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LETTERATURA ITALIANA
(Prof.ssa Francesca Tancini)
20 – 02 – 2013
Storia e letteratura sono profondamente collegate.
Il concetto di nazione parte infatti dalla letteratura, ma questa consapevolezza ha iniziato a
divenire concreta alla fine del ‘700.
La lingua letteraria si serve di codici particolari; le tecniche con le quali un autore si
esprime sono importanti da decifrare per comprenderlo meglio.
L’Infinito di Leopardi non è un sonetto ma un componimento breve perché è composto da
15 versi e non 14 e perché usa un endecasillabo sciolto e non uno normale (secondo la
metrica italiana, l'endecasillabo è il verso nel quale l'accento principale si trova sulla
decima sillaba metrica).
Ugo Foscolo (1778-1827) fu un intellettuale vissuto a cavallo tra ‘700 e ‘800, e contribuì
all’avvio del romanzo moderno, anche se in ritardo rispetto a Francia e Inghilterra.
Fino all’Ottocento si leggeva soprattutto poesia, ma da Foscolo e Manzoni la prosa prese il
sopravvento.
21 – 02 – 2013
Caratteri della letteratura italiana
Per convenzione nasce nel ‘200 in coincidenza con 2 fenomeni: storico-politico ed
economico.
Storico-politico: sviluppo dei comuni, soprattutto la nord e nel centro-nord e conseguente
sviluppo economico e sociale. L’esigenza di comunicare era frustrata dalla mancanza di
una lingua adeguata. Esisteva il latino medievale, ristretto però ad un’elite colta, mentre il
volgo usava i dialetti.
Per l’amministrazione pubblica serviva una nuova lingua che non poteva essere il latino.
Sulla base della lingua parlata dal popolo, nasce il volgare toscano, parlato soprattutto a
Firenze, sviluppato per ragioni soprattutto di carattere sociale.
Solo molto più tardi però diventerà la lingua parlata dall’intera nazione.
Assistiamo ad un rinnovamento culturale con la nascita di un ceto intellettuale che aveva
alle spalle una grande tradizione classica. I copisti trascrivevano quei testi della classicità,
impedendone in molti casi la scomparsa, però frapponendo diverse interpolazioni.
Bernardo di Chartres (vissuto nel XII secolo), filosofo e grammatico con un grande amore
per i classici, disse che “siamo nani sulle spalle dei giganti”, dove si definisce l'idea della
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cultura come una continua costruzione degli uomini, in cui i pensatori moderni, pur nani
rispetto ai grandi fondatori del sapere del passato, possono tuttavia sopravanzarli e
progredire proprio in virtù delle acquisizioni precedenti. E comunque disse anche che però
i nani erano animati dalla forza dello Spirito Santo.
Il carattere di questa letteratura era NON popolare perché la lingua scritta utilizzata era
quella della classe colta, mentre la lingua parlata quotidianamente era assai diversa.
Ad ogni modo, il teatro, l’intrattenimento popolare, diffondevano un minimo di letteratura
anche tra il volgo.
La letteratura italiana, già nel Rinascimento assume una coloritura cosmopolita, con i
nostri autori che furono presi come modelli in Europa, così come l’arte italiana.
Una della caratteristiche dello sviluppo della letteratura italiana era la dialettica tra il
policentrismo e la tendenza all’unità culturale.
Storia della critica e della storiografia italiana, di Dionisotti,
(http://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=20&id=617) in polemica con Francesco De
Sanctis e la sua impostazione hegeliana.
Il fatto che l’Italia arrivasse all’unità nazionale molto tardi, e qualcosa non tenuto
debitamente in conto.
Centri politici differenziati portarono a centri di cultura differenziati, espressione di una
certa realtà politica specifica, che si riflette sul linguaggio usato.
Vedi pagg. 59-61 del Ferroni.
Nell’Italia del ‘200 c’erano ben 26 centri di cultura che usavano lingue diverse tra loro,
come la corte di Federico II, dove nacque la poesia siciliana, nata sulla base del volgare
(dialetto) siciliano.
In Umbria, il volgare ad esempio di Jacopone da Todi risente molto della parlata umbra.
Tra dialetto e lingua non esiste una distinzione strutturale e il dialetto toscano divenne
lingua italiana per motivi storici.
Bologna fu un altro importantissimo centro culturale, dopo i comuni toscani con Firenze in
testa. Il Monferrato o la Savoia, furono molto influenzati dal provenzale.
Il fenomeno del policentrismo rimarrà in Italia ma cambiando i centri di cultura di
riferimento.
Spiccano nel ‘300 elementi di novità, con l’esplosione di Firenze e Napoli con gli Angiò.
Avignone era fuori dall’Italia ma ebbe ugualmente parecchia influenza perché molti Italiani
operarono lì, come ad esempio il Petrarca.
Altri centri importanti furono Mantova e Ferrara (presso la cui corte Matteo Maria Boiardo
diede vita al poema cavalleresco con l’Orlando Innamorato).
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Roma fu un centro fondamentale per tutto il Rinascimento e anche nel ‘600, punto di
riferimento per tutta la produzione controriformistica.
Venezia divenne la base della cultura laica per eccellenza (vedasi la questione di Paolo
Sarpi in difesa della Serenissima dai tentativi di ingerenza del Papato) e per la stampa.
Nel ‘700 l’illuminismo sorse a Milano grazie agli Asburgo, ma su questo torneremo dopo.
Cfr. G. Nicoletti, Ultime lettere di Jacopo Ortis di U. Foscolo, in Letteratura italiana,
diretta da A. Asor Rosa, Le opere, III, Einaudi, pp. 27-68.
Vi è la tendenza all’unità linguistica-culturale ravvisabile fin dall’origine della letteratura
italiana: gli autori erano consapevoli di appartenere da un’entità unica; c’era il senso
dell’identità italiana pur non esistendo ancora l’Italia come stato unitario. Da ciò nacque
l’esigenza di entrare in contatto anche con intellettuali delle più disparate parti della
penisola.
Questo si verificò in tempi abbastanza brevi, dato che già nel ‘500 si sviluppò quello che
poteva definirsi il nucleo della politica italiana. Si affermò un dibattito sulla lingua con la
domanda centrale di quale lingua dovesse essere usata dalla letteratura.
Tentativi di usare una letteratura comune pur con κοινὴ ( = koinè, ovvero lingua comune)
macro-regionali (sud, centro, nord), non più dialettali ma non ancora uniformi. Il toscano
viene sempre più preso come modello e, difatti, Dante e Tetrarca vennero presi come
modello letterario per eccellenza.
Esiste poi un dibattito sul volgare da usare nella letteratura; doveva essere usato quello
delle corti o quello del popolo?
Il primo a porsi il problema di quale lingua usare in tutta la nazione fu Dante con il suo
scritto De Vulgari Eloquentia (1303-04) che però è incompleto ed è scritto in latino perché
destinato alla classe colta; vale la pena di ricordare che l’80% del lessico attuale è
presente in Dante.
In una parte di quest’opera osserva come in Italia si parlassero 14 dialetti (in realtà erano
assai di più) e, da intellettuale quale era, già usava il termine Italia come entità geografica
(anche Tetrarca). Ipotizzava però la nascita di una sola lingua che però doveva essere
“illustre, cardinale – cioè cardine e punto di riferimento degli altri dialetti – aulica e curiale”.
Nel ‘400 si tornò a scrivere in latino colto ma ci si rese conto che la lingua letteraria
sarebbe dovuto essere il volgare.
Lo sviluppo della stampa fece sorgere il problema delle norme grafiche (tipo usare il
dittongo uo in buono o usare bono).
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Il Cortegiano (1527) di Baldassarre Castiglione dice che tale volgare deve essere quello
usato nelle corti.
Machiavelli sosteneva invece che la lingua della letteratura dovesse essere il toscano
parlato. Il cardinale Pietro Bembo, figura cardine che nel 1525 scrisse Prose nelle quali si
ragiona della volgar lingua, che è un po’ il manifesto dell’italiano letterario che deve essere
concreto ma nobile, con pochi municipalismi. Per lui i 2 grandi modelli da imitare sono
Tetrarca per la lirica e Boccaccio per la prosa, mentre Dante NON è da imitare, secondo
lui, perché “sperimenta troppo” (e infatti è un “plurilinguista”).
Dante verrà apprezzato solo a partire da Giambattista Vico.
Ludovico Ariosto con l’Orlando Furioso, (che ebbe 3 edizioni: 1516, 1521 e 1532)
nell’edizione del 1532 si rifà al modello di Bembo, lasciando il volgare padano per passare
maggiormente al volgare toscano perché voleva rivolgersi agli intellettuali colti di tutta la
penisola.
Nell’area padovana emerge uno scrittore che si esprime nel dialetto usato dai contadini
della sua zona: Ruzante. Lo fece in polemica con l’uso del volgare delle corti in letteratura,
proponendosi un modello “altro”. La letteratura in dialetto ebbe fortuna nel ‘600 e nel ‘700
rappresentando un’ulteriore prova del policentrismo presente nella nostra letteratura.
25 – 02 – 2013
Guido Cavalcanti � età prima dell’età comunale
Dante, Tetrarca e Boccaccio � crisi dell’età comunale
Da Machiavelli in su � rinascimento letterario
Tutti questi autori hanno influenzato enormemente la cultura europea (cosmopolitismo); ad
esempio Boccaccio fu imitato dall’inglese Geoffrey Chaucer, che influenzò a sua volta
diversi autori inglesi fino a Shakespeare. Dal ‘600 in avanti, l’Italia influenzò meno l’estero
perché dominata dagli stranieri.
Boccaccio era un prosatore, non un poeta.
In molti identificavano lirica e poesia, ma oggi la critica letteraria è più rigida nelle
distinzioni e più precisa (Scienza della Letteratura).
Versi e prosa sono ovviamente diversi.
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POESIA:
Quando si parla di versi, ci si rifà al latino vertere ( = ritornare), ovvero chi usa i versi
ripropone quanto detto attraverso strutture fonetiche analoghe, come la rima ad esempio.
Con Dante le rime acquisiscono un particolare valore semantico, dato che vengono poste
maggiormente in luce.
PROSA:
La prosa è invece una cosa che va avanti (dal latino prorsus = diritto, di seguito) è difatti
una forma di espressione linguistica non sottomessa alle regole della versificazione.
Pare che il sonetto sia nato nella Scuola Siciliana e Jacopo (o Giacomo) da Lentini fu il
primo ad usare questo metro. Questa forma metrica del sonetto dà l’avvio ad una
fortunatissima produzione letteraria, durata fino agli inizi dell’Ottocento. Ha un contenuto
lirico, più intimistico, non idoneo per affrontare discorsi di più ampio respiro.
DOLCE STIL NOVO
È una corrente poetica più che letteraria che si propagò tra ‘200 e ‘300 soprattutto in
Toscana. I due massimi esponenti furono Dante (Vita Nova) e Guido Cavalcanti. Altri
autori furono, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi e Cino da Pistoia, che svolse
l'importante ruolo di mediatore tra lo Stil Novo ed il primo Umanesimo, tanto che nelle sue
poesie si notano i primi tratti dell'antropocentrismo. Guido Guinizzelli è considerato il
precursore del movimento (sebbene non fosse toscano bensì Bolognese) con il manifesto
dello Stilnovo, ovvero il suo canto Al cor gentil rempaira sempre amore,
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dove egli esplicita le caratteristiche della donna intesa dagli stilnovisti che poi sarà il
cardine della poesia stilnovista.
Il tema dominante è l’amore e difatti nello Stilnovo si parlerà solo d’amore.
Domina il nesso tra amore e cuore gentile; si usa anche molto il termine nobile, ma non
nell’accezione di “aristocratico”, bensì in quella di persona sensibile ad elementi soggettivi
e nobile per i propri meriti; questo non deve stupire in una società di tipo comunale e
mercantile. Gli autori stilnovisti dimostrano anche una profonda cultura.
Nel Purgatorio, Dante incontra diversi poeti con i quali si intrattiene in conversazione.
Nel canto XXIV si incontra con Bonagiunta Orbicciani (o Bonagiunta da Lucca) che usò la
poesia per trattare anche altri temi.
Versi 52-54
E io a lui: «I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando».
Io gli risposi: «Io sono uno che, scrive
soltanto quando è ispirato dall'Amore,
e che esterna i sentimenti così come
vengono dettati dal cuore».
Punti importanti:
• Incontro con l’amore come esperienza interiore
• Sforzo del poeata per trovare le parole più adatte per esprimere ciò che prova.
Dolce � modo di scrivere
Stil Novo � perché è una modalità espressiva precedentemente estranea alla tradizione
poetica.
Guinizzelli era espressione di un certo centro culturale importantissimo, ovvero Bologna
che, con la sua università, fu un polo di attrazione e di influenza notevole.
Il Dolce Stil Novo fu una corrente, un movimento che compì una forte ricerca sul piano
espressivo e difatti fu un fenomeno letterario molto maturo.
La concezione dell’amore però era diversa tra i vari esponenti, così come quelle di Dante
e Cavalcanti.
La vulgata ci parla della “donna angelicata”, ma non c’è solo questo tratto.
In ogni caso, anche in Provenza, nel XI secolo, i trovatori esaltavano parimenti la donna.
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Guido Cavalcanti, averroista, materialista, vede nell’amore una forza che fa soffrire
fisicamente e distrugge. Difatti si esprime con termini guerreschi e tralascia la parte erotica
per soffermarsi sul lato distruttivo.
L’endecasillabo è la forma espressiva dei versi in assoluto più diffusa nella letteratura
italiana; si tratta di 11 versi legati tra loro da un sistema di rime; i primi 8 versi sono 2
quartine (= 4 sillabe ognuna), e i versi finali sono 2 terzine.
27 – 02 – 2013
Dante Alighieri / Alighiero, detto semplicemente Dante, battezzato come Durante di
Alighiero degli Alighieri, della Famiglia Alighieri, (1265–1321).
Dante scrisse la Commedia tra il 1304 e il 1320.
Canto X dell’Inferno: figura centrale � Farinata degli Uberti, capo dei Ghibellini. In tal
modo Dante ne approfitta per parlare della situazione politica di Firenze.
http://www.homolaicus.com/letteratura/farinata.htm
Canto XXVII del Paradiso: San Pietro contro Bonifacio VIII.
Molti commentatori di Dante sono definiti “dantomani” perché applicavano a Dante metodi
diversi rispetto a quelli applicati alla generalità degli altri autori, perché tesi a trovare ogni
tipo di significato celato e occulto o allegorico.
Dante, assieme a Leopardi, è l’autore italiano più studiato dalla critica estera (soprattutto
negli Stati Uniti).
Dante inteso come padre della lingua italiana è forse un’immagine retorica, ma pur sempre
vera.
Il filologo tedesco Erich Auerbach (1892.1957) dice che “è un miracolo”.
http://www.libreriauniversitaria.it/studi-dante-auerbach-erich-feltrinelli/libro/9788807818400
Come poeta, Dante è stato apprezzato solo in tempi recenti (‘700) e il Bembo non lo
vedeva come esempio adatto da seguire perché troppo originale e trasgressivo.
Fu anche definito “rozzo”.
Tra il Settecento e l’Ottocento ci una svolta nel concepire la letteratura e Dante viene
rivalutato. Giambattista Vico con la sua Scienza Nuova, fu il primo a spiegare la grandezza
di Dante. I romantici poi lo consacrano per la grande libertà espressiva.
La tecnica di Dante è fortemente realistica.
Il rilievo politico nella Commedia è dominante e Dante stesso ha fornito una guida alla sua
opera in una epistola in latino scritta a Cangrande della Scala (tra il 1316 e il 1320 circa)
dove conclude il Paradiso con la cantica proprio dedicata a lui.
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In questa lettera Dante parla della Commedia e parla della presenza della dimensione
allegorica e di quella letterale. Aggiunge poi di aver scelto un modo di esprimersi remissus
et humilis.
La Commedia di Dante ha un inizio triste e un finale lieto, in linea con le commedie
dell’epoca.
Il fine che Dante persegue con la Commedia è quello di sottrarre gli uomini dallo stato di
infelicità nel quale si trovano.
Lui dice infatti che lo scopo è "removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere
ad statum felicitatis (= allontanare coloro che vivono in questo mondo dallo stato di miseria
e condurli ad uno stato di felicità)".
L’oggetto della Commedia è la rappresentazione del mondo nell’aldilà; lo scopo è quello
però di aiutare gli uomini in terra ad essere più felici.
Nella sua opera De Monarchia Dante si mostra favorevole alla divisione dei poteri
temporale e spirituale; la Chiesa deve occuparsi dello spirito dell’uomo, non di cose
terrene. Fa riferimento “in hac vita” ovvero nella realtà attuale.
La Commedia di Dante, secondo Hegel, è un paradosso perché pur esendo in un mondo
di morti, la vita (= la realtà) è molto più presente che in altri autori.
Vi è un cortocircuito tra dimensione dell’aldilà e dimensione terrena. Dante usa gli
espedienti più vari per ottenere il realismo e la concretezza ai quali aspira, e per farlo usa
parecchie similitudini con il mondo reale.
Il poeta si fa latore di verità con l’imprimatur della loro provenienza dall’aldilà. Ha quindi
una funzione consolatoria ma anche didascalica.
Dante usa terzine di endecasillabi e i continui dialoghi danno alla Commedia
un’impostazione fortemente teatrale.
È uno scrittore popolare molto letto anche dal ceto mercantile.
27 – 02 – 2013
Dante usa parecchie figure retoriche: similitudini, perifrasi, iperboli, metafore, endiadi,
allitterazioni…
È un guelfo bianco in contrapposizione con i guelfi neri.
Ecco una brave spiegazione delle due fazioni: i guelfi bianchi e i guelfi neri furono le due
fazioni in cui si divisero intorno alla fine del XIII secolo i guelfi di Firenze, ormai il partito
egemonico in città dopo la cacciata dei ghibellini.
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Le due fazioni lottavano per l'egemonia politica - e quindi economica - in città. A livello
della situazione extracittadina, seppur entrambe sostenitrici del papa, erano opposte per
carattere politico, ideologico ed economico. I guelfi bianchi, un gruppo di famiglie
magnatizie aperte alle forze popolari, perseguivano l'indipendenza politica e rifiutavano
ogni ingerenza papale. Mentre i guelfi neri, che rappresentavano soprattutto gli interessi
delle famiglie più ricche di Firenze, erano strettamente legati al papa per interessi
economici e ne ammettevano l'ingerenza negli affari interni di Firenze.
Dante si rifà alla poesia latina e non per niente sceglie Virgilio come guida.
Nel parlato, l’allor surse che Dante usò nel v.52 del canto X dell’Inferno, non era diffuso.
Si pensò quindi che Dante riprese il modo di dire biblico et ecce tipo:
…ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa… (Gen.28:12)
…Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione… (Ez. 1: 4).
Da poeta cristiano vuole usare un linguaggio che potesse essere compreso dalla più
grande varietà di persone.
Dante chiama “magnanimo” (=nobile) Farinata, anche se è stato nemico della sua fazione,
e addirittura dannato, perché lo rispetta. La Commedia ha una divisione delle pene di tipo
aristotelico tomista e Dante è sia autor che agens della Commedia. Si tratta cioè di un
personaggio che si muove come gli altri personaggi ed era inserito nel suo tempo in modo
fattivo.
Dante e Farinata sono uniti dal grande amore per Firenze e per il fatto di essere entrambi
esuli.
I versi sono endecasillabi e il metro è costituito da terzine di endecasillabi, collegati tra loro
dalla cosiddetta “rima incatenata” : A-B-A, B-C-B, C-D-C, come si evince a partire dal v.21
del canto X dell’Inferno.
Questa forma metrica non ha precedenti anteriori e quindi è stata inventata da Dante.
Il metro basato sulle terzine, evoca il numero 3, che è un numero simbolico che si rifà al
sillogismo medievale.
04 – 03 – 2013
Canto XXVII del Paradiso � invettiva di San Pietro (vv.16-36) contro il papato in generale
e Bonifacio VIII in particolare.
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Dante si allontana progressivamente dalla Terra per avvicinarsi a Dio. San Pietro è l’ultimo
legame concreto con la realtà storica (in tutta la Commedia è particolarmente forte il
legame con la realtà storica).
Alla fine del suo scazzo, San Pietro dà a Dante la missione di tornare sulla Terra e riferire
quanto visto, sentito e appreso.
Dante si rivolge ai propri lettori direttamente, modalità molto diffusa nel Medioevo.
Nonostante si tratti di una cantica molto spirituale, c’è sempre un legame stretto con la
Terra e le sue problematiche.
Nel VI canto del Paradiso, Dante incontra Giustiniano che parla dell’importanza
dell’Impero Romano e giudica negativamente la divisione tra Guelfi e Ghibellini.
Nei canti XI e XII, San Tommaso e San Bonaventura esaltano gli ordini domenicano e
francescano pur condannandone la decandeza.
Dal canto XV al canto XVIII avviene il dialogo tra Dante e il suo trisavolo Cacciaguida
(fatto interessante, dato che in Paradiso gli spiriti tendono a monologare).
In tutta la 3° cantica (ovvero il Paradiso), il linguaggio deve tener conto della situazione
eterea, dove ogni cosa è conclusa. È decisamente più difficile descrivere l’ineffabile ma
Dante ci riesce e per questo viene definito “il poeta dell’ineffabile”. Come ci riesce però?
Vede il Paradiso come una cosa, dove i personaggi sono posti in una dimensione corale
(come in teatro) e riprende il linguaggio dei grandi poeti mistici da San Bonaventura a
Sant’Agostino, dove si parla di luci, suoni, musica, etc.
Si ispira anche alla Bibbia con la sua tradizione letteraria e le sue metafore.
Strumento usato molto è anche la similitudine, intesa come similitudine esplicativa, che
fa riferimento alla vita personale e comune, al mondo concreto, al mondo animale. È vero
che fa anche delle similitudini legate al mondo mitologico, ma non rifugge affatto la realtà e
la concretezza.
Ricorre ad una triplice similitudine richiamante la psicologia dell’uomo, con qualcosa che
tutti hanno sperimentato, come quando ci si sveglia e non si ricorda bene ciò che si è
sognato, pur rimanendo la sensazione.
(Cfr. http://www.phoenixfound.it/download/NEW/Eckert_Div_Com.PDF -le prime pagine
sono stranamente vuote, difatti inizia a pagina 4).
Un altro espediente che usa molto, cosa importantissima da ricordare, è la separazione
degli stili, sulla quale ha scritto molto Auerbach.
Nel Paradiso, infatti, il linguaggio diviene più ricercato. Dante era uno sperimentatore e per
questo stava sulle balle a Bembo & C., pertanto in determinati casi rompe gli schemi.
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Uno dei passi più significativi dove questo avviene è proprio l’invettiva di San Pietro, il
quale usa termini molto “bassi” (fogna, sangue, puzzo), cosa che non ci si sarebbe
aspettati in Paradiso.
Il canto XXVII inizia con una descrizione ambientale dove Dante descrive la perfezione
del posto, dove nulla si desidera.
Gli si avvicinano 4 figure: San Pietro, San Giacomo, San Giovanni e Adamo. I primi 3 lo
interrogano sulle 3 virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), soprattutto San Pietro, e Dante
passa l’esame alla grande.
San Pietro poi, da luce bianca diventa luce rossa per simulare lo sdegno; il coro dei beati
si zittisce di modo che Pietro possa parlare come unica voce.
6 – 03 – 2013
Francesco Petrarca (1304 – 1374)
Fu un modello linguistico e non solo per l’Italia.
Autore importante non solo per la poesia, ma anche per essere un intellettuale in un
periodo di transizione.
Il Canzoniere, o meno comunemente conosciuto col titolo originale in latino Francisci
Petrarchae laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di componimenti
in volgare di Francesco Petrarca, poeta coronato d'alloro"), è la storia, attraverso la
poesia, della vita interiore di Petrarca. In breve è la storia della vicenda amorosa del
Petrarca con Laura, che però era sposata e pertanto non lo cacava.
Lei morì nel 1348 durante la peste nera (o Grande morte o Morte nera) che è l'epidemia di
peste che imperversò in tutta Europa tra il 1347 e il 1353 uccidendo almeno un terzo della
popolazione del continente (tra cui, appunto, Laura).
Petrarca però continuò ad amarla anche dopo la sua morte. Nella sua opera tratta il tema
del conflitto amoroso che però nasconde temi di altro tipo.
Quando Petrarca scrive, siamo in piena crisi dell’età comunale. Il papato, tra l’altro, si era
trasferito ad Avignone e Petrarca (di origine fiorentina ma nativo di Arezzo) si trasferì
giovanissimo anche lui ad Avignone, dove suo padre svolgeva la sua professione.
Se Dante era un intellettuale fortemente legato al suo comune di origine (fu peraltro amico
del papà di Petrarca, del quale condivise la condanna all’esilio, comminata con la stessa
sentenza per entrambi), Petrarca invece era un intellettuale cosmopolita dato che viaggio
spesso per missioni affidategli dalle varie famiglie presso le quali prestò servizio.
Petrarca è considerato il primo grande esponente dell’umanesimo; è definito un “pre-
umanista”.
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Il Canzoniere e I Trionfi sono gli unici testi petrarcheschi scritti in volgare.
Scrisse inotre:
• De Africa (in 9 libri), scritto fra il 1339 e il 1342 e in seguito corretto e ritoccato è un
poema eroico incompleto che tratta della seconda guerra punica e in particolare
delle gesta di Scipione;
• De Viribus Illustribus (1337);
• De Vita Solitaria (1346-1356);
• De Otio Religioso (1346-1356)
• Secretum o De secreto conflictu curarum mearum - (composta tra il 1347 ed il
1353, ed in seguito riveduta) è un'opera in prosa latina, articolata come un dialogo
immaginario in tre libri tra il poeta stesso e Sant'Agostino, alla presenza di una
donna muta che simboleggia la Verità. Si tratta di una sorte di esame di coscienza
personale nel quale si affrontano temi intimi del poeta e per questo non sembra
essere stato concepito per la divulgazione (da cui, forse, il titolo Secretum). Si tratta
del testo in latino più famoso scritto dal Petrarca.
Il latino usato dal Petrarca è diverso da quello usato da Dante: prende spunto da quello
dei testi della classicità e non da quello dei testi biblici ed ecclesiastici, inevitabilmente
imbastarditi (ai quali invece si ispirava invece Dante).
La cultura latina dei testi classici era molto approssimativa per la pochissima conoscenza
oggettiva degli stessi (se ne conoscevano ancora pochi) fino a metà del ‘300, pertanto
Dante li mancò di poco, ma Petrarca invece poté trarne vantaggio.
La novità fu che Petrarca e i contemporanei ricercarono e studiarono gli scritti degli antichi,
difatti Francesco fu uno dei primi filologi che studiò scientificamente questi testi.
In una biblioteca di Liegi, nel 1333 Petrarca trovò anche due orazioni di Cicerone (Pro
Archia e e quella apocrifa Ad Equites Romanos, che egli ritenne pure opera dello stesso
Cicerone).
Questa scoperta dei testi degli antichi e all’origine della modernità perché coloro che li
trovavano prendevano coscienza della realtà e assumevano una corretta prospettiva
storica. Anche in pittura, tra ‘300 e ‘400 si afferma la prospettiva (si pensi ai lavori di Paolo
Uccello, detto “il folle della prospettiva”).
Allo stesso modo si afferma il senso della storia. Si scoprì un mondo appartenente al
passato ma che tuttavia rimane un mondo importante. Il grande apporto di quel mondo
antico sono le humanae litterae, donde il nome Umanesimo.
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Il concetto di IMITAZIONE è fondamentale in letteratura ma non deve essere pedissequo,
bensì con libertà (come l’ape, che per fare un mille gustoso, passa da un fiore all’altro).
Petrarca riprende il latino del passato e lo usa per migliorare il modo di scrivere e l’uso del
volgare. Cosa comporta questa riscoperta del passato secondo questa nuova prospettiva?
Comporta la consapevolezza della distanza con il passato, ma anche l’inserimento di
elementi usati dagli antichi (elementi successivamente rifiutati da altri autori, come ad
esempio il Ruzante).
Questa riscoperta del mondo romano significò anche riscoprire l’importanza dell’Italia in
questo mondo e dare la consapevolezza dell’esistenza di una cultura italiana. Per far
diventare questa consapevolezza di unità culturale una consapevolezza della necessità di
un’unità anche geografica, si dovettero aspettare altri 5 secoli).
Canzoniere
Ha avuto una lunghissima elaborazione (dagli
anni ’30 agli anni ’70).
La raccolta comprende 366 componimenti, tra cui:
317 sonetti,
29 canzoni,
9 sestine,
7 ballate
4 madrigali.
Non raccoglie tutti i componimenti poetici del
Petrarca, ma solo quelli che il poeta scelse con
grande cura; altre rime (extravagantes) andarono
perdute o furono incluse in altri manoscritti. La
maggior parte delle rime del Canzoniere è
d'argomento amoroso, una trentina sono di
argomento morale, religioso o politico.
Domina la forma metrica del sonetto (forma poi imitata in tutta Europa).
Laura è il tema dominante. Termina con una canzone dedicata alla Madonna che indica
una riappacificazione nell’animo del poeta.
Non si tratta peraltro di una serie di componimenti slegati, ma una sorta di percorso
(itinerarium mentis in deo) che molti hanno visto come una specie di romanzo.
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Uno studioso statunitense, Ernest Hatch Wilkins, nella suo saggio Vita del Petrarca e la
formazione del Canzoniere identificò 9 forme del Canzoniere: Petrarca scriveva e
dislocava gli scritti in collocazioni diverse per dare un senso al percorso.
La raccolta è stata divisa dagli editori in due parti:
rime "in vita" (I-CCLXIII) e rime "in morte" (CCLXIV-CCCLXVI) di Madonna Laura.
In realtà il Petrarca compose il Canzoniere dopo il 1348, includendovi rime già composte
sia per Laura, sia per altre donne (ed attribuendo queste ultime a Laura), stendendo altre
rime che finse di aver scritto quando l'amata era ancora in vita ed aggiungendone altre
ancora, in modo da rappresentare Laura come l'unico puro amore che conduce a Dio,
secondo una concezione teleologica e mistica dell'amore, quale si ritrova già nel Dante
della Vita nova e della Commedia. Sarebbe dunque improprio far coincidere la
collocazione dei vari testi nell'opera con l'effettivo ordine cronologico della composizione.
Ciononostante, la bipartizione tra rime "in morte" e "in vita" sembrerebbe riconducibile alla
volontà dell'autore.
Petrarca era un perfezionista pignolino bastardo, che continuava a rivedere e correggere
quanto scritto. Questo continuo ritornare caratterizza il Canzoniere. La gloria è ambita e
respinta allo stesso tempo dal poeta; ha una sensibilità simile a quella del suo amico
Boccaccio, che invece ha una visione laica. La sua Laura è più terrena della Beatrice
dantesca. Questa schizofrenia dicotomica tra alto e basso, non venne mai completamente
risolta dal buon Francesco che, ricordiamolo, prese i voti una volta esaurito il lascito
paterno ma ciononostante ebbe 2 figli da due diverse relazioni.
Come modello ha la tradizione religiosa (Sant’Agostino), ma ha anche elementi di novità
come il conflitto interiore, andando oltre i temi rigidi degli Stilnovisti.
Questa indagine è all’insegna di un conflitto costante, esemplificato dal continuo ricorrere
a termini contrastanti (caldo-freddo, aperto-chiuso etc.).
La lingua che Petrarca usa, che “pacifica” questo contrasto, armonizzando la forma ma
non i contenuti. La perfezione della forma è il suo ideale, inseguito poi dal rinascimento, in
ogni ambito (lettere, pittura, architettura, etc.).
07 – 03 – 2013
Nel medioevo la filosofia di base è quella aristotelico-tomista. Era quella di Dante ma non
più quella di Petrarca.
Ai tempi di Francesco c’era una crisi politica che il poeta patisce e che risulta chiaramente
nella sua poetica.
15
Non c’è più il sincretismo tra chi legge i testi degli antichi e gli antichi stessi: c’è ora la
consapevolezza che si tratta di un periodo storico passato e concluso. Certo, merita di
essere studiato, apprezzato e anche imitato, ma lo scrittore moderno può scegliere gli
elementi che più gli si confanno, senza esserne succube e condizionato.
Procedimenti di carattere metrico usati del Petrarca: inarcatura o enjambement, che
consiste nell'alterazione tra l'unità del verso e l'unità sintattica ed è quindi una frattura a
fine verso della sintassi o di una frase o anche di una parola causata dall'andare a capo
come da questo esempio:
«sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.»
(Dante - Inferno, canto XXVI)
L'enjambement è un elemento che contribuisce a determinare il ritmo di una poesia, il
termine deriva da una parola francese che significa “accavallamento”, “spezzatura”.
Si verifica quando due parole della stessa frase che dovrebbero stare saldamente unite,
vengono spezzate tra la fine di un verso e l'inizio di quello successivo. L'enjambement
divide solitamente gruppi sintattici come sostantivo e attributo, soggetto e predicato,
predicato e complemento oggetto, sostantivo e complemento di specificazione, articolo e
nome etc.
Si prendano come esempio anche i seguenti versi del Manzoni:
«Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sonito
mista la sua non ha:[...]»
(Alessandro Manzoni, Il cinque maggio, vv. 13-18)
Non esistono pertanto unità sintattica e metrica assieme. Questo accorgimento conferisce
fluidità e scorrevolezza al testo.
Altro esempio:
«Nel mezzo del cammin di nostra vita» è un verso indipendente, mentre «Voi ch’ascoltate
in rime sparse il suono» è un verso con unità metrica, ma non sintattica, per avere la quale
bisogna andare avanti a leggere il testo (cfr. vv. 1, 7 e 9 del testo antologizzato).
16
Il fatto di posizionare una parola prima dell’inarcatura, le fa acquistare una particolare
valenza dopo, in termini di significato e di importanza all’interno della struttura.
11 – 03 – 2013
Parafrasi del testo di Petrarca.
“ERANO I CAPEI D’ORO A L’AURA SPARSI”
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi ch'or ne son sì scarsi;
e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi?
Non era l'andar suo cosa mortale
ma d'angelica forma, e le parole
sonavan altro che pur voce umana;
uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi, e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.
I suoi capelli biondi erano mossi al vento
il quale li avvolgeva in mille dolci riccioli,
e brillava tantissimo la dolce luce
dei suoi occhi belli, che ora è diminuita (a
causa del tempo che passa);
e mi sembrava, non so se fosse realtà o
illusione, che il suo viso si atteggiasse a
pietà: io che ero pronto all'amore,
c'è da meravigliarsi se m'innamorai subito?
Il suo portamento non era cosa mortale,
ma aspetto d'angelo, e le parole
suonavano diverse dalla voce umana;
uno spirito celeste, un vivo sole
fu quello che vidi, e anche se ora non fosse
tale, una ferita non si rimargina tendendo di
meno l'arco.
Analisi e commento
Il sonetto è formato da 2 quartine e da 2 terzine.
La rima delle quartine è incrociata (ABBA), mentre le terzine presentano rime in forma
sciolta (CDE e DCE).
I capelli biondi sciolti al vento ora è un’immagine strausata (un’immagine topica), anche
nelle fiabe. Ai tempi di Petrarca però, era quasi una novità.
L’autore usa figure retoriche come una similitudine nel verso 1 per descrivere i capelli di
Laura, una sinestesia nel verso 2 (dolci nodi), un’iperbole nel verso 2 (che mille dolci
novi gli avolgea), un’anafora che Petrarca utilizza nel verso 3 e continua nel verso 5 per
dare enfasi e maggiore vigore al suo sentimento oltre che al sonetto. Le figure retoriche
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utilizzate dal poeta sono fondamentali e conferiscono al sonetto sfumature particolari e
indispensabili.
La metafora che il poeta compone nell’ultimo verso è molto efficace e letteralmente il suo
significato è che una ferita provocata da una freccia non guarisce nemmeno se si allenta
la corda dell’arco che l’ha scagliata. Con questo il poeta vuole dire che il suo amore per
Laura non cambierà mai anche se negli anni l’aspetto dell’amata cambierà e non sarà più
dotata della grazia e della bellezza originari. Il poeta vuole anche ribadire che il suo amore
per Laura non avrà mai fine anche se quest’ultima non corrisponderà il suo sentimento.
Il discorso che il poeta vuole esprimere all’interno del sonetto si estende nei versi in forme
equilibrate e simmetriche. Il cambiamento delle forme verbali (passato e presente) e
l’alternanza di queste rappresenta due diversi momenti della vita del poeta. Usando tempi
verbali al passato Petrarca descrive come era il suo amore per Laura, ma anche come si
presentava e come appariva la stessa in un periodo lontano al momento in cui l’autore
compone il sonetto.
Utilizza invece il presente quando descrive il cambiamento dell’amata, sia nell’aspetto
fisico che nell’atteggiamento nei suoi confronti.
Nelle quartine il ritmo della poesia è molto lento e spezzato dalla presenza consistente di
punteggiatura. In queste due strofe l’unità metrica coincide con l’unità logica e quindi non
sono presenti enjambement.
Al contrario le due terzine presentano un ritmo più scorrevole e veloce, nelle quali si nota
che unità metrica e unità logica non coincidono per la presenza di alcuni enjambement nei
versi 9-10 (Non era l’andar suo cosa mortale ma d’angelica forma) 10-11 (e le parole
sonavan altro che pur voce umana) e nei versi 12-13 (Uno spirto celeste, un vivo sole fu
quel ch’i vidi). Le due terzine rimangono divise da un punto e un punto e virgola che
marcano lo stacco e il cambiamento di strofa.
(Fonte: http://www.skuola.net/appunti-italiano/petrarca/erano-capei-aura-sparsi.html )
13 – 03 – 2013
Giovanni Boccaccio (1313-1375)
Scrisse il Decamerone o Decameron (dal greco antico, δἐκα, déka, "dieci", ed ἡµέρα,
hēméra giorno", con il significato di "[opera di] dieci giorni"); si tratta di una raccolta di
cento novelle scritta nel XIV secolo, probabilmente tra il 1349 (anno successivo alla peste
nera in Europa) e il 1351 (secondo la tesi di Vittore Branca) o il 1353 (secondo la tesi di
Giuseppe Billanovich).
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È un’opera particolarmente importante perché fonde le novelle dall’interno di una cornice,
ovvero 10 giornate, da cui il titolo. Abbiamo delle micro-narrazioni all’interno di una macro-
narrazione. Boccaccio inizia parlando della peste nera del 1348 e di come i valori morali,
civili e di solidarietà tra gli uomini fossero andati in crisi. Boccaccio passa poi ai racconti
fittizi, dove narra di 7 giovani donne e 3 giovani uomini che si ritrovano nella Chiesa di San
Lorenzo per pregare per la fine della peste e decidono di andare fuori da Firenze nella
tenuta di uno di loro per scampare al contagio.
Si intrattengono in piaceri ameni passando il tempo a cazzeggiare raccontandosi novelle.
Ogni giorno c’è il re o la regina della giornata che affronta un tema specifico.
Si esaltano i moti di spirito e temi vari, ai quali corrispondono diversi registri espressivi.
Prevale l’ironia e il comico, che consentivano una maggiore libertà sul piano espressivo.
Nel 1559 il Decameron verrà inserito nell’Indice dei libri proibiti perché troppo
“pruriginoso”.
Con il Decameron siamo all’introduzione di un genere inserito in una cornice che lo
racchiude, cosa che esisteva già in oriente, si pensi a Le mille e una notte.
Non si sa se abbia preso spunto o si tratti di un caso di poligenesi, ovvero di una nascita
autonoma di qualcosa in diversi ambiti territoriali senza alcuna influenza esterna.
Le novelle del Boccaccio sono scritte per intrattenimento, mentre i racconti brevi, che
scrisse precedentemente, avevano un intento didascalico come d’altra parte era abituale a
quei tempi.
Nel proemio dichiara questo suo intento, rivolgendosi direttamente al pubblico (femminile);
si trattava ovviamente di donne colte, per poter essere fruitici di una tale opera.
Il Decameron ebbe molta fortuna nell’ambito della tradizione letteraria italiana ed europea.
I registri espressivi sono assai diversi e il suo modello di scrittura è servito da ispirazione
per secoli.
Questa persistenza del modello boccaccesco, grazie anche al giudizio esaltante che ne
diede il Bembo, lo porta alla lunga ad incancrenirsi perché anche nell’Ottocento si
continuerà a scrivere nella lingua del Trecento.
Il Foscolo con l’Ortis rappresenta la nascita del romanzo moderno in Italia e con questa
sua opera (Le ultime lettere di Jacopo Ortis), dichiara guerra alla tradizione boccaccesca
ancora in vigore in Italia, ma del tutto superata.
Il Decameron si diffuse tantissimo in forma manoscritta e poi stampata (dal 1470), sia in
Italia che in Europa. Influenzò molto anche la letteratura europea, basti ricordare The
Canterbury Tales (= I racconti di Canterbury) di Geoffrey Chaucer, scritti nel 1387-88.
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Le novelle ispirate a Boccaccio, influenzeranno molto il teatro tramite Matteo Bandello nel
Cinquecento.
Boccaccio è molto simile al Petrarca per quanto riguarda la sua vita perché subisce anche
lui la crisi del Trecento toscano, con il padre legato alla Compagnia de’ Bardi (mercanti,
banchieri), che fallì nel 1343.
Andò anche a Napoli per affari, senza troppa convinzione, dove conobbe la corte angioina
e il suo sviluppo culturale. Ebbe inoltre un forte legame con la civiltà comunale assieme ad
una sensibilità di tipo umanistico.
Grande amico di Petrarca, scelse il volgare per esprimersi, ma non disdegnò di esprimersi
anche in latino.
Inoltre, la traduzione in latino della novella Griselda, fatta da Petrarca, ebbe un
grandissimo successo.
Domanda tipo dell’esame:
Commento critico: cercare di capire cosa un testo significhi all’interno di un’opera e perché
è importante.
Il Decameron può essere visto in modi diversi; si colloca in un periodo di transizione, con
echi pre-umanistici ma ancora influenzato dal medioevo.
Francesco De Sanctis, il primo cirtico letterario moderno italiano, vede il Decameron e
Boccaccio come una sorta di “anti-Dante” perché è gia moderno. La Commedia di Dante è
“divina”, mentre il Decameron è “umano”.
De Sanctis chiama Boccaccio “il Voltaire del Medioevo”.
In Dante, come in Boccaccio, l’opera ha una struttura nella quale è inserita. Questa
struttura è fortissima e coesa in Dante (filosofia aristotelico-tomista), e meno forte in
Boccaccio dove le diverse novelle hanno maggiore indipendenza.
Oggigiorno c’è una nuova prospettiva secondo il saggio di Vittore Branca, Boccaccio
medievale che critica la visione di Boccaccio come proiettato fortemente oltre il Medioevo
(http://www.ibs.it/code/9788817038997/branca-vittore/boccaccio-medievale.html); infatti
lingua e stile sono fortemente medievali, i “mercanti” sono figure centrali, forma e struttura
sono simili alla Commedia di Dante; inoltre, andando contro l’opinione comune, il
Decameron inizia con la denuncia dei vizi del notaio di Prato, che però sul letto di morte
passa per essere santo, mentre nell’ultima novella (Griselda), si mostrano la virtù e la
fedeltà della contadina, pertanto, come nella Commedia c’è un inizio triste e un finale lieto.
Attualmente si ritengono le novelle maggiormente legate tra loro e al contesto, di quanto
non si credesse prima.
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Il Decameron non è solo una serie di racconti che ci fanno vedere la realtà, ma ha una
forte compattezza strutturale.
Commedia, Canzoniere e Decameron sono le 3 grandi opere del Trecento. La prima e
molto più coesa, mentre le altre due lo sono meno perché risentono maggiormente del
periodo storico contingente.
È indubbio che nel Decameron siano presenti molti elementi medievali, ma si nota già una
sensibilità nuova nel modo di comportarsi dei personaggi e come si affrontano determinati
temi. La verità sta nel mezzo: Boccaccio è un autore di un periodo di transizione
influenzato dal passato e dal futuro.
Articolo interessante del Ferroni su Boccaccio, apparso sul Corriere della Sera:
Ma non dite che Boccaccio è boccaccesco: un narratore moderno con
un eros luminoso
Per anni sono stati sottolineati soltanto l' allegra oscenità e il gusto comico dell' intelligenza
CLASSICI Il saggio di Lucia Battaglia Ricci sull' autore del «Decameron». Uno studio che
rende giustizia a un grande della letteratura al di là dei luoghi comuni e della critica più
superficiale Ma non dite che Boccaccio è boccaccesco: un narratore moderno con un eros
luminoso La produzione critica sui grandi classici tende ormai a essere sterminata: viene
in luce nuova documentazione, il panorama si sposta continuamente grazie a nuove
letture, il campo è invaso da studi che possono avvalersi di materiali sempre più ampi e
completi. Nel caso di Boccaccio, come in quello di altri grandi autori, è difficile fare il punto,
raccogliere in sintesi lo stato delle conoscenze e delle interpretazioni e offrirlo al lettore:
pur cosciente del fatto che «il paesaggio è sottoposto a continue mutazioni, tanto nelle
linee generali che nei più minuti particolari», Lucia Battaglia Ricci lo fa egregiamente nel
Boccaccio della Salerno Editrice, che deriva da un ampliamento del capitolo su Boccaccio
della Storia della letteratura italiana delle stesse edizioni, e che si collega a importanti
studi su Boccaccio della stessa autrice, tra cui Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli
pittorici del «Trionfo della Morte», di cui appare ora, sempre presso Salerno, una nuova
edizione. In mezzo a queste «mutazioni» che rendono aleatoria ogni sintesi, questa
monografia indica comunque molti punti importanti, dal cui insieme risulta quanto è ormai
lontana la critica attuale da quell' immagine del Boccaccio che si riconosce nell' aggettivo
«boccaccesco» (tra allegra oscenità e gusto comico dell' intelligenza) e che resta corrente
nell' opinione comune, anche se filtrata da pallidi ricordi di scuola. Di questi punti possiamo
ricordarne qui solo tre che riguardano il Decameron, questa potente matrice della grande
narrativa moderna, di cui spesso i nostri connazionali sembrano dimenticarsi (e che, come
21
tutti i classici «antichi», tende sempre più a essere emarginato dai programmi scolastici e
dal furore dei loro presunti riformatori). Il primo punto è dato dal rilievo che assume l'
impegno editoriale di Boccaccio, come copista e scrittore dei propri stessi libri (cosa
ampiamente sottolineata dagli studi di Vittore Branca): i manoscritti noti documentano il
caso, unico (salvo errore) nella storia della letteratura, di un autore che è nello stesso
tempo editore di se stesso, e come tale attento a scandire il proprio testo secondo una
struttura grafica che ne mette in evidenza significati e prospettive. Il secondo punto è dato
dal rilievo che, entro l' organismo del libro di novelle, assume la meditazione sulla morte(a
partire dalla rappresentazione della peste nera del 1348), facendo del narrare una vera
sfida vitale alla morte. Essenziale in tal senso il rapporto di opposizione tra il narrare nel
«giardino» del Decameron e quello delle figure del Trionfo della Morte nel Camposanto di
Pisa, rapporto già individuato dalla Battaglia stessa nell' altro libro ricordato; ma ora si
propongono nuovi dati sul valore di simbolo di eternità, di continuità di vita, della «spalliera
di agrumi che chiude il prato su cui siedono in cerchio i giovani intenti a novellare» nel
giardino descritto all' inizio della Terza giornata (aranci e cedri che hanno insieme i vecchi
frutti e i nuovi fiori: gli aranci peraltro erano diffusi allora da pochissimo tempo nell' Italia
continentale). Il terzo punto è dato dalla notazione dello stretto legame tra lo
sperimentalismo letterario di Boccaccio e il suo atteggiamento critico, la sua apertura
verso la pluralità del mondo: la curiosità per la più grande varietà di modelli, fonti, temi,
schemi narrativi, appare la più salda matrice dell' affermazione della varietà dei costumi,
del rifiuto di chiudere la realtà in un modello precostituito. Con Boccaccio la ricchezza della
letteratura è insomma strada di libertà (e qui forse avrebbe giovato una maggiore
attenzione alle prospettive d' indagine aperte da Bachtin e dinamicamente fatte valere nel
Boccaccio di Carlo Muscetta): prospettive che forse potrebbero aiutarci anche a capire
quello che comunque, nonostante tanti studi storici e filologici, nonostante tante egregie
interpretazioni, resta il segreto dell' erotismo boccaccesco (su cui in parte la Battaglia
sorvola), accecante e luminoso, animato da un senso di trionfo e di scoperta, lontano anni
luce dalle inflazionate immagini dell' eros a cui oggi siamo abituati. Giulio Ferroni Il libro:
«Boccaccio» di Lucia Battaglia Ricci, Salerno Editrice, pagine 220, lire 28.000
Ferroni Giulio
(Fonte:http://archiviostorico.corriere.it/2000/settembre/04/non_dite_che_Boccaccio_bocca
ccesco_co_0_0009045657.shtml)
22
RIASSUNTO DI TUTTE LE NOVELLE DEL DECAMERON:
http://wooper.forumfree.it/?t=51407734
14 – 03 – 2013
Boccaccio presta particolare attenzione alla realtà, ovvero a rappresentare le classi sociali
o i luoghi frequentati dai personaggi ritratti.
Novella delle papere come introduzione alla quarta giornata.
Riassunto: Filippo Balducci, poco dopo esser rimasto vedovo, decide di isolarsi dal resto
del mondo e quindi si reca in montagna per vivere come un eremita. Porta con sé il suo
unico figlioletto, e lo educa alla preghiera e alla contemplazione, non parlandogli mai delle
donne e avendo cura che non ne incontrasse mai una: per questo motivo, quando si deve
recare in città per fare acquisti lascia sempre il fanciullo da solo nell'eremo . Dopo molti
anni però il figlio, ormai diventato giovane uomo, propone al vecchio padre di
accompagnarlo in città per aiutarlo.
Giunto in città il ragazzo, sempre vissuto al di fuori da ogni consesso civile, si meraviglia
fortemente nel vedere costruzioni e monumenti, e chiede al padre spiegazioni su tutto ciò
che incontrano strada facendo. Ad un certo punto incrociano un gruppo di donne ben
vestite che tornano da un matrimonio. Il giovane non aveva mai visto una donna e quindi
chiede al padre che cosa siano "quelle". Il padre, non volendo che il figlio soffrisse per
amore, gli risponde che sono la cosa più brutta e malsana del mondo e lo invita a non
pensarci. Il giovane però insiste con le sue domande, finché il padre, che teme che la sola
parola "donne" possa scatenare pulsioni sensuali nel figlio, gli dice che sono delle papere.
Al che il figlio ribatte dicendo di volere una di queste papere, e che dopo averla presa
avrebbe sempre avuto cura nel darle qualcosa da beccare.
La novella non ha una fine precisa: questo perché Boccaccio stesso ci tiene a
differenziarla rispetto a quelle raccontate dai suoi dieci protagonisti. Viene infatti utilizzata
dall'autore nell'introduzione alla Quarta giornata come esempio della forza dell'amore,
capace di colpire anche un giovane "selvatico" cresciuto senza nessuna educazione
sentimentale. In questo modo Boccaccio risponde a chi lo accusa di pensare troppo a
compiacere le donne e a coltivare per loro sentimenti amorosi pur avendo raggiunto la
maturità, età in cui le passioni andrebbero dimenticate.
23
IL CINQUECENTO
Il primo trentennio del Cinquecento è definito “Rinascimento Letterario” e con ragione.
Durante questo periodo vennero scritte importanti opere come:
• Il Principe di Niccolò Machiavelli (1513)
• Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (diverse edizioni e revisioni: 1516, 1521, 1532)
• Opere scritta dal Ruzante (1518-38)
• Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua (meglio note come le Prose della
volgar lingua) di Pietro Bembo (1525)
• Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione (1528)
Questa letteratura si sviluppò principalmente nelle corti (Ferrara, Urbino, Mantova, Roma,
Firenze, Milano, Venezia). La nostra cultura ha pertanto una fisionomia policentrica che
accolse il modello di lingua proposto da Pietro Bembo.
Si iniziano a sviluppare i generi letterari, destinati a porre le basi del successivo sviluppo
della letteratura.
La critica recente parla di movimento “umanistico rinascimentale” perché ritiene
imprescindibile il collegamento con la letteratura della seconda metà del Trecento
(Petrarca, Boccaccio).
Era diffusa una visione del mondo antico molto rispettosa, ma nella consapevolezza di
trovarsi pur sempre in un periodo storico diverso.
La religione non è più vista come momento centrale di un sistema integrato che da questa
dipende. Dalla metà del ‘400, l’uso di scrivere nel latino classico lascia il posto al volgare
(per prima Firenze) che però risente del contatto con la classicità.
Il Rinascimento letterario è considerato una branca del Rinascimento inteso in senso più
generale, in continuità con l’Umanesimo.
Rinascimento: questo concetto di età nuova, di rinnovamento, questa istanza verso il
nuovo, attraversa anche il tardo Medioevo.
In età illuministica c’era l’intento di rinnovamento polemico nei confronti del Medioevo. Un
contributo al Concetto di Rinascimento venne dal saggio La società del Rinascimento in
Italia, di Jacob Burckhardt (1860, edito in Italia nel 1876 e poi nel 1953).
Il buon Jacob si soffermò su 3 concetti principali:
1) Visione immentistica, ovvero terrena, a cui si legava l’aspetto della riscoperta della
natura.
2) Considerazione “alta” dell’uomo e delle sue qualità.
24
3) Rapporto con i classici che, con l’ideale estetico di misura e di armonia,
dominavano ancora il Rinascimento.
Questa interpretazione ha resistito per molto tempo e recentemente si è un po’ modificata
in relazione all’idea del mito del grande uomo, visto che la letteratura rinascimentale ha
messo in luce anche i limiti di quest’uomo messo al centro dell’attenzione.
Emblema di questo modo di vedere le cose è l’Orlando Furioso di Ariosto, dove si vede la
follia umana e Il Principe di Machiavelli, dove si dice che l’uomo ha anche un lato bestiale.
Burckhardt, J., La civiltà del Rinascimento in Italia
(Sansoni, Firenze 1876 e 1953 – Die Kultur der Renaissance in Italien, Basilea 1860).
Opera classica della storiografia della Kulturgeschichte, ebbe una seconda edizione nel
1869. Le successive edizioni tedesche furono modificate profondamente da L. Geiger. Nel
1935 W. Kaegi ne stabilì infine l'edizione critica. La prima traduzione italiana, che può
considerarsi a tutti gli effetti una terza edizione, con aggiunte e correzioni comunicate
dall'autore al traduttore D. Valbusa, fu pubblicata nel 1876 presso la casa editrice Sansoni
di Firenze. Una nuova edizione italiana riveduta e corretta, con un'introduzione di E. Garin,
fu stampata nel 1953 sempre presso lo stesso editore e da quel momento in poi il testo è
stato più volte ripubblicato senza modificazioni ulteriori.
NOVITÀ E SINTESI
Come è stato più volte affermato, grazie a quest'opera il Rinascimento italiano si
presentava finalmente come un periodo ben definito nel tempo. Il libro di Burckhardt, che
può essere considerato l'inizio di un secolo di imitazioni e di discussioni vivaci, appare
però soprattutto come la conclusione di un lungo dibattito e come la sintesi di temi agitati
fin dal Trecento. Bisogna infatti ricordare che la storiografia del XVIII secolo, ben lungi
dall'inventare il Rinascimento, non fece che sistemare e fissare un complesso di motivi
lungamente discussi e diffusi. L'opera reca come sottotitolo: "un tentativo". Questo non è
casuale, giacché il volume doveva costituire solo una parte di un progetto più ampio che
era stato concepito dall'autore verso il 1854-1855. Il disegno avrebbe dovuto infatti
comprendere un'analisi sia della cultura sia dell'arte rinascimentale italiana. Le ragioni che
condussero l'autore a stendere in poco tempo, tra il 1868 e il 1869, solo una parte di
questo suo progetto originario sono state indagate recentemente e in parte sono dovute al
tipo di soluzione politica, monarchica e centralizzata che Burckhardt vedeva prospettarsi
ormai per l'unità d'Italia. Era infatti questa una decisione che agli occhi dell'autore
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contrastava con le opinioni federaliste e repubblicane che aveva sostenuto una parte
dell'emigrazione italiana in Svizzera a cui Burckhardt era molto vicino e che in parte lo
aveva iniziato alla conoscenza della storia e della cultura italiane. Uno dei maggiori
rappresentati di questa tendenza politica era L. Picchioni, a cui, non a caso, il libro fu
dedicato. L'opera riflette quindi indirettamente anche vicende storiche molto determinate e
potrebbe essere ricordata come uno dei testi che concorrono al dibattito sul nostro
Risorgimento. Il disegno di fondere in un'unica opera l'arte e la cultura del Rinascimento
italiano non fu lasciato cadere dopo il 1860, ma fu perseguito da Burckhardt a più riprese
fino a pochi anni prima della morte. Di un simile disegno complesso, di cui è in corso la
ricostruzione integrale, restano tuttora parti consistenti, oltreché gli abbozzi preparatori
degli anni 1856-1859. Nella Civiltà del Rinascimento in Italia l'autore portò alle estreme
conseguenze il tema della rinascita così come era stato formulato in origine. Negli
umanisti italiani esso rifletteva infatti la coscienza di una crisi e la volontà di rottura con la
cultura dei secoli precedenti. Burckhardt sembrò così accettare nella sostanza i miti che il
Rinascimento stesso aveva elaborato: nel distacco e nella contrapposizione al Medioevo il
mondo rinascimentale aveva trovato infatti il suo tono, così come nell'imitazione critica
dell'antichità, rinnovata soprattutto in ambito artistico, e nella scoperta da parte dell'uomo
di una serie di leggi oggettive che rendevano possibile all'individuo singolo di emanciparsi
e di considerare l'ambito operativo delle sue capacità. Lontano da ogni vagheggiamento o
esaltazione di un superomismo amorale, elemento questo che appartiene sostanzialmente
al mito rinascimentale della cultura decadentista di fine Ottocento con il quale l'opera di
Burckhardt è stata più volte ingiustamente confusa, l'autore tratteggia in una serie di
quadri eleganti e fedeli l'evoluzione della cultura rinascimentale che ha il suo momento
culminante nei primi anni del XVI secolo, fino alla morte di Raffaello. Gli anni successivi,
trattati soprattutto negli ultimi tre capitoli dell'opera, sono concepiti dall'autore come un
rinnovato periodo di decadenza, dato che le superstizioni di ogni genere, il ciceronismo
letterario, l'erudizione fine a sé stessa e l'emancipazione individualistica dai criteri classici
soprattutto in ambito artistico nelle corti e nella società prendono il posto di quella cultura
umanistica in cui Burckhardt aveva ravvisato il motore principale del risveglio della società
italiana tra il XIV e il XV secolo.
UN MODELLO
La civiltà del Rinascimento in Italia ha rappresentato per generazioni il modello di
un'esposizione e di una ricerca storico-culturale. Questa fama si fonda in parte sulla
capacità letteraria che l'autore mostra nello svolgere l'argomento, nella forza e chiarezza
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con cui sono formulati i problemi cruciali; in parte sul fascino del tema che, come è noto, è
posto in occidente alla base del sorgere della coscienza moderna. L'autore articola in sei
grandi capitoli il contenuto della sua ricerca: la vita politica nelle città e nei principati; il
sorgere dell'individualità nel senso della moderna personalità; il nuovo rapporto con
l'antichità e le molteplici forme della cultura umanistica; la scoperta del mondo e dell'uomo
grazie alle esplorazioni, alla nuova scienza naturale, alla visione e misurazione del mondo;
la nuova vitalità assunta in ambito letterario dalla biografia e dalla poesia. Seguono poi le
parti dedicate alla socialità, alle feste, al ruolo della lingua nazionale e alla posizione della
donna. Chiudono l'opera alcuni capitoli dedicati alle tendenze della vita morale e religiosa
agli inizi del XVI secolo. La civiltà del Rinascimento in Italia appartiene alla serie di quei
libri-mito che hanno dato tono e colore a molte ricerche successive. A dispetto della sua
fortuna e circolazione, amplissime, è stata scarsamente studiata e tuttora viene citata più
che analizzata nelle sue parti singole. Resta comunque, per un verso, una testimonianza
potente della fortuna degli studi rinascimentali, e con questo atteggiamento può essere
riletta e gustata con profitto; mentre, per l'altro, la sua impostazione, che tende a
considerare nello studio di una società la molteplicità degli aspetti della personalità e delle
manifestazioni umane, risulta tuttora insuperata per le moderne ricerche sulla civiltà e sulla
storia della cultura”.
M. Ghelardi
(Fonte: http://www.pbmstoria.it/dizionari/storiografia/lemmi/040.htm)
18 – 03 – 2013
Burckhardt sul Rinascimento: ideali di misura, armonia, centralità dell’uomo (non solo nelle
lettere, ma anche nelle arti, nell’architettura etc.).
Ci sono 3 tendenze manieristiche che a volte si intersecano e a volte permettono di
distinguere le opere tra loro.
Ferroni fa diverse osservazioni in proposito:
1) Tendenza classicistica: si riconosce autorità agli scritti classici circa l’importanza
dell’uomo, delle virtù dell’uomo, della gloria). La tradizione antica viene rispresa
quando si scrivevano altre commedie seguendone l’impostazione tipo la
Mandragola di Machiavelli, con contenuti moderni e moduli antichi. Vengono
considerati classici anche scrittori più vicini ma ritenuti “grandi”, come quelli
suggeriti dal Bembo (Petrarca e Boccaccio in primis). Imitare modelli del passato
significa imitare un modello che va bene sempre ed è facilmente esportabile.
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Link da dove scaricare la Mandragola di Machiavelli “aggratis” in comodo formato pdf:
http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_4/t93.pdf
2) Presenza di “contraddizioni”: pur seguendo moduli classici, si introducono elementi
del tutto nuovi, come l’ideale dell’uomo che è visto in modo diverso rispetto ai
classici, mostrandone anche gli aspetti più umani e le debolezze.
3) Anticlassicimo: bando agli antichi in favore di una espressione del tutto libera e
scevra dai condizionamenti della letteratura di corte.
C’è una forte contraddizione tra lo splendore rinascimentale e la situazione politica,
economica e sociale di quello stesso periodo.
Durante il Rinascimento ci fu la cosiddetta Controriforma ad opera del Concilio di Trento,
la nascita della Compagnia di Gesù, la crezione del Sant’Uffizio etc.
Niccolò Machiavelli (1469-1527)
Per capire Machiavelli e la sua opera, è necessario conoscere il periodo in cui visse. Il suo
contributo alla letteratura italiana è soprattutto legato alla sua opera di carattere politico,
ovvero Il principe.
Il suo metodo è l’osservazione scientifica della realtà e del mondo che lo circonda, usando
un modello espressivo diverso dal tipo di prosa in auge a quel tempo.
Nel rinnovamento della prosa ha fornito anche un contenuto importante. Cesare Beccaria,
quando ricorda gli autori che l’hanno ispirato nella sua prosa, cita autori inglesi e francesi,
mentre il Machiavelli è l’unico italiano di cui fa menzione.
Con la sua opera, Niccolò voleva operare nella realtà contemporanea, inserendosi nella
battaglia politica del suo tempo.
Tra il 1499 e il 1512 Machiavelli prestò servizio presso la repubblica di Pier Sederini a
Firenze, dopo la caduta dei Medici e prima del loro ritorno. Svolgerà molte ambascerie in
Italia centrale e meridionale. Nel 1513 tornano i Medici, appoggiati dagli Spagnoli, e
Machiavelli viene anche accusato di aver partecipato ad una congiura anti-medicea; per
questo motivo venne condannato all’esilio nella sua tenuta in campagna.
Lui però voleva tornare in campo mettendosi al servizio dei Medici, che vedeva come la
famiglia che poteva creare una sorta di aggregazione territoriale in quella parte d’Italia.
Si mette in contrasto con quel filone letterario di adulazioni ai principi esistenti, scrivendo
però un testo di consigli più che di celebrazione, quantunque sia dedicato ad un Medici
(Lorenzo, nipote di Lorenzo il Magnifico).
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In lui convivono il richiamo ai classici e l’osservazione precisa della realtà.
Dichiara di non aver voluto seguire una forma espressiva particolarmente ricercata ma di
aver cercato di offrire un valore per le cose e non per le parole.
Machiavelli, con molta concretezza, dice che come i cartografi che rappresentano le
montagne devono stare in basso, e per descrivere le pianure devono stare in alto, così per
descrivere i principi bisogna stare tra il popolo e per descrivere il popolo bisogna stare
vicino al principe.
Usa un linguaggio nuovo con uno stile fortemente perentorio (come avrebbe fatto più tardi
il Beccarla) e nella sua opera c’è un concetto tipico che è quello di fortuna.
Prevalgono periodi brevi e spezzati (paratassi) rispetto ai periodi subordinati come i latini;
questo conferisce al testo un ritmo più serrato.
20 – 03 – 2013
A volte è necessario utilizzare qualità ferine (“usare la bestia”) per ottenere il
raggiungimento dei propri obiettivi. Non solo forza (il lione), ma anche astuzia (la golpe =
volpe).
Questa dimensione di ragione umana + bestialità è stata fin dai tempi antichi idealizzata
nella figura del Centauro (es. Chirone, che educò Eracle e Asclepio).
Se mantenere la parola va contro i propri interessi, il principe è giustificato a non
mantenerla, dato che non tutti gli uomini sono buoni e onesti e Machiavelli porta di questo
diversi esempi storici.
È importante altresì che il Principe simuli e dissimuli, senza essere troppo trasparente.
Alessandro VI (Rodrigo Borgia) era l’esempio adatto da portare per giustificare un tale
comportamento; Niccolò non esprime giudizi di carattere morale ma si limita a descriverne
le caratteristiche.
Cesare Borgia (detto il Valentino, figlio di Rodrigo Borgia-Alessandro VI) è uno dei
personaggi al quale Machiavelli dedica molto spazio (tutto il cap.7°) e lo prese come
esempio di principe che assurge ad un grande potere grazie a determinate caratteristiche.
Per Niccolò, il suo fallimento fu dettato dalla fortuna, intesa come vox media, ovvero dalla
sorte, che potrebbe essere sia positiva che negativa. Questa si concretizzò nella morte del
padre, che fece venir meno un appoggio importante.
Più che possedere le virtù canoniche (benevolenza, pietà etc.) serve saperle usare o
fingere di averle, qualora convenisse.
Gli uomini sono facilmente ingannabili, dice l’autore, e questo aiuta grandemente il
principe. Egli è in qualche modo legittimato a mettere in atto un certo comportamento
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“poco etico” per poter mantenere e gestire il potere (il famoso “il fine giustifica i mezzi”,
anche se Machiavelli non lo disse mai espressamente, come invece si crede).
Questo tema viene ripreso nella parte conclusiva del capitolo dove il popolo viene definito
“volgo” (non in senso positivo, quindi), disposto ad accettare un certo di comportamento
da parte del principe. Machiavelli scrive con un ritmo veloce grazie alla paratassi e non
alle subordinate. Frasi brevi e spezzate, quindi. Un’altra caratteristica è la perentorietà di
molte affermazioni.
Usa molto anche immagini metaforiche: volpe, leone, centauro…
Fortuna: qualità necessaria al principe.
Rispettivo o impetuoso: qualità che può avere un principe.
21 – 03 – 2013
Angelo Beolco detto Ruzzante o Ruzante (1496-1542) è stato drammaturgo, attore e
scrittore.
Esponente di una letteratura di carattere anticlassicistico, sceglie il dialetto, compiendo
una scelta antitetica rispetto a quella dominante.
Perché Ruzante fece questa scelta? Lui usa la lingua prevalente tra il popolo e sia in
Lombardia che in Veneto (lui è veneto di Padova), c’è la tendenza ad esprimersi nella
lingua veramente parlata dalla gente. Pur essendo un autore dialettale, non usa un dialetto
rozzo perché trattasi anche di una persona colta. È un intellettuale che operò presso la
corte di Alvise Corsaro nella sua tenuta di campagna, cosa che gli permise di conoscere il
mondo contadino.
Ruzante si rifà ad una tradizione letteraria che in Italia esisteva già fin dal ‘200 con la
cosiddetta “satira villanesca”.
I contadini che rappresenta sono delle caricariture. La sua prospettiva però è anche
tragica ed è oggetto di una riscoperta da parte della letteratura.
Le sue opere sono di carattere popolare ma non per il popolo, bensì per un pubblico colto
che, nel suo caso, era il pubblico di corte.
Scrisse una serie di dialoghi che partono dal contadino Ruzante (che spesso lui interpreta
a teatro).
Ecco il riassunto del Primo Dialogo de Ruzante, dove narra delle traversie di un contadino
tornato da una delle tante guerre del tempo:
Ruzante torna, frastornato e sconfitto, forse fuggitivo, dal campo di battaglia. Si reca nel
paese dove si sono rifugiati sua moglie, Gnua, ed il compare Menato, a sua volta amante
della donna. Incontratolo, gli racconta gli accadimenti del campo. Segue l'incontro con
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Gnua, che nel frattempo si è data alla prostituzione ed ora è sotto la protezione di un
bravaccio. Ruzante tenta di convincerla a tornare con lui, ma lei rifiuta. Quando il
contadino fa per trascinarla via con la forza, entra il protettore, che lo picchia
selvaggiamente, lasciandolo a terra quasi morto. Rientra Menato, che ha assistito all'intera
scena. Ruzante, per difendere la propria ignavia, dapprima finge di essere stato battuto da
una folla, poi di essere stato vittima di un incantesimo, per cui, sebbene aggredito da uno
solo, ne vedeva centinaia. Infine scoppia a ridere, ed i due escono insieme. La risata finale
è stata variamente interpretata, sia come un inizio di dolorosa e problematica follia, sia
come la derisione del dolore di una classe politica, il contado, che è stata troppo a lungo la
vittima delle vicissitudini storiche.
Si ritrova qua il termine, ripreso poi dal Verga, di roba per indicare le cose materiali.
Esprime la varietà folclorica presente nel nostro paese.
Ludovico Ariosto (1474-1533)
È un altro autore espressione dalla “cultura della contraddizione”, come dice il Ferroni.
Mette in luce le qualità dell’uomo ma anche le sue debolezze.
L’“Orlando furioso” ebbe una grande fortuna in Italia e in tutta Europa, grazie anche e
soprattutto alla stampa. In Italia è però meno apprezzato di quanto meriterebbe.
Calvino lo prese come modello per diversi suoi racconti come “Il visconte dimezzato”, “Il
barone rampante” e il “Il cavaliere inesistente”.
Con Ariosto siamo di fronte ad un tipico esempio di intellettuale rinascimentale.
La sua attività si svolge per gran parte della sua esistenza presso la corte di Ferrara.
Esprime la contraddizione tra la corte e il letterato, come si evince chiaramente dal
proemio. Contribuì attraverso il suo impegno letterario, alla fama della corte ferrarese degli
Estensi. Scrisse anche opere in latino ed è considerato il fondatore della Commedia
Rinascimentale. Parla del mondo attuale pur con una struttura classica.
Presso gli Estensi operò anche con funzioni amministrative; fu assistente del cardinale
Ippolito d’Este, fratello di Alfonso d’Este. Quando Ippolito si trasferì in Ungheria, si rifiutò di
seguirlo e andò da Alfonso.
Tra il 1522 e il 1525 fu commissario in Garfagnana; svolse il compito controvoglia, ma con
grande abilità. Questo tipo di impegno lo portò a contatto con la realtà concreta, che
riversò poi nei suoi scritti.
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La sua opera è profondamente legata all’ambiente di corte e specialmente quello della
corte ferrarese. Iniziò l’“Orlando furioso” nel 1505, ma ebbe altre edizioni rimaneggiate nel
1516, 1521 e 15328
Completò l’opera di Matto Maria Boiardo (Orlando Innamorato) che non riuscì a finire per
morì prima (1494). Boiardo si rifece alla Chanson de Geste che trattava delle vicende di
Carlomagno e che aveva una diffusione popolare. Il Ciclo Bretone, invece, che trattava
delle gesta di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda, era per un pubblico più colto.
Boiardo unì la Chanson de Geste e il Ciclo Bretone (che aveva una tematica amorosa),
parlando di Orlando, un paladino di Carlomagno, che si innamorò di Angelica.
Ci sono 3 grandi momenti (nuclei):
• Combattimenti tra paladini e saraceni sotto le mura di Parigi
• Amore tra Ruggero e Bradamante, di carattere encomiastico dato che lui, saraceno
e quindi infedele, poi si convertì e assieme a Bradamente furono gli antenati degli
Estensi
• Vicenda di Orlando e Angelica
Il tema della follia circolava molto nel periodo e difatti nel 1511 esce l’Elogio della follia di
Erasmo da Rotterdam, opera ben conosciuta dai nostri autori come Machiavelli e Ariosto.
La rappresentazione del mondo medievale è lo strumento utilizzato per parlare delle
contraddizioni della corte rinascimentale e del mondo nel quale vive Ariosto; egli vive nella
corte, ci crede ma la vive in modo contraddittorio.
Il primo aspetto rinascimentale dell’“Orlando furioso” si trova nella sfaccettatura delle
descrizioni visive con una tecnica peculiare che intreccia eventi e personaggi in modo
inestricabile.
A prevalere è la visione dell’uomo secondo i canoni rinascimentali, ovvero una visione
immanentistica e non provvidenziale.
Vi è un’esaltazione delle virtù militari ma anche di quelle umane, con particolare riguardo a
quelle femminili, riconoscendone l’importanza nella vita di corte. Vuole che le virtù che
celebra nella sua opera, possano essere di esempio e ammaestramento per i membri
della corte del tempo.
Spesso c’è un riferimento al tempo presente, o come elogio per le donne o in polemica
come per l’uso della polvere da sparo.
Vede i limiti del mondo contemporaneo e lo critica. L’ironia di Ariosto è l’ironia verso i limiti
dell’uomo e i difetti umani; usa l’ironia per denunciare questi limiti naturali (tipo il viaggio di
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Astolfo sulla luna con l’ippogrifo per recuperare il senno di Orlando, dove trova il senno di
gran parte degli uomini).
Un altro elemento che caratterizza quest’opera come rinascimentale, è la tecnica
dell’incastro, che crea suspance e invoglia e continuare la lettura.
Croce fu il primo intellettuale a manifestare un grande apprezzamento per quest’opera e la
sua armonia: “La fortuna dell'Orlando furioso si può comparare a quella di una donna
leggiadra e sorridente, che tutti guardano con letizia, senza che l'ammirazione sia
impacciata da alcuna perplessità d'intelletto, bastando, per ammirare, aver occhi e volgerli
al grato oggetto. Limpidissimo com'è quel poema, nitidissimo in ogni particolare,
facilmente apprendibile da chiunque possieda una generale cultura, non ha mai
presentato seri ostacoli d'interpretazione, e perciò non ha avuto bisogno delle industrie dei
commentatori e non è stato aduggiato dalle loro litiganti sottigliezze; né poi è andato
soggetto, o assai lievemente, alle intermittenze che, per le varie disposizioni culturali dei
vari tempi, hanno pur sofferto altre insigni opere di poesia. Grandi uomini e comuni lettori
si sono trovati intorno ad esso in pieno accordo, come appunto intorno alla bellezza,
poniamo di una signora Récamier; e nella folla di coloro che furono presi dal suo fascino,
si notano un Machiavelli e un Galilei, un Voltaire e un Goethe.”.
L’opera di Ariosto fu definita come una “macchina che invoglia a leggere”.
Scrive ottave in endecasillabi.
Il rigore compositivo in Ariosto è assoluto, e riesce a mettere in armonia gli aspetti
contrastanti dell’opera nonché tutto il materiale che deve gestire.
Il proemio prende spunto da opere epiche, come l’Eneide, l’Iliade, l’Odissea, dove però
invoca la donna amata invece che Apollo o le Muse (già qui vediamo la sua ironia). La
dedica ad Ippolito d’Este, sottolinea la specificità dei propri interessi, prendendo in giro
bonariamente il proprio interlocutore.
25 – 03 – 2013
SECONDO MODULO ('600, ‘700, ‘800)
Con la pace di pace di Cateau-Cambrésis (2/3 agosto 1559), l’Italia sostanzialmente
diventa preda degli stranieri (Spagna, Francia, Austria).
Dalla seconda metà del ‘500 nacquero i collegi gesuitici che offrivano una preparazione di
primissimo ordine per formare la classe dirigente e regnante in Europa.
Nel periodo che stiamo trattando, in Europa c’è la politica dell’Assolutismo. Il ‘700 si
caratterizza per trasformazioni importanti. Nasce l’assolutismo illuminato, punta di sviluppo
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massimo dell’assolutismo iniziato secoli prima. Negli autori illuministi si notano già dei
processi che condurranno alla modernità.
Per la letteratura europea, dal ‘600 in poi, l’Italia perderà il suo ruolo egemone, in favore di
Francia e Inghilterra. Nell’illuminismo lombardo però, spiccano nomi del tutto autonomi
dall’influenza estera e che, anzi, verranno riconosciuti per il loro grande contributo; Cesare
Beccarla ne è il caso più eclatante.
Il ‘600 è un secolo fortemente svalutato dalla critica per molto tempo, soprattutto dalla
critica risorgimentale. Si parlò soprattutto di decadenza politica, economica e,
conseguentemente, letteraria. Nel XVII secolo però, nasce la poesia barocca con la sua
arguzia, la ricerca della forma perfetta (magari a discapito dei contenuti), e questo non era
visto positivamente, ma la ricerca formale esasperata (anche nell’arte) è stata rivalutata
dai critici novecenteschi. Nel ‘600 ci sono anche altri filoni come il melodramma (ovvero
dramma in musica), tradizione italiana per eccellenza; c’è poi lo sviluppo della letteratura
dialettale e la commedia dell’arte, che avrà un enorme fortuna in Europa.
Nel ‘700, Goldoni presenterà la sua riforma a Parigi, ma venne poco apprezzato perché lì
amavano la comédie italienne.
Galileo Galilei (1564–1642)
Nell’ambito delle scienze, poi, gli Italiani ebbero rilievo assoluto per le loro ricerche e i loro
scritti. Galileo Galilei scrisse anche opere di letteratura, ma la sua fama è legata alle sue
opere di carattere scientifico con le novità, introdotte nel campo del cosiddetto “metodo
scientifico” e della sua espressione per iscritto.
Fino a Galileo, la lingua usata dalla scienza era il latino, mentre lui, inizia a scrivere in
volgare, volendo rivolgersi non solo agli scienziati ma anche agli intendenti (lui li chiama
così), ovvero gli uomini colti quantunque non specialisti.
Cercò di stabilire contatti con le accademie, la Chiesa, il potere politico, perché le sue
ricerche avessero la più ampia eco possibile.
Cerca di evitare un esasperato tecnicismo e rimane più su uno stile tipo “conversazione
colta”:
Natalino Sapegno (1901-1990), famoso critico letterario, sostiene che gli scritti di Galilei
sono l’esempio di miglior prosa nel periodo tra Machiavelli e Manzoni.
Italo Calvino lo cita come uno degli autori importanti della letteratura italiana e gli illuministi
ne commentavano positivamente gli scritti.
Pisano di nascita, visse a lungo a Firenze. Studiò e insegnò matematica all’università di
Pisa prima e a Padova poi, dove si confronto con la dominante tradizione aristotelica, che
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era dogmatica e pertanto difficile da scardinare. Entrò in contatto anche con Venezia, dove
venne influenzato dagli studi di Copernico e Gassendi e dove il metodo empirico
dell’osservazione della realtà diventa dominante.
L’invenzione del cannocchiale lo vedo entusiasta sperimentatore e ricercatore nell’ambito
dell’ottica, oltre ovviamente che dell’astronomia.
Torna poi in patria, entra in contatto con l’accademia dei Lincei e ha problemi con la
Chiesa perché viene accusato dal cardinale Bellarmino di eterodossia.
Nelle “Lettere Copernicane” affronta il concetto di Dio che si è espresso attraverso due
grandi libri: la Bibbia (scritta con linguaggio metaforico) e il libro della natura (scritto con
linguaggio matematico).
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo è l’opera nella quale Galileo aderisce
alla teoria eliocentrica, cos che gli fece avere dei guai con la Curia, per cui dovette
abiurare.
Quest’opera è dedicata a Ferdinando II de’ Medici; venne scritta alla fine della sua vita ed
è un’adesione alla teoria eliocentrica copernicana, anche se NON in modo esplicito.
Attraverso però l’arte della dissimulazione, la sua posizione è piuttosto chiara.
Apparentemente non vuole prendere una posizione troppo netta e usa la tradizione del
dialogo tra due sostenitori delle due diverse e contrapposte teorie (sistema tolemaico-
aristotelico e sistema copernicano) per dimostrare di conoscerle bene entrambe.
La polemica di Galilei è contro l’accettazione supina dell’ipse dixit dei seguaci
dell’aristotelismo.
La forma del dialogo, già in uso in passato come ad esempio da Platone, è la tradizione
migliore per esporre un confronto. Venne altresì molto usato nel Rinascimento come dal
Bembo. Campanella definisce il Dialogo come una “commedia filosofica” e sembra proprio
una commedia per come è impostato.
È un dialogo tra 3 personaggi: Filippo Salviati e Giovan Francesco Sagredo (entrambi
discepoli di Galilei) e un figura inventata (Simplicio), che rappresenta un personaggio
semplice di tipo boccaccesco (tipo Calandrino), quantunque la critica attuale sia più cauta
riguardo a questa similitudine, dato che si è constatato come questo personaggio sia più
duttile di quanto appaia ad un primo sguardo. Caratteristica di Simplicio è la sua
testardaggine nell’opporsi ai due scienziati, fautori del metodo scientifico (il primo è più
focoso e l’altro è più moderato).
Il punto di vista di Salviati e Sagredo è che a guardare la realtà ci siano poi delle
conseguenze, mentre i seguaci di Aristotele danno la precedenza a quanto scritto di
Aristotele rispetto alla realtà dei fatti.
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Sagredo porta come esempio la lezione di anatomia alla quale assistette per dimostrare
che i nervi avessero origine dal cervello invece che dal cuore come sostenevano gli
aristotelici. Davanti all’evidenza, un peripatetico presente osservò che la dimostrazione era
convincente e anche lui avrebbe aderito a tale teoria se non ci fossero stati gli scritti di
Aristotele a dire il contrario.
Un altro esempio portato da uno dei due scienziati è la presentazione del cannocchiale
durante una lezione all’università di Padova, dove un professore aristotelico salta fuori con
delle righe di Aristotele dalle quali si desumerebbe che già lui aveva previsto e parlato del
cannocchiale quando si era calato in un pozzo per vedere meglio il cielo.
Sagredo dice che se Aristotele fosse vivo, avrebbe seguito le nuove scoperte e che
attualmente era usato dai pusillanimi.
La domanda degli aristotelici è a chi fare riferimento in mancanza di Aristotele; la risposta
è che solo i ciechi hanno bisogno di una guida e che ci si deve basare sui sensi per avere
una conoscenza del mondo basata sull’esperienza e non sulla carta.
04 – 04 – 2013
Il ‘700 è stato un secolo ricco di avvenimenti (Illuminismo, Rivoluzione Francese etc.).
Si può parlare di illuminismo italiano solo a partire dalla seconda metà del ‘700.
Dal punto di vista letterario, l’illuminismo attraversò tutta l’Europa con diversa intensità.
Il rinnovamento linguistico è un fattore importante di questa corrente letteraria. In Italia,
l’illuminismo lombardo con Milano al centro, fu il più importante, caratteristico e avanzato
(Voltaire elogiò la “scuola di Milano”). Si parla anche di illuminismo veneto, più moderato,
con Goldoni come autore di punta.
L’illuminismo meridionale, orbitante intorno a Napoli, si dedicò più alla speculazione
politica ed economica; si vedano a tal proposito gli scritti di Giambattista Vico, Pietro
Giannone, Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri, Francesco Mario
Pagano solo per citare alcuni esponenti.
L’illuminismo combatté fortemente contro i pregiudizi, rielaborando la cultura ma senza
dimenticare quanto si doveva ai classici. Fondamentale per la nuova cultura sono gli
apporti della scienza, di cui si fece tesoro (Galilei, Newton…) e della filosofia (Hume,
Locke…).
L'Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri
(Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers nel titolo
originale) di Denis Diderot e Jean-Baptiste d'Alembert è l’opera più indicativa
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dell’approccio dell’illuminismo alla cultura. C’era anche più sensibilità della dimensione del
fare e dell’agire.
Il Caffè, periodico pubblicato dal giugno 1764 al maggio 1766, nato Milano ad opera di
Pietro Verri e del gruppo che era solito raccogliersi all'Accademia dei Pugni, come foglio
culturale del periodo illuminista, si occupò non solo di letteratura, ma anche di scienza,
economia, politica, meteorologia, agricoltura etc.
Uno dei grandi miti è quello della scienza, della fiducia nella scienza e nel progresso per
poter raggiungere la pubblica felicità.
L’illuminismo ebbe un’apertura maggiore per quanto riguarda le altre culture e il concetto
di cosmopolitismo è tipicamente illuministico come concetto di relativismo culturale.
Le Lettere Persiane di Montesquieu sono un ottimo esempio di relativismo culturale.
Uno dei maggiori esponenti dell’illuminismo lombardo, Pietro Verri, aveva come motto fatti,
non parole. Il rinnovamento in ambito linguistico fu una questione molto trattata.
La tendenza dell’illuminismo non era esclusivamente di tipo razionalistico, poiché gli
illuministi furono molto sensibili anche a quello che riguarda il mondo delle emozioni e dei
sentimenti.
Cesare Beccaria, con il suo “Dei delitti e delle pene” (1764), ebbe un’influenza mondiale
non solo sulle costituzioni successive, ma anche per lo stile (influenzò anche Stendhal).
Il Sensismo è un termine che designa quelle dottrine filosofiche che riportano ogni
contenuto e la stessa azione del conoscere al sentire, ossia al processo di trasformazione
delle sensazioni, escludendo in tal modo dalla conoscenza tutto quello che non sia
riportabile ai sensi. Era una corrente filosofica dell’illuminismo diffusa in tutta Europa ed è
per questo che non c’è una netta cesura tra illuminismo e Romanticismo.
La congiuntura favorevole per far nascere e prosperare l’illuminismo lombardo fu dato
dalla politica (governo illuminato dell’impero asburgico) che fece sua l’aspirazione
illuministica verso la pubblica felicità. Le riforme asburgiche resero Milano una città
all’avanguardia con l’introduzione del catasto, del censo, la riduzione dei privilegi nobiliari
ed ecclesiastici, la razionalizzazione delle leggi, l’educazione elementare gratuita e
obbligatoria (riforma scolastica), con la soppressione dei Gesuiti dall’insegnamento e
come ordine religioso nel 1773 da papa Clemente XIV (la Compagnia sopravvisse però
nella Bielorussia poiché la zarina Caterina II rifiutò l'exequatur al decreto papale di
soppressione e comunque venne poi ricostituito da papa Pio VII nel 1814).
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Nasce in questo periodo il Teatro alla Scala (1778), la cultura viene rilanciata e si tiene
conto, da parte della potere istituzionale, dei suggerimenti del ceto intellettuale locale,
composto dai figli della tradizionale aristocrazia lombarda, in particolar modo da quella
milanese.
Giuseppe Parini (1729-1799), pur non essendo di origini nobili, influenzò molto il governo
austriaco in Italia, visto che collaborò strettamente con questo.
Grazie a lui venne fondata l’accademia di Brera. Si occupò anche di agricoltura,
educazione, organizzazione di eventi culturali importanti.
La sua opera più importante è il poemetto “Il giorno”, dall’elaborazione travagliata, visto
che era parecchio impegnato come insegnante, giornalista e pensatore. Nella sua opera,
Parini ci dà un’immagine dell’aristocrazia di quei tempi molto precisa e attenta.
Di questo poema, uscirono solo due parti: Il mattino (1763) e Il mezzogiorno(1765), che
ottennero critiche positive tranne che da Pietro Verri su Il Caffè.
La finzione del precettor d’amabil rito è la scusa per parlare delle abitudini dei nobili. I suoi
consigli sembrano una giustificazione dello stato dei fatti, ma in realtà usa l’ironia e mette
alla berlina molti atteggiamenti dei nobili; i suoi consigli infatti dovrebbero essere presi al
contrario. Il suo lessico è influenzato dal classicismo, ma è rinnovato sotto l’influenza del
sensismo e Parini viene visto come maestro dalla generazioni successivi di scrittori.
“Il giorno” dal punto di vista filologico è uno dei testi più difficili in assoluto, visto che le
versioni successive a Il mezzogiorno (ribattezzato successivamente Il meriggio), ovvero Il
vespro e La notte, sono state riviste e rimaneggiate più volte.
La data di pubblicazione de Il mezzogiorno (1765) è importante perché dimostra che Parini
fu il primo ad introdurre certe tematiche intimistiche.
08 – 04 – 2013
Secondo Parini, i principi basilari sono il piacere e il dolore.
Nell'opera Il Giorno ci sono delle favole mitologiche dai toni d'ironica malizia che illustrano
le origini di certi costumi sociali. Sono pertanto delle favole eziologiche, ovvero che vanno
alla ricerca dell’origine di qualche cosa, un po’ come facevano i componimenti
encomiastici che trattavano delle nobili origini di qualche famiglia aristocratica).
Il loro inserimento costituisce una variatio necessaria a spezzare la forte monotonia della
descrizione di una tipica giornata del giovin signore, un nobile che durante le ore di veglia
impiega il suo tempo in frivolezze, giochi e ricerca del piacere, conduce una vita futile,
mossa da egoismo, e improduttiva per la società.
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Le favole sono in tutto 5:
• Nella Favola del Piacere (antologizzata) veniamo condotti all’origine dell’umanità, il
cui unico fine era di sfuggire al dolore, ma senza la ricerca del piacere.
• Nella Favola Amore e Imene si narra dell’origine dell’orrendo fenomeno del
cicisbeismo.
• Nella Favola della Cipria si narra dell’abitudine di coprire di cipria la parrucca dei
nobili.
• Nella Favola del Canapé si parla del divano a due posti, strumento di tresche
clandestine.
• Nella Favola del tric-trac si parla della nascita di questo gioco inutile, ma in tal modo
mitizzato.
Parini fa uso del discorso antifrastico (= scambiare con il termine o la proposizione di
significato opposto il termine o la proposizione che esprimerebbero letteralmente ciò che si
intende enunciare, per ottenere un effetto ironico, eufemistico o spiazzante, come negli
esempi meglio di così non poteva proprio andare! Oppure oggi sei puntuale, ho dovuto
aspettare solo mezz'ora) e dell’endecasillabo sciolto, per un uso prosastico, usato spesso
nelle poesie (poemi) di carattere scientifico.
La Favola del Piacere è preceduta da questi versi:
La sola voluttà, che le celesti
Mense apparecchia, e al nèttare convita
I viventi per sé dèi sempiterni.
che sono un passaggio importante perché indicano l’egoismo di queste persone, cosa che
è il primo obiettivo della satira del Parini.
Nel ‘700 ci fu un grande interesse per scoprire l’origine di varie cose, come le lingue, il
diritto e così via.
Il Contratto sociale (Du contrat social: ou principes du droit politique) di Jean-Jacques
Rousseau, pubblicato nel 1762, è un esempio di questa tendenza. Per questo motivo il
Parini ricostruì un’ipotesi di come fossero precedentemente le cose. In questo fu molto
influenzato dal Sensismo.
39
L’autore costruisce “Il Giorno” attraverso una tecnica raffinata nell’uso dei personaggi,
alcuni dei quali sono rappresentati come dei “sacerdoti” dalla celebrazione della giornata
del giovin signore.
Il precettore funge da consigliere ma anche da complice (che dispensa consigli in modo
ironico); è anche testimone dei fatti raccontati e giudice del comportamento tenuto dal
giovin signore.
Tiene conto della situazione dei contadini e del popolo, e difatti mette ad esempio a
confronto il risveglio del giovin signore con quello del villano.
Il Sensismo lo influenzò nel senso che era convinto che la poesia dovesse colpire il lettore
nella vista, nell’udito, nel tatto, nel gusto, nell’odorato, utilizzando tutti i termini necessari
per suscitare le impressioni di questo tipo.
Parini utilizza anche termini classici, ma lo fa in modo parodistico, come quando richiama i
topoi della tradizione classica mettendoli però in un altro contesto, come il momento della
vestizione del giovin signore, che viene paragonata alla vestizione degli eroi mitologici.
Nel “Dialogo sopra la nobiltà” composto in gioventù nel 1757, Parini mette già in luce le
sue idee illuministe poi riprese ne “Il giorno”.
Si tratta di un breve dialogo immaginario che, ispirato ai toni e alle situazioni dei “Dialoghi
dei morti” di Luciano di Samosata, vede come protagonisti il Poeta e un Nobile, i quali per
una circostanza fortuita si ritrovano a condividere la stessa tomba.
All’inizio il Nobile borioso disprezza la miseria e l’oscurità del Poeta, ma questo, con
ragionamenti stringenti, gli dimostra che la nobiltà non significa nulla, se non ricordare a
memoria i nomi degli antenati ed ottenere un’adulazione interessata. I nobili vengono detti
aver avuto le loro ricchezze e le posizioni sociali che occupano in seguito anche a razzie.
Alla fine il Nobile perde tutte le sue certezze e anzi si rammarica di non aver conosciuto in
vita il Poeta, il quale gli avrebbe evitato di vivere secondo i pregiudizi del suo ceto.
Analisi del testo del Parini in questo link
http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-2/pdf-online/laboratorio-
analisi_parini.pdf
La favola del piacere
Testo Parafrasi
Vero forse non è; ma un giorno è fama
Che fur gli uomini eguali: e ignoti nomi
Fur nobili e plebei. Al cibo al bere
Forse non è vero, ma è noto che un giorno
gli uomini furono uguali; e nobiltà e plebe
furono termini sconosciuti. Uno stesso
40
All'accoppiarse d'ambo i sessi al sonno
Uno istinto medesmo un'egual forza
Sospingeva gli umani: e niun consiglio
Nulla scelta d'obbietti o lochi o tempi
Era lor conceduto. A un rivo stesso
A un medesimo frutto a una stess'ombra
Convenivano insieme i primi padri
Del tuo sangue o signore e i primi padri
De la plebe spregiata: e gli stess'antri
E il medesimo suol porgeano loro
Il riposo e l'albergo, e a le lor membra
I medesmi animai le irsute vesti.
Sola una cura a tutti era comune,
Di sfuggire il dolore: e ignota cosa
Era il desire agli uman petti ancora.
L'uniforme degli uomini sembianza
Spiacque a' celesti: e a variar lor sorte
Il Piacer fu spedito. Ecco il bel genio,
Qual già d'Ilio sui campi Iride o Giuno,
A la terra s'appressa: e questa ride
Di riso ancor non conosciuto. Ei move,
E l'aura estiva del cadente rivo
E dei clivi odorosi a lui blandisce
Le vaghe membra; e lenemente sdrucciola
Sul tondeggiar de' muscoli gentile.
A lui giran d'intorno i vezzi e i giochi;
E come ambrosia le lusinghe scorrono
Da le fraghe del labbro; e da le luci
Socchiuse languidette umide fuora
Di tremulo fulgore escon scintille,
Ond'arde l'aere che scendendo ei varca.
Al fin sul dorso tuo sentisti o terra
Sua prima orma stamparsi: e tosto un lento
Fremere soavissimo si sparse
istinto, una stessa forza spingeva gli uomini
verso il cibo, il bere, il sesso e il sonno: non
avevano alcuna volontà,
nessuna possibilità di scegliere tra le cose, i
luoghi o i momenti. I primi antenati si
ritrovavano insieme allo stesso fiume per
bere, allo stesso albero da frutto per
mangiare, alla stessa ombra per riposarsi,
come gli antenati della tanto disprezzata
plebe.
Le stesse grotte, lo stesso suolo offrivano
loro riposo; e si vestivano con le stesse
vesti di pelo di animale.
Solo una preoccupazione era comune a
tutti gli uomini: sfuggire il dolore, e il piacere
non era ancora conosciuto.
La situazione egualitaria degli uomini non
piacque agli dei che inviarono sulla terra il
Piacere. Come già avevano fatto sui campi
di battaglia di Ilio, Iride o Giunone, Piacere
scese lentamente sulla terra attraversando
l’aria; e questa è felice per una sensazione
che non era mai stata conosciuta.
Accarezza il corpo degli uomini e sfiora i
muscoli del nobile a cui intorno si aggirano
la Bellezza e la Gioia. Dolci come il miele,
le lusinghe scorrono sulle labbra rosse
come fragole; e dagli occhi escono scintille
di luce tremolante con le quali si infiamma
l’aria mentre lui sta scendendo.
Infine sulla tua schiena, o Terra, si stampò
la sua prima impronta; e subito si sparse
dappertutto un tremolio soave. E sempre
41
Di cosa in cosa; e ognor crescendo tutte
Di natura le viscere commosse:
Come nell'arsa state il tuono s'ode,
Che di lontano mormorando viene,
E col profondo suon di monte in monte
Sorge; e la valle e la foresta intorno
Mugon di smisurato alto rimbombo.
Oh beati fra gli altri e cari al cielo
Viventi a cui con miglior man Titano
Formò gli organi egregi, e meglio tese
E di fluido agilissimo inondolli!
Voi l'ignoto solletico sentiste
Del celeste motore. In voi ben tosto
La voglia s'infiammò, nacque il desio:
Voi primieri scopriste il buono, il meglio:
Voi con foga dolcissima correste
A possederli. Allor quel dei duo sessi,
Che necessario in prima era soltanto,
D'amabile e di bello il nome ottenne.
Al giudizio di Paride fu dato
Il primo esempio: tra femminei volti
A distinguer s'apprese: e fur sentite
Primamente le grazie. Allor tra mille
Sapor fur noti i più soavi. Allora
Fu il vin preposto all'onda; e il vin si elesse
Figlio de' tralci più riarsi, e posti
A più fervido sol ne' più sublimi
Colli dove più zolfo il suolo impingua.
Così l'uom si divise: e fu il signore
Dai mortali distinto, a cui nel seno
Giacquero ancor l'ebeti fibre, inette
A rimbalzar sotto ai soavi colpi
De la nova cagione onde fur tocche;
E, quasi bovi al suol curvati, ancora
Dinanzi al pungol del bisogno andaro;
crescendo scosse le viscere della natura:
come da lontano si sente arrivare il tuono
nelle notti d’estate, e col suo suono
profondo sorge di monte in monte, e nella
foresta e nella valle riecheggia il rimbombo,
finché piove che riconforta, ravviva, rallegra
gli uomini, gli animali, i fiori e le piante.
Fortunati fra tutti i mortali voi che Prometeo
ha generato in maniera perfetta il nobile
corpo inondandolo di fluido altrettanto
nobile.
Voi sentiste le ignote sollecitazioni del
piacere. In voi velocemente si formarono le
voglie che producono il desiderio.
Voi per primi scopriste il buono e il meglio;
e con dolcissima foga correte per ottenerli.
Allora il sesso femminile, che prima era
solo necessario, ottenne il nome di amabile
e di bello. Distinguendo il bello dal brutto
voi foste di esempio a Paride, che dovette
formulare il famoso giudizio nella contesa
tra le tre bellezze divine; e solo voi per primi
sentiste il senso della bellezza. Tra tutti i
sapori voi coglieste i più dolci: e quindi
preferiste il vino all’acqua; e si scelse il vino
ottenuto da grappoli esposti maggiormente
al sole e da terre con il terreno ricco di
zolfo.
Così l’uomo si divise: e il signore si distinse
dai plebei nel cui petto troppo a lungo
rimasero intorpidite le insensibili fibre
nervose, incapaci di reagire agli stimoli
soavi del Piacere che pure aveva toccato
anche loro e come i buoi sono ancora
curvati dallo stimolo del bisogno. E furono
42
E tra la servitude e la viltade
E il travaglio e l'inopia a viver nati.
Ebber nome di plebe. Or tu, Signore
Che per mille feltrato invitte reni
Sangue racchiudi, poi che in altra etade
Arte forza o fortuna i padri tuoi
Grandi rendette; poi che il tempo al fine
Lor divisi tesori in te raccolse,
Godi degli ozi tuoi a te dai numi
Concessa parte: e l'umil vulgo in tanto
Dell'industria donato a te ministri
Ora i piaceri tuoi, nato a recarli
Su la mensa regal, non a gioirne.
nati per vivere tra l’avvilimento, il lavoro e la
miseria e per essere chiamati plebe.
Ora signore che racchiudi nelle vene
sangue purificato attraverso mille reni dei
tuoi antenati nobili, poiché in altra età
abilità, violenza o caso resero grandi i tuoi
antenati, poiché il passare del tempo ha
finalmente radunato in te le ricchezze che
prima appartenevano a più famiglie, gioisci
delle tua capacità di sentire piacere, che è il
destino assegnatoti dal cielo; e l’umile volgo
intanto che ha ricevuto in sorte il lavoro, ora
fornisca a te gli strumenti del tuo piacere,
egli che è nato per servirli alla mensa del
nobile, non per goderne.
10 – 04 – 2013
Il testo di Alessandro Verri (1741-1816), apparso come articolo su Il Caffé, è uno dei più
importanti sulla linguistica. Alessandro Verri fu uno dei maggiori esponenti dell’illuminismo
lombardo, fratello del più famoso Pietro Verri e animatore, assieme ad altri 15 personaggi
(più o meno), dell’Accademia dei Pugni, fondata da Pietro Verri nel 1761.
Si riunivano nella casa milanese dei Verri in Via Montenapoleone (il salotto di Milano),
dove leggevano i grandi classici dell’Illuminismo (L'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert, il
Contratto Sociale di Rousseau, Lo spirito delle leggi di Montesquieu etc.).
Leggevano anche testi politici e di economia; discutevano con grande passione dei testi
che leggevano tanto da arrivare alle volte alle mani. Si affrontarono anche tematiche di
tipo giuridico. Sommamente importante fu il testo di Cesare Beccarla Dei delitti e delle
pene (1764), ritenuto come “manifesto dell’illuminismo lombardo”, che venne scritto
rivolgendosi ai governanti, definiti come “depositari della pubblica felicità”.
Parini non partecipa a questa accademia perché vuole anche intervenire nella società in
modo oggettivo, come voleva fare l’illuminismo (però venne accolto già nel 1753
nell'Accademia dei Trasformati che si radunava in casa del conte Giuseppe Maria
43
Imbonati ed era formata dal meglio dei rappresentanti della cultura milanese, dove troverà
amici e protettori).
Alessandro Verri partecipò anche alla fondazione del periodico Il Caffé (1764-66), che fu
un periodico (usciva ogni 10 giorni) dove si parlava di argomenti concreti tipo commercio,
economia, politica, agricoltura, meteorologia e via dicendo.
Quando si parlava di letteratura, si dava la priorità “alle cose sulle parole” come diceva
Pietro Verri. Privilegiavano il contenuto alla forma e fecero un giornalismo più pratico e
meno erudito di quello diffuso ai loro tempi.
Riguardo al nome scelto per la rivista, sia il titolo, sia l'impostazione del periodico erano
nuovi nella tradizione italiana. Il titolo prendeva ad esempio i periodici inglesi di Addison e
di Steele, come The Spectator ("Lo spettatore") o The Tatler ("Il chiacchierone") e serviva
a presentare la rivista come punto di raccolta delle discussioni che si immaginava fossero
avvenute in un caffé, gestito dal greco Demetrio, che era divenuto un luogo d'incontro per
dibattere di argomenti politici e sociali.
L'impostazione era completamente diversa dalle riviste dell'epoca più che altro legate a
interessi eruditi o ad espressione delle varie Accademie.
Non la piazza del Medioevo come sede di cerimonie religiose e di attività politiche ed
economiche, non come la corte del Rinascimento dove si elaboravano quei modelli tipici di
quella società (dal cortigiano, all'amor platonico, alla lingua aulica), non il salotto del primo
Settecento, come quello di Cristina di Svezia nell'ambito del quale sorse l'Arcadia, ma il
caffé illuminista, tempo reale e nello stesso tempo simbolico nel quale esprimere precise
pratiche culturali.
All'intellettuale illuminista che ha ormai trovato una sua collocazione politica al seguito del
sovrano illuminato, il giornale serve a stabilire un contatto agile ed efficace con
quell'opinione pubblica sempre più attiva e con quei gruppi di pressione organizzata
sufficientemente forti per avanzare le proprie istanze.
Per quanto riguarda Il Caffé, bisogna ricordare che esso nasce nel periodo in cui le
botteghe di caffé si sviluppano rapidamente in Inghilterra in seguito alla diffusione dell'uso
della bevanda, alla quale venivano attribuite grandi virtù salutari.
I locali nei quali si serve il caffé segnano la fine della taverna, tra "il tramonto della civiltà
del vino, fatta di deliri, ebbrezze, invasamenti e l'inizio della civiltà del caffé, fatta di
riflessione, meditazione, chiarezza di idee".
44
La caffetteria diventa un luogo di incontro e di discussione, una specie di luogo reale-
ideale dove si possono creare quelle condizioni adatte a far nascere i periodici con la
partecipazione attiva, tramite la discussione, e la partecipazione passiva dei lettori tramite
la lettura.
Alessandro Verri, dei 118 articoli firmati pubblicati su Il Caffé, ne scrisse 31 sui più
disparati argomenti; suo fratello Pietro ben 53; Beccaria solo 6.
Nel 1766 si chiude l’esperienza di questo periodico e i vari componenti del gruppo
divennero poi solo dei funzionari al servizio prima di Maria Teresa d’Austria e poi di
Giuseppe II. Alessandro si trasferì invece a Roma per amore della marchesa Margherita
Sparapani Gentili Boccapadule, dove entrò in contatto con neoclassicismo e il
preromanticismo, che lo influenzarono nella stesura del suo romanzo Le avventure di
Saffo poetessa di Mitilene.
Nel testo antologizzato, Verri parla di linguistica ed entra nella grande tradizione della
letteratura italiana, parlando di contentuti, dell’uso della ragione, della libertà espressiva e
via dicendo; è la svolta della concezione che si aveva della letteratura.
Si afferma un’idea di libertà senza uno sterile ossequio ai grandi del passato.
L’Accademia della Crusca (fondata da Lionardo Salviati alla fine del ‘500 assieme ad un
gruppo di amici) voleva togliere la crusca, ovvero le impurità dal linguaggio italiano e il suo
primo atto fu la pubblicazione di un vocabolario nel 1612, destinato a colti e scrittori.
Ebbe molto successo con ben 5 edizioni (le altre furono del 1623, 1691, 1726-28, 1823);
gli illuministi però lo accusavano di imporre una lingua del passato.
Il testo di Verri è in forma parodia, come se fosse veramente un atto notarile: è diviso per
punti e viene usato un linguaggio giuridico assieme a parole scherzose. Contiene accuse
ai grammatici che pensano solo a quante “c” o “t” ci siano nelle parole. C’è una polemica
contro i principi di autorità in nome di una lingua libera.
Si rivendica il diritto di prendere termine da altre lingue � spirito di cosmopolitismo.
La lingua è sempre disponibile a rinnovarsi, ma sempre sotto la guida della ragione e deve
essere una lingua comprensibile in tutta la penisola e che piaccia anche ai filosofi.
Coloro che si rifanno al passato, prendono in considerazione solo le citazioni dei classici e
quindi Verri li cita in quei passaggi dove dicono ciò che sostiene anche lui, fornendosi così
una bella “pezza d’appoggio” contro i soliti critici moralisti con la puzza sotto il naso ma
legati ai tempi che furono.
Suggerisce pertanto nuove idee sulla lingua in base alle idee dell’illuminismo.
45
11 – 04 – 2013
L’OTTOCENTO
In Italia c’è il governo napoleonico: molti giovani italiani morirono per combattere nelle
guerre napoleoniche lasciando un vuoto generazionale.
Nel 1814-1815 abbiamo il Congresso di Vienna che porterà alla Restaurazione (= per
l’Italia tornano gli Asburgo).
Il nodo principale in letteratura è sempre la questione della lingua.
La scuola pubblica gratuita e obbligatoria e la leva militare contribuiscono a diffondere e
ad uniformare l’idioma, nonostante il policentrismo linguistico.
Nell’Ottocento si avvicendano movimenti importanti come il Romanticismo, che ha
introdotto un nuovo tipo di letteratura: viene esaltato il sentimento individuale, svincolato
da ogni regola del passato. Si afferma un genere nuovo: il romanzo, specialmente nella
sua declinazione del romanzo storico.
La letteratura si lega fortemente alla lotta risorgimentale e il romanzo storico fece sì che la
letteratura fosse espressione della società e dei caratteri politici di una certa nazione.
Si supera quindi il concetto classico di letteratura come espressione di un comune sentire
universalmente condiviso.
46
1827 : data importantissima perché è la prima edizione de I Promessi Sposi di
Alessandro Manzoni, che comportano una svolta epocale nella letteratura italiana. L’idea
di essere compresi da un pubblico più ampio era stata sempre estranea alla letteratura,
fino a quel momento.
L’operazione del Manzoni fu per questo un’operazione degna di attenzione, visto che
disse chiaramente che il suo era un romanzo per tutti.
Nella seconda metà del secolo si diffonde il Verismo, che sente i malesseri del periodo
post-unitario (come il Verga), dove si riprende il policentrismo e il municipalismo linguistico
(dialettale).
Nella narrativa abbiamo visto che è parecchio diffuso il romanzo storico. Per quanto
riguarda la Novella Boccacciana, questa resiste fino alla metà dell’Ottocento ma, a partire
da Manzoni, inizia a svilupparsi la Novella Moderna, che si impose nella seconda metà del
secolo, portando uno stile nuovo e temi nuovi.
Giacomo Leopardi (1798-1837)
Quello di Giacomo Leopardi sembra un sonetto ma non lo è, dato che si compone di 15
versi e non 14 e fa uso degli endecasillabi sciolti. È pertanto riconosciuto come il massimo
innovatore nella poetica italiana.
L’Infinito fa parte del ristretto gruppo di componimenti che Leopardi definisce “Idilli”. L’anno
in cui lo compone è il 1819, anno importante perché Giacomo compì il suo fallimentare
tentativo di fuga da Recanati ed è il periodo della malattia agli occhi che gli impedisce di
scrivere, imponendogli quindi un periodo di riflessione. Da questa riflessione nasce una
nuova idea di poesia, quella “dei moderni”, basata sui sentimenti personali e la libertà di
espressione. Questa “svolta filosofica” riguarda anche la sua adesione al Sensismo
(concetto di noia, teoria del piacere…) che lo lega ancora al ‘700; il fatto però che Leopardi
chiami L’infinito “idillio”, lo mette in linea con il romanticismo, in quanto espressione del
proprio io.
Idillio è un componimento poetico di brevi dimensioni con spiccate caratteristiche
soggettive. Il nome in greco significa letteralmente “piccola scena”, “piccola poesia”, o
“piccolo quadro”. Il mondo rappresentato dagli idilli era un mondo pacifico, agreste,
bucolico, senza guerre, o problemi di sorta.
Il poeta dice che il suoi idilli sono “esperimenti, situazioni, affezioni, avventure storiche
dell'animo”. Si tratta di una visione della natura ma filtrata attraverso l’animo del poeta.
47
Ne L’infinito, Leopardi fa un grande uso dell’enjambement, che gli dà un andamento quasi
prosastico. Le varie parti sono simmetriche tra loro; non scrive un sonetto ma la
“conclusione di un sonetto”. Viene definito dall’autore “un’avventura del proprio animo”:
Ermo: nello “Zibaldone”, Leopardi lo definisce come “aggettivo poeticissimo”, come quelli
che indicano lontananza, soltitudine… La prima parte del componimento è giocata tutta
sulla vista, ma dopo si passa alla dimensione sonora (stormire).
Questo componimento è costruito con un grandissimo rigore compositivo: è costituito da 4
parti che si riflettono tra loro, la 1° con la 4° e la 2° con la 3°, ciascuna composta da 7 versi
e mezzo.
Si inizia con dei periodi brevi e si conclude con periodi altrettanto brevi.
Le sensazioni di grandezza ingenerano in lui una sensazione di inquietudine (si spaura).
L’ultima parte lo fa “riconciliare” con le sue sensazioni.
La prima è una rappresentazione della natura conosciuta, di una natura vera, mentre il
mare dell’ultima parte è una metafora, quindi si tratta di una natura metaforica.
La parte centrale, invece, è dominata dall’io dell’autore che riflette, immagina e prova dei
sentimenti.
La musicalità, nella poesia di Leopardi, è un elemento importantissimo; non
dimentichiamo che nella prima edizione intitolò i suoi componimenti “Canti” in modo del
tutto irrituale.
Il rigore espressivo dell’autore gli fa definire la sua poesia “senza nome” perché
indefinibile, libera da ogni incasellamento e priva di regole.
Il titolo del componimento è tipico del Sensismo; è un idillio ma la natura, il quadretto è
mediato attraverso il filtro dell’io. Pur legato al Sensismo e al Romanticismo, non dimentica
la lezione dei classici, che si rivela nel suo rigore espositivo.
Teoria del piacere in Leopardi: l’uomo non può raggiungere il piacere perché la realtà è
composta da fatti contingenti, ma arriva in aiuto la fantasia che permette all’uomo di
raggiungere il piacere grazie all’immaginazione.
Qui di sotto il foglio originale dove Leopardi scrisse L’Infinito, con tutte le correzioni e le
cancellature.
Scrive un bel po’ male, ma comunque si comprende abbastanza agevolmente, avendo in
mente il testo dell’opera.
49
15 – 04 – 2013
Capitolo XXIV de I Promessi Sposi, di Alessandro Manzoni.
Lucia torna libera dopo la notte passata dell’Innominato, che si converte. In questo
capitolo ci sono tutti i registri espressivi del Manzoni.
C’è una rifondazione della narrativa breve e Giovanni Verga (1840-1922) fu uno dei
maggiori esponenti di questo genere narrativo.
Foscolo scrisse nel 1802 una recensione alle novelle di Luigi Sanvitale (Sulle novelle di
Luigi Sanvitale), dove si espresse nei confronti dello stato della letteratura italiana.
Questo Sanvitale era ancora ancorato allo stile delle novelle boccacciane e questo era per
il Foscolo una grossa pecca. In questa recensione viene fatto notare che alla grande
presenza di romanzi in Inghilterra, Francia e Germania, in Italia vengono opposti le novelle
sul modello di Boccaccio, ovvero scritte nella lingua del ‘300 e con contenuto simile.
In Francia c’era il filone della novella morale, che si riferiva ai mores ovvero ai
comportamenti degli uomini e non avevano solo uno scopo educativo.
In Francia si diffondevano soprattutto tramite i periodici. Ci fu una grande diffusione anche
delle novelle in versi tipo La fuggitiva di Tommaso Grossi, composta in dialetto milanese e
pubblicata nel 1816 (la versione in italiano è del 1817), cosa che indica una vivace
sperimentazione letteraria, accanto alla tendenza del romanticismo di esprimersi
liberamente.
Nel 1827 uscì la prima edizione de I Promessi Sposi, data importantissima perché
rivoluzionò il genere del romanzo e in particolare introdusse il romanzo storico.
Manzoni scelse come personaggi esponenti del ceto piccolo borghese e artigiani e la
lingua che voleva mettere in bocca a questi personaggi doveva essere una lingua viva,
che per lui fu il toscano vivo e attuale.
Manzoni fu anche senatore del Regno d’Italia e responsabile dei progetti per la diffusione
di un idioma che andasse bene per tutti e lui scelse appunto il toscano.
Il filone della narrativa campagnola o rusticane era diffusa soprattutto nel nord Italia (Giulio
Carcano, Caterina Percoto, Ippolito Nievo…) intorno agli anni ’40 del XIX secolo. Questo
tipo di letteratura documentava con grande attenzione la vita delle persone che vivevano
in campagna. Verga fu un grande seguace della Percoto, dalla quale trasse anche
ispirazione.
Si usavano registri patetici e idillici per far apparire questo mondo in modo edulcorato; lo si
rappresentava così a vantaggio del pubblico alto borghese, per sensibilizzarlo verso il
mondo contadino.
50
Dopo il romanzo di Manzoni, anche il racconto si ispira alla sua opera e in questo modo le
cose iniziano a cambiare.
Solo nel periodo post-unitario il genere del racconto breve prende piede, a cominciare
dalla Scapigliatura, che ebbe origine a Milano nel 1860 fino a tutti gli anni ’80. Questa
corrente investì non solo la letteratura, ma anche l’architettura, la scultura, la pittura etc.
Dal punto di vista economico, Milano era all’avanguardia e questo favorì anche un vivace
sviluppo culturale. Gli scrittori reagiscono con grande inquietudine all’unità nazionale, dato
che veniva meno uno dei temi più importanti, ovvero quello dell’unificazione della penisola,
ma anche per via dei numerosi problemi lasciati insoluti dal processo unitario.
Il termine "scapigliatura" venne utilizzato per la prima volta da Cletto Arrighi (pseudonimo
di Carlo Righetti) nel romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862).
Altri importanti esponenti del movimento scapigliato furono Vittorio Imbriani, Giovanni
Camerana, Iginio Ugo Tarchetti, Carlo Dossi, Arrigo Boito ed Emilio Praga; in campo
artistico lo scultore Giuseppe Grandi e i pittori Tranquillo Cremona, Mosè Bianchi, Daniele
Ranzoni; in campo musicale lo stesso Boito (che fu compositore e librettista), Franco
Faccio ,Alfredo Catalani e Amilcare Ponchielli. Anche Giacomo Puccini mosse i suoi primi
passi all'interno del mondo della Scapigliatura.
La loro fu anche una critica allo stato delle cose e un impulso al progresso e al
cambiamento.
Furono degli innovatori nel campo della poesia che ebbero come modello Baudelaire.
Nella narrativa rifiutano Manzoni e i suoi seguaci con le loro edulcorate descrizioni della
campagna. Avevano come modello Foscolo perché era più autobiografico, più interiore.
Perché sono considerati così importanti? Perché guardano modelli europei (e non) che
sono autori di racconti e novelle (Théophile Gautier, Ernst Hoffman, Edgar Allan Poe…).
Anche in Italia la diffusione delle novelle e dei racconti fu soprattutto tramite i periodici;
molto tempo dopo, Pirandello stesso, pubblicò le sue opere sui giornali.
Carlo Dossi (1849-1910)
Contrariamente agli altri scapigliati, tra piuttosto pacato e a modino. Legato il suo nome a
quello di Francesco Crispi, divenne ben presto «Ciambellano del cifrario» al Ministero
degli Esteri, Console a Bogotá nel 1870. Nel 1891, alla caduta di Crispi, fu mandato in
Colombia come console generale e ministro plenipotenziario. Si integrò perfettamente
51
nell’Italia postunitaria. Ciò nonostante fu il più trasgressivo degli scapigliati, poiché fu
quello che sperimentò di più dal punto di vista espressivo.
Disse di aver imparato a scrivere da Tranquillo Cremona, che era un pittore; difatti il suo
modo di esprimersi sembra un quadro impressionista, pastiche linguistico è la definizione
corretta per il suo stile, che incorpora vari registri espressivi, parole derivate dal latino, dal
francese, dal dialetto lombardo, neologismi…
Fu il precursore del pastiche linguistico lombardo e influenzò molto scrittori importanti più
vicini a noi come Carlo Emilio Gadda.
È famoso per due romanzetti brevi, scritti da giovanissimo: L'altrieri. Nero su bianco (1868)
e Vita di Alberto Pisanti (1870).
Sua caratteristica è la disillusione esistenziale, tipica di tutta la Scapigliatura.
In entrambi stravolge la struttura del romanzo, come iniziare col quarto capitolo ne “La vita
di Alberto Pisanti”.
Gocce d’inchiostro è la raccolta dentro la quale sono ricomprese molte sue opere.
Vuole dar voce al mondo dell’infanzia e ha un intento satirico. Il racconto antologizzato
può essere considerato come un anti-idillio in polemica con la tradizione manzoniana che
rappresentava in modo fin troppo idilliaco la vita famigliare.
17 – 04 – 2013
Gli scapigliati avevano la volontà di scandalizzare il lettore e usare pastiche linguistici.
Carlo Dossi fa certamente parte di questa tendenza che influenzò la “linea lombarda” del
secolo successivo con Carlo Emilio Gadda.
Dossi fu autore di una sorta di Zibaldone intitolato Note azzurre, dove definisce se stesso
“geroglifico”. Dice di non scrivere per un ampio pubblico, ma per un pubblico
estremamente ridotto. Dice che la letteratura di coloro che volevano indirizzarsi a quante
più persone possibili, era una letteratura per stolti; lui voleva che i suoi lettori si
sforzassero.
Stessa tendenza delle correnti letterarie successive novecentesche, come Futurismo,
Cubismo e Dadaismo, che usavano un linguaggio più astruso e criptico. Era una
letteratura aristocratica per un pubblico selezionato come anche nel caso del
Decadentismo.
Volevano costruire un linguaggio nuovo; Dosi diceva che la scrittura dovesse essere fatta
di musica e pittura. Nel suo linguaggio c’e una forte componente ludica: per lui molta parte
52
dello scrivere è gioco. Colse aspetti della realtà, come il mondo infantile, che altri autori
non furono in grado di fare con i metodi tradizionali.
Dossi dichiara di essere un seguace della letteratura umoristica, dove la struttura generale
del romanzo, del raccontare, non ha più importanza e difatti lui si diverte a sovvertire le
regole, come iniziare dal capitolo quarto.
Si ispira ad uno scrittore inglese del ‘700 (Laurence Sterne), che Foscolo fece conoscere
in Italia traducendo il romanzo Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l'Italia, scritto
nel 1768, dal quale fu molto influenzato. Scrisse anche Vita e opinioni di Tristram Shandy
(1760-1767).
Nel racconto antologizzato, Dossi usa registri espressivi estremamente variegati, così
come il lessico, mediante il ricorso a latinismi, parole di derivazione straniera, lombardismi,
neologismi, etc.).
Il critico letterario e filologo Dante Isella affrontò il primo studio critico del linguaggio di
Dossi alla fine degli anni ’50; dovette però usare il vocabolario del lombardo (come fece lo
stesso Dossi).
Il tema del brutto è dominante nella Scapigliatura e Dossi, nel racconto antologizzato fa il
verso agli altri scapigliati.
18 – 04 – 2013
Giovanni Verga (1840–1922)
Tra la varie e numerose opere (13 romanzi e diverse decine di novelle) ci interessa in
questo corso la raccolta intitolata Novelle rusticane (1883).
Verga fu il massimo esponente del Verismo.
Il Verismo nasce sotto influenza del clima positivista, quell'assoluta fiducia nella scienza,
nel metodo sperimentale e negli strumenti infallibili della ricerca che si sviluppa e prospera
dal 1830 fino alla fine del XIX secolo. Inoltre, il Verismo si ispira in maniera evidente al
Naturalismo, un movimento letterario diffuso in Francia a metà Ottocento. Per gli scrittori
naturalisti (come Émile Zola, Guy de Maupassant) la letteratura deve fotografare
oggettivamente la realtà sociale e umana, rappresentandone rigorosamente le classi,
comprese quelle più umili, in ogni aspetto anche sgradevole; gli autori devono comportarsi
come gli scienziati analizzando gli aspetti concreti della vita.
Si sviluppa a Milano, la città dalla vita culturale più feconda, in cui si raccolgono intellettuali
di regioni diverse; le opere veriste però rappresentano soprattutto le realtà sociali dell'Italia
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centrale, meridionale e insulare. Così la Sicilia è descritta nelle opere di Giovanni Verga, di
Luigi Capuana e di Federico de Roberto; Napoli in quelle di Matilde Serao e di Salvatore di
Giacomo; la Sardegna nelle opere di Grazia Deledda; Roma nelle poesie di Cesare
Pascarella; la Toscana nelle novelle di Renato Fucini.
Il primo autore italiano a teorizzare il verismo fu Luigi Capuana, il quale teorizzò la "poesia
del vero"; cosi Verga, che dapprima era collocabile nella corrente letteraria tardoromantica
(era stato soprannominato il poeta delle duchesse e aveva un successo notevole)
intraprese la strada del verismo con la raccolta di novelle Vita dei campi e Novelle
rusticane e infine col primo romanzo del "Ciclo dei Vinti", "I Malavoglia", nel 1881. In Verga
e nei veristi, a differenza del naturalismo, convive comunque il desiderio di far conoscere
al lettore il proprio punto di vista sulla vicenda, pur non svelando opinioni personali nella
scrittura.
Nel Verismo, la novella assume un gran rilievo e, assieme alla nuova forma del racconto
breve, ebbe una grande fortuna nella seconda metà del XIX secolo.
La componente dialettale entra con gran forza negli scritti di Verga.
Rappresentavano il mondo popolare e piccolo borghese, in una prospettiva realistica, sulla
falsariga del Manzoni. Il verismo di Manzoni era però un espediente narrativo onnisciente
che ogni tanto entra nel racconto con commenti, spiegazioni etc.
Nel Verismo, invece, si sviluppa l'impersonalità e la mentalità, evitando per quanto
possibile i commenti in favore di una rappresentazione fotografica (Verga fu anche
fotografo).
Il Positivismo, privilegiando un approccio di carattere scientifico, si lega bene con la
sensibilità del Verismo.
La filosofia del Positivismo (nata in Francia), si contrappone all'Idealismo hegeliano che
invece andava per grandi sintesi. Questo può spiegare la fortuna del romanzo nella prima
metà dell'Ottocento, dato che si trattava di una grande sintesi, e quella del racconto breve
che indagava per il particolare, nella seconda metà dello stesso secolo, in concomitanza
dello sviluppo del positivismo.
Catanese di nascita, Verga era profondamente legato alla sua terra. A metà degli anni '70
però, andò a vivere dove c'era più brio e vivacità culturale, ovvero Firenze e soprattutto
Milano, dove rimase dalla fine del 1872 al 1893, pur con diversi e lunghi ritorni a Catania.
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I suoi romanzi del periodo milanese furono profondamente influenzati dalla Scapigliatura.
Questa produzione "scapigliata" ebbe una grandissima fortuna.
A partire dal 1874 Verga abbandona la trattazione del mondo aristocratico e alto borghese
(sebbene non del tutto) e si dedica maggiormente alla descrizione del popolo; fu la
cosiddetta svolta verista di Verga, che fu una svolta anche linguistica, dato che introdusse
diversi termini dialettali. Lui parla di "bozzetti" quando rappresenta questi aspetti, come il
bozzetto Nedda (1874), la novella dove parla di una raccoglitrice di olive che si chiama,
appunto Nedda.
A Firenze intrattenne una proficua relazione con la corrente dei Macchiaioli che, sebbene
corrente pittorica, lo influenzò dal punto di vista letterario.
Libertà è una novella scritta nel 1882, facente parte della raccolta Novelle Rusticane,
uscita l'anno successivo.
Per le vie (1883) fu invece una raccolta che trattava di tematiche cittadine.
Verga parla preferibilmente di novella più che di racconto perché privilegia una maggiore
oggettività, mentre il termine racconto è più indicato quando c'è una maggiore presenza di
un narratore.
Novelle Rusticane è la seconda raccolta più importante di Verga, dove prevale la coralità
piuttosto che il personaggio singolo, che non viene pertanto particolarmente approfondito.
“Vita dei campi” è la sua prima opera verista.
L'opera è una raccolta di otto novelle pubblicata per la prima volta nel 1880. Raccoglie
racconti scritti fra il 1878 (il primo è Rosso Malpelo) e il 1880. Protagonisti sono contadini,
pastori, minatori, uomini della campagna siciliana (con i loro valori arcaici) in cui domina il
latifondo.
Verga, oltre a raccontare le vicende di personaggi di umile estrazione sociale, ne assume
anche il punto di vista, oltre alla prospettiva culturale e linguistica: la voce narrante non è
più quella dell'autore, ma dei protagonisti stessi.
Nella novella “Libertà” tocca il tema risorgimentale, elemento non molto presente nella
Scapigliatura perché nata in un’epoca successiva all’unità d’Italia, ma fu ciò nonostante
influenzata dallo stato di insicurezza dell’Italia postunitaria.
Si parla dell’eccidio di Bronte (1860) ad opera di Nino Bixio. Garibaldi promise terra ai
contadini, ma così non avvenne e questo portò ad una rivolta repressa nel sangue con
l’avvallo dei latifondisti e dalla borghesia cittadina.
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Verga è critico nei confronti dei rivoltosi, per la violenza con cui portarono avanti le loro
istanze, peraltro disorganizzate.
Alla fine ci dice come rivoltosi e galantuomini giunsero poi ad un accordo.
La scansione dei fatti narrati è divisa in 4 momenti: nei primi 3 si parlava dei 3 giorni
precedenti e nel quarto si parla dei 3 anni di processi a carico dei rivoltosi.
• Primo momento: quasi assenti i verbi e presenza di termini ellittici per dare un
quadro quasi impressionista dello svolgersi dei fatti.
• Secondo momento: domenica. Gli attori principali della rivolta, i capi, si muovono
smarriti dopo tutte le morti, non sapendo cosa fare e come spartirsi le terre.
• Terzo momento: arriva il generale Bixio che riporta l’ordine facendo fucilare alcuni
rivoltosi.
• Quarto momento: rappresentazione delle lungaggini processuali assieme al
disorientamento di coloro che parteciparono alla rivolta perché non capivano per
quale motivo fossero stati puniti. Pensavano che “libertà” volesse dire anche terre ai
contadini, ma si resero conto che invece così non fu.