Antonio Terminio da Contursi poeta umanista del XVI secolo, prefazione di Amedeo Quondam, Contursi...

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Tobia R. Toscano

Antonio Terminio da Contursi poeta umanista del XVI secolo

Prefazione di Amedeo Quondam

Collana I Lari e i Penati

IL FAUNO EDIZIONI

Pubblicazione edita con il patrocinio e il contributo del Comune di Contursi Terme

© 2009 Il Fauno edizioni – Tel. 0828-791344 Via Mainente, snc. – 84024 - Contursi Terme www.ilfaunoedizioni.it – mail: [email protected] ISBN 978-88-95935-07-2

Indice

Presentazione .......................................................................................... VII

Prefazione ................................................................................................. XI

Premessa ....................................................................................................... 1

1. Preliminari bio-bibliografici .................................................................. 5

2. L’esordio latino: i Carmina nell’edizione giolitina del 1554 ............ 23

3. Il “libro” di rime di Terminio dalla prima (1556) alla seconda (1563) “edizione” ................................................................................. 39

4. Temi delle rime di Terminio. Versi di corrispondenza .................. 59

Conclusione minima ................................................................................. 87

Appendice - L’elegia autobiografica a Matteo Montenero ............................ 89

Bibliografia ............................................................................................... 115

VII

Presentazione

Siamo grati al prof. Tobia R. Toscano per questo lavoro e per l’attenzione che nella sua attività di ricerca ha dedicato, e sono certo continuerà a dedicare, all’approfondimento e alla divulga-zione delle opere di Antonio Terminio, nostro illustre concittadino, distintosi a Napoli ed in Italia per qualità culturali e letterarie che, ancora oggi, continuano ad esercitare il loro fasci-no.

L’Amministrazione che ho l’onore di guidare è impegnata da anni nel sostenere lo sviluppo e l’affermazione della cultura, nelle sue varie sfaccettature, nella ricerca delle nostre radici storiche, sociali, culturali e siamo quindi particolarmente lieti di poter pre-sentare ai nostri concittadini e alla comunità scientifica questo saggio del prof. Toscano, grazie al quale Terminio esce in manie-ra definitiva dall’anonimato e dai ristretti recinti dell’erudizione locale per ritrovare un posto di rilievo tra i petrarchisti e gli uma-nisti italiani del Cinquecento.

Ancora più significativa appare la scelta di arricchire questo volume con la preziosa prefazione del prof. Amedeo Quondam, che del Petrarchismo italiano ed europeo è uno dei più accreditati specialisti a livello internazionale.

Siamo perciò convinti che Antonio Terminio, illustre concit-tadino che in una lunga composizione latina scritta a Napoli elogia la sua piccola e amata Contursi, rimarrà per sempre un pro-tagonista della letteratura italiana.

Giacomo Rosa Sindaco di Contursi Terme

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Occuparsi di letteratura e della storia delle forme liriche – ha scritto qualcuno – è solo un altro modo, “più ampio e completo, meno impressionistico, di fare, puramente e semplicemente, sto-ria”.

La letteratura, in effetti, non ha mai mancato di costituirsi co-me storia: storia di se stessa, delle opere e degli individui che la compongono vivendo tutti insieme di interrelazioni, dove la pa-rola è fondamento di cultura, anzi genera ed esprime cultura.

Ho incontrato per la prima volta Tobia R. Toscano soltanto nell’estate del 2008, ma da tempo avevo avuto modo di frequen-tare e apprezzare i suoi lavori.

Da alcuni anni mi sforzo, en amateur, di capire quale sia stato il background, ossia l’insieme dei fattori ambientali e culturali che a Contursi, durante tutto l’arco del Cinquecento, hanno concorso a formare rilevanti personalità letterarie.

La plèiade di autori (Lucio Domizio Brusonio, Giovanni Anto-nio Pepi, Paolo Romano, Nicola Terminio, Francesco Morello, Sertorio Pepi, Paolo Silvio, ecc.), dei quali Antonio Terminio è indubbiamente il più rappresentativo, ci consegna l’immagine di una città ricca di stimolanti testimonianze di civiltà e di cultura.

Il desiderio di indagare e meditare sulla forza della nostra tra-dizione letteraria e poetica, schiudere in qualche modo la memoria dei nostri poeti e le ragioni della loro storia, mi ha por-tato ad interrogare i grandi specialisti della letteratura meridionale e napoletana.

L’incontro con Toscano è stato inevitabile. I suoi lavori – Con-tributo alla storia della tipografia a Napoli...; Letterati Corti Accademie...; L’ enigma di Galeazzo di Tarsia..., ecc; - copiosi di notizie storiche e biografiche relative a numerosi autori poco frequentati dalla cri-tica accademica, che predilige sentieri meno accidentati, mi hanno

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condotto per mano nel variegato e complesso mondo della lette-ratura cinquecentesca meridionale e favorito l’incontro con Terminio, del quale Toscano, meglio e più di altri, ha saputo trat-teggiarne la figura e l’opera.

Nella premessa al libro, Tobia Toscano, ricordando i motivi e le circostanze del nostro incontro, descrive, con meticolosa preci-sione, la genesi di questo lavoro. E si deve unicamente alla sua sensibilità se oggi vediamo realizzato quel progetto: pubblicare, cioè, una monografia su Antonio Terminio, a cura dell’Amministrazione comunale che, viribus unitis, con tutte le for-ze, intende contribuire al corale impegno per restaurare il policromo mosaico della civiltà contursana.

In Antonio Terminio da Contursi, Tobia Toscano, nel ripercorrere la parabola umana ed artistica dell’umanista contursano, apporta nuovi dati sull’uomo (viaggio in Corsica) e sul poeta (data del primo componimento pubblicato), tentando di rischiarare – la ri-cerca è ancora in corso – le zone d’ombra del periodo genovese.

Dai primi componimenti in latino dove vediamo un poeta alle prime prove, già avvertito delle necessità cortigiane, celebrazione dei Caracciolo, dei Carafa e di altre famiglie illustri, ma anche memore e nostalgico degli affetti e paesaggi più stimolanti della sua adolescenza, in cui l’insieme dei testi costituisce un vero dia-gramma della familiarizzazione del poeta con i principali modelli latini, al Discorso della miseria umana, il trattatello filosofico-morale nel quale la voce del Terminio si leva a una meditazione distacca-ta e malinconica sull’uomo e sulla storia, alle successive Rime e Stanze del 1563, in cui l’attività lirica, come tutta la poesia Cinque-centesca si svolge sotto il segno del Petrarca, avvertiamo, nell’umanista contursano, la veloce conquista di una notevole te-nuta formale.

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Estremamente felice, da parte di Toscano, la scelta di inserire nel libro, l’Elegia a Matteo Montenegro: un testo di straordinaria raf-finatezza nel quale il poeta parla soprattutto di se stesso e della propria vita (o di temi più generali in qualche modo riconducibili alla propria vita). Situazioni ed episodi, ma anche sentimenti, spe-ranze, valori e scelte esistenziali.

Al centro dell’Elegia vi è il mondo “privato” di Terminio che si organizza attorno alla sua persona, ai suoi affetti e alle sue rela-zioni, in contrapposizione con la sfera “pubblica”, cioè col modello di cittadino serio e benpensante, impegnato in affari che interessano la comunità e vincolati ai valori della moralità tradi-zionale.

È un mondo, quello dell’Elegia, di felicità, di sogno, di vita semplice e serena, condotta secondo i ritmi della natura, protetta da una religiosità ancestrale.

La ricca bibliografia che chiude il libro, in cui è evidente una lunga, instancabile ricerca di documenti, testimonia lo sforzo di Toscano di dare consistenza concreta all’autore, di capirne le molteplici esperienze umane e culturali.

Con il suo Antonio Terminio da Contursi, Toscano, cui va tutta la riconoscenza e gratitudine dell’Amministrazione Comunale e mia personale, consegna alla città di Contursi Terme e alla Comunità scientifica un lavoro che – così com’è nella sorte di tutti gli studi documentati – non costituisce un punto terminale, ma iniziale. Perché apre a possibilità di riflessioni e di nuove investigazioni.

Contursi Terme, da alcuni mesi “nobilitata” col titolo di “Cit-tà” non poteva ricevere regalo migliore.

Felice Pagnani

Assessore alla P.I. del Comune di Contursi Terme

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Prefazione

Era il deserto, con qualche rara e confortevole oasi, come in tutti i deserti.

Queste banali immagini metaforiche vorrebbero rappresentare con icastica sobrietà la situazione generale degli studi sulla tradi-zione lirica del Rinascimento (in volgare e in latino) verso gli anni Settanta dello scorso secolo: per dare in questo modo senso alle solitarie e difficili ricognizioni di chi fosse curioso di muovere verso le sterminate terrae incognitae di pressoché tutti i generi e le forme dell’esperienza letteraria del Classicismo di Antico regime. Quando, insomma, queste stesse categorie profilavano radicali disvalori, confinati al di là di invalicabili muri di Berlino: luoghi di una lunga e vergognosa infamia, nella lunga durata della “deca-denza” e “servitù italiana” e nell’evasività formalistica e servile delle sue pratiche di scrittura. Direi, anzi, che proprio la poesia lirica, rispetto agli altri generi della letteratura classicistica, conti-nuava a essere il luogo di massima negatività: il Petrarchismo come “malattia” endemica del letterato italiano (e, prima ancora, il “secolo senza poesia”: tutto il Quattrocento), per la persistenza, o meglio per la deriva inerziale, di un antico paradigma storiogra-fico (ma politico ed etico: per edificare l’identità nazionale del nuovo Stato unitario) che continuava a connotare soltanto le ope-re degli scrittori (e in prima fila i poeti), e non più – da tempo, anche per effetto di una platea di studiosi ormai internazionale – degli artisti.

Ebbene, il primo dato che connota in profondità e nel tempo la ricerca di Tobia R. Toscano è di avere scelto già allora di av-venturarsi in quelle terrae incognitae, di farsi esploratore ardito e caparbio, senza mai accontentarsi di replicare canoni tanto facili

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quanto impropri, a esempio scegliendo come obiettivo dei suoi viaggi, come tanti altri hanno continuato a fare, il liso velluto di quei tre o quattro poeti lirici autori di piccoli libri di rime. Ha in-vece voluto, e da subito, scegliere percorsi diversi e prima ancora ha saputo sottoporre a rigorosa verifica ogni dettaglio del paesag-gio in cui si muoveva, sia testuale che documentario. Potrà sembrare oggi irrilevante (e direi: per fortuna, in quanto è il segno più eloquente di quanto siano mutati i tempi e di come quelle ter-rae siano ormai parte integrante e fortemente connotativa della geografia e storia della letteratura italiana), ma allora non lo era affatto. Ma c’è un dato in più da sottolineare nelle scelte di campo di Toscano: ha voluto insediare le sue ricerche nel territorio più colpito dal naufragio universale, suo vistoso emblema iper-negativo: quello napoletano, che della “decadenza” nazionale è stato per tanto tempo il buco nero per eccellenza, perché spagno-lo prima e borbonico poi.

Credo di poter proporre queste considerazioni in quanto sono stato testimone diretto, e senior, di quella congiuntura ormai re-mota e superata: e non solo perché ho compiuto un’esperienza di ricerca per tanti aspetti solidale con quella di Toscano, ma soprat-tutto perché anche la mia è stata originariamente radicata nel ventre di Napoli spagnola (e queste sono radici che non si dimen-ticano). Anche per questi motivi estrinseci sono davvero molto lieto di poter testimoniare che dai tanti prodotti disseminati da Toscano nel suo percorso di ricerca non soltanto si evidenzia quanto la sua scelta di campo sia stata felice, in particolare rile-vando come, strada facendo, abbia dovuto e saputo forgiarsi (per sopperire a una formazione – la sua come la mia – ancora d’impianto “storicistico”: tanto più obbligata per uno studioso formatosi a Napoli) gli strumenti elementari per tentare di mette-re ordine e dare senso a una serie di oggetti culturali che, solo a riconoscerli nel loro esistere, prima ancora di inventariarli e clas-sificarli, rivelavano proporzioni imponenti, per quantità e qualità; e quindi per rilevare come Toscano abbia dovuto e saputo fare i

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conti con lo spietato paradigma della “decadenza” italiana (la no-stra favola identitaria: triste e paranoica). Strumenti complessi, però, quelli che sono stati necessari per le ricognizioni nei territo-ri della tradizione lirica cinquecentesca: non solo d’ordine meramente filologico (da soli, in questo scivoloso campo, hanno portato a qualche curiosa disavventura), ma anche di forte atten-zione ai dati storici e culturali, istituzionali e culturali; in quel rapporto biunivoco tra filologia e critica che sembra purtroppo essere stato più uno slogan che una pratica nella seconda metà del Novecento, anche perché si è dimostrato incapace di misurarsi con quanto intanto avveniva nei campi (tumultuosamente inno-vativi) della ricerca storiografica, dei suoi nuovi territori e metodi, forgiati anche sul campo dell’Antico regime.

Credo di poter assumere la parte del testimone diretto anche per un’altra ragione: perché con Toscano posso condividere la soddisfazione di aver visto crescere nel corso del tempo il nume-ro dei compagni d’avventura, oggi folta e qualificatissima schiera, giovanilmente spavalda. Se e quanto possiamo avere contribuito (noi due, con altri sodali: ammalati – ora sì – di petrarchismo) a far crescere non è certo osservazione che tocchi a me, o a noi, fa-re. Questa soddisfazione sa, e deve, restare discreta.

Benedetto Di Falco, Vittoria Colonna, Alfonso d’Avalos, Luigi Tansillo, Bernardino Martirano, Diego Sandoval di Castro, Gale-azzo di Tarsia, Isabella di Morra, e ora Antonio Terminio: tanto per restare ai contributi più organici e incisivi prodotti da Tosca-no nell’arco di questa sua lunga attività di studioso (peraltro attento anche ad altri temi e situazioni di grande rilievo nelle vi-cende della nostra tradizione letteraria e culturale), che hanno portato a diverse edizioni critiche delle opere poetiche di questi autori e a progettarne di nuove. Basta scorrere la sequenza dei nomi per rendersi conto che, grazie agli studi di Toscano, si tratta di fantasmi finalmente usciti dalle ombre di una melassa critica e

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filologica per recuperare in primo luogo la piena proprietà dei lo-ro corpi testuali (sepolta e incrostata da leggende e manomissioni talvolta grottesche), e quindi per vedere finalmente riconosciuto il senso del loro operare letterario e culturale, in una trama di rela-zioni che è la forma profonda, poi, di quelle società e della sua cultura geneticamente conversativa (anche tramite lo scambio di un sonetto). Senza peraltro mai dimenticare la necessaria rico-struzione del contesto, tra corti e accademie, tra capitale e sterminate provincie del Regno, e in particolare l’indispensabile raccordo con i modi di produzione del libro di rime, tra circola-zione manoscritta e produzione tipografica.

Dall’insieme del lavoro di Toscano, e ora da questo studio su Antonio Terminio, l’esperienza della scrittura petrarchistica, nei suoi fattori di lingua (volgare e latina) e di forma, acquista in-somma lo spessore storico che è propriamente suo: in quanto strumento primario (lingua e grammatica, forma e funzione: per le pratiche relazionali e di conversazione) di quel processo di ac-culturazione che connota la tipologia classicistica di Antico regime, in quanto acquisizione di un habitus etico ed estetico e della gamma articolata di competenze che richiede (tutte belle e buone): di quanto, cioè, rende conformi per “seconda natura” i nuovi soggetti della cultura, per metamorfosi dell’antico cavaliere guerriero feudale (e nelle strutture istituzionali del Regno questo assume una peculiarità ancora più forte). Il petrarchismo, o me-glio il saper scrivere e comprendere un sonetto, è tutto qui, e questo basta a spiegare le ragioni per cui tutti sanno scrivere, o pretendono di saperlo fare: per condiviso riscontro (socializzato: in accademia o in un libro di rime di diversi autori, come quello che Terminio concorre a realizzare) d’impiego di un codice co-municativo che è in primo luogo linguistico e formale, cioè sovraconnotato, ma che intende funzionare come impronta iden-titaria del soggetto che, tramite la scrittura e lo scambio di versi, dimostra la sua appartenenza a una società di conformi per valori

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che sono, al tempo stesso, estetici ed etici. Una tipologia cultura-le, insomma, in termini propriamente semio-antropologici.

Con un fattore, in più, profondamente distintivo dell’esperienza napoletana: nei suoi lavori Toscano ricostruisce la rete delle relazioni nazionali e internazionali che si compiono at-traverso lo strumento lirico (volgare e latino): i suoi oggetti e i suoi soggetti. Verso Venezia, capitale del libro tipografico, verso la Spagna, verso Roma, verso Firenze, eccetera. Una dinamica re-lazionale mai al margine della grande Storia: per riscrivere, anche così, senza furori ideologici, la storia di Napoli (e d’Italia) nell’età del dominio spagnolo.

Questo libro su Antonio Terminio mi sembra particolarmente importante non solo per i risultati documentari, filologici e critici che prospetta, ma anche e soprattutto per le prospettive che apre. Mi limito a indicarne solo due.

La prima riguarda quel rapporto persistente nella tradizione classicistica tra la scrittura di testo poetico in volgare e quella di testo poetico in latino. È un segmento che resta ancora del tutto marginale nelle pratiche dei nostri studi, e non tanto perché lo statuto di questi testi sia sempre più d’impervio accesso: ma per-ché, ai nostri trasandati occhi, ogni scrittura in latino sembra mettersi di per sé fuori dai processi della modernità, che per con-solidato assioma parla, deve parlare, necessariamente nei nuovi volgari; e quindi perché le sue diffuse pratiche sono troppo legate alle pratiche formative della ratio studiorum che governa planeta-riamente i collegi per nobili dei gesuiti (e qui torna a farsi sentire l’efficacia inerziale dell’antico paradigma storiografico). Eppure, anche Terminio ci dimostra come per tante generazioni di lettera-ti e di gentiluomini letterati, il dispiegarsi della competenza attiva alla scrittura si realizzasse tramite una vera e propria partita dop-pia, in interscambio funzionale e produttivo geneticamente

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predeterminato. La poesia latina non finisce, insomma, con le prime generazioni di umanisti, da Petrarca a Pontano, ma persiste nella lunga durata della tipologia culturale classicistica nell’Italia e nell’Europa di Antico regime. Ed è per secoli palestra di senso e di identità: nella res publica litteraria. Ma sarà difficile, tra noi, trova-re qualche giovane che voglia seguire, e integrare e correggere, nel caso, il percorso tracciato dagli esemplari studi di Jozef Ijsewijn, Marc Fumaroli, Pierre Laurens, Françoise Waquet.

La seconda prospettiva riguarda proprio la personalità di An-tonio Terminio: ancora un giovane di brillanti qualità che intraprende una carriera di relazione e servizio presso famiglie nobiliari. Come Luca Contile, come Bernardo Tasso, come tanti altri, per non dire dei suoi coetanei napoletani. E spicca, nella sua biografia, il rapporto con Ferrante Carafa, un gentiluomo lettera-to che incontrai per la prima volta una quarantina di anni fa, restandone folgorato: sono insieme, a esempio, nell’edizione ge-novese delle Rime spirituali del Marchese di San Lucido, del 1559. Questa prospettiva ha maggiori possibilità dell’altra di avere un qualche futuro, e proprio grazie all’intraprendenza culturale e scientifica di Tobia R. Toscano: guardando al futuro, mi piace-rebbe che potesse avviarsi un’iniziativa mirata a restituire la parte che fu loro ai tanti baroni poeti petrarchisti, e non solo nel Regno di Napoli: e ai loro famigliari in servizio. Il barone petrarchista, insomma: a partire da Carafa e da Terminio.

Buon lavoro a tutti, dunque, e in primo luogo a Tobia R. To-scano.

Amedeo Quondam Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

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Premessa

Nel settembre del 2008 ho trascorso alcuni giorni a Contursi Terme, per svolgere, su invito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e del Comune, un seminario per la Scuola estiva di alta formazione sulla figura e sull’opera di Antonio Terminio, umani-sta e poeta del Cinquecento, che in quelle contrade era nato e vi aveva probabilmente ricevuto una prima e non banale educazione alle lettere latine e volgari. Di lui mi ero occupato a più riprese negli anni precedenti, prima assegnando una tesi di laurea nell’Università di Napoli “Federico II”, che ha rimesso insieme il grosso della sua produzione sparsa in vari rivoli1, quindi propo-nendo una valutazione complessiva della sua opera nel contesto del petrarchismo napoletano in particolare2 e delle strategie edito-riali più generali legate al complesso fenomento di pionieristica letteratura di massa veicolata dalle antologie poetiche mediocin-quecentesche3. Le lezioni furono seguite con comprensibile simpatia da parte di studenti e appassionati cultori di storia locale

1 Giulia Della Pietra, La produzione poetica in latino e in volgare di Antonio Terminio

letterato meridionale del XVI secolo, Tesi di laurea in Letteratura italiana, Univer-sità di Napoli “Federico II”, anno accademico 1995-96, relatore T. R. Toscano. La parte più meritoria di questo lavoro rimane la traduzione in ita-liano dei Carmina, sulla quale, come spesso accade, studente e docente si integrano. Mi è occorso in anni successivi di verificare come questa traduzio-ne sia stata utilizzata da altri (compresi i punti lacunosi e qualche omissione di parole) senza che mai fosse citata la fonte.

2 Tobia R. Toscano, Un canzoniere in transito: il “libro” di Antonio Terminio dalla giolitina dei “signori napolitani” del 1556 al Secondo volume delle Rime scelte del 1563, in Toscano 2004, pp. 147-88, riprodotto nel presente lavoro con am-pliamenti e con l’aggiunta dell’Appendice

3 Tobia R. Toscano, Dal petrarchismo ai petrarchisti, in Le forme della poesia 2006, vol. I, pp. 139-156.

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e per l’occasione mi fu avanzata dal Sindaco, Giacomo Rosa, e dall’assessore alla Pubblica istruzione, Felice Pagnani, la proposta di allestire una monografia da pubblicare in forma autonoma a cura del Comune di Contursi Terme. Ho accolto con piacere l’invito, incentivato anche dalla vista dei luoghi che furono cari al poeta.

Non sempre accade, tornando nelle piccole patrie di poeti che ci sono diventati cari a motivo dei nostri studi, di ritrovare la forma dei luoghi così come sono stati vagheggiati nei versi. A Contursi Terme, una volta tanto, la Storia sembra essere passata con piede non troppo pesante, conservando una leggibilità del territorio, in tanti punti ancora descrivibile utilizzando i versi composti da Antonio Terminio oltre quattro secoli e mezzo fa. Leggendo una sua lunga elegia in distici latini, ero rimasto colpito dalla descrizione molto idilliaca della casa di campagna che si tro-vava ai margini del fondo rustico, con la rievocazione delle opere e dei giorni del padre agricoltore e della famiglia del poeta. Avevo dovuto far ricorso all’erudizione locale4 per mettere a fuoco qual-che toponimo che in nessun iperspecializzato dizionario latino avrei mai potuto rinvenire. Terminio rievocava i Cuponi pomaria come se fossero stati gli Orti delle Esperidi e nel mio breve sog-giorno mi feci condurre da Felice Pagnani nella località detta appunto Cupone. Può capitare agli studiosi di compiere questi laici pellegrinaggi in traccia degli autori studiati. Memorabile, e al di sopra di ogni paragone, rimane il viaggio a Valsinni, rievocato con insolita commozione da Benedetto Croce, l’orrida contrada donde, sempre nel Cinquecento, si era alzato il grido presto sof-focato di Isabella di Morra. La possibilità di rivedere i luoghi cantati dalla poetessa, pur non compensata dal ritrovamento di nuovi documenti, ispirò al grande storico alcune delle sue pagine

4 Per l’occasione ebbi modo di contattare Franco Pignata, il cui volume sui to-

ponimi mi è stato di grande utilità (cfr. Pignata 2000).

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più intense e tali da determinare una fortuna critica ancora oggi molto vitale. Migliore sorte è toccata alla mia più modesta recher-che. Nel tardo pomeriggio settembrino dell’anno passato il Cupone si offrì agli occhi e all’udito con i suoi colori e le sue vo-ci. Nessuna traccia di presenza umana, tranne qualche rustico bar-barbecue utilizzato da gitanti domenicali. Nessuna casa abitata per molti metri nei dintorni. Solo la voce del Sele (il Sìlaro dei greci, dei latini e di Terminio) nel punto in cui si fa più robusta per l’incontro poche decine di metri più a valle con il Tanagro, detto in antico Nero e anche oggi nella denominazione dialettale, qual-che canto di uccello e un frullo di ali di colombaccio d’improvviso alzatosi in volo, impennata sonora sul basso conti-nuo alimentato dalla corrente del fiume e dal brusio delle foglie. Spettacolo non diverso da quello apparso al fanciullo Terminio, tranne, paradossalmente, l’assenza del canto del contadino, ché allora erano terre coltivate, ora si offrono allo sguardo come pia-na distesa di verde intenso. Il deus loci ha ripreso il suo incontrastato dominio rinvigorito dall’apporto del Tanagro, che Terminio aveva trasfigurato con gusto tutto alessandrino e neote-rico nelle mitologiche nozze tra il possente pater Silarus e la più selvatica ninfa Nigra dalle chiome scarmigliate. La vista dei luoghi mi chiarì il punto per me più oscuro della lunga elegia in cui viene rievocata la Contursia tellus:

Non alter Silaro clarior e fluviis […]. A tergo, haud procul hinc, Boreas qua nubila pellit, Exserit Hirpino monte caput vitreum, Ast in conspectu nostrique in limite campi, Cum Nigra iungit foedera chara sua Olim sylvicolae nutrita in valle Dianae Oderat oblatos Nympha parente toros (vv. 50, 53-58)5.

5 «Tra i fiumi non ve n’è altro più famoso del Sìlaro […]. Alle spalle, non lon-

tano da qui, nel massiccio Irpino, là dove Borea allontana le nubi, Sìlaro mette fuori la sorgente cristallina; di fronte, invece, sul confine del nostro

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Il piccolo mistero era così svelato: la famiglia Terminio col-tivava i suoi campi in località Cupone e dalla casa rustica, in cui soggiornava durante i periodi di lavoro, da un lato poteva guardare la città a mezza costa e dall’altro, affacciandosi alle finestre, contemplare lo spettacolo di natura offerto dall’affluire delle acque del Tanagro nel più ampio Sele. La vi-sione, sedimentata nella memoria, si sarebbe poi caricata di suggestioni letterarie, dettando al giovane Terminio versi fra i più commossi che si possano leggere nella folta produzione di poesia latina del Cinquecento. Ho perciò ritenuto che valesse la pena riproporre insieme allo studio anche il testo e la tradu-zione della sua lunga elegia a Matteo Montenero in cui sono rievocati la terra natia e gli affetti familiari.

Le pagine che seguono ripercorrono la non lunga, ma ope-rosa, vita di Antonio Terminio, che visse, se i miei calcoli non sono errati, tra il 1528/29 e il 1563/64. La morte lo colse pro-babilmente non giunto ancora al mezzo di sua vita, ma non lo trovò neghittoso. Si era guadagnato, nonostante i modesti na-tali, il suo piccolo spazio fra gli aristocratici cultori di poesia del suo tempo senza mai recidere il legame con la famiglia e la patria lontana. Dopo secoli di oblio quasi totale non si può che essere lieti di contribuire, insieme all’Amministrazione Comunale di Contursi Terme, al recupero di una voce che del-la carità del natìo loco fece tema prediletto della sua poesia.

Università di Napoli “Federico II”, maggio 2009

fondo stringe i suoi nodi affettuosi con Negra. La ninfa, un tempo allevata nel Vallo di Diana abitatrice di selve, aveva rifiutato le nozze proposte dal padre».

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1. Preliminari bio-bibliografici

1.1. La produzione poetica di Antonio Terminio, rimatore in vol-gare e autore di versi in latino del medio Cinquecento, nonché curatore di una raccolta di stanze per conto dell’editore Giolito di Venezia, non sembra aver riscosso altre cure al di fuori delle po-che pagine messe insieme con la maestria solita da Benedetto Croce e di qualche accenno di Amedeo Quondam (1991, p. 189), che più di recente ha rilevato il primato numerico dei suoi com-ponimenti (73) nel contesto delle Rime di diversi signori napolitani e d’altri stampato da Giolito nel 1556.

Oltre alle sue accertate peregrinazioni per la penisola, che lo videro muovere dalla natìa Contursi6 a Napoli, e da Napoli a Ge-nova e a Venezia e quindi di nuovo a Genova, dove morì in un anno non precisabile7, l’unico punto fermo sembra essere quello della nascita, posta da Croce nel 1525 sulla base di alcuni docu-menti di archivio. Nel frattempo non sono stati scoperti nuovi documenti, sebbene non siano mancati altri studiosi, soprattutto in ambiti più localistici, che hanno dedicato la loro attenzione a Terminio.

Le pagine che seguono muovono pertanto anche dall’esigenza di contribuire, attraverso la lettura diretta delle opere, a mettere «insieme una buona volta un repertorio di nomi e dati biografici e

6 Benché nativo di Contursi, ora in provincia di Salerno, nel Cinquecento terri-

torio di Principato Citra (Lucania), napoletano può dirsi per formazione letteraria e per relazioni culturali.

7 Croce 1953, p. 370: «L’anno della sua morte non ci è noto, ma par certo che morisse prima del 1570». Le schede dell’OPAC del S. B. N. indicano come anno di morte il 1580

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bibliografici degli scrittori, specialmente dei minori e minimi (compiendo in forma più succinta e pratica quello che il Mazzu-chelli iniziò nel settecento)»8. Tale esigenza si è fatta sempre più avvertita negli ultimi decenni, dopo gli studi pionieristici di Quondam sulla “forma antologia”, come provano alcuni puntuali e documentati contributi, confluiti nel fondamentale volume sul Libro di poesia dal copista al tipografo (curato da M. Santagata e A. Quondam, Modena, Panini, 1989), suggellati, ad apertura di seco-lo, dall’agguerrita raccolta di saggi sulle antologie del Cinquecento a cura di M. Bianco ed E. Strada (2001)9.

1.2. Il breve, ma ancora fondamentale, contributo di Benedetto Croce su Antonio Terminio, rimane a tanti anni di distanza ne-cessario punto di partenza, perché anche gli eruditi locali, che dopo di lui sono tornati sull’argomento, non solo non hanno ap-portato nuove notizie, ma spesso hanno aggiunto elementi di confusione. Il saggio di Croce è di poche pagine appena, ma co-stituisce una conferma ulteriore della sua grande capacità di tracciare con stile insuperabile e con mano sicura dei preziosi profili, che, anche quando si possono arricchire, rimangono so-stanzialmente validi.

In primo luogo Croce si preoccupò di stabilire l’anno di nasci-ta di Antonio Terminio. Egli aveva rinvenuto nell’Archivio di Stato di Napoli vari documenti relativi ai Fuochi di Contursi per i censimenti svolti negli anni 1533 e 1545. In entrambi i censimenti egli trovava riportati vari nuclei familiari indicati come “di Ter-mine”. Da ciò desumeva che il Nostro non aveva fatto altro, seguendo in ciò il costume diffuso tra gli umanisti, che latinizzare

8 Croce 1953, p. 368. 9 A questi due ultimi volumi si rinvia anche per il ricco corredo bibliografico.

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il suo cognome, sottoscrivendo le sue opere latine come Terminius e quelle in volgare come Terminio10.

Nel censimento del 1545, inoltre, trovava citati due giovani di diverse famiglie “di Termine”, entrambi di nome Marcantonio: uno, figlio di Alessandro, che nel 1545 era ventenne (e pertanto nato nel 1525); l’altro, figlio di Paolo, diciannovenne (nato quindi nel 1526). Croce ne concludeva che «l’uno o l’altro dei quali po-trebbe, a stretto rigore, essere il nostro, nel qual caso egli sarebbe nato circa il 1525, se pure la sua famiglia non si era trasferita a Napoli, e perciò non fu mentovata nel censimento»11. Quest’ultima affermazione, circa il possibile trasferimento a Na-poli dell’intera famiglia, verrebbe a destituire di ogni fondamento i documenti di archivio citati appena prima. Se invece è attendibi-le la fonte documentale, rimane un piccolo problema circa l’esatto nome di Terminio, che presso gli studiosi oscilla costan-temente tra Antonio e Marc’Antonio. Croce sceglie senz’altro la prima forma, che è quella attestata sul frontespizio dell’edizione dei carmi latini del 1554, mentre altri scelgono la forma Marc’Antonio, senza dare alcuna spiegazione della scelta12.

La questione è indubbiamente di poca importanza, anche se l’oscillazione della forma del nome diede origine all’equivoco dell’esistenza di due diversi letterati. Nicolò Toppi infatti, nella

10 In verità l’alternanza Terminio/di Termine è attestata in altri documenti cin-

quecenteschi: cfr. Pignata 2000, ad indicem. Proprio per gli anni di infanzia del poeta è attestata nel territorio di Contursi la presenza di un Antonello De Termine, “maestro de scola”, che nel 1532 dichiarava di essere «profexo in la arte gramaticale da più di 9 anni et che have tenuta scola in publico per molti lochi de la Provincia de Citra»: documento citato da Borzellino 1976, p. 29, che a p. 33 pubblica una lista di notai contursani, fra i quali compare per atti rogati nel 1566 un Giovanni Di Termine.

11 Croce 1953, p. 368. 12 Cfr. tra gli ultimi Grisi 1996, p. 129.

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sua Biblioteca napoletana, lo registrò due volte: sotto la forma Anto-nio Terminio gli attribuisce Un discorso della miseria humana e della vera felicità, col sommario della Vita di Giesù Christo (senza luogo e anno di stampa) e l’Apologia di tre Seggi illustri di Napoli, della quale vengo-no ricordate sia la prima edizione (Venezia 1581) che la seconda (Napoli 1633). Sotto la forma Marco Antonio Terminio si ricordano le Rime «nella scelta di diversi signori napolitani, appresso Giolita [sic] 1556 Venezia» e di nuovo un’edizione dell’Apologia di tre Seggi datata Venezia 159313. Nello stesso equivoco sarebbe incorso, se-guendo Toppi, Giusto Fontanini14, fino a quando la questione non fu risolta da Tafuri, che ricostruì un profilo molto elogiativo di Terminio, spingendosi a dire «che produsse molti componi-menti nell’uno e nell’altro idioma, che il recarono al sommo della stima universale ed il posero tra i più chiari letterati del secolo»15.

Superato da Tafuri il problema dello sdoppiamento di perso-na, rimane, dopo il saggio di Croce, l’oscillazione nella scelta tra le due forme del nome. Ha adottato la forma Marcantonio Stefano Carrai, che nel 1990 (p. 172) ha riproposto un sonetto di Termi-nio (Sonno, che al mio pensier tu rappresenti) nel contesto di un’antologia dedicata alla tematica dell’invocazione al Sonno. In-dubbiamente bisognerebbe adottare la forma che si trova registrata sui frontespizi o all’interno delle opere stampate mentre l’autore era ancora in vita, e da queste appare, come si evince dal catalogo più avanti ricostruito, che il nome sia Antonio e che l’abbreviazione M. che talora lo precede stia per M(esser) e non per M(arco).

Ritornando ora a Croce, si può dire che l’ipotesi di un trasfe-rimento a Napoli della famiglia del poeta non sembra plausibile,

13 Toppi 1678, rispettivamente alle pp. 32 e 204. 14 Fontanini 1737, pp. 388 e 590. 15 Tafuri 1744-1770, t. III, p. II, p. 77.

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per testimonianza dello stesso Terminio, che in una lunga com-posizione latina scritta a Napoli e dedicata a Matteo Montenero, tessendo l’elogio della natìa Contursi, ricorda con affetto e com-mozione la famiglia rimasta al paese, immaginando che serbi memoria di lui. Innanzitutto viene ricordato il padre anziano che, come un vecchio patriarca, non ha mai abbandonato la semplicità della vita agreste, ripetendo ogni anno i lavori campestri che assi-curano il raccolto e una discreta prosperità:

Quam tranquilla meus genitor nunc ocia ducit? (Di servent) qua nunc laetitia fruitur? Quem luxu procul urbano ambitione carentem Vesana tacitum villula dulcis alit, E tot susceptum tantisque laboribus aevum Iam gravis optato perficit ipse loco, Nunquam Cuponi pomaria amata relinquens; Sive abeant noctis lumina, seu redeant16.

Questa elegia Ad M. Montenigrum ianuensem è molto importante

come documento biografico, perché non solo conferma che la famiglia del poeta rimanesse a Contursi, ma ci informa anche sul-la composizione del nucleo familiare. Apprendiamo così che Terminio aveva un unico fratello maschio di nome Giuseppe, an-cora in tenera età, al quale il padre racconta gli episodi della Sacra Scrittura e le favole dei poeti:

Interdum praecepta aperit sanctissima Vatum Fratri, parvus adhuc qui mihi et unus adest: Quo pacto ad Nili iuvenis pulcherrimus ille, Nomine cui par est, venerit imperium (vv. 223-226),

16 Antonii Terminii [....] Carmina 1554: Ad M. Montenigrum ianuensem, vv. 185-

192 (la traduzione integrale della lunga elegia si può leggere in Appendice).

10

mentre più avanti si legge il ricordo di due sorelle di nome Camil-la e Deianira (vv. 245 e sgg.) e infine la famiglia riunita al completo che ricorda il giovane Antonio lontano:

Tum de me forsan longo sermone requirunt, Ut vivam? quid amem? quid faciam? ut valeam? An nunc quinque mihi peragantur lustra? feruntque Aetatis memores tempora prima meae. Et sic iucundos concordi pectore somnos Accipiunt claros praetereuntque dies. (vv. 255-260).

I Carmina di Antonio Terminio furono stampati nel 1554 e il

poeta dice che in quel momento (nunc) era arrivato al venticinque-simo anno di vita (quinque peragantur lustra). A questo punto la data di nascita non dovrebbe essere più il 1525 bensì il 1529 (o il 1528), a meno che non si voglia ritenere che il poeta avesse com-posto questi versi intorno al 1550 e li avesse stampati qualche anno dopo. Per concludere provvisoriamente sul contributo di Croce, si osserverà che qualche imprecisione può essere corretta alla luce della lettura diretta delle rime e dei Carmina, anche se le sue pagine rimangono un capitolo insostituibile nella breve storia della fortuna critica di Terminio.

1.3. Il primo sonetto a stampa di Terminio è un encomio di Laura Terracina che si legge nel Discorso sopra tutti li primi canti d’Orlando Furioso fatti [!] per la signora Laura Terracina (Venezia, Giolito, 1550, c. 80r-v), il cui ternario finale ci assicura che anch’egli, parteci-pando al nutrito coro dei laudatores, non si sa se più convinti estimatori dei versi o delle fattezze della poetessa, si sforzò di colpire insieme il cerchio e la botte:

O di natura altero mostro adorno vidersi tante mai, da Battro a Thile, gratie congiunte in feminil soggiorno?

11

L’assenza di tale sonetto nella prima edizione di quest’opera

(1549) può essere un indizio che Terminio fosse arrivato a Napoli proprio nei mesi a cavallo tra il 1549 e il 1550, guadagnandosi di lì a due anni onorata menzione nella Lettura […] sopra un sonetto dell’illustriss. signor marchese Della Terza alla divina signora Marchesa del Vasto (In Venetia per Giovan Griffio, 1552, c. 63v) di Girolamo Ruscelli, che, lodando la città di Napoli e i suoi molti nobili, cava-lieri e letterati, ricorda Antonio Terminio in una schiera di «gentilissimi e virtuosissimi» che costituiscono l’ornamento della città per la loro abilità poetica. Nel corso del Cinquecento altre notizie si possono ricavare solo dalle opere in cui compaiono suoi versi. Nel secolo successivo si occupò di Terminio Bartolomeo Chioccarelli (1575-1647), la cui opera però venne stampata par-zialmente solo nel 1780, così che né Toppi, né Tafuri ne ebbero conoscenza. La lettura delle pagine di Chioccarelli dedicate a Terminio conferma infatti che l’erudito seicentesco rimane una fonte importante, utilizzata dagli studiosi successivi (ma non da Croce), che ne hanno ripreso anche qualche errore di attribuzio-ne.

Chioccarelli offre innanzitutto delle precise coordinate tipo-grafiche per individuare il Discorso della miseria humana e della vera felicità, col sommario della Vita di Giesù Christo, che Toppi dice privo di note tipografiche, seguìto in ciò da Tafuri, che addirittura ne fa tre opuscoli distinti con il titolo Della miseria umana, Della vera felici-tà e Sommario della vita di Giesù Cristo, aggiungendo:

Questi tre opuscoli si trovano stampati in quarto, ma senza l’espressione dell’anno, né dell’Impressore, e del luogo dove furono stampati17.

17 Tafuri 1744-1770, t. III, p. II, p. 77.

12

Croce (1953, p. 370) riprende la notizia da Tafuri, trasforman-do il tutto in «un volume, stampato senza luogo né anno, contenente tre opuscoli morali e religiosi». Chioccarelli (1780, p. 70), invece, aveva correttamente indicato gli estremi bibliografici per l’individuazione dell’opera in questione, citandola come Di-scursum de miseria humana [...] dedicato ad «Dominum Franciscum Lercarum regiorum Sigillorum ac Cancellariae Neapolitani Regni Conservatorem, excusum Ianuae anno 1559, apud Antonium Bel-lonem in 4, post librum Ritmorum Spirit(ualium) Ferdinandi Carrafae Sancti Luciti Marchionis».

Paradossalmente hanno ragione sia quelli che ne parlano come opera priva di note tipografiche, sia Chioccarelli che la dice stam-pata a Genova dal Bellone nel 1559. Innanzitutto, grazie a Chioccarelli, si sa dove cercare questo scritto di Terminio: egli di-ce infatti che fu stampato in appendice a un’opera di versi spirituali (post librum Ritmorum Spiritualium) di Ferrante Carafa, marchese di San Lucido:

De l’illustrissimo signor Ferrante Carafa marchese di Santo Lucido le Rime spirituali della vera gloria humana in libri quattro et in altrettanti della divina. Impresse nella inclita città di Genova appò Antonio Belloni, nel mese di Giugnio [sic], l’anno M. D. LIX.

Terminio, ormai trasferitosi a Genova, può essere considerato

il curatore di questa edizione, perché egli vi premette, come una sorta di prefazione, due suoi componimenti, un sonetto in argo-mento di tutta l’opra e una canzone all’autore. Alla fine di quest’opera, dopo l’indice, si trovano 6 carte non numerate, con il seguente titolo:

Al molto magnifico e generoso signor Franco Lercaro conservador dei Regii Si-gilli et Cancellaria del Regno di Napoli. Discorso di Antonio Terminio della Miseria humana e della vera felicità, col sommario della vita di Giesù Cristo O. M.

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La lettura dell’opuscolo, del quale Chioccarelli aveva tradotto in latino sia il titolo che la dedica, conferma che si tratta di uno scritto nel quale Terminio compila un piccolo trattato filosofico-morale, che vuole essere un breve commento ai versi di Carafa. E da qui si rileva che la notizia data da Chioccarelli è esatta. Non si può escludere però che il fascicoletto con lo scritto di Terminio abbia potuto avere anche una diffusione autonoma, e pertanto potrebbe avere ragione anche Toppi che, avendo forse visto solo queste 6 carte, poteva concludere che si trattava di opuscolo sen-za note tipografiche. Non mi è occorso di rinvenire esemplari a sé stanti di questo Discorso, ma la sua natura di “aggiunta” all’opera di Ferrante Carafa pare confermata dalla circostanza che dei due esemplari consultati delle Rime spirituali, uno (Biblioteca Nazionale di Napoli, Bibl. Branc. 79.E.44) è privo delle pagine di Terminio, che invece si possono leggere nell’altro (ivi, Raccolta Villarosa B.118).

Chiarito questo aspetto, rimane l’errata attribuzione ad Anto-nio Terminio di un carme in latino stampato nel 1571. Chioccarelli infatti aggiunge:

Edidit etiam latino Carmine Trophaeum Antonii Granvelae Cardinalis amplissimi Neapolitani Proregis, excus(um) Neapoli 1571 apud Jose-phum Cacchium in 4. Domino Ferdinando Avalo dicatum.

Il vero autore dell’opera è invece Nicola Terminio, come si

può rilevare dal titolo che presenta una forma e un dedicatario (il cardinale Granvelle, all’epoca viceré di Napoli)18 diversi da quelli dati da Chioccarelli:

18 Cfr. Toscano 1996, p. 250.

14

Antonii Granvelae Cardinalis amplissimi Neapolitani Proregis Illustriss. Tro-phoeum à Nicolao Terminio19.

Scarsissime notizie ebbi modo di mettere insieme a proposito

di altra opera di Nicola stampata nel 1551 con il titolo Don Petri Tholetani sceptriferi principis illustriss. Tropheum, una composizione economiastica in lode di don Pedro de Toledo dopo la vittoria di Africa (1551). Di questo opuscolo (32 carte in tutto) esistono due edizioni fra loro differenti. Una integralmente in latino20; l’altra, identica nei duerni A-F, differisce dall’altra perché dopo il duerno F, mentre lì si succedono due duerni segnati G-H con una silloge di versi latini in onore dell’autore, presenta invece due duerni se-gnati A-B con la traduzione in volgare del carme, realizzata dall’autore stesso, donde si rileva che anche Nicola Terminio era di Contursi:

Il trofeo Toletano di N. Terminio di Contorso tradotto in volgare dal mede-smo Autthor in servigio de la Eccellente Signora D. Maria Pimontella sua Padrona osservanda21.

Un rapporto di conoscenza e di parentela tra i due è certificato

dalla presenza, nell’edizione con i versi di encomio, di un breve componimento in cinque distici di Antonio Terminio (c. H4v), che va registrata come la sua prima apparizione in veste di poeta in latino, che fin dall’esordio loda Nicola per aver aggiunto lustro alla comune famiglia:

19 Cfr. per la descrizione Manzi 1974, pp. 54-55. Un carme latino di Nicola

Terminio era nel frattempo uscito nel Tempio della divina signora donna Geronima Colonna d’Aragona (Padova, Lorenzo Pasquati, 1568, c. 21r): cfr. Bianco 2001, p. 178.

20 Biblioteca Nazionale di Napoli, S. Q. XXV.L.363. 21 Biblioteca Nazionale di Napoli, S. Q. XXV.H.20: cfr. Toscano 1992, p. 71.

15

Tu quoque non minimum generi decus addere nostro Quaesisti, ingenuis, macte Poeta, animis.

Chioccarelli non si sofferma molto sulle poesie in volgare di Terminio. Con una rapida annotazione rinvia, prima di conclude-re, alle notizie su Angelo Di Costanzo per il problema dell’attribuzione dell’Apologia, a proposito della quale egli scrive:

Apologia trium Sedilium Neapolitanae Urbis italice pedestri oratione [...] edidit. Et quamvis sub Antonii Terminii nomine prodierit, Angeli tamen huius Constantii opus fuisse nemo est qui ambigat22.

Anche in questo caso Chioccarelli sembra essere stato il primo

ad aver messo a fuoco correttamente la questione, sebbene Croce giungesse poi alle stesse conclusioni, sostenendo che Di Costan-zo si servì del nome dell’amico come «uno schermo», dato il carattere polemico dell’opera23.

Nel frattempo Angelo Borzelli aveva pubblicato una sua mo-nografia su Angelo Di Costanzo e, pur senza citare Chioccarelli, non mostrava dubbi sulla vera paternità dell’Apologia, essendo sufficiente «leggere con cura la dedica [...] per intenderne tutto il trucco e la fretta di darla fuori». Neanche Borzelli si spiegava per-ché Di Costanzo si fosse servito proprio del nome di Terminio «per occultarsi» e a sostegno dell’attribuzione dell’opera propo-neva una testimonianza tratta da un manoscritto di G. B. Bolvito, giurista napoletano del Seicento, in cui si legge:

22 Chioccarelli 1780, p. 42. 23 A tale proposito Croce rinviava il lettore ad altro suo intervento (1927, p.

97).

16

Pro sedilibus Montaneae, Portus et Portanovae extat Apologia do-mini Angeli de Constantio, sub nomine tamen Antonij Terminij impressa 158124.

A proposito di Terminio poi Borzelli aggiungeva che «dopo

del 1563 di lui si perdono le tracce, perché di Genova (ove s’era ridotto) non lo trovo in relazione con nessuno, e genovesi in Na-poli erano molti e Franco Lercaro, proprio lui, vi aveva casa ed amicizie»25.

Dopo Chioccarelli, che scriveva nel Seicento, sebbene la sua opera sarebbe stata stampata solo nel 1780, bisognerà attendere il già ricordato Tafuri per avere un’altra ricostruzione del profilo bio-bibliografico di Terminio. A lui va riconosciuto il merito di aver risolto l’equivoco creato da Toppi dei due Terminio (Anto-nio e Marc’Antonio) e di aver tentato un profilo anche del lette-rato. Oltre alle opere già ricordate, egli pone in risalto l’attività di poeta in volgare, ricordandone centotrenta sonetti e due stanze nel Secondo volume delle rime scelte di diversi autori (Venezia, Giolito, 1563), aggiungendovi in maniera generica un riferimento ad altri componimenti sparsi in «altre raccolte di questo secolo»26. Tafuri e prima di lui Chioccarelli conoscono entrambi la raccolta a stampa dei Carmina del 1554. Da Tafuri attingerà sostanzialmente Croce e prima di Croce anche Tiraboschi (1779, p. 18), che si li-mita a riportarne i dati in forma sintetica.

24 Borzelli 1921, p. 93. Anche T. Costo, La apologia istorica del Regno di Napoli

(Napoli, G. D. Roncagliolo, 1613, p. 127) rivendica l’opera a Di Costanzo: cfr. Farenga 1991, p. 746.

25 Borzelli 1921, p. 93. 26 Tafuri 1744-1770, t. III, p. II, p. 77.

17

1.4. Prima di Tafuri, Francesco Saverio Quadrio (1742, p. 238) aveva attribuito a Terminio un libro di Rime stampato a Venezia «al segno del Griffio» nel 1547. La notizia, ignorata da Tafuri, fu ripresa da Pèrcopo (1926, p. XXIII, n. 1) nelle sue note al primo volume del Canzoniere di Tansillo:

Le rime di A. TERMINIO napolitano furon pubblicate in Venezia “al segno del Grippo [sic]” nel 1547. Nato a Contursi (Basilicata) verso il ‘25, morì a Genova circa l’’80: è autore, oltre che delle Rime, an-che di poesie latine, a stampa. È sua la nota Apologia dei tre seggi illustri di Napoli e una continuazione degli Annali del Bonfadio.

Su questa edizione delle Rime tornò anche Croce, osservando

che «la stampa notata dal Quadrio [...] non è citata da nessun altro bibliografo, e mi lascia dubbio»27 e che si tratti di un fantasma bi-bliografico appare confermato dal fatto che anche nel repertorio bibliografico sui Libri di poesia curato da Italo Pantani (1996, scheda n. 4922) tale edizione figura ancora, ma sempre in base alla sola notizia riportata da Quadrio. 1.5. Riporto in ordine cronologico l’elenco delle opere di Termi-nio o a lui attribuite, comprendendovi anche quelle di cui è stato soltanto il curatore o vi compare con suoi componimenti: 1550 Laura Terracina, Discorso sopra tutti li primi canti d’Orlando Furioso fatti [!] per la signora Laura Terracina, In Vinetia, appresso Gabriel Giolito De Ferrari, 1550. A c. 80r-v: un sonetto con l’intestazione Del S. Antonio Terminio Contorsino28.

27 Croce 1953, p. 369, nota 5. 28 Tale sonetto non compare nella prima edizione di quest’opera realizzata

sempre da Giolito a Venezia l’anno prima. Il son. sarà ristampato anche nelle

18

1551 Don Petri Tholetani sceptriferi principis illustriss. Inviolabili iusticiae prae-sidis Caesareae Maiestatis observantissimi ac fideliss. Neapolitanoque Regno in regno eximii, circumspectissimique custodis et vicarii Trophoeum a’ N. Terminio (opuscolo in 8° di 32 cc. n. n., cm. 18.5 x 13, senza note tipografiche, ma databile al 1551 perché celebra la vittoria di A-frica e da me attribuito alla tipografia di Giovan Paolo Suga-nappo: cfr. Toscano 1992, p. 71). Cinque distici di Antonio Terminio a c. H4v. 1553 Il sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, nuovamente raccolte et mandate in luce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli […]. In Vinegia al segno del Pozzo, MDLIII. Tre sonetti di Antonio Terminio alle cc. 221v-222, il terzo dei quali dedicato Al s. d. Lonardo Caracciolo, conte di s. Angelo. 1554 Antonii Terminii Contursini Lucani, Iunii Albini Terminii senio-ris, Molsae Bernardini Rotae, equitis neapolitani, et aliorum illustrium poetarum Carmina, Venetiis apud Gabrielem Iulitum de Ferrariis et fratres MDLIV. I versi di Antonio Terminio si leggono alle cc. 3-16 e 66v-7629.

edizioni successive, che, a partire dal 1551, presentano il titolo leggermente mutato: Discorso sopra il principio di tutti i canti d’Orlando Furioso. Fatto per la s. Laura Terracina: detta nell’Academia degl’Incogniti Febea. Di nuouo con diligenza ri-stampato et ricorretto […].

29 Bongi 1890-95, vol. I, pp. 425-426, definisce l’opera come il «libretto forse il più raro di tutti quelli di poesie latine d’autori moderni, editi dal Dolce colle stampe del Giolito».

19

1555 Del Tempio alla divina signora donna Giovanna d’Aragona, fabricato da tutti i più gentili spiriti, et in tutte le lingue principali del mondo. Prima par-te [...], In Venetia, per Plinio Pietrasanta, M.D.LV. Un sonetto di Terminio a p. 170. 1556 Rime di diversi signori napolitani e d’altri nuovamente raccolte et impresse. Libro settimo. Con privilegio. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLVI. I versi di Terminio si leggono alle pagg. 26-52 (53 sonetti) e alle pagg. 202-224 (19 sonetti e 1 serie di ottave)30. 1558 Le Seste Rime Della Signora Laura Terraccina [sic] di Napoli nuoua-mente stampate, [ritratto della Terracina], in Lucca appresso Vincenzo Busdrago, M D L VIII. A p. 160 un sonetto di Antonio Terminio 1559 De l’illustrissimo signor Ferrante Carafa marchese di Santo Lucido le Ri-me spirituali della vera gloria humana in libri quattro: et in altrettanto della divina, Impresse nella inclita città di Genova appò Antonio Belloni nel mese di Giugnio [sic], l’anno M.D.LIX. Terminio vi premette un sonetto in argomento di tutta l’opra e una canzone all’autore. [in fine, dopo l’indice:] Al molto magnifico e generoso signor Franco Ler-caro conservador dei regii Sigilli et Cancellaria del Regno di Napoli. Discorso di Antonio Terminio della Miseria humana e della vera felicità, col som-mario della vita di Giesù Cristo O. M.

30 Cerrón Puga 1999, p. 275, conta 65 sonetti e una serie di stanze.

20

1563 La seconda parte delle Stanze di diversi auttori novamente mandata in luce. Alla nobiliss. signora Camilla Imperiale. Con privilegi, In Vinegia, Ap-presso i Gioliti, MDLXIII.

La raccolta, la cui dedica a Camilla Imperiale è datata Venezia 20 giugno 1563, è curata da Terminio, che vi pubblica due serie di stanze rispettivamente di 30 e 20 ottave, stampate di seguito alle pp. 479-94. Nella ristampa del 1580 i versi di Terminio sono alle pp. 485-50031.

1563 Il secondo volume delle rime scelte da diversi eccellenti autori, di nuovo cor-rette, et ristampate. Con Privilegio. In Vinegia appresso Gabriel Gioli-to de’ Ferrari, MDLXIII (con frontespizi con date degli anni successivi). Versi di Terminio alle pp. 7-72 (132 componimenti in tutto: 130 sonetti e 2 strambotti)32. 1581 Apologia di tre Seggi illustri di Napoli di M. Antonio Terminio da Con-torsi [...], In Venetia, Appresso Domenico Farri, MDLXXXI33.

31 A proposito di questa ristampa così Bongi (1890-95, vol. II, p. 374): «Ha la

dedica solita del Terminio editore alla Imperiale, che si legge in tutte le ante-cedenti stampe, a cominciare dalla prima del 1563, di cui è pretta, benché trascuratissima copia. È questa la penultima edizione della raccolta, che per l’ultima volta si produsse nel 1589». Aggiungo che nell’edizione 1589 rimane la dedica di Terminio, ma i suoi versi non sono ristampati. Si cfr. ora anche la ristampa curata da Pagnani 2002.

32 Bongi (1890-95, vol. II, p. 189) rileva che Terminio «di cui vi si legge buon numero di composizioni [...] fosse il vero raccoglitore ed editore del volume stesso».

33 L’opera è stata riprodotta in edizione anastatica con breve nota introduttiva: Pignata 2003. L’opera ebbe nel 1633 una ristampa napoletana (Lazzaro Sco-riggio) con delle integrazioni, recentemente riedita da Pagnani 2003.

21

Dedica, senza data, di Pier Francesco da Tolentino a Vespasiano Gonzaga Colonna, duca di Traetto e di Sabbioneta. Dell’opera esiste, con titolo e attribuzione identici, una “seconda impressione purgata da gli errori” stampata a Napoli da Lazaro Scoriggio nel 1633 e dedicata ad Alessandro Pignone del Carretto da Gio. Antonio Farina, che vi premette un ampio capitolo sulla famiglia del dedicatario, a integrazione della breve notizia che Terminio ne aveva data alle pp. 120-21.

23

2. L’esordio latino: i Carmina nell’edizione giolitina del 1554

2.1. Prima di passare a considerare la produzione in volgare di Terminio, è opportuno ricordare che il suo esordio tipografico è legato alla produzione poetica in latino. Nel 1554 egli stampò presso Giolito a Venezia i suoi Carmina, insieme a vari altri poeti per la maggior parte meridionali, ove si eccettui la presenza di Francesco Maria Molza, morto nel 1544, del quale, nonostante la fama e gli apprezzamenti da cui era stato accompagnato in vita, questa può considerarsi la prima cospicua apparizione a stampa, se non fosse lecito nutrire più di un dubbio sulla autenticità dei versi stampati a suo nome34.

Data la rarità del libro, è utile offrirne la tavola dei contenuti, rilevando che per errore dei tipografi il titolo corrente in alto TERMINII IVNIORIS si ripete fino a c. 32r, sebbene da c. 15v e fino a 32v si leggano i versi di Giunio Albino Terminio seniore. [1r]: frontespizio, [1v]: bianco; 2: dedica di Lodovico Dolce a Matteo Montenero; 3-15v: 20 componimenti di Antonio Terminio, nell’ordine:

Ad illustriss. Leonardum Caraciolum S. Angeli dominum in Hirpinis Egloga, Thurius Elegi ad Cupillam

34 Si tratta di tre componimenti, due epigrammi (De Laur. Medice, inc. “Invisum ferro Laurens dum percutit hostem”; De foedere contra Turcas, inc. “Italiam in-numeris peteret quum Turca carinis”) e una lunga elegia di 198 vv. Caterina Henrico, inc. “Scilicet hoc titulis deerat Rex maxime nostris”), del tutto scono-sciuti alla restante tradizione delle poesie latine del Molza e quindi non compresi nella recente edizione Scorsone-Sodano 1999, in cui tuttavia tale te-stimone non viene censito. Altre presenze di extraregnicoli sono quelle del Tebaldeo e di Celio Calcagnini.

24

De Cupilla De amore suo Ad Cupillam In vetulam Ad Didacum Cardinam equitem ornatissimum Ad eundem Ad Traianum Caraciolum L[eonardi]. F[ilium]. De vafra quadam In quandam petulantem In Fabricii Caracioli L[eonardi]. F[ilii]. funere De Hieronymi Caraphae interitu In Gutterii Cardinae obitu De Romanis et Venetis In Mathonem Ad eundem Ad Annibalem Copulam Ad Ferdinandum Carapham omni dignitate illustrem virum;

15v-32v: 22 componimenti di Giunio Albino Terminio seniore35; 33-36v: 3 componimenti di Francesco Maria Molza; 36v-37r: 1 componimento di Celio Calcagnini; 37r-48v: 51 componimenti di Berardino Rota con il titolo, che

sembra complessivo, di Lusus iuveniles; 48v-49r: 5 componimenti di Nicola Antonio Brancaccio; 49v-50r: 5 componimenti di Marc’Antonio Epicuro; 50r: 1 componimento di Constanzo Sebastiani; 50v-52r: 8 componimenti di Angelo Di Constanzo; 52v-56v: 11 componimenti di Domizio Brusoni “contursano”; 57r-61r: 7 componimenti preceduti dall’intestazione «Spinutii

Fraiani Minervien[sis]», «affatto ignoto agli eruditi […] che sa-rà stato probabilmente uno Spinuzzo Fraggianni» (Croce 1953, p. 367);

35 Dopo questo componimento, in fondo alla pagina, si legge Finis.

25

61v-63r: 18 componimenti di Marco Antonio Casanova; 63r-63v: 3 componimenti di Antonio Tebaldeo; 63v-64r: 3 componimenti di Pietro Gravina; 64r-64v: 2 componimenti senza attribuzione; 64v-65v: 4 componimenti di Giovanni Filocalo da Troia; 65v-66r: 3 componimenti di Giovan Paolo Flavio; 66v-76v: altra serie di 18 componimenti di Antonio Terminio,

nell’ordine: Ad M. Montenigrum ianuensem Ad Claricem Ursinam Ad Leontium Ad Decium Coppulam Ad Antonium Pisanum Ad eundem Ad Matthaeum Montenigrum De Diomede Carafa In Laimum Ad Fernandum Carafam Ad amicum De Cupilla In Petri Aragonii tumulo In Catarinae Ursinae obitu De Io. Bap. Actii morte ad Hippoly. Quintium Fabii Aiosae epit[aphium] In Caeliam In die natali Fernandi Carafae, qui divo Anello status est.

In fondo alla pagina: Finis e una breve lista di errori corretti.

26

2.2. Tale edizione è dedicata da Lodovico Dolce a Matteo Mon-tenero, un giovane genovese di ricca famiglia, dichiarato senza perifrasi allievo di Terminio.

Dolce ricorda di non aver voluto privare gli amici di Terminio della lettura di versi «praeclara quidem et eruditissime scripta», e inviati dall’autore «ut mea cura Gabrielis Iuliti formis in manus studiosorum exirent». Leggendo tali versi si rileva che essi furono tutti composti a Napoli e pertanto deve essere corretta l’afferma-zione di Croce secondo la quale «in Genova ebbe quasi scolaro un Matteo da Montenero»36. La famiglia Montenero (o Montene-gro) era di origine genovese, ma aveva forti interessi commerciali nel Regno di Napoli, dove risiedeva, e il nostro Matteo è il fratel-lo di Girolamo37, un banchiere che fino al 1571 avrebbe avuto in appalto l’esazione delle gabelle della dogana di Foggia38.

Si può ritenere che grazie ai rapporti avuti con la famiglia Montenero Terminio sia entrato in contatto con gli altri genovesi residenti a Napoli, molti dei quali elogiati nei suoi versi in volgare e che a un certo punto si trasferisse a Genova, dove contrasse matrimonio.

L’affetto che legò il giovane Montenero a Terminio non solo è evidente nei versi che si scambiano reciprocamente e nei Carmina a lui indirizzati dall’umanista di Contursi, ma viene anche dichia-rato da Dolce nella dedica di questi ultimi, quando rivolgendosi al giovane genovese gli ricorda:

36 Croce 1953, p. 369. 37 La notizia si ricava dalla dedica di Lodovico Dolce alle Rime di diversi signori

napolitani stampate due anni dopo. 38 Cfr. Musi 1996, p. 72.

27

Nam tu eo et magistro et monitore in literarum studiis usus es et Poeta-rum lectione mirifice delectaris, imprimisque Terminium, doctum quidem et probum hominem, amas et colis39.

Considerando che i versi di Terminio non solo aprono e chiu-

dono la raccolta dei Carmina, che comprendono testi di altri poeti certamente a lui non inferiori (basterebbe ricordare Francesco Maria Molza, Berardino Rota, Angelo Di Costanzo), ma occu-pano sicuramente la parte maggiore del piccolo volume, si può immaginare che proprio il giovane Montenero possa essere stato l’ispiratore (se non proprio il finanziatore) dell’operazione edito-riale, che nell’ordine dei componimenti e nella loro consistenza attribuisce una posizione di preminenza al ‘maestro’, il cui nome è anche il primo ad essere stampato sul frontespizio. Privilegio non da poco, considerato che nella compagnia di più e meno noti autori che fanno da contorno, Antonio Terminio era di certo il più giovane e insieme a lui gli altri due contursani, Giunio Albinio Terminio e Domizio Brusoni, occupano lo spazio più rilevante. L’unico criterio unificante di questa raccolta, che riunisce poeti di generazioni diverse, sembra essere, se non sbaglio, oltre l’intento di lanciare il giovane Terminio nel Parnaso latino contemporano, quello di offrire versi fino ad allora inediti. Non si spiegherebbe altrimenti, se si volesse ipotizzare una strategia volta a proporre uno spaccato di poesia latina napoletana contemporanea, la cla-morosa assenza di Sannazaro, che almeno Rota e Di Costanzo riconoscevano quale indiscusso maestro.

39 «Tu infatti ti sei giovato di lui come maestro e consigliere negli studi letterari

e ti diletti mirabilmente con la lettura dei poeti, e soprattutto ami e rispetti il Terminio, uomo per la verità dotto e onesto».

28

2.3. Una rapida ricognizione tematica sui Carmina di Terminio deve assumere il dato che il piccolo liber si presenta bipartito fisi-camente in due sezioni distanziate da un lungo intervallo tipografico: il primo gruppo di 20 componimenti termina a c. 15v, il secondo, di 18 componimenti, parte da c. 66v e chiude il volume. Un modo di ribadire che Antonio è pietra di confine, il dio Termine dell’intera operazione editoriale, che si apre e si con-clude sul suo nome. D’altronde l’autore stesso nell’autobiografica elegia Ad M. Montenerum ianuensem non si astiene da un ammicca-mento autogratificante circa l’origine del cognome di famiglia:

Plana ferax nostris Cereri gratissima in oris Et veneranda aris, Termine sancte, tuis. Termine cum summo communia templa tonante Sunt tibi, tu servas rura, regis populos: Tu magnum numen nobis tua nomina praebes; Nos tibi serta, favos, liba, precesque damus, Dum non argenti loculis sestertius absit, Quo sale durandus sus queat ater emi […]40 (vv. 263-70)

Beninteso, non è infrequente il caso nelle miscellanee cinque-

centesche, in latino come in volgare, di blocchi di componimenti dello stesso autore dislocati in punti diversi della raccolta. Per ri-manere in ambito napoletano, basti ricordare che nel libro quinto (prima ed. 1552: Venezia, Giolito) delle Rime di diversi illustri signori napoletani i 63 componimenti di Ferrante Carafa sono distribuiti in due serie di 42 e 21 (la prima è il doppio esatto della seconda) no-tevolmente distanziati fra loro (pp. 58-83 e 302-314). La stessa cosa, si vedrà più avanti, si verifica con i 73 componimenti in

40 Questi versi attingono largamente al II libro dei Fasti di Ovidio (vv. 640-

684), specialmente per il ricordo della conservazione del culto del dio Termi-ne nel tempio di Giove Capitolino: «Terminus, ut veteres memorant, inventus in aede / restitit et magno cum Iove templa tenet» (vv. 669-670).

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volgare che Terminio pubblicherà nel 1556, distinti in due serie distanziate di 53 e 20. La lettura conferma che la bipartizione dei Carmina non è casuale e che potremmo trovarci di fronte a due piccoli ‘libri’, ciascuno implicitamente dedicato a un diverso patro-nus.

Non sfugge infatti, scorrendo la sequenza dei titoli, che il nu-me tutelare della prima parte sia Leonardo Caracciolo, conte di S. Angelo dei Lombardi, al quale il poeta aveva già dedicato un so-netto nel ruscelliano Sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, apparso l’anno prima dei Carmina, mentre la seconda parte è sotto le insegne di Matteo Montenero, cui viene dedicato la lunghissi-ma elegia (306 versi) autobiografica. Entrambi i ‘libri’ si chiudono, con simmetria certo non casuale, con versi dettati dall’affettuosa amicizia per Ferrante Carafa. L’iniziale elegia a Ad illustrissimum Leonardum Caraciolum S. Angeli dominum, in Hirpinis è la tipica recusatio da poeta principiante, che non osa assumersi il carico delle lodi di cotanto personaggio, giudicandolo tema più adatto alla musa esperta di Angelo Di Costanzo:

Praecipue haec magnam Constanti tangere Musam Cura potest, magnos quae canit apta Deos. Aonidum et docti Constantius inclyta Phoebi Spes, patriae rarus nobilitatis honor (vv. 15-18)41,

riservando alla giovinezza incipiente (con scoperta reminiscenza dell’autodefinizione ovidiana)42 il canto delle prime esperienze amorose:

41 «Questo pensiero potrebbe sfiorare soprattutto la poderosa ispirazione di

(Angelo) Di Costanzo, che in modo acconcio canta i grandi dèi: Di Costanzo, gloriosa speranza delle Aonidi e del dotto Apollo, onore unico della nobiltà patria».

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Interea teneros, fas est, ludamus amores: Et vacet ad molles prima iuventa iocos.(vv. 69-70)43

Qualcosa tuttavia sembra non tornare, in quanto Leonardo

Caracciolo, IV conte di S. Angelo era premorto (1 luglio 1553)44 all’edizione di questi versi, composti quasi sicuramente mentre era ancora in vita. L’autore avrà forse tentato nelle more della stampa di adeguare il testo alla nuova situazione, trasformando l’elegia in un encomio che accomuna l’eroe al figlio Gian Giaco-mo («Quos vero exoptem numeros? quae plectra resumam / Ut natum cantu persequar, atque nurum? / Huc ades o titulis iuvenis clarissime avitis», vv. 33-35)45, rievocato insieme alla moglie Giu-stiniana Caracciolo (v. 54) che gli assicurerà numerosa figliolanza («Vivite felices numerosa prole parentes», v. 57).

Ancora un componente delle famiglia Caracciolo sembra esse-re il protagonista della lunga egloga intitolata Thurius che immediatamente segue. Scarterei l’ipotesi, di recente adombrata, che il poeta abbia scelto di raccontare, nei panni di Thurius, il suo amore infelice per una donna di nome Fulvia46, perché la donna amata da Terminio (e si tratta di un amore confessato senza filtri di sorta) è Cupilla protagonista di almeno sei componimenti. Chi

42 Cfr. Ovidio, Tristia IV 10, 1: «Ille ego qui fuerim, tenerorum lusor amorum

[…]». 43 «Frattanto, come è giusto, cantiamo le voluttà dell’amore e si trastulli in mol-

li svaghi la prima gioventù». 44 Codesto Leonardo Caracciolo era un pronipote della quarta generazione di

Marino, al quale il fratello Sergianni Caracciolo aveva donato nel 1427 la con-tea di S. Angelo dei Lombardi (cfr. Ceci 1935, p. 41).

45 «Quali metri ambire? Quali plettri riprendere per accompagnare col canto il figlio e la giovane sposa? Assistimi, o giovane reso assai illustre dallo splen-dore paterno».

46 Tale è la proposta di Pagnani 2009, p. 18.

31

si celi dietro questo nome è impossibile dire; certo una fanciulla napoletana che, pur abitando a poca distanza dal poeta, era tal-mente sorda al suo amore da frapporre invalicabile distanza. Così appunto nell’epigramma Ad Cupillam (c. 10v-11r):

Est miser omnis amans: distamus quattuor ulnis Et pene est manibus tangere posse manus; At magis extremos Gangetica nata Britannos, Saepius Numidam Thraca puella videt, Quam tua vicinum spectent me lumina; quam tu Lux mea luminibus conspiciare meis. Quid mihi cum domibus iunctis vicinia longe est? Proximior Sesto tristis Abydos erat. Est aliquid, propriis, quod te iuvet, assequi ocellis. Ditior est vetitis Tantalus ipse bonis47.

Non bastasse la riottosa Cupilla a farlo soffrire, il poeta dove-

va sopportare anche una madre occhiuta e i suoi sistemi di stretta sorveglianza, derisi in altro breve epigramma, ricollegabile la topos della vecchia megera che ostacola l’amore dei giovani dopo esser-si concessa a suo tempo a più di un amante (In vetulam, c. 11r):

Quid miserum prohibes diam spectare Cupillam, Multa manu minitans, imperiosa parens? Addis et innocuis tot ferrea claustra fenestris Spumeaque horribili concutis ora sono? Num tibi succurrunt iuvenilia furta et amores, Tempore quo iam non unus adulter erat?

47 «Ogni amante è infelice: distiamo quattro braccia, ed è quasi possibile tocca-

re le mani con le mani. Ma più agevolmente la fanciulla nata in riva al Gange potrebbe vedere i Britanni ai confini del mondo, più spesso la fanciulla di Tracia potrebbe vedere il Numida, che i tuoi occhi guardino me che sono vi-cino o che tu, mia luce, possa essere mirata dai miei occhi. Perché, con le case unite, la vicinanza mi è lontananza? L’infelice Abido era più vicino a Se-sto. C’è qualcosa che ti piaccia seguire con i tuoi stessi occhietti. Lo stesso Tantalo è più ricco tra le ricchezze (a lui) vietate».

32

Quid tu cancellos et mille repagula iungis? Repit mille vijs ingeniosus Amor. Finge premi vinclis corpora posse teneri; Num premere obstrictos mentem animumque potes? Ludere permittas, reddetur castior ultro: Vincla, minas adhibe, foemina peior erit48.

Infine Cupilla sarà rievocata nei versi finali dell’elegia a Matteo

Montenero come colei che soltanto ha il potere di rendere felice il poeta:

Mi satis est, si forte meos Acheloidis almae Non aspernentur sacra sepulchra modos, Dum rigidam leni quaero mollire Cupillam Versiculo, quae me sola beare potest. (vv. 301-304)

Tornando a Thurius, mi sembra che, dovendosi scartare un ri-

ferimento a personaggio legato alle località di Thurii o di Thuriae49, sia preferibile immaginare una derivazione dal greco thoúrios, che significa ‘impetuoso, bellicoso’ ed è attributo talora riferito a Mar-te. Potrebbe essere il travestimento onomastico di un personaggio di casa Caracciolo, forse il racconto di un infelice amore giovanile di Leonardo, al quale nel carme precedente, scar-

48 «Perché impedisci a me infelice di guardare la divina Cupilla, assai minac-

ciando con le mani, tirannica madre, e aggiungi porte ferree ad innocue finestre e agiti le labbra bavose con orribile suono? Non ti tornano in mente i furtivi amori giovanili, nel tempo in cui non avevi un solo amante? Perché tu chiudi i cancelli e usi mille chiavistelli? Amore ingegnoso si insinua per mille vie. Tu immagina pure che i corpi possano essere imprigionati dalle catene; puoi forse tenere incatenati la mente e l’animo? Permettile di giocare, spon-taneamente sarà più casta. Ricorri a catene, fa minacce: la donna sarà peggiore».

49 Antiche città, rispettivamente in Calabria e in Puglia, su cui cfr. Gervasio 1932.

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tata per mancanza di mezzi adeguati l’ipotesi di un tema epico, si era offerta la più tenue musa elegiaca:

Thurius insignis flagrabat amore puellae, Fulvia cui nomen, fulvis erat illa capillis (vv. 1-2):

l’aggettivo insignis denota la rilevanza sociale del personaggio e non credo che il giovane Terminio potesse ragionevolmente rife-rirlo alla sua condizione. Se questa ipotesi è giusta, si potrebbe immaginare che Leonardo Caracciolo e il figlio Gian Giacomo siano stati i primi patroni del giovane Terminio e che dopo la morte di Leonardo, avvenuta nel 1553, si sia consolidato il rap-porto con Matteo Montenero, sotto le cui insegne sembra dispiegarsi la seconda sezione del liber, che si apre con la più volte ricordata elegia autobiografica. Si può anche aggiungere che il “dialogo” con gli altri poeti all’altezza del 1554 fosse già profi-cuamente avviato con Ferrante Carafa, cui sono indirizzati i carmi finali di entrambe le sezioni, mentre proprio la pubblicazione dei carmina sarà stata il tramite per stabilire più stretti rapporti con Angelo Di Costanzo e Berardino Rota, che ritroveremo suoi “corrispondenti” nel libro settimo del 1556.

Si è varie volte fatto riferimento alla lunga elegia Ad M. Monte-nerum ianuensem, il cui testo con la relativa traduzione è in appendice al presente lavoro, come al componimento più bello, ma anche più organico della produzione tanto latina quanto vol-gare di Terminio. Qualche ulteriore osservazione esso merita sia per la qualità della versificazione che per la sincerità dell’ispirazione da cui è sorretto. Nessuno stupore che la pagina sia tramata di echi della grande poesia latina (Virgilio e Orazio, Ovidio e Tibullo in primis, ma anche Catullo, Properzio e, dato l’argomento, Columella), giacché questo era il traguardo cui mira-vano gli umanisti: scrivere come gli autori classici, allo stesso modo di come i petrarchisti avevano appreso dalla lunga consue-tudine con i Rerum vulgarium fragmenta, arricchendoli di nuovi

34

apporti e sfumature, la lingua, lo stile e la stessa grammatica dei sentimenti. A me pare, leggendo l’elegia, che l’idea forte che la sostiene sia quella di offrire al lettore un ritratto di sé classica-mente atteggiato nei confini di una oraziana aurea mediocritas la cui misura di felicità è nella giusta stima delle cose che si posseggono senza cedere alla tentazione delle ricchezze e del potere, secondo la sintesi affidata ai versi finali:

Exiguus voti, per laeta silentia vitam Vivo, expers odii, censor et ipse mei. Me nitidi fontes atque umbra lucus opaca Me lauri oblectant et virides hederae. Me Sulmonenses elegi Venusinaque raptat Barbitos, studia haec me leviora iuvant. Tu vero atque urbes atque alta palatia summis, Matthaee, incolito concelebrata viris. Tu docti assidue chartas evolve Platonis Et cape facundis dogmata rethoribus, Ut mox ad magnos reges orator iturus, Resque altas possis cultaque verba loqui. (vv. 287-298)

Una scelta di vita dedita alla poesia, nella scia di Ovidio (Sulmo-

nenses elegi) e Orazio (Venusina barbitos), che evidentemente è affatto diversa dal percorso che invece toccherà compiere al suo allievo Matteo Montenero, destinato a delicate incombenze poli-tiche da ambasciatore (mox ad magnos reges orator iturus). Né ciò implica ignoranza della più scottante attualità politica, rievocata di scorcio con accenni da cui pure traspare una partecipazione emo-tiva, da registrare se non altro come eco di dibattiti a cui il giovane poeta non doveva essere del tutto estraneo:

Nec curant quo sceptra cadant: num Gallus atrocem Turcam iterum in miseram convocet Italiam? Num depressa iugo solvat Florentia collum? An ne Senae gravius servitium subeant? (vv. 279-282)

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Se è abbastanza scontato il riferimento alla preoccupazione, diffusa soprattutto nel Regno di Napoli, degli incombenti attacchi turchi stimolati dai francesi –nervo particolarmente scoperto ne-gli anni a immediato ridosso della ribellione di Ferrante Sanseverino–, più sorprendenti, se non proprio fuori tono, po-trebbero risultare l’auspicio di una Firenze (quella di Cosimo I, ormai signore incontrastato) restituita alle antiche libertà e insie-me la trepidazione per la sorte di Siena, tenuto conto che proprio il viceré di Napoli, don Pedro de Toledo, che del duca Cosimo era il suocero, aveva prontamente marciato contro i senesi ribelli al potere imperiale50. Sia o no da registrare questa attenzione alle vicende di Toscana come traccia del persistere presso l’aristocrazia napoletana di mai nascosti umori antimedicei, pare indubitabile, per la stringente contemporaneità del riferimento, che questa lunga elegia sia stata scritta nel corso del 1553 e che la data di nascita del poeta, che poco prima si è dichiarato venticin-quenne, debba necessariamente oscillare tra il 1528 e il 1529. Il ricordo della natia Contursi e dei campi aviti non è soltanto ma-linconico ripiegamento della memoria, che nella dolcezza dell’idillio trasfigura una realtà altrimenti dura e di fatto immune dai rivolgimenti della storia, bensì il recupero dell’origine prima di una moralità semplice, di cui il padre (vero agricola pius delle no-stre prime traduzioni dal latino) era stato il più coerente maestro, soprattutto insegnando che identico traguardo, la morte, attende tutti gli uomini:

Cogimur ire eodem omnes. Nox eadem manet omnes: Ditis in exiles sors rapit una domos. Quid Croesum aut morsam colubris opulentia iuvit? Quin Iro extiterint atque Hecale comites?

50 La spedizione contro Siena voluta e capeggiata direttamente dal Toledo si

era mossa proprio agli inizi del 1553, e non fu fausta per il Viceré che morì nel febbraio di quell’anno a Firenze (Coniglio 1967, p. 75).

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Felix qui parvo contentus tempora vitae Innocuus potuit degere laeta suae. (vv. 179-184)

Si innesta a questo punto il racconto, già in precedenza ri-

chiamato, della semplice vita della famiglia Terminio scandita dal ritmo delle stagioni nei fertili orti-giardini del Cupone, celebrati per la doviziosa generosità di messi, di frutta, di selvaggina, di pe-scato e di fiori. Sembra che nulla manchi a un quadro che non può non richiamare l’illustre precedente dell’elogio virgiliano della magna parens frugum, Saturnia tellus (Georg. II 173), ma questa volta tutto condensato nel breve spazio tra il Cupone e la Piana, una sorta di Lucania felix che finalmente aveva trovato il suo cantore. E forse non è neppure da escludere che Terminio abbia voluto riconsacrare quei luoghi che proprio Virgilio aveva sì rievocato (Georg. III 146-151), ma di scorcio e per presentare una piana infe-stata dai tafani che risuonava del muggito di armenti punti dai fastidiosi insetti:

est lucos Silari circa ilicibusque virentem plurimus Alburnum volitans, cui nomen asilo Romanum est, oestrum Grai uertere vocantes, asper, acerba sonans, quo tota exterrita silvis diffugiunt armenta; furit mugitibus aether concussus silvaeque et sicci ripa Tanagri51.

Nei versi di Terminio il quadro è decisamente ribaltato: alla

confluenza del Tanagro con il Sele egli volle ricostruire il suo e-

51 «C’è presso i boschi del Sele e l’Alburno verdeggiante di lecci, frequentissi-

mo, un insetto che vola, il cui nome romano è asilo [tafano], ma i greci lo cambiano chiamandolo “estro”; aggressivo, acre nel ronzio, che spaventa e mette in fuga fra i boschi intere mandrie di bestiame; l’etere scosso risuona furiosamente di muggiti, e le foreste, e la riva del Tanagro in secca»: trad. di Alessandro Barchiesi, Milano, Mondadori, 1989, p. 75.

37

den primigenio in cui la natura compensa generosamente l’improbo lavoro dei campi.

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3. Il “libro” di rime di Terminio dalla prima (1556) alla seconda (1563) “edizione”

3.1. Prima di un pur rapido esame tematico della produzione in versi di Terminio, in vista del recupero di qualche ulteriore dato per ricostruirne la biografia e la trama dei rapporti personali, mi pare utile rilevare che dalla prima alla seconda raccolta a stampa delle rime in volgare (1556 e 1563) si notano non poche differen-ze, tanto nel numero dei componimenti che nella lezione.

Può anche essere improprio parlare di ‘edizioni’ in senso stret-to, ma si vedrà che alcune notizie desumibili dalle dediche delle due raccolte autorizzano a ritenere che in buona misura Terminio sia stato personalmente coinvolto nella realizzazione dell’operazione editoriale, almeno nel 1563, e quindi le sue rime, pur essendo stampate in una vasta raccolta antologica, riflettono una situazione controllata dall’autore, sia per quanto concerne il testo che l’ordinamento dei componimenti.

I componimenti, infatti, quasi esclusivamente sonetti, passa-no da 73 (1556) a 132 (1563) e alcuni di questi nel passaggio alla seconda edizione appaiono mutati in vari punti. Questo aspetto non fu segnalato da Croce, che conosceva solo l’edizione 1563, mentre Quondam, limitandosi a studiare la raccolta del 1556, in un contesto generale che prescinde dalla valutazione specifica delle rime, e pur senza occuparsi della raccolta del 156352, rileva

52 Tale raccolta non è indicizzata da Girardi 1996, per cui dall’indice risultano

censiti in tutto 78 componimenti di Terminio, cioè i 73 del “libro settimo” più alcuni spicciolati.

40

comunque che Terminio, con i suoi 73 componimenti, vi gioca un ruolo di primo piano.

3.2. La tavola propone l’ordinamento dei componimenti nell’edizione 1563, confrontata con la successione dell’edizione 1556. Nella colonna dell’ed. 1556 il segno = indica l’assenza del componimento.

Incipit 1563 1556 Ahi! mal accorto cor, troppo sovente 001 001 Per trarmi al regno suo possente et fero 002 002 O lieto e dolce mio stato primiero 003 041 Misero me, da qual tanto furore 004 039 Tutte sue forze la ragione ardita 005 040 Quel dolce acerbo mio caro nemico 006 043 Securo già de le tue frodi, Amore, 007 = Cugin, mentre al tuo mal porger aita 008 007 Tu, che cantasti con sì dolci accenti 009 = Se generoso et bel desio vi preme 010 042 La strada occolta, faticosa et erta 011 013 Tacer non posso il gran piacer, che sento 012 = O de l’egro mio cor vital conforto 013 044 Segui l’altera impresa e ‘l bel lavoro 014 = Amor, ch’ogni pensier del cor mi rade 015 = Altri la prima età, le crespe e bionde 016 010 Alma mia fiamma, che con dolci et nuove 017 047 Dolci mi sono i ceppi, ove m’avete 018 = Caro, leggiadro e pretioso laccio 019 050 Se ben avesse il fil de la mia vita 020 052

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Alma ben nata, cui per gratia elesse 021 = Di fior vermigli adorna in bianchi panni 022 054 Vedendo il re sovran, che al fin del giorno 023 011 Tu dunque, fiamma mia vivace et lenta 024 057 Se per voi mille volte il giorno soglio 025 059 Strano animal tra gli altri in terra nasce 026 = Per veder dunque le reliquie antiche 027 = Mosso forse a pietà del fiero ardore 028 060 Lagrime false, se voi molli feste 029 = Non bastava con atti iniqui e crudi 030 = Fieri messi d’Amor, pensieri ardenti 031 062 Scemo due volte il volto e due ripieno 032 = Com’è beato un uom, che in vita serba 033 = A dir l’altrui mal fortunato amore 034 056 Poi ch’ebbe ardir quell’empia donna ingrata 035 064 Quando nel mar d’Amor mia navicella 036 068 Dopo l’avermi tante volte, in tanti 037 069 Questo mio fido cor, semplice et puro 038 070 Almo, placido dio, queto et soave 039 071 Poi che interrotto m’era ogni altro scampo 040 063 Ecco che mi vedrete un’altra volta 041 073 Qual a’ stanchi nocchier di afflitta nave 042 = Vedi se sta pur dura et ostinata 043 058 Come se per città, cui mano ostile 044 072 Misero, afflitto cor, poi che ti spoglia 045 065 Lagrime mie, sì dura et salda pietra 046 061 Sì mi si porta ognior superba e fiera 047 = Se più di te sia visso in duri affanni 048 = Tu che a covrir quella leggiadra e bella 049 = Contra rigor di donna, aspro e inumano 050 =

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Poi che di voglie pretiose carca 051 = Non è questo il beato almo terreno 052 = Contra l’empio figliuol commossa a sdegno 053 = Chi fosse stato fermo al bel soggiorno 054 = Amor, se gli occhi son tuo proprio oggetto 055 005 Sonno, che al mio pensier tu rappresenti 056 006 Per discovrir la piaga aspra fatale 057 = Vissi gran tempo in duro foco ardente 058 = Donna, vedeste già come repente 059 = Le superbe ricchezze instabil sorte 060 009 Donna, dal cui bel viso ampia dolcezza 061 = Come ad arder da lunge incominciai 062 = Se così in alte rime io nuovamente 063 = Credea che forza al mio debile ingegno 064 012 O di beltà felice unico mostro 065 = Io già conosco ben fra tanti alteri 066 = Presuntuoso e temerario ardire 067 014 In dubbio del mio stato or ardo, or tremo 068 = Mentre la bella donna, a cui le vere 069 = Rime infelici, ond’io lieto pensai 070 019 Che fan più meco i vostri ornati canti 071 = Dive, che d’Elicona i sacri fonti 072 = Pensiero, a che il mio cor misero e stanco 073 018 Quando (e ben mille volte il dì m’aviene) 074 017 Queste repulse gravi, acerbe e fiere 075 016 Potrete voi vietar ch’io non v’adori 076 015 Quanti vestì di pelo unque natura 077 = Chiome di fino e sottilissimo oro 078 = Treccie di fila d’or crespe e lucenti 079 = Come d’oro i capei, d’avorio il petto 080 =

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Se de’ begli occhi vostri ai dolci rai 081 = Come arà oggi tanta forza il cor lasso 082 049 Questo riposto, novo, alto ricetto 083 = Parea questa magion colma d’orrore 084 = Triste, pensose et agghiacciate et sole 085 045 Sol, che al partir del nostro sol maggiore 086 = Vago, pregiato e gratioso dono 087 = O bella man, che avorio e latte et neve 088 = Come se in ampio lago, in cui gli ardenti 089 = In palagio real, tra via battendo 090 = Sì mi sprona il desio, Signor mio caro 091 = Occhi miei, già per voi, che troppo ardita 092 = Poi che da voi e da me stesso insieme 093 = Pesci gentili, che, solcando a gara 094 = Ponga pur monti e boschi e fiumi et mari 095 = Qui dove mezzo son, sì lungi absente 096 = Cara un tempo mi fu quella che appare 097 = O benedetto lido, o sacra arena 098 = Nel mar nacque la dea, cui Cipro adora 099 = Se tutto è fiamma il sospiroso core 100 = LAURA, che sol di mirto o schietto lauro 101 066 Spirito generoso, invitto e chiaro 102 = SANCIO gentil, ben ferme e dritte scale 103 = Poiché, scorgendo omai l’antico merto 104 = Il santo piè del gran motor superno 105 021 Come nel sommo polo, onde Aquilone 106 020 Come a guardar del sol gli ardenti rai 107 022 Poiché di Xanto in su la fresca riva 108 023 Che di perle e di gemme e d’aurei fiori 109 024 Sperò molt’anni già Volturno eguali 110 025

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MARRA, che al nobil sangue antico e chiaro 111 036 Di vostre lodi gloriose et rare 112 = LOMELINA felice, in cui si spense 113 = Figlie del gran Nereo, che ‘l ricco umore 114 = Chi vuol veder con manifesta prova 115 = Come tra l’altre donne eletto e colto 116 = Donna d’imperio degna, in cui Natura 117 = Se ‘l nodo, onde duo cori astringe Amore 118 = Selva ben fu dei pargoletti amori 119 = Dunque il Tesin devrà d’invidia tanto 120 = A che del mar lasciasti il nobil regno 121 = Qual caso strano e rio sì orribilmente 122 = Era per avanzar la dea di Gnido 123 = Partisti, anima bella, et pur “a Dio” 124 030 Tanto dunque anzi tempo et sì repente 125 028 Poi che prescritto avea l’alto destino 126 031 Giunta Isabella in su la stigia riva 127 = Fido guerrier che ne gli alpestri boschi 128 = Se ‘l tuo buon padre già (come si crede) 129 067 A così fiero colpo, a così acerba 130 027 Dunque s’una crudel, di piombo il petto 131 026 Gran tempo il suon de le tue penne e ‘l grido 132 =

3.3. Componimenti dell’ed. 1556 non ristampati nell’ed. 1563

Quanto col mal purgato et rozo stile 003Così al caldo desìo di farvi onore 004Or ben provo io signor quanto sia vero 008Già fu che con gioioso et dolce canto 029

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Porger al vostro duol degno conforto 032Stimando a l’arme et a la schiera eletta 033Silaro a cui donò l’alma Diana 034Signor, se questa che d’Amor possiede 035L’alta cagion ch’al vostro ceppo antico 037Qual meraviglia, se repente piacque 038In ben cara prigion chiuso m’avete 046Presso un bel fonte le tre dive in Ida 048Mentre che con ferventi alte parole 051Veggio ben io (né velo alcun m’adombra) 053Poscia che ‘l mio maligno empio destino [30 stanze] 055

3.4. L’ipotesi, prima avanzata a proposito dei Carmina del 1554, di trovarci di fronte a operazioni editoriali allestite ad usum Terminii, finalizzate cioè a creargli uno spazio rilevante in compagnia pre-stigiosa, sembra trovare conferma nelle Rime di diversi signori napolitani e d’altri nuovamente raccolte et impresse, curata sempre da Dolce presso Giolito nel 1556, anch’essa con dedica a Matteo Montenero (datata Venezia, 1 gennaio 1555) che «è tutt’altro che di routine», in quanto «prospetta un quadro di eccellenze»53 della poesia contemporanea: la serie dei grandi poeti del Cinquecento (Ariosto, Bembo, Sannazaro), ormai considerati dei ‘classici’ de-gni di stare a paragone con gli antichi, si conclude con un elogio dell’ultima generazione in attività (Molza, Guidiccioni, Bernardo Tasso, Ferrante Carafa, Annibal Caro, Angelo Di Costanzo, Luigi Tansillo), nel cui contesto ancora una volta a Terminio, nominato a parte e da solo, viene assegnato un particolare rilievo:

53 Quondam 1991, pp. 189 e 190.

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Per tacere il Terminio, che nell’uno e nell’altro stilo merita più tosto le prime che le seconde laudi e V(ostra) S(ignoria) istessa, la quale ne’ suoi più fioriti anni è pervenuta a quel segno, di cui o nulla o poco più oltre si può passare. Né è maraviglia, se tosto che ella giunse in Napoli, poggiò con gloriosi passi al colle delle Muse: per-ché oltre che ella ebbe per guida il dotto Terminio, pare che codesto clima, ove forse da vero abitarono già le Sirene, inclini cia-scuno alla poesia.

Ancora una volta, come si vede, Terminio e Montenero sono

uniti nell’elogio, un po’ come nella dedica dei Carmina del 1554. Il fatto che sia «questa volta Antonio Terminio ad avere un netto primato»54, come osserva Quondam, essendo egli presente con 73 componimenti, si può leggere come omaggio del facoltoso disce-polo al maestro, che probabilmente può essere stato il finanziatore dell’edizione55.

Si osservi però come il primato letterario indiscutibile di Ter-minio (segnalato non solo dal numero di componimenti, ma anche dai sonetti di proposta che scambiano con lui quasi tutti i “signori” presenti in antologia) non sovverta la regola delle “pre-cedenze”. L’antologia si apre infatti con Girolamo Acquaviva, duca d’Atri, seguito da Ferrante Carafa, Matteo Montenero e Giovanni Bernardino Belprato dei conti di Anversa, esponenti della nobiltà antica e recente: segno che la storiella dell’ordine ca-suale dei componimenti raccontata dai curatori deve essere presa con beneficio d’inventario. Non c’è dubbio che la pratica sempre più estesa della poesia lirica abbia potentemente incentivato il formarsi di una “repubblica delle lettere” nei cui confini a un gio-vane “provinciale” come Terminio fosse possibile dialogare con esponenti dell’aristocrazia, ma trattandosi di rime di “signori na-

54 Quondam 1991, p. 189. 55 Si tenga presente che nella ristampa 1563 Terminio non recuperi, segno for-

se di un deteriorarsi dei rapporti, nessuno dei componimenti dedicati al Montenero nel 1556.

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politani” i diritti del blasone vengono rispettati. Ciò spiega anche perché gli iniziali sonetti del Duca d’Atri siano privi di paginazio-ne, inseriti nel quaderno iniziale segnato * (cc. 6-8) subito dopo la dedica (nel fascicolo cioè che di solito viene stampato per ultimo) e prima del quaderno segnato A, che da p. 1 reca le poesie di Fer-rante Carafa, che avrebbe dovuto aprire l’antologia. In questo ca-caso è probabile che, a libro già impiantato, siano pervenuti a Dolce i sonetti di Girolamo Acquaviva, ai quali non poteva certo riservarsi un’anonima posizione di retroguardia e si sia sopperito riservandogli uno spazio nel quaderno iniziale, in modo da rista-bilire una corretta gerarchia tra i titolati56.

Osservando la disposizione dei componimenti e l’elevato nu-mero di questi dedicati proprio a Terminio si potrebbe addirittura definire questa antologia del 1556 come ‘raccolta Terminio-Montenero’57 e ci potremmo spiegare perché il libro «non fu mai riprodotto, e quindi ha fama di essere il più raro della raccolta»58. Nel 1556 Terminio appare ancora pienamente inserito nell’ambiente napoletano, come mostrano i versi di corrispon-denza con altri poeti ‘napoletani’, quali Di Costanzo, Rota,

56 Una identica esigenza aveva determinato anche la seconda emissione della

giolitina dei “signori napoletani” del 1552, aperta da Alfonso d’Avalos, mar-chese del Vasto, mentre nella prima emissione a fare da battistrada era Luigi Tansillo: cfr. T. R. Toscano, Le Rime di diversi illustri signori napoletani: pre-liminari di indagine su una fortunata antologia, in Toscano 2000, pp. 183-200.

57 Curiosamente, come ha ricordato Rabitti 2004, p. 160, in una richiesta cu-mulativa di privilegi di stampa prodotta da Giolito per l’anno 1556 figura un libro dal titolo «rime di M. Mattheo Montenero e di M. Antonio Terminio et altri autori».

58 Bongi 1890-95, vol. I, p. 487. Anche Montenero occupa uno spazio notevo-le: è presente infatti con 22 componimenti che denotano versatilità metrica superiore a quella del ‘maestro’ Terminio: 18 sonetti, 1 ballata grande, 1 ode e 2 madrigali (identici per schema rimico a RVF CXXI e CVI).

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Tansillo, Ferrante Carafa, Laura Terracina, Giovanni Bernardino Belprato.

Prima di quell’anno egli aveva contribuito con un sonetto (Poi-ché scorgendo omai l’antico merto) alla raccolta in onore di Giovanna d’Aragona, che fu stampata a cura di Girolamo Ruscelli nel 155559. Il sonetto, non ristampato nel 1556, sarà riproposto nel 1563 (cfr. n. 104 della tavola), in successione a un altro sonetto (Sancio gentil, ben ferme e dritte scale) composto per la stessa occasio-ne e non compreso nel Tempio. È diretto infatti a un Sancio, che potrebbe essere il Giovan Battista Sancio, presente a sua volta con un sonetto nella stessa raccolta60, e l’argomento appare inti-mamente legato alla stessa celebrazione:

SANCIO gentil, ben ferme e dritte scale, da poggiar dolcemente oltra le stelle, porger volendo il gran Motor di quelle a l’uom, ch’era per sé debole et frale, formò questa ARAGONA, al cui mortale dié sì divine tempre oneste et belle, che per far di virtù l’anime ancelle non si vede oggi in terra essempio eguale. (1563, 103: 1-8)

Probabilmente Ruscelli fu costretto a operare una scelta tra i

tanti componimenti che gli erano stati inviati e forse pensava di stampare un altro volume sullo stesso tema, come sembra indica-re la circostanza che l’edizione 1555 del Tempio per Giovanna d’Aragona rechi l’indicazione di Prima parte.

59 Ruscelli 1555, p. 170. 60 Ruscelli 1555, p. 365, con l’intestazione “Giovan Battista Sancio veronese”.

Per la lista completa delle presenze, cfr. Quondam 1991, p. 134.

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3.5. Il trasferimento di Terminio a Genova dovette aver luogo dopo il 1556 e prima del 1559. In quest’ultimo anno, infatti, già era sicuramente nella città della Lanterna, in quanto nel mese di giugno curò la ricordata edizione delle Rime spirituali di Ferrante Carafa.

Una fonte integrativa sul soggiorno di Terminio a Genova può essere considerato Pier Francesco da Tolentino, autore della de-dica a Vespasiano Gonzaga Colonna della prima edizione dell’Apologia di tre Seggi illustri di Napoli (Venezia, Farri, 1581). Per quanto possa sembrare un po’ rischioso utilizzare come fonte la prefazione di un testo falsamente attribuito al Terminio, ma che è comunemente ritenuto di Angelo Di Costanzo, vale la pena di e-strapolarne gli elementi che possono sembrare verosimili.

Innanzitutto Tolentino ci informa che Terminio fu condotto con «honorato stipendio» a Genova da Franco Lercari, cui è de-dicato il Discorso della Miseria humana, e che in virtù di incarichi ricevuti (continuare «l’historia già cominciata dal Bonfadio») con-tinuava a rinviare la stampa dell’Apologia. Trascorsero alcuni anni e Tolentino, andando in Francia, dice di essersi fermato a Geno-va per fare visita al vecchio amico, ma la situazione si presentò assai poco confortante:

et credendomi di trovarlo in prospero stato, ché havea già tolta moglie con buona dote, il trovai infermo con poca speranza di vita [...] et mi consegnò quest’opera [l’Apologia] imperfetta con alcuni scartafacci dove havea disegnato il fine, et un libro di sonetti et epi-grammi suoi, e ‘l dì seguente morì.

Essendo difficile stabilire se il «libro di sonetti et epigrammi

suoi» fosse un manoscritto o fossero le raccolte già stampate, si prenderà per valida almeno la notizia del matrimonio contratto a Genova «con buona dote», perché essa trova conferma in un so-netto di auguri inviatogli da Lodovico Dolce e stampato nel Secondo volume del 1563 (p. 73):

50

Gradisci, alma Giunon, le oneste voglie di questa gentil coppia al ciel gradita, poi che hai la FIESCA al buon TERMINIO unita col nodo che sol morte apre e discioglie, ché sì come ne l’un tutta si accoglie virtù, che suol dagli altri esser bandita, così anima più bella in questa vita non vestì in donna mai terrene spoglie (vv. 1-8),

donde si apprende che Terminio sposò una donna della illustre famiglia genovese dei Fieschi, anche se non si può stabilire in che anno fu celebrato il matrimonio.

Ulteriormente spigolando dalla dedica che accompagna l’Apologia si recuperano altre notizie sull’attività e le relazioni na-poletane di Terminio, del quale si delinea un profilo culturale abbastanza preciso:

giovane d’absoluta bontà, di soavissima conversatione, di dolcissimi costumi, et di più che mediocri lettere et atto con quelle ad appli-carsi ad ogni disciplina, il quale discorrendo un dì meco che la poesia, tanto latina quanto italiana, di ambedue le quali ei si diletta-va, era conveniente all’adolescenza e alla gioventù, ma alla virilità et all’età matura l’historia et la filosofia: al fine mi scoverse che al ge-nio suo applaudeva l’historia e che per primo essercitio voleva pigliare a tradurre l’historia di Bartolomeo Fatio in lingua italiana: et già in non molti dì ne havea felicemente tradotti tre libri, quando per compiacere al signor Aniballe Coppola, figlio del signor Decio cavaliero di Portanova (in casa del quale con molta sua comodità si ricettava et era liberalmente trattato) differì la traduttione et si pose a componere questa Apologia, et certo io sono testimonio della fati-ca pigliata nel rivoltare i libri dell’Archivio reale et molte sedie di Notari et scritture di Monasterij, poi che in questa sua fatica li fui assiduo compagno.

Pur non volendo prendere per buona la notizia di un Termi-

nio rovistatore di archivi, giacché l’Apologia è ormai pacificamente attribuita a Di Costanzo, si può acquisire almeno l’ospitalità pres-

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so i Coppola insieme a una incipiente attività di volgarizzatore, anche se la vocazione più propriamente storiografica, a detta di Tolentino, interrotta a Napoli per la morte di Annibale Coppola, sarebbe stata poi coltivata in Genova, con l’incarico di continuare «l’historia già cominciata dal Bonfadio». Infine, morto l’Autore, la decisione di Tolentino di dare l’opera alle stampe, benché “im-perfetta”, irrobustendola con l’aggiunta di «un opuscolo d’incerto Autore, che fu trovato tra le scritture di M. Antonio»61.

Un indizio sull’anno del trasferimento, o di un primo viaggio, di Terminio a Genova si ricava dalla dedica premessa da Laura Terracina alle seconda edizione delle sue Seste rime (Napoli, Rai-mondo Amato, 1560), laddove, ricapitolando la curiosa vicenda della prima edizione, lamentava l’attesa durata «più d’un anno mezzo» prima di poterla veder stampata a Lucca da Vincenzo Busdrago nel 1558, avendone affidato il manoscritto a «messer Antonio Terminio, suo amicissimo», che «dovea partirsi per Ge-nova per alcuni suoi affari». La dedica dell’edizione Busdrago è datata 12 giugno 1558. Detraendo i diciotto mesi di attesa decorsi dopo l’invio a Lucca, se ne deduce che Terminio abbia lasciato Napoli all’inizio del ‘5762. Se vi sia tornato successivamente è dif-

61 Il testo dell’Apologia occupa infatti le cc. 1-39, cui segue (cc. 40-64) l’Opuscolo

d’Autore incerto. La dedica è datata 4 ottobre, ma è priva di anno. Elementi di datazione interna non sovvengono, tranne in un caso, allorché, in relazione alla famiglia Di Costanzo, si fa riferimento (c. 5r-v) a un «Dominio di molte terre in feudo perpetuo, le quali dall’anno 1462 fino al dì d’hoggi, che sono al 1567, sono possedute dai Costanzi posteri suoi». Se l’Autore dello scritto fos-se veramente Terminio se ne potrebbe dedurre che nel 1567 era ancora in vita. Nelle pagine dedicate ai Coppola si fa onorata menzione di Decio, «ca-valiero molto honorato, che pochi anni sono che andò ambasciatore al Re di Spagna, et ritornò da quella imbasciaria con molta laude», con la precisazione che alcune notizie erano state recuperate «rivoltando le scritture di questo ca-valiero».

62 Cfr. Toscano 2000, pp. 208-09.

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ficile dire, sembrerebbe anzi da escludere a mente della testimo-nianza, prima ricordata, di Pier Francesco da Tolentino, editore dell’Apologia. È abbastanza plausibile immaginare che le sortite tipografiche del 1554 e del 1556, grazie alle quali aveva dato va di abilità letteraria come autore di versi sia latini che volgari, avessero potuto guadagnargli l’attenzione di qualche altra cospi-cua famiglia della nutrita “colonia” genovese che aveva forti interessi nel Regno di Napoli e che intese servirsi in seguito della sua collaborazione come precettore o come segretario. Non è certo un caso che alla prima (e unica) sortita tipografica genovese, la curatela delle ricordate Rime spirituali di Ferrante Carafa63, stampate da Antonio Belloni nel giugno del 1559, Terminio abbia aggiunto in appendice il suo Discorso della miseria umana e della vera felicità, dedicandolo a Franco Lercari, “conservador dei regii sigilli e cancelleria del Regno di Napoli”, discendente di una famiglia la cui presenza nel regno di Napoli è attestata già tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo64. Anzi proprio negli anni 1551-58, con-comitanti con le prime affermazioni letterarie di Terminio ma segnati anche da ricorrenti crisi della finanza pubblica, il gruppo Lercari-Spinola presta un milione di ducati alla Hacienda di Napo-li65. Non si vorrà cedere alla tentazione di assimilare la traiettoria personale di Terminio a quella di un intellettuale spinto a emigra-re per mancanza di opportunità di impiego in patria. Ci sono tuttavia elementi per ritenere che il giovane letterato, figlio di contadini e venuto dalla natìa Contursi nella capitale del Regno, giudicasse più conveniente alla sua condizione l’honorato stipendio che poteva offrirgli Franco Lercari, soprannominato, tra l’altro,

63 Stando al numero e alla varietà dei componimenti latini e volgari dedicatigli

dal Terminio, Ferrante Carafa appare senz’altro, fra tutti i “signori” napoleta-ni, il suo pù intimo sodale.

64 Cfr. Brancaccio 2001, p. 24, oltre il già citato Musi 1996. 65 Cfr. Musi 1991, p. 156.

53

“il ricco” dai suoi concittadini per l’arroganza con cui esibiva le sue ricchezze66. E proprio nel Discorso dedicato a Lercari è dato spigolare, in una dimensione di crucciato ripiegamento in cui ap-paiono ammainati gli entusiasmi della fase napoletana, qualche ulteriore tessera di una biografia addolorata dalla immatura morte del fratello Giuseppe, da lui rievocato fanciullo nella ricordata e-legia latina, resa ancor più dolorosa per gli anziani genitori dalla lontananza dell’altro figlio. Il ricordo del fratello interviene, a mo’ di esempio, per suggellare l’idea della onnipotenza della Fortuna, che «con vituperio e crudeltà gioisce di straziare in mille modi i corpi umani, e tutte le cose governando con nullo ordine, vaga, temeraria e incostante, ci tiene sempre sospesi gli animi»:

Possono rendere di ciò fede coloro che si trovano discacciati da lo-ro patrie o che di signoria, di dignitate e di ricchezza sono repentinamente calati in servile e infima povertà. O che, privati del-le persone più loro care, in acerbissimo lutto rimangono addolorati; fra’ quali io sono uno che, con la perdita di chi era la seconda parte di me, e quasi un altro me, ho sentita novellamente la più fiera per-cossa che temere potuto avessi. Non già che degna giudichi da dolersi la sua ventura […]. Ma non posso non dolermi e per conto mio e per quella afflitta coppia che, orbata de l’un degli occhi, rin-forza le confuse lagrime nell’altro di me offuscato, veggendoci insiememente da l’importuna Parca troncato il filo delle tante spe-ranze che pendevano da quel sì bene ordito stame67.

Poco più avanti, nell’elogiare il nuovo patrono genovese,

Terminio ricorda di essere entrato in dimestichezza con lui grazie ai buoni uffici di Matteo Montenero, fautore dei suoi esordi poe-tici:

66 Emblema della magnificenza della famiglia Lercari il sontuoso palazzo che

Franco, annoverato tra i Padri del Comune, fece costruire in Strada Nuova a Genova a partire dal 1571.

67 Il testo è citato dall’edizione a cura di Pagnani 2008, p. 46.

54

Mi sovenne questa sentenza68 (ha già tre anni) col s. M[atteo] Mon-tenero, da me per molti meriti amato molto, il qual, dovendo alla vostra amicizia entromettermi, con sagace ragionamento mi venne a dimostrare come, tra que’ pochi felici che si potessero nominare, voi sareste senza contrasto da essere annoverato, perciò che voi nella città di Genova, per sito, per ampiezza, per gloria e per pos-sanza tra le principali della Italia illustre e libera, di nobilissima e antica famiglia nato […], vi trovate in età perfetta fornito di quelli beni, che non pur agli usi necessari della vita, ma a splendore altresì copiosamente bastar vi possono69.

A parte il ritratto di Lercari, diverso da quello vulgato presso i

suoi contemporanei, pare utile la precisazione che nel 1559 il Terminio dica di averlo conosciuto, sicuramente a Napoli, «ha già tre anni»: quindi nel 1556, l’anno della pubblicazione dell’antologia giolitina con i suoi 73 componimenti. La strategia editoriale del giovane mecenate aveva dato buoni frutti.

Non avendo elementi certi al momento circa l’effettiva assun-zione dell’incarico di annalista della repubblica di Genova, quale successore di Iacopo Bonfadio70, credo tuttavia di poter esibire qualche ulteriore elemento che lascerebbe intuire una strategia di promozione editoriale di autori meridionali sulla piazza di Geno-va, di cui l’edizione, apparentemente eccentrica, delle Rime spirituali di Ferrante Carafa sarebbe da considerarsi la prima rea-lizzazione.

68 Si riferisce all’opinione di Socrate che, richiesto se il «re di Persia potentissi-

mo si fosse potuto veramente appellar beato, […] rispose non poterlo ben giudicare, perché non avea praticato seco, né sapea qual animo fusse in lui».

69 Pagnani 2008, p. 54. 70 La notizia risale a Pier Francesco da Tolentino, editore dell’Apologia, ma è

stata ripresa anche successivamente. Si cfr. Spotorno 1825, p. 16, che sostie-ne che Terminio, «venuto a Genova per dar opera agli Annali, non poté per morte immatura metter mano al difficil lavoro».

55

Il 15 novembre 1559 Cristoforo Belloni dedica l’edizione del Cortigiano del Sessa [Agostino Nifo]71 (Genova, Antonio Belloni, 1560) al napoletano Pasquale Caracciolo, pur non conoscendolo di persona, ma per la stima concepita nei suoi confronti grazie al racconto delle sue virtù fattogli da Antonio Terminio «ne gli spessi ragionamenti insieme havuti» (c. iiv). E volendo dare una dimostrazione tangibile della sua considerazione, «alla fine paran-domisi davanti un Trattato del Nipho del Cortigiano, il quale io gli anni a dietro havea fatto ridurre da M. Francesco Baldelli in questa lingua: essendo da molti richiesto a pubblicarlo hoggimai per beneficio universale», non perché il Caracciolo non sapesse leggerlo direttamente in latino, «ma perché propriamente non ho saputo con quale miglior presente le potessi per questa primiera volta venir dinanzi: mi sono risoluto con questo desso, qual egli sia: ritrahendolo (come rinato) a luce, sotto i suoi auspicii». Bello-ni è a conoscenza anche dell’opera del Caracciolo, non ancora pubblicata, La gloria del cavallo in quanto il manoscritto è nelle ma-ni di Terminio, ora momentaneamente assente, che ne ha avuto richiesta da molti tipografi. Grazie a questa dedica di Cristoforo Belloni siamo informati su un altro capitolo della biografia del Nostro, che viene a chiarire anche il significato di qualche sonetto pubblicato in seguito:

così piaccia al Sommo Iddio ch’egli ritorni di Corsica salvamente, acciò che non si ritardi più questo tanto aspettato bene […]. Ma l’impensata dipartenza di lui, che non ha potuto venir manco al per-sonaggio che l’ha richiesto, è stata ancor cagione, che non si sia potuto aggiugnere a questa impressione un Ristretto, che egli ha fat-to di quanto altri moderni si trovano havere scritto delle cose convegnenti ad huom di corte.

71 Si tratta del volgarizzamento del De re aulica di A. Nifo, stampato a Napoli

nel 1534 da Giovanni Antonio de Caneto.

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Le vie del paratesto sono (quasi) infinite: in poche righe sco-priamo che, da Napoli a Genova, Terminio aveva portato nel suo bagaglio molti manoscritti. Sapevamo (dal racconto di Laura Ter-racina) che si era fermato a Lucca a fine 1557 per consegnare al tipografo Busdrago il manoscritto delle Seste rime della poetessa; a giugno 1559 cura l’edizione delle Rime spirituali di Ferrante Carafa, prepara un ristretto (una sorta di bibliografia ragionata) da mettere a corredo del Cortegiano di Agostino Nifo; ha preparato il terreno per l’edizione (poi non realizzata) della Gloria del cavallo di Pasqua-le Caracciolo72 e di lì a qualche anno rispunterà (per breve tempo) a Venezia, quale curatore della Seconda parte delle stanze, in cui an-che è cospicua la presenza di “napoletani”.

Soprattutto mi pare importante (e del tutto inatteso) il riferi-mento all’andata in Corsica, al seguito di un personaggio evidentemente potente, perché l’anno è cruciale nei tormentati rapporti tra l’isola e la repubblica di Genova, che l’aveva riottenu-ta con il trattato di Cateau-Cambrésis. Il 7 novembre 1559 novembre le truppe francesi avevano lasciato l’isola e vi erano ri-tornati i genovesi, che tuttavia dovettero ancora a lungo fronteggiare la “resistenza” capeggiata da Sampiero Corso. La tregua durò poco e con buona probabilità lo stesso Terminio sarà stato, suo malgrado, coinvolto in qualche episodio bellico, come pare potersi ricavare da alcuni sonetti scritti per l’occasione e de-stinati alla stampa del 1563.

3.6. Si arriva così al 1563, anno del Secondo volume delle rime scelte di diversi autori, quasi sicuramente organizzato da Terminio stesso, che in quell’anno soltanto forse soggiornò per un breve periodo a

72 La prima edizione fu poi realizzata da Giolito nel 1566: Bongi 1890-95, II,

pp. 229-31.

57

Venezia, per curare la stampa de La seconda parte delle stanze di diver-si auttori, pubblicata anch’essa da Giolito. Quest’ultima raccolta, infatti, è preceduta da una dedica di Terminio alla nobildonna ge-novese Camilla Imperiali, datata Venezia 20 giugno 1563, in cui insieme ai soliti encomi leggiamo che le stanze stampate erano sta-te da lui raccolte in vari tempi.

Tornando al Secondo volume delle rime scelte di diversi autori, si ha la conferma, leggendo la dedica di Gabriel Giolito a David Imperia-li, forse figlio di Camilla e Michele, che ancora una volta Terminio avesse svolto una importante funzione nell’organizzazione dell’antologia. La dedica è datata 20 agosto 1563 (due mesi esatti dopo la dedica della Seconda parte delle stanze) e forse Terminio era già tornato a Genova, anche se la sua ‘im-pronta’ si intuisce da questo passo della dedica di Giolito, che dopo aver confessato la sua incapacità nel tessere adeguate lodi del destinatario, aggiunge:

Lascio adunque sì fatta impresa al virtuoso Terminio, il qual sì co-me con ardentissima affettione e perfetta fede sta sempre con voi congiunto, così con le vive forze della sua penna farà chiarissimi et immortali i vostri honori. Al che io conobbi lui tener indirizzati i suoi pensieri, quando egli, dandomi i giorni a dietro la Prima parte de’ suoi sonetti, per farmi scorgere quanto differissero dal proprio originale molti di quelli, che fra le Diverse Raccolte si trovano mescolati, mi richiese ch’io non dovessi farla uscir in altri modi, che dedicata al vostro nome et accoppiata in un particolar volumetto con la Seconda, la qual ap-presso mi manderebbe.

L’editore confessa tuttavia di non aver voluto attendere

l’arrivo di questa seconda parte delle rime del Terminio:

Et così a voi, generoso Signore, io qui appresento non pur delle pregiate fatiche di lui non picciola quantità, ma un gran numero an-cora di pretiosiss(ime) gemme.

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Dalle parole di Giolito si ricavano alcune precise indicazioni: 1) Terminio gli aveva lasciato personalmente una parte delle

sue rime da stampare (quindi il 20 agosto 1563 probabil-mente non si trovava più Venezia);

2) la sua vera intenzione era quella di stampare un autonomo volume di rime, diviso in due parti e da dedicarsi allo stesso Imperiali;

3) nel frattempo aveva lasciato a Giolito un congruo numero di sonetti (corrispondenti grosso modo alla ‘prima parte’) con un testo assai differente da quello precedentemente stampato;

4) l’editore, pur condividendo il proposito di Terminio, non ha ritenuto di dover aspettare l’invio della seconda parte prima di stampare un “particolar volumetto”, accontentandosi di mettere in antologia «non picciola quantità» di suoi com-ponimenti.

La posizione di rilievo che Terminio viene ad assumere nel contesto del Secondo volume delle rime scelte di diversi autori è ribadita dal fatto che la raccolta si apre proprio con i suoi componimenti e che il loro numero (132) è superiore a quello di tutti gli altri (pur importanti) poeti presentati.

Dopo il 1563 non si hanno più notizie dirette di Terminio e pertanto si potrebbe anche pensare che egli sia morto non molto tempo dopo. Inoltre, alla luce di quanto asserito da Giolito nel passo della dedica prima riportata, circa la fisionomia della raccol-ta di rime di Terminio, acquista un diverso valore l’affermazione di Pier Francesco da Tolentino, nella dedica dell’Apologia, di aver cioè ricevuto direttamente dall’autore anche «un libro di sonetti et epigrammi suoi». Sembra certo, confrontando le due affermazio-ni, che nel 1563, pur dopo la stampa dei 132 sonetti, rimanesse ancora un “libro” di rime inedite in parte o in tutto e che per la morte dell’autore sia stato condannato all’oblio.

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4. Temi delle rime di Terminio. Versi di corri-spondenza

4.1. Il trasferimento a Genova segna per tanti aspetti una svolta radicale nell’esistenza e nell’attività poetica di Terminio. In prima approssimazione si può osservare che i 73 sonetti e la serie di 30 ottave confluite nel “libro settimo” (1556) raccontino la storia di un amore infelice, cui fa da sfondo Napoli con il suo mare e il suo paesaggio. La raccolta più ampia del 1563 (130 sonetti e 2 strambotti), da leggere in pendant con le due serie di ottave stam-pate lo stesso anno nella Seconda parte delle stanze (la prima, di 30, riprende con notevoli varianti il testo edito nel ‘56; la seconda, di 20, è in prima edizione), “racconta” una biografia sentimentale bipartita tra l’infelice esperienza del primo amore e l’approdo, dopo iniziali ripulse, a un più tranquillo legame (trasfigurazione forse del matrimonio) nella nuova dimora genovese. È stata già segnalata la presenza dissimulata di piccoli “canzonieri” nel mare magnum delle antologie poetiche del Cinquecento1, ma nel caso di Terminio il fenomeno presenta proporzioni più corpose e docu-menta strategie rielaborative, sia per la lezione di singoli componimenti che per la nutrita serie di scarti e di implementa-zioni, necessariamente riconducibili all’autore, offrendo la possibilità di verificare un aspetto alquanto inconsueto della pras-si versificatoria di un petrarchista, che, pure nel contesto apparentemente dispersivo di un’antologia, riesce a insediare un intero “libro” di rime.

1 Cfr. Fedi 1990, Carrai 1989, Milburn 2001.

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Mi pare inoltre che l’aspetto più rilevante dell’attività poetica di Terminio sia il suo essere concentrata in un decennio (1553-1563), che coincide anche con gli anni di una fervida creatività giovanile rimasta poi senza esiti. Fatti i conti con la possibile data di nascita (tra il 1528 e il 1529), ci si avvede che, caso unico nel contesto del petrarchismo napoletano, egli approdi alle stampe appena venticinquenne con i carmi latini (1554) e ventisettenne con i versi in volgare del “libro settimo” (1556), mostrando di a-ver consolidato una serie di rapporti con i poeti della generazione degli anni dieci del Cinquecento (Di Costanzo, Rota, Tansillo, Ferrante Carafa e il più anziano Epicuro), come prova la nutrita serie di proposte e risposte che correda le Rime del 1556. Sembre-rebbe anzi che di Berardino Rota egli ami mostrarsi “allievo” (seguendo le orme del maestro sia nella poesia latina che volgare), indirizzandogli due sonetti collocati in seconda e terza posizione nella prima silloge, il secondo dei quali, poi espunto dalla siste-mazione del 1563, esibiva chiaro riferimento all’età giovanile dell’autore:

Quanto col mal purgato et rozo stile, ROTA, segnò mia giovinetta mano opra era più da darsi al fier Vulcano che d’accoppiarsi al tuo lavor sottile. (1556, 3: 1-4)

È evidente che all’altezza del 1563, allorché l’autore era pros-

simo ai 35 anni («del bel viaggio ancor non giunto al mezzo» precisa in 1563, 90: 10), il sonetto dovesse apparire inutilizzabile. Né credo debba trascurarsi un altro dato oggettivo: nella folla dei petrarchisti Terminio appare l’unico al quale le dediche (firmate rispettivamente da Dolce nel 1556 e da Gabriel Giolito nel 1563) delle antologie che lo ospitano fanno esplicito riferimento e aperti elogi. Se non è una certificazione di qualità, quantomeno può prendersi come implicito assolvimento a una richiesta della committenza, giacché le due raccolte del 1563 (La seconda parte del-

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le stanze e Il secondo volume delle rime scelte) sono dedicate a Camilla e Davide Imperiali, esponenti dell’aristocrazia genovese, mentre le prime sortite da Napoli (1554 e 1556), si è visto, sono sotto l’insegna di Matteo Montenero, rampollo di altra cospicua fami-glia genovese residente a Napoli. Non si spiegherebbe altrimenti la rilevanza anche grafica attribuita al nome di Terminio fin sul frontespizio dei Carmina del 1554 cui fa contrasto il ridotto corpo dei caratteri di stampa che indicano le presenze di Molza e Rota e la dicitura “aliorum illustrium poetarum”, che ingloba autori quali Epicuro, Di Costanzo, Tebaldeo e Gravina. E l’esordio della de-dica conferma che l’aureolum opusculum si dedica all’allievo di cotanto (benché giovane) maestro («Antonii Terminii Carmina, praeclara quidem et eruditissime scripta, quae ille amicis editio-nem efflagitantibus ne deesset, ad me misit, ut mea cura Gabrielis Iuliti formis in manus studiosorum exirent, tandem in tuo nomi-ne emittimus, Matthaee praestantissime»), con un cenno appena alle altre e più illustri presenze («His adiunximus Molsae, Bernar-dini Rotae equitis Neapolitani et aliorum vere illustrium Poetarum Carmina»), relegate quasi al rango di figure di comple-mento e in funzione di riempitivi per un opusculum altrimenti troppo gracile. Si potrebbe pertanto anche provvisoriamente concludere che l’eccessivo schiacciamento sul nome di Terminio tanto dei Carmina del 1554 che del “libro settimo” del 1556 ab-biano precluso la possibilità di ristampe determinando la rarità, notata da Bongi, delle due sillogi.

4.2. Un ulteriore aspetto dell’abilità autopromozionale di Termi-nio si deduce dalla scansione cronologica delle due antologie del 1563 in cui egli è presente. Nella Seconda parte delle stanze di diversi autori, pubblicata per sua cura e dedicata da Venezia il 20 giugno a Camilla Imperiali, stampa le ricordate due serie di stanze (30 + 20 ottave) dalle evidenti caratteristiche di poemetti autobiografici,

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cui è demandato il compito di riepilogare la sua breve esistenza. Anche in questo caso la bipartizione obbedisce all’esigenza di marcare i due tempi di una biografia divisa tra Napoli e Genova, il primo segnato dalla brusca interruzione di un amore frustrato dal matrimonio della donna:

Il sonno è messo in bando et s’ei talora appressa al tristo crin l’umida verga, mentre tornando al suo vecchio l’Aurora fa che l’erbette dolce brina asperga, ohimé che cruda imagine m’accora di quel che unito con mia diva alberga et la si tiene a tutte l’ore in braccio stretta con forte indissolubil laccio! (Stanze 1563 I, 15);

il secondo dall’amara constatazione che la lontananza non scema le pene d’amore:

Lasso me!, che terreno e ciel cangiando animo ancor cangiare io mi credea et, ampio sen di mar lungi varcando, l’empia guerra fuggir ch’Amor mi fea (Stanze 1563 II, 1: 1-4),

nonostante siano trascorsi quasi tre anni dalla partenza («Il tren-tesimo giro e terzo appunto / la figlia di Latona ha già fornito», Stanze 1563 II, 5: 1-2) e il nuovo soggiorno non sia inferiore al sito di Partenope («Riva più dilettevol, né più aprica / Febo non scorge dal balcon sovrano: / qui, colma di trofei, di gloria antica, / siede nel mezzo la città di Giano», Stanze 1563 II, 10: 1-4), né la gente meno ospitale («Ma non recan conforto a me dolente / ri-ve, fior, frondi, antri, onde, aure soavi / e il ritrovarmi tra festevol gente / rende le doglie mie più acerbe e gravi», Stanze 1563 II, 12: 1-4). Infine, la delusa ammissione che il volontario esilio genovese non ha smorzato le fiamme dell’amore lontano:

Stato assai meglio fora (or il conosco)

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arder et agghiacciar da presso sempre, ché forse un’ora il mio inquieto e fosco stato rivolto arebbe in miglior tempre: or convien ch’io –qual cervo al natio bosco guarda col ferro al fianco– in duol mi stempre e così vada, poi che vuol mia stella perpetue in me le fiamme e le quadrella (Stanze 1563 II, 20).

Se il trasferimento a Genova è riferibile all’inizio del 1557, in

base alla ricordata testimonianza di Laura Terracina, la composi-zione di questa seconda serie di stanze, per indicazione stessa dell’autore, andrebbe collocata nel 1559, in un tempo cioè in cui “le fiamme” del primo non ancora erano spente dal refrigerio del secondo amore, che è storia nuova e diversa il cui “racconto” è demandato al “libro” di rime che due mesi dopo sarebbe apparso nel Secondo volume delle rime scelte di diversi autori.

4.3. Difficile dire quanto sia vera la dichiarazione di Gabriel Gio-lito nella dedica del Secondo volume a proposito di una seconda parte delle rime di Terminio, che, unita alla prima di cui si offriva la stampa quasi inscio auctore, avrebbe dovuto formare “un partico-lar volumetto” da stamparsi autonomamente, se non altro perché quella che viene esibita come “Prima parte” basta e avanza per riepilogare la “storia” di un poeta non ancora trentacinquenne. A conti fatti e tenuto riguardo ai numeri, si osserva agevolmente che i 132 componimenti sono distribuiti in maniera tale che i primi cento costituiscono un “libro” in sé conchiuso2 con il rac-

2 È da rilevare come nell’organizzazione del suo macrotesto (50 + 50 + 32),

pur in assenza di dichiarate scansioni, d’altronde non agevolmente praticabili in contesti antologici, Terminio abbia subito la suggestione di un’organizzazione classicheggiante suggerita dai modelli latini che egli ben

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conto delle peripezie sentimentali, mentre i restanti trentadue formano una sezione di rime di encomio o di tematica funebre, estranee al tracciato dell’autobiografia liricamente trasfigurata, non priva, per parte sua, di rime di corrispondenza destinate a confidenti e testimoni delle private vicende dell’autore.

Si osserva inoltre che i primi cento componimenti obbedisco-no a una netta bipartizione tra la fase napoletana e quella genovese, perché il son. 51 è un’invocazione indiretta a Nettuno nel momento in cui il poeta si accinge a compiere il viaggio verso la nuova meta:

Poi che di voglie pretiose carca, con vele di desir, sarte di fede, cieco fanciullo, ch’al governo siede, spinge in mar di beltà del cor la barca, ah! non mi sia l’immensa gratia parca del gran Nettun, che ‘l mio periglio vede et ei precorra con tranquillo piede l’ondoso campo che da me si varca. Così per mille tavole dipinti gli onor da me divoto e i sacri altari avrà di mille vittime ancor tinti. Ma se pria ch’al bel porto ella s’accoglia venti minaccia fier destin contrari, ah, qui si rompa almen, pria che si scioglia!

Il son. 52 è un elogio di Genova, salutata come “sacro nido”

di Venere (v. 2) e “bella aurata culla di Cupido” (v. 3), e delle donne che la abitano:

Qui non donne mortai, ma eterne dive son, anzi stelle con ardenti rai

conosceva. Sulla questione cfr. in generale S. Carrai, Due modelli per il libro di rime: il canzoniere e il liber carminum, in Carrai 2006, pp. 13-24.

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da far sparire ogni indurato gielo (vv. 9-11).

La decisione di abbandonare Napoli tuttavia è accompagnata da dubbi, come mostrano i sonn. 47 e 48, indirizzati a un Carac-ciolo, che potrebbe essere Leonardo conte di Sant’Angelo, e a un Del Tufo, “fior de l’amoroso coro”: di fronte alla durezza della donna non rimane che partire:

Ma di queste sirene il rio cospetto or fia ‘l meglio a fuggir, dal3 patrio regno la vela rivolgendo al porto eletto (48: 12-14).

Nel son. 49 si rivolge al guanto che porterà in dono al nuovo

amore, giustificando la sua indecisione con il timore di patire nuove sofferenze:

Tu che a covrir quella leggiadra e bella man, fortunato guanto, eletto sei, che, non veduta ancor dagli occhi miei, solo per fama il cor m’apre e puntella, se non che donna troppo ingrata et fella, a cui di tutto me dono già fei, renduti m’ha sì indegni premi et rei, che d’ogni amor la mia mente è rubella, ben potrian tante gratie et sì splendenti che ‘l ciel mise in costei subito farmi di fiamma assai maggior gli spirti ardenti. Ma forza è, se da pria sì mal trattarmi volse il tiranno fier, ch’ora io paventi sotto l’insegna sua riprender l’armi.

È appena il caso di ricordare che la serie dei sonn. 47-54 non è

presente nella silloge del 1556, così come la redistribuzione dei

3 Il testo legge del.

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componimenti editi non avviene in maniera lineare. Le tavole di raffronto proposte in precedenza consentono di visualizzare le inserzioni e la utilizzazione entro il nuovo percorso di molte tes-sere microtestuali precedentemente adibite a raccontare momenti della prima storia amorosa. Si osserva così che nella sequenza 1-50 vengono recuperati 32 componimenti, che scendono a 12 nel-la sequenza 51-100, mentre 14 vengono inseriti nella sezione 101-132. Dei 73 componimenti editi nel 1556, la serie di ottave viene riproposta nella Seconda parte delle stanze, e i restanti 14 vengono abbandonati.

Terminio interviene non solo sull’ordinamento dei testi, ma anche, e talvolta in maniera radicale, sulla lezione, introducendo varianti che devono essere considerate varianti d’autore. Piccoli restauri a volte sono sufficienti a rendere più perspicuo il testo, come nel caso del dittico di sonetti al Sonno, il primo dei quali antologizzato da Carrai (1990, p. 172), che riproduce il testo nella prima redazione:

Sonno, che al mio pensier tu rappresenti l’imagin cara, allor che ‘l mondo in adre ombre involge tua queta, umida madre, poco rilevi i miei gravi tormenti, ché se mi stanno a l’alma ognior presenti l’alte bellezze, che di me fur ladre, brieve ruscello indarno aggiungi al padre Nettuno o debil lume a’ poli ardenti. Meglio fia, se giovare altrui ti piace, che la pallida mia smorta figura tu apporti e dica a lei che ‘l cor mi sface: “Non vedi, o a conoscer tarda e dura, che contemplando te si strugge e tace costui qual neve al sol tenera et pura?” (1563, 56)

Dalla prima alla seconda ‘edizione’ il testo rimane sostanzial-

mente invariato, con un unico intervento ai vv. 2-3, che nella lezione precedente

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la bella imagin cara, allor che d’adre ombre è involta tua queta umida madre

presentava umida madre come soggetto del passivo è involta, poi mutato nell’attivo involge e l’inserzione al v. 2 dell’oggetto mondo, che viene ad occupare lo spazio risultante dalla soppressione di bella, alquanto ridondante in unione con cara, sanandosi anche l’immagine un po’ tautologica della notte avvolta dalle stesse om-bre da lei generate.

Altrettanto economici gli interventi sull’altro sonetto al Sonno, tramato di più intensa drammaticità:

Almo, placido dio, queto et soave, che l’ore al tempo dolcemente fure et le fatiche ai corpi et l’atre cure a l’alme de’ mortai ristori et lave, porgi mano al mio cor, che trema e pave, da speranze affannato e da paure, se diman lo spaventi o l’assicure chi di lui regge l’una et l’altra chiave: dàgli almen posa in questo spatio, e ‘l santo umor vi spargi et le sue porte serra, finché a le cose il sol ritolga il manto. Ma se apportar gli de’ più lunga guerra il duro messo et più cagion di pianto, premalo eterno il tuo vigor sotterra. (1563, 39)

Si osservano al v. 3 la variante atre invece del precedente e più

generico altre, il passaggio ad assicure da assecure (v. 7), la riscrittura del v. 8, del quale si conserva solo la parola in rima (quella che tien di lui la propria chiave), e, con indubbio acquisto di concretezza, la variante a le cose in luogo di a la Notte (v. 11), eliminandosi, con simmetria rovesciata rispetto al sonetto precedente, l’immagine della Notte spogliata dal suo manto all’apparir del sole.

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Il tema dell’invocazione al Sonno ebbe larga fortuna tra Uma-nesimo e Rinascimento, come prova la nutrita antologia allestita da Carrai, fino a trovare il suo paradigma insuperato nel sonetto dellacasiano O Sonno, o de la queta, umida, ombrosa, composto con buona probabilità agli inizi del 15544, e che Terminio avrà potuto conoscere nell’intervallo tra la prima e la seconda edizione dei suoi versi, giacché la princeps delle Rime di Della Casa risale al 1558. Non entro nella partita complessa del dare e dell’avere. Mi limito a notare la significatica coincidenza della coppia aggettivale queta, umida riferita da entrambi alla Notte, così come non meno pregnante è l’aggettivo placido (Almo, placido dio, queto et soave, Ter-minio 1563, 39: 1; placido figlio, Della Casa LIV, 2) riferito al Sonno: se l’officina del petrarchismo a metà Cinquecento lavorava a ora-rio continuato e molti degli addetti avevano consuetudine anche con la poesia classica e umanistica, l’idea che la somiglianza di al-cuni esiti sia frutto di autonome procedure combinatorie potrà sembrare meno peregrina di quanto si sia disposti ad immaginare. Nel caso in specie, più che stabilire precedenze, è più proficuo limitarsi a rilevare coincidenze.

Tornando a Terminio, non è privo di significato che il primo dei due sonetti al Sonno occupi una posizione simmetrica nelle due raccolte: sesta nel 1556 e cinquanteseiesima nel 1563, quasi a confermare la divisione dei cento componimenti in due blocchi di cinquanta, mentre il secondo passa dalla settantunesima alla trentanovesima posizione, e in entrambe le raccolte, per la sua nota di scoramento, rimane a suggellare un desiderio di passare dal sonno alla morte, se le pene dell’amore infelice non dovessero cessare. Si vuol dire che mentre il primo sonetto, con la richiesta al Sonno di farsi mezzano del poeta nei confronti della donna che ancora ignorava l’amore di lui, poteva essere rifunzionalizzato en-

4 Per la datazione cfr. Fedi 1978, vol. II, p. 75 e le ulteriori osservazioni di Car-

rai 1990, pp. 52-61.

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tro il percorso della nuova vicenda genovese, l’altro conservava i caratteri di una preghiera destinata a rimanere inascoltata.

Immuni da processi variantistici si rivelano solo i due sonetti iniziali, il primo, un’apostrofe al «mal accorto cor», che senza prudenza e difese si abbandona fiducioso ai messaggeri di Amore, dai quali non riceverà che dolore e sofferenze; il secondo indiriz-zato a Berardino Rota, qui nelle vesti di maestro soprattutto di vita, con la richiesta di un saggio consiglio, ora che il poeta sente di non poter resistere alle lusinghe di Amore:

Per trarmi al regno suo possente et fero, con inganni et con forze Amor m’assalse ben mille volte; né miei passi valse torcer giamai dal destro erto sentiero. Vago pensier m’ardea sol d’onor vero, schivo di larve al vulgo amiche e false et s’anco al gran desir pari non salse, pur m’appagava il cor franco et altero. Or con nuove lusinghe ei mi rappella che raro d’alta fama a poggio corse cui non spronasse amante onesta e bella. ROTA, se cotal verme unqua ti morse, deh! consigliami tu, pria che rubella sia la ragion che m’è rimasa in forse. (1563, 2)

Rota rispose per le rime (Libro settimo, p. 53) con un sonetto

invero alquanto macchinoso (Qual huom sì scaltro mai, qual sì leggie-ro), ripreso nell’edizione Giolito dei Sonetti et Canzoni (Venezia 1567, p. 156), ma ormai mutato di destinatario, che dalla Tavola premessa al volume risulta essere Antonio Guido da Mantova, e successivamente eliminato dall’edizione finale del 1572 (Napoli, Cacchi)5.

5 Lo si legge infatti come son. CVI delle Rime rifiutate: Milite 2000, p. 608.

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È evidente che, data la giovane età del poeta, la diegesi artico-lata attraverso i componimenti è di breve respiro e tutta giocata, nella prima sezione, sul contrasto tra la serenità dell’esistenza an-teriore all’esperienza d’amore e i successivi turbamenti, che impli-cano il venir meno della libertà e dell’equilibrio anche razionale:

O lieto e dolce mio stato primiero, ove sei gito? O libertà mia bella mal conosciuta, e cqual sì cruda stella mi t’ha precisa? e cqual fato sì fiero? (1563, 3: 1-4),

mentre nella seconda sezione si registra il progressivo insediarsi di un nuovo amore nato dopo il trasferimento a Genova.

Della donna amata a Napoli Terminio rivela il nome, Arianna, ricordandole che il “nemico” Amore aveva fatto ricorso alla sua bellezza per debellare le difese della ragione:

Tutte sue forze la ragione ardita raccolte a far difesa, e ‘l fier nemico già ributtato, l’alto seggio antico possedea, più che mai lieta e fiorita, e quasi fosse d’ogni impaccio uscita, di pensier santi empiendo il cor pudico, vôto de’ pravi e d’un bell’ocio amico, viver mi fea tranquilla e dolce vita. Stava senza temer guerra futura, (come sovente la vittoria inganna!) d’arme e di compagnie nuda et sicura, quand’ei, col tuo valor novo, ARIANNA, dato il secondo assalto, entro le mura s’è spinto: e in duro essilio or la condanna. (1563, 5)

Un ulteriore elemento di identificazione della donna andrebbe

ricavato dal son. 12, il cui ultimo verso, «veda il mio fior su

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l’onorata spina» (corsivo mio), sembra nascondere un’allusione al blasone di famiglia6.

Il son. 16 riepiloga, all’insegna di naturalezza scevra di artifici, le prerogative di bellezza della donna amata, contrapposta (sem-brerebbe) all’ideale stereotipato vagheggiato dal petrarchismo corrente:

Altri la prima età, le crespe e bionde chiome, di lungo studio ad arte sciolte o vagamente in or forbito avolte, dican con maraviglia esser gioconde; amin le guancie, ov’ogni fallo asconde mentita neve et rose a prezzo colte, et più che la beltà mirin le accolte gemme che manda Idaspe et le Ross’onde. Me degli anni il bel mezo e i natii crini, attorti in un gentil candido velo, l’abito e ‘l volto schietti e pellegrini empion ognior di dolce ardente zelo. Ma co’ gli atti, madonna, almi e divini, più m’accendete e sollevate al cielo.

La scansione dei componimenti è intervallata ogni tanto da

versi di corrispondenza, quasi sempre direttamente legati allo svolgimento della tematica amorosa. Così nel son. 8 si rivolge a un «cugin» non identificato, che dal contesto sembrerebbe svol-gere la professione di medico («Da te per facil via talor si caccia / il sangue, che mal puro il petto annoia; / ei nelle vene mie bol-lendo agghiaccia»), mentre il son. 9 apostrofa Lodovico Ariosto («Tu, che cantasti con sì dolci accenti / le donne, i cavalier, l’arme e gli amori», vv. 1-2) esprimendo l’iperbolico concetto che la sua

6 Nello stesso ambito di similitudini riferite al fiore come simbolo della donna

amata si svolge anche il son. 13. Non dispongo di elementi decisivi per iden-tificare la famiglia della donna.

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grandezza poetica sarebbe stata ancora maggiore se, invece di cantare Angelica e Alcina, avesse avuto modo di vedere e cantare la donna da lui amata, definita «la mia Fenice singolar divina» (v. 11). La celebrazione della bellezza della donna amata si svolge con i procedimenti canonizzati da Petrarca, come viene dichiara-to dall’autore stesso nel son 25 (v. 13), quando definisce le sue poesie amorose come «tanti sospir, che in tante rime ho sparsi». Il son. 27 contiene l’allusione a un viaggio a Roma («... la città, che a tante peregrine / genti frenò le voglie aspre e nemiche», vv. 3-4) nel corso del quale il poeta è sempre sofferente «di mille amorose acute spine» (v. 6). I sonetti 29-32 raccontano l’inutile tentativo di liberarsi dalle pene d’amore, sebbene il poeta sia convinto della necessità di abbandonarsi a una passione meno violenta («E scor-go ben che di sì vana impresa / fora da rimanermi e d’altra face / l’alma tener men violenta accesa», 32: 9-11).

Il son. 33, indirizzato a un amico di nome Mario, esprime il dolore per il venir meno, insieme alla felicità, anche dell’ispirazione poetica («Almen di quella diva il santo lume, / ch’eternar ben potrebbe il mio mortale, / in tanta notte m’apparisse alquanto!», vv. 9-11), mentre non gli resta che vivere nell’attesa di una morte liberatrice (son. 34). Il son. 36 riepiloga con una nota di nostalgia l’amore inizialmente felice e tranquillo, poi trasformatosi in «fiera procella» (v. 5):

Quando nel mar d’Amor mia navicella prima spiegò la vela, erano l’onde crespate da soavi aure feconde e ‘l ciel seren con ogni amica stella. Nel più bel corso poi fiera procella le disarmò del tutto ambe le sponde, l’aria et l’acque turbò da le profonde sedi, né luce apparve altra che fella. Et, se non che Nettun per pietà vera la levò co ‘l tridente e spinse al lito, nulla speranza di salvarsi v’era.

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Il Noto or la richiama e del gradito porto l’affida; ma se in lui più spera, scoglio ove tosto rompa io ben l’addito.

Dopo un momentaneo rinascere della speranza («Ecco che mi

vedrete un’altra volta / pensoso, a passi infermi, i patrii lidi / gir di sospiri empiendo, amici fidi, / poi che m’è pur la libertà ritol-ta», 1563, 41: 1-4)7, l’insensibilità della donna amata più di «dura et salda pietra» «ch’aggia alpestro ed ermo colle» (son. 46, vv. 1 e 2) fa maturare il desiderio di fuga con il passaggio a una situazio-ne meno angosciata, in quanto il poeta ha abbandonato il regno in cui vive la donna crudele, per trasferirsi in Liguria, dove Amo-re «rivolse ... il volo», «e presso un’angioletta ivi s’accolse / chiaro del cielo et venerabil pegno» (son. 53, vv. 7-8). Il son. 54 registra il primo esplicito accenno alla nuova dimora genovese (il «bel soggiorno / del fortunato mio dolce Lercaro», vv. 1-2), popolata di bellezze femminili, riunite intorno al suo protettore Franco Lercari, tra le quali risplende una donna bella come il sole, che subito ha conquistato il cuore del poeta:

Fra tutti quei celesti eletti volti o come fiammeggiava il novo Sole, ch’io co ‘l cor reverente adoro et amo! (vv. 9-11)

Neppure il nuovo amore nella fase iniziale è stato privo di dif-

ficoltà (sonetti 55-61), tanto che il son. 61 è un invito ad assecondare l’ispirazione del poeta-amante, perché, di tutti gli onori, solo l’onore conferito dalla poesia consente a una donna di rimanere «più fresca sempre et più fiorita» (v. 10). Nel son. 62 po-trebbe forse essere adombrato il nome della donna amata, allorché Terminio si chiede perché le sue rime e i suoi sospiri, che potrebbero muovere a pietà «ogni aspra fera» (v. 12), non do-

7 Nella silloge del 1556 tale sonetto occupa l’ultima posizione.

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vrebbero commuovere «il cor d’un’Angioletta vera» (v. 14). Mi sembra che si possa stabilire uno stretto rapporto tra il son. 62 e il son. 53, in cui il poeta, parlando del trasferimento di Amore in Liguria, afferma che «presso un’angioletta ivi s’accolse» (v. 7). Può darsi che la donna amata a Genova abbia avuto il nome di Angela, anche se non si può dire con certezza che la stessa donna cantata nelle Rime sia quella in seguito sposata, appartenente, co-me si ricordava, alla famiglia Fieschi. In ogni caso il poeta giudica il suo nuovo amore un soggetto così elevato che, se egli avesse a disposizione «alte rime», il nome di lei sarebbe più famoso di quello di Laura, cantata da Petrarca, e di conseguenza il fiume Se-le (Sìlaro) «arebbe a vile / Arno et qual più di gloria è ricco fiume» (son. 63, vv. 10-11).

Con il son. 65 la nuova unione sembra rinsaldata e il poeta in-vita la donna a prendere pieno possesso della sua anima:

O di beltà felice unico mostro, mar di dolcezza et sol di leggiadria, a cui certo non fu, né forse fia, simil criata mai nel sovran chiostro, benché mal corrisponda al valor vostro il pover tetto umil de l’alma mia, che a voi consacro, pur grata vi fia la purità di lei più ch’oro et ostro. Ella or tiene ogni antico ospite a vile, essendo a tanto onor degnata, e in bando tutti gli pon, per voi fatta gentile. Entriate dunque e state ivi ascoltando, mentr’io con fioca voce e basso stile voi sola a tutte l’ore andrò cantando.

Seguono circa venti sonetti (66-87) che mostrano il poeta

nuovamente alle prese con schermaglie amorose, il cui felice epi-logo, secondo quanto viene dichiarato nel son. 90, sembra realizzarsi poco prima dei 35 anni, essendo l’autore «del bel viag-gio ancor non giunto al mezzo» (v. 10).

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La sequenza dei sonetti 91-98 è sul tema della lontananza e, grazie al recupero della notizia del passaggio di Terminio in Cor-sica nei mesi finali del 1559, le allusioni in essi contenute appaiono meno oscure, sebbene rimanga senza nome il «signor» al cui seguito egli si trova con il compito, sembrerebbe, di raccon-tare le sue imprese, cui confessa lo struggimento per la lontananza dalla donna amata e la speranza che al ritorno non trovi cambiati i suoi sentimenti:

Sì mi sprona il desio, Signor mio caro, di far del mondo in ogni strania parte il vostro onor (con quanto studio et arte per me potrassi) manifesto e chiaro, che dal terren mio sol, che splende a paro col celeste, ardirò gir in disparte, da cui, partir pensando, mi si parte l’alma e ‘l futuro duol da questo imparo. Ché s’appena or sopporto (e son con voi) lontananza sì poca; oimé! che sia d’ambiduo lunge tanto spatio poi? Almeno in ciò benigno il ciel mi sia, ch’io cangiati non trove i raggi suoi di luce ver’ me sol cortese e pia. (1563, 91)

Cristoforo Belloni nella dedica del Cortegiano di Nifo, prima ri-

cordata, aveva fatto riferimento alla spedizione in Corsica di Terminio quasi obbligato da un potente personaggio («che non ha potuto venir manco al personaggio che l’ha richiesto») e in quell’anno nessun altro al di fuori di Franco Lercari poteva eser-citare su di lui simile imperio.

Sullo stesso tema si diffondono i sonetti 92-94, l’ultimo dei quali si conclude con l’invito ai delfini (evidentemente riferimento a una spedizione marittima) a recarsi a Genova per verificare al cospetto della bellezza della sua donna se non siano pienamente giustificate le sue pene:

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Or gite voi di Giano al lito aprico, ch’ivi, d’ogni beltà scorta la palma, noto vi fia di me quel ch’io non dico. (1563, 94: 12-14)

Dal son. 95 sembrerebbe addirittura che Terminio si trovi im-

pegnato in episodi di guerra («Ponga pur monti e boschi e fiumi et mari / tra noi Fortuna e tengane in disparte; / e d’ogni ‘ntorno frema irato Marte, / sì che gli usati messi ancor sian rari», vv. 1-4), e nel sonetto 96 egli confessa che in mezzo a «tanti guai» il suo unico conforto rimane il ricordo della donna, la cui lontananza è fonte di sofferenze raccontate alla luna:

Qui dove mezzo son, sì lungi absente da voi, tesor mio caro, in cui lasciai il meglio e ‘l più di me, fra tanti guai un sol conforto l’egra spoglia sente: ché nel pensier di voi fissa la mente sempre tenendo, i miei notturni lai a lei, che splende dai fraterni rai, stanco mi pongo a ricontar sovente. (vv. 1-8)

Il son. 98 è un’accorata e struggente invocazione della Liguria

lontana, sentita ormai come nuova patria:

O benedetto lido, o sacra arena, ove le belle fiamme al cor m’accese benigno Amor, che a gloriose imprese scorta mi vien con luce alma et serena, ei col pensier tenace ognior mi mena, vaga Liguria, al tuo dolce paese, benché le piume ancor mi sian contese, per quetar col ritorno ogni mia pena. Or da te lungi errando il fral mio legno, non sa se la sua stella aspra destine che lieto entrar mai debba al tuo bel porto. Ma se di tanta gratia affatto è indegno, romper almen gli sia sommo conforto

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presso a le tue sì chiare acque marine.

Il son. 98 si pone come suggello alla vicenda amorosa, giacché i componimenti 99 e 100 sono due strambotti che, nell’evidente concisione epigrammatica con cui ribadiscono la potenza di A-more, sembrano svolgere anche la funzione di colmare la misura dei cento componimenti il penultimo dei quali adombra forse (v. 4) il nome della donna amata:

Nel mar nacque la dea cui Cipro adora, madre d’Amor, che nella terza sfera del ciel fiammeggia e tutto il mondo infiora. Dal mar si forma il suon di questa altera donna immortal, che Italia tutta onora e tien d’ogni beltà la gloria intera. Ma che? Tien pur del mar l’empia natura, ché d’altrui priego o lagrimar non cura. (1563, 99)

I rimanenti sonetti (101-132) costituiscono una sezione a par-

te. Si tratta infatti esclusivamente di versi di corrispondenza indirizzati a dame illustri, a mecenati e amici letterati, la cui identi-ficazione in molti casi si presenta problematica per l’assenza di ogni didascalia. Pertanto è abbastanza facile individuare Laura Terracina, quale destinataria del son. 101 («Laura, che sol di mirto o schietto lauro»), invitata da Terminio a cantare il suo protettore napoletano Leonardo Caracciolo, cui è rivolto il son. 102 («Spiri-to generoso, invitto e chiaro»)8. I sonetti 103 e 104, si è visto, trattano le lodi di Giovanna d’Aragona, mentre il 105 è rivolto a una donna di stirpe reale di nome Maria, che potrebbe essere Ma-ria d’Aragona, sorella di Giovanna, vedova di Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto. A una figlia di Maria d’Aragona è rivolto il

8 Riprende, con qualche variante, il terzo dei tre sonetti editi nel sesto libro del

Ruscelli (Venezia 1553).

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son. 106, anche se il nome della donna, Beatrice, che si legge nell’edizione 1556 nella seconda edizione viene omesso nel con-testo di una radicale riscrittura dei ternari:

1563, 106 1556, 20 Come nel sommo polo, onde Aquilonespiega le dure et violente piume, cinto d’eterni rai si scorge un lume, che le volubil rote unqua non pone; e, di lui nata, con ardente sprone par ch’infiammata stella abbia in costume venirgli a tergo et che d’intorno allume con pari luce il ciel d’ogni stagione: così d’Europa ornando il più bel clima l’inclita vostra madre ognior fiammeggia et mentre al cerchio glorioso è in cima, DAVALA, voi seguite a l’altre innanti, con beltà, che non pur la sua pareggia, ma Parthenope inalza a maggior vanti.

Come nel sommo polo, onde Aquilone spiega l’audaci et violente piume, cinto d’eterni rai si scorge un lume, che le volubil rote unqua non pone; e, di sè nata, con ardente sprone par ch’infiammata stella abbia in costume venirgli a tergo et che d’intorno allume con pari luce il ciel d’ogni stagione: così d’Europa ornando il più bel clima la gran madre Aragona orna e rischiara assisa d’alta gloria in su la cima. Segue la beltà vostra altera et rara, alma Beatrice, e tra l’elette prima che Italia rende ognior più lieta et chiara

Il confronto fra le due redazioni rivela che nel 1556 il sonetto era un elogio della bellezza di Beatrice d’Avalos, non più fungibile nel 1563, perché la donna, moglie di Alfonso de Guevara, conte di Potenza, era morta di parto nel novembre del 1558. Per l’occasione fu stampata nel gennaio del 1559 (Napoli, Mattia Cancer) una Scelta delle rime di alcuni gentilissimi spiriti nella morte dell’illustrissima donna Beatrice d’Avala, figlia dell’eccell. della sign. Mar-chesa del Vasto, cui parteciparono fra gli altri Tansillo e Di Costanzo9, mentre ormai Terminio si era trasferito a Genova. La successiva redazione si trasforma in un più generico elogio di al-tra figlia di Maria d’Aragona (Antonia o Maria iunior?) con un

9 Cfr. Percopo 1926, pp. XXV-XXVI.

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intervento anche sullo schema rimico della sirma che passa da CDC DCD a CDC EDE.

I sonetti 107-108 costituiscono un dittico per Clarice Orsini10, donna di grande bellezza e virtù, in uno dei quali si invita anche Tansillo a tesserne gli elogi11. Di difficile identificazione è la «donna real» del son. 109, che nel v. 9 viene paragonata, per la bellezza e per essere madre di due gemelli, all’antica Leda, «la gre-ca alma reina, / ch’arder fe’ Giove e trasformarsi il viso» (vv. 10-11). La donna di nome Lucrezia cantata nel son. 110 potrebbe es-sere una giovinetta della famiglia Di Capua, venuta al mondo per arricchire di prestigio e di lodi il fiume Volturno, che attraversa appunto la città di Capua, che in tal modo apostrofa il Tevere nel ternario finale:

«Altiero fiume or ben (disse) ti sfido: LUCRETIA mia, d’ogni virtù tesauro, pompe maggior m’apporta e maggior grido».

Qui sovviene Girolamo Ruscelli (1552, c. 43v), che, elencando

il fiore delle dame napoletane del tempo, ricorda una Lucretia Di Capua, figlia di Maria Di Capua12 duchessa di Termoli, come donna di «divinissima bellezza et veramente angelici costumi».

10 Figlia di Giovanni Giordano Orsini di Bracciano e di Felicia della Rovere, fu

la prima moglie di Luigi Carafa (1511-1576), principe di Stigliano. 11 Al son. 108 di Terminio, Poi che di Xanto in su la fresca riva, il Tansillo risponde

con il son. Mentre arse del mio cor la fiamma viva: Pèrcopo-Toscano 1996, son. CCCXVI. Terminio coinvolse nella celebrazione della donna, oltre Tansillo, anche Giulio Cesare Caracciolo e Angelo Di Costanzo, i cui sonetti si leggo-no nel libro settimo del 1556.

12 Alla morte del padre Ferrante (1523) aveva ereditato il ducato di Termoli, con l’impegno di sposare il cugino Vincenzo di Capua (che divenne III duca di Termoli), mentre alla sorella maggiore Isabella, poi sposa di Ferrante Gon-

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Il son. 111 loda i «saggi costumi» e il «bel viso» di una donna della famiglia Della Marra, che, stando al gioco di parole del v. 10 («a bear destinata il nosto coro»), sembra chiamarsi Beatrice. I sonn. 112-113 sono dedicati a una «Ligura illustre» della famiglia Lomellini («Lomellina felice, in cui si spense», 113: 1). Il son. 114, pur essendo abbastanza elaborato, consente di individuare la donna che Terminio propone come tema di poesia alle ninfe del mar Ligure, grazie al paragone instaurato nei vv. 4-8:

Qual trionfando con divino onore entrò Camillo a le superbe mura, tal vien tra voi, leggiadra accorta e pura, donna a lui par di nome e di splendore.

La donna «par di nome e di splendore» all’antico Camillo può essere solo Camilla Imperiali, alla quale Terminio dedica nello stesso anno La seconda parte delle stanze di diversi auttori. I sonn. 115-129 celebrano o compiangono personaggi di non facile identificazione. Tra questi merita una lettura il son. 129, se non altro per la particolare ambientazione:

Giunta Isabella in su la stigia riva, sparvero i mostri immantinente et l’acque divenner chiare; il Can terribil tacque e ‘l Nocchier l’onorò qual vera Diva. Indi, con fronte vergognosa e schiva condotta innanzi al re spietato, nacque pietà nel cor di lui, tal che gli spiacque la man per fato aver di gratie priva. Ben gridò: “Chi la vita omai non sprezze, poi che d’amor e di mercé sì degno stame anzi ‘l dì ria destra avien che spezze? Et chi dirà crudele il nostro regno,

zaga, era andato il principato di Molfetta e Giovinazzo: cfr. de Gioia Gadale-ta 2003.

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poiché là sù cotante alme bellezze a piegar non bastaro umano ingegno”?

A tutta prima i versi sembrerebbero scritti per Isabella Di Ca-

pua, vedova di Ferrante Gonzaga, morta nel 1559 (e ciò ne spiegherebbe l’assenza nelle Rime del 1556), ma si oppone a tale ipotesi il riferimento alla giovane età della donna, la cui vita è sta-ta spezzata da mano violenta. Tale sembra il significato dei vv. 10-11 («…d’amor e di mercé sì degno / stame anzi ‘l dì ria destra avien che spezze»), che mal si addice a una donna morta a 47 anni e dopo lunga malattia. Distaccandosi dalla sonetteria funebre cor-rente, di ambientazione solitamente paradisiaca, Terminio si muove sul filo di un concettoso paradosso, immaginando invece l’arrivo della donna nel regno dei morti, dove produce, per effet-to di virtù e bellezza, incredibili miracoli, dall’illimpidirsi delle acque di Stige al silenzio di Cerbero, dalla riverenza di Caronte al moto di pietà suscitato in Plutone (il “re spietato”), che prorom-pe nell’invettiva finale contro la crudeltà dell’umano ingegno che non ha esitato a recidere il fiore di tanta bellezza. È difficile resi-stere alla tentazione di leggere il sonetto come compianto (sia pure largamente postumo) per la morte immatura e violenta di Isabella di Morra13, la cui seconda e ultima apparizione per le stampe14 aveva coinciso proprio con il solenne esordio di Termi-nio nel libro settimo del 1556. Si tratterebbe comunque di un unicum eccezionale, giacché sulla tragica vicenda non fu versata, da quel che si sa, nemmeno una goccia di inchiostro. Ciò che tuttavia la-scia in dubbio, pure di fronte alla difficoltà di trovare in quegli anni altra Isabella uccisa anzi tempo da mano violenta, è l’assenza

13 Sono debitore di questo suggerimento alla dott.ssa Daniela Iovino, che ha

discusso, nell’anno accademico 2007-08, una tesi di laurea sulle Rime di Isa-bella di Morra (Relatore T. R. Toscano).

14 Sulla tradizione delle Rime di Isabella di Morra, cfr. Toscano 2007.

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di ogni riferimento, in tanto corredo di grazie, proprio alla sua at-tività poetica.

Il son. 130 è indirizzato ad Angelo Di Costanzo per consolarlo della morte del figlio, come il seguente, nel quale si invita l’amico poeta a non far troppo conto della crudeltà della donna inutil-mente amata e di dedicare la sua vita e le sue rime ad altro amore. L’ultimo sonetto, presente solo nell’ed. 1563, è indirizzato ad Annibal Caro e fa ancora una volta riferimento a un soggiorno romano di Terminio, nel corso del quale ebbe modo di conoscere personalmente il traduttore dell’Eneide:

Gran tempo il suon de le tue penne e ‘l grido seguii da lunge, altero augel canoro, che trai su ‘l Tebro il dotto aonio coro: or son pur giunto al tuo famoso nido e del mio cor l’affetto ardente et fido scovrir vorrei; ma a’ piè del sacro alloro, onde d’Apollo spargi il bel tesoro, temo sonar palustre incolto strido. Già sì quest’ombre et queste rive i’ colo, che poggio in terra non arei più caro, s’ir mi lasciasse Amor fuor del suo stuolo. Pur conterò per vanto eccelso et raro, tornato ov’egli mi ritira a volo: “Tra l’altre meraviglie io vidi il CARO”.

I ternari finali, con il richiamo all’imperio di Amore, aggancia-

no la sezione delle rime di corrispondenza alla trama principale del “libro”, lasciando presagire la ripresa della tematica amorosa: un’apertura forse su quella che Giolito aveva preannunciato come seconda parte delle rime, ma la cui assenza non destituisce di com-pattezza la duplice “storia” raccontata da Terminio nel Secondo volume delle rime scelte di diversi autori.

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4.4. Se aggiunte e soppressioni di componimenti o una diversa dislocazione di quelli stampati nel 1556 mostrano il chiaro tenta-tivo di Terminio di organizzare un suo “libro” di rime entro il più largo contenitore del Secondo libro delle rime scelte del 1563, non per questo si deve ritenere la prima silloge come un organismo as-semblato alla rinfusa, perché anche in questo caso l’autore, checché sostenesse Ludovico Dolce nella dedica circa la casualità dell’ordinamento, ha disposto con chiarezza le parti, raggruppan-dole in due segmenti rispettivamente di 53 e 20 componimenti, separati da un intervallo “tipografico” (pp. 26-52 e 202-224). Prova ne sia che i sonn. 51-52-53, il primo e l’ultimo dei quali non ripresi nel 1563, mostrano un’intonazione penitenziale e la chiara volontà di liberarsi dalle passioni terrene. Il son. 53, leggi-bile come conclusione provvisoria, è una invocazione a Dio perché sorregga il poeta nel difficile cammino verso il bene spiri-tuale:

Però tu, che di lume, onde il migliore conosca, Re del ciel, m’hai fatto degno, dammi a fuggir il peggio ancor vigore, ché senza la tua destra io per mi’ ‘ngegno non mi confido alzar l’oppresso core da tante some al tuo beato regno. (1556, 53: 9-14)

Il secondo blocco di 20 componimenti si apre con una visione

di sfolgorante bellezza femminile (Di fior vermigli adorna in bianchi panni) che riconduce il poeta alla servitù d’amore, invincibile no-nostante i risentimenti causati dalla durezza della donna, come dichiara il sonetto conclusivo, vera e propria proclamazione di resa esibita agli “amici” ai quali si annuncia il ritorno alla poesia in coincidenza della perdita della libertà:

Ecco che mi vedrete un’altra volta pensoso, a passi infermi, i patrii lidi gir di sospiri empiendo, amici fidi,

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poi che m’è pur la libertà ritolta. Chi può fuggir sua stella? Io già disciolta l’alma tener credea dai lacci infidi, onde stretto gittai cotanti stridi et or l’ho più che mai repente involta. Vostri consigli in me non han più loco: e cquando incontro Amor (lasso) mai forza d’ingegno o di ragion molto né poco? Scrivete, dunque, voi per ogni scorza di colto lauro che amoroso foco pioggia d’ira non spegne, anzi rinforza. (1556, 73)15.

4.5. Solo brevi osservazioni in conclusione per quanto attiene le scelte metriche, a partire dalla esclusività quasi totale dell’impiego del sonetto (130/132), nella cui testura metrica si riscontra una percentuale del 100% della rima incrociata (ABBA ABBA) nella fronte e una appena maggiore varietà nella sirma, zona nella quale più cospicui appaiono gli interventi variantistici nel passaggio dall’ed. 1556 all’ed.1563. Due campioni di testo per mostrare co-me non di rado la rielaborazione del testo implichi una mutazione dello schema rimico della sirma. Il son. 16, riportato in preceden-za, presenta le rime replicate CDC DCD, che soppianta lo schema CDD DCC dell’ed. 1556; mentre nel son. 17 si registra il passaggio da CDC DCD a CDC EDE:

15 Il testo subisce alcuni interventi nell’ed. 1563, superandosi il probabile erro-

re di lettura al v. 10: Amor (lasso) > Amor valse, con l’aggiunta di alcune varianti migliorative: 5. Chi può fuggir sua stella] Chi mi darà più schermo; 8. più che mai repente] peggio assai di nuovo.

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1563, 17 1556, 47

Già il tuo foco sottil di vena in vena rapidamente è scorso e d’osso in osso, tal che a la morte espressa or or mi mena. Ma quando, spento ogni vital mi’ umore,)sarà lo spirto da le membra scosso, pur vivrò in gioia con sì divo ardore.

Ma spero ben che, da le membra scosso lo spirto, lor darai tu polso et lena, onde non dica io che più non posso.

Nel dettaglio si osserva che negli schemi rimici delle terzine Terminio mostra una netta preferenza per la sequenza CDC DCD (120 su 130, cui andrebbero aggiunti i 14 sonetti del 1556 non ristampati nel 1563, tutti con rime CDC DCD), mentre nell’esigua parte restante si osserva in 7 casi lo schema CDC EDE16, in 4 rispettivamente CDD DCC e CDE CDE, due sole attestazioni per CDE CED, e 1 per CDE DEC e CDE ECD.

Né molto elaborata è la testura metrica dell’unica canzone co-nosciuta di Terminio, stampata in premessa alle Rime sprituali di Ferrante Carafa cui è rivolta: sette stanze di 9 versi di piedi e sir-ma con rime ABBA ACcDD, con congedo simile alla sirma. Lo schema non è petrarchesco anche se ricalca, con la sottrazione di due versi nella sirma, RVF CCCLIX (Quando il soave mio fido conforto) il cui schema è ABBA ACcDdEE.

16 Schema assente in Petrarca, ma utilizzato in tre casi da Bembo (ed. Dorico,

Roma 1548) e in sei da Guidiccioni sui 116 sonetti stampati nelle Rime diverse di molti eccellentissimi auttori (Venezia, Giolito, 1545), edizione utilmente ripro-dotta con introduzione e corredo di biografie degli autori: Tomasi-Zaja 2001. Ulteriori pertinenti osservazioni sulla pratica cinquecentesca del sonetto in Bartolomeo 2001.

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Conclusione minima

Il rapido excursus sulla breve e tuttavia intensa attività letteraria di Antonio Terminio costituisce per molti versi la conferma, al di là del giudizio di valore che si voglia dare sui suoi versi, di come nel corso del Cinquecento il petrarchismo sia stata la più frequen-tata via italiana alla letteratura, consentendo anche a esponenti di ceti subalterni di poter stabilire rapporti e consolidare amicizie che per altra strada sarebbero stati impensabili. Il giovane venuto da Contursi, con buona conoscenza dei classici latini e volgari, seppe in pochi anni acquistarsi la protezione e la stima non solo di esponenti dell’aristocrazia e del mondo dell’alta finanza, ma anche l’ammissione a quella sodalitas di poeti che, se non implica-va l’abbattimento di barriere sociali, consentiva la socializzazione di una pratica della poesia che superava le differenze nell’atto stesso in cui riconosceva l’interlocutore degno di far parte del co-ro. In un’epoca in cui, e soprattutto a Napoli, il blasone e l’etichetta avevano il loro peso, non sembra trascurabile il dato che Antonio Terminio da Contursi, figlio di contadini come egli stesso orgogliosamente rivendica1, si sia potuto presentare al pubblico appena venticinquenne con i Carmina del 1554 e due anni dopo come rimatore in volgare nel novero di diversi illustri signori napoletani. L’assenza di notizie più precise sull’identità della sposa genovese, appartenente alla illustre casata dei Fieschi, non ci consente di dire se alla promozione poetica abbia fatto seguito anche una effettiva promozione sociale. La testimonianza di Pier Francesco da Tolentino, che lo andò a visitare in Genova, cre-

1 Non sembra affatto accettabile l’affermazione di Pagnani 2008, p. 16, secon-

do cui Antonio sarebbe figlio dell’umanista Giunio Albino Terminio.

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dendo «di trovarlo in prospero stato, ché havea già tolta moglie con buona dote», aggiungendo la notizia di uno stato di infermità «con poca speranza di vita», sembrerebbe una parziale conferma. La morte, che probabilmente lo colse non ancora trentacinquenne, interruppe la brillante traiettoria letteraria e so-ciale del giovane partito dai campi del Cupone, avendo come unica commendatizia l’amorosa conoscenza dei poeti antichi e moderni e una sorprendente capacità di rimodularne la voce.

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Appendice

L’elegia autobiografica a Matteo Montenero

90

Nella riproduzione del testo gli interventi si limitano a distin-

guere la u dalla v e alla razionalizzazione dell’interpunzione. Le poche necessarie correzioni di refusi sono indicate ai rispettivi luoghi. Ringrazio il collega Crescenzo Formicola per la cordiale attenzione prestata nella revisione del testo e della traduzione.

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AD M. MONTENIGRUM IANUENSEM

Quid mihi tu ingentes populos aedesque superbas1 Obicis2 et patriae moenia celsa tuae? Illa quidem belli studio navalis opumque Vi praestans, tuto stat speciosa situ Tyrrhenique sali tanquam Regina per orbem 5 Diffudit laudes invidiosa suas. Illius immensas late impacatus Araxis3 Persensit vires et gelidus Tanais4, Ut sileam Alphaeae quot bella immania Pisae5, Aemulaque Adriaci littora6 pertulerint 10 Quaeque illam potior sublimibus intulit astris Gloria praeclaris floruit usque viris. Quis tot Fulgosios, Dorias enarret, Adurnos Totque alios fortes corde manuque Duces? Quos inter celebranda tuae sunt nomina gentis, 15 Monteniger: longa dignum opus historia. Haec nos magna quidem Fortunae dona fatemur

1 aedesque superbas: quasi identica clausola in Catullo LXIV 85: sedesque superbas. 2 Obiicis n. t 3 impacatus Araxis: Arasse, fiume dell’Armenia, rievocato come una sorta di

confine orientale dell’espansione commerciale dei genovesi; cfr. Verg. Aen. VIII 728: indignatus Araxes in fine verso.

4 gelidus Tanais: Verg. Georg. IV 517: Tanaimque nivalem (con riferimento alle ac-que frequentemente ghiacciate del Don).

5 Cfr. Verg. Georg. III 180: «aut Alphea rotis praelabi flumina Pisae». Pisa è città dell’Elide, ricordata anche da Ov. Met. V 494 come patria di Aretusa («Pisa mihi patria est et ab Elide ducimus ortus»), che per fuggire l’amore del fiume Alfeo, attraversando le viscere della terra, giunse fino a Ortigia. Tuttavia in questo contesto è probabile che Terminio alluda alle lotte tra Genova e la re-pubblica marinara di Pisa, e l’attributo alfea potrebbe indicarne lo stretto legame con il fiume Arno.

6 La repubblica di Venezia.

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Ducere spectatum nobili in Urbe genus. Non tamen oppidulo susceptas paupere cunas Despicere omnino fas humilesque casas. 20 Tales Fabricius coluit, gens Aelia tales, E tali Cicero est editus et Marius. Et dumis Ithaca et nudis asperrima saxis, Vix erat armentis commoda montivagis, At Laerte satum nec munera summa nec agri 25 Felices pulchrae detinuere Deae. Non captus blandus Sirenum cantibus ille Constitit aut genitae Sole veneficiis. Non potuit Pheacum inter convivia lauta Et lusus patrios pellere mente lares. 30 Quisque suae tacita rapimur dulcedine terrae: Ingenua haec semper pectora cura movet. Utcunque est, quo prima solo vestigia fixi, Matris ubi arridens ubera prima bibi, Haud ausim ipse meis praeferre penatibus omnes 35 Urbis divitias delitiasque tuae. Me Lucanorum genuit Contursia tellus Antiqui servans nomen adhuc populi; Nanque Ursentinos solita est memorare vetustas, Qui quondam nostros incoluere locos. 40 Multaque testantur passim monimenta per agros7, Quum tot disiectas obruat herba domos. Dum saecla auriferi viguerunt candida Regis8 Sparsim campestres ii tenuere focos. At postquam fera tela Iovis bellique tumultus 45 Venere, incensis Eumenidum facibus, Aprici collis triplici mox culmina muro Cinxere extructis turribus unanimes,

7 Senza entrare nella contesa circa l’insediamento originario da cui poi si trasfe-

rirono i fondatori dell’attuale Contursi, sembra certo che Terminio qui alluda ai resti archeologici visibili ai suoi tempi nella località denominata Saginara.

8 Saturno, con riferimento ai Saturnia regna del mito.

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Cui Silarus gelidis radices perluit undis. Non alter Silaro clarior e fluviis 50 Quodque stupent prisci, ramos lapidescere in amne9: Ripa docet topho10 conglaciata rudi. A tergo, haud procul hinc, Boreas qua nubila pellit, Exerit Hirpino monte11 caput vitreum, Ast in conspectu nostrique in limite campi, 55 Cum Nigra12 iungit foedera chara sua. Olim sylvicolae nutrita in valle Dianae, Oderat oblatos Nympha parente toros, Et dum virgineas linquit pudibunda choreas, Lenta diu altricis delituit gremio. 60 Speluncam tandem furtivis ducta sub altam Callibus, incomptis13 prodiit atra comis Atque atro praecincta (hinc nomen traxit) amictu, Ducebat nigra vellera nigra colo. Ut vero sceptrumque potens formamque mariti 65 Egregiam sensit iussaque certa patris, Primum ibi solemnem praerupti marmoris aram Sacraque dilectae constituit dominae, Dein sumptis animis magnoque impulsa fragore

9 Silio Italico, Punicorum VIII 580-81: «nunc Silarus quos nutrit aquis, quo gurgi-

te tradunt / duritiem lapidum mersis inolescere ramis». Il fenomeno è ricordato anche nella Historia naturalis di Plinio II 106: «In Ciconum flumine et in Piceno lacu Velino lignum deiectum lapideo cortice obducitur; et in Su-rio Colchidis flumine, adeo ut lapidem plerumque durans adhuc integat cortex; similiter in flumine Silero ultra Surrentum non uirgulta modo immersa, uerum et folia lapidescunt, alias salubri potu eius aquae».

10 Cfr. Ovidio, Her. XV 141: «Antra vident oculi scabro pendentia topho». 11 La sorgente del Sele è sul monte Cervialto. 12 Sebbene nel testo a stampa il nome sia con l’iniziale minuscola, è chiaro che

Terminio, volendo trasfigurare la confluenza del Tanagro nel Sele in mitolo-giche nozze, abbia dovuto cambiare di genere la denominazione del fiume Tanagro, detto anche Nero.

13 Cfr. Properzio, Eleg. I 15, 11: «Multos illa dies incomptis maesta capillis».

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Secum Naiadas mille superba vehit. 70 Quam Silarus laetis occurrens vestibus ornat Complexam et lato collocat in thalamo. Praebentur nostris pulchra haec spectacla fenestris; Nosque illis canimus saepe: “Hymenaee Hymen.” Saepe illis, rabidi dum sol coquit ora Leonis, 75 Libamus liquido cymbia plena mero, Gratum populea captantes frigus in umbra, Et somnos crepitans quos movet unda leves14. Tum si collibeat vitare salubrius aestum Ferventesque dies dulcius extrahere 80 Ad sua me invitat blandus solatia, sacros Cuponi ad fontes atque vireta pater. Cuponum patrio sub colle existit amoenum, Qua medio Titan librat in orbe rotas. Non ingens fundus, verum bene cultus, avitus, 85 Proximus urbanae conspicuusque domo. Arboribus sepes illum densissima cingit, Quae Phaebo gratae sunt magis ac Paphiae. Et quarum inventrix fertur Tritonia Pallas. Pallescit pinguem sylva et opacat humum, 90 Ut, quum bacca olidis fuerit contusa trapetis, Plurimus intorto manet ab axe liquor. Hic dum bruma riget, seta suspensus equina Turdus obit, structas lapsus in insidias. Uvida pampineis redimitus tempora sertis 95 Hic sua largitur munera laeta Deus. Musta lacu fervent15, quae non cessura Falernis. Condit odoratis cella referta cadis Plurima perque trabes Bumastus16 passa racemos Continet, haud quales Anacreonta necent. 100 Poma quid hic referam? sunt quae longinqua Damascus17

14 Ovidio, Met. XI 604: «Invitat somnos crepitantibus unda lapillis». 15 Ovidio, Trist. III 10, 72: «Nec cumulant altos fervida musta lacus». 16 Cfr. Verg. Georg. II 102: «Transierim, Rhodia, et tumidis, Bumaste, racemis».

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Quaeque gravi Persis misit iniqua dolo. Quanta soli vis est: illic loetale venenum Quod fuerat, dulci hic ora sapore iuvat. Quid quae Cressa Cydon dedit? Et quae Punica tellus 105 Sive plaga Cereris filia ab Elysia18? Quaeque tulit Ponti victor Lucullus19 ab urbe? Queque tenent caedis Pyrame signa tuae20? Hic sorba, hic acrem servantia corna ruborem; Omnigenum malum hic, omnigenumque pirum. 110 Hic ficus bifera21 pendent ex arbore, collo Languenti, lacera veste, graves lacrimis. Quam iuvat hinc tenui deceptam prendere filo Quae gemat et patula clune nitescat avis, Mox praedam longa praefixam in arundine ad urbem 115 Portare et gratas inde parare dapes Quosque prius calathis cistave ancillula fructus Vectarit nitidis exposuisse toris. Hinc in vimineas hyberna obsonia crates Siccanda aestivis solibus excipere. 120 Post ubi crebrescunt aurae, deferbuit ardor, Et maior summis iam cadit umbra iugis22,

17 I vv. 101-104 rielaborano Columella, de re rustica X 404-08: «Armeniisque et

cereolis prunisque Damasci / Stipantur calathi et pomis, quae barbara Persis / Miserat, ut fama est, patriis armata venenis. / At nunc expositi parvo di-scrimine leti / Ambrosios praebent sucos, oblita nocendi». La perifrasi indica la prunus persica (pesca).

18 Riferimento ai mala Cydonia (mele cotogne) e ai mala Punica (melograni), lega-ti anche al mito di Proserpina, cui Plutone fece mangiare un seme di melograno prima di lasciare l’Ade.

19 Si racconta che Lucio Licinio Lucullo fu il primo a portare in Occidente la pianta del ciliegio e dell’albicocco.

20 L’albero che ricorda la morte di Piramo è il gelso, che mutò le sue bacche in rosso vermiglio, secondo il racconto di Ovidio, Met. IV 55 e sgg.

21 Columella, de re rustica X 403: «Tunc praecox bifera descendit ab arbore fi-cus».

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Quam pulchrum lentis hortensia visere dona Passibus? haec etiam noster agellus habet. Vix tot Deliolis (regum licet aurea sedes) 125 Vix tot sunt hortis commoda Coryciis: Per medium leni strepitans it murmure rivus23, Cuius non unam conferat usus opem: Muscoso octipedes capiuntur fornice cancri, Qui rhombum sapiant carpathiumve scarum 130 (Quanquam laudatis longe celeberrima praestet Omnibus e Silari trocta petita vadis) Quodque tegit picto distinctum margine pratum, Deducto sitiens imbre rigatur olus. Rubrae24 hic non desunt fletumque moventia coepae 135 Alliaque: o duri prandia ruricolae! Non quae nobilium praefert lactucula25 caenas

22 Eco evidente di Verg. Bucol. I 83: «Maioresque cadunt altis de montibus um-

brae». 23 Per la clausola del verso, cfr. Hor. Epist. I 10, 21: «Quam quae per pronum

trepidat cum murmure rivum» e Ovidio, Fast. III 273: «Defluit incerto lapido-sus murmure rivus».

24 Il testo legge rubra. Emendo in rubrae per ripristinare la concordanza con coe-pae in fine verso. Esiste anche un neutro cepe, is, ma, non avendo il plurale, come informa Priscianus Instit., VI 2, 11 («Excipitur unum indeclinabile in singulari numero, “hoc cepe huius cepe” - Apuleius in medicinalibus: cepe sucum melle mixtum -, quod in plurali numero femininum est primae decli-nationis»), il verbo desunt impone l’intervento sull’attributo e non sul sostantivo.

25 In identica posizione in Columella, de re rustica X 111: «Intiba, iam teneris frondens lactucula fibris». Più avanti, al v. 143, anche intuba (= intiba).

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Quaeque salax segnes excitat herba26 viros; Non, et quae nostras repetit gratissima mensas, Brassica, Thyrsigero27 sic odiosa patri, 140 Non ferrum horrescens longaevo gramine mentha Rutaque serpentes atque aconita28 fugans. Et molles betae nascuntur intuba late Candida quique iuvant lumina foeniculi. Hic teneri cucumes gravidumque cucurbita ventrem29, 145 Sive sator voluit, brachia longa ferens, Nec non potanti mire pepo gratus Iaccho Et cinara hirsuto vertice densa viret30 Et quae Romanus parvum torrebat ad ignem Quum Samnis aurum rettulit attonitus. 150 Auri sacra fames31, quis te tam dirus adegit In nostrum infernis sedibus exitium? Quot curis heu mortales letalibus aegros Tu premis infandis persequerisque malis. Tu immensum turbas orbem discordibus armis, 155 Eiciens (facinus) numina cuncta procul. Nam quo cana Fides32 cessit? Rectumque Pudorque?

26 salax … herba: erba afrodisiaca, cioè la ruchetta. Tale proprietà è ricordata

anche in App. Verg. Moretum 86: «Intibaque et Venerem revocans eruca mo-rantem».

27 Bacco aveva in odio il cavolfiore per la sua proprietà di contrastare l’eccessiva assunzione di alcool.

28 Aconitum napellus: pianta velenosissima. Cfr. Verg. Georg. II 152: «Semina, nec miseros fallunt aconita legentis», in un contesto in cui si lodano la fertilità della campagna italiana in cui non allignano erbe velenose.

29 Cfr. Properzio, Eleg. IV 2, 43: «Caeruleus cucumis tumidoque cucurbita ven-tre»; identica clausola nel Moretum (Verg. App.) 78: «Et gravis in latum demissa cucurbita ventrem». Per l’attributo teneri riferito a cucumes, cfr. Colu-mella, de re rustica X 234: «Et tenero cucumis fragilique cucurbita collo».

30 Sebbene con variazione di significato, il verso, insieme al precedente, è riela-borazione di Columella, de re rustica X 235-6: «Hispida ponatur cinara, quae dulcis Iaccho / Potanti veniat nec Phoebo grata canenti».

31 Celebre emistichio di Verg. Aen. III 57.

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Quo Iura Aequumque heu? sanctaque Relligio? Integros ubi nunc Curios rigidosque Catones cernimus et puros moribus Aemilios? 160 Quid dicat bimaris contemptor Mummius urbis33, Si aurato videat vase inhiare virum? Nonne sitim vitro melius restinguere possis, Ni placeant palmis pocula sumpta cavis? Non agathoclaea ponet tibi rectius alba 165 Sedulus argilla34 fercula opima puer? Ah, si nolimus naturae excedere fines35, Quam bene magnificas negligeremus opes! Hic qui Sidonico incedit spectandus in ostro36, Sub quo fraena ferox aurea mandit37 equus, 170 Atria cui phrygiis fulgent spatiosa tapetis; Quique auro et gemmis stragula picta38 premit,

32 cana Fides è sintagma virgiliano (Aen. I 292), da associare per la clausola, seb-

bene sebbene in contesto di segno opposto, a Orazio, Carmen saecul. 57-59: «Iam Fides et Pax et Honos Pudorque / Priscus et neglecta redire Virtus / Audet […]».

33 Corinto. 34 agathoclaea … argilla: riferimento ad Agatocle (360-289 a. C.), tiranno e poi re

di Siracusa, che prima di avviarsi alla carriera delle armi, si era dedicato alla lavorazione dell’argilla. L’accostamento a fercula potrebbe essere stato suggeri-to da Ausonio, epigrammata 9, 1-3: «Fama est fictilibus cenasse Agathoclea regem / Atque abacum Samio saepe onerasse luto, / Fercula gemmatis cum poneret horrida vasis», in cui anche il riferimento alla sobrietà dell’uomo po-tente, che rispondeva a chi gli chiedeva il motivo della sua preferenza per così modesta suppellettile: «… rex ego qui sum / Sicaniae, figulo sum genito-re satus».

35 Richiama lo stesso concetto di Orazio, Sat. I 106: «Est modus in rebus, sunt certi denique fines»

36 Cfr. Ovidio, Trist. IV 2, 27: «Hic, qui Sidonio fulget sublimis in ostro». La porpora di Sidone era emblema di opulenza.

37 Così il cavallo di Didone in Verg. Aen. IV 134-35: «[…] ostroque insignis et auro / Stat sonipes ac frena ferox spumantia mandit».

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Num potior tristes depellet corpore morbos Tutior aut fatum fugerit ante celer, Quam, qui frigoribus togula defenditur hirta, 175 Ut Siculus magnum iussit habere Iovem, Quique vel in viridi securus39 gramine dormit, Vel fragili sternit forte latus stipula. Cogimur ire eodem omnes. Nox eadem manet omnes: Ditis in exiles sors rapit una domos. 180 Quid Croesum aut morsam colubris40 opulentia iuvit? Quin Iro extiterint atque Hecale comites? Felix qui parvo contentus tempora vitae41 Innocuus potuit degere laeta suae. Quam tranquilla meus genitor nunc ocia ducit? 185 (Di42 servent) qua nunc laetitia fruitur? Quem luxu procul urbano ambitione carentem Vesana tacitum villula dulcis alit, E tot susceptum tantisque laboribus aevum Iam gravis optato perficit ipse loco, 190 Nunquam Cuponi pomaria amata relinquens; Sive abeant noctis lumina, seu redeant. Et modo foecunda delectum ex arbore ramum Immittit, cuneis qua via, degeneri; Et modo designat quae sit ducenda propago, 195 Qui palmes curva falce secandus iners. Hinc cogi in fasces mandat sarmenta, daturos Perfaciles ignes, aspera ubi adsit hyems. Vimine tum lento43 rectam cum robore vitem

38 stragula picta è sintagma tibulliano (I 2, 79). 39 Aggettivo tibulliano (I 1, 10). 40 Cleopatra. 41 Il verso combina Verg. Georg. II 490 («Felix qui potuit rerum cognoscere

causas»), Orazio, Sat. II 2, 110 («An qui contentus parvo metuensque futuri») e Tibullo I 1, 25 («Iam mihi, iam possim contentus vivere parvo»).

42 Dii n. t.

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Alligat et molli brachia flexa sinu. 200 Tum si luxuriant nimium vineta repente Pampinat et turbam digerit arte vagam, Scilicet ut natis maiora alimenta ministret, Nec doleat spisso pressa nepote parens, Cui (quoties germen floremque eduxit et uvam) 205 Ter findi curat dente ligonis humum. Quum vero imbutis clausa est vindemia testis Deponitque suas iam nemus omne comas, Festinat laqueis exolvere crura recisis, Ut firmi valeant tendere ad ima pedes. 210 Infodit hinc, viridem gaudens teneramque renasci, Quae tremulum tollit garrula canna caput. Inde oleas circum fossas inducier altas Praecipit; immundus quas fimus exaturet. Denique nulla quies operi, dum volvitur annus; 215 Nulla voluptates terminat hora suas. Haud etenim hinc quaestum quaerit sumptumve remittit, Sed curae est quaedam regula perplacidae. Non nunquam glauco dum tondet crine salictum44, Quem celeri carpit turba operosa manu, 220 Comoedi argutos gestis narrare lepores Quaeque vir informi finxerat ore niger. Interdum praecepta aperit sanctissima vatum Fratri, parvus adhuc qui mihi et unus adest: Quo pacto ad Nili iuvenis pulcherrimus ille45, 225 Nomine cui par est, venerit imperium; Quod castus dominam vitat captivus et atro Carceris in limo somnia clara facit. Mox Regi reserat pavitanti arcana deorum, Quid bis septenae bosque et arista notent. 230

43 Per vimine … lento, cfr. Verg. Aen. III 31: «Rursus et alterius lentum convelle-

re vimen». 44 Cfr. Verg. Georg. II 13: «[…] glauca canentia fronde salicta». 45 Giuseppe, figlio di Giacobbe: i fatti sono narrati nel libro del Genesi.

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Quo pacto, coelum petere audens, digna Typhoeus Supplicia Aegaeonque Enceladusque dedit; Ut multo ulciscens Ledaeae46 milite raptum, Confecit summa Graecia clade Asiam. Hinc Anchisiadae errores irasque recenset 235 Pelidae, saevam Tantalidique domum. Hinc pacata Numae violentaque regna Quirini, Et Bruti fasces Tarquiniique fugam, Tercentum Fabios caesos belloque potentes Scipiadas diramque Annibalis rabiem; 240 Inque suum ut versa est, quum iam ditione teneret Et maria et terras, ardua Roma caput. Sic agitat magnas pestis miserabilis urbes Seditio: certus Ianua testis erit. Advocat interdum geminam cum matre sororem 245 Vernat ubi ac duro est terra soluta gelu. Dumque legunt flores natae: caltham atque ligustrum Lilia et albentes alba Camilla rosas: Narcissos, violas, hyacinthos, atque amaranthos, Purpureasque rubens Deianira rosas; 250 Hisque exornatae crines pectusque Napaeas Contendunt propriis vincere muneribus: Ii veteres memorant flammas sub roremarino, Qua vaga sub laeto sole susurrat apis. Tum de me forsan longo sermone requirunt, 255 Ut vivam? quid amem? quid faciam? ut valeam? An nunc quinque mihi peragantur lustra? feruntque Aetatis memores tempora prima meae. Et sic iucundos concordi pectore somnos Accipiunt claros praetereuntque dies. 260 Dumque illis modico frumenta reponat acervo, Et cicer, pisum nobile, Plana47 ferax.

46 Elena. 47 Territorio di Contursi a destra del Tanagro, confinante con Sicignano degli

Alburni: cfr. Pignata 2000, p. [262].

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Plana ferax nostris Cereri gratissima in oris Et veneranda aris, Termine sancte, tuis. Termine cum summo communia templa tonante48 265 Sunt tibi, tu servas rura, regis populos: Tu magnum numen nobis tua nomina praebes; Nos tibi serta, favos, liba, precesque damus, Dum non argenti loculis sestertius absit, Quo sale durandus sus queat ater49 emi; 270 Nec bene conditas suavi salsugine olivas Caerula Campano deneget urna luto. Contemnunt saturi messes quascunque perustis Appulus ex arvis colligit atque Lybis Quicquid et auriferis Tagus et Pactolus arenis, 275 Ripaque gemmiferi quicquid Idaspis habet. Nec pretiosa optant Phario quae tollat Osyri Mercator dubia per freta longa rate. Nec curant quo sceptra cadant: num Gallus atrocem Turcam iterum in miseram convocet Italiam? 280 Num depressa iugo solvat Florentia collum? An ne Senae gravius servitium subeant? Num Corsi vestra recipi iam classe rebelles Possint? hac illi speque metuque vacant. Nec tangunt ea me quicquam, qui imbellis amores 285 Et Musas cantu prosequor et cithara. Exiguus voti, per laeta silentia vitam Vivo, expers odii, censor et ipse mei. Me nitidi fontes atque umbra lucus opaca Me lauri oblectant et virides hederae. 290 Me Sulmonenses elegi50 Venusinaque raptat Barbitos51, studia haec me leviora iuvant.

48 Giove. Cfr. Ov. Fast. II 669-670: «Terminus, ut veteres memorant, inventus

in aede / restitit et magno cum Iove templa tenet». 49 sus … ater: il suino nero fu molto diffuso nell’antichità in Campania, soprat-

tutto nell’area casertana (Teano). 50 La poesia elegiaca di Ovidio.

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Tu vero atque urbes atque alta palatia summis, Matthaee, incolito concelebrata viris. Tu docti assidue chartas evolve Platonis 295 Et cape facundis dogmata rethoribus, Ut mox ad magnos reges orator iturus, Resque altas possis cultaque verba loqui. Tu rerum causas penitus cognosce latentes, Ut stupeant Ligures, te referente, patres. 300 Mi satis est, si forte meos Acheloidis52 almae Non aspernentur sacra sepulchra modos, Dum rigidam leni quaero mollire Cupillam Versiculo, quae me sola beare potest. Nempe ut dissimiles pecudumque hominumque figurae 305 Spectantur, sua sic gaudia quenque trahunt.

51 La poesia lirica di Orazio. 52 La figlia di Acheloo è la sirena Partenope, a cui il mito fa risalire l’origine di

Napoli.

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A Matteo Montenero genovese

[1] Perché tu ostenti la numerosa popolazione e le sontuose di-more e le alte mura della tua patria? Essa, certo, poiché eccelle nell’arte della guerra navale e per le grandi ricchezze, si erge am-mirevole in luogo sicuro e [5] come regina del mare Tirreno diffonde nel mondo le sue invidiabili lodi. Per vasto tratto saggia-rono la sua potenza smisurata l’Arasse impetuoso e il gelido Tanai, per tacere quante terribili guerre le mossero Pisa Alfea [10] e i lidi rivali dell’Adriatico e quale gloria più potente la innalzò alle stelle sublimi e fu sempre fiorente di uomini illustri. Chi potrebbe raccontare dei tanti Fregoso, dei Doria, degli Adorno e di tanti altri dogi forti di animo e di mano? [15] Tra questi devono essere celebrati i nomi della tua stirpe, o Montenero: opera degna di lunga storia. In questo riconosciamo i grandi doni di Fortuna: trarre specchiata origine in una nobile città.

Tuttavia non è lecito spregiare del tutto la culla e [20] le case modeste ricevute in sorte in non ricco paesello. Tali modeste ori-gini venerò Fabrizio, tali la stirpe degli Elii, in luogo siffatto nacquero Cicerone e Mario. Anche Itaca, aridissima di cespugli e di nude rocce, era appena adatta agli armenti vaganti pei monti, [25] ma né i grandi doni né i fertili campi della bella dea tratten-nero il figlio di Laerte. Egli non si fermò rammollito, attratto dai canti delle Sirene o dai sortilegi della figlia del Sole. Non poté tra i sontuosi conviti e i giochi dei Feaci [30] cacciare dalla memoria i Lari della patria.

Tutti siamo avvinti dalla segreta dolcezza della propria terra: que-sta sollecitudine sempre commuove i cuori sinceri. A ogni modo, quale che sia il terreno su cui stampai le prime orme, dove suc-chiai sorridente il primo latte della madre, [35] non oserei io stesso anteporre ai miei Penati tutte le ricchezze e le raffinatezze della tua città. Mi generò Contursi, terra dei Lucani che ancora

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serba il nome dell’antica popolazione; la tradizione infatti è solita chiamare Ursentini [40] coloro che in antico abitarono le nostre contrade. E molte vestigia qua è là per i campi lo attestano, seb-bene la gramigna ricopra tanti palazzi diroccati. Finché durarono i secoli radiosi del re portatore di oro, quelli abitarono in forma sparsa rustici focolari. [45] Ma quando sopraggiunsero i crudeli dardi di Giove e i tumulti di guerra, essendo divampate le fiaccole delle Eumenidi, di comune accordo, costruite le torri di difesa, cinsero con triplice murazione le cime del colle aprico, al quale bagna le radici il Sìlaro con gelide correnti.

[50] Tra i fiumi non ve n’è altro più famoso del Sìlaro e –se ne stupirono gli antichi– nell’acqua i rami si pietrificano, come di-mostra l’argine solidificato in scabro tufo. Alle spalle, non lontano da qui, nel massiccio Irpino, là dove Borea allontana le nubi, Sìlaro mette fuori la sorgente cristallina; [55] di fronte, in-vece, sul confine del nostro fondo stringe i suoi nodi affettuosi con Negra. La ninfa, un tempo allevata nel Vallo di Diana abita-trice di selve, aveva rifiutato le nozze proposte dal padre e, mentre pudibonda abbandonava le danze delle vergini, [60] a lungo si nascose neghittosa nel grembo della nutrice. Infine, con-dotta nella profonda grotta per segreti sentieri, venne fuori vestita a bruno con le chiome scarmigliate, e coperta di un velo nero (da qui derivò il nome) filava nere lane con nera conocchia. [65] Ap-pena però conobbe lo scettro potente e la straordinaria bellezza del marito e i risoluti comandi del padre, dapprima eresse in quel luogo un solenne altare di marmo spezzato e stabilì i riti sacri alla diletta patrona; dipoi, ripreso coraggio e spinta da un gran frago-re, [70] altezzosa porta con sé mille Naiadi. Sìlaro, andandole incontro, l’abbraccia, la ricopre di abiti sfarzosi e la fa stendere sull’ampio talamo.

Questi piacevoli spettacoli si offrono alle nostre finestre e noi più volte cantiamo a loro “Imeneo, Imene”. [75] Spesso, mentre il sole del rabbioso Leone brucia le contrade, libiamo in loro onore

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con nappi colmi di limpido vino, mentre godiamo gradita frescu-ra all’ombra dei pioppi e sonni leggeri che favorisce il mormorio della corrente.

Allora se piace più utilmente evitare il caldo [80] e più dolcemen-te trascorrere i giorni della calura, il padre suadente mi invita ai suoi refrigeri, presso le sacre sorgenti e i saliceti del Cupone. Sot-to il patrio colle si stende l’ameno Cupone, dove il sole tiene sospese le ruote a metà del suo corso. [85] Fondo non vasto, ma ben coltivato, ereditato dagli avi, vicino alla casa urbana, donde è visibile. Lo circonda una siepe assai folta per alberi che sono più graditi a Febo e a Venere; si dice che li abbia inventati Pallade Tritonia. [90] La selva diventa più chiara e rende ombroso il grasso terreno, quando, schiacciata l’oliva dai frantoi odorosi, ab-bondante olio gocciola dall’asse girevole.

Qui, mentre la bruma si gela, imprigionato dalla setola equina muore il tordo, caduto nelle trappole ben preparate. [95] Qui il dio, cinto le tempie gocciolanti di corone di pampini, dispensa i suoi doni rigogliosi. Nel tino ribollono i mosti, che non cederan-no al Falerno. La cantina ricolma di catini profumati ne racchiude moltissimo e l’uva dagli acini turgidi maturata sui rami conserva grappoli, [100] quali non ucciderebbero Anacreonte.

A che ricordare qui i frutti? vi sono quelli che la lontana Dama-sco, iniqua, mandò ai Persiani con crudele inganno. Quanta forza ha il sole! Quello che lì era stato mortale veleno, qui allieta il gu-sto con dolce sapore. [105] A che ricordare i frutti che produce la cretese Cidone, la terra di Fenicia, o quelli che riportò dalla con-trada di Eliso la figlia di Cerere e quelli che riportò Lucullo vincitore dalla città del Ponto? E quelli che, o Piramo, portano i segni della tua morte? Qui i sorbi, qui le corniole che conservano la piccante erubescenza; [110] qui il melo e il pero di ogni specie. Qui, dall’albero che produce due volte in un anno, pendono i fi-chi dallo stelo curvo, con la buccia screpolata, gonfi di lacrime. Come è bello di qui catturar con inganno, con filo sottile un uc-

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cello gemente, che si distingue per l’ampio codrione, [115] e subi-to dopo portare in città la preda infilzata su una lunga canna e quindi preparare le mense gradite ed esporre su lindi ripiani i frut-ti che precedentemente ha portato la servetta in panieri o in ceste. Di qui raccolsero i cibi per l’inverno su graticci di vimini [120] da seccare ai soli estivi. Poi quando si rinforzano i venti e si è acquie-tato il calore, e dalle cime dei monti più lunga scende ormai l’ombra, quanto è piacevole osservare a lenti passi i doni dell’orto! Questi offre anche il nostro campicello. [125] Difficilmente tante opportunità offrono gli orti di Delo (per quanto sia aurea dimora di re), a stento gli orti di Corico: in mezzo vi scorre il fiume mormorante con lieve susurro e il suo uso produce non una sola risorsa: nell’ansa muscosa vengono catturati granchi dagli otto piedi, [130] che hanno il sapore del rombo o dello scaro carpatico (sebbene di gran lunga assai celebre sopravanzi tutti i pesci rino-mati la trota pescata nelle onde del Sìlaro) e dopo che ricopre un prato delimitato da un margine variopinto, deviata la corrente, viene irrigato l’orto desideroso di acqua. [135] Qui non mancano rosse cipolle che causano il pianto e agli: o cibi del ruvido conta-dino! Non la tenera lattuga che preferisce le cene dei nobili e l’erba afrodisiaca che eccita gli uomini fiacchi; [140] non il cavo-lo, così in odio al padre Tirsìgero, sebbene questo assai gradito giunga alle nostre mense; non la menta dallo stelo longevo, che ha orrore del ferro, e la ruta che tiene lontani i serpenti e gli acò-niti. Anche vi nascono abbondanti le morbide bietole e le candide indivie e i finocchi che giovano alla vista. [145] Qui i teneri co-comeri e la zucca dal ventre rigonfio, che stende le lunghe braccia, se lo ha deciso il coltivatore, nonché vigoreggia il popone assai gradito a Bacco mentre beve e il carciofo folto dalla punta spinosa e che il romano faceva arrostire a un piccolo fuoco, [150] quando il Sannita sbigottito restituì l’oro. Esecranda fame dell’oro, chi tanto crudele ti mosse dalle sedi infernali alla nostra rovina? Con quanti affanni letali, ahimé, tu opprimi i deboli mor-tali e li perseguiti con indicibili mali! [155] Tu sconvolgi la terra

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immensa con eserciti in contrasto, scacciando lontano (quale de-litto!) tutti gli dèi. Dove se ne andò infatti la candida Fede? e la Rettitudine e il Pudore? Dove il Diritto e l’Equità, ohimé? e la santa Religione? Dove vediamo ora l’integrità dei Curii e la severi-tà dei Catoni [160] e gli Emilii puri nei costumi? Cosa direbbe Mummio dispregiatore della città posta su due mari, se potesse vedere un uomo restare a bocca aperta per un vaso dorato? Non potresti forse meglio placare la sete con un bicchiere di vetro, se non ti piacciono le bevande raccolte con il cavo della mano? [165] L’operoso schiavetto non ti porrà davanti più giustamente ricche portate in bianca argilla agatoclea? Ah, se non volessimo oltrepassare i confini della natura, quanto giustamente disprezze-remmo la magnificenza delle ricchezze!

Costui che, per farsi ammirare, vestito di seta sidonia, [170] ince-de in groppa a un focoso destriero che morde freni di oro; per lui atrii spaziosi risplendono di tappeti di Frigia e si siede su drappi variopinti di oro e di gemme, forse che più potentemente allon-tanerà dal corpo le tristi malattie, oppure rapidamente fuggirà davanti al destino più sicuro [175] di colui che si difende dal freddo con una piccola rozza toga, così come il Siculo comandò che l’avesse il grande Giove, e che o dorme senza paura sulla ver-de gramigna o stende il fianco vigoroso sulla cedevole paglia?

Tutti siamo costretti ad andare al medesimo luogo. La medesima notte attende tutti: un’unica sorte [180] ci trascina alle squallide dimore di Dite. In che cosa la ricchezza aiutò Creso o colei che fu morsa dai serpenti? Sono forse sopravvissuti i compagni di Iro e di Ecale?

Felice colui che, contento del poco, poté trascorrere senza danno il tempo felice della sua vita. [185] Quanto tranquilli riposi ora mio padre (gli dèi lo conservino) si gode? di quale gioia ora si nu-tre? Egli che sereno, lontano dal lusso cittadino, privo di insana ambizione, la dolce casetta custodisce. Egli stesso ormai anziano [190] porta a compimento nel luogo desiderato il tempo della vita

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speso in tante e così grandi fatiche, mai lasciando gli amati giardi-ni del Cupone, sia che tramontino le stelle della notte, sia che rispuntino. E ora innesta un ramo scelto da un albero fecondo a uno sterile, per dove la via (si apre) con i cunei; [195] e ora stabi-lisce quale propaggine stendere al suolo e quale ramo secco potare con la curva falce. Di qui comanda di stringere in fascine i rami secchi, che daranno rapidi fuochi all’arrivo del freddo inver-no. Allora con flessibile vimine lega dritta la vite con il rovere [200] e i rami incurvati in voluta ondeggiante. Allora, se le viti troppo vegetano, subito le sfronda ed aggiusta con arte la folla disordinata (di pampini), perché in tal modo somministri maggio-re nutrimento ai figli, né la genitrice si dolga oppressa dai troppo frequenti nipoti; [205] per lei si preoccupa (quante volte spuntò la gemma e il fiore e l’uva) che tre volte sia scavato il terreno con il dente della zappa. Quando poi la vendemmia è riposta nelle an-fore colme e tutto il bosco ormai perde le sue chiome, si affretta a sciogliere i ceppi dai lacci tagliati, [210] in modo che i piccioli robusti abbiano il vigore di scendere in profondità. Di qui interra, godendo che rinasca verde e tenera, la canna loquace che innalza la cima ondeggiante. Quindi dispone che siano scavate intorno agli ulivi profonde fosse che il maleodorante letame ricolmi. [215] Infine, mentre l’anno trascorre, non c’è alcuna tregua al lavoro, nessuna ora pone termine ai suoi piaceri. Infatti da qui non ricer-ca il guadagno o rimette la spesa, ma vi sono regole che assai sereno rendono l’impegno.

Spesso, mentre sfoltisce il salice nella glauca chioma, [220] che la squadra operosa raccoglie con lesta mano, eccolo narrare argute amenità con gesti di attore e con la voce deformata (eccolo narra-re) quelle cose che l’uomo nero aveva inventato.

Talora spiega i santissimi comandamenti dei Profeti a mio fratello –uno solo ne ho e ancora piccolo–: [225] in che modo quel bel-lissimo giovane (egli ha lo stesso nome) fosse giunto al comando del Nilo; perché egli casto rifiuti la padrona, pur essendo uno

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schiavo, e nel nero sudiciume del carcere fa splendidi sogni. Subi-to rivela al re spaventato gli arcani degli dèi, [230] che cosa significano i quattordici buoi e le quattordici spighe. In che mo-do, osando assalire il cielo, Tifeo ed Egeone ed Encelado pagarono un degno supplizio; in che modo la Grecia, vendicando con grande esercito il ratto della figlia di Leda, distrusse l’Asia con strage immane. [235] Quindi narra le peregrinazioni del figlio di Anchise e le ire del Pelide, e la sanguinaria casa del figlio di Tantalo. Poi il pacificato regno di Numa e quello violento di Qui-rino, e le scuri di Bruto e la fuga di Tarquinio, i trecento Fabi uccisi [240] e gli Scipiadi potenti in guerra e la crudele rabbia di Annibale; e come l’ardua Roma, quando ormai teneva in dominio e mari e terre, si rivoltò contro il suo capo. Così la sedizione, mi-serabile peste, sconvolge le grandi città: Genova ne sarà testimone veritiero.

[245] Talvolta chiama a sé le due sorelle insieme alla madre, ap-pena ritorna primavera e la terra è liberata dal duro gelo. E mentre le figlie raccolgono fiori: la calta e il ligustro, e i gigli e le rose splendenti la candida Camilla; i narcisi, le viole, i giacinti e gli amaranti [250] e le rose purpuree la rossiccia Deianira; e adornate di questi il petto e il crine gareggiano a superare le Napee con le loro bellezze, i genitori rievocano le antiche passioni all’ombra del rosmarino, dove l’ape vagante ronza sotto il sole splendente. [255] Allora forse si interrogano su di me con lungo discorso: come io viva, chi ami, cosa faccia, come stia in salute. Che forse ora non ho compiuto cinque lustri? e ricordano memori i primi anni della mia vita. E così con animo pacificato [260] accolgono il sonno ristoratore e trascorrono giorni sereni, purché la Piana ferace faccia loro accumulare in modico mucchio il frumento, e i ceci e il rinomato pisello. La Piana ubertosa gratissima a Cerere nelle nostre contrade e degna di essere venerata, o santo Termine, sui tuoi altari.

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[265] O Termine in tuo onore si innalzano templi in comune con il sommo tonante, tu proteggi i campi, tu guidi i popoli; tu, pos-sente Nume, doni a noi il tuo nome; noi ti offriamo corone, favi di miele, libagioni e preghiere, purché non manchi alle cassette un sesterzio d’argento, [270] di che comprare un maialino nero da conservare nel sale; né la brocca cerulea di argilla campana neghi le olive bene insaporite nella fragrante salsedine. Appagati, di-sprezzano tutte le messi che l’abitante di Puglia raccoglie dai campi riarsi e qualunque frutto (raccoglie) la Libia [275] e il Tago e il Pattolo dalle sabbie aurifere e qualunque bene possiede la riva del gemmifero Idaspe. Né desiderano le merci preziose che il mercante porta via all’egizio Osiride attraverso lungo tratto di mare con la nave esposta ai rischi. Né si curano dove precipitino i regni: il Gallo [280] congiura di nuovo il Turco spietato contro la misera Italia? L’oppressa Firenze libera il collo dalla schiavitù? O forse Siena subisce più pesante dominio? I ribelli di Corsica pos-sono ormai essere accolti nella vostra flotta? Là essi sono liberi di speranza e di timore.

[285] E neanche me queste cose toccano affatto; me che, disar-mato, coltivo gli amori e le Muse con il canto e con la cetra. Libero dal desiderio, trascorro la vita in lieta tranquillità, privo di odio, e io stesso sono giudice di me. Mi dilettano sorgenti cristal-line e un bosco dall’ombra opaca, [290] i lauri e le verdi edere. Mi rapiscono le elegie sulmonesi e la cetra venosina; queste più leg-gere occupazioni mi piacciono.

Al contrario, tu, o Matteo, abiterai e le città e i sontuosi palazzi frequentati da uomini potenti. [295] Tu rivolgi assiduamente le carte del dotto Platone e apprendi le dottrine dai retori facondi, in modo che presto andrai ambasciatore presso potenti Re, per poter trattare affari importanti con parole ornate. Tu sforzati di conoscere profondamente le cause nascoste delle cose, [300] in modo che, mentre parli, si stupiscano i senatori liguri.

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A me basta se per caso i sacri sepolcri della gloriosa figlia di A-cheloo non disprezzeranno i miei versi, mentre cerco di piegare con tenue versetto la scontrosa Cupilla, che, sola, può rendermi beato.

[305] In realtà come si osservano figure diverse e di animali e di uomini, così ognuno è trascinato dal proprio piacere.

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