt se omnes eidemsiculo comiti viriliter resistendos. Unde apostolicus Romam reversus tandemcum cc militibus romanibus rediit, et congregata multitudine pugnatorum cumeodem principe et comitibus atque baronibus ad expugnandum dictum Siciliecomitem accessit. Sed ille, cavens conflictum tante multitudinis, secessit ad mon-tana per totum mensem Iulii (Ferr., 17).

(16) Eodem anno Innocentius papa consecratus, videns divisiones populi Romani etcivilia bella cotidie oriri, consilio habito, perrexit ultra montes ad regem Fran-cie et alios fideles romane ecclesie; a quibus digne et honorifice receptus, cele-bravit synodum cl. pontificum in remensi civitate (Ferr., 18).

(17) Princeps itaque, habito consilio cum eodem papa Innocentio et Gerardo cardi-nali et Riccardo germano comitis Raynulfi, accessit ad Lotarium imperatoremin Alamaniam, et ei flebili voce qualiter a rege fuisset exheredatus cum singultudisposuit suppliciter postulans, quatenus ei quanto citius succurrere dignaretur.Quem imperator benigne recipiens eodem anno ad libertatem sui et romane ec-clesie se cum ingenti potentia venturum promisit. Princeps vero receptis impe-rialibus apicibus cum largifluis donis ad apostolicum rediit et seriatim ei cunctadisseruit (Ferr., 20).

(18) Revolvente anno idem imperator adunato exercitu de comitibus regni peragra-vavit Apuliam usque Idrontum nec non et Calabriam, et subiecit eam sibi, resti-tuitque in regno pacem (Ferr., 35).Mccxx. Mense Madii Fredericus rex Sicilie, Apulie et Terre Laboris atque Ala-manie, volens accipere coronam imperii et ire ultra mare ad recuperandam civi-tatem sanctam Ierusalem et expugnandos Sarracenos, ex electione plurimorumprincipum ac ducum coronavit prius Henricum filium suum in regnum Alama-nie (Ferr., 37).

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Anche solo una rapida lettura dei cinque esempi che abbiamo appenaproposto rende manifesta sia la diffusione dello schema compositivo “co-struzione participiale + reggente” sia, più in generale, l’importanza che hala subordinazione participiale nella strutturazione della sintassi della Cro-naca di Santa Maria della Ferraria. In tutti i periodi che compongono ibrani evidenziati in (15)-(19), la progressione narrativa si sviluppa attra-verso una o più subordinate participiali cui segue una frase reggente chepuò a sua volta essere seguita da un’ulteriore subordinata.

Il brano presentato in (15), ad esempio, inizia con un ablativo assoluto,seguito dal verbo della reggente, dopo il quale si sviluppa un accusativocon infinito (Quibus principes et comites cum baronibus auditis, promise-runt se omnes eidem siculo comiti viriliter resistendos). Questo periodo èpoi seguito da un altro brano complesso in cui le frasi principali funzionanocome dei punti di sostegno sintattici per le costruzioni participiali, che vei-colano la maggior parte delle azioni (Unde apostolicus Romam reversustandem cum cc militibus romanibus rediit, et congregata multitudine pu-gnatorum cum eodem principe et comitibus atque baronibus ad expugnan-dum dictum Sicilie comitem accessit). Il periodo che chiude l’esempio,infine, è costituito esclusivamente da un participio congiunto seguito dallafrase reggente (Sed ille, cavens conflictum tante multitudinis, secessit admontana per totum mensem Iulii).

Un’analisi simile e una analoga descrizione si potrebbero proporre peri brani evidenziati in (16)-(19): in tutti questi esempi, infatti, si riscontrauna netta ricorrenza della struttura “subordinata participiale + frase reg-gente”, che si ripete pressoché all’inizio di ogni periodo. Questo aspetto cisembra tanto più interessante in quanto si ritrova sia in sezioni dell’operabasate sul Chronicon Beneventanum sia in parti di cui ignoriamo la fonte eche potrebbero essere del tutto originali.

Molto interessante, dal punto di vista dell’uso dei participi, risulta inol-tre il seguente passaggio, strutturato sostanzialmente attraverso una suc-cessione di subordinate participiali, ed in cui si riscontra anche l’utilizzo diun participio in funzione di verbo di modo finito14.

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14 L’uso di participi presenti con funzioni comparabili a quelle di un verbo finito èstato notato fin da Bonnet per le Historiae di Gregorio di Tours. Bonnet ritenevatuttavia che questi participi non fossero completamente indipendenti : «[l]e parti-cipe présent devient ainsi presque un équivalent de l’indicatif; il suffit à former despropositions principales, non pas tout à fait indépendantes à la vérité, mais jointespar que ou et à d’autres principales» (BONNET 1890 : 650-651). Per di più, in unanota, lo studioso francese sottolinea che, anche nei passaggi in cui le frasi partici-piali sembrano del tutto indipendenti, è spesso possibile ridurre questa “indipen-

(20) Mccj. Mense Iunii comes Gualterius de Brena accipiens in coniugium filiamcondam regis Trancredi15, veniens de Burgunia per licentiam apostolici, iuratusquod non esset contra regem Fredericum qui tunc puer in apostolica protectione,nec contra Latinos, sed esset potius contra Teutonicos quantum posset, ita quodeiceret illos de regno, quia nolle(n)t obedire domino pape habenti balium regni(Ferr., 33).

Come si vede, il brano presentato in (20) manca di una vera e propriafrase reggente. Il passaggio si costruisce piuttosto attraverso un’accumula-zione di informazioni, secondo uno schema che è tipico di alcuni testi tardo-latini ed anche romanzi16. Per ricondurre questo periodo ad una sintassicaratterizzata da relazioni di dominanza più “canoniche” siamo costretti adattribuire al participio iuratus le funzioni di un verbo di modo finito, chepossa funzionare da ancora sintattica per tutto il periodo, da cui far dipen-dere sia le subordinate participiali con cui si apre il passaggio sia la com-pletiva introdotta da quod e la sua coordinata. Non ci sembra invecepossibile “normalizzare” la peculiarità di questo passaggio modificando lapunteggiatura. Il brano che abbiamo presentato in (20) è infatti seguito daqueste parole:

(21) Unde intrans regnum, in primo conflictu expugnavit et vicit comitem Diopuldumapud Capuam, et in secundo apud Barum in Apulia, sicque enervavit Teutonicos(Ferr., 33).

Le informazioni incluse in questo periodo sono evidentemente legate inmaniera stretta a quanto evidenziato immediatamente prima (si veda la frase«sed esset potius contra Teutonicos quantum posset, ita quod eiceret illos deregno, quia nolle(n)t obedire domino pape habenti balium regni» alla finedell’esempio (20)).

In ogni caso, risulterà ormai chiara l’importanza cruciale che rivestonoi participi nella strutturazione della sintassi della Cronaca di Santa Mariadella Ferraria. La tendenza ad un uso marcato della subordinazione parti-cipiale sembra dunque essere un tratto tipico dello stile dell’anonimo ci-stercense.

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denza” modificando la puntuazione delle edizioni (BONNET 1890: 651 n.1). Se-condo Bonnet, dunque, le frasi participiali “indipendenti” poteva comparire solo incoordinazione con una reggente vera e propria. Rappresenterebbero dunque unasorta di frase principale con un minor grado di indipendenza. Su questa questionesi veda anche quanto da noi evidenziato in GRECO (2008: 215-218).15 La forma presente nel codice è Tancredus (GAUDENZI 1888: 33 n. 5).16 Si veda a questo proposito GRECO (2008).

2.3. Sulla sintassi della Cronaca di Santa Maria della Ferraria: i di-mostrativi

Un altro tratto che sembra caratteristico della lingua e dello stile del-l’anonimo cistercense riguarda l’uso dei dimostrativi, ed in particolar mododi idem. Si tratta di un aspetto che era stato già messo in evidenza daSchmeidler (1906: 39-40), il quale sottolinea che il nostro cronista «hat einegrosse Vorliebe für das Wort ‘idem’, ersetzt vielfach Worte wie ‘prefatus, is,hic, ille’ und ähnliche durch ‘idem’ oder setzt das Wort frei hinzu»17. Anchenoi abbiamo d’altronde avuto già modo di mettere in rilievo questa pecu-liarità della lingua della Cronaca di Santa Maria della Ferraria nei para-grafi precedenti, ed in particolar modo nella discussione degli esempi (3) e(4) del paragrafo 2.1. In quell’occasione abbiamo infatti potuto constatarel’aggiunta dell’elemento idem davanti al nome papa, laddove nella fonteavevamo la semplice indicazione papa Paschalis, e l’uso della locuzioneeodem anno in luogo dell’espressione hoc anno che si ritrova in Falcone Be-neventano. Queste trasformazioni, evidentemente, potrebbero farsi risalirea lezioni diverse presenti nel manoscritto del Chronicon Beneventanum uti-lizzato dall’anonimo cistercense. Tuttavia, la continua ripetizione della co-struzione eodem anno in tutto il testo rende probabile che questa locuzionerappresentasse uno stilema peculiare del cronista di Santa Maria della Fer-raria. Si guardi ad esempio al passaggio proposto qui di seguito, in cuil’espressione eodem anno ricorre tre volte in pochi righi, all’inizio di ogninuovo tema trattato dal cronista. Si tratta in sostanza di un elemento chegarantisce la coesione testuale e permette al contempo l’avanzamento dellanarrazione.

(22) Eodem anno et mense, iiiior scilicet K1. Augusti, luna xij, in iija feria enclisimpatitur; […] Eodem anno Philippus rex Alamannie occiditur. Eodem anno domusVallis Lucide incepta est (Ferr., 34)18.

Molto diffuso all’interno del testo risulta anche l’uso di idem + nome(spesso un titolo come papa o imperator) all’inizio della narrazione deglieventi di un nuovo anno, per riprendere un personaggio citato nel brano re-lativo all’anno precedente. L’idem papa che abbiamo ritrovato nell’esem-pio (2) del paragrafo 2.1. («anno Mcxij mense Martii idem papa, faciens

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17 SCHMEIDLER 1906: 39.18 La parte che abbiamo soppresso in questo esempio è la seguente: «iterum pa-tiens circa mediam noctem ex toto obscuratur, sic quod, apparentihus stellis, ipsanon apparet usque in auroram circa mane. Circa vero mane de superiori et inferioriparte sui aliquantulum illuminatur, medietate eius remanente obscura usque in oc-casum» (Ferr., 34).

Rome synodum, fregit pactum quod fecerat cum Henrico rege») costituisceun esempio di questa tipologia di utilizzo del dimostrativo idem. Qui di se-guito presentiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, alcune altre occor-renze comparabili:

(23) Idem papa rediens cum multo exercitu usque ad muros Beneventum obsedit(Ferr., 15)19.

(24) Mclxxxij. Idem Alexander papa iiius obiit (Ferr., 31). (25) Mcxcv. Idem imperator cum imperatrice apud urbem Bari in Apulia pascha ce-

lebrant et civitatum menia dirui precepit. Ipse in Alamaniam et imperatrix in Si-ciliam secessit (Ferr., 32).

(26) Mccviij. Idem papa mense Iulii apud Sanctum Germanum in terra sancti Bene-dicti curiam tenuit (Ferr., 34).

Come si vede, la sequenza anno + idem + papa/imperator è di uso assaifrequente nella Cronaca di Santa Maria della Ferraria quando gli eventidell’anno sono relativi allo stesso personaggio intorno a cui ruotavano leazioni descritte nel brano relativo all’anno precedente20. Lo scopo di que-sta locuzione è dunque sostanzialmente quello di creare coesione testuale,riprendendo il personaggio che è stato il protagonista del paragrafo prece-dente per farne l’attore principale degli eventi che si svolgeranno nel pas-saggio iniziato proprio dalla locuzione idem + papa/imperator.

Si tratta infondo di un valore affine a quello svolto dalla costruzioneeodem anno. Se infatti quest’ultima serve a creare coesione testuale all’in-terno del racconto di un singolo anno e di far progredire la narrazione met-tendo in parallelo una serie di azioni svolte da diversi attori, la sequenzaanno + idem + papa/imperator ha la funzione di creare un legame a raggioleggermente più ampio, sottolineando l’identità tra il protagonista deglieventi di un anno e quello degli accadimenti dell’anno precedente.

Non è infrequente, d’altronde, che la locuzione idem + papa/imperatorsi ritrovi anche all’interno della narrazione di un singolo anno. In questicasi, ovviamente, la funzione testuale svolta da questa costruzione è so-stanzialmente identica a quella di eodem anno: una sequenza crea un le-game di continuità sul piano temporale, l’altra sul piano del protagonistadegli eventi. In alcuni casi, per altro, le due espressioni si susseguono. Si

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19 Si noti in questo esempio anche la struttura “subordinata participiale + frase reg-gente”, che nel paragrafo precedente abbiamo visto essere tipica dello stile del-l’anonimo cistercense.20 Come vedremo più avanti in questo paragrafo, il riferimento al personaggio prin-cipale del capitoletto precedente non è sempre immediato.

prenda ad esempio in considerazione il seguente passaggio, in cui in due oc-casioni si riscontra la sequenza eodem anno idem papa:

(27) Eodem anno idem papa obiit. iij kl. Augusti, et successit Paschalis per annosxix. Hic sub specie pacti cum quibusdam episcopis et cardinalibus aliisque pro-bis viris in ecclesia sancti Petri ab Henrico rege teutonico fraudolenter captus estet tam diu tentus quousque, concordia facta, eundem imperatorem coronavit, etsic cum ceteris dimissus est. Eodem anno idem papa mense viij apud MelfimApulie synodum fecit. Eodem anno Rogerius dux Sicilie et Calabrie obiit, etidem papa cum eodem duce Rogerio in Calabriam accessit (Ferr., 15).

Anche solo una rapida occhiata al brano presentato in (27) rende evi-dente che in questo passaggio si ritrovano numerose occorrenze di idemcon valore aggettivale (sempre nella forma idem + titolo onorifico oppurenella locuzione eodem anno). La coesione testuale è dunque affidata so-prattutto a questo dimostrativo, il cui uso crea una fitta rete di riferimentianaforici di diversa portata.

L’idem papa dell’inizio dell’esempio si riferisce a Urbano II, citato nelparagrafo precedente, così come eundem imperatorem richiama Enrico. Isuccessivi idem papa riprendono invece il Papa Pasquale II, nominato qual-che rigo prima, mentre eodem duce si riferisce a Ruggero duca di Sicilia eCalabria, nonostante questo personaggio sia stato segnalato come morto alrigo precedente. Interessante in particolar modo in questo esempio è l’usodi hic in funzione pronominale: come vedremo a breve, i pronomi sonopiuttosto rari nella Cronaca di Santa Maria della Ferraria, a parte le formedi is (che ricorrono invece frequentemente, ma sulle quali non ci sofferme-remo in questo contributo). La presenza di hic in questo contesto è forselegata alla necessità di riprendere l’elemento Paschalis senza ricorrere allalocuzione idem papa appena utilizzata per richiamare un altro Papa, Ur-bano II.

La rete di relazioni costruite nell’esempio (27) attraverso l’uso reiteratodell’aggettivo idem risulta dunque piuttosto coerente e, più in generale, purnella sua ripetitività, sembra funzionare correttamente.

Non sempre però nella Cronaca di Santa Maria della Ferraria il nometesta cui rimanda l’elemento idem è così chiaro come nel brano presentatoin (27). Il Papa Pasquale II, introdotto in occasione della sua elezione (1099)proprio nel passaggio che abbiamo appena analizzato, viene infatti ripresoesclusivamente dalla locuzione idem papa in tutto il testo fino agli eventidel 1113. In 10 occasioni, dunque, indipendentemente dalla crescente di-stanza dal referente espresso in maniera piena, il Papa è ripreso dal-

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l’espressione idem papa21. Sembra quindi che per l’anonimo cistercense siasufficiente che non ci sia un cambio esplicito di referente (ad esempio l’in-troduzione di un altro Papa o imperatore) perché dimostrativo idem possaessere utilizzato per riprendere il proprio nome testa anche a grande di-stanza.

In questo caso, tuttavia, sebbene con qualche difficoltà è possibile per illettore recuperare il nome testa dell’espressione idem papa, e, in ogni modo,il valore di ripresa anaforica proprio dell’elemento idem è conservato.

In alcune occasioni, invece, la funzione anaforica di idem sembra per-dersi quasi del tutto, e il dimostrativo viene utilizzato nonostante la conti-nuità con il proprio referente pieno sia stata interrotta.

(28) Anno domini Mcxviiij et iiijo Kl. Aprilis idem papa Gelasius apud Cluninemobiit. (Ferr., 17).

L’ultimo Papa introdotto dall’anonimo cistercense prima dell’espres-sione idem papa Gelasius dell’esempio (28) non è Gelasio, ma Callisto II,il suo successore. Il riferimento di idem papa sembra dunque saltare il piùimmediato possibile referente, per riprendere invece Gelasio, il protagoni-sta del brano precedente. Se infatti effettivamente l’ultimo Papa di cui siparla nel testo prima della locuzione idem papa Gelasius è Callisto II, è in-negabile che il protagonista dell’episodio in cui viene citato Callisto II èGelasio. La relazione anaforica indicata da idem si stabilisce dunque conl’elemento maggiormente saliente dal punto di vista semantico piuttostoche con l’ultimo referente (possibile) linearmente espresso. Il valore di ri-presa veicolato da idem si esplica dunque in questo caso maggiormente sulpiano semantico piuttosto che su quello propriamente sintattico.

Infine, risulta a nostro avviso di un certo interesse l’uso del dimostrativoidem nel brano che abbiamo presentato in (11) e che riproponiamo qui di se-guito in (29):

(29) Millesimo coxxxvijo et viij anno eiusdem Innocentii pape, mensi Martii, idem In-nocentius de Pisis egrediens, eundem imperatorem allocuturus aput Viterbiumproperavit (Ferr., 21).

Questo esempio si apre in effetti con un inquadramento temporale cheprende come punto di riferimento secondario l’anno di papato dell’eiusdemInnocentii pape; questa indicazione è seguita, dopo un’ulteriore informa-zione di tipo temporale, dal soggetto della prima frase preceduto dal dimo-

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21 A queste dieci riprese attraverso l’espressione idem papa (o idem apostolicus inun caso) se ne può aggiungere anche una effettuata con il pronome ipse.

strativo idem, secondo uno schema sostanzialmente identico a quello uti-lizzato per la parte iniziale del brano relativo all’anno precedente(«Mcxxxvj et vijo anno ejusdem Innocentii pape, dum hec et alia agerentur,idem Lotharius imperator…»).

In entrambe questi passaggi, e segnatamente in quello presentato in (29),il valore di idem sembra essere quello di un generico marcatore di continuitàtestuale. Più che riprendere in maniera diretta un elemento espresso in pre-cedenza, in questo esempio idem pare semplicemente assicurare la coesionecon il resto del testo. In un certo senso, sembra quasi che l’anonimo cister-cense desideri garantire e rinsaldare la compattezza dell’impalcatura dellasua narrazione attraverso questi continui rimandi in cui viene sottolineata lanatura “già nota” dei personaggi che introduce (il paragrafo inizia segna-lando che siamo nell’ottavo anno dell’eiusdem innocentii pape quandol’idem Innocentius intende parlare con l’eundem imperatore).

Evidentemente questo uso insistito di elementi di ripresa anaforica, edin particolar modo di idem, potrebbe essere legato ad una tradizione stili-stica; non possiamo tuttavia fare a meno di domandarci se dietro questa pe-culiarità della lingua del nostro cronista non possa intravedersi una malcertapadronanza dei meccanismi di strutturazione di un testo coeso. Purtroppo,data anche la scarsità di dati in nostro possesso, non siamo in grado di for-nire una risposta definitiva a questo quesito; ci sembra tuttavia che si trattidi un’ipotesi suggestiva, che sarebbe opportuno testare attraverso confronticon altri testi di diverso registro sociolinguistico e con altri fenomeni chepotrebbero convergere verso una spiegazione di questo tipo.

In ogni caso, risulta chiaro che il dimostrativo idem (in funzione quasisempre aggettivale e legato a nomi come papa, imperator o dux) viene uti-lizzato nel nostro testo come elemento di ripresa anaforica pass-partout.D’altronde, come vedremo a breve, idem ricorre con una frequenza netta-mente maggiore di quella con cui compaiono elementi dotati di un valoreaffine come gli aggettivi prefatus, supradictus o predictus o, per certi versi,il dimostrativo ipse22.

Un’indagine condotta sul testo della Cronaca di Santa Maria della Fer-raria prendendo in considerazione gli eventi che vanno dalla morte di Ur-bano II (1099) fino al 1130, e poi gli accadimenti che vanno dal 1199 al1220 (fino alla lettera inviata dal Papa all’abate di Santa Maria della Fer-raria esclusa) dimostra in effetti chiaramente che idem rappresenta il di-mostrativo di gran lunga più utilizzato nella nostra cronaca, tanto nelle parti

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22 Sugli usi e le funzioni di ipse in latino tardo, oltre alle pagine dedicate ai dimo-strativi da STOTZ (1998: 125-128), si vedano SELIG (1992) e le osservazioni di SOR-NICOLA (2008: 550-556).

mutuate da Falcone Beneventano, quanto in quelle che sicuramente nonpossono farsi risalire al Chronicon Beneventanum23.

La Tabella 1 fornisce i risultati dello spoglio della prima parte della cro-naca da noi analizzata24:

Tabella 1

La Tabella 1 mostra chiaramente che nella parte di testo della Cronacadi Santa Maria della Ferraria in cui sono narrati gli eventi che vanno dallamorte di Urbano II al 1130, il dimostrativo idem in funzione aggettivalerappresenta di gran lunga il determinante maggiormente adoperato dal-l’anonimo cistercense per marcare come “già noto” il riferimento testualedi un nome.

Risulta inoltre di un certo interesse sottolineare che delle 35 occorrenzedi idem in funzione aggettivale, 12 sono rappresentate dalla costruzioneidem + titolo onorifico (dux, imperator, apostolicus e papa principalmente)

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Elemento Numero di occorrenzeIdem come aggettivo 35Idem come pronome 0Ipse come aggettivo 4Ipse come pronome 2Ille come aggettivo 2Ille come pronome 2Iste come aggettivo 1Iste come pronome 1Hic come aggettivo 0Hic come pronome 3

23 Nel corso di questa ricerca, ed in particolare nel paragrafo 2.1., abbiamo d’al-tronde già avuto modo di sottolineare che proprio l’uso dei dimostrativi rappre-senta uno dei principali aspetti che differenziano il testo dell’anonimo cistercenseda quello di Falcone Beneventano anche quando il dettato della Cronaca di SantaMaria della Ferraria sembra seguire più da vicino quello del Chronicon Beneven-tanum.24 In tutte le tabelle che proporremo in questo paragrafo sono escluse le occorrenzedi is, che, come segnalato in precedenza, nel testo compare frequentemente, sem-pre con la funzione di pronome (tranne quando si trova in locuzioni avverbiali comeeo quod, o nell’espressione eo anno). Nel presente lavoro non tratteremo tuttaviale questioni connesse con l’uso e le funzioni di questo pronome nella Cronaca diSanta Maria della Ferraria.

al nominativo; in 7 casi si tratta invece della sequenza eodem anno. A pro-posito di quest’ultima struttura, ci sembra opportuno sottolineare che ab-biamo ritrovato anche alcune altre locuzioni alternative dotate dello stessosignificato: eo anno (1 occorrenza) e quo anno (2 occorrenze). Si tratta,come si vede, di varianti del tutto marginali, minoritarie rispetto allo sti-lema eodem anno.

L’uso di aggettivi come dictus o prefatus, dotati di un valore compara-bile con quello di idem, risulta infine molto limitato (una sola occorrenza).

Qui di seguito, in Tabella 2, riportiamo i risultati dello spoglio della partedel testo della Cronaca di Santa Maria della Ferraria che include gli eventidegli anni 1199-1220.

Tabella 2

La Tabella 2 conferma in buona sostanza i risultati evidenziati dalla Ta-bella 1: idem in funzione aggettivale rappresenta anche in questa parte deltesto lo strumento preferito dall’anonimo cistercense per marcare come “giànoto” il riferimento testuale di un nome. Anche in questo caso, risulta inte-ressante sottolineare che, delle 41 occorrenze in cui idem accompagna unnome, 11 sono rappresentate dalla struttura idem + titolo onorifico (papa,imperator, abbas e dominus) al nominativo e 20 dalla locuzione eodemanno25.

L’uso di aggettivi come dictus o prefatus, dotati di valori sostanzial-

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Elemento Numero di occorrenzeIdem come aggettivo 38Idem come pronome 2Ipse come aggettivo 4Ipse come pronome 4Ille come aggettivo 2Ille come pronome 6Iste come aggettivo 0Iste come pronome 0Hic come aggettivo 0Hic come pronome 0

25 Come nella prima parte del testo da noi analizzata, anche in questa seconda se-zione si ritrovano le strutture dotate di significato equivalente quo anno e eo anno,che però ricorrono entrambe in una sola occasione.

mente equivalenti a quelli di idem, è molto ridotto, esattamente come nellaprima sezione del testo da noi analizzata, ed è circoscritto a due sole oc-correnze.

Leggermente più frequente in questa parte del testo è invece l’utilizzo diipse ed ille in funzione pronominale. A questo proposito ci sembra però ne-cessario aggiungere alcune informazioni, riguardanti in particolar modo ilcontesto in cui ricorrono cinque dei nove ille ed uno dei quattro ipse. Que-sti sei pronomi si trovano infatti all’interno del racconto della crociata del1204, un intermezzo narrativo chiuso in sé e piuttosto indipendente dal restodella diegesi, che ha probabilmente alle spalle alcune fonti, forse non tuttea noi note26.

In ogni caso, al di là di questo aspetto, ci sembra utile proporre un breveconfronto tra l’uso di idem e quello di ipse in un paio di passaggi del nostrotesto (non inclusi nell’episodio riguardante la quarta crociata):

(30) Mccx. Idem comites introduxerunt ipsum Oddonem imperatorem in regnum(Ferr., 35).

(31) Promisit ei (sc. il re Federico) idem papa quod si principes Alamanie tribuerentei coronam regni Alamanie, ipse quoque, reprobato Oddone, coronaret ipsum inimperatorem (Ferr., 172).

In (30) e (31) sono rappresentate tre delle quattordici occorrenze di ipseche abbiamo ritrovato nelle parti della Cronaca di Santa Maria della Fer-raria da noi analizzate.

Nel primo caso, idem comites riprende gli elementi comes Petrus de Ce-lano e comes Diopuldus, che sono stati appena nominati, mentre ipsum Od-donem imperatorem richiama un personaggio introdotto molte frasi prima.Idem sembra dunque essere preferito per la relazione di coreferenza a rag-gio più breve, senza alcuna frattura di continuità nel reperimento del costi-tuente pieno (tra l’introduzione dei comites Petrus de Celano e Diopulduse l’occorrenza della locuzione idem comites non viene presentato nessunnuovo personaggio), mentre ipse è selezionato come anafora di un nometesta più lontano27.

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26 SCHMEIDLER (1906: 48-50) segnala ad esempio per questa sezione l’uso delle let-tere di Baldovino di Fiandre a Papa Innocenzo III.27 Si noti tuttavia che questa interpretazione, che pure ci sembra plausibile e moltosuggestiva, non è però a nostro avviso l’unica possibile. Possiamo infatti supporreanche che l’uso di ipsum sia legato alla stessa presenza di idem immediatamenteprima. Si tratterebbe di una sorta di variatio, ipotizzabile per la possibile equiva-lenza dei valori di ipse e idem in un contesto come quello evidenziato in (30).

Nel brano presentato in (31), invece, l’anonimo cistercense sembra uti-lizzare i dimostrativi in maniera diversa e, apparentemente, un po’ caotica.

Il passaggio inizia con la solita locuzione idem papa, riferito a Inno-cenzo III (il referente pieno si trova a breve distanza dalla ripresa, e la con-tinuità anaforica non è mai stata spezzata). Il pontefice viene poi ripresodopo poco attraverso il pronome ipse dotato forse di un valore intensivo,sottolineato anche dall’intensificatore quoque. L’altro personaggio princi-pale di questo breve episodio è invece il re Federico; anch’egli è stato in-trodotto con una forma piena poco prima e non viene mai nominato inmaniera diretta nel nostro brano. Viene invece ripreso in due occasioni dalpronome ei, all’interno della reggente e poi della completiva introdotta daquod (in entrambi i casi con la funzione di destinatario dell’azione espressadal verbo), ed in seguito dal pronome ipsum. Varrà forse la pena di soffer-marsi un istante sul valore di quest’ultimo elemento. Il suo uso ingenera in-fatti una certa confusione sul piano sintattico-testuale poiché all’internodella stessa frase i due argomenti del verbo coronaret sono entrambi rap-presentati dal pronome ipse, pur non riferendosi alla stessa entità. Dal puntodi vista stilistico, tuttavia, l’opposizione ipse quoque / ipsum permette al-l’anonimo cistercense di porre, in un momento chiave, i due personaggi, ilPapa Innocenzo III e Federico II sullo stesso piano. Si tratta, ben inteso, diuna questione puramente sintattica e testuale, ma non è da escludere, a no-stro avviso, che a questa scelta stilistica possa essere sottesa una posizione,per così dire, politica.

Infine, prima di chiudere questo lungo paragrafo, desideriamo proporrein Tabella 3 un quadro riassuntivo dell’uso dei dimostrativi nelle due partidella Cronaca di Santa Maria della Ferraria da noi analizzate.

Tabella 3

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Elemento Numero di occorrenze

Idem come aggettivo 76Idem come pronome 2Ipse come aggettivo 8Ipse come pronome 6Ille come aggettivo 3Ille come pronome 11Iste come aggettivo 1Iste come pronome 1Hic come aggettivo 0Hic come pronome 3

Come si vede, le tendenze che avevamo identificato nelle due sezioni se-paratamente sono confermate dal quadro totale. In particolar modo, l’usoreiterato di idem in funzione aggettivale, come strumento di coesione te-stuale e marcatore del carattere “già noto” del riferimento testuale di unnome rappresenta un aspetto peculiare della lingua dell’anonimo cister-cense. Una caratteristica così tipica dello stile del nostro autore che si ritrovain maniera pressoché invariata tanto nelle parti del testo che sono state mu-tuate dal Chronicon Beneventanum, quanto nel resto della cronaca.

3. ConclusioniIn questo studio abbiamo cercato di mettere in luce alcuni aspetti della

sintassi della Cronaca di Santa Maria della Ferraria, di evidenziando inparticolar modo certe peculiarità dello stile dell’anonimo cistercense attra-verso le quali fosse possibile avere un quadro più completo della lingua diquesto testo.

La forte influenza contenutistica esercitata dalle fonti, e segnatamentedal Chronicon Beneventanum di Falcone Beneventano, poteva infatti farpresagire un chiaro influsso del testo di partenza anche sulla lingua dellacronaca. Ci si sarebbe dunque potuti attendere un testo stilisticamentefranto, soggetto all’alternarsi delle diverse influenze delle differenti fonti edello stile proprio del nostro cronista.

L’analisi che abbiamo svolto ha invece mostrato un testo molto coerentenelle scelte sintattiche, tanto che abbiamo potuto evidenziare alcune carat-teristiche proprie dello stile dell’anonimo cistercense indipendenti dal-l’eventuale presenza di una fonte. Riteniamo d’altronde che, per valutarel’influenza di una fonte su un testo secondario, su di una cronaca ad esem-pio, l’analisi sintattica sia molto opportuna, se non fondamentale. Se infattiil lessico risulta molto permeabile alle influenze esterne, come abbiamovisto, la sintassi sembra essere molto meno soggetta agli stimoli esterni, ele abitudini sintattiche e stilistiche di uno scrivente paiono conservarsi me-glio. Anche nei brani che più da vicino seguono il dettato falconiano, al-meno alcuni aspetti peculiari della sintassi dell’anonimo cistercensevengono infatti quasi sempre preservati.

Non si osservano in generale dunque evidenti differenze nella linguadella Cronaca di Santa Maria della Ferraria quando si passa dalle partiche hanno avuto come modello il Chronicon Beneventanum alle sezioni cheinvece non sono state scritte sulla base di questa fonte.

Dal punto di vista strettamente linguistico, infine, abbiamo scelto di in-dagare due aspetti piuttosto peculiari della sintassi dell’anonimo cistercense:l’uso dei participi e dei dimostrativi (ed in particolare di idem).

Se un ricorso intensivo alla subordinazione participiale per la progres-sione narrativa è una caratteristica comune a diversi testi tardo-latini, e rap-

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presenta una tendenza stilistica che si ritrova anche, sia pur in maniera nonidentica, in alcuni testi romanzi delle origini28, l’utilizzo dei dimostrativida parte dell’anonimo cistercense è piuttosto peculiare. L’elemento idem,utilizzato quasi esclusivamente in funzione aggettivale, ed in particolarmodo in alcune locuzioni stereotipiche come eodem anno o nella sequenzaidem + titolo onorifico (papa, imperator, abbas etc…), rappresenta di granlunga lo strumento più utilizzato dal nostro cronista per segnalare il csrsttere“già visto” del riferimento testuale di un nome. Nella Cronaca di SantaMaria della Ferraria, idem costituisce dunque uno strumento chiave perl’avanzamento della narrazione. Gli altri strumenti che garantiscono la coe-sione testuale vengono invece utilizzati in maniera molto minoritaria, anchese, in alcuni casi, in modo piuttosto interessante29.

Al termine di questo lavoro, speriamo dunque di aver aggiunto qualchetassello che possa permettere una migliore e più complessa comprensionedella lingua e delle caratteristiche della Cronaca di Santa Maria della Fer-raria, e, più in generale, di aver messo in evidenza l’utilità delle analisi sin-tattiche e stilistiche per uno studio più completo dei testi mediolatini.

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28 Si veda a questo proposito GRECO (2008).29 Si veda ad esempio quanto abbiamo visto alla fine del paragrafo 2.3. a propositodell’alternanza in certi contesti dell’uso di idem e ipse. Un discorso a parte, chenon è possibile svolgere in questa sede, merita invece da questo punto di vista l’usodel pronome is.

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e feudi nell’Italia dei Normanni, ed. E. D’Angelo, Firenze 1998.Ferr. = Chronica ignoti monachi Cisterciensis S. Mariae de Ferraria et

Ryccardi De Sancto Germano chronica priora, ed. Augusto Gaudenzi, Na-poli 1888.

Bibliografia:BERTOLINI (1923) = O.B., Gli Annales Beneventani, «Bullettino dell’Isti-

tuto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano» 42, pp. 1-99.BONNET (1890) = M.B., Le latin de Grégoire de Tours, Paris (cit. dalla

ristampa di Hildesheim 1968).CAPERNA (2008) = Cronaca Santa Maria della Ferraria, introduzione,

traduzione e note V.C., Cassino.D’ANGELO (1994) = E-D’A., Studi sulla tradizione del testo di Falcone

Beneventano, «Filologia Mediolatina» 1, pp. 129-181. D’ANGELO (2003) = E. D’A., Storiografi e cronologi latini del mezzo-

giorno normanno-svevo, Napoli.GARUFI (1938) = Ryccardi De Sancto Germano Chronica, ed. C.A.G.,

Bologna.GAUDENZI (1888) = Chronica ignoti monachi Cisterciensis S. Mariae de

Ferraria et Ryccardi De Sancto Germano chronica priora, ed. A.G., Napoli. GERVASIO (1939) = E.G., Falcone Beneventano e la sua cronaca, «Bul-

lettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Murato-riano» 54, pp. 1-129.

GRECO (2008) = P.G., Progression through Accumulation in a Late Latinand in a Romance Text, in Latin écrit – Roman oral. De la dichotomisationà la continuité, cur. M. Van Acker – R. Van Deyck – M. Van Uytfanghe,Turnhout, pp. 211-232.

KEHR (1902) = K.A.K., Ergänzungen zu Falco von Benevent, «NeuesArchiv» 27, pp. 445-72.

SCHMEIDLER (1906) = B.S., Ueber die Quellen und die Entstehungszeitder Chronica S. Mariae de Ferraria, «Neues Archiv der Gesellschaft für äl-tere deutsche Geschichtskunde» 31, pp.13-57.

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STOTZ (1998) = P. S., Handbuch zur lateinischen Sprache des Mittelal-ters, vol. IV, Formenlehre, Syntax und Stilistik, München.

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PRODUZIONE LETTERARIA E MANUFATTI LIBRARIDELLO SCRIPTORIUM DI SAN VINCENZO

AL VOLTURNO.NUOVE IPOTESI

EDOARDO D’ANGELO

1. Lo scriptorium vulturnense: status quaestionis quo2. Il cod. Vallicelliano Tomo VIII3. Il cod. Vallicelliano Tomo XI4. Il cod. Vallicelliano Tomo XXI5. Il cod. Vallicelliano Tomo XXII6. Il frammento in beneventana di Roccarainola7. Lo scriptorium vulturnense: status quaestionis posthac8. Cultura e letteratura a San Vincenzo al Volturno (saec. X-XII)9. Appendice: La Passio ss. Nicandri et Marciani (BHL 6072+6072d)

1. Lo scriptorium vulturnense: status quaestionis quo

Sullo scriptorium del monastero di San Vincenzo al Volturno non si pos-seggono molte notizie dirette, e gli studi non sono abbondanti. Le scarsetestimonianze scritte, insieme al materiale epigrafico, lasciano comunquepresumere la presenza di una biblioteca ben fornita e di uno scriptorium,certamente già attivo nell’VIII secolo.

La prima (e ancora molto valida) indagine fu quella di Elias Avery Lowe,che, nel 1914, individuava cinque manoscritti come attribuibili a quelloscriptorium (i codici London, Add. MS 5463; Roma, Vallicelliano D.8; Va-ticano, Barb. lat. 2724; Vaticano, Chigiano D. V. 77; Viennese 68)1; inoltre,in Scriptura Beneventana, egli effettua un piccolo accenno al codice III. 9della Capitolare di Benevento2.

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1 Cfr. E. A. LOWE, The Beneventan Script. A History of the South Italian Minuscule,Oxford 1914, del quale si veda la seconda edizione ampliata, cur. Virginia Brown,Roma 1980, pp. I 75-76.2 E.A. LOWE, Scriptura Beneventana: Facsimiles of South Italian and DalmatianManuscripts from the Sixth to the Fourteenth Century, Oxford 1929, tav. XII.

Negli anni immediatamente successivi, a cavallo della Seconda GuerraMondiale è venuta, per dirla con Duval-Arnould, l’«ère Federici», cioè glistudi di Vincenzo Federici, che studiò lo scriptorium vulturnense all’atto dieffettuare l’edizione della più importante fonte storica sul monastero: ilChronicon Vulturnense, opera del monaco (poi abate?) Giovanni, redattaentro la prima metà del secolo XII3. L’analisi paleografico-codicologica chel’editore effettua del testimone unico, il codice Vaticano Barb. lat. 27244, loconduceva a ritenere che alla realizzazione del manoscritto avessero colla-borato innanzitutto lo stesso autore, il monaco Giovanni appunto, e poi benquattordici amanuensi e non meno di sette calligrafi miniatori5. Tre scribianche per il cosiddetto Frammento Sabatini (vedi infra). Il lavoro di scrit-tura e confezione del grosso manufatto (in quarto, 195x236) deve essereandato avanti per molti anni, certamente da prima del 1115, e forse fino allafine degli anni Trenta del secolo6. Ed è un vero peccato che la cronaca ci siagiunta mutila (mancano la fine del libro V, il VI e il VII): l’autore aveva in-tenzione, su richiesta dell’abate Benedetto, di nominare, nelle ultime cartedel suo volume, i numerosi calligrafi e miniatori che lo avevano aiutato nel-l’estensione della cronaca; ma il fatto che questa sia rimasta incompiuta, ciha privato di una fonte di notizie di estremo rilievo: nos quoque huius la-boris ministros ultimum in calce voluminis subinserere, vobis iubentibus,presumimus.

Lo scriptorium di San Vincenzo doveva pertanto essere piuttosto attivoe dovevano collaborarvi un gran numero di amanuensi, almeno nella primametà del sec. XII. La qualità delle pergamene del Barb. lat. 2724 non è sem-pre eccellente, ma va tenuto conto che si tratta di un codice assai volumi-noso (341 folii), e questo è segno che neanche per un monastero importantecome San Vincenzo doveva essere facile procurarsi tante pagine di perga-mena uniformi per qualità e preparazione7. Federici ritiene di poter distin-

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3 Edizione: Chronicon Vulturnense, ed. V. Federici, Roma 1925-1938 (d’ora inavanti chVult). Il codice, all’inizio, riporta anche un’orazione di Ambrogio Aut-perto, la Oratio contra septem vitia. 4 Oltre all’Introduzione all’edizione stessa, si veda il lavoro preparatorio V. FEDE-RICI, Ricerche per l’edizione critica del «Chronicon Vulturnense» del monaco Gio-vanni, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano ed Archivio Muratoriano» 53, 1939,pp. 147-236, soprattutto pp. 147-182.5 Tale conclusione risulta accettata anche dalla maggior parte degli studiosi chehanno analizzato il codice dal punto di vista delle miniature: cfr, per tutti, A.MUÑOZ, Le miniature del Chronicon Vulturnense (Cod. Barb. lat. 2724), «Bullet-tino dell’Istituto Storico Italiano ed Archivio Muratoriano» 30, 1909, pp. 75-90.6 Cfr. FEDERICI, Ricerche, pp. 151-152.7 Cfr. FEDERICI, Ricerche, p. 148.

guere con precisione grafie e caratteristiche scrittorie dei vari amanuensi(l’autore, estensore in una pura forma libraria del principio del XII sec.; ri-corrono maggiormente a forme cancelleresche i suoi collaboratori), di un«interpolatore» e del «rubricatore», oltre che dei vari miniatori che forni-rono il manufatto dell’importante apparato iconografico che lo caratterizza.Il disordine di uno dei fascicoli può essere spiegato col fatto che i vari fa-scicoli fossero ancora, dopo la morte del cronista, sparpagliati nello scrip-torium del monastero «senza la segnatura che ne indicasse la successione,senza la numerazione delle carte»8. Il lavoro pur accuratissimo di Federicinon è però esente da approssimazioni e pecche, come sottolineato tra glialtri da Alessandro Pratesi9. In particolare, Hartmuth Hoffmann, seguito poida Francis Newton, metteva in dubbio il carattere parzialmente autografodel codice10. Per quanto concerne poi la produzione libraria dello scripto-rium vulturnense, Federici non va oltre i cinque manufatti segnalati già daLowe11.

Alla metà degli anni Ottanta è tornato sul problema Louis Duval-Ar-nould. Questo scriptor della Vaticana effettuava una descrizione puntuale emolto approfondita delle caratteristiche e della storia dei cinque codici se-gnalati come vulturnensi, aggiungendoci un piccolo gruppo composto daquattro «manuscrits douteux»: Vat. lat. 6082; Vat. lat. 9820; Casanatense724/I; Casanatense 724/II12.

Una decina di anni dopo, Flavia De Rubeis ha ripreso la problematica re-lativa al Beneventano III. 9, affacciando inoltre un’ipotesi di origine vul-turnense per il Vat. lat. 781413. Nel 1998, infine, Maria Ida Foglia ha

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8 Cfr. FEDERICI, Ricerche, pp. 167-168.9 Lo leggo in L. DUVAL-ARNOULD, Les manuscrits de San Vincenzo al Volturno, inUna grande abbazia altomedievale nel Molise. San Vincenzo al Volturno, cur. F.Avagliano, Montecassino 1985, pp. 353-378, qui p. 366, che descrive accurata-mente la storia e le problematiche del manoscritto alle pp. 366-371.10 Cfr. H. HOFFMANN, Das Chronicon Vulturnense und die Chronik von Monte-cassino, «Deutsches Archiv» 22, 1966, pp. 179-196, F. NEWTON, BeneventanScribes and Subscriptions, with a List of Those Known at the Present Time, articolodel quale è notizia in «Scriptorium» 33, 1979, pp. 67*-68*; e in DUVAL-ARNOULD,Les manuscrits, p. 368.11 Cfr. V. FEDERICI, Ricerche per l’edizione critica del «Chronicon Vulturnense». LaBiblioteca, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano ed Archivio Muratoriano» 57,1941, pp. 71-103; 61, 1949, pp. 67-123 e pp. 173-180.12 Cfr. DUVAL-ARNOULD, Les manuscrits, pp. 376-378.13 F. DE RUBEIS, La scrittura a San Vincenzo al Volturno fra manoscritti ed epi-grafi, in San Vincenzo al Volturno. Cultura, istituzioni, economia, cur. F. Marazzi,Montecassino 1996, pp. 21-40.

proposto l’inserzione nella produzione libraria vulturnense del codice Val-licelliano Tomo III14.

A tutt’oggi, pertanto, intorno alla produzione libraria vulturnense ven-gono fatti ruotare i seguenti manufatti librari, dei quali il Londinese 5463,il Beneventano III.9, il Vat lat. 7814 sono tre manufatti scampati alla di-struzione dell’abbazia per mano saracena verificatasi nell’881:

1. codice Benevento, B. Capitolare, III. 9, 181 ff., sec. IXin. (primotrentennio?); vergato in una miniscola beneventana (forse da tre mani; i ti-toli sono in capitale rustica), mutilo all’inizio e alla fine, contiene i libri I-V dell’In Apocalypsin di Ambrogio Autperto15; secondo Lowe, si trattarebbedi un apografo dell’originale voluto da Autperto per il proprio commento al-l’Apocalisse. Questo codice presenta analogie (testuali e codicologiche)molto forti con un altro importante testimone del commento autpertiano al-l’Apocalisse, il codice, vergato in Italia centrale, attualmente Oxford, Bo-dleyan Library, Laud. Misc. 464 (767)16. Mallet e Thibaut ascrivono lastesura del codice a una delle dipendenze beneventane di San Vincenzo,molto probabilmente quel monastero di San Pietro fuori le Mura, del qualesembra originario anche il codice attualmente Londinese Add. 546317;

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14 Cfr. M.I. FOGLIA, Un’ipotesi sull’origine vulturnense di un frammento vallicel-liano, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano ed Archivio Muratoriano» 101,1997/1998, pp. 162-182.15 Descrizione in J. MALLET - A. THIBAUT, Les manuscrits en écriture bénéventainede la Bibliothèque Capitulaire de Bénévent, Paris 1984-1997, I pp. 180-181. Cfr.poi F. LO MONACO, Un manoscritto noto-ignoto dell’«In Apocalypsin» di Ambro-gio Autperto, «Revue de Théologie Ancienne et Médiévale» 51, 1984, pp. 246-247; G. VITOLO, Gli studi di Paleografia e Diplomatica nel contesto dellastoriografia sul Mezzogiorno normanno-svevo, in Scrittura e produzione docu-mentaria nel Mezzogiorno longobardo, cur. G. V. – F. Mottola, Cava de’ Tirreni1991, pp. 9-27, qui 19. Anche A. SHAW, I libri dell’abbazia di San Vincenzo al Vol-turno nella loro storia, I, Cerro al volturno (IS) 2009, pp. 18-28.16 Alla stessa famiglia (il cui genitore comune dovrebbe essere identificato nel ma-noscritto autografo di Autperto) sembra appartenere anche il codice Vaticano, Reg.lat. 96, eseguito a Saint-Denis intorno alla metà del IX secolo; cfr. DE RUBEIS, Lascrittura, p. 36.17 Cfr., oltre al già citato punto di LOWE, Scriptura Beneventana, P. SUPINO MAR-TINI, Scrittura e leggibilità in Italia nel secolo IX, in Libri e documenti d’Italia:dai Longobardi alla rinascita delle città, cur. C. Scalon, Udine 1996, pp. 35-60, quip. 38; V. BROWN, Origine et provenance des manuscrits bénéventains conservés àla Bibliothèque Capitulaire, in La Cathèdrale de Bénévent, cur. Th. F. Kelly, Gand– Amsterdam 1999, pp. 164-165 ; G. CAVALLO, Scritture librarie e scritture epi-grafiche fra l’Italia e Bisanzio nell’Alto Medioevo, in Inschrift und Material. In-schrift und Bauschrift, cur. W. Koch – Ch. Steininger, München 1999, pp. 127-136,qui 136; più ampia è in DE RUBEIS, La scrittura, pp. 23-24.

2. codice London, B.L., Add. MS 5463: è il cosiddetto Codex Bene-ventanus, il più antico dei manoscritti attribuiti allo scriptorium vulturnense.Questo evangeliario, databile con precisione nell’arco 739-760, in quantovergato dal monaco Lupo per l’abate Attone, un «libro di lusso», è in on-ciale (le cui caratteristiche di «artificialità» dimostrano relazioni con am-bienti gallici), con aggiunte e correzioni in beneventana18. È stato a lungoin possesso del monastero di San Pietro fuori le mura a Benevento, comedimostra, al f. 76v, il catalogo dei libri posseduti da quel monastero. Essomostra notevoli affinità col codice Benevento III. 9.19;

3. codice Montecassino, Archivio Monumentale, 3: codice miscella-neo, in beneventana. Il tentativo di attribuzione di questo manufatto alloscriptorium vulturnense fu effettuato dalla Avery, seguita da De’ Maffei20.L’ipotesi è attualmente destituita di fondamento21;

4. codice Roma, B. Casanatense, 724/I: pontificale (rituale delle ordi-nazioni) della fine del sec. X. Attribuzione vulturnense, sulla base di ra-gioni di stile illuminatorio, per Myrtilla Avery22. Rotolo scritto per ilvescovo di Benevento, e pertanto molto difficilmente proveniente da unoscriptorium esterno a quella città23;

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18 Le tavole dei canoni sono esempi di fedeltà ai modelli antichi.19 Descrizione particolareggiata in DUVAL-ARNOULD, Les manuscrits, pp. 354-360(che riporta anche le teorie degli studiosi che non attribuiscono il codice a San Vin-cenzo: S. Berger lo voleva di origine parigina); DE RUBEIS, La scrittura, p. 24. Cfr.anche LOEW, II p. 51; MALLET-THIBAUT, Les manuscrits, II p. 44; G. OROFINO, I co-dici decorati dell’Archivio di Montecassino. I. I secc. VIII-X, Roma 1994, pp. 17,27, 32; BROWN, Origine, p. 164; E. CONDELLO, Una scrittura e un territorio. L’on-ciale nei secoli V-VIII nell’Italia meridionale, Spoleto 1995, p. 89. Per la sua ap-partenenza successiva al monastero di San Pietro fuori le Mura a Benevento (e S.MOTTIRONI, La chiesa di S. Pietro di Benevento e la sua biblioteca nel sec. XIII, inMiscellanea di scritti vari in memoria di Alfonso Gallo, Firenze 1956, riteneva ilcodice di origine beneventana), cfr. anche S. MITCHELL, Literacy Displayed: TheUse of Inscriptions at the Monastery of San Vincenzo al Volturno in the Early NinthCentury, in The Use of Literacy in Early Medieval Europe, cur. R. McKitterick,Cambridge, 1990, pp. 168-225, qui 217-218; C. LEPORE, Monasticon Beneventa-num. Insediamenti monastici di regola benedettina in Benevento, «Studi Beneven-tani» 6, 1995, pp. 25-168, qui 49. Anche SHAW, I libri dell’abbazia di San Vincenzoal Volturno, pp. 11-17.20 Cfr. M. AVERY, The Exultet Rolls of South Italy, II, Plates, Princeton-London1936, p. 42; F. DE’ MAFFEI, Le arti a San Vincenzo al Volturno: il ciclo della criptadi Epifanio, in Una grande abbazia, pp. 269-352, qui 331-351.21 Cfr. OROFINO, I codici decorati, pp. 41-47. DE RUBEIS, La scrittura, p. 37.22 Cfr. AVERY, The Exultet Rolls, p. 27. Cfr. anche LOWE, The Beneventan Script,pp. 68, 358.23 Cfr. DUVAL-ARNOULD, Les manuscrits, p. 378. All’area Benevento/Montecassino

5. codice Roma, B. Casanatense, 724/II: benedizionale (benedizionedell’acqua del Sabato santo) della fine del sec. X. Attribuzione vulturnense,sulla base di ragioni di stile illuminatorio, per Myrtilla Avery24. Probabil-mente vergato per il vescovo di Benevento, come sembra suggerire una notadel XII sec. che lo mette in relazione con l’arcivescovo Landolfo: il rotolo,pertanto, è da ritenersi molto difficilmente proveniente da uno scriptoriumesterno a quella città25;

6. codice Roma, B. Vallicelliana, Tomo III: passionario composito diquattro frammenti: il primo del sec. XI (beneventana), il secondo (bene-ventana) e il terzo del XII (minuscola di transizione), l’ultimo del XIII (go-tica). Gli originari ff. 4-5 sono attualmente inseriti nel Vallicelliano TomoXI (ff. 1-2). L’attribuzione di questo volume alllo scriptorium vulturnenseè effettuato da Maria Ida Foglia, oltre che su base paleografico-codicolo-gica, soprattutto sull’esame del santorale contenutovi: sette narrazioni sonolegate all’area beneventana; ma soprattutto esso, oltre al Sermo de sanctoMathia apostolo, comunemente attribuito a Ambrogio Autperto26, contienealcuni brani in onore di santo Stefano, come è noto uno dei dedicatari, in-sieme a Vincenzo e Lorenzo, del monastero vulturnense, e più specificata-mente ancora alcuni testi consacrati alla festività di san Vincenzo: lapassione numerata BHL 863927, un sermone In natale sancti Vincentii com-posto da Agostino, un sermone probabilmente redatto da un ignoto autoreafricano tra il V e il VI secolo, e due sermoni (che la Foglia pubblica per laprima volta) scritti per una comunità che possiede delle reliquie del martirespagnolo28.

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il rotolo è assegnato anche da B. BRENK, Roma, Biblioteca Casanatense, Cas. 724(B I 13) 1, Pontificale, in Exultet. Rotoli liturgici del Medioevo meridionale, cur.G. Cavallo - G. Orofino - O. Pecere, Roma 1994, pp. 75-77.24 Cfr. AVERY, The Exultet Rolls, pp. 27-28. 25 Cfr. DUVAL-ARNOULD, Les manuscrits, p. 378. All’area Benevento/Montecas-sino il rotolo è assegnato anche da B. BRENK, Roma, Biblioteca Casanatense, Cas.724 (B I 13) 1, pp. 87-90.26 Cfr. J. WINANDY, L’oeuvre littéraire d’Ambroise Autpert, «Revue Bénédictine»60, 1950, pp. 93-119, qui 108-118.27 Per cui si veda V. SAXER, Une version romaine de la Passion de S. Vincent? Deuxnotes sur BHL 8639, in V. S., Saint Vincent, diacre et martyr, Bruxelles 2002, pp.241-256.28 «... felicesque nos credimus esse qui tanti meruimus martyris habere cadaber ...ut aspicitis, beati martyris auri gemmarum copia corpus tegunt»: FOGLIA, Un’ipo-tesi, p. 171.

Alle osservazioni della Foglia è possibile aggiungere qualche ulterioreriflessione. In particolare, è utile porre l’accento, all’interno del santoralepresentato dal codice, di due testi, uno dedicato a Maria (BHL 5335), e unodedicato a Benedetto (BHL 1102): entrambi questi santi, infatti, sono tito-lari di luoghi di culto ufficiali all’interno del cenobio vulturnense (chiesa diS. Maria e, all’interno di questa, l’altare dedicato a san Benedetto);

7. codice Roma, B. Vallicelliana, D. 8: della fine del sec. XII, in bene-ventana, è una Bibbia, incompleta e mutila. È una nota posta sul f. 101vche lo collega al chiostro campano: un certo Donatus Antonius Dominici,arciprete della chiesa di Santo Stefano di Castiglione (villaggio nelle vici-nanze e nelle dipendenze dell’abbazia), dà notizia di una eccezionale nevi-cata, verificatasi «anno Domini MCCCCLXXX ... in quo tempore regnabatFerdinandus rex feliciter et Karolus prothonotarius et Ursinus perpetuuscommendatarius monasterii Sancti Vincentii...»29. Si tratta di un volumemolto letto (come dimostrano le numerosissime correzioni al testo, e note,che lo caratterizzano), ed è un’ottima testimonianza della lectio divina aSan Vincenzo soprattutto nei secoli XII-XIV (cui appartengono la maggiorparte delle note e correzioni)30;

8. codice Città del Vaticano, BAV, Barb. lat. 2724, prima metà del sec.XII: Chronicon Vulturnense del monaco, poi abate di San Vincenzo, Gio-vanni: cfr. supra;

9. Frammento Sabatini: frammento di un bifolio, lacunoso, successi-vamente utilizzato per legatura. Scrittura minuscola beneventana di tipocassinese, su due colonne. Cavallo dei sec. X e XI: precedente redazione delChronicon Vulturnense (?). Forse su commissione dell’abate Giovanni IV(998-1007), o Ilario (1011-1045)31.

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29 Descrizione particolareggiata in DUVAL-ARNOULD, Les manuscrits, pp. 371-376.Si veda anche, ma si tratta di un lavoro non acuratissimo sotto il profilo dell’ana-lisi della fascicolazione, S. MOTTIRONI, La Bibbia di S. Vincenzo al Volturno (Roma,Bibl. Vallicelliana, ms. D.8), in «Bullettino dell’Archivio Paleografico Italiano» 8,1949, pp. 45-57; Censimento dei codici dei secoli X-XII, «Studi Medievali» 11,1970, pp. 1075-1101, qui 1054-1055. Vincenzo Federici, in alcune pagine premesseal lavoro di Mottironi, dubitava - per la verità sulla base di considerazioni fragili-dell’origine vulturnense del manufatto).30 V. BROWN, Contenuti, funzione e origine della “Bibbia di San Vincenzo al Vol-turno” (Roma, Biblioteca Vallicelliana, D 8), «Nuovi Annali della Scuola Specialeper Archivisti e Bibliotecari» 18, 2004, pp. 37-60.31 Gli studi intorno al Frammento Sabatini, peraltro scomparso e poi riapparso nelcorso del tempo, sono numerosi e contraddittori, soprattutto relativamente alla da-tazione ed al suo rapporto col Chronicon Vulturnense. Finalmente però si può farriferimento all’eccellente volume Il Frammento Sabatini. Un documento per la

10. codice Città del Vaticano, BAV, Chigiano D. V. 77, della fine delsec. XI, è un breviario in beneventana (contiene due uffici liturgici distinti:un ufficio di preghiere, noto come Flores psalmorum, delle litanie e dellepreghiere diverse, e un Ordo missae, composto di litanie e preghiere varie).La provenienza vulturnense emerge dalla prima litania a f. 46r, dove i nomidi san Benedetto e san Vincenzo sono gli unici fatti oggetto di una specialedecorazione in rosso; f. 66r contiene un’invocazione al Signore «pro fa-mulo tuo abate nostro il (lo) et cuncta congregatione sancti Vincentii mar-tyris tui». Questo manoscritto è il solo testimone che ci resta della vita dipreghiera dei monaci di San Vincenzo32.

11. codice Città del Vaticano, BAV, Vat. lat. 6082: messale della se-conda metà del sec. XII, in beneventana. Contiene i versus ad repetendumper gli introiti, i communio per le domeniche e le feste dei santi, così comesi trovano nel Cassinese 546 (e si vedano anche i due codici Lanciano, Gi-relli 1632-38 e il cosiddetto Graduale di Penne)33. Ne pare ormai definiti-vemente accertata l’origine cassinese34;

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storia di San Vincenzo al Volturno, cur. G. Braga, Roma 2003, che oltre a presen-tare un’edizione critica ed anastatica del Frammento, a presentare una nuova ipo-tesi di collocazione cronologica che retrodata di circa un secolo le precedenti diFederici e Hoffmann, rappresenta un’eccellente status quaestionis, anche storio-grafico, sull’argomento.32 Cfr. DUVAL-ARNOULD, Les manuscrits, pp. 362-365. LOEW, The BeneventanScript, II p. 165; P. SALMON, Les manuscrits liturgiques de la Bibliohèque Vati-caine, I, Città del Vaticano 1968, p. 131; II, Città del Vaticano 1969, p. 121. P. SAL-MON, Livrets de prières de l’époque carolingienne, «Revue Bénédictine» 86, 1976,pp. 218-234, qui 232. MALLET – THIBAUT, Les manuscrits, II-III p. 44 lo ritengonooriginario del monastero di Santa Sofia a Benevento. MITCHELL, Literacy Dis-played, p. 214; V. ORTENBERG, The English Church and the Continent in the Tenthand Eleventh Centuries. Cultural, Spiritual and Artistic Exchange, Oxford 1992,p. 122; DE RUBEIS, La scrittura, p. 37; BAROFFIO, Iter liturgicum Italicum, Padova1999, p. 270; J.M. PIERCE, The Evolution of the Ordo missae in the Early MiddleAges, in Medieval Liturgy. A Book of Essays, cur. L. Larson Miller, New York-Lon-don 1997, pp. 3-24, qui 8; J. GERCHOW, Stationen: Utrecht, York und Montecassino.Evangeliar aus San Vincenzo al Volturno, in Das Jahrthausand der Mönche. Klo-ster, Welt, Werden, 799-1803, Essen 1999, pp. 532-540, qui 539.33 Secondo PIERCE, The Evolution, p. 8, l’ordo missae contenuto in questo codicenon è più antico di quello citato come Volturno 1 (sec. XI), tramandato dal mano-scritto Chigiano D. V. 77; cfr. anche DE RUBEIS, La scrittura, p. 25. 34 Cfr. DE RUBEIS, La scrittura, p. 26, e le osservazioni dedicate a questo codice nelsuo contributo in questo volume. Poi anche L. DUVAL-ARNOULD, Un missel duMont-Cassin chez les chanoines du Saint-Saveur de Bologne (Vat. lat. 6082), «Ri-vista di Storia della Chiesa in Italia» 35, 1981, pp. 450-455; MALLET – THIBAUT, Les

12. codice Città del Vaticano, BAV, Vat. lat. 7814, della prima metà delsec. IX, beneventana, in parte di mano dello scriba Stefano (c. 42r), contienei Dialogi di Gregorio Magno. Secondo Flavia de Rubeis, le analogie colcodice Beneventano III. 9 e con le scritte della cripta di Epifanio, insiemealla presenza di lettere capitali raddoppiate, fanno propendere per un’originevulturnense35;

13. codice Città del Vaticano, BAV, Vat. lat. 9820: rotolo liturgico(Exultet) della fine del sec. X. Attribuzione vulturnense, sulla base di ragionidi stile illuminatorio, per Myrtilla Avery36. Il codice viene offerto, tra il 981e il 987 da un certo Iohannes presbyter et prepositus alle monache di SanPietro fuori le Mura di Benevento, monastero che dipendeva dall’abbaziadi San Vincenzo; ora, si conosce (da un atto del 988) un Iohannes di SanVincenzo, che porta la titolatura di presbyter et prepositus, ma non se ne co-nosce il luogo di prepositura: restano dunque perfettamente equivalenti leprobabilità che Vat. lat 9820 sia stato realizzato a Benevento oppure a SanVincenzo37;

14. codice Wien, OeNB, 68, della fine del sec. X, un miscellaneo a con-tenuto medico, mutilo all’inizio (per la mancanza dei libri I-III dei Thera-peutica di Galieno)38; a f. 1r, il margine superiore reca una nota, in cui un

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manuscrits, II–III p. 352; V. BROWN, Early Evidence for Beneventan Missal: Pa-limpsest Texts (saec. X/XI) in Montecassino 271, «Medieval Studies» 60, 1998, pp.239-306, qui 260-261; BAROFFIO, Iter, p. 282, e M.-N. COLETTE, La table du gra-duel palimpseste de Turin (Xe siècle). De l’organisation des messes du commundans les liturgies latines, «Revue Mabillon» 10, 1999, pp. 37-66, qui 45 e 54; F.NEWTON, The Scriptorium and Library at Montecassino, 1058-1105, Cambridge1999, pp. 176-177.35 Cfr. DE RUBEIS, La scrittura, pp. 27-28; G. CAVALLO, Libri e cultura nelle due Ita-lie longobarde, in Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa diCarlo Magno, cur. C. Bertelli – G.P. Brogiolo, Milano 2000, pp. 85-103, qui 100;V. PACE, La decorazione dei manoscritti predesideriani nei fondi della BibliotecaVaticana, in Scrittura e produzione, pp. 398-430, qui 407-410. Anche SHAW, I libridell’abbazia di San Vincenzo al Volturno, pp. 29-37.36 Cfr. AVERY, The Exultet Rolls, pp. 31-34.37 Cfr. DUVAL-ARNOULD, Les manuscrits, pp. 377-378. Si schiera per un’originepresso la cattedrale di Benevento anche V. PACE, Città del Vaticano, BibliotecaApostolica Vaticana, Vat. lat. 9820, Exultet, in Exultet. Rotoli liturgici del Medioevomeridionale, pp. 101-106.38 Contiene l’Euporiston, di Teodoro Prisciano e il De morbis acutis di Celio Au-reliano. Cfr. DUVAL-ARNOULD, Les manuscrits, pp. 360-362. LOEW, The Beneven-tan Script, II p. 171; Secondo A. CUNA, Per una bibliografia della Scuola MedicaSalernitana (sec. XI-XIII), Napoli 1993, p. 182, il manoscritto, per alcune caratte-ristiche grafiche rispetto al canone della beneventana tipicamente cassinese, si fa

Orso, clericus et medicus dedica il volume: «Ego Ursus offero hunc lirum(sic) in ecclesie Sancti Vincen(tii)...»39. In base alla struttura paleografica diquesta dedica (certamente di una mano del X sec.), e delle possibilità diidentificazione di Ursus, Duval-Arnould rigettava l’ipotesi di Federici, ri-presa poi da Guglielmo Cavallo, che il codice sia stato prodotto fisicamentenell’atelier di San Vincenzo40; egli abbraccia viceversa la teoria di FabioTroncarelli, che vede in questo Viennese un prodotto di area salernitana,molto vicino dunque al milieu scientifico della incipiente Scuola Medica Sa-lernitana41.

Tale status critico può essere sinotticamente rappresentato nelle due ta-belle che seguono relative, rispettivamente, alla produzione editoriale vul-turnense, “interna” ed “esterna” (volumi e contenuti):

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situare in area campana, più aperta alle novità grafiche d’influsso carolino; DE RU-BEIS, La scrittura, p. 37.39 Su questo manoscritto la bibliografia è assai ampia. Per citare qualche contri-buto più recente: OROFINO, I codici decorati, pp. 29, 30, 37, etc.40 Cfr. V. FEDERICI, Notizie sul donatore del ms. Viennese 68 alla chiesa di San Vin-cenzo al Volturno, «Bollettino dell’Archivio Paleografico Italiano» 8, 1949, pp.39-43; G. CAVALLO, La trasmissione dei testi nell’area beneventano-cassinese, inLa cultura antica nell’Occidente latino dal VII all’XI secolo, Spoleto 1975, pp.357-414, qui 400.41 Cfr. F. TRONCARELLI, Nuove testimonianze di scrittura beneventana a Salerno,

Tale quadro può risultare integrato nell’eventualità di accettazione delleseguenti ipotesi.

Il cod. Vallicelliano Tomo VIII In uno stato cattivo di conservazione ci rimane alla Biblioteca Vallicel-

liana di Roma, alla segnatura Tomo VIII, un importante passionario agio-grafico, vergato tra XI e XII secolo42. Si tratta di un volume pergamenaceo,di 195 fogli, dimensioni 430x290, vergato in una bella beneventana dispo-sta su due colonne, con lettere iniziali spesso ornate. L’umidità ha attaccatoi primi fogli, corrompendoli e rendendone ardua in più punti la lettura.

Del codice è impossibile una ricostruzione precisa della fascicolazione,anche a causa della caduta di numerose carte. Alcune sono andate perduteall’inizio del volume: il primo testo che si incontra è una Passione, mutila,di san Giorgio; i fogli iniziali sono peraltro in disordine numerico43. L’ul-timo testo è una, mutila all’inizio, trascrizione della vita di san Leonardo diNoblat (BHL 4862)44.

Anche la struttura del santorale (soprattutto nella parte finale del vo-lume) appare irregolare, rispetto al decorso normale del circulum anni. Lasequenza, che si apre nel mezzo del testo su Giorgio (dies natalis: 23 aprile),continua più o meno regolarmente fino alla Vita di Pietro Alessandrino(BHL 6692), terz’ultimo testo, che si colloca al 25 novembre. Subito dopoquesto, però, segue una Passio s. Christophori (BHL 1778d), che celebra ilmartire di Licia onorato il 25 luglio; e immediatamente dopo, ma sono quicaduti alcuni fogli, si presenta un testo relativo al 6 novembre (Vita s. Leo-nardi, BHL 4862).

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«Studi Medievali» 18, 1977, pp. 383-390, qui 387. A. CUNA, Per una bibliografiadella Scuola Medica Salernitana.42 Descrizione: A. PONCELET, Catalogus codicum hagiographicorum Latinorum bi-bliothecarum Romanarum, Bruxellis 1909, p. 329; A.M. GIORGETTI-H.S. MOTTI-RONI, Catalogo dei manoscritti della biblioteca Vallicelliana, Roma 1961, pp.145-151. Si veda anche N. VERRANDO, «Passio sanctorum Xysti, Laurentii et Yp-politi». La trasmissione manoscritta delle varie recensioni della cosiddetta PassioVetus, «Recherches Augustiniennes» 25, 1991, pp. 181-221.43 Passio sancti Georgii (BHL 3393), ed.: Pietro Napoletano Suddiacono. L’operaagiografica, ed. E. D’ANGELO, Firenze 2002, pp. 75-94 (Pietro Suddiacono è unodei più autorevoli esponenti della cosiddetta Scuola Agiografica Napoletana, fio-rita tra IX e X secolo). Segna la paragrafazione di questa edizione.44 Incipit: «… dicens: Edicto mihi patrone beatissime quo etiam appellaris nomine».

Ora, tali anomalie consentono di accertare legami assai stretti del TomoVIII con un altro codice oggi alla Vallicelliana, quello segnato Tomo XI. Lapassione di Giorgio di Cappadocia45 (ff. 1r-6v), mutila anche alla fine (chiu-dendosi sulle parole II 147 o magnus), è senza prologo e mutila dell’attaccodel testo (inizia col paragrafo con II 15 ... dicente apostolo; per la confusionedella disposizione dei fogli, Poncelet aveva pensato che la narrazione ini-ziasse a II 58)46. Tale situazione mi induce a ritenere che uno dei fogli man-canti sia attualmente impaginato nel Tomo XI. Il f. 12r di questo codice,infatti, è occupato da un frammento della passione di Giorgio BHL 3393,che riprende il testo esattamente dalle parole su cui esso è interrotto nelTomo VIII (par. II 147: … o magnus // amice Dei (e va avanti sino alla finedel testo). Sul verso di quello stesso foglio, comincia il prologo di una pas-sione dell’evangelista Marco, opera di Isidoro di Siviglia (BHL 5275b)47,del quale sono riportate le seguenti parole: Marcus evangelista secundus,Petri discipulus eiusque in baptismate filius. Nel Tomo VIII, al f. 7r, co-mincia, mutilo dell’inizio, tale prologo. Visivamente, dunque, la ricostru-zione fascicolare dei folia originarii del tomo VIII è la seguente:

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45 E mutilo è in fine il testo che la precede (ff. 187v-190v): Passio sancti Christi-phori, BHL 1778d, edita in D’ANGELO, Petrus Subdiaconus, pp. 200-207. È l’unicaattestazione conosciuta di questa passione.46 Cfr. PONCELET, Catalogus, pp. 332-333.47 Isid. Hisp. De ortu et obitu patrum, cap. 83 (ed.: PL, LXXXIII, col. 154). Esso èpresente anche nel manoscritto Vaticano, BAV, Santa Maria Maggiore 1, ff. 210r-212r.

È difficile stabilire quando tale passaggio del foglio dal Tomo VIII al-l’XI si sia verificato. Logica vorrebbe prima (o al momento) della rilegaturadel Tomo XI48. Ma in realtà il grande disordine in cui versano i fogli di en-trambi i codici autorizza a pensare che tale situazione di confusione possaessere cronologicamente “alta”. Del resto, che il Tomo XI sia, almeno inparte, costituito da carte che appartenevano ad altri libri è testimoniato dalfatto che i suoi ff. 1-2 appartenevano al Vallicelliano Tomo III, del quale co-stituivano le cc. 4-5, come dimostrato da Maria Ida Foglia49.

Poco si sa sull’origine del Tomo VIII. Secondo Lowe, esso proviene daMontecassino50. Stefano Mottironi, nel catalogo dei manoscritti della Val-licelliana, avanzava l’idea per cui esso, proveniente senz’altro da uno scrit-torio dell’Italia meridionale, potesse essere ascritto alla produzione di SanVincenzo al Volturno, sulla base di due probationes pinnae in minuscoladel XIV secolo, presenti rispettivamente a f. 139r: «ego domnus IohannesBerardi de Castellone testis rogatus interfui et me subscripsi», e a f. 194v:«ego frater Nicolaus de Castellone ad fidem manu propria me subscripsi»:esse rimandano alla località di Castiglione, sita presso l’abbazia di San Vin-cenzo e un tempo ad essa soggetta (se ne parla, ad es., in chVult II 35,14)51.

Quest’ipotesi di Mottironi non è stata in seguito ripresa. È possibile peròsostanziarla con argomentazioni di natura contenutistica, che conducono adascrivere il manoscritto alla produzione libraria (e forse anche letteraria)del chiostro vulturnense. Il codice contiene in tutto 43 pièces agiografiche.Esse possono essere distinte secondo le seguenti macrotipologie agiografi-che:

Martiri: Abdon e Sennes BHL 6 e 6684, Apollinare BHL 623, CeciliaBHL 1495, Cipriano BHL 2038, Claudio, Nicostrato et socii BHL 1837,Clemente BHL 1848 e 1855, Cosma e Damiano BHL 1970, Cristoforo BHL1778d, Donato BHL 2290, Donato, Felice et socii BHL 2297, Erasmo BHL2582, Eustasio BHL 2761, Faustino et socii BHL 7790, Felicita e figli, Gal-

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48 Che il trasferimento possa essere fino ad oggi sfuggito agli occhi di studiosi ancheattenti come Poncelet, Giorgetti e Mottironi, può giustificarsi col fatto che le di-mensioni dei due leggendari sono praticamente uguali: mm 430 x 290 per il TomoVIII, 410 x 310 per il Tomo XI.49 FOGLIA, Un’ipotesi. Per una descrizione del Tomo XI si veda anche E.B. GARRI-SON, Contribution to the History of the Twelfth-Century Umbro-Roman Painting.II. Materials, VII, in Studies, IV, London 1993, pp. 117-198, qui 153; VERRANDO,«Passio sanctorum Xysti, Laurentii et Yppoliti», pp. 192-194, 204-206, 219-220. 50 Cfr. LOWE, The Beneventan Script, I p. 32.51 Cfr. GIORGETTI - MOTTIRONI, Catalogo, p. 145. È lo stesso nome abbiamo vistocaratterizzare il f. 101r del Vallicelliano D. 8. In chVult I 15,28, in un documentodel 1070, si incontra un Berardo filius quondam Iohanni di Pietrabbondante.

licano, Giovanni e Paolo BHL 3236, Gennaro, Festo et socii BHL 4115,4116, Gervasio e Protasio BHL 3514, Giorgio BHL 3393, Lorenzo BHL4753, Maccabei BHL 5106, Nicandro e Marciano BHL 6072, Nazario eCelso BHL 6041, Pietro Alessandrino BHL 6692, Sisto BHL 7809, VitoBHL 8712.

Apostoli ed evangelisti: Barnaba BHL 983, Bartolomeo BHL 1002,1003, Filippo BHL 6817, Giacomo BHL 409552, Luca BHL 4973, MarcoBHL 5726, Matteo BHL 5690, Pietro e Paolo BHL 6661, 6657, 6659, Si-mone e Giuda BHL 7750, 7751.

Confessori: Germano BHL 3465, Leonardo BHL 4862, Martino di ToursBHL 5610 e 5613, Onofrio BHL 6334a.

Angeli: Inventio s. Michaelis archangeli BHL 5948.Reliquie: Santa Croce: (Exaltatio) BHL 4178 e (Inventio) BHL 4169.

Il leggendario, dunque, si atteggia fondamentalmente come un passio-nario: vi prevalgono i racconti relativi a martiri, soprattutto del periodo tar-doantico, e spesso di provenienza orientale. Secondo Edward Garrison, ilcodice rappresenta una delle fonti d’Italia meridionale in cui ricorre la ci-tazione di sant’Eustachio, venerato particolarmente in area umbro-romana,e, dal punto di vista della struttura agiologica, sembra avere vicinanze conil Vat. lat. 5736 e con il Vallicelliano Tomo IX53.

Più utili per risultano però, per l’analisi del santorale, le narrazioni diarea geografica italomeridionale. Innanzitutto, la trascrizione della Passiosanctorum Nicandri et Marciani, nella redazione preceduta da un prologo,numerato attualmente BHL 6072d. Questi due santi infatti, insieme ai lorocompagni, furono martirizzati ad Atina e a Venafro (dies natalis: 17 giu-gno). Siamo cioè in una zona geopoliticamente vicina a San Vincenzo54.Allo stesso modo, risultano “contigui” al chiostro vulturnense i testi chemostrano connessioni con Capua e con Benevento: la Vita et obitus sanctiGermani (BHL 3465. san Germano fu vescovo di Capua); la Passio san-ctorum Ianuarii, Festi et Desiderii (BHL 4115, 4116. Gennaro è contesotra Pozzuoli-Napoli e Benevento); la Passio sanctorum Donati et Felicisac fratrum eorum (BHL 2297. sono i santi Dodici Fratelli, beneventani); e

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52 N. VERRANDO, Frammenti e testi agiografici isolati in manoscritti italiani, «Ha-giographica» 6, 1999, pp. 257-307, qui 271: rileva come la presenza di questo testorelativo a Iacobus sia attestata anche nei codici Vallicelliano Tomo III, S. PietroVat. A 3 e Par. lat. 6583.53 Cfr. E.B. GARRISON, Additional Pre-Revival Umbro-Roman Manuscripts, in Stud-ies in the History of Medieval Painting. III, London 1993, pp. 105-111, qui 108.54 A. GALDI, Santi, territori, poteri e uomini nella Campania medievale, Salerno2004, pp. 148-149.

la Passio sancti Bartholomei (BHL 1002, 1003, Acta Vaticana + Transla-tio a Benevento, di cui il santo è patrono). Ad area “beneventana” appartieneanche la Apparitio Michaelis archangeli nella redazione BHL 5948 (l’ar-cangelo fece la sua apparizione sul monte Gargano, dando vita a un impor-tantissimo luogo di culto e pellegrinaggio micaelico). Alla zona tra altaCampania e basso Lazio fa riferimento anche la leggenda di sant’Erasmoche, martire orientale, fu miracolosamente trasportato da un angelo sullecoste italiane (Formia/Gaeta)55. Anche il testo su Barbara (BHL 915) è co-mune in area sublacense e beneventana.

Altri due testi di natura omiletica tendono a restringere l’origine delTomo VIII nella zona cassinese-vulturnense. I due sermoni sugli evangeli-sti Matteo (BHL 5690) e Luca (BHL 4973), infatti, hanno una particolarestoria attributiva. Tramandati in numerosissimi manoscritti, non trovano, inquesti, unanimità di authorship: in diversi risultano adespoti; in alcuni, sonoattribuiti all’abate di Montecassino (848-884) Bertario: per Matteo, Vat. lat.7810 (sec. XI.), Cassinese 110 (XI sec.) e Vallicelliano Tomo XX (XIIIsec.); per Luca, il Tomo VIII, appunto, poi i due Vallicelliani Tomo XI (XI-XII sec.) e G. 93 (XVI-XVII sec.). Ma il sermone su Mattia viene attribuito,come è noto, da Pietro Diacono di Montecassino ad Ambrogio Autperto56:e sebbene il biografo e storico cassinese non goda di fama buona in quantoraccoglitore di notizie, l’attribuzione delle due pièces omiletiche all’abatevulturnese è stata ripresa e rinforzata da un autorevole studioso dell’operaautpertiana, il Winandy57. Assai rilevante, per l’ipotesi di un’origine vul-turnese, è anche la presenza, ai ff. 92v-96v, del sermone sull’Assunzione diMaria: sermo venerabilis Auperti monachi58. Di un certo peso nello stessosenso è infine la presenza di un’opera di Beda (il sermone In festivitate om-nium sanctorum, presente anche nel Tomo XXI): è noto infatti il collega-mento tra la zona altocampana-bassolaziale con l’Inghilterra59.

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55 Cfr per tutti V. VON FALKENHAUSEN, S. Erasmo a Bisanzio, «Formianum» 3,1995,pp. 79-92.56 Petri Casinensis diaconi De viris illustribus Casinensis coenobii, ed. PL,CLXXIII, coll. 1009-1072, in particolare 1022-1023.57 Cfr. per tutta la questione: J. WINANDY, L’oeuvre littéraire d’Ambroise Autpert,pp. 94-96 e 108-111.58 Cfr. Ambrosii Autperti opera, pars III, ed. R. Weber, Turnholti 1979, p. 886. Comeè noto quest’omelia non è tramandata da tutti i suoi testimoni come opera dell’abatedi San Vincenzo. Tra i manoscritti di origine italiana che lo fanno, vanno ricordatidue Cassinesi (194 e 462) e il Benevento, B. Capitolare, 4.59 Del sermone bediano, il Tomo VIII è uno dei 51 testimoni, così come i Tomi IX,XV e XXI della stessa Vallicelliana; cfr. ORTENBERG, The English Church, p. 122.Il Chigiano V. D. 77 include nella litania il nome di Beda, confermando i rapportitra la zona vulturnense e le isole britanniche.

Ma ciò che maggiormente sembra orientare verso una paternità vultur-nense del Tomo VIII è il rilievo che molti dei santi in esso dedicatari di testirisultano titolari di luoghi di culto in San Vincenzo o nelle sue dipendenze:

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● Apollinaris: chiesa (chVult I 85,12); cella e chiesa in

Boiano (chVult III 92,16, II 358,4)

● Bartholomeus: cella (chVult III 19,9); chiesa in Serra

Mala (chVult III 35,18)

● Christophorus: cella (chVult III 92,12)

● Cosma et Damianus: cella (chVult III 94,11)

● Donatus: chiesa nel territorio di Friselone(chVult I 167)

● Laurentius: cointestatario del monastero

● Marcianus: chiesa nel territorio di Sora(chVult I 16,9 e I 171,18)

● Marcus: chiesa di S. Marco de Petra Cuti-lia (chVult II 131,10) e S. Marcoin Gorgiano (chVult I 229,10)

● Martinus: monastero di san Martino del Montemassico

● Michaelis archangelus: chiesa del monastero (chVult I 287,16)

● Nazarius: chiesa (chVult II 215,5)

● Nicander: chiesa (chVult II 299,6)

● Omnium Sanctorum: cella (chVult III 93,5)

● Paulus: chiesa (chVult I 240,26 e I256,19)

● Sancta Cruxcella del monastero di San Mar-tino del Montemassico (chVult I

284,7, I, 355,3 etc.)

Il cod. Vallicelliano Tomo XISi tratta di un manoscritto composito da almeno cinque unità codicolo-

giche: la prima, costituita dai primi due fogli (frammenti di una passione diAndrea, BHL 429, e di una di Barbara, BHL 915), e la seconda (ff. 3-111),in beneventana del sec. XI60, sono quelle agiograficamente rilevanti. Ab-biamo già sottolineato come il Tomo XI evidenzi rilevanti connessioni colTomo VIII.

Oltre allo scambio di folia, altro elemento comune sono le evidenti in-frazioni all’ordine del circulum anni. Il Tomo XI si apre correttamente al 30novembre, con una passione di sant’Andrea (BHL 429)61, cui segue il testoBHL 915 su santa Barbara (ff. 1r-2v): 4 (o 16) dicembre, mutila per la ca-duta di fogli. Caduta di fogli che rende però comunque inspiegabile la pre-senza, ai f. 3r-5v, di una narrazione, mutila all’inizio, sui santi Nazario eCelso (BHL 6041), venerati il 20 luglio. A questa fanno seguito due altritesti cronologicamente ordinati: una Passione dei Maccabei (BHL 5106) euna di papa Stefano (BHL 7845), rispettivamente collocate al 1 e al 2 ago-sto. Il testo su Stefano occupa i ff. 8v-11v: dunque, subito dopo è da intra-vedere un altro iato nell’impaginazione del codice, dal momento che il f. 12è quello che abbiamo visto essere stato “importato” dal Tomo VIII (consanti della fine di aprile)62. Dopo il f. 12, dove risultano evidenti un’ulteriorecaduta di fogli e un’ulteriore confusione nell’ordine cronologico, seguonouna serie di Passioni: di san Pancrazio (BHL 6420 o 6421)63, mutila al-l’inizio, ai ff. 13r-14r: 12 maggio; di Gordiano ed Epimaco (BHL 3612): 10maggio; poi, ff. 16v-20v, ancora una da collocarsi al 12 maggio, la Passionedi Nereo e Achilleo (BHL 6058, 6059), senza prologo. A questo punto, il co-dice prende una successione di date regolare, fino alla sua conclusione: par-tendo (f. 23r) da una Passione di Sisto e soci (BHL 7809), che si colloca al6 agosto, si arriva fino al 28 ottobre del testo BHL 7749 sugli apostoli Si-mone e Giuda. La diacronia agiografica attuale del manoscritto è dunquequella della colonna di sinistra (la linea separativa indica la caduta certa di

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60 Cfr. GIORGETTI - MOTTIRONI, Catalogo, pp. 179-184. PONCELET, Catalogus, pp.344-346, datava il codice compattamente al sec. XII. Cfr. anche LOWE, The Bene-ventan Script, p. 361.61 Però mutila: rimangono solo le ultimissime parole: «sub Egea proconsule, re-gnante Domino … Amen».62 Non a caso la Passione di papa Stefano occupa, oltre ai ff. 8v-11-v, anche i ff. 21r-23r.63 Sulle Passioni di Pancrazio: G.N. VERRANDO, Le numerose recensioni della Pas-sio Pancratii, «Vetera Christianorum» 19, 1982, pp. 105-129.

fogli); nella colonna di destra è invece riportata un’ipotesi di come avrebbepotuto essere in origine il manoscritto:

30 novembre (Andrea) 30 novembre4 dicembre (Barbara) 4 dicembre—————————————-28 luglio (Nazario e Celso) 10 maggio1 agosto (Maccabei) 12 maggio2 agosto (Stefano papa) 12 maggio—————————————-23 aprile (Giorgio) 12 maggio25 aprile (Marco ev.) 1 -2 agosto———————————12 maggio (Pancrazio)10 maggio (Gordiano e Epimaco)12 maggio (Nereo e Achilleo)———————————6 agosto → 28 ottobre 6 agosto → 28 ottobre

La stretta contiguità tra il Tomo VIII e il Tomo XI è poi confermata daaltri elementi. Innanzitutto, ben 10 dei 43 testi che compongono il TomoVIII (= 23 %) è presente nel Tomo XI secondo la medesima recensione(BHL: 1002-1003, 1970, 2297, 4115-4116, 4753, 4973, 6041, 5106, 5690,7809)64.

Il milieu beneventano è rappresentato, oltre che dalla passione di Bar-tolomeo e di Gennaro, presenti anche nel Tomo VIII secondo le stesse re-censioni, dalla leggenda dei Santi Sette Fratelli (BHL 2297) e dallatraslazione di Festo e Desiderio (BHL 4118). È presente la stessa recen-sione (BHL 915) della passione di Barbara (diffusa in area beneventano-sublacense). Ad area cassinese riconduce il finale della Vita di GirolamoBHL 3871, attribuita a un Sebastianus monachus Casinensis, che è comuneal Tomo IX vallicelliano e al Sublacense X.10. Più specificatamente per unlegame con San Vincenzo, sono uguali, cioè nella recensione attribuibilead Ambrogio Autperto, i testi sugli evangelisti Matteo e Luca (BHL 5690 e

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64 Mentre altri due testi, l’Exaltatio sanctae Crucis e un testo su Simone e Giudasono presenti sotto redazioni differenti; Tomo VIII: 4178 e 7750-7751; Tomo XI:4179 e 7749.

4973)65. Terenziano, di cui il Tomo XI attesta la Passione ai ff. 47r-50v(BHL 8003), è santo tuderte, ma ne è attestata la traslazione di un braccioa Teano (BHL 8004). Molto importante infine la presenza nel codice di BHL7845 (presente anche nel Tomo VIII), Passione di Stefano, uno dei tre co-dedicatari (insieme a Vincenzo e Lorenzo) del monastero vulturnense. Èpresente, inoltre, una Passione dei martiri romani Nereo e Achilleo; po-trebbe non essere casuale che uno degli abati vulturnesi dell’inizio del XIIsecolo, Amico, fosse cardinale di quella sede66.

Come per il Tomo VIII, infine, anche per il Tomo XI ad alcuni dei santiattestati sono dedicati luoghi di culto in San Vincenzo o nelle sue perti-nenze:

● Bartholomeus: cella (chVult III 19,9). chiesa in Serra Mala (chVult III 35,18)

● Dyonisius monastero (chVult I 351,11)● Nazarius chiesa (chVult II 215,5)● Pancracius altare nella chiesa di Santa Maria

Maggiore (chVult I 155,19)67

4. Il cod. Vallicelliano Tomo XXICodice largamente composito (oltre una ventina di unità codicologiche

svarianti dall’XI al XV secolo), è nel complesso composto di ff. VII+374,con i fogli I-VII aggiunti in principio68. Mentre nel secondo fascicolo (f.103) si firma un certo frater Petrus de Castra, nel tredicesimo (ff. 203-240,XI saec. in., 283x195, scrittura beneventana di tipo cassinese) compare (af. 228r) «di mano un poco più tarda»: ego qui super Antonius Magnonum

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65 Nel manoscritto il testo su Luca è definito sermo Bertharii abbatis, con riferi-mento a Bertario che fu abate sia di San Vincenzo che di Montecassino. Lo stessotesto è anche nel Vallicelliano Tomo XX. 66 Ulteriore elemento da considerare è che San Vincenzo al Volturno è sede mona-stica sin dalla sua fondazione in stretto contatto con la Francia e l’Inghilterra. Inquesto senso, potrebbe avere un rilievo la presenza, all’interno del Tomo XI, dellapassione di san Dionigi (saint Denis), nella recensione BHL 2178, di quella di sanMaurizio, nella versione BHL 5741 opera di Eucherio di Lione, e di un’omelia diBeda (hom. II 22, edita in PL XCIV 249-253).67 Si vedano poi anche il colle di San Pancrazio citato a chVult I 165,10 e chVult I197,17.68 Descrizione: GIORGETTI – MOTTIRONI, Catalogo, pp. 283-297. Su alcuni fogli ca-duti di questo codice: V. BROWN, A Second New List of Beneventan Manuscripts(IV), «Medieval Studies» 61, 1999, pp. 325-392, qui 371-372.

de Castellonon de Sancto Vincentu. L’indicazione di Castellone fa pensareGiorgetti a una provenienza vulturnense per il manufatto: in chVult II 295,3,infatti, sono nominati Pietro, Magno, Mango e Giovanni, figli del defuntoMangone, che ricevono dall’abate Giovanni, nel 982, quattrocento moggidi terra nel territorio di Penne (prov. Pescara), località Continiano.

Dal punto di vista contenutistico, il fascicolo o) del codice (ff. 203.24069,saec. XI, mm 283x195, in beneventana di tipo cassinese) contiene d’inte-resse vulturnense la Passio Vincentii et Benigni BHL 8676, e i Gesta Nereiet Achillei BHL 6058+6060 (vedi supra per il significato vulturnense diquesti due santi)70.

5. Il cod. Vallicelliano Tomo XXIIIl Tomo XXII della Biblioteca Vallicelliana è un codice composito di

due unità codicologiche in scrittura beneventana: la prima, comprendente iff. 1-164, risale all’XI secolo; la seconda, comprendente i ff. 165-182, alXII. Una nota a f. 164v dà notizie sulla storia: «Liber Sancti Bartholomaeide Trisulto est ise caveat qui furabitur ne per collum insuspendatur»71.

Edward Garrison lo riteneva proveniente da Sulmona, in quanto al 2gennaio presenta una vita di san Macario col titolo Vita et conversatio Ma-charii heremitae, testimoniando la confusione insorta tra le vite di almenocinque santi omonimi; altro indizio, la presenza della festa di Panfilo al 5aprile72. Giacomo Baroffio ritiene che le cc. 1-163 contengono un mano-scritto agiografico certosino del sec. XI-XII proveniente da Trisulti, ma diorigine sconosciuta; le cc. 164-181 appartenevano a un manoscritto agio-grafico del XII secolo dell’Italia meridionale73. Secondo François Dolbeau,al volume possono essere attribuite origini bassolaziali. Precisa questo tipodi indicazione Paolo Chiesa, secondo il quale il manoscritto è stato vergatoa Montecassino74. L’affermazione di un’origine cassinese si sostanzia sullabase di due importanti elementi: uno di tipo interno, ossia la presenza del

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69 Ma mancano varie carte dopo f. 233: GIORGETTI - MOTTIRONI, Catalogo, p. 289.70 Interessante può risultare la presenza della Vita s. Brigidae (BHL 1457) opera delmonaco irlandese (di Kildare) Cogitoso, del quale la cronologia oscilla fortemente(tra VII e IX secolo).71 Descrizioni: LOWE, The Beneventan Script, I p. 32; GIORGETTI - MOTTIRONI, Ca-talogo, pp. 297-301.72 GARRISON, Contribution, pp. 158, 165.73 Cfr. BAROFFIO, Iter, p. 231.74 P. CHIESA, La traduzione latina del «Sermo in reditu reliquiarum sancti Iohan-nis Chrisostomi» di Cosma il Vestitore eseguita da Guarimpoto grammatico,«Aevum» 63, 1989, pp. 148-171. Il Tomo XXII può essere originario di Monte-cassino e passato poi al monastero di San Bartolomeo di Trisulti, oppure qui diret-tamente confezionato ma sulla base di materiale cassinese.

testo relativo a san Firmano (BHL 3000), che si trova solo a Montecassino;ed uno di tipo esterno, e cioè la permanenza del codice per lungo temponell’abbazia di San Bartolomeo di Trisulti (vicino Sulmona), dipendenzacassinese. Al di là delle divergenze per una collocazione geograficamenteprecisa, resta dunque assodata l’origine del codice in area ‘beneventana’(Campania e Puglia settentrionale, Lazio meridionale, Abruzzi e Molise)75.

Un’ipotesi di un’origine vulturnense può contare, per quanto riguardaelementi di natura esterna, sull’osservazione che l’abbazia di Trisulti è, geo-graficamente, piuttosto vicina a San Vincenzo (da Sulmona, lungo la stradache passa per Roccaraso). Da un punto di vista interno, le probazioni si ri-velano assai più consistenti che il solo riferimento alla passione di Firmano.La miscellanea agiografica costituita dal codice, infatti, appare fortementeimperniata su figure eremitiche, che è tratto caratteristico della spiritualitàvulturnense: sono presenti tre testi di Girolamo relativi a Malco (BHL5190), a Ilarione (BHL 3879) e a Pacomio (BHL 6412); la leggenda diAbramo e la nipote Maria opera di Efraem (BHL 12), la cosiddetta Histo-ria monachorum (BHL 6424+6425), la Vita del vescovo, già monaco, Fron-tonio (BHL 3190), la Vita di Simeone lo Stilita di Antonio (BHL 7957).Anche il secondo fascicolo costituente il codice presenta contenuti mona-stico-eremitali: la Vita di Onofrio di Pafnuzio (BHL 6335), presente anchenel Tomo VIII seppure secondo un’altra redazione, e alcuni versi in onoredi questo stesso santo.

Il dato più importante, però, è che tra le figure eremitiche il rilievo as-soluto viene conferito, e per la collocazione all’inizio, e per la quantità ditesti trascritti, alla figura di Martino, eremita (alla metà del sec. VI) sulMontemassico76: il capitolo III 16 dei Dialogi di Gregorio Magno dedica-tigli (BHL 5601: solo un frammento finale), e la leggenda di Martino ere-mita sul Montemassico di Adelberto Diacono (BHL 5601b)77. Ora, è notocome su quella montagna, poco a sud di San Vincenzo, sia sorta durante il

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75 Nel Tomo VII sempre della Vallicelliana (ff. 135v-136r) ci sono le carte del-l’inizio di una Revelatio Sancti Angeli de monte Tancia («in Sabinensium comi-tatu», testo che continua nel Tomo XXII (il testo è edito in «Analecta Bollandiana»29, 2006, pp. 545-547.76 GALDI, Santi, pp. 252-253.77 BHL 5601b. Translatio tentata et miraculum: ed. U. MORETUS, Un opuscule dudiacre Adelbert sur S. Martin de Montemassico, «Analecta Bollandiana» 25, 1906,pp. 243-255. Sul santo esistono altri tre testi: BHL 5602 e 5603, datati al 1094, chesono rispettivamente una traslazione del corpo del santo e i miracoli da questo ef-fettuati nella città di Carinola; e BHL 5604, la riscrittura effettuata da Pietro Dia-cono di queste precedenti narrazioni. 78 Per Corfinio: chVult III 112,2, III 167,8 e III 172,15; per Raiano: chVult I 229,10.79 Si veda BROWN, A Second New List, p. 370.

Medioevo una importante dipendenze vulturnense, il monastero di San Mar-tino al Montemassico, appunto. Anche la presenza della rara pièce BHL6418b relativa a Panfilo, vescovo di Sulmona, sembra mostrare riferimenti,oltre che alla città di Sulmona, a San Vincenzo: a san Panfilo, infatti, nelledipendenze vulturnensi sono dedicate una chiesa a Corfinio e una a Raiano(prov. L’Aquila, vicino Sulmona)78. Non mancano poi testi d’origine spa-gnola, come detto alquanto frequenti a San Vincenzo: la Vita di Frontonio,abate in Egitto, di Valerio del Bierzo (BHL 3190), quella di Isidoro di Si-viglia opera del chierico Redento (BHL 4482), una Vita di Ildefonso di To-ledo (BHL 3919).

L’ipotesi che qui si avanza interpreta il Vallicelliano Tomo XXII, dun-que, come un volume prodotto dall’atelier vulturnense per la comunità delmonastero dipendente.

6. Il frammento in beneventana di RoccarainolaQualche tempo fa Virgilia Brown mi segnalava l’esistenza, in un archi-

vio privato della provincia di Napoli, di un bifolio assai danneggiato, disaec. XI, mm 310x287, scritto su due colonne, che lei stava per segnalaresu un numero di Medieval Studies, e mi pregava di ragionare su un’even-tuale provenienza vulturnense79:● Roccarainola, Archivio Domenico Capolongo, F0124 ACRIl frammento contiene i capitoli 6-11 del Sermo in purificatione sanctae

Mariae di Ambrogio Autperto. Questo sermone autpertiano è tramandato inmolti manoscritti, che ne segnalano come destinatari i monaci di San Vin-cenzo80. Difficile nel complesso una precisa valutazione circa la prove-nienza dell’esiguo frammento, non agevole, anche per via specificatamentepaleografica.

7. Lo scriptorium vulturnense: status quaestionis posthacSan Vincenzo al Volturno, anche al di là dei gravissimi problemi cau-

sati dalla distruzione e diaspora della fine del sec. IX, è stato dalla sua fon-dazione e fino almeno a tutto il sec. XII uno dei cenobi più importantid’Europa. È chiaro dunque che sappiamo troppo poco, per quello che deveessere stato il suo “volume d’affari” culturale81.

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80 Ambrosii Autperti Opera, III 883.81 L’esistenza dello scriptorium, e la sua importanza, sono testimoniate altresì dainumerosi rinvenimenti archeologici di oggettistica di bronzo pertinente alla lega-tura e al rivestimento dei libri. PRATESI, in Il Frammento Sabatini, p. 22 dice cheSan Vincenzo è un «centro scrittorio assai progredito». Tale è anche l’opinione del-l’archeologo che maggiormente ha studiato il sito vincenziano negli ultimi diecianni, il collega Federico Marazzi.

Sono certi scientificamente i fasti del periodo franco (fine VIII-inizi IXsecolo). Sembra infatti riferibile a San Vincenzo al Volturno l’evangeliariodi lusso detto Codex Beneventanus, che dovrebbe essere stato prodotto perl’abate Ato intorno al 750, caratterizzato da una forte ispirazione tardoan-tica. Gli amanuensi di San Vincenzo, ancora all’inizio del IX secolo, si de-dicavano, probabilmente, alla produzione di grandi libri, da esporresull’altare maggiore della nuova basilica, ma anche di semplici lezionari eraccolte di inni necessari per la quotidiana vita liturgica della comunità.

In sèguito, l’attività dello scriptorium vulturnense viene brusca-mente interrotta dalla distruzione del monastero ad opera dei Saraceninell’881. La comunità, trasferita a Capua dall’abate Maione (872-901),torna a San Vincenzo col suo successore, Godelperto (902-920). Una verae propria ripresa vive lo scriptorium sotto l’abate Giovanni IV (998-1007),che rilancia in maniera decisa la produzione libraria e letteraria, così comei successori Ilario (1011-1045) e Giovanni V (1053-1076), che restaura lachiesa di San Vincenzo Maggiore e «ornamenta ecclesie, libros, cruces ar-genteas altaris cyborium et tabulam argento vestitam, calices turibula per-fecit»82. È nel sec. XI che si registra un notevole incremento dellaproduzione libraria (ne sono testimonianza il Chigiano D. V. 77 e il Fram-mento Sabatini). Il modello è naturalmente lo scriptorium di Montecassino,come dimostra la vicinanza tra le miniature del Frammento Sabatini conad es. il codice Cassinese 53 (Cassiano, Conlationes)83.

Il chiostro mostra di avere una sezione libraria ben fornita di personale,proveniente anche da zone limitrofe (baresi, in particolare, per la stesuradel Beneventano 9), e un’eccellente squadra di miniatori (si pensi alle mi-niature sia del Frammento Sabatini che del Vat. lat. 2724)84.

Caratteristiche specificamente paleografiche dello scriptorium vultur-nense sono segnalate soprattutto da Flavia De Rubeis. La sudiosa individuauna «tendenza alle forme rotonde», e l’uso di lettere maiuscole con trat-teggio raddoppiato85. John Mitchell si occupa - peraltro indirettamente -

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82 G. OROFINO, La decorazione, in Il Frammento Sabatini, p. 43, richiama le testi-monianze di chVult III 77 e 89, che ricordano come Ilario avesse fatto eseguirelibri, forse liturgici, per la restaurata chiesa di S. Vincenzo Maggiore, mentre Gio-vanni IV acquista del siricum.83 OROFINO, La decorazione, p. 39.84 A. PRATESI, Il Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, in Una grande abba-zia altomedievale. San Vincenzo al Volturno, cur. F. Avagliano, Montecassino 1985,pp. 221-231, dice che il chVult è eseguito da un’équipe di autori, sotto la direzionedel monaco Giovanni.85 Cfr. DE RUBEIS, La scrittura, pp. 25-26.

della scrittura esposta e sempre nella stessa età. Lo studioso inglese sotto-linea la enorme importanza rivestita, in età altomedievale, nel chiostro, dallascrittura evidenziando, tra l’altro, la perfetta leggibilità delle parole ripor-tate sui grandi rotoli che i profeti dipinti sulle pareti della Sala del Capitolotengono nelle mani, che rappresentano soluzione iconografica «pressochéignota all’arte dell’Europa occidentale prima della fine dell’XI secolo».Come pure è da rilevare il buon livello, tanto grafico quanto stilistico, dellenumerose epigrafi (circa 400 di non oltre il sec. IX), soprattutto funerarie86.

8. Cultura e letteratura a San Vincenzo al Volturno (saec. X-XII)Sulla cultura altomedievale di San Vincenzo al Volturno restano fonda-

mentali le pagine di Claudio Leonardi, riprese, qualche anno dopo, da Re-ginald Grégoire. Le seguenti osservazioni vorrebbero essere unapprofondimento e soprattutto un ‘proseguimento’ di tali studi87.

Sulla composizione della biblioteca di San Vincenzo nei secoli alto-medievali, oltre ai volumi prodotti in loco, è possibile trarre notizie dal-l’utilizzo delle fonti effettuato nelle opere “autoctone”, con particolareriferimento alla produzione di Ambrogio Autperto. «Tra la fine del VII el’inizio dell’VIII secolo, si era costituita già una raccolta di testi. Fra que-sti, certamente l’antigrafo del codice Beneventano dei Vangeli di Londra, itesti degli autori citati da Autperto, l’antigrafo di Gregorio Magno conte-nente i Dialogi»88. Tale percorso culturale appare particolarmente paralleloa quello della vicina abbazia di Montecassino. Emergono le letture, oltreche dei grandi Padri Agostino, Girolamo e Gregorio Magno, anche di Ti-conio e di Primasio di Adrumeto89.

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86 J. MITCHELL, Le arti a San Vincenzo al Volturno nell’età degli abati Giosuè edEpifanio, in San Vincenzo al Volturno. Dal Chronicon alla storia, cur. G. De Be-nedittis, Isernia 1995, pp. 56-84, qui 59.87 C. LEONARDI, Spiritualità di Ambrogio Autperto, «Studi Medievali» 9, 1968, pp.1-131; R. GRÉGOIRE, L’abate Ambrogio Autperto e la spiritualità altomedievale,in Una grande abbazia altomedievale. San Vincenzo al Volturno, cur. F. Avagliano,Montecassino 1985, pp. 249-268. Si veda anche C. CAPUTANO, Intorno a unagrande abbazia altomedievale: San Vincenzo al Volturno, «Quaderni Medievali»38, 1994, pp. 6-23. La situazione critica è rilevata anche da P. DELOGU, Per lo stu-dio di San Vincenzo al Volturno: stato dei problemi, in San Vincenzo al Volturno.Cultura, istituzioni, economia, cur. F. Marazzi, Montecassino 1996, pp. 11-19.88 Cfr. DE RUBEIS, La scrittura, p. 30.89 Su Ambrogio Autperto: J. WINANDY, Les dates de l’abbatiat et de la mort d’Am-brose Autpert, «Revue Bénédictine» 59, 1949, p. 209; R. WEBER, Les sermonsd’Ambroise Autpert, «Revue Bénédictine» 86, 1976, pp. 321-327; R. GRÉGOIRE,L’abate Ambrogio Autperto; G. BRAGA, Testimonianze di vita monastica italiana fra

Ambrogio Autperto afferma di comporre le sue opere all’interno di SanVincenzo (quindi ne usa la biblioteca) e per San Vincenzo, quindi quasi aduso interno; inoltre, egli si vanta di non aver cultura profana alcuna, il che,a parte la scontata componente topica, è affermazione da tenere presente90.Le sue opere presentano una spiritualità tradizionale, più un messaggio di-dattico ai monaci che speculazione originale. È recente (Delogu) la rivalu-tazione dell’influsso franco-carolingio su San Vincenzo (Autperto nonsarebbe, in questo senso, un autore isolato)91; ma appare anche ragionevolel’idea della De Rubeis secondo cui (almeno sul piano paleografico ed epi-grafico) il classicismo grafico di San Vincenzo può venire, oltre che dai Ca-rolingi, dall’erdità romana, forte nel Mezzogiorno.

Per i secoli XI e XII si nota qualcosa probabilmente di nuovo. Intanto,se effettivamente il chVult, definito da papa Pasquale II magnum opus92, èil rifacimento di una cronaca precedente (testimoniataci dal Frammento Sa-batini), vuol dire che a San Vincenzo era attestata l’importante pratica dellariscrittura (storiografica, in questo caso). Il testo tiene ben presenti, fino afonderne strutture e stilemi, le grandi cronache di Farfa (per i documentitrascritti) e Montecassino (per la narrazione)93, che dunque l’autore ben co-nosceva e che dovevano essere presenti nell’armarium del chiostro. Si trattaal tempo stesso di un’opera indiscutibilmente disarmonica oltre che in-completa, e probabilmente interpolata94.

Se maggiormente problematiche rimangono le ipotesi di attribuzioneallo scriptorium vulturnense del Vallicelliano Tomo XXII e del Frammentodi Roccarainola, robusto coefficiente di probabilità riveste l’acquisizione,alla produzione dello scriptorium, dei codici attualmente Vallicelliani TomoIII, Tomo VIII e Tomo XI. In questo modo si avrebbe, finalmente, testimo-nianza concreta dell’editoria agiografica a San Vincenzo, che certamentedovette esistere, ma della quale non c’era traccia precisa.

In questi volumi è riscontrabile una delle caratteristiche grafiche dello

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nord e sud nell’VIII secolo. Ambrogio Autperto e Paolo Diacono fra San Vincenzoal Volturno e Montecassino, in Il monachesimo italiano dall’età longobarda al-l’età ottoniana (secc. VIII-X), cur. G. Spinelli, Cesena 2006, pp. 509-534, qui 515-524. 90 GRÉGOIRE, L’abate Ambrogio Autperto, p. 253.91 DELOGU, Per lo studio di San Vincenzo al Volturno, p. 17.92 chVult I 35,12.93 H. HOFFMANN, Das Chronicon Vulturnense und die Chronik von Montecassino,«Deutsches Archiv» 22, 1966, pp. 179-196.94 A. PRATESI, Il Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, p. 225.95 FOGLIA, Un’ipotesi, p. 177.

scriptorium vulturnense: i cambi di grafia abbastanza continui95. Tale ele-mento è evidente soprattutto nel Tomo VIII: a f. 77r, alla fine della Pas-sione di Abdon e Senne, si passa a una beneventana assai più piccola, coninchiostro diverso e senza colori nei capolettera; a f. 92v, all’inizio del ser-mone di Autperto sull’Assunzione della Vergine, la prima lettera (Adest di-lectissimi fratres) è invece miniata e molto grande, mentre a f. 191v, l’iniziodel testo relativo a Leonardo di Noblat, è evidente un ulteriore cambio gra-fico e cromatico.

Si tratta di una bibliografia agiografica96 in cui è possibile identificaredue grandi filoni: un primo, relativo a santi titolari di luoghi di culto nelmonastero o nelle sue dipendenze97; un secondo, interessato a figure mo-nastiche (cenobitiche o eremitali)98. All’interno di questi leggendari, inol-tre, è riscontrabile una presenza cospicua di sermoni su santi, attribuibili aAmbrogio Autperto, a Beda (nel Tomo VIII e nel Tomo XI) e a GregorioMagno. Il primo di questi filoni potrebbe contenere opere composte a SanVincenzo. Così è per i due sermoni consacrati alla festività di san Vincenzopresenti nel Vallicelliano Tomo VIII (Sermo de s. Vincentio e Sermo in na-tali s. Vincentii)99; così è per BHL 5601b (Tomo XXII), il testo su Martinodel Montemassico opera del diacono Adelberto100. Così potrebbe essere perla Passione di Panfilo di Sulmona (BHL 6418b: Tomo XXII), per quella diPancrazio (BHL 6420 vel 6421): Tomo XI quella di Nicandro e Marciano(BHL 6072: Tomo VIII).

Altro portato della presente indagine è la non elevata correttezza, so-prattutto grammaticale, delle opere scritte a San Vincenzo. Il leggendariocostituito dal Tomo VIII, ad es., non pare vergato da uno scriba particolar-mente competente. Un’analisi molto approfondita di due dei testi contenu-tivi (le Passioni di Giorgio e di Cristoforo), delle quali ho curato l’edizione

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96 Sulla produzione agiografica di San Vincenzo al Volturno, in sintesi: E. D’AN-GELO, Agiografia latina del Mezzogiorno continentale d’Italia (750-1000), in Ha-giographies IV, cur. G. Philippart, Turnhout 2006, pp. 41-134, qui 101-104.97 Maria: Tomo III BHL 5335, Pietro: Tomo VIII BHL 6661, Michele arcangelo:Tomo XI BHL 5948, Pancrazio: Tomo XI BHL 6421, Panfilo: Tomo XXII BHL6418b, Benedetto: Tomo III BHL 1102, Lorenzo: Tomo VIII e Tomo XI BHL 4753,Martino al Montemassico: Tomo XXII BHL 5601, Vincenzo: Tomo III (sermoni).98 Tale elemento è particolarmente presente nel Vallicelliano Tomo XXII, ma perOnofrio e Martino al Montemassico si veda anche il Tomo VIII.99 Potrebbe avere la stessa origine il Sermo in Natale s. Vincentii pubblicato nellaBibliotheca Casinensis, seu codicum manuscriptorum qui in tabulario Casinensiasservantur, Montis Casini 1873-1894, I pp. 177-178.100 MORETUS, Un opuscule.

critica, mette in evidenza una conoscenza scadente del latino da parte di chitrascrive: una serie di svarioni e di sviste che costringono l’editore, soprat-tutto nel caso del testo su Cristoforo, per il quale il Tomo VIII è testis uni-cus, ad intervenire pesantemente e ripetutamente101. Il che è confermatodalla qualità del testo del diacono Adelberto: l’editore parlava di «étrangelatinité» (anch’egli era costretto a una valanga di correzioni, molte dellequali già presenti nel manoscritto grazie a un’alia manus che super rasuramcorreggeva le innumerevoli infrazioni alla sintassi)102.

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101 Peraltro in un caso il trascrittore, nello sbagliare, evidenzia anche una cattiva co-noscenza della Bibbia: non riconoscendo, infatti, una citazione dal libro dei Giu-dici (Idc 6,36-40), scrive evellere per et vellere (Passio s. Christophori II 31).102 MORETUS, Un opuscule, soprattutto pp. 245 e 249. Eccone qualche esempio:una cum princeps, cum letanias, in montis prephato cacumen, etc.103 Sulla storicità dei tre personaggi si veda il recente C. PALUMBO, Nicandro, Mar-

APPENDICE

La Passio ss. Nicandri et Marciani (BHL 6072+6072b)Nicandro, Marciano e Daria furono martirizzati, sotto Diocleziano, nel

303, presso Venafro, di cui sono santi patroni. La loro leggenda, in buonasintesi, vuole Nicandro e Marciano due valorosi soldati romani, forse ori-ginari della Mesia (l’odierna Bulgaria), di stanza a Venafro; Daria è la mo-glie di Nicandro. Pur consapevoli dei rischi che comporta la loro scelta,abbracciano la religione cristiana. Vengono arrestati e condannati a morteper non aver voluto rinnegare la propria fede. Il loro dies natalis ricorre il17 giugno103.

Nella redazione qui di seguito pubblicata, Nicando e Marciano sono uf-ficiali insigniti della prefectoria dignitas (¶ 7). Essi vengono arrestati e in-terrogati dal preses Massimo che, coadiuvato dal consiliarius Leocone, a uncerto punto dell’interroogatorio è convinto di aver costretto Nicandro a ren-dere sacrificio agli dei pagani (¶ 27-28). Ma così non è e il magistrato ro-mano, a fronte dell’ostinazione di Nicandro e del suo collega Marciano,emette sentenza di morte (¶ 43). Nel mesto corteo che accompagna i con-dannati al luogo dell’esecuzione, sono presenti le mogli (Daria, di Nican-dro, e l’innominata moglie di Marciano), e Papiano, fratello del martirePancrazio (¶ 46). La moglie di Marciano tenta di dissuaderlo dall’andare in-contro al martirio, ma il marito è irremovibile, anzi prega il cristiano Zoticodi trattenerla e allontanarla (¶ 50-59). Entra allora in scena la moglie di Ni-candro, Daria che, al contrario, esorta il marito ad affrontare il bonum cer-tamen che l’attende (¶ 60-63). Anche Daria, insieme a Nicandro e Marciano,subisce allora l’esecuzione della pena capitale, il 17 giugno (¶ 66). Sul luogoi cui i tre martiri vennero decollati, a Venafro, viene eretta una basilica, dal-l’altare della quale sgorga una fonte miracolosa per i malati. Le ossa sonosepolte nell’altare di San Benedetto a Montecassino, secondo la cronaca delchiostro cassinese (III 29).

L’ipotesi di attribuzione della pièce all’atelier vulturnense si fonda sullastretta relazione del chiostro con i santi in questione da un lato, e col terri-

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ciano e Daria tra storia e tradizione, in Nicandro, Marciano e Daria. Conoscere,ricordare e venerare i santi patroni di Venafro a diciassette secoli dal loro marti-rio, Venafro 2003, pp. 31-52, che però, non facendo per le diverse redazioni delmartirio riferimento alla numerazione BHL, rende assai arduo comprendere conprecisione a quale differente redazione della leggenda si faccia di volta in volta ri-ferimento. Inoltre, l’autore pare non conoscere i lavori di Bloch.104 PALUMBO, Nicandro, p. 41.

torio di Sora, Venafro e Atina dall’altro. Pertinenze vulturnensi sono ad es.la corte di San Marciano presso Benevento (chVult III 312,11 e III 313,10);e soprattutto la chiesa di San Marciano, sita sull’omonimo colle nel terri-torio sorano, che fu fondata da Totone (chVult I 165,9, I 172,18, III 311,4)104,ed una chiesa di S. Marciano «iuxta Atinum» secondo un privilegio di papaPasquale II del 1100105.

Il dossier latino dei santi Nicandro e Marciano è costituito da numerositesti, molti dei quali rappresentano, però, solo delle varianti incipitarie oesplicitarie di altri: BHL 6070, 6071, 6072, 6072b, 6072c, 6072d, 6072e,6073 (la cosiddetta Passio Romana), 6074 6074b. In realtà, i differenti fi-nali della Passio BHL 6070106 (a,b,c) vengono numerati 6070, 6071, 6072:

• BHL 6072+6072d: → BHL 6072 inc. Gloriosa sanctorum martyrumNicandri e Marciani certamina ...; despl. g. usque in hodiernum diem po-tant … susceperunt autem martyrium quinto decimo kalendas Iulii, re-gnante domino nostro Iesu Christo, cui est honor et gloria in seculaseculorum. Amen. Tale testo presenta numerose varianti esplicitarie : BHL6072b (des. d. … oculos sibi ligaverunt N. et M. die XV kalendas Iulias,regnante Domino… ; des. e. … usque in presentem diem. Martyrizaveruntautem martyres Christi N. et M. die XV kalendas Iulias, regnante vero…).Tale testo reca talvolta l’inc. Venimus enim per victoriam Christi adversusdiabolum dimicantem… numerato BHL 6072 e. Può essergli premesso,come nel caso del codice Vallicelliano Tomo VIII un prologo (inc. Ad lau-dem et gloriam domini nostri Iesu Christi sanctorum victoria martyrum nonoportet tegi silentio…), numerato BHL 6072d.

Tale versione della leggenda fu pubblicata da Caspar107. Essa è conte-nuto, nella sua forma completa, nel solo codice Vallicelliano Tomo VIII108.

105 G. SQUILLA, La diocesi di Sora nel 1110, Casamari 1971, p. 175.106 Conservato, tra l’altro, nel Vat. lat. 7810 (saec. XI).107 E. CASPAR, Petrus Diaconus, Berlin 1909, pp. 226-229, dopo esserlo stato da J.MABILLON, Museum Italicum, sev Collectio veterum scriptorum ex bibliothecis Ita-licis, Lutetiae Parisorum 1687, I pp. 247-250.108 Non c’è nei leggendari attualmente a Montecassino. Alla Biblioteca MediceaLaurenziana di Firenze sono attestate due trascrizioni di BHL 6072, ma differentinell’explicit da quella qui in questione, e in due codici molto più tardi del TomoVIII (Conv. Soppr. 300 e Conv. Strozzi 4): R.E. GUGLIELMETTI, I testi agiograficilatini nei codici della Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze 2007, ad loca.

Il testo è particolarmente interessante, poiché ne effettuerà una riscritturaPietro Diacono (BHL 6074), facendo verificare il martirio dei due santinella sua città di Atina109.

Conspectus siglorumV = Roma, Biblioteca Vallicelliana, Tomo VIII, ff. 43r-45vCaspar = CASPAR, Petrus Diaconus, pp. 226-229.

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109 BHL 6074 (in passato attribuita erroneamente a un Adenolfo): inc. Hinc iam …des. Defendere et tueri … non desistunt. Edizioni: AASS, Iun., III 274-276; edi-zione: H. BLOCH, The Atina Dossier of Peter the Diacon of Monte Cassino: A Ha-giographical Romance of the 12th Century, Città del Vaticano 1998, pp. 207-214.Questo editore stampa in corsivo i passi della versione 6072 utilizzata da PietroDiacono. Sulle strategie agiografiche di Pietro Diacono: E. D’Angelo.

Passio sanctorum martyrum Nicandri et Marciani<PROLOGUS>

1. Ad laudem et gloriam domini nostri Iesu Christi sanctorum victoriamartyrum non oportet tegi silentio, quoniam, dum eorum nunciamus tri-umphos, eum, per quem victores extiterunt, summo preconio collaudamus,eo quod non a semetipsis sed per Christum verba depromunt, sicut idem lo-quitur dicens: „Non enim vos estis qui loquimini, sed spiritus Patris vestriqui loquitur in vobis“; invitans eos de tenebris ad lucem, de morte ad vitam,promittens eis post laborem requiem, dicens: „Venite ad me, omnes qui la-boratis et onerati estis, et ego vos reficiam“, et invenietis requiem anima-bus vestris. 2. Invitatis quippe loquitur: «Si quis venit ad me, et non oditPatrem suum et matrem suam, uxores et filios, fratres et sorores, adhuc etanimam suam, non potest esse meus discipulus». 3. Hoc autem audientes etverba mentis auribus percipientes et Christi cupientes esse discipulos <...>.EXPLICIT PROLOGUS.

4. Gloriosa sanctorum martyrum Nicandri et Marciani certamina, quibusadversus diabolum Christi armis dimicarunt, ad exortacionem fidelium ve-raci stilo promenda sunt. 5. Hi itaque, qui, relicta seculi huius militia, or-thodoxam fidem secuti, eternitatis amore mundum contempnentes adcelestem regum, confidentes in Christo, pervenerunt. 6. Hinc iam ad Ni-candri Marcianique, virorum sanctorum, que contra diabolum habuerunt,exponenda certamina properabo. 7. Nam memorati igitur viri, in prefecto-ria digitate costituti, inter armatos quidam huius seculi militantes, armisvero iustitie communiti, totius huis mundi gloria derelicta, ad celestem mi-litiam Christi gratia se contulerunt. 8. Statim igitur veluti nefaria perpe-trantes, in iudicium referuntur; ad quos preses Maximus, cui huiuscemodicura sacra erat iniuncta, dixit: 9. «Si non ignoratis» inquid «Nicander etMarciane, imperatorum precepta, quibus vos diis precipiunt sacrificare, ac-cedite et imperata complete!». 10. Ad hec Nicander: «Volentibus» inquid«sacrificare hec preceptio costituta est; nos vero christiani sumus et huiu-scemodi precepta complere non possumus». 11. Maximus dixit: «Quare vi-delicet nostre merita non accipitis dignitatis?». 12. Nicander dixit: «Quiapecunie impiorum contagium sunt viris deum colere institutis». 13. Maxi-mus dixit: «Ture tantum deos, Nicander, honorificato». 14. Nicander dixit:«Quomodo potest homo christianus lapides et ligna colere, Deo relicto im-mortali, qui omnia facit ex nichilo, quem colimus, qui et me et omnes spe-rantes poterit conservare?».

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15. Uxor autem sancti Nicandri, nomine Daria, presens, votum propriumverbis huiuscemodi animabat dicens: 16. «Cave, domine, ne id facias, cave,domine, ne dominum nostrum Iesum Christum neges! 17. Intuere celum, etin eo ipsum videbis, cui fidem et conscientiam servas: ipse enim est tuusadiutor!». 18. Ad quam Maximus: «Malum» inquid «caput mulieris! Curvirum tuum mori festinas?». 19. Illa vero: «Ut vivat» inquit «apud Deum,et numquam moriatur!». 20. Et Maximus. «Non ita est. Sed quia robustioriviro desideras copulari, ideo hunc ex vita citius privari festinas». 21. Illavero: «Suspicaris» inquid «hoc me animo cogitare, atque id me esse factu-ram? Primam me propter Christum occidito, si tamen id etiam de mulieri-bus tibi datum est». 22. Tunc Maximus: «De mulieribus quidam michi hocminime est iniunctum, neque enim faciam, quod cupis; verumtamen eris incarcere!».

23. Deducta illa in carcerem, Maximus ita cepit ad Nicandrum loqui: 24.«Noli ad verba tue uxoris adsensere, neque alicuius huiusmodi persuasio-nem audire, ne cito luce priveris, sed suum accipito intervallum, atque in eodeliberato, utrum melius sit vivere an mori». 25. Dicit ad eum Nicander:«Spatium, quod te daturum promittis, iam putato completum, ac deliberassecognosce atque id in animo induxisse: nichil aliud cupiam pro salute». 26.Preses vero, sublata voce, dicebat grates deo, et Nicander una cum eo dice-bat etiam gratias Deo. 27. Putabat enim preses Christi martirem de hac vitaatque huiuscemodi servanda salute dixisse, et quod sacrificaturum eum pu-taret, nimium letabatur. 28. Ita gaudens cum Leocone consiliario incedebat.29. Nicander vero sanctus in spiritu cepit deo gratias agere, atque eum voceorare clarissima, ut a labe atque a temptatione huius seculi liberaretur. 30.Quod cum Maximus agnovisset, ita dixit ad eum: «Quomodo, qui nunc vi-vere velle dixisti, nunc letus desideras mori?». 31. Nicander ait: «Ego eter-nam vitam opto vivere non huis seculi temporalem: et propterea corpusmeum tibi potestatem feci; fac igitur, quod vis: ego christianus sum».

32. Hinc preses ad Marcianum: «Quid tu» inquid «Marciane?». 33.«Marcianus dixit: «Eadem, que commilito meus, ego etiam affirmo!». 34.Preses ergo: «Simul etiam in carcerem ambo trademini, penam sine dubiosubituri. 35. In carcere vero missi, post viginti dies iterum ad presidem ad-ducuntur. 36. Ad quos preses: «Sufficit vobis, Nicander et Marciane, antetempus vestrum moriendum, an imperialibus statutis parere velitis? 37. Adquem Marcianus: «Dulcitudo verborum tuorum neque nos a fide faciet re-cedere, neque negare deum: presentem enim eum videmus, et quo vocat co-gnoscimus. 38. Noli ergo nos retinere, hodie enim fides nostra in Christocompletur, sed mitte nos cito, ut videamus crucifixum, quem vos ore nefa-rio maledicere non dubitatis, quem nos veneramus et colimus». 39. Ad hecpreses: «Ecce pro desiderio» inquid «vestro morti trademini!». 40. «Per sa-lutem tibi» inquid «petimus imperatorum, ut nos citius mittas: nec enim

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suppliciorum formidine id te facias iuramus, sed ut cito nostro desideriopotiamur». 41. Tunc Maximus: «Michi non contradicitis» inquid «nequeenim ego vos persequor, sed imperatorum precepta: unde alienus sum acmundus a vestro sanguine. 42. Si autem scitis, vos bene ituros, gratulorvobis: vestrum desiderium compleatur!». 43. Hec dicens, sententiam in eospronunciat capitalem. 44. Sancti vero Christi martires quasi una voce aclingua dixerunt: «Pax tecum, preses humane!».

45. Ibant ergo gaudentes et benedicentes Deum. 46. Et Nicandrum se-quebatur quidem uxor eius, ac Papianus, frater martiris Pancratis, filiumNicandri portans infantem, atque eius gratia vulgus de salute. 47. Marcia-num vero sequebantur cognati, atque uxor eius veste conscissa, que taliaprofundebat: 48. «Hec» inquid «sunt, Marciane, que tibi dicebam in car-cere, id timens atque id plorans: ve, misere michi! 49. Non michi respon-dens, miserator esto mei, domine: aspice filium tuum dulcissimum,convertere ad nos, noli nos spernere: quid festinas, quo intendis, cur nosodisti et veluti ovis ad victimam es sublatus?». 50. Marcianus vero conver-tit se atque eam acervius intuetur dicens: «Quamdiu Satanas mentem tuamatque animum tuum oblectavit? 51. Separa te a nobis, concede nobis, utmartirium Deo perficiam!». 52. Zoticus vero quidam christianus manumeius sustentans dicebat: «Bono animo esto, domine frater, bonum certamenluctatus es; nobis vero infirmis, unde talis fides?». 53. «Veniat tibi in men-tem promissiones, quas Deus polliceri dignatus est, quas nunc vobis reddetdominus vere vos perfecte christiani et beati estis». 54. Uxor vero eius seingerebat plorans atque eum retro trahens. 55. Tunc Marcianus ad Zoti-cum: «Tene» inquid «uxorem meam»; quam Zoticus, martire dimisso, conti-cuit. 56. Postquam vero ad locum venisset, circumspexit Marcianus ac demultitudine Zoticum ad se vocavit, atque ei dixit uxorem suam ad eum ad-ducere. 57. Que cum fuisset adducta, osculatus est eam et dixit: «Recede inDomino: non potes me enim martirium celebrantem aspicere: mentem tuamsemel a maligno subtectam!». 58. Infantem vero osculatus et celum intuens,dixit: «Deus, Dominus omnipotens, tibi sint huius cure!». 59. Tunc mar-tires sese invicem amplectantur, et paulisper a sese perficiendi causa mar-tirii discesserunt.

60. Marcianus vero circumspexit, et vidit uxorem Nicandri, que praemultitudine ad eum accedere non possit; manu itaque eius porrecta, eam advitam suam adduxit. 61. Ad quam Nicander: «Deus» inquid «tecum». 62.Illa vero iuxta eum consistens dicebat: «Bone domine, bono animo esto,ostende tuum certamen. 63. Decem annos in patria sine te feci, ac momen-tis omnibus a deo, ut te viderem, optabam; nunc vero vidi et gratulor advitam proficiscenti! 64. Ecce nunc clarius exclamabo et gloriabor, uxor mi-litis constituta: bono animo esto, domine, ac redde martirium Deo, ut et meetiam de morte perpetua liberes!».

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65. Post hec, unus ex spiculatoribus amputavit capita eorum, con-sumantes in Christo suum martirium. 66. Requieverunt autem Christi mar-tires Nicander et Marcianus et Daria, uxoris Nicandri, cum filio suo, incivitate Venafro. 67. Tunc christiani abstulerunt corpora eorum, et sepelie-runt prope locum, in quo decollati fuerant. 68. In quo loco fabricata est ba-silica ad honorem nominum ipsorum. 69. Sub altare eiusdem basilicequedam stilla manat, de qua infirmi multotiens, sanitate recepta, usque inhodiernum diem potant.

70. Qui in singulis locis suis, Christo optante, multa beneficia prestant,susceperunt autem martirium quinto decimo kalendas Iulii, regnante do-mino nostro Iesu Christo, cui est honor et gloria in secula seculorum. Amen.

APPARATUS CRITICUS1. idem scripsi: isdem V Caspar4. veraci dubitanter scripsi: ver[...ns] (?) V veritatis Caspar6. certamina: supra lineam additum V24. suum scripsi: suus V25. te daturum cum Caspar scripsi: sedaturum V30. letus scripsi: letum V iterum Caspar42. vestrum desiserium scripsi: vestro desiderio V49. respondens cum Caspar scripsi: respondes V58. sint scripsi: sit V Caspar; huius: h- supra lineam additum60. manu cum Caspar scripsi: manum V

APPARATUS FONTIUM4. non enim vos … in vobis: Mt 10,20 # venite ad me …reficiam: Mt 11,282. si quis … discipulus: Lc 14,2662. forti animo esto: Tb 7,20

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