Alle origini dello sviluppo locale: il ritrovamento dell’unità d’indagine

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47 Alle origini dello sviluppo locale: il ritrovamento dell’unità d’indagine Fabio Sforzi “Tutti viviamo se qualcuno ci ricorda” Francisco González Ledesma 1. Introduzione In Toscana si comincia a parlare ufficialmente di sviluppo locale dal 1991, anno di inizio della “Libera Scuola” di Artimino (1991-2005) 1 . Tut- tavia, le radici di gran parte delle idee che la Scuola ha messo in circolazio- ne durante i suoi quindici anni di attività nella comunità scientifica e politi- ca, nazionale e internazionale, si trovano nell’esperienza dei primi due Ir- pet: quello di Giacomo Becattini (1968-1973) e quello di Giuliano Bianchi (1975-1985) 2 . Il ponte, non solo ideale, fra i due Irpet è rappresentato dall’interpretazione dello sviluppo economico della Toscana (con particola- re riguardo all’industrializzazione leggera, come precisa il sottotitolo) dato alle stampe nel 1975, proprio nei mesi in cui avveniva il passaggio di con- segne tra l’Istituto “di ricerche” e l’Istituto “regionale” 3 . Non è un caso che Università degli Studi di Parma. 1 Su questo argomento mi permetto di rinviare alla mia presentazione al primo volume degli Scritti sulla Toscana di G. Becattini (Sforzi, 2007). 2 Il periodo di vacanza fra la direzione di Becattini e quella di Bianchi fu coperto da un Co- mitato di direzione interno all’Irpet; cfr. Sforzi (2007). 3 L’Irpet, Istituto “regionale” per la programmazione economica della Toscana succedeva all’Irpet, Istituto “di ricerche” per la programmazione economica della Toscana nel 1974 (con L.R. 10 agosto 1974, n. 48). “Con tale legge la Regione – come si legge in Appendice al volume su Lo sviluppo economico della Toscana (Irpet, 1975) – ha inteso recuperare nel quadro degli strumenti della programmazione regionale, l’esperienza e le strutture dell’esistente Istituto di ricerche per la programmazione economica della Toscana (IRPET), costituito nel 1968 per iniziativa del Comitato regionale per la program-mazione economica della Toscana (CRPET), ai sensi del DM 15 novembre 1965. […] La scelta politica del rap- porto di continuità fra Istituto di ricerche e Istituto regionale, resa esplicita fin dall’identità di sigle, è stata sancita dalla legge regionale n. 48 prima ricordata che prevede l’ipotesi dello scioglimento dell’Istituto di ricerche e la successione nei suoi rapporti da parte dell’Istituto regionale. Tale ipotesi è stata resa operante con atto in data 12 giugno 1975, in base al quale è stata formalizzata la successione fra i due Istituti in ogni rapporto, compreso quello con il

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Alle origini dello sviluppo locale: il ritrovamento dell’unità d’indagine

Fabio Sforzi∗

“Tutti viviamo se qualcuno ci ricorda” Francisco González Ledesma

1. Introduzione

In Toscana si comincia a parlare ufficialmente di sviluppo locale dal 1991, anno di inizio della “Libera Scuola” di Artimino (1991-2005)1. Tut-tavia, le radici di gran parte delle idee che la Scuola ha messo in circolazio-ne durante i suoi quindici anni di attività nella comunità scientifica e politi-ca, nazionale e internazionale, si trovano nell’esperienza dei primi due Ir-pet: quello di Giacomo Becattini (1968-1973) e quello di Giuliano Bianchi (1975-1985)2. Il ponte, non solo ideale, fra i due Irpet è rappresentato dall’interpretazione dello sviluppo economico della Toscana (con particola-re riguardo all’industrializzazione leggera, come precisa il sottotitolo) dato alle stampe nel 1975, proprio nei mesi in cui avveniva il passaggio di con-segne tra l’Istituto “di ricerche” e l’Istituto “regionale”3. Non è un caso che

∗ Università degli Studi di Parma. 1 Su questo argomento mi permetto di rinviare alla mia presentazione al primo volume degli Scritti sulla Toscana di G. Becattini (Sforzi, 2007). 2 Il periodo di vacanza fra la direzione di Becattini e quella di Bianchi fu coperto da un Co-mitato di direzione interno all’Irpet; cfr. Sforzi (2007). 3 L’Irpet, Istituto “regionale” per la programmazione economica della Toscana succedeva all’Irpet, Istituto “di ricerche” per la programmazione economica della Toscana nel 1974 (con L.R. 10 agosto 1974, n. 48). “Con tale legge la Regione – come si legge in Appendice al volume su Lo sviluppo economico della Toscana (Irpet, 1975) – ha inteso recuperare nel quadro degli strumenti della programmazione regionale, l’esperienza e le strutture dell’esistente Istituto di ricerche per la programmazione economica della Toscana (IRPET), costituito nel 1968 per iniziativa del Comitato regionale per la program-mazione economica della Toscana (CRPET), ai sensi del DM 15 novembre 1965. […] La scelta politica del rap-porto di continuità fra Istituto di ricerche e Istituto regionale, resa esplicita fin dall’identità di sigle, è stata sancita dalla legge regionale n. 48 prima ricordata che prevede l’ipotesi dello scioglimento dell’Istituto di ricerche e la successione nei suoi rapporti da parte dell’Istituto regionale. Tale ipotesi è stata resa operante con atto in data 12 giugno 1975, in base al quale è stata formalizzata la successione fra i due Istituti in ogni rapporto, compreso quello con il

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la prima uscita pubblica dell’Istituto regionale fu una tavola rotonda fra studiosi4 su quel documento (22 novembre 1975), quando era ancora in bozze, seguita, tre mesi dopo (25 febbraio 1976), quando il libro, ormai stampato, poté essere distribuito, da un seminario fra politici e amministra-tori5 sui problemi e le prospettive dello sviluppo economico della Toscana, che prendeva le mosse da quel documento per avviare il dibattito regionale sulla programmazione economica (Irpet, 1976)6.

La ricerca che aveva portato all’interpretazione dello sviluppo economi-co della Toscana era stata svolta su commissione formale della Regione Toscana. La Regione, da poco istituita, intendeva impostare la propria atti-vità di programmazione economica attraverso l’elaborazione di un docu-mento che ne illustrasse le linee fondamentali. A tale scopo, nel 1972 aveva assegnato all’Irpet l’incarico di preparare una “nuova” diagnosi dello svi-

personale”. “Il Documento” – così era chiamato dai ricercatori dell’Irpet lo studio sullo svi-luppo economico della Toscana – fu finito di stampare nel mese di dicembre 1975. Si apre con le presentazioni dei Presidenti dei due Irpet: Luciano Bausi (marzo 1975) e Carlo Sadun (luglio 1975). 4 Alla tavola rotonda presero parte Sebastiano Brusco, Mariano D’Antonio, Ferruccio Mar-zano, Giangiacomo Nardozzi, Francesco Silva, Gianni Somogyi, Giacomo Becattini. Gli atti della tavola rotonda non furono mai pubblicati, ma presso l’Irpet se ne conserva la sbobina-tura. 5 Il seminario ebbe luogo nella Sala di Luca Giordano in Palazzo Medici-Riccardi, che in quegli anni ospitava le sedute del Consiglio regionale. Dopo un indirizzo di saluto pro-nunciato dal presidente dell’Irpet, Carlo Sadun, i lavori del seminario furono aperti da brevi introduzioni svolte da Giuliano Bianchi, direttore dell’Istituto; Ezio Avigdor, diretto-re del Centro studi per la programmazione nel circondario di Prato; Paolo Cantelli, se-gretario dell’Istituto Gramsci di Firenze e membro della segreteria della Federazione fiorentina del Pci; Roberto Gattai, della segreteria regionale della Cgil; Alberto Parenti, direttore dell’Unione industriale pratese; Vanni Parenti, coordinatore del Dipartimento Programma-zione della Regione Toscana; Roberto Pizzocolo, direttore del Centro di studi e di ricerche economico-sociali dell’Unione regionale delle Camere di commercio della Toscana; Renzo Ricci, vice-segretario provinciale della DC e assistente ordinario di Stati-stica economica nell’Università di Firenze. Nel dibattito intervennero, fra gli altri, Silvano Andriani, membro del Comitato centrale e della segreteria regionale del Pci e membro del Consiglio di ammi-nistrazione dell’Irpet; Paolo Pecile, funzionario del Comitato regionale del Pci, già membro della segreteria regionale della Cgil; Giuseppe Sorrente, dell’Ufficio di Gabinetto della Re-gione Toscana; Valdo Spini, capogruppo del Psi al comune di Firenze, membro del Comita-to centrale del Psi e membro del Consiglio di amministrazione dell’Irpet; Giacomo Becatti-ni, curatore del volume sullo sviluppo economico della Toscana, ex-direttore dell’Irpet di-ventato membro del suo Comitato scientifico e ordinario di Economia politica nell’Università di Firenze; e alcuni ricercatori dell’Irpet (Mario Badii, Paolo Baglioni e Al-fiero Falorni); cfr. Irpet (1976, pp. XXI-XXIV). 6 Fra i compiti istituzionali dell’Irpet c’era quello di curare “una costante attività volta a fa-vorire la circolazione delle conoscenze e dei dati di base, nonché dei risultati delle ricerche e a stimolare il dibattito sui problemi economici e sociali della Toscana” (L.R. 10 agosto 1974, n. 48, art. 2).

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luppo regionale dalla quale derivare tali linee7. In effetti, da una rielabora-zione di alcuni testi provvisori uscì la prima parte (“Considerazioni sullo sviluppo economico della Toscana dal 1946 al 1972”, pp. 13-32) delle Li-nee del programma regionale di sviluppo economico (Regione Tosca-na/Giunta Regionale, 1973). 2. La nuova chiave di lettura dello sviluppo economico

Uno dei principali risultati della nuova interpretazione dello sviluppo to-

scano fu la conferma empirica dell’importanza dei luoghi nella spiegazione del processo di industrializzazione leggera della regione, che aveva portato a un assetto territoriale costituito da quattro distinte formazioni socio-economiche: la campagna urbanizzata (cioè, l’insieme dei luoghi dell’industrializzazione leggera, corrispondenti a comunità locali specializ-zate nel tessile, nell’abbigliamento, nella pelletteria, nei mobili, e in un’organizzazione della produzione basata su piccole imprese che realizza-vano fasi diverse dello stesso processo produttivo), le aree turistico-industriali (cioè, l’insieme dei luoghi dominati dai grandi stabilimenti delle industrie di base e dalle attività turistiche), le aree urbane (cioè, l’insieme dei luoghi dove si concentrava soprattutto l’offerta di servizi per le imprese dell’intera regione), la campagna (cioè, l’insieme dei luoghi che avevano risentito negativamente degli effetti del processo di industrializzazione leg-gera, avendo fornito alla sua realizzazione un elevato contributo di popola-zione – sotto forma di lavoro dipendente e di lavoro a domicilio – insieme a una quota non marginale di capitali – sotto forma di lavoro autonomo e di piccola imprenditoria).

Si era giunti a questo risultato per via della chiave di lettura che era stata adoperata, la quale ribaltava l’approccio tradizionale della ricerca economi-ca allora dominante. Questo iniziava con l’analisi dei settori produttivi a scala regionale, quindi procedeva alla loro proiezione territoriale alla ricer-ca di (eventuali) agglomerazioni industriali, e dei retrostanti fattori di ag-glomerazione, arrivando all’individuazione di luoghi produttivi.

L’approccio dell’Irpet, invece, partiva dai luoghi, cioè dalle comunità locali, per spiegarne il loro cambiamento e gli effetti prodotti da questo sull’assetto economico e sociale della regione. La definizione dei luoghi (Prato e la sua industria tessile, Santa Croce sull’Arno e la sua industria

7 “Nuova” perché l’Irpet nel 1969 aveva già elaborato un’ipotesi di lavoro sullo sviluppo economico della Toscana (Becattini, 2007).

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conciaria, Cascina e la sua industria dei mobili ecc.) era stata approssimata attraverso una conoscenza della realtà regionale acquisita sul campo.

La mancanza di uno schema unico e coerente di ripartizione dell’Italia in unità territoriali per la ricerca economica, teoricamente ed empiricamen-te fondate sull’idea di luogo/comunità locale, impedì di generalizzare l’approccio seguito nello studio dello sviluppo economico della Toscana alla realtà produttiva dell’intero paese, ma contribuì a formare la consape-volezza della priorità di trovare una soluzione adeguata al problema dell’unità d’indagine.

Erano state gettate le basi che avrebbero alimentato la riflessione teorica sulla ricerca dell’unità territoriale appropriata per analisi dello sviluppo multiregionale italiano. 3. I sistemi locali per la programmazione regionale

Il primo programma di attività dell’Irpet (1977-1978) indicava, fra le ri-

cerche da realizzare, uno studio sui problemi della zonizzazione della To-scana, nella prospettiva di contribuire all’individuazione dell’unità territo-riale appropriata per la politica regionale di programmazione. Si trattava di una ricerca che continuava la tradizione degli studi condotti in Toscana sull’argomento – iniziati nel lontano 1754 da Giovanni Targioni Tozzetti con identiche finalità conoscitive: lo studio delle realtà locali che costitui-vano il territorio regionale e ne potevano spiegare l’assetto economico-sociale “superando il concetto amministrativo o quello della uniformità del-le caratteristiche fisiche del territorio” (Irpet, 1988)8 – e, al tempo stesso, la rinnovava, mettendola al passo coi tempi, cioè conducendo lo studio secon-do i canoni metodologici che si andavano delineando presso la comunità scientifica internazionale – soprattutto nel campo dell’economia regionale – rispetto ai quali in Italia si era rimasti sostanzialmente ai margini9.

È pur vero che mancavano i dati statistici per stimolare la sperimenta-zione dei metodi di regionalizzazione che si trovavano nella letteratura in-ternazionale più avanzata, e in parte anche la tecnologia informatica per implementarli, ma quando le informazioni che avrebbero potuti generare quei dati furono rilevate, nessuno in campo accademico si fece avanti per

8 Su questo argomento mi permetto di rinviare alla mia presentazione al primo volume degli Scritti sulla Toscana di G. Becattini (Sforzi, 2007). 9 In quegli anni, la frontiera della ricerca quantitativa sulla regionalizzazione economica dell’Italia era rappresentata dagli studi di Guglielmo Tagliacarne sulle aree di gravi-tazione commerciale (Tagliacarne, 1973).

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reclamarne l’elaborazione e, quindi, utilizzarli con finalità di studio10. Le informazioni in questione riguardavano gli spostamenti giornalieri per mo-tivi di lavoro fra tutti i comuni italiani, una domanda rivolta alle persone occupate che era stata introdotta per la prima volta nel foglio di famiglia del Censimento della popolazione del 1971, ma per la quale l’Istat si sarebbe limitato a un’elaborazione campionaria.

Giuliano, grazie alla stima che si era guadagnata presso l’Istat quando era stato coordinatore del Dipartimento statistica ed elaborazione dati (SEDD) della Regione Toscana (1970-1975), chiese e ottenne l’autorizzazione a elaborare integralmente quelle informazioni allo scopo di costruire una matrice origine/destinazione fra i comuni della Toscana da utilizzare come base per l’individuazione delle unità territoriali di pro-grammazione regionale.

Nel disegno di programmazione che si andava attuando in Toscana, il programma regionale di sviluppo economico era concepito come il risultato della cooperazione inter-istituzionale fra la Regione, in quanto autorità re-sponsabile della politica di programmazione, e i comuni, in quanto soggetti rappresentativi degli interessi generali delle comunità locali che concorre-vano alla determinazione degli obiettivi del programma regionale.

A questa interpretazione della programmazione – che di fatto segnava l’abbandono dell’idea che essa rappresentasse semplicemente un metodo ordinatore dell’attività regionale per assumere quella, invero molto più am-biziosa, di strumento per la trasformazione consapevole della realtà econo-mica e sociale, imperniato sulla centralità del comune – non furono estranei né il mutato quadro politico di quegli anni11 né l’attuazione della legge 382 con i decreti delegati del luglio 197712. Come si legge nel documento sui criteri per l’individuazione delle unità territoriali di programmazione in To-scana, elaborato dall’Irpet nel quadro della collaborazione, mirata allo sco-po, con il Dipartimento Programmazione della Regione (Regione Tosca-na/Dipartimento Programmazione e Irpet, 1978, pp. 1-3)13.

10 Eppure, solo pochi anni prima, Guido Martinotti (1973) aveva posto il problema della ri-levazione dei dati sulla mobilità territoriale, spiegandone l’importanza per l’analisi della re-altà sociale ed economica. 11 Sono gli anni del “compromesso storico” (1973-1980). 12 Si tratta del DPR 24 luglio 1977, n. 616 emanato in attuazione dell'art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382, Norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica am-ministrazione, relativo al completamento del trasferimento delle funzioni amministrative nelle materie indicate dall’art. 117 della Costituzione ancora esercitate dallo Stato. 13 La ricerca fu coordinata da Alberto Brasca, del Dipartimento Programmazione della Re-gione Toscana, per la parte normativa, e dallo scrivente per la parte relativa ai criteri di re-gionalizzazione e all’individuazione delle unità territoriali. Naturalmente, come accadeva in quegli anni, il direttore dell’Irpet aveva supervisionato il lavoro.

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[…] È proprio dal DPR 616 che prende le mosse – sul piano tecnico, prima ancora che politico – il disegno di un quadro di riferimento tendenzialmente risolutivo della vexata quaestio degli ambiti comprensoriali.

Il ruolo fondamentale che, nella redistribuzione di funzioni fra i vari li-velli di governo, viene ad assumere il comune, conferisce un nuovo signifi-cato alla tesi, da nessuno messa in discussione, ma neppure dimostrata – e per questo, quindi, anche un po’ apodittica –, secondo cui il comune rappre-senta la cellula elementare dell’ordinamento democratico dello Stato. Ora questa immagine assume un concreto significato e si riempie di contenuti oggettivi.

Ormai non solo i processi spontanei hanno reso evidente l’inadeguatezza dei tradizionali ambiti territoriali istituzionali: le stesse disposizioni legisla-tive ne decretano definitivamente la crisi, denunciandone in modo esplicito anche la natura di crisi dimensionale – per l’incapacità di rappresentare una dimensione idonea all’organizzazione delle nuove funzioni – nel momento in cui prospettano la soluzione delle aggregazioni in aree intercomunali.

Si pongono così le premesse per un processo simultaneo di ricomposi-zione della struttura del governo locale, sia nelle dimensioni territoriali che nelle competenze funzionali, per corrispondere alla mutata realtà socio-economica e territoriale del Paese e alle nuove esigenze della collettività. In questo quadro il comune si avvia a divenire realmente la cellula fondamen-tale dell’ordinamento amministrativo dello Stato e ad assumere quel ruolo finora attribuitogli più con l’ottica della tradizione che con quella dello svi-luppo. Da quanto appena riportato, è evidente che si colloca qui – sia come di-

spositivo di legge sia come periodo storico – il rapporto fra decentramento amministrativo e sviluppo locale, sebbene di sviluppo locale si comincerà a parlare molti anni dopo.

L’esperienza toscana di zonizzazione si qualificava per lo stretto rappor-to esistente fra analisi e interpretazione dello sviluppo regionale, da una parte, e ripartizione del territorio in unità territoriali (o sistemi locali), dall’altra. Un rapporto esplicitamente orientato alla comprensione delle cause retrostanti al modo in cui le corrispondenti comunità locali si erano specializzate nelle attività produttive dalle quali dipendevano le loro condi-zioni di vita e, di conseguenza, alla definizione delle politiche di program-mazione attraverso le quali sostenere tali attività per accrescerne o miglio-rarne la competitività.

È a tale scopo – si legge ancora nel documento dell’Irpet (Regione To-scana/Dipartimento Programmazione e Irpet, 1978, pp. 10-11) – che:

Il procedere in parallelo dell’analisi del meccanismo di sviluppo regionale e del riconoscimento dei sistemi territoriali come componenti locali di tale sviluppo, si è venuto sempre più mettendo a fuoco – come del resto è natu-rale – man mano che questi studi, essenzialmente la messa a punto di un

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modello interpretativo dello sviluppo regionale, prendevano corpo passando dall’analisi dei fattori economici a quelli sociali e territoriali.

Va segnalato, in particolare, come l’introduzione di questi ultimi sia sta-ta operata non come meccanica proiezione territoriale dei fenomeni socio-economici, ma con l’intento di rendere esplicito sia il sistema di vincoli di una determinata organizzazione territoriale degli insediamenti umani sull’innesco di un processo di industrializzazione, sia i meccanismi median-te i quali il processo innescato veniva modificando le configurazioni territo-riali.

Vale la pena di annotare come questa linea di riflessione, ricercando i si-stemi locali come fattori e prodotti dello sviluppo, ne studia le interrelazioni nel quadro del più ampio “sistema regionale”, contribuendo, almeno per questo verso, alla definizione di un quadro unitario di riferimento per le a-zioni tese a contrastare le spinte alla disarticolazione certamente presenti nella realtà economica della Toscana, non meno che nelle sue tradizioni an-che in alcune, più recenti, aggregazioni localistiche di interessi.

La crisi dimensionale del comune riguardava – allora come oggi – anche la possibilità di curare effettivamente gli interessi generali della propria co-munità locale e promuoverne lo sviluppo, dal momento che i processi di cambiamento economico ne avevano, per così dire, dilatato i confini (Re-gione Toscana/Dipartimento Programmazione e Irpet, 1978, pp. 12-13).

I mutamenti registrati nel rapporto città-campagna e nell’organizzazione della produzione, le modificazioni delle relazioni sul territorio, in riferimen-to alla domanda e all’offerta di lavoro e, correlativamente, di servizi, hanno dilatato lo spazio di vita quotidiana della popolazione locale. Di conseguenza, il comune si trovava nella necessità di ridefinirsi anche

nei confini territoriali. Fu questa consapevolezza che portò i comuni toscani a rispondere con totale partecipazione alla consultazione sulla proposta di confini delle unità territoriali condotta (tra la fine del 1978 e gli inizi del 1979) dalla 1a Commissione del Consiglio regionale della Toscana compe-tente per gli affari istituzionali14.

14 Nel documento sui “Criteri” più volte richiamato, questa fase preliminare della procedura legislativa – in cui i progetti di legge che avevano una considerevole importanza politica erano sottoposti al parere dei soggetti interessati – non era considerata un passaggio “per misurare il consenso” alla proposta, ed eventualmente “accrescerlo, se insufficiente, median-te opportuni aggiustamenti”. Si affermava, infatti, che “Il controllo e la validazione fanno parte del procedimento di zonizzazione, completando e correggendo, se del caso, la proposta tecnica. La quale è oggettiva, nel senso che si fonda sull’analisi delle relazioni fondamentali che si esprimono oggettivamente nei comportamenti osservabili e misurabili (nel nostro caso la pendolarità casa-lavoro). Ma è anche parziale, nel senso che il modello analitico non può considerare elementi qualitativi, di varia ma non trascurabile incidenza, collegati alle tradi-zioni sociali, o di natura politico-culturale” (Regione Toscana/Dipartimento Programmazio-ne e Irpet, 1978, p. 20).

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Da questo impianto concettuale derivava una “nuova” idea di unità terri-toriale:

Non più un’entità da costruire mediante operazioni di perimetrazione, ma una comunità locale rinvenibile nella realtà, storicamente e geograficamente de-terminata, la questione cruciale essendo quella di come farla emergere. Il pro-blema allora non è più quello della corretta esecuzione delle operazioni di pe-rimetrazione mediante l’applicazione di criteri dati, ma quello della ricerca dei criteri e delle tecniche in grado di meglio approssimare l’identificazione di qualcosa che già esiste (pp. 16-17). I criteri utilizzati per la ripartizione del territorio regionale in unità terri-

toriali furono così definiti: - il comune rappresenta l’unità di analisi; - le unità territoriali sono individuate sulla base delle relazioni quo-tidiane

casa-lavoro, poiché il lavoro ha un ruolo determinante nella vita delle persone e ne orienta i comportamenti territoriali con riguardo al comune dove si abita e dove si lavora, che può coincidere oppure essere diffe-rente;

- le unità territoriali devono corrispondere all’ambito territoriale entro il quale la popolazione sviluppa la maggior parte delle proprie relazioni economiche e sociali;

- ciascuna unità territoriale deve permettere che gli interessi della comu-nità locale vi possano essere individuati nella loro globalità. La soluzione al problema dell’unità territoriale appropriata per la po-

litica regionale di programmazione fu trovata tramite l’identificazione di sistemi locali (Irpet, 1977)15 che costituirono la base analitica e conoscitiva per la ripartizione del territorio regionale in associazioni intercomunali (Regione Toscana/Consiglio Regionale, 1978b) e, successivamente, per la loro istituzione (Regione Toscana, 1979)16.

15 La ricerca fu condotta da un gruppo di lavoro misto Irpet-Regione Toscana coordinato dallo scrivente, del quale facevano parte Mauro Grassi (dell’Irpet) e Gabriella Martinelli (del Dipartimento SEDD); si veda, anche, Sforzi (1982). 16 È il caso di ricordare che nel 1979 Giacomo Becattini pubblicò il suo celebre saggio “Dal “settore” industriale al “distretto” industriale. Alcune considerazione sull’unità d’indagine dell’economia industriale”, dove sollevava il problema dell’unità appropriata della ricerca e dell’intervento in campo economico. In quel saggio, da una parte, attraverso le nazioni eco-nomiche, Becattini apriva la riflessione teorica sul distretto industriale come unità territoria-le della ricerca economica; dall’altra, attraverso le economie esterne locali di produzione, definiva una via di sviluppo industriale alternativa a quella di grande impresa. Su questa doppia natura del distretto industriale Becattini ritornerà nell’introduzione al volume collet-taneo, da lui stesso curato, Mercato e forze locali: il distretto industriale (Becattini, 1987, pp. 29-34).

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4. Regionalità e criteri di regionalizzazione La riflessione sull’unità d’indagine come problema teorico/pratico da

porre a fondamento dello studio del cambiamento economico attraversa gran parte degli scritti di Giuliano e dell’Irpet per l’intero arco temporale della sua direzione. Senza soluzione di continuità essa procede dal ragio-namento sull’interpretazione dello sviluppo economico della Toscana (Bianchi, 1976) al riversamento nei documenti del programma regionale del modello territoriale di sviluppo: le “quattro” Toscane di cui si è detto in precedenza (Regione Toscana/Consiglio Regionale, 1978a), all’individuazione delle unità territoriali per la programmazione regionale (Irpet, 1977; Regione Toscana/Dipartimento Programmazione e Irpet, 1978; Regione Toscana/Consiglio Regionale, 1978b), fino all’elaborazione – insieme con Giacomo Becattini – di una “filosofia della regionalità” (Be-cattini e Bianchi, 1982 e 1984) che pone il problema dell’unità d’indagine con riguardo all’interpretazione dello sviluppo economico italiano.

La pubblicazione dei dati dei censimenti del 1981 fu l’occasione per un’analisi empirica dello sviluppo economico italiano che permise ai due autori di avviare una critica radicale al modo tradizionale di considerare le differenziazioni regionali. Di solito, queste erano interpretate come disu-guaglianze territoriali di un processo di sviluppo concepito come so-stanzialmente unico, in conformità all’idea “semplice e semplicistica” che all’interno di un paese lo sviluppo “procede da un “centro” […] verso le sue “periferie”“ (Becattini e Bianchi, 1982, p. 30), grossolanamente secon-do il ciclo di vita del prodotto, in base al quale i luoghi più avanzati si libe-rano progressivamente delle attività produttive più mature.

Secondo questa chiave di lettura lo sviluppo economico italiano del se-condo dopoguerra (1951-1981) si configurava come “una successione di “ondate”, manifestazioni variamente ritardate di un unico processo” di riloca-lizzazioni d’impresa dal Nord-Ovest – il “centro” dell’economia italiana – verso il Nord-Est e il Centro Italia, promuovendo la formazione di “un’economia periferica”, i luoghi non essendo altro che contenitori di fattori localizzativi, e la loro mappatura un modo per registrare dove lo sviluppo si era propagato e dove ancora no. Viceversa, i due autori sostenevano le ragio-ni di uno sviluppo che si forma nei luoghi – in ciascuno di essi, ovunque si-tuati, secondo una specifica logica di cambiamento – intorno a “originari nu-clei produttivi locali, storicamente radicati”, attivato da “nessi circolari eco-nomia-istituzioni-valori-economia” che causano una serie di “esplosioni di imprenditorialità locale […] indipendenti fra loro tanto quanto ciò è possibile

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nel mondo d’oggi” (Becattini e Bianchi, 1982, p. 43)17. E precisando, in se-guito, che lo sviluppo di ciascun luogo “è ovviamente determinato non solo dalle forze interne, ma anche da circostanze esterne […] e cioè, fra l’altro, dal concomitante comportamento” degli altri luoghi (Becattini e Bianchi, 1984, p. 175).

Questo ribaltamento della chiave di lettura: da un’unica via allo svi-luppo a una molteplicità di sentieri di sviluppo associati alla varietà dei luoghi – unità territoriali “fondate sul modo di stare sul territorio” della po-polazione, con le relative attività economiche attraverso le quali la popola-zione si guadagna da vivere – chiamava in causa il problema della loro mappatura, cioè l’individuazione dell’unità d’indagine appropriata dell’economia, che diveniva il passaggio obbligato per dotarsi dello stru-mento analitico adatto alla decifrazione dei fenomeni sociali.

Senza la disponibilità di una mappa dei luoghi/comunità locali – esau-stiva della realtà sociale ed economica italiana – la possibilità di dare av-vio a un nuovo ciclo conoscitivo: dalla riflessione teorica (la formulazione di una filosofia della regionalità) all’osservazione dei fatti (l’analisi dello sviluppo economico italiano) a una nuova riflessione teorica (una formula-zione della filosofia della regionalità via via più matura) non si sarebbe po-tuta realizzare. 5. La concettualizzazione dell’unità d’indagine

La filosofia della regionalità, che si era formata sul terreno comune della

ricerca economica e della politica economica regionale, penetrò nel campo delle nascenti (in Italia) scienze regionali attraverso il ruolo fondativo che ebbero gli Istituti regionali di ricerca e il protagonismo intellettuale di alcu-ni degli studiosi che li dirigevano e dei ricercatori che vi lavoravano.

Con ciò, non si può dire che essa divenne una filosofia condivisa, ma si può affermare che Giuliano la considerava una pietra angolare delle scienze regionali. Scienze regionali al plurale – come ci aveva nuovamente ricorda-

17 I valori si esprimono nell’etica del lavoro, nella reputazione e nella fiducia negli affari, in consuetudini di reciprocità e regole condivise, nella disponibilità al cambiamento. I valori si integrano con le istituzioni che li diffondono nella comunità locale, li custodiscono e li tra-smettono da una generazione all’altra: la famiglia, la scuola, la chiesa, l’amministrazione pubblica, le articolazioni locali dei partiti politici e del sindacato, le associazioni imprendito-riali, e molte altre entità istituzionali, pubbliche e private, economiche e politiche, culturali e associative. Si tratta di fattori costitutivi del cambiamento economico che in seguito trove-ranno un’esplicitazione nel quadro concettuale del distretto industriale marshalliano (Becat-tini, 1989).

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to in occasione della celebrazione del quarantennale dell’Irpet (il 4 febbraio 2008) – perché:

Ci pareva che la regional science isardiana si avviasse a divenire una branca dell’economia matematica mentre noi volevamo mettere insieme economi-sti, urbanisti, sociologi, storici, geografi, giuristi ecc., tutti i cultori delle di-scipline – le “scienze regionali” insomma – che si proponessero di cimen-tarsi col territorio (Bianchi, 2009, p. 136).

La presa di distanza dalla “regional science di osservanza isardiana” (Bianchi e Magnani, 1985, p. 21) si esprimeva concretamente nei suoi scrit-ti di quegli anni col rinvio al sistema urbano giornaliero quale riferimento teorico per la definizione dell’unità territoriale appropriata.

È noto che la nozione di sistema urbano giornaliero fu introdotta da Tor-sten Hägerstrand nel 1969, nella prolusione svolta in apertura del IX Con-gresso dell’Associazione europea di scienze regionali (Copenhagen), della quale era presidente. Con il titolo dato alla prolusione: What about people in Regional Science?, pubblicata l’anno successivo nei “Papers” dell’Associazione (Hägerstrand, 1970) è già chiaro dove egli volesse anda-re a parare. In aperta, ma garbata, polemica, com’era nello stile dell’uomo, con la tradizione nordamericana, Hägerstrand (1970, p. 7) rilevava una dif-ferenza di enfasi o di tono fra gli incontri di scienze regionali che si teneva-no in Europa e nel Nord America.

When looking over the proceedings of the sixties, one gets the impression that participants in this part of the world [Europe] have preferred to remain closer to issues of application rather than to issues of pure theory. We in Europe seem to have been looking at Regional Science primarily as one of the possible instruments with which to guide policy and planning. I have chosen to proceed along this line by suggesting that regional scientists take a closer look at the problem which is coming more and more to the forefront in discussions among planners, politicians, and street demonstrators, namely, the fate of the individual human being in an increasingly com-plicated environment or, if one prefers, questions as to the quality of life. The problem is a practical one and, therefore, for the builder of theoretical models, a “hard nut to crack”.

Now, first of all, does the problem fall within the scope of Regional Sci-ence? I think it does. A forest economist remarked some time ago that, “for-estry is people, not trees”. How much more accurate it would be to say that Regional Science is about people and not just about locations. And this ought to be so, not only for reason of application. Regional Science defines itself as a social science, thus its assumptions about people are also of scientific relevance.

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Le scienze regionali – secondo la concezione di Hägerstrand – si oc-cupano delle persone, non solo della localizzazione delle imprese, e se ne oc-cupano in quanto comunità locali (forestry) e non come singoli individui (trees). In questa affermazione c’è la premessa del ragionamento – sviluppato più avanti nella stessa prolusione – che porta il geografo svedese a definire il modo in cui una comunità locale circoscrive se stessa, cioè attraverso i com-portamenti delle persone che si spostano dalla località dove abitano alla loca-lità dove lavorano, facendo ritorno alla propria abitazione alla fine della gior-nata lavorativa. Tali comportamenti delimitano unità territoriali concettualiz-zate come sistemi urbani giornalieri. Dentro i confini di questi sistemi locali – sebbene essi siano determinati da relazioni economiche – si sviluppano an-che la maggior parte delle relazioni sociali quotidiane.

Naturalmente, il sistema urbano giornaliero è un sistema aperto, poiché scambia con gli altri sistemi locali, prossimi o remoti, persone, conoscenze e merci. Inoltre, i suoi confini sono mobili, oltre che permeabili, poiché cambiano nel corso del tempo, nella misura in cui cambiano il modo di or-ganizzare la produzione delle imprese e gli orientamenti verso il lavoro del-la popolazione, e la mobilità territoriale che può derivare da tali cambia-menti.

Il luogo, concettualizzato attraverso il sistema urbano giornaliero, rap-presenta, dunque, una parte determinata e circoscritta di territorio dove un gruppo umano vive e dove si trovano le attività economiche con cui si gua-dagna da vivere; si stabiliscono la maggior parte delle relazioni sociali quo-tidiane e si ricerca il soddisfacimento del bisogno di integrazione sociale.

Da quanto si è detto, è evidente il diverso progetto scientifico di Hä-gerstrand e di Isard: laddove l’economista americano sosteneva la causa di un riorientamento spaziale dell’economia centrato sull’impresa e le sue scelte localizzative (Isard, 1956), il geografo svedese postula il rovescia-mento di quell’impostazione, mettendo al centro del ragionamento la co-munità locale rispetto alla quale l’impresa rappresenta una categoria di ana-lisi derivata.

È sorprendente la somiglianza fra la concezione che Hägerstrand ha del-le scienze regionali e quella di Alfred Marshall con riguardo all’economia, che egli considera più importante come parte dello studio dell’uomo in so-cietà che come studio della ricchezza (Marshall, 1920).

La somiglianza è ancora più stringente se si considera che entrambi col-locano al centro del loro ragionamento il lavoro e il luogo che per il suo tramite si viene a determinare, e dove – per Marshall – si realizza princi-palmente il cambiamento sociale, e quindi economico, attraverso la forma-zione e l’accrescimento della capacità umane.

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Nella filosofia sociale di Marshall il lavoro occupa una posizione cen-trale (Becattini, 1962). Il lavoro è “lo scopo essenziale della vita”; anzi – afferma Marshall – il lavoro “è la vita stessa”. In particolare, “il lavoro è una necessità per la formazione del carattere e, perciò, per il progresso”, poiché è il lavoro che esercita e educa le capacità umane, e che permette il loro sviluppo (Sforzi, 2008).

Le capacità umane sono costituite da tutto quell’insieme di attitudini ne-cessarie allo svolgimento di un’attività produttiva: dalla competenza pro-fessionale (capacità tecniche) all’abilità negli affari (capacità impren-ditoriali). Esse contribuiscono all’efficienza produttiva delle persone.

Le capacità umane “sono un mezzo di produzione altrettanto impor-tante quanto ogni altra specie di capitale” (Marshall, 1920, p. 347). Il loro sviluppo è determinante per lo sviluppo economico. Questa affermazione consegue dal ruolo che Marshall assegna alle conoscenze nell’ambito dei fattori della produzione, e dal rapporto che egli stabilisce tra conoscenze e organizzazione, quando dichiara che l’organizzazione aiuta le conoscenze (Marshall, 1920, p. 238). Un aiuto che varia in relazione alle diverse forme che l’organizzazione della produzione assume nei diversi luoghi.

Attraverso lo sviluppo delle capacità umane, l’individuo cambia il luo-go in cui vive e, insieme, cambia se stesso (Raffaelli, 2001). Nel contem-po, il luogo reca vantaggi all’individuo. Tra questi vantaggi Marshall comprende, in particolare, lo sviluppo delle capacità specializzate: “sono grandi i vantag-gi che le persone addette allo stesso mestiere specializzato traggono dalla vi-cinanza reciproca” (Marshall, 1920, p. 395). Alcuni di questi vantaggi, com’è noto, riguardano la circolazione delle conoscenze per cui “i segreti dell’industria non sono più tali, ma è come se fossero presenti nell’aria” (Marshall, 1920, p. 395), diventando un bene pubblico specifico del luogo18. 18 Non tutte le forme di organizzazione della produzione agevolano questa condivisone di co-noscenze produttive, così come non tutte favoriscono lo sviluppo delle capacità umane. La re-lazione tra capacità umane e organizzazione della produzione non è ne-cessariamente virtuosa, nel senso che l’evoluzione dell’apparato produttivo di un luogo non implica automaticamente lo sviluppo delle capacità umane. Se è vero che l’uomo è capace di apprendere e di innovare, tuttavia non sempre sono date le condizioni favorevoli per mettere in pratica ciò che apprende se le forze locali scoraggiano l’innovazione creativa e la capacità di iniziativa o non le valoriz-zano. Quando l’organizzazione industriale è tale che richiede l’utilizzo continuativo delle ener-gie mentali in operazioni di routine asservite alle esigenze della produzione, per il lavoratore-dipendente o per il lavoratore-imprenditore non vi sono grandi opportunità di sviluppare nuove capacità specializzate. Si tratta di uno scenario che descrive una situazione in cui l’evoluzione industriale si affida più al progresso tecnico che alle capacità umane. Con il passare del tempo, il lavoro ripetitivo causa la perdita della plasticità mentale. Così, quando il cambiamento indu-striale richiederebbe lo sviluppo di nuove capacità specializzate, perché il progresso tecnico da solo non è sufficiente a favorire l’innovazione, per il lavoratore non è più possibile riacquistare la plasticità mentale necessaria per svilupparle.

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Ciò che abbiamo brevemente ricapitolato: la relazione tra luogo e cam-biamento economico, e il ruolo delle capacità umane come sua causa fon-damentale, si giustifica ai fini del’argomento oggetto di questo scritto – il rapporto fra unità d’indagine e sviluppo locale – con riguardo a ciò che Giuliano (insieme a Italo Magnani) scriveva nell’Introduzione al volume Sviluppo multiregionale: teorie, metodi, problemi (Bianchi e Magnani, 1985) quando metteva in relazione il distretto industriale marshalliano e il sistema urbano giornaliero, rispettivamente come retroterra teorico e unità territoriale appropriata per l’analisi dello sviluppo multiregionale italiano (p. 24).

Il distretto industriale, se visto come paradigma teorico, invece che co-me modello produttivo di piccola-media impresa, porta in primo piano le capacità umane come causa fondamentale del cambiamento economico.

Le capacità umane rappresentano la natura profonda del messaggio teo-rico del distretto industriale che lo liberano dalla contingenza storico-geografica, cioè dal fatto che in un determinato tempo (es. il XIX piuttosto che il XX secolo) e in un determinato paese (es. l’Inghilterra piuttosto che l’Italia) esistano forme di sviluppo locale che possiamo chiamare distretti industriali.

Questa distinzione fra paradigma teorico è modello produttivo non è netta, nel senso che l’osservazione dei fatti (i distretti industriali come la-boratorio di analisi) si intreccia con la riflessione teorica (il distretto in-dustriale come strumento di analisi) in un unico circuito teoria-osservazione-teoria. E questo è tipico degli studi distrettuali.

La distinzione è utile per sottolineare che esiste una diversità fra lo stu-dio dei fatti economici nella loro territorialità (cioè, come un’industria si organizza nel territorio) e lo studio del cambiamento economico attraverso il luogo come unità d’indagine (cioè, come una comunità locale si specia-lizza in un’industria e in un modo di organizzare la produzione dei beni che quell’industria produce; contribuendo, così, allo sviluppo economico della regione e del paese di cui fa parte, oltre che al suo proprio).

Secondo questa linea di riflessione non si può parlare propriamente di sviluppo locale se non si concorda sul fatto che il “locale” non designa un generico ritaglio territoriale né una scala di analisi, ma una specifica unità territoriale corrispondente a un luogo/comunità locale concettualizzato at-traverso il sistema urbano giornaliero.

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6. L’implementazione dell’unità d’indagine: i sistemi locali del lavoro

La possibilità di trovare una soluzione operativa al problema dell’unità

d’indagine si concretizzò intorno alla metà degli anni Ottanta, quando l’Istat si rese disponibile ad avviare una cooperazione scientifica con l’Irpet per estendere all’intero territorio italiano la definizione dei sistemi locali fino ad allora realizzata solo per la Toscana19.

I risultati della cooperazione scientifica portarono all’individuazione dei sistemi locali del lavoro (SLL) e furono presentati a un seminario, or-ganizzato congiuntamente dall’Istat e dall’Irpet, che si svolse a Roma nel dicembre del 198620. Pochi mesi prima, in occasione della VII Conferenza di Scienze regionali di Urbino (14-17 settembre 1986), si era potuta verifi-care l’efficacia dei SLL a interpretare aspetti rilevanti della multiregionalità dello sviluppo italiano, nell’occasione con riguardo alle aree marginali (Sforzi, 1989). L’anno successivo, attraverso i SLL si realizzò, per la prima volta, la distrettualizzazione del sistema economico italiano (Sforzi, 1987).

La robustezza teorica dell’algoritmo e la riconosciuta significatività del-le ricerche sull’economia italiana che si poterono condurre attraverso i SLL persuasero l’Istat a replicare l’analisi nel 1991 (Istat, 1997) e nel 2001 (Istat, 2005a). La figura 1 mostra la configurazione dei SLL 200121.

In seguito, l’algoritmo ha fatto scuola: in Spagna è stato applicato da un gruppo di ricercatori dell’Università Autonoma di Barcellona per conto del-la Direzione generale per la piccola e media impresa del Ministero dell’Industria (Boix e Galletto, 2005 e 2008).

19 Nell’iniziativa, fu coinvolto anche un gruppo di ricercatori dell’Università inglese di Ne-wcastle upon Tyne (Allan A. Gillard, Stan Openshaw e Colin Wymer) con il quale l’Irpet stava sviluppando un programma di ricerca sull’analisi territoriale dei dati di censimento (es. Openshaw, Sforzi e Wymer, 1985). 20 Cfr. Istat-Irpet, Contributi al Seminario su “Identificazione di sistemi territoriali. Analisi della struttura sociale e produttiva in Italia”, Roma, 3-4 dicembre 1986. Uno dei contributi presentati al Seminario, quello relativo ai sistemi locali del lavoro, fu successi-vamente pub-blicato a cura dello scrivente nella collana dell’Irpet edita da Franco Angeli di Milano (Istat-Irpet, 1989). 21 Come si è detto in precedenza, i confini dei SLL cambiano nel tempo. Questo cam-biamento trova un riscontro empirico nelle modificazioni di assetto e di numerosità che i SLL mostrano dal 1981 al 2001. Nel 1981 i SLL erano 955, nel 1991 erano 784 e nel 2001 sono 686 (Istat-Irpet, 1989; Istat, 1997; Istat, 2005a). Tali modificazioni sono diversificate da regione a regione, e non seguono una regola generale.

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Figura 1 – Sistemi locali del lavoro 2001

I SLL fanno ora parte del sistema informativo dell’Istat. In questi anni l’Istat li ha utilizzati come unità territoriali finalizzate alla produzione di statistiche sulla contabilità nazionale (Istat, 2002, 2003, 2004, 2005b, 2007, 2008a, 2009a, 2009b), sulla struttura e dimensione delle imprese attive e delle relative unità locali (Istat, 2006a, 2008b, 2009c), sulle esportazioni (Istat, 2009d). Si tratta di dati che sono diffusi periodicamente online sul sito dell’Istat e sono messi gratuitamente a disposizione di ricercatori e ope-ratori, pubblici e privati. I SLL sono uno componente della cartografia digi-tale dell’Istat (2009e) e costituiscono uno strato informativo dell’Atlante

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statistico dei comuni (Istat, 2006b) per “rispondere alla crescente domanda di dati a livello territoriale espressa dai soggetti a vario titolo coinvolti in attività di analisi, programmazione e valutazione delle politiche di sviluppo locale”.

I SLL realizzano il disegno metodologico di disporre di uno schema u-nico e coerente di ripartizione dell’Italia in unità territoriali per la ricerca economica. Il loro utilizzo a questo scopo è ormai ampiamente diffuso ne-gli ambienti accademici e istituzionali (es. regioni, camere di commercio, associazioni imprenditoriali, sindacati ecc.) e ha prodotto studi e ap-plicazioni così numerosi che è impossibile compilare una bibliografia e-saustiva22.

L’analisi della struttura produttiva italiana attraverso i SLL ha messo in evidenza la multiregionalità dello sviluppo economico italiano e ha defini-tivamente soppiantato il modello delle Tre Italie – che, del resto, com’è no-to, si basava sulla regione amministrativa come unità di analisi (Fig. 2).

Centrata sull’industria manifatturiera, la figura 2 mostra che le comunità distrettuali non sono un’esclusiva delle regioni del Nordest e Centro Italia, come spesso l’inerzia intellettuale, unita a visioni semplificate e largamente condivise, il più delle volte per ragioni di comodo, lascia credere. Analo-gamente, il Nordest manifatturiero non coincide con quello geografico, e la linea di spartiacque fra il Nord e il Sud si colloca molto più a nord di quan-to normalmente si pensi; e, d’altra parte, di Sud non ce c’è uno solo.

Soprattutto, questa lettura per SLL si ricollega a quelle esplosioni locali di imprenditorialità che Giuliano e Giacomo Becattini avevano posto alla base della loro interpretazione controcorrente dello sviluppo economico ita-liano di cui si è detto in precedenza (v. par. 4).

Una volta sciolto il nodo del luogo/comunità locale come unità terri-toriale dell’indagine economica – rispetto al quale il SLL rappresenta un accettabile correlato empirico – si è avuta la possibilità di impostare il ra-gionamento sullo sviluppo economico italiano nei termini dello sviluppo locale e dare avvio a un nuovo ciclo conoscitivo: teoria-osservazione-teoria che si estende a tutte le comunità locali, ciascuna delle quali è da interpreta-re secondo la specializzazione della sua industria e il modo di organizzare la produzione, i sistemi di valori della popolazione, le politiche attuate dalle istituzioni, le condizioni di contesto che con i loro mutamenti (economici, sociali e politici) hanno generato di volta in volta vincoli e opportunità, prendendo dalla cassetta degli attrezzi che lo sviluppo locale ha prodotto, in

22 A titolo esemplificativo, la digitazione su un motore di ricerca rileva 315.000 occorrenze generiche (www.google.it) e 830 specifiche (http://scholar.google.it).

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forza della sua pervasività interdisciplinare, quelli che di volta in volta ap-paiono più adatti allo scopo. Figura 2 - La multiregionalità dello sviluppo italiano 2001

SLL manifatturieri: distretti industriali SLL manifatturieri: grandi imprese SLL non manifatturieri: città metropolitane SLL non manifatturieri: altri

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7. Alcune considerazioni conclusive

Sullo sviluppo locale dal 1991 a oggi si è scritto molto, sia in Italia che nel mondo. Tuttavia, l’esigenza di determinare il significato di “locale” è stata per lo più trascurata, e quando è stata considerata, il “locale” è stato associato a una varietà eterogenea di unità territoriali che lo hanno reso inu-tilizzabile ai fini della costruzione teorica dello sviluppo locale (es. Gallic-chio e Camejo, 2005).

In Italia, la riflessione teorica sul problema dell’unità d’indagine – che è maturata sul terreno condiviso della politica e della ricerca economica, co-me si è cercato di dimostrare – e la sua successiva implementazione attra-verso i SLL, da un lato hanno dato concretezza al dibattito, dall’altro hanno impedito che lo sviluppo locale fosse associato al decentramento ammini-strativo e alla partecipazione popolare; oppure che fosse considerato una reazione alla globalizzazione, finendo per confonderlo con il localismo po-litico; e, ancora, che fosse identificato con il municipalismo, cioè con le po-litiche di assetto territoriale e di investimento in capitale fisso sociale attua-te dai comuni. Non ha impedito, invece, piuttosto ha agevolato, che lo svi-luppo locale fosse associato ai sistemi locali di piccola-media impresa, quindi ai distretti industriali.

È difficile contestare il fatto che la possibilità di un’organizzazione in-dustriale alternativa alla grande impresa – scoperta attraverso l’osservazione della realtà economica toscana, quando ancora non si era consumata la crisi del fordismo (Irpet, 1969) – abbia recuperato all’attenzione della comunità scientifica categorie di analisi come le eco-nomie esterne marshalliane e, attraverso la concettualizzazione del di-stretto industriale, abbia rivalutato il ruolo della piccola impresa per lo svi-luppo economico (Sforzi, 2000). Tuttavia, l’interesse per i luoghi della pic-cola impresa che ne è derivato ha portato un po’ sbrigativamente a identifi-carli con lo sviluppo locale (es. Signorini, 2000), negando la possibilità che altre forme di organizzazione della produzione, oltre a quella distrettuale, e altre attività produttive, oltre a quella manifatturiera, potessero ugualmente essere inquadrate nel nuovo paradigma dello sviluppo locale.

È opinione largamente condivisa, non solo in Italia (es. Llorens, Al-burquerque e del Castillo, 2002), che il distretto industriale sia stato de-terminante nel fornire una base teorica allo sviluppo locale, ma questo non tanto per l’importanza attribuita all’imprenditorialità come fattore di inno-vazione, quanto per aver indicato come principio generale che lo sviluppo si forma nei luoghi attraverso l’accrescimento e la specializzazione delle capacità umane e il modo in cui il sistema di valori della popolazione e le caratteristiche organizzative dell’apparato industriale, mediati dalle istitu-

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zioni, le orientano a fini produttivi e portano la comunità locale a specializ-zarsi in un’industria. La specializzazione in una determinata industria for-ma una cultura industriale “tipica” che pervade l’intera comunità locale e ne segna profondamente i comportamenti. L’industria tipica di un determi-nato luogo in un determinato tempo è caratterizzata dalla configurazione produttiva che adotta, dal modo in cui utilizza le capacità umane, dalla va-rietà dei beni che produce, dai bisogni e desideri che soddisfa, dalla natura dei mercati sui quali opera.

In questa formulazione non è difficile riconoscere quel nesso circolare “economia-istituzioni-valori-economia” di cui si è riferito in precedenza a proposito della filosofia della regionalità (v. par. 4). Questo nesso circolare – che attraverso il paradigma distrettuale viene proposto come chiave di let-tura dello sviluppo locale – non è esclusivo dell’assetto produttivo distret-tuale. Entro questo schema si può collocare anche quello fordista. Fu Anto-nio Gramsci (1975) che per primo richiamò l’attenzione sul fatto che il for-dismo (organizzazione della produzione) senza l’americanismo (organizza-zione della società) non avrebbe potuto realizzarsi e affermarsi come mo-dello d’industrializzazione: “Il nuovo metodo di lavoro e il modo di vivere sono indissolubili: non si possono ottenere successi in un campo senza ot-tenere risultati tangibili nell’altro” (Gramsci, 1975, p. 489)23.

L’organizzazione fordista della produzione non si limitava alla fabbri-ca, ma tendeva a trasferirsi alla comunità locale dove essa era insediata, a tutti i livelli, morale, culturale, politico.

Il nesso circolare “economia-istituzioni-valori-economia” si realizza nel modello distrettuale e fordista in forma speculare. In entrambi, il modo in cui si organizza la produzione diventa anche un modo di agire e di pensare la vita, con la differenza che nel modello fordista è la grande impresa (ver-ticalmente integrata) che investe l’intera comunità locale, la quale deve conformarsi alle esigenze del metodo di produzione, e quindi risulta assog-gettata alle strategie aziendali; nel modello distrettuale avviene il contrario: è la comunità locale che attraverso una molteplicità di iniziative imprendi-toriali – che portano alla formazione di un mercato comunitario (Dei Ottati, 1987) – orienta la produzione, e questa risente delle dinamiche sociali e istituzionali, in positivo come in negativo.

I benefici o le soddisfazioni, morali e materiali, che una comunità lo-cale riceve dalla “sua” industria dipendono dal modo in cui essa è coin-volta nella produzione.

23 In questo ragionamento non va trascurato il ruolo dello Stato, più in generale dell’assetto istituzionale, e del relativo sistema di regolazione, che con riguardo al modello distrettuale è rimasto, finora, poco esplorato (Arrighetti e Seravalli, 1997).

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Queste riflessioni portano alla conclusione che le due principali vie del-lo sviluppo industriale – quella distrettuale e quella fordista – possono esse-re oggetto di studio comparato soltanto attraverso i luoghi dove esse con-cretamente si realizzano, una volta che il luogo/comunità locale è assunto come unità d’analisi appropriata dell’economia24. In questo modo si può gettare luce sulle cause che spiegano la persistenza di un’industria in un certo luogo; ovvero, la riproduzione nel tempo della corrispondenza fra una determinata attività produttiva e la vita ordinaria della popolazione o i mu-tamenti di tale corrispondenza. Che poi è il problema che sta al cuore dell’interpretazione e della programmazione dello sviluppo economico.

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24 Questa linea di ricerca non è solo una possibilità, poiché ha trovato, di recente, un’efficace attuazione nel campo della storia economica sia come studio di caso: le origini della Torino industriale (Balbo, 2007) sia come prospettiva metodologica (Magagnoli, 2006-07).

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Estratto da:S. Casini Benvenuti e G. Gorla, a cura di, Avevo sentito parlare di Regional Science. Un tributo a Giuliano Bianchi, Milano, FrancoAngeli, 2010, pp. 47-70.

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