La Prefazione 64 di Italo Calvino e la Nota 65 di Carlo Bernari: due manifesti del neorealismo

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di Enrico Bernard Carlo Bernari e Italo Calvino non si frequentavano, pur stimandosi e ricambiandosi apprezzamenti in alcuni occasionali incontri. Non vi è traccia di scambi epistolari significativi. Varie circostanze hanno tenuti lontani i due scrittori, che pure militarono nella Resistenza e che, come vedremo, coltivavano molti argomenti ed idee in comune. Non contribuì ai loro rapporti la differenza di età (14 anni) e relative lotte generazionali fino alle contestazioni del Gruppo 63. Peraltro, la natura riservata dello scrittore ligure poco si confaceva all'esuberanza e alla vena partenopea, schietta e immediata, di Bernari; per cui fino a oggi sono mancate pezze d'appoggio per un confronto ravvicinato tra due dei maggiori autori del Novecento. Calvino ha poi quasi sempre tralasciato di citare Bernari, ma i suoi interventi sul neorealismo non possono non tener conto, anche se indirettamente, di Tre operai del 1934 che rappresenta comunque la vera scintilla, l'incunabolo lo definì Montale 1 del "nuovo stile" da cui anche la poetica di Calvino prende le mosse. Lo dimostra ad esempio una lettera al traduttore russo Lev Verscinin (Torino, 28 novembre 1957) che segnala Tre operai come uno dei libri da tradurre assolutamente. 2 Alla differenza umana e caratteriale va aggiunto lo "scoglio" rappresentato per Bernari da Vittorini. Lo scrittore di origine siciliana, quando si adoperava all'ombra del fascismo e scriveva sul «Bargello», aveva risposto a spron battuto all'invito di Mussolini nel 1934 di stroncare o ignorare Tre operai. 3 Successivamente nel 1944 Bernari straccia la domanda di iscrizione al PCI, perché 1 MONTALE EUGENIO, Tre operai, in «Corriere della Sera» del 29 maggio 1957, p. 3. 2 CALVINO ITALO, Letters 1941-1985, selected by M. Wood and translated by M. McLaughlin, Princeton, Usa, University Press, 2013, p. 153. 3 E.V [Elio Vittorini], Tre operai che non fanno popolo, in «Il Bargello», VI, 22 luglio 1934, p. 7; poi in: Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 1997.

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di  Enrico  Bernard    

  Carlo   Bernari   e   Italo   Calvino   non   si   frequentavano,   pur   stimandosi   e  ricambiandosi   apprezzamenti   in   alcuni   occasionali   incontri.  Non   vi   è   traccia   di    scambi   epistolari   significativi.   Varie   circostanze   hanno   tenuti   lontani   i   due  scrittori,  che  pure  militarono  nella  Resistenza  e  che,  come  vedremo,  coltivavano  molti  argomenti  ed  idee  in  comune.  Non  contribuì  ai  loro  rapporti  la  differenza  di  età    (14  anni)  e  relative  lotte  generazionali  fino  alle    contestazioni  del  Gruppo  63.  

  Peraltro,   la   natura   riservata   dello   scrittore   ligure   poco   si   confaceva  all'esuberanza  e  alla  vena  partenopea,  schietta  e   immediata,  di  Bernari;  per  cui  fino  a  oggi  sono    mancate  pezze  d'appoggio  per  un  confronto    ravvicinato    tra  due  dei   maggiori   autori   del   Novecento.   Calvino   ha   poi   quasi   sempre   tralasciato   di  citare  Bernari,  ma  i  suoi  interventi  sul  neorealismo  non  possono  non    tener  conto,  anche   se   indirettamente,   di  Tre  operai  del   1934  che   rappresenta   comunque   la  vera  scintilla,  l'incunabolo  -­‐  lo  definì  Montale1  -­‐  del  "nuovo  stile"  da  cui  anche  la  poetica   di   Calvino   prende   le   mosse.     Lo   dimostra   ad   esempio   una   lettera   al  traduttore   russo   Lev   Verscinin   (Torino,   28   novembre   1957)   che   segnala     Tre  operai    come  uno  dei  libri  da    tradurre  assolutamente.  2  

 

  Alla   differenza   umana   e   caratteriale   va   aggiunto   lo   "scoglio"  rappresentato  per  Bernari  da  Vittorini.  Lo  scrittore  di  origine  siciliana,  quando  si  adoperava  all'ombra  del  fascismo  e  scriveva  sul  «Bargello», aveva risposto a spron battuto all'invito di Mussolini nel 1934 di stroncare o ignorare Tre operai. 3 Successivamente nel 1944 Bernari straccia la domanda di iscrizione al PCI, perché                                                                                                                1 MONTALE EUGENIO, Tre operai, in «Corriere della Sera» del 29 maggio 1957, p. 3. 2 CALVINO ITALO, Letters 1941-1985, selected by M. Wood and translated by M. McLaughlin, Princeton, Usa, University Press, 2013, p. 153. 3 E.V [Elio Vittorini], Tre operai che non fanno popolo, in «Il Bargello», VI, 22 luglio 1934, p. 7; poi in: Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 1997.

in disaccordo con la politica egemonica in campo intellettuale di Togliatti, così Vittorini, che ne frattempo ha cambiato il tiro e fonda la rivista programmatico-culturale di area PCI «il Politecnico», si sente autorizzato a non ritornare sul suo giudizio, dettato forse anche da una forma di iniziale gelosia4. Quando poi nel 1949 Pavese tenta di portare Bernari alla Einaudi strappandolo alla Mondadori, trova proprio in Vittorini e nel suo influente gruppo un ostacolo ideologico ancorché letterario. "Bada - gli scrive Pavese - i tuoi <amici> a Milano faranno di tutto per farti saltare il premio"5; e ancora: "ti si imputa un certo sinistrismo anarcoide" 6

Naturalmente la posizione di Calvino sul tema dell'engagement e della libertà dell'artista, anche a costo di scontentare l'amico Vittorini che invece idealizza l'eroe positivo - salvo poi dimettersi da "pifferaio" della rivoluzione comunista -, non lascia adito a dubbi. Sia ne Il midollo del leone (1955) che ne Il mare dell'oggettività (1959) Calvino si dimostra in piena sintonia con le posizioni di Bernari e di molti intellettuali e scrittori nel dopoguerra. 7 Tuttavia, il rapporto "privilegiato" con Vittorini, indubbiamente fondato sulla stima - non si discute il valore dell'autore di Conversazioni in Sicilia - ma basato anche su interessi editoriali specifici legati alla Einaudi e a collaborazioni varie, insieme dirigevano Menabò, non agevolò gli scambi con Bernari.

   

                                                                                                               4 Prima della lettura e stroncatura politica di Mussolini (marxista e disfattista, sottolineò il Duce) il fascismo aveva individuato in Tre operai il prototipo del romanzo realista, così come successivamente divenne per il realismo socialista un esempio di nuova letteratura operaia. Di qui l'invidia di Vittorini che si sentì esautorato dal ruolo di avanguardia letteraria cui lo scrittore siciliano aspirava. 5 Il Premio Viareggio fu comunque vinto da Bernari con Speranzella, sia pur ex aequo con Le terre del Sacramento di Jovine. 6 Del caso Bernari-Togliatti e Bernari-Einaudi si è occupato Dario Fertilio. Cfr. FERTILIO DARIO, Carlo Bernari, l'esiliato in casa, in «Corriere della Sera» del 26 novembre 2011, p. 57. Cfr. FERTILIO DARIO, Togliatti censore: «correggete Gramsci,» in «Corriere della Sera» del 2 dicembre 1996, p. 27. Riprova di questo clima di ostilità è anche il rifiuto nel 1949 di «Società», la rivista di area PCI diretta da Gastone Manacorda, un saggio di Bernari sulla paura Nel 1949 Bernari propone a «Società», rispondendo ad un invito della rivista a presentare un intervento sulla condizione operaia, il saggio L'arte è paura i cui appunti risalgono al 1929. La proposta viene rifiutata da Gastone Manacorda e il testo viene pubblicato nel 1950 da «Ulisse». Il manoscritto originario dei 32 pensieri sulla paura del 1929 è pubblicato a cura di Enrico Bernard in «Forum Italicum». Cfr. BERNARD ENRICO, Bernari tra natura e paura con la trascrizione dei 32 pensieri sulla paura di Carlo Bernari, in «Forum Italicum», New York, vol. 42, nr. 2, 2009, pp. 403-15. 7 Cfr. MILANINI CLAUDIO (a cura di), Neorealismo, poetiche e polemiche, Milano, Il Saggiatore, 1980.

  Conseguentemente  la  carenza  di  rapporti  personali  ha  indotto  la  critica  a  non   considerare   l'importanza   del   fatto     che   Bernari   e   Calvino     redigono     un  intervento   critico   sulle   loro   opere   giovanili,   quindi   le   più   "sentite",   quelle  dell'esordio,     con  significativa  contemporaneità.  Ci   riferiamo  alla  Prefazione    64    per  la  ristampa  de  Il  sentiero  dei  nidi  di  ragno  e  alla  Nota  65    che  accompagna  la  prima   edizione   Oscar   Mondadori   (1966)   di   Tre   operai.   L'analisi   di   questi   due  brani  coevi  svela  invece  una  rete  sotterranea  di  correlazioni.    Va  premesso  che  il  periodo  è  quello  conclusivo  di  un  decennale  dibattito   sull'esito  e   sul   futuro  del  neorealismo  che  ispirò  anche  un  poemetto  di  Pasolini  del  quale  citiamo  qualche  verso:  

 

Tutti l’avete amato quello stile, ai giorni della speranza: e non senza motivo. Che motivo ora vi impedisce di rimpiangerlo? Ah, ragione! Perduto di nuovo negli oscuri meandri dell’irrazionalità! Elusione, riduzione, elezione stilistica: atti, tutti, alla resa davanti alla reazione! Scusate... il mio cuore è là dentro la bara, con quello stile... Vorrei tacere e basta.8

Dal momento che sia la Prefazione 64 che la Nota 65 nascono in questo clima polemico spesso al limite della disputa e della rissa culturale e ideologica - poiché in discussione è centralmente l'idea di engagement - i versi di Pasolini ne sono evidente testimonianza - e dato che ambedue gli scritti vertono sulle rispettive opere prime, giovanili, bisogna anzitutto individuarne gli elementi in comune, che sono so-stanzialmente duplici: 1) la questione teorica del neorealismo e, 2) la considerazione del significato intimo e spirituale di "giovanilismo".9

Iniziamo da quest'ultima implicazione, perché è la più semplice e immediata da chiarire. La bernariana Nota 65 parte in effetti di slancio, ciò a differenza dello scritto di Calvino che si sofferma inizialmente su argomenti più generali, sul valore e significato di "opera giovanile". Nel 1964 sono passati trent'anni dall'esordio di Bernari e quasi venti da quello di Calvino, così le rispettive "opere prime" sembrano ricadere in una sorta di limbo creativo, in un incunabolo di forze e slanci che suscita qualche comprensibile rossore e qualche inevitabile rimpianto. Scrive Bernari:

Ho esitato a lungo prima di decidermi. Tenerezza e furore, è ciò che provo rileggendo Tre operai. Furore, per quel che esso mi restituisce di arcaico e di falso; tenerezza, per il ventenne che mi ritorna da queste pagine soffuse di mestizia, contrassegno di maturità, direi, se non mi smentissero le lingue di fuoco che spuntano tra rigo e rigo, ad annunciare sdegno, sentimenti di rivolta, paure, da attribuirsi al

                                                                                                               8 PASOLINI PIER PAOLO, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, p. 140. 9 "Giovanilismo" è il neologismo usato da Bernari nella commemorazione di Massimo Bontempelli. BERNARI CARLO, Commemorazione di Massimo Bontempelli», in «L’europa Letteraria», ottobre 1960, p. 7-8.

giovane che non vuol stare al gioco. Quale fosse poi questo gioco dirò meglio avanti rifacendo a ritroso la genesi di questo libro, che apparve il 9 febbraio del 1934.10

Calvino esprime uno stato d'animo analogo:

[…] il primo libro diventa subito un diaframma tra te e l'esperienza, taglia i fili che ti legano ai fatti, brucia il tesoro di memoria - quello che sarebbe diventato un tesoro se avessi avuto la pazienza di custodirlo, se non avessi avuto tanta fretta di spenderlo, di scialacquarlo, d'imporre una gerarchia arbitraria tra le immagini che avevi immagazzinato, di separare le privilegiate, presunte depositarie d'una emozione poetica, dalle altre, quelle che sembravano riguardarti troppo o troppo poco per poterle rappresentare […] le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole […]11

Non c'è bisogno di citare molto altro per cogliere un comune sentimento tra i due scrittori nei confronti della rispettiva "creatura" giovanile, nonché una riflessione sul dato soggettivo dell'esperienza che nella memoria si oggettivizza, si esterna nella scrittura, cominciando una vita autonoma, nei confronti della quale lo scrittore che guarda se stesso giovane nello specchio del libro si commuove e appassiona. Sarebbe tuttavia ingeneroso e fuorviante pensare solo lontanamente ad una sorta di autocompiacimento letterario in Bernari e Calvino. Quando piuttosto va tenuto presente che questo sentimento ("tenerezza e furore" per Bernari o la "sfacciata sicurezza" di Calvino) comporta un risvolto teorico che va oltre la semplice questione giovanile e un po' sentimentalistica concernente l'opera prima. Non può infatti sfuggire che l'aspetto intimo e riservato è il grimaldello per penetrare nella coscienza dei due scrittori impegnati, proprio nei giorni in cui redigono i loro "paralipomeni", in un dibattito accesissimo sulla problematica soggettivismo-oggettivismo, impegno-fantasia, contenuto-forma, una discussione su cui si gioca la partita dell'interpretazione del neorealismo. E su questo punto le convergenze tra lo scrittore ligure e il suo collega napoletano emergono a tutto tondo.

                                                                                                               10 BERNARI CARLO, Nota 65, in Tre operai, Milano, Oscar Mondadori, 2005, p. 159. 11 CALVINO ITALO, Prefazione 1964, in Romanzi e racconti, Milano, Mondadori,, vol. I, pp. 1203-4.

In effetti, la contemporaneità della Prefazione 64 e della Nota 65 non è causale, essa si spiega altresì con le temperie culturali e sulla base del dibattito intorno al neorealismo degli anni Cinquanta e Sessanta che videro i due scrittori tematicamente e ideologicamente solidali, sia pur ciascuno per conto proprio, nel rifiuto di un'idea di engagement da cui lo stesso Vittorini, non volendo passare per "pifferaio della rivoluzione", aveva iniziato a prendere le distanze.12 Nella Nota 65 Bernari riassume la sua posizione retrodatando la nascita della problematica allo scorcio 1929-1934, periodo in cui vide la luce il trittico di opere 13 del protoneorealismo, un genere che scaturisce nell'ottica bernariana da un reazione :

al rifugio dell'ermetismo, dove, scompigliati tutti i moduli formali, molti giovani poterono finalmente riannodare un colloquio con la propria coscienza in un linguaggio sofisticato ma inaccessibile al fascismo.14

Così per Bernari l'impegno dell'artista, l'engagement, scaturisce in primo luogo come diretta, spontanea conseguenza di una riflessione formale, di una nuova idea di rappresentare criticamente la realtà, piuttosto che il risultato di una scelta del contenuto, pur determinante come spiega lo scrittore:

Io non fui tra quei giovani. Commisi altri errori; non per aver chiuso i varchi di comunicazione con la realtà o per aver imboccata una strada interrotta; ma perché avevo raccattato strada facendo qualche scoria. Attaccato su due fronti, politico e letterario, fui tuttavia istigato a difendermi anziché sottoporre il libro a una serena critica. Sentivo di aver adempiuto ad un dovere civile; già l'aver affidato il messaggio a tre operai, invece che a tre piccolo-borghesi mi pareva costituire di per sé un atto di liberazione.15

Non sufficientemente realista nel 1934 per Elio Vittorini, e considerato da alcuni critici in maniera negativa per la "secchezza"16, il romanzo d'esordio di Bernari viene preso tra due fuochi: da un lato "le vie del bello scrivere, dell'ermetismo, del realismo magico, dell'evavasione"17, dall'altro i fautori del realismo fascista, che poi saranno arruolati nel realismo socialista, i quali accusano il romanzo di un approccio individualistico e soggettivistico alla realtà che verrebbe così ad essere deformata coi

                                                                                                               12 Cfr. BERNARI CARLO, Risposte a «Questioni sul neorealismo», in «Tempo presente», a. II, n. 7, luglio 1957, pp. 57-60; poi rielaborato col titolo Questioni sul neorealismo in: Non gettate via la scala (v.), pp. 107-12. BERNARI CARLO, Esiste una crisi del neorealismo, in «Rinascita», nr.12, 1953, pp. 684-7. 13 Il riferimento è ovviamente a Moravia (Gli indifferenti, 1929), Alvaro (Gente in Aspromonte, 1928), Bernari (Tre operai, 1934, ma iniziato nel 1928--30 col titolo Gli Stracci). 14 BERNARI Nota 65, cit. p. 162. 15 Ivi. 16 Di "secchezza" parla ad esempio Eurialo De Michelis in una lettera personale a Bernari del marzo 1934. La missiva è stata pubblicata da Francesca Bernardini nell'edizione da lei curata per l'Oscar Mondadori 2005 di Tre operai (pp. 230-232). 17 TOSCANI CLAUDIO, Introduzione a: BUZZATI DINO, Il segreto del bosco vecchio, Milano, Mondadori, 1979, p. 9.

toni propri della fiaba18. Quella stessa fiaba proletaria che sarà il canone espressivo, e non è un caso, dell'editor di Tre operai Cesare Zavattini per il romanzo Totò il buono (1943) e il film Miracolo a Milano (1951). A questo proposito Bernari spiega:

Così la riduzione di quanto ancora risultava oggettivo - senza peraltro diventare oggettivante - in "Tempo passato" (la prima stesura di "Tre operai" datata 1928-30, ndr.), a quel particolare soggettivismo in terza persona di Tre operai, si avvaleva anche di quel processo presentificante, grazie all'accumulo di materiali realistici - fatti, cose, ambienti, personaggi - sottratti alla realtà viva e collocati a una distanza caliginosa e polverosa che facesse memoria.19

Ma il concetto di "memoria" assume centralità anche nell'autoanalisi letteraria di Calvino:

Per coloro che da giovani cominciarono a scrivere dopo un'esperienza di quelle con "tante cose da raccontare" (la guerra, in questo e in molti altri casi), il primo libro diventa subito un diaframma tra te e l'esperienza, taglia i fili che ti legano ai fatti, brucia il tesoro di memoria - quello che sarebbe diventato un tesoro se avessi avuto la pazienza di custodirlo, se non avessi avuto tanta fretta di spenderlo, di scialacquarlo, d'imporre una gerarchia arbitraria tra le immagini che avevi immagazzinato, di separare le privilegiate, presunte depositarie d'una emozione poetica, dalle altre, quelle che sembravano riguardarti troppo o troppo poco per poterle rappresentare, insomma d'istituire di prepotenza un'altra memoria, una memoria trasfigurata al posto della memoria globale coi suoi confini sfumati, con la sua infinita possibilità di recuperi… Di questa violenza che le hai fatto scrivendo, la memoria non si riavrà più […]20

Il richiamo alla "memoria coi suoi confini sfumati" può coincidere con una forma storica, oggettivante, di recupero del passato, ma rappresenta, per lo meno in campo creativo, letterario, un fattore soggettivo che richiama l'artista alla forma tipica della "rimembranza" spesso nebulosa, avvolta nel mito, in cui i ricordi stessi si mescolano a sensazioni, percezioni, odori e sapori che rivivono nello spazio chiuso e ristretto del "vissuto" interiorizzato. Lo scrive Calvino a chiare lettere:

Così mi guardo indietro, a quella stagione che mi si presentò gremita d'immagini e di significati: la guerra partigiana, i mesi che hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe poter continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e pensieri ed episodi e parole e commozioni: e tutto è lontano e nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole, le

                                                                                                               18 Carlo Bernari parla di "favola" a proposito di Tre operai: "fu così che invece della storia scrissi una storia, un romanzo, cioè, o se più piace una favola" (sottolineatura nell'originale, ndr). BERNARI CARLO, Ciminiere e rifiuti, in Bibbia napoletana, Vallecchi, Firenze 1960, p. 67. 19 BERNARI Nota 65, cit. p. 166. L'espressione "facesse memoria" è sottolineata nel testo originale. 20 CALVINO, Prefazione 1964, in Romanzi e racconti, cit., p. 1203.

pagine scritte già in polemica con una memoria che era ancora un fatto presente, massiccio, che pareva stabile, dato una volta per tutte […]21

Di qui il rimpianto di una realtà "vera" sfuggente, inenarrabile, proprio perché offuscata dalla "materia interiore, spirituale" come afferma Bernari proseguendo o anticipando la riflessione di Calvino:

Quante cose, certo, avrei potuto dir meglio; non scriverle meglio, ma dirle meglio; riuscire a mettere più cose, più sentimenti, più significati nella parola: aprirla, dilatarla a maggiori profondità, moltiplicandone gl'interni echi, affinché dal testo emergessero con evidenza le allegorie, i simboli che forse confusamente vi avevo disseminato. 22

L'impossibilità, visti i limiti confessati sia da Bernari che da Calvino, di pervenire ad una rappresentazione veristica, oggettiva, laddove piuttosto la memoria si perde nel meccanismo rappresentativo propria della "memoria creativa", ossia la fantasia, smentisce in partenza l'ipotesi di engagement sul piano contenutistico sia di Tre operai che de Il sentiero dei nidi di ragno. Così infatti prosegue Bernari nella Nota 65:

Mi sarebbe piaciuto, allora, difendere il contenuto di verità del libro da ambizioni allegoriche del genere; ma la critica del tempo era troppo ligia al potere per inseguire i miti del proletariato; mentre quella posteriore, ormai abbacinata dal neorealismo, si sperdeva nella ricerca dei prototipi dell'engagement. È vero che se un movente allegorico c'era io stesso avevo contribuito a obliterarne le linee con riferimenti realistici, ora troppo evidenti, ora troppo sfumati.23

Va notato come, in entrambi gli scritti, si ripeta il concetto di una "memoria dai confini sfumati" (Calvino), quasi un richiamo senz'altro involontario, ma che stabilisce una consonanza particolare tra i due scrittori. In conclusione Bernari tira le somme con una commovente ammissione:

Quelle erano le mie forze; e nel tempo in cui scrivevo non potevo rammaricarmi di non aver gettato il sasso abbastanza lontano; già molto mi pareva averlo lanciato e averne fatto avvertire la pericolosità.24

                                                                                                               21 CALVINO, Prefazione 1964, in Romanzi e racconti, cit., pp. 1203-4. 22 BERNARI Nota 65, cit. p. 171. 23 BERNARI Nota 65, cit. p. 174. 24 BERNARI Nota 65, cit. p. 175.

Italo Calvino scrive Il sentiero una dozzina di anni dopo la pubblicazione di Tre operai. La caduta del fascismo, la mitizzazione di fatti e personaggi della Resistenza, l'apertura del mondo letterario a nuove tecniche ed esigenze narrative, una visione più chiara e cosciente del rapporto tra pagina e schermo, tra letteratura e cinema, tra narrativa e arti visive più in generale; e ancora, la soluzione del problema affrontato da Bernari, ma ancor prima di lui da Verga25, della questione del realismo e del verismo che viene risolta, sia da Verga che in seguito da Bernari, sul piano della forma26 come incunabolo di ogni contenuto reale, politico o sociale - ebbene, a queste conclusioni, difficili nei primi anni Trenta come accenna Bernari nella Nota 65, ma scontate quando lo scrittore ligure comincia a scrivere Il sentiero a conflitto concluso, Calvino perviene elaborando un concetto di realtà attraverso la "sfumata" memoria. È grazie ad essa che lo scrittore recupera alcuni episodi e racconti che vengono mano a mano avvolti nel mito e nella nebbia del tempo, alterandoli e modificandoli in base a suggestioni che trasformano la realtà in una sorta di iperrealismo fantastico, che sarà poi la connotazione specifica delle opere calviniane e anche un terreno di confronto con Carlo Bernari.

Nella Prefazione 1964 Calvino naturalmente non si esime dall'intervento a favore di una interpretazione più soggettiva e formalistica che oggettivo-contenutistica con la nota frase:

[…] mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere.27

Il plurale, non solo majestatis, di Calvino rappresenta un'allusione o indicazione importante. Noi, già, ma noi chi? Così insiste Calvino, con quel "noi" ripetuto:

Il "neorealismo" per noi che comiciammo di lì, fu quello […] Perché chi oggi ricorda il "neorealismo" soprattutto come una contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di ragioni extraletterarie, sposta i termini della questione; in realtà gli elementi extraletterari stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi "il" mondo.28

Tra i compagni di viaggio in questa avventura del neorealismo nel dopoguerra Calvino cita alcuni coetanei, in particolare Pavese e Fenoglio. E, a proposito di un                                                                                                                25 Non casualmente Bernari fu inizialmente definito dalla critica "neoverista". Cfr. ARISTARCO [E. Zazo], Un neo-verista: Carlo Bernard , in «L'Italia Letteraria», anno X, n. 14, 8 aprile 1934, pp. 9-10. Per un approfondimento cfr. BERNARD ENRICO, I più segreti legàmi. Sinergie neorealiste nel carteggio Bernari-Zavattini, Roma-Trogen, BeaT, 2014. 26 Cfr. BONTEMPELLI MASSIMO, Verga, Discorso pronunziato il 15 febbraio 1940 alla Reale Accademia d'Italia in Roma, in Sette discorsi, Milano, Bompiani, 1942, pp. 123-55. 27 CALVINO, Prefazione 1964, in Romanzi e racconti, cit., p. 1187. 28 Ivi.

"nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo" l'autore del Sentiero individua una linea, "una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire".29 Però a questo punto, un po' bruscamente, Calvino apre una parentesi e ammette candidamente:

(Continuo a parlare al plurale, come se alludessi a un movimento organizzato e cosciente, anche ora che sto spiegando che era proprio il contrario. Come è facile, parlando di letteratura, anche nel mezzo del discorso più serio, più fondato sui fatti, passare inavvertitamente a contar storie… Per questo, i discorsi sulla letteratura mi danno sempre più fastidio, quelli degli altri come i miei).30

 

  Calvino  taglia  insomma  corto,  salvo  riprendere  la  polemica  letteraria  con  maggiore  veemenza  qualche  pagina  dopo.  Soffermiamoci  per  un  istante  su  quel  "triangolo"  cui  egli  accenna:  Verga,  Vittorini,  Pavese.  Una  triade  che    ha  una  forte  valenza   anche   per   Bernari.   Come   precedentemente   accennato,   Verga   è  indubbiamente  il  punto  di  partenza  dell'evoluzione  narrativa  di  Bernari  alla  fine  degli  anni  Venti,   tanto  da  essere  definito  egli  stesso  "neoverista".31  Ma  se  Verga  rappresenta   per   lo   scrittore   napoletano   una   piattaforma   di   lancio  nell'elaborazione  di  un  nuovo  stile,  di  una  nuova  forma  espressiva  in  sinergia  con  le  arti  visive,  a  partire  dalla  fotografia32,    Vittorini  è  indubbiamente  per  Bernari  come   abbiamo   visto   uno   scoglio   insormontabile.   E   Pavese   interviene   come  mentore   nel   tentativo,   un   po'   ingenuo   per   la   verità,   di   "sdoganare"   Bernari   e  introdurlo  alla  Einaudi.33  Insomma,  quella  "specie  di  triangolo  da  cui  partire",  cui  accenna    Calvino,  diventa  nel  bene  e  nel  male  anche  la  via  crucis  di  Bernari  .  

  È  indubbio  peraltro  che    nella  polemica  sul  formalismo  Bernari  e  Calvino  si   ritrovano   fianco   a   fianco,   non   certo   fautori   di   disimpegno   effimero,   ma   per  garantire  all'artista  (Moravia  in  un  famoso  intervento  propugna  le  stesse  idee34)  la    più  ampia    autonomia  creativa  e  critica  della  realtà.    

Occorre a questo punto introdurre la lettera di Bernari a Zavattini del 21 febbraio 1933 che segue la spedizione a Milano del dattiloscritto di Tre operai. In particolare bisogna valutare con attenzione il paragone che propone Bernari a proposito della letteratura sradicata dall’impegno come un “fiore” profumato ma inutile; un paragone che, vent’anni dopo, torna nel succitato intervento di Moravia.

Non so questo libro come potrà sembrarti dal punto di vista puramente estetico. Non per mettere le mani avanti, ma per chiarire la sua funzione in questo                                                                                                                29 Ivi. 30 CALVINO, Prefazione 1964, in Romanzi e racconti, cit., p. 1188. 31 ARISTARCO [E. Zazo], Un neo-verista: Carlo Bernard , in «L'Italia Letteraria», anno X, n. 14, 8 aprile 1934, pp. 9-10. 32 Per i rapporti di Vetga con le arti visive cfr. MINGHELLI GIULIANA, L’occhio di Verga. La pratica fotografica nel Verismo italiano, online: http://ebookbrowsee.net/003-minghelli-verga-x-doc-d132393274 33 Le lettere di Pavese a Bernari, in cui emerge l'ammissione "a Milano non ti vogliono… ti imputano un anarchismo sinistrorso" sono pubblicate da Dario Fertilio nel «Corriere della Sera», v. nota precedente. 34 MORAVIA ALBERTO, Il comunismo al potere e i problemi dell’arte, in «Nuovi Argomenti», a. I, n. 1 (1953), marzo-aprile, p. 3-4.

ambiente e in questo momento, vorrei dirti alcune cose: credo che la parte, diciamo “programmatica”, abbia inficiato il suo significato puramente lirico. Chi infatti lo giudicasse coi metri dell’estetica idealistica, lo troverebbe certamente arido e senza respiro; chi lo giudicherà invece – come potrai farlo tu, per la posizione che hai assunto nella letteratura italiana – fuori dalle file del crocianesimo, tenendo d’occhio, ossia, prima che l’ispirazione lirica, la sua funzione etica e politica, potrà forse – dico: forse! – trovarvi qualche cosa di buono, potrà forse vedere nella sua aridezza il mezzo più onesto per il fine che la mia posizione ideologica mi consentiva di raggiungere. – Non vorrei adesso accodarmi al treno della rettorica corrente intorno ad un’arte a contenuto sociale; ma penso, dal mio modesto punto di vista, – senza per questo voler dar spago ai gazzettieri che si sono messi a strombazzare ai quattro venti la necessità di un’arte di contenuto, fino a far perdere a questo concetto il suo valore – ma penso, dicevo, che l’arte sradicata dal terreno della lotta economica e politica, è un bel fiore di cartapesta: avrà colori smaglianti, ma sa sempre d’anilina; potrà essere profumata, ma sentirà sempre di morte.35  

  A  distanza  di  trent'anni,  nella  Prefazione  1964,  Calvino  chiude  la  polemica  sull'engagement  con  una  dichiarazione  netta  in  sintonia  con  quanto  sostenuto  da  Bernari:   Oggi, in genere, quando si parla di “letteratura impegnata” ci se ne fa un’idea sbagliata, come d’una letteratura che serve da illustrazione a una tesi già definita a priori, indipendentemente dall’espressione poetica. Invece, quello che si chiamava “engagement”, l’impegno, può saltar fuori a tutti i livelli; qui vuole innanzitutto essere immagini e parola, scatto, piglio, stile, sprezzatura, sfida.36

Calvino, parlando del contesto in cui nacque il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, storicizza insomma la sua osservazione facendone un vero e proprio caso, anche personale, con un esplicito riferimento a Vittorini quando accenna criticamente alla questione dell’Eroe positivo:

Cominciava appena allora il tentativo d’una “direzione politica” dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare l’”eroe positivo”, di dare immagini normative, pedagogiche, di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria. Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in seguito, qui in Italia, simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito. Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria: quando scrissi questo libro l’avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere d’una nuova retorica.37 La testimonianza di Capozzi, definito da Bernari stesso “il mio biografo”, dell’ultimo incontro con lo scrittore napoletano in un ristorante nei pressi di Ponte Milvio a Roma rappresenta l'ideale suggello a questa analisi e il raccordo perfetto con le tesi di Calvino:

                                                                                                               35 Lettera dattiloscritta, con correzioni e aggiunte manoscritte, firma manoscritta “Bernard”, datata 21 febbraio 1933, pubblicata in Tre operai, a cura di F. Bernardini, cit. pp. 215–7 (Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia). 36 CALVINO, Prefazione 1964, cit., p. 1192. 37 CALVINO, Prefazione 1964, cit., p. 1193.

Alla fine di agosto del 1988, in un piccolo ristorante buio nei pressi di Ponte Milvio, ebbi l’ultimo colloquio con Carlo e gli chiesi se voleva essere conosciuto come un autore impegnato; la sua risposta ci riporta all’inizio del nostro discorso e ai rapporti tra Paolo Ricci e Bernari: «Se per impegno s’intende l’engagement sartriano, cioè quell’obbedienza alle regole politiche di questo o quel partito, mestiere che fu battezzato da pifferai, certamente mi trovi congedato. Se invece per impegno vuol intendersi rettamente quel processo che trova lo scrittore come coscienza e come conoscenza conflittuale del mondo reale, allora mi reputo più che impegnato, asservito a quest’opera alla quale mi sono votato da molti decenni.» E quindi, realismo spettrale, realismo critico, realismo linguistico, o qualsiasi altro tipo di realismo che possiamo identificare nelle opere di Bernari, va ribadito che alla base della sua narrativa c’è sempre la realtà socio–storica abbinata all’arte e alla cultura del tempo. La sua finzione è sempre ricchissima di richiami alla realtà e alle verità nascoste della società che viene descritta e indagata in ogni opera. In breve, è sempre la realtà a mettere in moto la fantasia dell’autore. Ma una volta che la realtà, come quella della sua città nativa, entra nell’immaginazione di Carlo Bernari, e cioè una volta che si dissolve in “libera fantasia”, ecco come questa diventa una menzogna narrativa ben costruita, o meglio, un’ingegnosa macchina conoscitiva alla ricerca di verità nascoste sotto la cosiddetta realtà che ci circonda.38     Gli   assunti   teorici   dei   due   scrittori   hanno   naturalmente   comportato  numerose  ricadute  ed  effetti  sulle  rispettive  opere.  La  rivendicazione  calviniana  di   una   realtà   rimodellata,   rielaborata   attraverso     "la  memoria   globale   coi   suoi  confini  sfumati"   (Calvino)     che   "si avvaleva anche di quel processo presentificante, grazie all'accumulo di materiali realistici - fatti, cose, ambienti, personaggi - sottratti alla realtà viva e collocati a una distanza caliginosa e polverosa che facesse memoria" (Bernari) contribuisce a creare una forma letteraria in cui l'Io narrante deve in qualche modo ripresentificare il vissuto sotto forma di riminiscenza. Così scrive Calvino: Il protagonista simbolico del mio libro fu dunque un'immagine di regressione: un bambino. Allo sguardo infantile e geloso di Pin, armi e donne ritornavano lontane e incomprensibili; quel che la mia filosofia esaltava, la mia poetica trasfigurava in apparizioni nemiche, il mio eccesso d'amore tingeva di disperazione infernale [...] Se un valore oggi riconoscoa questo libro è lì: l'immagine d'una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l'indigenza del "troppo giovane" e l'indigenza degli esclusi e dei reietti.39

                                                                                                               38 Rocco Capozzi ha intervistato per l’ultima volta Carlo Bernari a Roma nel luglio del 1989, circa sei mesi prima dell’ictus che colpì lo scrittore. La risposta citata da Capozzi è quella rielaborata da Bernari in una lettera, l’ultima indirizzata al “suo biografo”, del settembre 1989. L’intervista a Carlo Bernari di Rocco Capozzi è pubblicato su «Forum Italicum» nr. 1, 1994, p. 381 e seg. 39 CALVINO, Prefazione 1964, cit., p. 1200.

  I   sentimenti   espressi   da   Calvino   trovano   però   piena   corrispondenza  nell'incipit   della   Nota   65,   laddove   Bernari   parla   di   "tenerezza   e   furore   per   il  ventenne   che  mi   ritorna  da  queste  pagine   […]   contrassegno  di  maturità,   direi,   se  non  mi  smentissero  le  lingue  di  fuoco  che  spuntano  tra  rigo  e  rigo,  ad  annunciare  sdegno,  sentimenti  di  rivolta,  paure,  da  attribuirsi  al  giovane  che  non  vuol  stare  al  gioco".40       Si  potrebbe  a  questo  punto  obiettare  che   il  paragone  tra   il  bambino  Pin,  l'Io   narrante   del   Sentiero   e   Teodoro,   il   ventenne   protagonista   di   Tre   operai,  risulta    azzardato,  se  non  altro  per  via  della  differenza  d'età  tra  i  due  personaggi.  Tuttavia,   bisogna   ricordare   che  mentre   Pin   è   comunque   una   sorta   di   versione  infantile   di   un   ragazzo   più   grande   -­‐   la   distanza   della   memoria   calviniana  rimpiccolisce  e  allontana  la  figura  del  romanzo  nel  tempo  del  mito  come  abbiamo  visto  -­‐  Teodoro  Barrin  di  Bernari  è  ach'egli  un  bambino  cresciuto,  un  immaturo  che  trova  o  meglio  smarrisce    a  sua  volta  "il  sentiero",  ossia,  fuor  di  metafora,  la  strada  della   rivoluzione  proletaria.   Con   la   quale  Teodoro   sembra   voler   giocare  come  un  bambino  con  una  pistola  giocattolo,  le  armi  che  stringe  nelle  tasche  del  pastrano   prima   di   essere   arrestato   nel   corso   di   una  manifestazione   sindacale.  Certo  è  che  Teodoro  affronta  la  sua  parabola  esistenziale,  la  sua  caduta,  proprio  con   l'ingenuità    e   l'incoscienza   tipiche  di  un   fanciullo.  Dimensione,  questa,     che  Bernari  sottolinea  nelle  battute  conclusive  del  romanzo  per  ben  due  volte:       "Non  mandarmi  via!"   fa    Teodoro,   intuendo  che   la  cosa  sta  risolvendosi   in  suo   favore.   E   si   appoggia   con   un   fianco   alla   spalliera   del   letto,   come   a   voler  stabilire  con  quel  contatto  una  familiarità.  Da  quel  punto  vede  in  uno  specchio  la  sua  faccia  di  bambino.  Moreau41    malediva    quella  sua  faccia  da  bambino.42       In   questo   frangente   allo   scrittore   suona   certamente   un   campanello,  poiché   nel   romanzo   è   presente   un'altra   figura   di   bambino,   Pippetto   il   figlio   di  Anna  che  muore  di  stenti  nel  sonno  tra  le  braccia  di  Marco.  Così  pare  di  rivivere  la  scena  della  fine  del  piccolo,  anche  se  in  questo  caso  a  concludersi  tragicamente  è  la  vicenda  di  Teodoro:         La   fronte   gli   si   imperla   di   sudore.   A   chiudere   gli   occhi   gli   pare   che   il   suo  corpo   si   gonfi,   mentre   il   letto   nella  mente   diventa   sempre   più   piccolo.   Suda,   col  capo   chino   sul   letto:   l'odore   nauseante   dei   suoi   panni   gli   torna   alle   nari   e   nella  mente  gli  appare  il  suo  corpo  sempre  più  grosso  e  disfatto.  Solo  il  viso  gli  è  rimasto,  quel  maledetto  viso  da  bambino  […]43         Non   bisogna   trascurare   il   fatto   che   la   figura   del   bambino   o   del   giovane  immaturo   assumono   un   ruolo   centrale   nella   letteratura   italiana,   soprattutto   in  questa  fase  del  neorealismo.  Vale  la  pena  di  ricordare  alcuni  esempi:  I  bambini  ci  

                                                                                                               40 Brano precedentemente citato. 41 Frederic Moureau giovane personaggio de L'educazione sentimentale di Gustave laubert. 42 BERNARI , Tre operai, cit.. p. 156. 43 BERNARI , Tre operai, cit.. p. 157.

guardano    il  film  di  De  Sica  del  1943  tratto  dal  romanzo  di  Pricò  che  inaugurò  la  collaborazione  con  Cesare  Zavattini.  Collaborazione  bissata  nel  1948  con  Ladri  di  biciclette,   tratto   dal   romanzo   di   Luigi   Bartolini,   in   cui   ancora   una   volta   il  protagonista   è   un   bambino.   Non   più   bambino,   ma   un   bambinone   cresciuto   è  anche     Totò   il   buono,   romanzo   di   Zavattini   da   cui   poi   il   grande   binomio   del  cinema   italiano     trasse  Miracolo   a   Milano.   L'insistenza   su   Zavattini   non   è   del  resto  casuale,  dato  che  fu  proprio  il  genio  di  Luzzara  a  "scoprire"  Carlo  Bernari  nel   1934   e   a   fare   da   editor   a   Tre   operai.    Ma   al   di   là   di   queste     significative  relazioni,   il   tema   del   bambino   si   potrebbe   sviluppare   in   più   direzioni,   dalla  raccolta   di   racconti   dello   stesso   Bernari     Siamo   tutti   bambini     pubblicata   da  Vallecchi   nel   1951   al   più   recente   (1968)    Mondo   salvato   dai   ragazzini  di   Elsa  Morante.   La   lista  potrebbe  allungarsi  di  parecchio,  ma  non  è  nostra   intenzione  concentraci   sul   tema   del   bambino   nella   letteratura   italiana.   Tuttavia   bisogna  riscontare  una  profonda  sintonia,  una  corrispondenza  tra  l'intuizione  di  Bernari  dei  racconti  di  Siamo  tutti  bambini    e  Il  sentiero    di  Calvino.  Uno  sguardo  al  testo  pubblicitario   dell'edizione   Vallecchi   del   1951   di   Siamo   tutti   bambini     è  illuminante:         […]   trovano   posto   nove   racconti   che   rappresentano   i   nove   momenti  dell'Anima   Bambina;   quale   alberga   non   solo   nel   fanciullo,   bensì   anche   nel   petto  dell'adulto,   portato,   dalla   sua   stessa   brutalità   e   dalla   stessa   dinamica   della   sua  corrotta  morale,  a   fingersi  bambino  per  sfuggire  alla  Punizione.  La  Punizione  del  Cattivo  non  è  un'invenzione  della  favola,  destinata  al  libro  per  l'infanzia,  ma  è  un  pericolo   che   noi   ci   portiamo   dietro   dai   miti   della   fanciullezza   fino   all'orlo   della  tomba,  il  cui  presagio  condiziona  la  nostra  vita  seminandola  di  Paure.     Nascono  così,   intorno  al  più  lungo  (intitolato  "Il  pedaggio  si  paga  all'altra  sponda",  quasi  un  romanzo)  i  nove  racconti  che  rappresentano  i  nove  momenti  che  la  Paura  sceglie  per  manifestarsi  a  noi,  sia  attraverso  la  credulità  del  bambino,  sia  attraverso   la   maschera   bambinesca   che   l'uomo   adotta   nel   fingersi   bambino,  illudendosi   di   sottrarre   così   al   Terrore,   tra   un   gioco   e   l'altro   gioco.   Nove   può  sembrare   persino  un  numero-­‐cabala,   o   un  numero   iniziatico,   tanto   assomiglia   ai  nove   sensi   del   concepimento;   talché   ogni   racconto   sembra   rispondere   con  un'avventura  terrena,  dominata  da  uno  spavento,  ai  grandi  "Perché"  che  i  "bimbi-­‐adulti"  e  gli  "adulti-­‐bimbi"  si  pongono.          

        Il  volantino  ha  di  certo  una  paternità  autoriale  e  non  solo  redazionale.  Lo  stile,   la   tematica,   i   concetti     sono   farina   del   sacco   di   Bernari.   Tuttavia,   se   si  prendessero  pensieri  e  concetti  e  li  si  trasferissero,  sotto  mentite  spoglie,  in  una  presentazione   del   Sentiero   di   Calvino,   essi   non   sfigurerebbero   minimamente.  Tanto   da   far   nascere   il   velato   sospetto   di   un   collegamento   più   diretto   e  meno  casuale.  A  ben   vedere   le   date  non   contraddirebbero  questa   ipotesi.  Siamo  tutti  bambini  è  datato  editorialmente  1951.  Ma  il  volumetto  è  una  raccolta  di  racconti  precedentemente   scritti   e   pubblicati   da   Bernari   tra   il   1937   e   il   1943.   In  

particolare   Il   pedaggio   si   paga   all'altra   sponda,   che   è   la   narrazione   su   cui   si  impernia   la   raccolta   di   Siamo   tutti   bambini,   viene   pubblicato   nel   1943   nel  periodico   «Lettere   d'Oggi».   Dal   momento   che   Bernari   rappresenta   proprio   in  quegli  anni  una  sorta  di  modello  letterario  per  la  nuova  generazione  di  scrittori,  infatti   Tre   operai   fu   pubblicato   da   Zavattini   proprio   nella   collana   Rizzoli   "I  giovani",   risulta   impossibile   che   Calvino   non   li   abbia,   se   non   tutti   almeno   Il  pedaggio,   attentamente   letti.   Oltretutto,   proprio   nel   1943   «l'Unità»   affida     a  Bernari   il   compito   di   redigere   una   corrispondenza     sui   GAP   romani     durante  l'occupazione  nazista.  Una  vicenda  che  per  ovvie  ragioni  Calvino  segue  da  vicino.       Pur  non  volendo  montare  un   "giallo"   letterario   risulterebbe,   alla   luce  di  queste  osservazioni,  che  Calvino  nella  stesura  del  Sentiero    non  possa  non  essersi    in   qualche   modo   riferito,   basato   e   ispirato   all'opera   e   all'attività   politico-­‐giornalistica  di  Bernari.  Così  la  funzione  del  "bambino"  di  Calvino,  quella  fuga  nei  ricordi   della   memoria   sfumata   come   esorcizzazione   di   un   mondo   pauroso     e  violento   abitato   dal   Pericolo   e   della   Punizione,   ci   riporta   al   mito   della  fanciullezza   la   cui   origine   si   perde   nei   tempi   antichi   della   filosofia   e   della  letteratura,  ma  che  trova  nel  binomio  Paura=Fascismo  teorizzato  da  Bernari  un  fondamento  moderno  e  attuale.  Tanto  che  la  "novità"  de  Il  sentiero    non  gli  sfugge.  In   particolare   il   personaggio   del   bambino   protagonista,   Pin,   al   quale   Bernari  sembra   ispirarsi   nella   stesura   della   sceneggiatura   del   capolavoro   del   cinema  sulla   Resistenza,   Le   quattro   giornate   di   Napoli  diretto   da   Nanni   Loy   nel   1962.  Infatti   uno   dei   protagonisti   del   film   è   un   bambino,   Gennaro   Capuozzo  ribattezzato   "Cazzillo"   perché   molto   piccolo,   il   quale,   esattamente   come   Pin,  confonde    la  lotta  armata  con  un  gioco  eroico  e  vi  si  unisce,  tirato  dietro  da  una  banda   di   scugnizzi   -­‐   la   banda   Ajello   -­‐     che   fuggono   dal   riformatorio   per   farsi  combattenti   antinazisti   e   liberare   la   città,   con   tutta   la   santa   ingenuità   e  spontaneità  della  sua  tenera  età.    Solo  che  "Cazzillo",  alias  Gennaro  Capuozzo,  è  un  personaggio  reale,  Medaglia  d'Oro  al  valor  militare  alla  Memoria44,  caduto  in  battaglia.   In   uno   scatto   storico   di   Frank   Capa   potrebbe   proprio   esserci   lui,   il  grande-­‐piccolo  "Cazzillo".        

                                                                                                               44 Questa la motivazione depositat presso l'archivio del Quirinale: Appena dodicenne durante le giornate insurrezionali di Napoli partecipò agli scontri sostenuti contro i tedeschi, dapprima rifornendo di munizioni i patrioti e poi impugnando egli stesso le armi. In uno scontro con carri armati tedeschi, in piedi, sprezzante della morte, tra due insorti che facevano fuoco, con indomito coraggio lanciava bombe a mano fino a che lo scoppio di una granata lo sfracellava sul posto di combattimento insieme al mitragliere che gli era al fianco. Prodigioso ragazzo che fu mirabile esempio di precoce ardimento e sublime eroismo. Napoli, 28-29 settembre 1943.

        Nel   film,   scritto   da   Bernari   con   Vasco   Pratolini   e   Festa   Campanile,   la  vicenda  del  bambino-­‐partigiano  che  muore  tirando  una  bomba  a  mano  contro  un  tank  nazista  non  mira  a  enfatizzare  il  tema  dell'eroismo  popolare  e  della  "rivolta  eroica".  Infatti  la  figura  del  bambino  in  armi,    in  sintonia  col  Pin  di  Calvino,  non  viene  ideologizzata  con  finalità    retoriche,  ma  è  trattata  all'interno  del  fenomeno  della  guerra,  nella  sua  tragica  e  inintellegibile  realtà.  Pin  e  Cazzillo  non  sono  così  testimoni  di  una  scelta  ponderata  e  ragionata:  si  trovano    per    puro  caso  con  le  armi  in  pugno  al  fianco  dei  partigiani,  come    in  un  gioco  avvincente  più  grande  di  loro  che  li  spinge  ad  emulare  comportamenti  adulti.     Alcuni   fotogrammi   del   film   confermano   questa   interpretazione   senza  bisogno  di  ulteriori  commenti.    

         

     

 

  Occorre  però   fare  una  precisazione:   come  detto,  Gennaro  Capuozzo  non  rappresenta  un  personaggio  di  fantasia,  quindi  la  fonte  di  ispirazione  di  Bernari  non  può  essere  direttamente  il  Pin  di  Calvino.  Salvo  ovviamente  l'uso  letterario  che  entrambi,  sia  Calvino  che  Bernari,  fanno  del  mito  del  bambino-­‐partigiano.  In  effetti  sia  Pin  che    il  Cazzillo  del  film    nascono  sulla  base  di  un  personaggio  reale  e  ben  noto  della   storia  della  Resistenza  opportunamente  messo   in   risalto  da  una  ricostruzione  di  Edoardo  Pansini  del  194445  che  lo  stesso  Calvino  dovrebbe  aver  fatto  in  tempo  a  leggere  prima  della  sua  creazione  letteraria.     Sarebbe  oltretutto  di  una  semplicità    estrema,   finanche   imbarazzante,  se  si   dovessero   spiegare,   al   lettore   e   allo   spettatore   di   due   capolavori   della  narrativa  e  del  cinema  come  Il  sentiero    e  le  Quattro  giornate,  le  coincidenze  e  le  similitudini  che  modellano  dui  personaggi  "bambini"  come  Pin  e  "Cazzillo".  Basti  qui  dire  che   il   loro  rapporto  con   la  vita  difficile  di  quei  giorni,   le   loro  "prese  di  campo"  ingenue,  infantili,  di  fronte  a  quei  terribili  epifenomeni  degli  adulti  che  si  chiamano   guerra,   violenza,   terrore,   paura,   morte,   sono   talmente   correlati   che  potrebbero  fondersi   in  un  unico  personaggio:   il  bambino  stritolato  dalla  guerra  che   si   eleva   eroicamente   a   coscienza   morale,   osservatore   e   giudice,   ancorché  attore  in  prima  persona  dell'immane  tragedia  cui  prende  parte  per  emulazione,  gioco,  spirito  e  appartenenza  di  gruppo.       Bernari,  raccontando  l'estenuante  lavoro  di  preparazione    e  sceneggiatura  del  film  durato  ben  quattro  anni    a  partire  dal  1958,  si  sofferma  sui  tagli  occorsi  durante  la  lavorazione  al  piano  originale;  ebbene,    uno  di  questi  riguarda  il  finale  dedicato,   nelle   intenzioni   degli   sceneggiatori,   proprio   a   "Cazzillo",     ovvero  Gennarino  Capuozzo.         Ma  prima  di  dire  della  nona  scena   tagliata,   vorrei  accennare  ai   finali:  nel  copione  ve  ne  erano  due,  uno  più  autentico  (la  morte  del  sottocapo  Pitrella  che  non  ce  la  fa  a  raggiungere  Sorrento)  l’altro  più  tragico,  che  più  avanti  descriverò.  Ne  fu  preferito,  in  sede  di  montaggio,  un  terzo,  che  non  era  un  vero  e  proprio  finale,  ma  che  aveva   l’unico  pregio   di   non   chiudere   su  un   singolo  personaggio,   che  avrebbe  per  ciò  solo  assunto  l’importanza  di  protagonista,  guastando  la  coralità  del  film.  Il  finale  a  cui  mi  ero  affezionato  narrava  la  processione  delle  bare  dei  caduti,   fra   le  quali,   quasi   nascosta,   c’era   una   piccolissima   bara,   quella   di   Gennarino,   che   sua  madre  Concetta,  ancora  cerca  fra  le  gambe  della  gente  che  si  è  riversata  sulla  via.  Concetta  viene  assalita,  nella  commozione  generale,  da  un  tragico  presentimento.  Attraversa  allora  la  strada,  urtando  la  folla  che  si  assiepa  ai  due  bordi,  raggiunge  i  ragazzi  che  portano  in  spalla  quel  piccolo  feretro  e  chiede  loro:  “Come  si  chiamava?”  Ma  i  compagni  non  hanno  mai  saputo  il  suo  nome:  lo  avevano  ribattezzato  con  un  nomignolo  e  rispondono:  “E  chi  lo  sa.  Noi  lo  chiamavamo  Cazzillo”.  Concetta  non  sa  trattenere  un  egoistico  sospiro  di  sollievo;  meno  male,  non  è  lui.  Ma  subito  si  pente,  consapevole  che  quel  suo  sospiro  significherà  lagrime  per  un’altra  mamma.  E  mai  immaginando  che  lì  dentro  quelle  rozze  assi  c’è  il  corpicino  del  suo  Gennarino,  un  minuscolo  eroe,   essa  chiede  perdono  al   cielo  e  non  riesce  a  cancellarsi  un   sorriso  

                                                                                                               45 PANSINI EDOARDO, Goliardi e scugnizzi nelle Quattro Giornate napoletane, Napoli, Edizioni Cimento, 1944. Questo è il testo che precede la stesura de Il sentiero di Calvino.

fra   le   lagrime.   Sorriso   che   diventa   un   tragico   riso   quando   una   polvere   bianca  comincia  a  caderle  addosso,  e  tutti  intorno  a  lei  si  trasformano  in  bianchi  fantasmi  disperdendosi  mentre  un  camion  avanza  dietro  le  bare  aspergendo  dall’altro  il  ddt  in   polvere.   Sono   arrivati   gli   Alleati,   sterilizzano,   disinfettano   prima   di   prendere  possesso   della   città   che   si   è   liberata   da   sé.   E   su   quel   bianco   che   si   espande   e  s’infittisce,  il  quadro  si  chiude.46  

 

  Sarebbe   difficile   e   sicuramente   forzato   cercare   ulteriori   analogie   tra   il  finale   tagliato   delle  Quattro  giornate  e   la   conclusione   del  Sentiero.   In   entrambi    tuttavia   appare     la   figura   materna,   evocata   da   Cugino   nelle   ultime   pagine   del  romanzo   e   rappresentata   da     Bernari   come   la   Mater   dolorosa     in   cerca   del  corpicino   del   figlio   falciato   da   una   raffica   di   mitraglia   che   avrebbe   dovuto  chiudere  il  film.       La  prova  decisiva?  La  "pistola  fumante"  di  questa  "sintonia  a  distanza"  di  due  scrittori  così  diversi,  eppure  così  vicini?  Ebbene,  in  questa  sorta  di  inchiesta  letteraria     tornano   utili   alcune   concomitanze   editoriali.   Nel   1973   Bernari  raccoglie  in  volume  per  la  Mondadori  una  parte  della  sua  saggistica  letteraria  ed  altri  scritti;  il  titolo  del  volume    è  molto  significativo  Non  gettate  via  la  scala.47    Il  titolo  prende  spunto  da  una  citazione  di  Wittgenstein  in  calce  all'edizione,  ma  è  in   realtà   un   messaggio   più   o   meno   in   codice   lanciato…   a   chi,   se   non   a   Italo  Calvino?     Lo  scritto  di  apertura  della  raccolta  bernariana    La  zanzara  industriale  cita  e  commenta  direttamente  alcuni  interventi  di  Calvino,  nominato  espressamente  a  pagina  15,  in  particolare  gli  scritti  calviniani  su  Fourier  e  l'utopia48.    Su  questi  argomenti   occorrerà   ampliare   la   disamina,   ma   è   indubitale     che   tra   Calvino   e  Bernari   intercorra  un  "botta  e  risposta"    a  suon  di   interventi  che  si   integrano  e  comprendono   a   vicenda,   come   ad   esempio   quelli   sulla   natura   e   teoria   del  romanzo,  sull'engagement,    sul  marxismo,  e  tanti  altri  temi.     Proprio  in  questa  prospettiva  si  spiega  il  titolo  che  Bernari  sceglie  da  una    asserzione  di  Wittgenstein:  Non  gettate  via  la  scala.  Si  tratta  di  una  frase  rivolta  direttamente   a   Calvino.   Infatti   lo   scrittore   ligure   all'inizio   degli   anni   Sessanta  comincia   a   spingere   sull'acceleratore   della   dimensione   fantastica,   dell'ironia   e  del   tragicomico,   della   leggerezza   (che   sarà   ampiamente   teorizzata   in   una   delle  sue   Conferenze   americane).   Il   barone   rampante,   personaggio   che   per   alienarsi  dalla   realtà   va   a   vivere   sulle   cime   degli   alberi,   è   un   romanzo   del   1957   che  anticipa   il   crescente   desiderio   di   isolamento   di   Calvino   stesso   che   in   seguito  decide  di  trasferirsi  a  Parigi    per  concentrarsi  sul  suo  lavoro  e  riflettere  sulla  sua  esperienza   interiore   e   la   sua   attività   letteraria.   Bernari   non   critica   né   boccia                                                                                                                  46 BERNARI CARLO, Le mie faticose quattro giornate, in «Cinema Nuovo», novembre- dicembre 1963, pp. 428-35. Cfr. BERNARD ENRICO, Mio padre Carlo Bernari e le Quattro giornate di Napoli. Vi racconto io come è nata l’idea del film, in «Corriere del Mezzogiorno», martedì 12 giugno 2007, p. 10. BERNARD ENRICO, Bernari e il cinema, in «Esperienze Letterarie», Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, XXXI, 2006, n. 4, pp. 5-26. 47 BERNARI CARLO, Non gettate via la scala, Milano, Mondadori 1973. 48 Cfr. FOURIER CHARLES , Teoria dei quattro movimenti, Il nuovo mondo amoroso e altri scritti sul lavoro, l'educazione, l'architettura nella società d'Armonia. Scelta e introduzione di Italo Calvino; traduzione di Enrica Basevi, Einaudi, Torino 1971. I saggi su Fourier e l'utopia marxista sono poi stati raccolti in: Calvino Italo, Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1981

l'evoluzione   letteraria     di   Calvino,   sempre   più   orientato   al   genere   "fantastico",  anzi  considera  questo  sviluppo  intrinseco  e  necessario  allo  stesso  neorealismo49.  Una   dimensione   che,   del   resto,   Zavattini   aveva   già   ampiamente   raggiunto   con  Totò   il   buono   e   col   film  Miracolo   a   Milano.   Tuttavia,   e   in   questo   "tuttavia"   è  racchiuso   il   messaggio,   più   o   meno   cifrato,   che   Bernari   spedisce   a   Calvino,  l'artista   nel   suo   volo   pindarico,   nella   sua   dimensione   fantastica,   nel   suo  isolamento,  non  può  chiudersi  in  una  "torre  d'avorio";  e  non  deve  mai  gettare  via  la  scala  che  lo  collega  alla  realtà,  la  vita,  da  cui  parte  ogni  rappresentazione  che  voglia  elevarsi  a  critica,  anche  se  astratta,  del  mondo.  Per  dirla  chiaramente  con  una   battuta   di   Goethe   sulla   funzione   dell'artista:   "testa   fra   le   nuvole,  ma   piedi    piantati  per  terra."50       Nel   1981   Calvino   raccoglie   i   suoi   scritti   e   saggi   fiolosofico-­‐politici   e  letterari  nel  volume  Einaudi  Una  pietra  sopra.  Naturalmente  non  si  tratta  di  una  risposta  diretta  a  Bernari.  Ma  l'ennesimo  "caso"  che  unisce  i  destini,  insomma  li  fa   diventare   universi   paralleli,   dei   due   scrittori   che   sembrano   così   lontani,  monadi  di  una  ricercata  dimensione  solitaria  e  individualistica,  ma  che  in  realtà  corrispondono   intellettualmente  e   idealmente.    Ripetiamo  che  Calvino   con  Una  pietra  sopra    non  intende  rispondere  direttamente  a  Non  gettate  via  la  scala.    Ma  appunto:  non  direttamente,  ma   indirettamente  sì   -­‐  o  meglio     lo  segue   in  questa  esigenza   di   chiudere   il   proprio   percorso   e   discorso   teorico.   A   differenza   di  Bernari,  Calvino  non  cita  lo  scrittore  napoletano,  il  quale  però  a  sua  volta  segue  il  più  giovane  autore  del  Sentiero  passo  passo,  facendogli  addirittura,  come  si  suol  dire,  "le  pulci".       Nella   biblioteca51  di   Carlo   Bernari     abbiamo     rinvenuto     una   copia   del  volume  Einaudi  chiosata  a  matita  dall'autore  di  Tre  operai  che  meticolosamente  segna  pagine  e  argomenti  di  suo  interesse.  Sia  perché  sono  punti    che  egli  stesso  ha   affrontato   in   precedenza,   sia   perché   gli   possono   fornire   nuovi   spunti   per  successive   analisi.   L'ultima   pagina   bianca   del   libro   elenca   i   passi   che   Bernari  ritiene   di   maggior   interesse   e   degni   di   essere   sottolineati,   la   calligrafia   è  indiscutibilmente  sua.    Scriver  chiaro  119  Dialetto  121  Lingua  122  Scienza  e  letteratura  129  Lingua  e  discorso  sul  mondo  131  Beckett  catastrofe      134  Opere  come  1/2  (mezzo,  ndr.)  di  prod.  "    "    138  Letteratura  e  filosofia    151  Filosofia  della  scienza    154  Satira  comico      157  Il  nemico  da  espellere    198  Illuministi  Fourier    238  Socialismo  avvenire      251                                                                                                                  49 Cfr. CAPOZZI ROCCO, Bernari tra fantasia e realtà, Napoli Società Editrice Napoletana, 1984. 50 ECKERMANN, Colloqui con Goethe, a cura e traduzione di Enrico Bernard, Roma, E&A, 1992. 51 Il "Fondo Carlo Bernari" si trova presso la Biblioteca Alessandrina di Roma.

Utopia    253  Moralismo  moralità    259  Analfabetismo  nei  Promessi  Sposi    267/68