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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Nei decenni seguenti la morte di Dante, Giovanni Boccaccio fu il primo
letterato di alto rango a professare apprezzamento per la sua opera;
un’inclinazione manifestatasi in tempi precoci rispetto ai gusti letterari
mediotrecenteschi, influenzati dal magistero petrarchesco, caratterizzato
da una diversa sensibilità1. Purtuttavia le notizie ed i testi che il
Certaldese ha collazionato, non di rado in tradizione unica, in circa un
quarantennio di fedeltà a Dante – si pensi ai superstiti, quasi tutti
autografi: Vaticano Latino 3199, Toledano 104 6, Riccardiano 1035,
Chigiano L V 176, Chigiano L VI 23, Laurenziano Pluteo XXIX 8 –, non gli
hanno sempre meritato l’encomio della dantologia moderna. Dubbi,
oscillanti tra apocrifia e interpolazione, hanno riguardato le Esposizioni e
il Trattatello; dubbi hanno investito le tre epistole dantesche tramandateci
dal suo Zibaldone laurenziano; dubbi hanno riguardato la postrema
corrispondenza eglogistica tra Dante e Giovanni del Virgilio. Infine,
dubbi hanno accompagnato (e continuano ad accompagnare) un celebre testo
di interesse dantesco, l’epistola del monaco Ilaro.
In anni recenti, gli studiosi più autorevoli hanno sempre convenuto con
l’obliterare certi eccessi di iperscetticismo antiboccacciano, restituendo
alla sua opera il pieno riconoscimento2. L’unico testo ancora sub iudice è
l’epistola di Ilaro: probabilmente perché intorno ad essa è la dantologia
maggiore ad essersi divisa; autori della levatura di Giuseppe Billanovich,
riprendendo un’ipotesi degli ottocenteschi Adolfo Bartoli e Francesco
Macrì-Leone, ne hanno sostenuto la falsità, benintesa quale frutto di
1 La bibliografia su Boccaccio dantista è sterminata, ai presenti fini si tenganopresenti particolarmente: Giovanni Boccaccio editore e interprete di Dante, a cura dellaSocietà Dantesca Italiana, Firenze, Olschki, 1979; G. PADOAN, Il Boccaccio «fedele» diDante, in ID., Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, ivi, Olschki, 1978, pp. 229-46.Utile la voce Boccaccio, Giovanni curata da Padoan per l’Enciclopedia Dantesca, 6 voll.,Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970-’78 (= ED), I, pp. 645-50.2 Altro discorso è il merito della singola notizia o lezione a testo, profilisotto cui il grande novelliere ha rivelato sovente amplificazioni,fraintendimenti ed errori.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
esercizio retorico, non finalizzato alla frode3, condizionando gli studi
successivi e suscitando adesioni ripetute4. La tesi di Billanovich è stata
recentemente ripresa e modificata sotto il profilo della paternità del
testo, con numerose ed importanti innovazioni, da uno studioso del valore
di Saverio Bellomo5. Principale assertore dell’autenticità del testo è,
sulla scia di Vittore Branca, un altro dantista di chiara fama, Giorgio
3 G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla lettera di Ilaro al Trattatello in laude diDante, in ID., Prime ricerche dantesche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947;ID., La leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla lettera di Ilaro al Trattatello in laude di Dante, «StudiDanteschi», XXXVIII, 1949, pp. 45-144, da cui si cita.4 A titolo campionario si danno i seguenti casi: «Al Boccaccio sono staterestituite da ultimo, e in via definitiva, l’epistola dettata dalla pietas perDante all’immaginario frate Ilaro»; F. DI BENEDETTO, Considerazioni sullo ZibaldoneLaurenziano del Boccaccio e restauro testuale della prima redazione del «Faunus», «Italia Medioevalee Umanistica», XIV, 1971, pp. 91-128, p. 92; «Billanovich has brilliantlyexplained how Boccaccio fabricated his “leggenda dantesca”. So closely bound toantiquity by both his learning and his friendship with Petrarch, Boccaccio drewfrom ancient patterns an imaginative explanation of some facts concerning Dante’slife and works which he could not otherwise account for [...]. Thus he createdhis own myth of Dante, inflicting upon posterity the arduous task ofdiscriminating history from legendary invention»; L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio andthe Epistle to Cangrande, in ID., The Trecento Commentaries on the «Divina Commedia» and the Epistleto Cangrande, Oxford, Clarendon Press, 1974, pp. 105-23, pp. 111-2; «Diversa è larelazione tra l’una e l’altra delle due esercitazioni scolastiche scritte dallamano del Boccaccio, ma che si è stentato ad attribuirgli, la Lettera di Ilaro e l’Elegiadi Costanza [...]. Contro l’attribuzione della Lettera al Boccaccio si è schieratoil Padoan [...]. Ci sembra, quella del Padoan, “voce destinata a rimanereisolata”, come la definisce lui stesso, ma in forma interrogativa [...]. Ora laLettera di Ilaro, secondo il Billanovich fu composta probabilmente tra il 1345 eil 1346 a Ravenna: proprio come il volgarizzamento della quarta decade [diLivio]»; M. T. CASELLA, Tra Boccaccio e Petrarca. I. volgarizzamenti di Tito Livio e di Valerio Massimo,Roma-Padova, Antenore, 1982, pp. 289-90, n. 3. Invece è l’Elegia di Costanza che si ètentato senza seguito di espungere dal corpus boccacciano, così come molto incertaè oggi l’attribuzione del volgarizzamento della quarta Deca di Livio e senzaseguito alcuno quella del volgarizzamento di Valerio Massimo, per cui cfr. L.PETRUCCI, rec. a EAD., «Rassegna della Letteratura Italiana», II, 1984, pp. 367-87;E. LIPPI, rec. a EAD., «Studi sul Boccaccio», XIV, 1983-‘84, pp. 352-74; G.TANTURLI, Volgarizzamenti e ricostruzione dell’antico. I casi della terza e quarta deca di Tito Livio e di ValerioMassimo. La parte del Boccaccio (a proposito di un’attribuzione), «Studi Medievali», XXVII, 1986,pp. 811-88; V. BRANCA, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, Firenze, Sansoni, 19973; G.POMARO, Ancora ma non solo sul volgarizzamento di Valerio Massimo, «Italia Medioevale eUmanistica», XXXVI, 1993, pp. 199-232. Contrariamente a quanto asserisce Casella,inoltre, per Billanovich – in un passaggio tutto basato su logica apparente –l’epistola di Ilaro non è del 1345-‘46, ma si colloca tra la prima e la secondaepistola a Zanobi, cioè nel 1348-‘49: «Nella [prima] lettera del 1348 il
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Padoan6. Nella convinzione che sul piano biografico dantesco, scarno ed
incerto, l’epistola di Ilaro rappresenti una tessera di grande rilevanza,
in questa nota si procederà ad una prima sistemazione dell’ormai ponderosa
bibliografia sull’argomento.
L’epistola di Ilaro ci è conservata dal f. 67r dello Zibaldone, oggi
riconosciuto integralmente autografo del Boccaccio, noto come Laurenziano
Pluteo XXIX 87. Tale manoscritto è stato oggetto di studi fin dalla prima
metà dell’800, con Sebastiano Ciampi (1827) e Stefano Audin (1840), ma è
Boccaccio si era rivolto a Zanobi col “voi”. Invece nella seconda lettera usò ilclassico “tu”: non perché nei mesi seguenti fosse avanzato nella familiarità conZanobi, che doveva conoscere fino da quando egli aveva frequentato ragazzo lascuola di grammatica del padre di Zanobi, ma perché ora accettava quellainnovazione nella tecnica epistolare che i discepoli del Petrarca accolsero allaprima lezione dalle lettere del maestro [...]. Ilaro si era rivolto ad Uguccionecol “voi”. Perciò quel dettato è anteriore a questa seconda lettera a Zanobi: chefu scritta poco dopo il [secondo] rientro a Firenze; e dunque fu combinato dalBoccaccio ancora in Romagna»; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., pp. 120-1, n.3. Ancora: «Il Billanovich – con argomenti di peso decisivo – considera lalettera come un esercizio retorico del Boccaccio biografo di Dante, scritto forsepoco dopo l’epistola Mavortis miles, diretta al Petrarca, nel 1339»; V. ZACCARIA,Presenze di Dante nelle opere latine del Boccaccio, in Miscellanea di studi danteschi in memoria di SilvioPasquazi, 2 voll., Napoli, Federico & Ardia, 1993, II, pp. 893-903, p. 894. Siosserva, oltre il palese errore nel riportare la cronologia dell’epistola secondoBillanovich, che la Mavortis miles era una mera esercitazione retorica e non fucerto inviata al destinatario; giustamente Billanovich parla della: «lettera che[Boccaccio] aveva immaginato di indirizzare nel 1339 al Petrarca [...], il giovanedottissimo che vive[va] al di là delle Alpi»; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca,cit., p. 87.5 Fondamentale ai fini del presente lavoro, l’innovativo contributo di S. BELLOMO,Il sorriso di Ilaro e la prima redazione in latino della «Commedia», «Studi sul Bocaccio», XXXII,2004, pp. 201-35.6 Di Padoan da tener presenti: la voce Ilaro curata per l’ED; ID., Appunti sulla genesi ela pubblicazione della «Commedia», «Lettere Italianze», XXIX, 1977, pp. 401-15; ID.,Giovanni Boccaccio e la rinascita dello stile bucolico, in Giovanni Boccaccio editore e interprete di Dante,cit., pp. 25-72; ID., Il progetto di poema paradisiaco: «Vita Nuova», XLII (e l’Epistola di Ilaro), inID., Il lungo cammino del poema sacro, Firenze, Olschki, 1993, pp. 5-23. Padoan simuove entro un percorso già abbozzato da Branca fin dal 1958: «Non ho preso inconsiderazione la proposta ragionatissima del Billanovich [...] di vedere anchenella famosa epistola di Frate Ilario un’esercitazione letteraria del giovaneBoccaccio [...]; varie questioni restano infatti senza risposta: il tipo di prosalatina è diverso e meno retoricamente sostenuto, la falsificazione apparegratuita e senza una giustificazione plausibile, vi sono vari erroridifficilmente spiegabili; e soprattutto sembra inesplicabile un passo se sitratta di una trascrizione d’autore»; V. BRANCA, Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio.I. Un primo elenco dei codici e tre studi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958, p.227 e n..
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con Henri Hauvette (1894) che inizia la serie dei contributi scientifici,
culminata negli anni ’70 del secolo scorso con acquisizioni fondamentali
grazie a Filippo Di Benedetto e, per non marginali aggiunte, a Giorgio
Padoan, concludendosi circa un ventennio dopo con gli studi di Patrizia
Rafti e con quello collettivo di Stefano Zamponi, Martina Pantarotto ed
Antonella Tomiello8.
Lo Zibaldone laurenziano pone notevoli problemi a chi ne analizzi la
struttura, in quanto non solo ha risentito degli interventi di tardi
rilegatori che ne hanno ricomposto con mano non sempre felice la serie che
oggi conosciamo, ma perché risente di una complessa stratigrafia testuale
e di una provvisorietà materiale dei fascicoli risalenti allo stesso
7 Dal lontano A. M. BANDINI, Catalogus codicum Latinorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae, 5voll., Firenze, 1774-‘78, II, p. 28, la bibliografia sullo Zibaldone laurenzianosi è fatta ormai ingente, al punto da rendersi necessari appositi repertori, cuisi rimanda per esaurienti riferimenti: G. AUZZAS, I codici autografi. Elenco e bibliografia,«Studi sul Boccaccio», VII, 1973, pp. 1-21; Bibliografia degli Zibaldoni di Boccaccio (1976-1995), dati raccolti da C. Aresti et al., elaborati da F. Bianchi e A. MagiSpinetti, Roma, Viella, 1996. Del prezioso manoscritto esiste una riproduzione infac-simile a cura di G. BIAGI, Lo Zibaldone boccaccesco mediceo-laurenziano Plut. XXIX 8, Firenze,Olschki, 1915, la cui Introduzione, con l’elenco analitico dei testi per la solasezione allora ritenuta autografa (ff. 45-77), è ristampata in ID., Lo Zibaldoneboccaccesco della Medicea Laurenziana, «La Bibliofilia», XVII, 1915, pp. 45-53. Unfondamentale passo avanti per il riconoscimento dell’integrale autografia e pernumerosi aspetti paleografici e filologici è opera di F. DI BENEDETTO, Considerazioni,cit., e Mostra di manoscritti, documenti e edizioni. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana 22 maggio-31 agosto 1975, a cura del Comitato Promotore, 2 voll., Certaldo, Comitato PromotoreVI centenario, 1975, I, pp. 117-22, schede nn. 100 e 101 curate dallo stesso DiBenedetto; cfr. altresì A. DE LA MARE, The Handwriting of Italian humanists, Oxford,University Press for the Association internationale de bibliophilie, 1973, vol.I, t. 1, pp. 17-29. Infine, contributi di grande valore si sono susseguiti adopera di G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit.; V. BROWN, Boccaccio in Naples: the beneventanliturgical palimpsest of the Laurentian autograph, «Italia Medioevale e Umanistica», XXXIV,1991, pp. 41-126; P. RAFTI, «Lumina dictionum». Interpunzione e prosa in Giovanni Boccaccio. I,«Studi sul Boccaccio», XXIV, 1996, pp. 59-121, e EAD., «Lumina dictionum». Interpunzionee prosa in Giovanni Boccaccio. II, ivi, XXV, 1997, pp. 239-67; S. ZAMPONI, M. PANTAROTTO, A.TOMIELLO, Stratigrafia dello Zibaldone e della Miscellanea Laurenziani, in Gli Zibaldoni di Boccaccio.Memoria, scrittura, riscrittura, a cura di M. Picone e C. Cazalé Bérard, Firenze, Cesati,1998, pp. 181-258. Utile messa a punto H. W. STOREY, Contesti e culture testuali della letteradi frate Ilaro, «Dante Studies with the Annual Report of the Dante Society», CXXIV,2006, pp. 57-76.8 Quest’ultimo studio, per molti aspetti definitivo, mostra tuttavia palesiincongruenze proprio sul punto di maggior interesse ai fini del presente studio,per cui si daranno i debiti elementi nel seguito.
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Boccaccio. La storia di questo manoscritto è strettamente legata ad un
altro autografo boccacciano, la Miscellanea Laurenziana XXXIII 31:
Boccaccio ricavò entrambi da un artigianale adattamento di un antico
codice liturgico palinsesto, contenente un graduale in grafia beneventana
della seconda metà del XIII secolo, di cui il Certaldese aveva acquistato
a Napoli, intorno al 1330-‘35, otto fascicoli non consecutivi9.
L’originaria scrittura fu accuratamente erasa e il codice smembrato in
vario modo per servire ai fini del giovane letterato10. La struttura del
codice è resa ancor più complessa dal ricorrere di più livelli di
scrittura sovrapposti alla originale beneventana11.
Sulla scorta del più recente e completo studio dello Zibaldone,
procediamo ad un essenziale inquadramento delle prime due sezioni, le
quali interessano limitatamente ai presenti fini. Il primo gruppo di
fogli, numerati 2r-25v12, costituiti da tre quaterni palinsesti, con
scrittura a due colonne, contiene un’opera di Andalò del Negro (astronomo
e geografo genovese [1260-1334]), il Tractatus de spere materialis, e la prima
9 Tali fascicoli costituiscono gli attuali ff. 2-25 e 46-77 dello Zibaldone, e iff. 1-45 e 66-73 della Miscellanea.10 «Before writing over them [scil. i fogli del graduale], Boccaccio first cut intwo [...] the original bifolia of a codex which, because of its large size andspacious margins, must have served as a choir book. He then folded in two most ofthe separated leaves to make new bifolia; in approximately a dozen instances,however, he cut into two [...] the already separated leaves»; V. BROWN, Boccaccio inNaples, cit., p. 44.11 «Non tutti i fogli provenienti da quel codice erano destinati in un primo tempoad accogliere i testi che vi troviamo ora. In molti di essi, infatti, è ancoravisibile una rigatura verticale su quattro linee delimitanti due colonne anchenelle pagine dove il testo attuale è a una sola colonna centrale o a piena pagina[...] si notano delle rasure che hanno fatto sparire – talvolta completamente –alcune parole, la cui posizione fa pensare a titoli sovrastanti un testo dispostoappunto su due colonne [si tratta dei Facta et dicta di Valerio Massimo, ben noti alBoccaccio a partire proprio dal periodo napoletano] nel f. 56r dello Zibaldone,il più tormentato di questi palinsesti, si sono stratificate dunque trescritture: quella del primitivo testo liturgico, quella del testo su due colonne,quella del[la corrispondenza con Checco Rossi]; anzi [...] in alcuni punti si hala sovrapposizione di una quarta scrittura, poiché il nostro apportò qualchecorrezione al suo carme»; F. DI BENEDETTO, Considerazioni, cit., pp. 93-4 e n. 2.12 «Il foglio oggi segnato 1 è un antico foglio di guardia proveniente da unomeliario del sec. XII. Sul recto v’è un indice parziale scritto nel sec. XVII»;S. ZAMPONI et al., Stratigrafia, cit., p. 200 e n. 84.
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parte di una seconda, il Tractatus theorice planetarum. Sulle ragioni
dell’interruzione Padoan ha ritenuto, su base codicologica, che la
mancanza fosse imputabile alla caduta di un fascicolo, visto che una mera
caduta di interesse per l’opera del maestro genovese, di cui Boccaccio
intese le postreme lezioni a Napoli (Andalò vi morì nel 1334), mal si
concilierebbe con le sicure riprese in opere più tarde quali la Genealogia
e le Esposizioni. Tuttavia l’analisi materiale del codice rivela che se
anche vi fu caduta di un fascicolo, esso sarebbe stato insufficiente a
recepire l’intera parte residua13. Al di là di minime divergenze, non vi è
comunque dubbio nel datare le trascrizioni in esame al primo periodo
napoletano, convenzionalmente 1334-‘35.
Il successivo gruppo, ff. 26r-45v, deriva dalla giustapposizione di un
corpus di fogli estranei al graduale beneventano e si compone di 2 quaterni
e 4 fogli singoli, non palinsesti, con scrittura a piena pagina. Questa
sezione dello Zibaldone è nel contempo la più antica (ff. 26r-45r), in
quanto contiene testi ricopiati da Boccaccio quando era ancora a Firenze e
vi frequentava la scuola di Giovanni Mazzuoli da Strada, padre del più
noto Zanobi (1326-‘27 circa)14; e la più tarda (f. 45v), visto che
Boccaccio vi ricopiò tre alfabeti e l’epigrafe greca scoperta a S. Felice
ad Ema (1367). Per la terza e ultima parte lo scandaglio analitico sarà
spinto più a fondo, essendovi collocato il testo di principale interesse
ai nostri fini15.
13 «The corollary to this hypothesis would suggest that Boccaccio did not copy theremainder of the Tractatus theorice planetarum onto now missing portions of G [scil.l’originale codice liturgico], even though he used those sections in the Genealogiadeorum and Esposizioni. While the catchword at the bottom of [Zib. 25v] points tothe continuation of the text, the leaves now lacking in the eight quires wouldnot be sufficient to contain the rest. Nor does the continuity of the palimpsestliturgical text contained in the first three quires permit addition [...]. DiBenedetto [...] estimates that two more quaternions would have been necessary»;V. BROWN, Boccaccio in Naples, cit., p. 120 e n. 84.14 I testi sono: il Liber de dictis philosophorum, l’Antiquarum hystoriarum libellus, laSybillinorum verborum interpretatio, l’Epistula Alexandri ad Aristotilem.15 Un esaustivo elenco dei testi contenuti nello Zibaldone è in F. DI BENEDETTO,Presenza di testi minori negli Zibaldoni, in Gli Zibaldoni di Boccaccio, cit., pp. 13-28, alle pp.26-8.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Seguendo le risultanze codicologiche e paleografiche disponibili, si
distingueranno tre sezioni, per ognuna delle quali sarà dato un essenziale
corredo di note esplicative. Ciascun riquadro, secondo la sequenza dei
fogli, fornisce notizie sulla mise en pàge, i principali testi contenuti e
la datazione. La datazione, da intendersi convenzionale, è riportata in
grassetto quando è pressoché certa per elementi interni al testo; è
sottolineata quando si basa su ipotesi proposte dagli autori dello studio
collettivo (Zamponi et al.); senza alcuna evidenza ove la data, sebbene non
certa, sia comunemente accolta.
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Ff. 46r-59v (1 quaterno, 2 fogli singoli, 1 duerno)
Sezione N.ro f. Mise en pàge Testi principali Datazione
1. 46r due colonne Liber sacrificiorum 1339
2. 46v-50r piena pagina Ecloga di GdV al Mussato
1339/1345-‘48
3. 50v due colonne Epist. Amico amicus a Zanobi
1348
4. 51r-55v due colonne Epistt., Dissuas. ad Ruf., Catilin. I
1339
4.a. 51rA Crepor celsitudinis
133916
4.b. 51rA-B/51vA Nereus amphytritibus17
1339
4.c. 51vA-B/52rA-B Mavortis miles
1339
5. 56r due colonne Corrisp. con Checco Rossi
1348
6. 56v-59r piena pagina Faunus (prima redazione)
1348
7. 59v due colonne Notizia di Livio, versi vari
1339
Note
gli schemi di rigatura presentano minime variazioni tra i principali
blocchi; in particolare per i gruppi 2. e 6. essa è leggermente diversa per
altezza dello specchio rigato e, quindi, per numero di linee, ma nella
supposta assenza di elementi storico-filologici contrastanti se ne propone
(Zamponi et al.) la coevità (ma cfr. infra);
per 4. si osservano continue minime variazioni nello specchio di scrittura
e, quindi, nel numero di linee;
16 «Nonas aprelis III, anno vero Incarnationis Verbi divini MCCCXXXVIIII».17 Erronea la dicitura, forse dovuta a refuso, di Nereus amphytribus presente nellostudio collettivo di Zamponi et al. (p. 213 e n. 116).
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
vi è stretta continuità grafica da f. 51r a f. 55v, in particolare per la
mise en pàge su due colonne e l’uso della maiuscola;
vi è solidarietà codicologica tra i ff. 2-25 e ff. 54-59 di Zib., con i ff.
118 di Misc. (collocati intorno al 1339), in virtù della complessiva
appartenenza ai primi tre fascicoli del graduale Beneventano (numerati G1,
G2 e G3 da Virginia Brown);
vi è stretta analogia tra f. 46r di Zib. e i ff. 46v-73v di Misc. (collocati
entro il 1339);
il f. 52rB fa eccezione quanto all’uso della maiuscola del suo gruppo di
appartenenza, in quanto non presenta la doppia maiuscola iniziale;
il f. 59r presenta caratteri misti: testo su due colonne, come il gruppo di
appartenenza (ff. 54-59), ma uso della maiuscola come nel gruppo successivo
(ff. 60r-66v);
il f. 59v è legato alle Satire di Persio per ragioni tematiche, codicologiche
e grafiche, con anche glosse marginali al testo del tutto analoghe ai ff.
46v-73v di Misc. (1339).
Come si può osservare la struttura del codice è quanto mai composita
per tipologia di testi, distribuzione cronologica, mise en pàge, soluzioni
grafiche. L’unica datazione dubbia proposta riguarda l’egloga di Giovanni
del Virgilio ad Albertino Mussato. Pur in assenza di elementi cogenti, la
si accetterebbe di buon grado, riportando il testo al periodo romagnolo di
Boccaccio (1345-‘48 circa), se alcuni elementi non avvicinassero
sensibilmente l’egloga a Mussato al Teseida (composto nel 1340 circa), in
particolare per l’aggettivo atteo: Invero non molto comune, che nell’egloga al Mussato, v. 15, compare chiosato
interlinearmene (achea «idest atteniensi») e nel Teseida è spiegato con maggior
respiro (attei «cioè atteniensi, perciò che la contrada nella quale è Attene si
chiama Attica»)18.
E per il ricorrere del nome proprio Alcone (Tes., VI XIX 4), che, presente
in Ovidio e Virgilio con modalità che destano forti perplessità su una
18 G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., p. 30.9
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
ripresa diretta, è invece presente con connotati particolarmente degni di
rilievo proprio:
[Nell’]egloga al Mussato, v. 210, dove a quel nome [...] è apposta la seguente
chiosa: “probus grecus fuit [...] Alcon dicitur, quia viri probissimi nomen
habet”. Nel Teseida Alcone è appunto tra i più fedeli compagni del re Peleo [...]
(Tes., VI XIX 4)19.
Inoltre, come segnalato da Di Benedetto e Padoan, l’attuale gruppo di
ff. 56-59 è stato oggetto di errata collocazione da parte di un tardo
rilegatore; esso risulta dotato di caratteri distintivi propri, sicché
risulta ancor meno cogente l’aggancio proposto da Zamponi et al. con i ff.
46v-50r sulla base dello schema di rigatura (del resto non perfettamente
coincidente)20. Infine, e a titolo definitivo, l’egloga a Mussato, come si
mostrerà nel seguito, era già nota a Boccaccio all’altezza delle Rime
napoletane e del Filocolo (1338 circa).
In conclusione, una collocazione dell’egloga mussatiana al periodo
romagnolo principalmente sulla base di un simile schema di rigatura non è
minimamente provata, risultando preferibile apparentarla al gruppo cui il
testo risulta codicologicamente legato: i ff. 46v-50r sono infatti
strettamente solidali ai ff. 51-53 di Zib. ed ai ff. 66-73 di Misc., gli
uni e gli altri datati con sicurezza al 1339, tutti contenenti (fino a f.
55v di Zib. e, a ritroso, fino a f. 46 di Misc.) testi del tardo periodo
napoletano, e tutti facenti parte del medesimo fascicolo del graduale
numerato G8 da Virginia Brown: è quindi evidente che, con la nota
19 Ivi, p. 31, n. 24.20 «Chi riordinò infine lo Zibaldone, nel cercare quale potesse essere il giustoposto dei fogli ora 56-59 [...] si avvide [...] che essi appartenevano al gruppodi fogli dello Zibaldone ora numerati 46-55 [...]. L’inserto tuttavia spicca perla propria autonoma individualità, distaccandosi chiaramente dalle trascrizionidei fogli precedenti e seguenti sia per le caratteristiche grafiche sia per gliampi margini lasciati in bianco [...] concorda con me [Di Benedetto] nel ritenerefrutto di errata collocazione l’attuale posizione dei ff. 56-59»; ivi, p. 47 e n.88.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
eccezione di f. 50v21, il blocco di ff. 46-55 sia saldamente ancorato a
quel termine cronologico. Si aggiunga che, a detta degli stessi autori,
pur tra continue variazioni grafiche incomprimibili in Boccaccio, sono
numerosi anche i «fatti grafici» che consentono di apparentare i fogli
contenenti l’egloga a Mussato con gli altri fogli del periodo napoletano:
frequenza dei nessi di curve contrapposte, frequenza e forma di 2 = r, il
modulo di scrittura, la forma della s sinuosa e la forma della a onciale22.
Ff. 60-72 (4 fogli, 1 quaterno, 1 foglio).
Sezione N.ro f. Mise en pàge Testi principali
Datazione
1. 60r-63r piena pagina Elegia, Alleg., Ep. a Fed., Epp.
Dant. 1339
2. 63v-64v due colonne Satira di Pier delle Vigne
1339
3. 65r-v piena pagina Sacre famis
133923-‘40/’41
4. 66r-v piena pagina Razzìa di Gadres
1340-‘41/’42
5. 67r piena pagina Epistola di Ilaro
1340-‘41/’42
6. 67v-72v piena pagina Corrisp. Dante - G. del Virg.
1340-‘41/’42
21 «L’epistola Quam pium, trascritta al f. 50v dello Zibaldone, è contenuta in unfascicolo che è stato utilizzato in tempi diversi [...] con buona probabilitàcostituisce l’ultima sezione del manoscritto [...] fatta eccezione per [...] Zib.45v»; S. ZAMPONI et al., Stratigrafia, cit., p. 210, n. 104.22 Le informazioni sono tratte da p. 254 dello studio collettivo di Zamponi et al..23 «Iulii kalendas IIII».
11
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Note
è ribadita la stretta solidarietà di 66r-v con il gruppo di
appartenenza (ff. 60-66);
il f. 60r-v fa eccezione alla mise en pàge del suo gruppo, essendo il
testo disposto su due colonne.
In questa sezione dovremo discutere più di una proposta avanzata nello
studio collettivo. Osserviamo in primo luogo che, sebbene si ribadisca più
volte la stretta solidarietà del gruppo 60r-66v, per 3. (e di conseguenza
per 4.) si propone uno slittamento di circa 2 anni rispetto alle tre
epistole antiquiores di Boccaccio, con ciò portandoci al postremo periodo
napoletano, principalmente per la presenza di un modulo leggermente più
piccolo e di nessi di curve contrapposte un po’ meno frequenti (68%
rispetto a 96%) rispetto ai ff. 51r-52r. Tuttavia, la presenza in
Boccaccio di un noto oltranzismo multigrafico, entro ben distinti moduli
cronologici (si veda, tra i molti casi ordinari, quello monstre di Misc.
27v-38r, risolto ben diversamente dagli autori24) e persino entro singoli
testi25, avrebbe dovuto indurre più cautela su tali dislocazioni, non
24 In modo condivisibile si afferma: «[i ff. 27v-38r di Misc.] rispetto ai testitrascritti in precedenza sono stati vergati in una scrittura piuttosto anomala[...] Si assiste in questo caso a una scelta stilistica consapevole; non èaltrimenti giustificabile un cambio grafico così repentino ed isolato rispetto adaltre scritture dei due codici. [Si potrebbe ipotizzare] più semplicemente lasperimentazione di nuove espressioni grafiche, indotte da un exemplar diparticolare pregio [...]. Un terminus ante quem per datare questa sezione dellaMiscellanea è dato dall’epistola Sacre famis [...] composta secondo Padoan intornoal 1339 [ma che] è stata però trascritta in un momento successivo»; S. ZAMPONI etal., Stratigrafia, cit., p. 215. Osservato che la composizione della Sacre famis è del28 giugno 1339 per attestazione autografa di Boccaccio e non per ipotesi di Padoan, ilpunto debole emerge quando si propone di posticipare di anni, all’estremo periodonapoletano, i testi inclusi nei ff. 65r-66v di Zib. e, dopo di essi, di portare isuccessivi al periodo fiorentino appigliandosi a differenze grafiche molto menopronunciate che quelle rilevate (e obliterate…) per Misc. 27v-38r.25 È il caso della Crepor celsitudinis, dove le lettere maiuscole cambiano di modulotra prima e seconda parte: «L’esame del testo e della sua articolazione internamostra chiaramente la diversità tra la prima e l’ultima parte»; P. RAFTI, «Luminadictionum», cit., p. 77; cambiamenti di modulo della lettera evidenti anche nellaNereus amphytritibus lymphis, in coincidenza con il cambio di colonna da A a B. Ma icasi cosiddetti ordinari sono numerosi, come nella Dissuasiones Valerii ad Rufinum (ff.
12
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
solo; la percentuale dei citati nessi è un termine fragile ai fini di una
periodizzazione minuta, essendo instabile. Al riguardo, la sola cesura
cronologica significativa è incentrata sul cardine convenzionale del 1339:
prima di allora la percentuale dei nessi si aggira intorno al 30%,
dopodiché oscilla dal 70% al 90%; per paradosso, il 68% di f. 65r-v
potrebbe farlo apparentare a sezioni datate 1338-‘39 o 1345-‘48. Anche il
modulo di scrittura purtroppo è soggetto in Boccaccio a frequenti
variazioni, sicché nuovamente si potrebbero citare casi di modulo piccolo
o molto piccolo per testi sicuramente datati agli anni 1338-‘39 (f. 46r di
Zib. e ff. 46v-73v di Misc.). Ragionevolmente si tratta di parametri non
dirimenti di per sé, quanto piuttosto da associare ad altri elementi
affinché acquisiscano quella pregnanza che, di per sé soli, non hanno. Ma
non è tutto. Lo spostamento di un biennio o quasi della Sacre famis, in
assenza di elementi probanti, risulta tanto più labile vista la forte
solidarietà con testi omologhi sicuramente datati al 1339, nonché di una
data esplicita del testo stesso (28 giugno 1339). Inoltre è infondato
attribuire ad una data così artificialmente costruita (1341 circa) l’onere
di fungere da terminus post quem per i testi immediatamente successivi (ff.
67-72), in modo da doverli dislocare al periodo fiorentino a dispetto di
palesi disergie nei parametri grafici. Nel periodo fiorentino, infatti,
Boccaccio sviluppa per la prima volta una serie molto riconoscibile di novità
grafiche, ben evidenziate nello studio collettivo: tratti di frego con
funzione esornativa sulle aste ascendenti (cfr. ff. 73r-74v, sicuramente
fiorentini); piccolo svolazzo discendente dal tratto curvo della h;
maggior frequenza dei nessi e delle elisioni; uso della a priva di tratto
superiore anche in posizione non contestuale, con comparsa di un allografo
dal tratto sinistro tondeggiante, che richiama la corrispondente forma
corsiva; maggior frequenza delle unioni e legature fra tratti di lettere
contigue; altre variazioni sulla s, sia capitale che corsiva, e sulla r;
complessivamente una maggior attenzione verso una migliore leggibilità.
53r-54r) e nella Oratio prima in Catilinam (ff. 54rB-55v).13
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Ebbene, tali variazioni sono in larga misura assenti nei ff. 67-72,
rendendone metodologicamente poco comprensibile la collocazione al periodo
fiorentino. Infine, e a titolo definitivo, l’analisi dell’uso delle
maiuscole mostra un blocco saldamente omogeneo per i ff. 46v-72v, in virtù
di una caratteristica digrafia, perfettamente consonante con i ff. 17r-38v
di Misc. (datati guarda caso intorno al 1339). Nei testi del periodo
fiorentino-romagnolo (1342-‘48), invece, l’uso della maiuscola si
contraddistingue per elementi caratteristici affatto diversi, in virtù di
una netta rarefazione degli allografi e di una progressiva normalizzazione
grafico-esornativa26.
In conclusione, la proposta di spostare a Firenze il gruppo di ff. 67-
72 si rivela infondata. Peraltro, con motivazioni differenti da quelle
segnalate nello studio collettivo, è plausibile un lieve spostamento in
avanti della trascrizione della Sacre famis – e dei testi immediatamente
successivi (ff. 65-66) – rispetto alle epistole antiquiores del 1339, in
virtù non tanto dei caratteri di cura formale leggermente diversi tra i
gruppi di ff. 51-55 e 60-66 (risalenti presumibilmente all’influenza degli
archetipi27), quanto per un’imitazione ora meno pedissequa del modello
epistolare dantesco (Billanovich) e per una leggera modificazione della
morfologia interpuntiva (Rafti)28. Pertanto, contenere lo spostamento
26 Scrivono ragionevolmente gli stessi autori: «Quanto tempo intercorra [tra leepistole antiquiores e la Sacre famis] non si può oggettivamente stabilire: l’analisipaleografica non rivela però profonde fratture fra i due momenti»; S. ZAMPONI et al.,Stratigrafia, cit., p. 215.27 Tale diversità è riconducibile più che ad una distanza di tempo di anni,all’influenza dell’exemplar, come mostrato da Patrizia Rafti al termine della suaineccepibile analisi: «Se il copista è lo stesso per tutti i testi, se i testihanno in comune la natura prosastica e addirittura talvolta il genere testuale[...], se il periodo di trascrizione è il medesimo, la difformità interpuntivatra un testo e l’altro non può essere attribuita allo scrivente, ma alla realtàgrafico-testuale dell’antigrafo da cui questi traeva di volta in volta la propriacopia. Dunque acquista un’evidenza nuova la tesi di un Boccaccio attento agliaspetti distintivi e formali dell’antigrafo e quindi scrupoloso nel riprodurli»;P. RAFTI, «Lumina dictionum», cit., p. 264.28 La leggera variazione della morfologia del segno interpuntivo «costituisceun’ulteriore conferma grafica di una qualche dislocazione cronologicadell’Allegoria mitologica e dell’epistola Sacre famis rispetto agli altri testidella stessa fase grafica»; ivi, p. 73 e n. 22.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
entro il 1340 si rivela l’attribuzione cronologica più ragionevole per
65r-66v.
Per ragioni identiche a quelle appena viste, lo spostamento proposto di
f. 67r (nonché dell’intero blocco di ff. 67-72) al periodo fiorentino è da
ricusare29. Per completezza bibliografica, si segnala che Di Benedetto
segue da presso Billanovich e colloca la trascrizione ilariana addirittura
al 1348-‘49, il che è certamente errato; mentre Padoan opta per il tardo
periodo napoletano (1340-‘41) per motivazioni, approfondite subito nel
seguito, che chiamano in causa la data della corrispondenza tra Dante e
Giovanni del Virgilio. La datazione delle egloghe è il punto-chiave per la
collocazione della sezione dantesca dello Zibaldone. L’esame cronologico
della trascrizione della corrispondenza mette in evidenza alcune
incrinature nella ricostruzione, per altri versi ammirevole, elaborata
dagli autori dello studio collettivo. Riportiamo il passo cruciale:
Tralasciando la questione dell’autenticità dell’egloga [...] ricordiamo solo
che, accanto alla tradizionale attribuzione agli anni del primo soggiorno
romagnolo (1345-‘48, con la quale concorda anche Di Benedetto), è stata da
Giorgio Padoan avanzata la proposta di anticiparne la copia alla fine degli anni
’30, prima cioè del ritorno del Boccaccio a Firenze (1341). Questa ipotesi si
fonda sulla possibilità di reperire già a Napoli i testi trascritti, sul
carattere essenzialmente scolastico di tutte le opere offerte dai ff. 46r-72v
dello Zibaldone e sulla «evidente difformità grafica» dei ff. 46v-50r rispetto al
f. 50v, databile al 1348 o poco dopo [...]. Sempre agli stessi anni, 1345-‘48,
sono ricondotti dalla maggior parte degli studiosi il frammento epico di Giovanni
del Virgilio e lo scambio di versi tra Giovanni del Virgilio e Guido Vacchetta
[...] ancora una volta in base ai contatti che Boccaccio avrebbe allacciato in
29 Senza ripetere gli argomenti già riportati, ci si limita a citare il seguentepasso di Patrizia Rafti: «Topograficamente successive alla c. 65 sono invece lealtre composizioni in prosa prese in considerazione: il riassunto in latino diuna parte del Guerre de Gadres (c. 66) e l’epistola di frate Ilaro a Uguccione dellaFaggiuola (c. 67r), le quali presentano tuttavia nel complesso caratteristicheformali, e grafiche in particolare, tali da farle ritenere inserite nelloZibaldone in un tempo molto vicino a quello in cui lo furono le altre delloZibaldone»; ivi, p. 240.
15
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
questo periodo con l’ambiente romagnolo e la conseguente possibilità di venire a
conoscenza della produzione poetica locale. La potenziale debolezza di argomenti
del genere è stata messa in luce dal lavoro di Augusto Campana, in cui viene
ricostruita una trama di rapporti, personali ed epistolari, che poteva offrire al
Boccaccio la possibilità di conoscere testi d’origine romagnola prima del 1345 ed
in cui si segnalano echi della corrispondenza Guido Vacchetta-Giovanni del
Virgilio in un’opera del 1341-‘42, la Commedia delle ninfe fiorentine30.
Le materiali incongruenze presenti in questo passaggio denunciano un
chiaro fraintendimento delle fonti consultate. In breve, secondo
l’argomentare dei proponenti Boccaccio avrebbe potuto disporre della
corrispondenza tra Giovanni del Virgilio e Guido Vacchetta già a cavallo
tra il periodo napoletano e fiorentino (1341-‘42), come mostrerebbero
richiami presenti nella Commedia delle ninfe fiorentine e chiamando a conforto un
noto studio di Augusto Campana; la corrispondenza tra Dante e Giovanni del
Virgilio sarebbe invece stata disponibile al Certaldese solo nel periodo
romagnolo (1345-’48), conclusione vanamente osteggiata da Giorgio Padoan
sulla base di mere considerazioni di contesto culturale; tali
considerazioni sarebbero contraddette, per di più, dallo stesso Campana.
Ebbene, per corrispondere al vero, ciascuna di queste asserzioni va
diametralmente invertita: Padoan ha mostrato, sulla scorta degli studi di
Quaglio e di propri originali reperti, che la Commedia delle ninfe fiorentine
risente di richiami della corrispondenza tra Dante e Giovanni del Virgilio
e non certo di quella tra il maestro bolognese e Guido Vacchetta. A sua
volta Augusto Campana, lungi dal controvertire tale posizione, vi si è
ripetutamente mostrato incline; una prima volta proprio nello studio
proposto inspiegabilmente come fonte contraria:
[Dei testi scambiati da Dante con Giovanni Del Virgilio] è stato supposto che
[Boccaccio] li abbia trovati e trascritti in Romagna intorno al 1345-‘48 [...].
Ora bisognerà vedere come coordinare questa ipotesi con gli echi della
30 Ivi, pp. 185-6.16
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
corrispondenza già presenti in un’opera del Boccaccio del 1341-‘42, la Commedia
delle ninfe fiorentine31.
Una seconda volta Campana avalla la possibilità che Boccaccio abbia
recepito le egloghe delvirgiliano-dantesche già a Napoli, allorché Graziolo
Bambaglioli, chiaro giurista e Cancelliere del Comune felsineo, oltre che
commentatore del poema dantesco, vi si portò esule (seconda metà del
1334). Tale posizione, espressa oralmente, è riferita in modo fededegno da
Padoan, che conclude:
Gli incastri ora si congiungono perfettamente: in un elenco di testi
scolastici, ricco soprattutto per il settore giuridico ma con titoli anche per il
grammaticale, databile intorno al 1340 – la segnalazione è di Augusto Campana
[comunicazione al II Congresso Internazionale di Storia del Diritto, tenutosi a
Venezia nel settembre 1967] – compare la corrispondenza eglogistica di Dante e
Giovanni del Virgilio, unitamente al Diaffonus [Epistole Dantis et magistro Johannis de Virgilio
et diaffanus eius]32.
Anche Di Benedetto, che recepisce come di consueto le indicazioni di
Billanovich sulla collocazione romagnola della trascrizione, segnala
diligentemente la presenza di riserve da parte di Campana e di altri33.
Non basta. E’ proprio Campana che assevera la piena solidarietà grafica
della corrispondenza intercorsa tra Del Virgilio e Vacchetta con gli altri
testi romagnoli del gruppo di ff. 75r-76r e di parte di f. 77r, come per
primo già Billanovich, concordemente seguito da Di Benedetto e Padoan:
Per dire tutto, c’è un’identità perfetta di scrittura e d’inchiostro tra il De
quatuor temporibus anni e le due corrispondenze poetiche che lo seguono, e
praticamente anche il frammento epico che lo precede34.
31 A. CAMPANA, Guido Vacchetta e Giovanni del Virgilio (e Dante), «Rivista di Cultura Classica eMedievale», VII, 1965, pp. 252-65, a p. 254 e n..32 G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., p. 65 e nn. 130 e 131.33 F. DI BENEDETTO, Considerazioni, cit., pp. 99 e n. 3.34 A. CAMPANA, Guido Vacchetta, cit., p. 254.
17
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Infine, le condizioni di contesto culturale richiamate con acume da
Padoan non sono il presupposto per la datazione del gruppo eglogistico
agli anni napoletani, ma il risultato di una salda dimostrazione
filologica avviata da Quaglio e da tempo, come mostra ab illo tempore
l’apertura di studiosi come Branca e Campana, comunemente accolta35.
In conclusione, la proposta di inversione cronologica tra le egloghe
scambiate da Del Virgilio con Dante e Guido Vacchetta va decisamente
abiurata e riportata nell’alveo della consolidata communis opinio che,
coerentemente con i caratteri grafici e codicologici, attribuisce la prima
al periodo napoletano (1340-’41), l’altra a quello romagnolo (1345-’48).
Del resto, non si comprenderebbe perché mai l’interesse di Boccaccio si
sarebbe appuntato su un testo delvirgiliano del tutto minore diversi anni
prima di essersi imbattuto in quello maggiore (la corrispondenza con
Dante) che invece, con ogni probabilità, fu il motore delle successive
ricerche in area romagnola di testi contigui, come, appunto, la
corrispondenza con Vacchetta.
35 Mirabile per informazione e sintesi il seguente passo di Giuseppe Scalia,corredato da esaurienti riferimenti bibliografici nelle note che qui, perbrevità, si omettono: «Questo rapporto ideale [tra Dante e Boccaccio] èdocumentato fra l’altro da una ricca serie di riecheggiamenti danteschi già nelleopere del periodo napoletano, dalla Caccia di Diana, al Filostrato, al Filocolo, alleepistole retoriche Crepor celsitudinis e Mavortis milex del 1339, al Teseida [...]. Eraopinione comune che il Boccaccio fosse venuto a conoscenza di queste egloghedurante il primo soggiorno romagnolo (1345-1348) e le avesse allora trascritte,con altro, nel suo codice di servizio. Un’accuratissima indagine [condotta dalPadoan] sulla fascicolazione e composizione del manoscritto e tutta una vastagamma di argomentazioni critiche di notevole peso porta adesso a taluneconclusioni nuove, quali l’arretramento della data al 1339 circa [...]. Tra ivari riecheggiamenti delle egloghe segnalati da Antonio Enzo Quaglio nella suaedizione della Commedia delle ninfe fiorentine del Boccaccio [...] non trovo richiamatodal Padoan, se non erro, l’arrectis auribus di Egl., III 24, cui riferire «l’orecchieritto» di Com., III 12»; G. SCALIA, «Arnus» - «Sarnus». Dante, Boccaccio e un abbaglio orosiano,«Studi Medievali», XIX, 1979, pp. 625-55, pp. 647-8 e n. 139.
18
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Ff. 73-77 (3 fogli, 1 bifolio).
Sezione N.ro f. Mise en pàge Testi principali
Datazione
1. 73r-74v piena pagina Notamentum, Epp. Petr.
1342-‘44
2. 75r-76r piena pagina Versi di Gio. del Virg.,
De quat. temp.,
corrisp. Gio. del Virg./G. Vacchetta
1345-‘48/’41
3. 76v-77r piena pagina Argus
1345-‘48
Note
la rigatura di 1. è epigrafica (un unicum dello Zibaldone e della
Miscellanea);
lo specchio scrittorio di 2. e 3. è identico.
Per le ragioni esposte in precedenza, questo gruppo va distribuito
interamente lungo il periodo fiorentino-romagnolo (1342-‘48 circa),
risultando la retrodatazione della sola sezione delvirgiliana fondata su
una serie di fraintendimenti dei proponenti.
Le conclusioni di questa parte dell’analisi conducono ad una prima
rilevante osservazione: pur con le inevitabili approssimazioni del caso,
la determinazione cronologica più attendibile porta il testo ilariano al
1340-‘41; la lieve posdatazione, avanzata in modo non convincente nello
studio collettivo, opta per l’inizio del secondo periodo fiorentino di
Boccaccio (1342) e non dà comunque supporto a quanto sostenuto da
Billanovich, nonché da altri sulla sola sua autorità: lo studioso,
obbligatosi nei margini di una prospettiva retoricistica, ha coerentemente
circoscritto la datazione al 1348-‘49, termine irricevibile. Altre
19
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
argomentazioni di grave peso esposte nel seguito consentiranno di
abbandonare definitivamente una posizione critica che, tuttavia, per esser
stata corredata da osservazioni e riscontri molto fini, risulterà per
altri versi comunque illuminante. Infine, pare forse sommario il resoconto
offerto da Saverio Bellomo sul punto, rispetto ad elementi non irrilevanti
per una datazione precisa:
Il terminus ante quem più sicuro da assegnare alla composizione dell’epistola di
Ilaro dovrà essere la data dell’ultimo testo inserito nello Zibaldone, che risale
alla fine del 1348 (epistola Quam pium a Zanobi)36.
Si può auspicare che i futuri interventi sull’epistola di Ilaro, sia
pro che contro l’autenticità, non rilancino per poca informazione tale
36 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., pp. 230-1. Osservato che l’ultimo testo inseritodello Zibaldone è del 1367 (f. 45v), nella ricostruzione degli aspetticodicologici e paleografici dello Zibaldone resa da Bellomo si trovano alcunipassaggi non in tutto condivisibili: «L’accoppiamento dei testi [scil. l’epistoladi Ilaro e le Egloghe] può rispondere infatti anche a un criterio [...], visto cheil medesimo fascicolo costituito dalle cc. 60-74, la cui contiguità le analisidei codicologi hanno mostrato originaria, contiene anche [...] un breve resocontodell’incoronazione di Petrarca, chiaramente collegato alla tematica della laureapoetica [...]. Onde anche l’epistola ilariana potrebbe aver ottenuto talecollocazione per analogia [...], toccando anch’essa il tema della gloria[poetica]»; ivi, pp. 228-9. L’intento di apparentare testi dello Zibaldone traloro molto diversi (l’epistola di Ilaro e le Egloghe) sulla base del filo tematicodella gloria poetica e della contiguità dei fascicoli appare bisognoso diapprofondimenti. Il tema della gloria poetica è del tutto secondario se nonesilissimo nell’economia dell’epistola di Ilaro. Non solo. La contiguità deifascicoli segnalata da Bellomo è a sua volta un dato non caratterizzante; dataper scontata la contiguità originaria dell’intero Zibaldone (ad eccezione dei ff.26-45) e della Miscellanea, in virtù della comune derivazione dal gradualeBeneventano, analisi più approfondite (Brown) hanno mostrato come la contiguitàcodicologica tra i ff. 60-74 abbia peculiarità interne non eludibili: i ff. 61-63e 72-73 di Zib., solidali tra loro e a loro volta con i ff. 35-38 e 42-43 diMisc., fanno parte del fascicolo numerato G4 da Brown; i ff. 64-71 di Zib. sonotra loro solidali e fanno parte di un altro fascicolo, numerato G6; di un altrodistinto fascicolo ancora fa parte il f. 74, solidale col gruppo di ff. 39-41 diMisc., che, con altri ff. di entrambi i codici, compongono infine il fascicolonumerato G5. Pertanto, al di là di una generica contiguità, per il capitale f.67r opera un diretto legame di solidarietà con scritti tutti riconducibili aiparaggi del 1339-‘40, al che andava dato il suo peso. Inoltre, dall’analisi sopraesposta si deduce che la contiguità espressa da Bellomo per i ff. 60-74 è incerta misura infranta anche dallo sviluppo dei fatti grafici, i quali da f. 73mostrano uno stacco ed una non trascurabile evoluzione.
20
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
termine (1348). Quando Billanovich lo propose, negli anni ’40 del secolo
scorso, gli studi sul Laurenziano presentavano ampie lacune scientifiche
oggi colmate; del che ogni consapevole studioso dovrà tener conto.
È merito di Giuseppe Billanovich aver per primo ricomposto in un
disegno unitario le tessere della precoce devozione dantesca del grande
novelliere, la quale dovette forse iniziare in modo nebuloso fin dal
periodo scolare fiorentino37, ma che solo a Napoli, grazie ad apporti
culturali determinanti, portò i suoi frutti. Le opere originali del
periodo napoletano, datate con varie sfumature e dislocazioni tra il 1332
ed il 1341, cominciano con l’Elegia di Costanza, proseguendo con la Caccia di
Diana, l’Allegoria mitologica, il Filocolo, il Filostrato, le Rime, le epistole latine, il
Teseida. Senza pretese di esaustività, sulla scia di Billanovich e delle
successive acquisizioni apportate da Vittore Branca e Antonio Enzo Quaglio
in sede di Edizione Nazionale, si può sommariamente osservare che la Caccia
di Diana (1334 circa) mostra già echi evidenti della Commedia, della Vita
nova e di diverse Rime dantesche. Di pochi anni successiva la composizione
dei quattro dictamina latini (1339), che denunciano la conoscenza sia della
Commedia, di cui si rinvengono tracce in particolare nella Sacre famis, sia
di un’ulteriore epistola dantesca, oltre le tre sicuramente note perché
trascritte38: l’epistola a Moroello39. Il Filocolo (all’incirca coevo dei
dictamina) mostra a sua volta echi da tutti i testi danteschi fin qui
citati. Il Teseida – composto in larga parte a Napoli nel 1339-‘41,
dopodiché compiuto, ricopiato e glossato a Firenze subito dopo – consente
di aggiungere il De vulgari Eloquentia, secondo la concorde opinione di
Billanovich e Branca, accolta da Quaglio. Si è visto poi, sulla scorta di
quest’ultimo, di Padoan e di altri (Scalia), come la Commedia delle ninfe
fiorentine, opera del primissimo periodo fiorentino (1342), denunci riprese
37 Molto a proposito è riportata dal Billanovich la citazione di Dante quale«primus studiorum dux et prima fax», tratta da una lettera del Boccaccio alPetrarca (Fam., XXI xv 2).38 Si tratta della III, a Cino, dell’XI, ai Cardinali italiani, e della XII,all’Amico fiorentino (probabilmente il nipote di Dante, Bernardo Riccomanni).39 È la IV secondo l’attuale ordinamento.
21
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
dallo scambio eglogistico danteo-delvirgiliano, così come già il Filocolo
all’altezza della «descrizione del pastore Calmata e soprattutto
nell’episodio di Eucomòs»40. Fondamentale: echi delvirgiliani derivanti dal
carme a Dante e dall’egloga a Mussato (si tratta di passi concernenti il
mito di Arione) sono stati notati da Padoan non solo nella Commedia delle
ninfe fiorentine, ma anche in un sonetto sicuramente napoletano (Rime, VII 2-3)
e nell’ultimo libro del Filocolo (V VIII 25):
In tutti questi passi è evidente che il Boccaccio non si rifà alla fonte
classica [...] cioè ai Fasti ovidiani (II 95-116), dove la scena è descritta in
modo ben diverso41.
Sempre nel Filocolo, nel penultimo libro, appare parafrasato il sonetto
che accompagnava l’epistola a Cino. Non databile la conoscenza,
virtualmente certa, dell’epistola ad Arrigo VII, mentre è sicuramente
successiva al periodo napoletano la conoscenza dell’epistola a Cangrande,
di cui vi sarebbe eco (molto incerta) nel Trattatello e (probabile) nelle
Esposizioni42.
È d’obbligo a questo punto interrogare il contesto napoletano coevo a
Boccaccio, al fine di identificare nel milieu culturale angioino quelle
figure che plausibilmente rifornirono l’armarium dantesco del grande
Certaldese. Per una prima vaga conoscenza della Commedia si può ascendere
in via ipotetica fino al primo periodo fiorentino, al tempo in cui
frequentava la scuola di Giovanni Mazzuoli da Strada; ma è sicuramente a
Napoli con Pietro Piccolo da Monteforte che viene in luce un primo
possibile tramite verso il poema dantesco43. Chiosa Billanovich: 40 G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., pp. 30-1.41 Ibidem.42 Punto della questione in L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle, cit..43 Pietro, nato nel 1307, scrive a Boccaccio (1372): «Qua de re quod de poesiDantis Alligerii, cum primum puer adhuc eam audivi et vidi, continuo dixisse merecolo impletumque video, iam illam scilicet, vulgari licet ydiomate promulgatam,apud magistros et studiosos in magno pretio, preconio laudeque futuram, ampliusmulto tanta dixi sepe et dicam de laudabili libro tuo, tanta venustate conspicuotantaque utilitate proficuo. Et iam ipsum apud plerosque magistros sacre pagine
22
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Pietro da Monteforte aveva potuto raggiungere la Commedia ancora giovanissimo
[...] calde ancora a Ravenna le ceneri di Dante [...]. E lo splendore ineffabile
del nuovo poema aveva vinto le dure riluttanze retoriche del lettore lontano per
regione e per professione [...] come subito aveva vinto quelle simili del
grammatico bolognese Giovanni del Virgilio44.
Naturalmente anche altri personaggi possono aspirare a pieno titolo al
ruolo di mediatori danteschi per la Commedia, in primo luogo Sennuccio del
Bene. Per il testo delle epistole disponiamo di tessere oltremodo
persuasive. L’epistola a Cino e il relativo sonetto si avvalgono della
presenza a Napoli del destinatario in persona, il quale insegnò diritto
presso lo Studio negli anni 1330-‘32 e che Boccaccio verosimilmente
conobbe. Per l’epistola a Moroello, oltre allo stesso Cino, pone la
propria candidatura un altro precocissimo settatore di Dante, appunto
Sennuccio. E’ ancora Billanovich a cogliere i termini della questione:
Un solo letterato del Trecento, oltre il Boccaccio, vediamo leggere la lettera
a Moroello: Sennuccio del Bene. Sennuccio, a imitazione di quella lettera e della
canzone che le era unita, immaginò di inviare a un amico col sonetto Punsemi il
fianco Amor con nuovi sproni la canzone Amor, tu sai ch’i’ son col capo cano; e riecheggiò
insieme in quel sonetto il sonetto che Dante aveva inviato a Cino coll’altra
lettera che il dettatore Boccaccio ebbe davanti nel 1339 [...]. È ora di
accorgerci che il Boccaccio e Sennuccio dovettero incontrarsi: anzitutto perché
legati alle stesse clientele, del Petrarca e di Dante. Mi pare quasi certo che il
vecchio esule bianco Sennuccio, che indirizzò [una sua canzone] al marchese
Franceschino Malaspina [...] debba aver passato al Boccaccio, scolaro dello
et doctores ac peritos et studiosos alios amabiliter valde viderunt, inter aliapredicentes, ut illorum in hoc verba numero referam et non mutem, quod erit adhucvalde predicabilis liber iste. Qua de re disposui et spopondi illum facerestudiosius esemplari et in armario Sancti Dominici de Neapoli predicatorumordinis alligatum catenula inter alios sacros libros ad magistrorum, lectorumatque studentium et predicantium commodum perpetuo collocare»; testo in G.BILLANOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boccaccio, in Medioevo e Rinascimento. Studiin onore di Bruno Nardi, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1955, I, pp. 3-76, alle pp. 48-9.44 Ivi, p. 17.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Studio napoletano, la lettera a Moroello Malaspina e, anche pare, la lettera a
Cino [...] pochi mesi dopo traduceva in una ottava del Filostrato il sonetto del
Petrarca a Sennuccio, Sennuccio i’ vo’ che sappia in qual manera [...]; che Sennuccio doveva
pure avergli trasmesso45.
Sennuccio fu ad Avignone al tempo di ser Petraccolo e, prima ancora,
era stato a Milano al tempo dell’incoronazione di Arrigo VII (cfr. la
canzone Da•ppoi ch’i’ ho perduta ogni speranza), dove con somma verosimiglianza fu
anche Dante; fu altresì in relazione con noti personaggi della corte
angioina, come Giovanni Barrili (cfr. la lettera – Var., LVII – di
Petrarca a Barrili, del gennaio 1342, accompagnatoria della Metr., II 146).
Egli svolse un’indiscutibile azione di mediatore tra i due sommi poeti
fiorentini del Trecento e il giovane Boccaccio, che poté recepire echi
della stessa Commedia anche da Sennuccio, il quale, nella citata canzone,
ne mostra una conoscenza talmente precoce (ad esempio di Inf., V 103, come
attesta il: «Tu quel che a nullo amato amar perdona»), da aver tratto in
inganno Michele Barbi, che giunse ad ipotizzare una relazione di
dipendenza inversa, da Sennuccio a Dante, poi controvertita da Contini47.
Graziolo Bambaglioli, secondo un’intuizione di Padoan (felicissima per
chi scrive), corroborata dal Campana (cfr. supra), è il primo candidato
per la trasmissione di testi di area bolognese ruotanti attorno a Giovanni
del Virgilio, a sua volta maestro di grammatica a Bologna negli anni a
cavallo del 1320:
45 G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 132 e n. 1.46 Con buona ragione Scarpati e Billanovich ritengono che in quel periodo (1341),forse sul richiamo delle magnifiche celebrazioni pubbliche tributate al Petrarca(febbraio 1341), di cui fu sodale fin dagli anni avignonesi, Sennuccio fosseeffettivamente a Napoli; cfr. G. BILLANOVICH, Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni diStoria e Letteratura, 1947, pp. 74-81; C. SCARPATI, Da Dante al Petrarca e dal Petrarca alBoccaccio. II. Tra Petrarca e Boccaccio: alcune schede biografiche su Sennuccio del Bene, in Il Boccaccionelle culture e nelle letterature nazionali, a cura di F. Mazzoni, Firenze, Olschki, 1978, pp.595-604, p. 602.47 Cfr. ora l’importante studio monografico di D. PICCINI, Un amico del Petrarca:Sennuccio del Bene e le sue rime, Roma-Padova, Antenore, 2004.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Dal 1334 [a Napoli] è, esule dalla sua Bologna, il commentatore della prima
cantica Graziolo Bambaglioli: in grazia della posizione pubblica che questi aveva
occupata nella sua città (già notaio e ufficiale del Comune, membro del Consiglio
degli Anziani e dal 1321 cancelliere), appaiono nella luce non dell’assurdo
presumibili suoi contatti col maestro che tanto era stato vicino all’ammirato
Alighieri e che aveva insegnato nello Studio bolognese dal 1321 al 132348.
Qualche vago titolo, sul punto, potrebbe vantare il dotto Paolo da
Perugia, forse tramite per l’arrivo di Cino allo Studio angioino, che a
Napoli giunge proveniente proprio dal capoluogo umbro:
Paolo fu unito al Boccaccio da viva stima ed amicizia, gli passò idee e libri.
Quando più tardi, dopo il rientro del Boccaccio a Firenze, commentò [rectius:
ricopiò glosse di un commento a] Persio [...] il perugino si avvalse nelle sue
chiose delle Allegorie ovidiane di Giovanni del Virgilio49.
Un’ulteriore tessera, estremamente suggestiva, può completare il
quadro:
Infine a Napoli nel 1338 arrivava, alfiere di quel Petrarca che nel 1320 aveva
con ogni probabilità ascoltato a Bologna le lezioni del Del Virgilio e che
conobbe per tempo l’opera del Mussato, Dionigi da Borgo S. Sepolcro50.
Dionigi, notoriamente legato all’entourage cardinalizio, aveva stretti
legami con i destinatari di un altro testo dantesco che, non casualmente,
troviamo ricopiato dal giovane Boccaccio, l’epistola ai cardinali
italiani51. Quest’epistola potrebbe tuttavia esser stata passata al
Certaldese anche da Sennuccio del Bene, che fu a sua volta familiare del
48 G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., p. 35.49 Ivi, p. 36.50 Ibidem. Cfr. inoltre Dionigi da Borgo Sansepolcro fra Petrarca e Boccaccio. Atti del Convegno,Sansepolcro 11-12 febbraio 2000, a cura di F. Suitner, Città di Castello, Petruzzi,2001.51 Dionigi era particolarmente legato ai cardinali Napoleone Orsini e GiovanniColonna.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
potente cardinale Giovanni Colonna, ipotesi preferibile per chi scrive,
anche alla luce di quanto si dirà conclusivamente (cfr. infra).
Naturalmente, non si è voluto, né lo si sarebbe potuto, esaurire la
raffigurazione di un intero milieu culturale, quanto mai intricato e denso
di scambi. Qualche tessera potrà essere meglio riposizionata, altre
potranno utilmente esservi aggiunte. Di una cosa, tuttavia, non è lecito
ormai dubitare: a Napoli Boccaccio, lungo la sua lunga ed operosa vigilia
dantesca, ebbe accesso a fonti di prim’ordine grazie a cui alimentare il
suo imponente dossier con tutti o quasi i testi fondamentali. In breve, il
Certaldese a Napoli, e poi più e meglio a Firenze52, si trovò in una
posizione talmente felice da doversi guardare con molta cautela
all’ipotesi di infiltrazioni dantesche per dir così eterodosse. Egli
poteva accedere a fonti numerose e molto vicine a Dante, così come, senza
soverchio sforzo, poteva provvedersi di riscontri dirimenti, quanto meno
su questioni capitali quali l’autenticità di un testo.
Non pochi i punti critici della tesi, portata ad un alto grado di
suggestività da Billanovich, secondo cui Boccaccio avrebbe costruito per
fini filodanteschi, certo non fraudolenti, il testo ilariano. Billanovich
adotta un’impostazione marcatamente retoricistica, per la quale passaggio
propedeutico alla comprensione (e costruzione) di un testo è la diligente
ricerca dei modelli e delle fonti che l’hanno ispirato. Su tali basi,
potendo vantare una conoscenza vastissima e ineguagliata del nostro
Trecento, egli ha prodotto una serie impressionante di richiami tra le
opere di Boccaccio (dantesche e non) e temi e luoghi letterari del poeta
fiorentino. Particolarmente insistiti, secondo lo studioso, gli echi che
rimandano l’epistola del monaco lunigianese a: Monarchia, Epistola IV, XI e
XII, Convivio, Egloghe, De vulgari e naturalmente la Commedia. Tuttavia se sotto
l’aspetto retoricistico la tesi è argomentata in modo eccellente, altri
profili restano sprovvisti di adeguata risposta.
52 Dove trovava ancora viventi i figli del poeta, in particolare Jacopo, e altrinomi celebri di provata contiguità dantesca, su tutti Giovanni Villani eSennuccio del Bene.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
In primo luogo, occorre tener presente che Boccaccio rifuse notizie
dell’epistola ilariana non solo in testi sospetti d’apologia, quale ad
esempio il Trattatello, ma anche in testi impegnati sotto il profilo
scientifico, quale la Genealogia deorum, ed esegetico, quali le Esposizioni;
col che si verrebbe a fare del Certaldese non solo un abile retore, ma un
deliberato falsificatore delle memorie dantesche, e sia pure per nobili
fini quali la difesa del poeta fiorentino, della sua opera e delle sue
scelte linguistiche. Infine, e a titolo definitivo per questo tipo di
argomento, è inimmaginabile che Boccaccio travasasse notizie
dell’impostura ilariana in un testo topico della sua militanza poetica,
nell’istante epocale della trasmissione della Commedia a colui cui
affidava il compito di accogliere Dante nell’empireo culturale del tempo,
Francesco Petrarca, che di quell’empireo era l’indiscusso arbiter et magister;
dicasi il carme Ytalie iam certus honos (1352 circa):
Novisti forsan et ipse, traxerit hunc iuvenem studiis per celsa nevosi Cyrreos
mediosque sinus tacitosque recessus nature celique vias terreque marisque, aonios
fontes, Parnasi culmen et antra, Iulia Pariseos dudum serusque britannus (vv. 12-
7)53.
53 Questo aspetto è ben sottolineato da Billanovich stesso: «L’intenzione delBoccaccio, che [nel carme a Petrarca] interpola l’epistola a Moroello e queiricordi del Purgatorio colla Cronica del Villani, è di presentare Dante chepercorre la Lunigiana per recarsi a Parigi»; ID., La leggenda dantesca, cit., pp. 87-8); ancora: «[All’atto di comporre il carme al Petrarca vediamo che] l’affezionecon cui il Boccaccio covò le fantasie che gli erano gradite ora lo eccitò acondensare nel ricordo esplicito di Parigi la perifrasi neutra “regioniultramontane”, oltre cui Ilaro non aveva potuto forzare il suo calamo spuntato didettatore»; ivi, p. 98; la medesima convinzione viene infine ribadita: «Prima lagenericità accademica del dictamen [ilariano] e poi la rigida dignità lirica [delcarme al Petrarca] solo avevano permesso al Boccaccio nella lettera di Ilaro enel carme rivolto al Petrarca di nominare “i paesi oltramontani” e la “giuliaParigi”»; ivi, p. 114. Fu poi naturalmente recepito dai successivi, per tuttiVittorio Zaccaria, che parla della «conferma di notizie dell’epistola di Ilaro,come quella del viaggio a Parigi [nei versi del carme, mossi da un] sinceroaffetto per il poeta, conosciuto dal Boccaccio appena diciassettenne a Napoli,nel contatto con Cino da Pistoia, con Graziano (sic) de’ Bambaglioli e forse conGiotto»; V. ZACCARIA., Presenze di Dante, cit., p. 895.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Billanovich, che intervenne con la propria personale autorevolezza per
spegnere la lunare polemica un tempo accesa da Aldo Rossi sulla
falsificazione delle egloghe dantesche, invocò con piena ragione
l’assurdità di un Boccaccio spacciatore di propri falsi all’accademico
Pietro da Moglio, al contiguo Checco Rossi ed all’austero Petrarca54. Ma,
salvo errore dello scrivente, egli va qui vicino a far compiere al
Certaldese un fallo molto simile.
Un secondo capitale argomento contro la tesi della falsificazione (nel
senso beninteso di esercizio retorico) boccacciana è rintracciato da
Patrizia Rafti, per la quale l’usus interpuntivo del grande novelliere nei
testi originali si contraddistingue per caratteri propri, laddove, stante
la nota soggezione del Certaldese agli exemplar da cui ricopiava, il
medesimo usus acquisisce per i testi altrui, incluso quello ilariano,
caratteri nettamente variabili:
All’interno dello Zibaldone [...] alla luce di queste considerazioni si può
tornare con un elemento di giudizio nuovo sulla vexata quaestio riguardante
l’autenticità della lettera di frate Ilaro [...]. L’analisi specifica
quantitativo-funzionale dei segni interpuntivi all’interno dell’epistola rivela
che, pur essendo essa distinta con sufficiente regolarità, minore è l’accuratezza
con cui i segni vi sono distribuiti rispetto ad altri testi sicuramente
autentici. Sia la virgola che il punto sono utilizzati infatti con criteri che
dimostrano una concezione molto superficiale della membratura del periodo: le
proposizioni si susseguono, giustapposte o inserite l’una nell’altra, in gruppi
più o meno complessi, ma spesso lasciati senza alcun segno distintivo interno che
ne rilevi i reciproci rapporti [...]. Un’altra difficoltà rispetto all’uso
54 Sulla complessa questione si aggiunge ora un importante reperto, scoperto daPaola Allegretti. Si tratta di un acrostico, dotato di suggestivi e persuasivicaratteri di simmetria, presente nella prima egloga dantesca, che il Boccaccio,presunto falsificatore, non mostrerebbe neppure d’aver riconosciuto: «SeBoccaccio, oltre che copista, fosse anche autore dell’egloga Vidimus in nigris, comesi è pervicacemente sostenuto, l’acrostico sarebbe stato evidenziato con unqualche espediente grafico. Non rilevato com’è, non riconosciuto dal Boccaccio,che se ne fa tramite innocente, garantisce la spettanza del testo ad altro autoreche lui, ossia a Dante»; P. ALLEGRETTI, Un acrostico per Giovanni del Virgilio, «StudiDanteschi», LXIX, 2004, pp. 289-93, p. 293.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
distintivo boccacciano costituisce il fatto che non si riscontri il punto
all’interno della proposizione con la funzione di separarne i membri in forma
implicita, funzione che gli è propria ed è normalmente rappresentata in tutti i
testi sicuramente da lui composti. In questo caso quindi l’analisi
dell’interpunzione sembrerebbe offrire un elemento a favore dell’autenticità
dell’epistola55.
Una pagina molto fitta riguarda gli errori ed i fraintendimenti di
copista, che rendono poco plausibile un’identità d’autore: del resto, che
Boccaccio fosse l’autore del falso fu già escluso da studiosi del livello
di Rajna e Vandelli, che pure nutrivano dubbi sulla danteità del testo.
Tali errori di copista, come traspare dal suo dettato, provocarono un
certo imbarazzo nello stesso Billanovich il quale, persuaso della sua
tesi, s’indusse peraltro a non darvi peso. I punti chiave sono:
1) Svista dapnatur per damnatur (§ 3);
2) Anomala variante nel testo: peteret ał quereret56 (§ 6)57;
55 P. RAFTI, Osservazioni sull’interpunzione del più antico codice boccacciano (Zibaldone laurenzianoXXIX.8), in Storia e teoria dell’interpunzione». Atti del Convegno internazionale di studi Firenze, 19-21maggio 1988, a cura di E. Cresti, N. Maraschio, L. Toschi, Roma, Bulzoni, 1992,pp. 49-63, pp. 57-8. Ancora: «[Il testo ilariano] rimane per la qualità e latipologia della distribuzione sempre distante dall’usus del Boccaccio»; EAD.,«Lumina dictionum», cit., p. 262.56 «Il codice ha qualcosa di [strano]; ał quereret, vale a dire aliter, od alias(farebbe il medesimo) quereret [...]. A noi è ben manifesto che ał quereret ebbe atrovarsi scritto in un ascendente, sia in margine, sia nell’interlinea, perindicare una variante del peteret. Un trascrittore credette invece d’aver a farecon un supplemento, e trasportò di peso le parole nel testo. Ci troviamo quidunque in cospetto di un fraintendimento materiale [...]. Coll’ał, non altrimentiche lezioni ricavate da un altro esemplare, si contrassegnavano proposte proprie.E di proporre una sostituzione ał peteret si vede subito un motivo; quid peteret s’eradetto un momento prima; e la ripetizione [...] dovette offendere qualchelettore»; P. RAJNA, Testo della lettera di frate Ilario e osservazioni sul suo valore storico, in Dante ela Lunigiana, Milano, Hoepli, 1909, pp. 245-6.57 Billanovich ritiene trattarsi di ripensamento o incertezza d’autore,spiegazione per nulla convincente. In realtà, già i primi e più attrezzatisostenitori della falsità dell’epistola non celarono gravi perplessità di frontea tali ricorrenze: «Taluni pochi errori che il testo della lettera presenta nonsi spiegano se non come errori materiali di lettura [...] ed errori siffatti alBoccaccio non sarebbero sfuggiti, se la lettera l’avesse compilata lui»; G.VANDELLI, «Bullettino della Società Dantesca Italiana», IX, 1902, p. 91.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
3) Possibile errore nell’intendere il segno tachigrafico per tantum,
inteso tñ e sciolto in tamen, alla base di un farraginoso raddoppio di
avversativa: sed loci tamen (§ 6);
4) Svista interogavi per interrogavi (§ 6);
5) Errore pensaris per pensaveris (§ 7);
6) Errore mea pars per una pars e svista Posquam per Postquam (§ 8);
7) Autocorrezione di admirarer in admirari (§ 10);
8) Errore videtur per videbatur (§ 10);
9) Svista tatummodo per tantummodo (§ 10);
10) Autocorrezione di inlustrium in illustrium (§ 11);
11) Possibile errore obiectos per abiectos (§ 11)58;
12) Svista subiuxit per subiunxit (§ 12);
13) Possibile errore prosequēt’, che va sciolto in prosequenter, ma in
realtà prosequerer o meglio prosequentibus (§ 12)59;
14) Errore di anticipo: trasmicterem originariamente di seguito a
prosequenter poi espunto (con tratto orizzontale) (§ 12);
15) Possibile errore postulatum per postillatum (§ 13);
16) Possibile omissione dopo Quod quidem di feci o altro equivalente (§
13);
58 Bellomo ritiene convincentemente possa trattarsi in tal caso di un mero lapsuscalami, cfr. ID., Il sorriso di Ilaro, cit., p. 213.59 Nota sul punto Vania Avellano: «Un nuovo esame autoptico del codice […]conferma che Boccaccio ha scritto prosequenter […]. L’avverbio […] pur non essendoregistrato dai dizionari di latino classico e medievale (antichi e moderni), ècomunque attestato – con il significato di poi, di seguito – in testi medievaliantecedenti l’epistola di Ilaro, per lo più monastici (elemento […] non del tuttoirrilevante dato il tipo di testo)»; V. AVELLANO, Per il testo dell’Epistola di frate Ilaro (parr.12-13), «Rivista di Studi Danteschi», IX, 2009, pp. 390-7, p. 394. Avellano faun’osservazione ulteriore, interessante ai presenti fini: «In corrispondenza delpasso […] compare un altro errore, in apparenza sanato perfettamente da Boccaccioin fase di trascrizione; prosequenter è seguito da trasmicterem (sbarrato con untratto orizzontale), che viene interpretato come errore d’anticipo del trasmicteremche segue poco più avanti […]. Boccaccio pare proprio inglobare erroneamente,copiando, due varianti dell’autore (mi riferisco alla frase quid aliter quereret) […].Crea difficoltà […] l’et che congiunge i due segmenti, là dove ci si aspetterebbeun vel o un aliter»; ivi, p. 395. Per queste e simili osservazioni, risultaantieconomico ritenere Boccaccio autore di un testo che, come copista, avrebbepoi così pedestremente martoriato.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
17) Svista Morello per Moruello (§ 14);
18) Svista oblatonem per oblationem (§ 14).
Si dirà, non tutti i lemmi sono ugualmente rilevanti, molti possono
legittimamente apparire marginali, scusabili se non addirittura
controvertibili (sebbene i più recenti editori si concedano a criteri fin
troppo conservativi nell’emendatio)60. Tuttavia ancor oggi di fronte a tale
messe, impressionante rispetto all’esiguità del testo, restano
incrollabili le osservazioni di Pio Rajna, che per primo ne avviò il
censimento:
[È da credere che] quando esso [scil. il testo ilariano] venne ad allogarsi nel
codice laurenziano aveva già dietro di sé un passato, che non c’è alcuna
necessità di ritenere lungo, ma che neppure si potrebbe, senza grave imprudenza,
pretendere brevissimo. Sta poi inconcusso che il documento non poté essere
fattura di chi lo trascrisse in quel codice [laddove] un esame attento mostra che
la scrittura è proprio la consueta [di Boccaccio]61.
Si aggiunga un’ulteriore conferma:
[Con riguardo al peteret ał quereret] Non si conoscono altri esempi di trascrizione
boccacciana in cui l’autore-copista abbia inserito correzioni o varianti
all’interno del testo, anziché nell’interlinea o a margine (o provvedendo alla
cassazione della parola errata): questo infatti, e solo questo, era l’uso
corrente. Anche Augusto Campana mi ha autorevolmente dichiarato di non conoscere
esempi analoghi di variante d’autore, e di non credere pertanto che il Boccaccio
possa essere, oltre che copista, anche l’autore della lettera ilariana»62.
60 Per una posizione aggiornata sulla questione testuale si veda B. ARDUINI, H. W.STOREY, Edizione diplomatico-interpretativa della lettera di frate Ilaro (Laur. XXIX 8, c. 67r), «DanteStudies with the Annual Report of the Dante Society», CXXIV, 2006, pp. 77-89.61 P. RAJNA, Testo della lettera, cit., pp. 246-7.62 G. PADOAN, Il progetto, cit., p. 11 e n. 24.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Anche per questa via, quindi, la paternità boccacciana dell’epistola
non acquisisce credito. Sul piano strettamente retorico, una forte
incongruenza è ben evidenziata da Padoan:
La trascrizione si ferma qui: ed è evidente che si tratta di un brano – la
prima parte di quell’epistola – poiché alla inscriptio sive salutatio (§ 1), all’exordium
(§§ 2-5) e alla narratio (§§ 6-14) non fanno seguito – come pure pretendevano le
norme dell’epistolografia medievale – le consuete petitio (in cui verisimilmente il
monaco avrà preso occasione dall’omaggio per richiedere al signore, secondo
l’uso, qualche grazia od esenzione di tasse per il convento), conclusio e datatio63.
Anche lo stile, retoricamente più dimesso, scolastico, elementare,
connotato da una piatta cultura chiesastica, non pare facilmente
attribuibile alla penna del Certaldese, specie, giusta la datazione di
Billanovich, nel 1348-‘49, allorché il grande novelliere mostra per prove
maiuscole di esservisi portato parecchie spanne al di sopra64.
Possiamo a questo punto aprire concisamente la pagina delle
incongruenze interne dell’epistola, le quali risaltano non solo se
confrontate con altri dati sicuri che conosciamo su Dante e le sue opere,
ma con le stesse convinzioni di Boccaccio, il quale parrebbe talora
63 Ivi, p. 8. Bellomo rettifica: «[Padoan sostiene] a torto che manca anche lapetitio, scambiandola per la sezione in cui devono necessariamente presentarsi lerichieste. In realtà i manuali chiarivano che: “petitio est persone mittentisexpressio, quid fieri vel non fieri velit convenienti affectione declarans. Necdicitur petitio, quia per eam aliquid postulatur, sicut nec salutatio, quiasempre salutem contineat, sed ab usu frequentiori nomen accepit” [tratto da: BONODA LUCCA, Cedrus Libani, a cura di G. Vecchi, Modena, Società Tipografica Modenese,1963, p. 76]». Peraltro, se una petitio vera e propria non era di rigore, ciò nontoglie che, se essa vi fu (il che non si può escludere), semplicemente non fucopiata.64 Asserisce Bellomo: «Si potrebbe controbattere tuttavia, con un po’ di eccessivasottigliezza, che la diversità riscontrabile potrebbe essere dovuta alla volontàmimetica di adeguamento ai livelli stilistici confacenti al falso monaco»; S.BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 214. Resta che una simile volontà mimetica dafalso monaco, unita alla reiterata rifusione che Boccaccio fece per decenni dellenotizie ilariane, ne farebbe un madornale falsificatore: il che oggi èirricevibile; cfr. F. BRUNI, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, IlMulino, 1990, p. 296 e n..
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
impigliarsi nelle maglie della sua stessa tela. Padoan coglie ottimamente
tale profilo:
Le notizie offerte dall’epistola ilariana non sempre sono coincidenti con le
conclusioni del Boccaccio: per il quale, non dico la Vita Nuova, ma neppure singole
rime in essa poi raccolte sono riconducibili alla puerizia di Dante [...].
Rimarrebbe poi incomprensibile, ove fosse invenzione boccacciana, l’indicazione
dell’intenzione di dedicare il Paradiso all’aragonese a fronte dei recisi giudizi
danteschi negativi su quel re e della diffusa notizia della dedica [...] a
Cangrande. L’imbarazzo che il Boccaccio onestamente dichiara di fronte ai dati
contraddittori, che egli pur si sente in dovere di registrare, toglie ogni dubbio
al proposito (di certo non ci si inventa una notizia [...] per poi metterne in
rilievo la contraddittorietà)65.
In conclusione, se è vero che l’impostazione retoricistica di
Billanovich è la via maestra per intendere i modelli ed i riferimenti
culturali di un testo medievale, è pur vero che il responso che se ne
ottiene appare in tal caso poco convincente, sintomo, se non si va troppo
lontano dal vero, dell’operare di un pregiudizio, sicché il metodo non fu
applicato in modo asettico ma, come traspare fin dalla prosa, monocorde,
alla ricerca di relazioni la cui direzione si presumeva a priori:
Ciò che convince Billanovich della correttezza della sua ipotesi è la perfetta
consonanza tra l’ideologia che emerge dall’epistola di Ilaro e quella di
Boccaccio, la cui preoccupazione costante [...] è appunto di conciliare la poesia
dantesca e la connessa opzione linguistica con la nascente cultura umanistica
dell’amico Petrarca. Per questo, quella del Billanovich si configura più come una
perorazione, che come una dimostrazione, prestando il fianco ad obiezioni
puntuali66.
65 G. PADOAN, Il progetto, cit., p. 10.66 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 213.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Ma è ormai tempo di rivedere l’idea stessa di falso dantesco (dicasi in
accezione tecnica, di testo non d’autore, non necessariamente composto e
fatto circolare con intenti fraudolenti). E l’ipotesi di un Boccaccio
falsario, sia pure nei limiti di una pia fraus finalizzata a difendere il
magistero artistico del vate fiorentino, si rivela poco convincente. La
sua adesione a Dante era nota e per promuovere la figura del grande poeta
il Certaldese avrebbe potuto scegliere altri strumenti, legittimi e più
consoni al suo proposito che non un malizioso esercizio retorico. A parere
di chi scrive, seppur non autografo, il Vat. Lat. 3199 è un monumento
autentico dell’apostolato dantesco di Boccaccio, un manifesto della sua
abnegazione e del profondo impegno personale. Di fronte a prove magistrali
di tale complessità, la tesi dell’esercizio retorico subdolamente
gabellato per autentico (ché questo fa Boccaccio, se lo si pone autore),
onde rifare il pedigree artistico all’esule, pare introdurre nella
questione un coefficiente eccessivo di banalizzazione.
Un sicuro punto critico riguarda la misura in cui il testo
dell’epistola sia storicamente congruente con i dati altrimenti noti, al
fine di valutare in che grado un falsificatore o un retore avrebbe dovuto
padroneggiarli per intessere un testo così ben congegnato da ingannare non
solo quei lontani posteri convinti della sua veridicità, ma anche quei
contemporanei trecenteschi contigui a Dante (Boccaccio a parte, Petrarca,
Benvenuto da Imola, l’Anonimo fiorentino, Filippo Villani) che lo
recepirono per autentico. Questo tipo di analisi si giova di un numero di
studi specialistici esiguo, di cui il maggiore è opera di Vincenzo Biagi
(1910)67. Utili aggiornamenti ed integrazioni vi ha apportato Padoan nel
corso di quasi un ventennio di studi (1975-‘93)68. Nel prosieguo
analizzeremo prioritariamente gli elementi che oggettivamente richiamano
una collocazione storica, in primo luogo la dedica ad Uguccione della
67 V. BIAGI, Un episodio celebre della vita di Dante. L’autenticità dell’epistola ilariana su documentiinediti, Modena, Formiggini, 1910. Seconda edizione, con aggiornamentobibliografico, Pisa, Nistri-Lischi, 1934, da cui si cita.68 Cfr. qui n. 6.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Faggiuola, che obbliga a porre il testo (o l’ambientazione del falso) tra
la metà del 1314 e i primi mesi del ’16, ossia il tempo in cui egli
esercitò il dominio su Pisa e Lucca, nonché la nomina di Federico
d’Aragona a re di Sicilia, della metà del 131469; non si prenderanno in
considerazione invece elementi che acquisiscono una precisa valenza solo
se visti alla luce di una tesi retrostante, come ad esempio la ricorrenza
del nome Ilaro che, per chi presuppone l’autenticità del testo, è elemento
confermativo poiché diffuso proprio nell’Ordine cui il monaco appartenne:
Un suffragio ad un Ilaro monaco [...] ce lo può dare [...] l’onomastica
dell’ordine benedettino, l’unico dove ricorra il nome Ilàro, (Ilaro, si badi, non
Ilario), anche nei secoli XIII e XIV, come si può vedere nelle storie monastiche
del Mabillon, dell’Armellini e di altri70.
Sarebbe un’impronta digitale della falsificazione (ora divenuta
scherzosa), per i sostenitori della tesi contraria:
Oh autore dell’epistola veramente Ilaro! Egli ride alle spalle di
generazioni di studiosi che non hanno fatto caso al suo nome parlante71.
1) Egregio et magnifico viro domino Uguiccioni de Fagiola: la salutatio è somigliante
ai titoli di magnificus et potens che i Pisani conferirono ad Uguccione,
diversamente dai predecessori che furono fregiati di altri appellativi,
quali excellens, sapiens o simili. Si aggiunga che la grafia è di forma
identica a quella che, tra le tante allora correnti (Ugucio, Uguccio,
Huguiccio, così come Faggiola, Fasola, ecc.), compare nei documenti pisani
coevi;
69 Bellomo afferma che: «[I dati interni dell’epistola] rinviano a un periodocompreso tra il 1312 e il 1315, vale a dire dopo la nomina di Federico d’Aragonaa re di Sicilia»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 205. In realtà Federicod’Aragona fu investito della dignità regia («rex Trinacrie») il 12 giugno 1314, aMessina.70 V. BIAGI, L’autenticità, cit., pp. 51-2.71 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 235.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
2) Humilis monacus de Corvo in faucibus Macre: denominazione particolarmente
felice, poiché alla concisione prescritta da Bono da Lucca abbina la
perfetta precisione topografica, come ebbero già a notare i massimi
eruditi locali, Repetti e Mazzini72;
3) Iste homo: la designazione anonima può richiamare varie circostanze,
dall’aderenza all’uso volgare, alla notorietà della persona citata presso
il destinatario (e la conoscenza di Dante con Uguccione è nell’ordine del
probabile più che del possibile; e più avanti Ilaro dice apertamente: illum
amicissimum vestrum iniunctum fuit), all’intento di celarne l’identità per non
irrilevanti ragioni di tutela dell’incolumità73;
4) Secundum quod accepi ab aliis, quod mirabile est, ante pubertatem inaudita loqui tentavit:
L’à dunque sentito dire e non è strano davvero che tal voce corresse anche tra
il clero, in quella diocesi di Luni, dove Dante nel 1306 aveva avuto rapporti col
vescovo Da Cammilla e con religiosi di Sarzana a comporre la pace tra il vescovo
72 I contributi di questi sommi eruditi sono censiti nel volume citato di Biagi e,in buona parte, si trovano riuniti nel volume collettivo Dante e la Lunigiana, cit..73 Il contesto storico offre utili elementi. Se, come propongono i sostenitoridell’autenticità, l’epistola fa riferimento ad un evento (il passaggio di Dantedalla Lunigiana, diretto nella regione padana nord-orientale) accaduto neiparaggi del 1314-‘15, possiamo osservare che, trovandosi l’esule non distantedallo stato fiorentino, che gli aveva comminato fin dal 1302 una condanna allapena capitale, era quindi evidente, trovandosi l’esule non distante dallo statofiorentino, l’opportunità per Ilaro di non nominarlo esplicitamente entro unacorrispondenza che, per avventura, avrebbe potuto cadere in mani ostili. Ma altridati si aggiungono a conforto: in primo luogo il trattato del 27 febbraio 1314,con cui re Roberto d’Angiò aveva vincolato Lucca ed i guelfi della Lunigiana, tracui i Malaspina, a non ricevere presso di sé i guelfi sbanditi ed i ghibellini.Ciò creava un ambiente locale gravemente rischioso per l’incolumità dell’esule.In più, nella vicina Sarzana dominava allora la fazione guelfa facente capo alvescovo Gherardino Malaspina (di origine lucchese, che tenne la diocesi dal 1312al 1318), proprio quel vescovo che Dante aveva recentemente infamato per fellonianella celebre epistola ai cardinali italiani (primavera del ’14): «Quidni?Cupiditatem unusquisque sibi duxit in uxorem, quemadmodum et vos, que nunquampietatis et equitatis, ut caritas, sed semper impietatis et iniquitatis estgenitrix. A, mater piissima, sponsa Christi, que in aqua et Spiritu generas tibifilios ad ruborem! Non caritas, non Astrea, sed filie sanguisuge facte sunt tibinurus; que quales pariant tibi fetus, preter Lunensem pontificem omnes aliicontestantur» (Ep., XI 7).
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
e i Malaspina. Si ricordino [...] i frati Guglielmo Malaspina, Guglielmo da
Godano, dei Minori74;
5) Partes ultramontanas: a partire da Boccaccio, comunemente ritenuto
riferimento a Parigi e, segnatamene, al suo celebre Studio. Tuttavia, dopo
i rilievi di Biagi, sulla scia del settecentesco Dionisi, vi è la
possibilità che Ilaro potesse riferirsi genericamente alla regione padana
transappenninica75. La coincidenza con il periodo in cui si pone la
seconda andata di Dante a Verona (1315-‘16 circa), secondo una nota tesi
74 V. BIAGI, L’autenticità, cit., p. 81. Constatata la genericità del riferimento diIlaro alle rime giovanili di Dante, non privo di imprecisione, non sembra intutto perspicua la critica di Bellomo sul punto, per cui Ilaro: «manifesta [...]un grado di aggiornamento sorprendente per un monaco che non vive in una città,ma in un monastero isolato su una altura. E tuttavia conosce il libello giovanilee amoroso di Dante [...] ed è aggiornato e sensibile rispetto a problematichedibattute nei circoli d’avanguardia dell’Italia settentrionale [...] soprattuttoquelle relative alla questione linguistica»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p.211. Tralasciando altri passaggi di segno opposto, per cui il monastero, ora nonpiù isolato, sarebbe invece: «di una certa fama perché dominava la Bocca di Magraed era punto di passaggio nel transito tra Toscana e pianura padana attraverso ilvalico del Cerreto»; ivi, p. 233, n. 81; è da notare che, visto il ripetutopassaggio di Dante per la diocesi lunense, l’aperta ammissione di notiziaindiretta, nonché l’evidente approssimazione della citazione, non si comprendeperché attribuire al monaco pretese di una conoscenza particolarmente penetrantedelle opere dantesche (di cui non fa mai neppure un nome) e addirittura dellequerelles linguistiche che sollevavano. Infine è assolutamente da condividere che icircoli proto-umanistici veneti fossero i più aggiornati sulle questionilinguistiche, ma si converrà che l’egemonia del latino per opere di dottrina erada tempo questione, nei suoi termini essenziali, di pubblico dominio presso laclasse clericale e laica alfabetizzata; né Ilaro si mostra propriamente in lineacon l’aristocratico distacco dal volgare di quei circoli à la page, nel qual caso,è da credere, avrebbe potuto simulare argomenti di maggior spessore che non unastupita acquiescenza: si concorderà che il quodammodo admirari dell’umile monacoè un po’ differente dal: «Nec margaritas profliga prodigus apris, / Nec premeCastalias indigna veste sorores» reperibile nel carme di un accademico purmoderato come Giovanni del Virgilio (Egl., I 21-2).75 Per completezza d’informazione, mi segnala con la consueta gentilezza LucaAzzetta che un lemma analogo, presente in un documento intorno ad Andrea Lancia,è riferibile ad Avignone: «in romana curia et partibus ultramontanis [...] priusconversabat», in ANDREA LANCIA, Ordinamenti, provvisioni e riformagioni del comune di Firenzevolgarizzati da Andrea Lancia (1355-1357), a cura di L. Azzetta, Venezia, Istituto Venetodi Scienze morali, Lettere e Arti, 2001, p. 22. Torna all’ipotesi precedente conun interessante lavoro, A. CASADEI, Considerazioni sull'epistola di Ilaro, «Dante. Rivistainternazionale di studi su Dante Alighieri», VIII, 2011, pp. 11-21. Ma, facendobase alle foci del Magra, qualora Dante fosse stato effettivamente diretto al dilà del vicino valico appenninico del Cerreto, di qui in pianura padana (e quindia Verona), ci si chiede in quale altro modo Ilaro avrebbe dovuto esprimersi.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
di Billanovich, accolta da Padoan e da Francesco Mazzoni76, risulta in tal
caso di notevole interesse;
6) Per Lunensem dyocesym transitum faceret: si deduce quindi un Dante che dal
sud o sud-est della Toscana avrebbe percorso la via Francigena nella parte
che da Altopascio saliva per la Versilia e scendeva a Luni. La strada
metteva quindi capo a Sarzana, città che, per noti motivi (cfr. qui n.
73), era in quel frangente ostile a Dante, inducendolo quindi a
raggiungere il più riparato monastero del Corvo: «Il Corvo non era sulla
strada, ma fuor di mano, per due ore e più di cammino»77. Di nuovo una
fortunata coincidenza se, come pare plausibile, Dante intorno alla prima
metà del 1315 era proprio in Toscana, non lontano dallo stato fiorentino,
a norma dell’Epistola XII, la quale attesta in quel periodo un atteggiamento
nuovamente conciliante della Signoria verso gli esuli non estremisti, che
Dante certamente osservò non lontano e con trepida partecipazione,
sebbene, giudicatene umilianti le condizioni, si spinse infine al rifiuto;
7) Monasterii supradicti se transtulit: «così si compiono le indicazioni di luogo,
e tutte esattissime»78;
8) Sive loci devotione, sive alia causa: l’inserimento della seconda opzione
lascia credere, se la lettera è autentica, ad un velato riferimento al
contesto ambientale in quel frangente molto critico per l’esule; se falsa,
sarebbe una felice pennellata d’autore;
9) Interrogavi quid peteret: puntualmente il retore, com’era compito del
foresterario, gli fa rispettare la regola benedettina: «docti fratres
eligantur, qui cum supervenientibus hospitibus loquantur»79;
10) Adhuc et michi et aliis fratribus meis: la dinamica dell’accoglienza è in
sintonia con le prescrizioni benedettine: «Omnes supervenientes hospites
tamquam Christus suscipiantur [...], et omnibus congruus honor exhibeatur;
76 Sul punto sia consentito rimandare a G. INDIZIO, Le tappe venete dell’esilio di Dante,«Miscellanea Marciana», XIX, 2004, pp. 35-64.77 V. BIAGI, L’autenticità, cit., p. 83.78 Ibidem.79 J. MABILLON, Annales Benedectini, II 430, citazione da V. BIAGI, L’autenticità, cit., p.41.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
maxime tamen domesticis fidei et peregrinis» (Reg. Ben., cap. LIII). In
accordo con le regole benedettine, i frati di un monastero dovevano essere
un certo numero, più di cinque (et michi et aliis fratribus meis);
11) Traxi illum seorsum ab aliis et habito secum deinde colloquio: «con linguaggio,
direi, tecnico; “Hospitibus autem cui non praecipitur nullatenus societur,
neque colloquetur” [...]; i monasteri meglio forniti avevano anche una
stanza speciale per i colloqui: il parlatorio»80;
12) Fama eius ad me per longa primo tempora venerat: singolare e fortunata
coincidenza, poiché tale passo può essere adattato alla prima sosta
lunigianese di Dante che, per essersi legato ai nomi più illustri della
regione, per cui conto svolse un’importante azione diplomatica, dovette
effettivamente avere una qualche risonanza. Anche la perifrasi temporale
si adatta come un guanto al decennio frattanto trascorso;
13) Ecce, dixit, una pars operis mei, quod forte numquam vidisti: ancora una volta
l’aderenza minuta alla situazione biografica dantesca solleva stupore. Nel
1315 l’Inferno era effettivamente divulgato e ne circolavano già da tempo
gruppi di canti, come mostrano ad esempio le precocissime riprese in Dino
Frescobaldi, Cino da Pistoia, Sennuccio del Bene oltre che nel
volgarizzatore ovidiano anonimo, un tempo identificato con Andrea Lancia;
mentre il Purgatorio con ogni probabilità non lo era ancora (nulla quaestio per
il Paradiso);
14) Talia vobis monumenta relinquo, ut mei memoriam firmius teneatis: accantonate le
ricorrenti illazioni circa il dono dell’originale manoscritto dell’Inferno
(così come i dubbi sull’incongruità di un Dante che fida in uno
sconosciuto per recapitare un suo dono ad Uguccione), che non hanno
appigli nel testo – Dante semplicemente consente che il monastero ne
acquisisca una copia; ed il dono ad Uguccione è opera di Ilaro, non del
poeta – merita attenzione un dubbio espresso da Bellomo:
80 Ibidem.39
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Non resta che pensare che il poeta permettesse di farne una copia, con la
conseguenza però di dovere ammettere o una sosta al monastero molto lunga, di
almeno un mese, dati i tempi richiesti da una trascrizione, ovvero un accordo per
ricuperare l’esemplare successivamente [...]. Il tempo di un mese è ottimistico,
ove si consideri che la trascrizione avrebbe dovuto essere compiuta con la cura
che si addiceva a un manoscritto di dedica [...]. Appare poi singolare la scelta
di servirsi di un monaco appena conosciuto per recapitare una copia a Uguccione,
a meno che non sia dovuta a particolari legami di quest’ultimo con quel
convento81.
Tale argomentare non sembra invero ricercare l’economicità: una sosta
al monastero prolungata innaturalmente per i lunghi tempi richiesti
dall’approntamento di un manoscritto di dedica è ipotesi gratuita, anche
perché trascura che il monastero non avrebbe potuto in nessun caso
confezionare un manoscritto di dedica, essendo poco più che un romitorio.
Semplicemente, con i minimi mezzi disponibili in loco, il manoscritto poté
essere slegato in fascicoli in modo da mettere all’opera più di un monaco,
circostanza comune per la copia di codici anche di qualche pregio (si
pensi all’usatissimo metodo della pecia adottato nelle città universitarie
come Bologna, ad esempio). La copiatura fu stringata, al caso con modici
ausili tachigrafici, in un codice non di pregio ma di servizio. Le
economie di tempo sono evidenti e in pochi giorni si sarà completata la
trascrizione. Con più agio si sarebbe poi proceduto al confezionamento di
un manoscritto di dedica, meglio nella prossima e più attrezzata curia di
Sarzana, da inviare al signore di Pisa – e quando Ilaro scrive ad
Uguccione, Dante ha ormai lasciato il monastero – dalla cui abbazia di S.
Michele degli Scalzi il romitorio dipendeva. Quanto alla trasmissione del
manoscritto al Faggiolano, che aveva legami familiari strettissimi proprio
coi Camaldolesi (altra fortunata coincidenza)82, si ricorda che Dante81 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., pp. 210-1 e n. 16.82 La lista degli elementi probanti è lunga: nel 1303 Uguccione concede beneficiai monaci Camaldolesi stanziati presso i possedimenti aviti su cui avevasignoria; nel 1306 consentì che suo fratello Federico si ascrivesse all’Ordine;nel 1308 concede un beneficio al monastero di Trivio, a sua volta situato presso
40
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
afferma di voler trasmettere copia (monumenta) della prima parte della sua
opera al monastero (vobis, quindi neppure al monaco, cui dà del “tu”, men
che meno ad Uguccione): null’altro83. Come traspare dal testo, infine,
Dante ha solo suggerito di accompagnare il manoscritto con delle chiose –
il che conferma definitivamente che l’intera operazione era nelle mani del
monaco e non dell’autore – sì da accrescere il valore del dono:
esattamente come farà egli più tardi con l’Epistola XIII;
15) Si vero de aliis duabus partibus [...] ab egregio viro domino Morello Marchione secundam
partem [...] requiratis; et apud illustrissimum Fredericum Regem Cecilie poterit ultima inveniri.
Nam sicut auctor asseruit se in suo proposito destinasse, postquam totam consideravit Ytaliam, vos
tres preelegit ad oblationem istius operis tripartiti: tralasciando, per ora, il tema
della decadenza dall’uso comune della lingua classica e dell’inizio della
Commedia in versi latini, che ritroveremo nell’ultima parte di questa
nota, concentriamoci su tale ultimo passaggio. Osserviamo che l’intenzione
manifestata da Dante assume una forma che, seppur mutata nel destinatario,
è molto simile a quanto apparirà nell’epistola a Cangrande, con una
vicinanza anche lessicale notevole:
De istis tria sunt in quibus pars ista quam vobis destinare proposui [...].
Deinde inquiremus alia tria non solum per respectum ad totum, sed etiam per
respectum ad ipsam partem oblatam» (Ep., XIII 19).
Giusta la tesi del falso, sarebbe del tutto ovvio ipotizzare ch’egli
traesse dall’epistola echi verbali per colorire dantescamente lo schema
i possedimenti di famiglia; nel 1313 Uguccione tenne l’adunanza di guerra perdeliberare la guerra contro Lucca nella chiesa di S. Jacopo di Poggio che, comeil monastero del Corvo, era soggetto ai Camaldolesi pulsanesi di S. Michele degliScalzi; nel 1315 Ludovico il Bavaro, a petizione del Faggiolano, attribuisce, conaltri privilegi, le terre di quella chiesa in feudo allo stesso Uguccione e aifratelli Francesco e Neri; un nipote di Uguccione (figlio di suo fratelloFrancesco che perì a Montecatini) è dei Camaldolesi nel 1350.83 Ricordiamo, con Biagi, che: «A quei tempi interessare ad un’opera lasollecitudine di frati, era il mezzo migliore per assicurarne, o accelerarne ladivulgazione. Del resto, insieme con questo pensiero, poté concorrere la volontàdi sciogliere verso gli ospiti cortesi un debito di gratitudine»; V. BIAGI,L’autenticità, cit., p. 85.
41
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
ben tradizionale della dedica. Ma a cominciare da Billanovich, che ben
individuò tale aspetto84, ci si costrinse a tenerlo in sordina visto il
campeggiare dell’inopinata dedica ilariana a Federico d’Aragona di contro
proprio a quella scaligera, universalmente nota85. Siamo di fronte ad una
topica ragguardevole, tanto più sconcertante in chi, come abbiamo potuto
constatare, ha mostrato finora un’attenzione ed un’abilità mimetica non
comune86. Ma non è tutto. Dopo la morte di Dante non solo l’epistola a
Cangrande ma, tralasciando gli inediti De vulgari Eloquentia e Convivio, anche
la Commedia, nel Purgatorio e, al di là di ogni dubbio, nel Paradiso, lascia
deflagrare in più punti un giudizio negativo per il «novissimo Federico».
Occorrerebbe pensare allora ad un retore che, straordinariamente abile nel
ritrarre l’incontro tra un oscuro monaco ed il grande esule, sapesse poco
e male delle opere dell’autore, poco perfino del sacro poema.
Sul punto è stato agevole ricordare (Padoan) che Boccaccio stesso è il
primo a trovare contraddittoria una notizia di dedica che egli sapeva, per
autorevole tradizione, non rispondente al vero; il legame tra Dante e
Cangrande doveva essere divulgato in ambiente ravennate e veneto: veronese
84 «Qui mi limito a segnalare questi incontri tra la lettera di Ilaro e la letteraa Cangrande: “ad introdutionem oblati operis”, “ad ipsam partem oblatam”,“subiectum partis oblate” (Ep. XIII, 4, 6, 11), “ad oblationem istius operis” (Ep.di Ilaro, I 76); “pars ista quam vobis destinare proposui” (Ep. XIII, 6), “opus […]destinare intendo” e “opus ipsum destino” (Ep. di Ilaro, I 17-8 e 67)»; G. BILLANOVICH,La leggenda dantesca, cit., p. 108 e n..85 «Ma credo che siano coincidenze casuali, prodotte da ragioni di affinità diargomento»; ibidem. Ma il punto, specie se confrontato con altre meno stringentiagnizioni pur passate comodamente in giudicato, non è pacifico. Qualora vi fossedi mezzo un falsario, i prestiti citati appaiono in effetti tutt’altro cheinfondati: tuttavia poiché Boccaccio per unanime consenso degli studiosi (daParodi a Vandelli, da Billanovich a Mazzoni a Jenaro-MacLennan) raggiungeeffettivamente tardi l’epistola scaligera, ne segue che i precoci prestitiilariani, alla data della trascrizione laurenziana (1340 circa), dovranno esseresegnalati quali elementi gravemente contrari alla tesi del falso boccacciano.Vista la controversia tuttora in corso (ma cfr. almeno DANTE ALIGHIERI, L’Epistola aCangrande, a cura di E. Cecchini, Firenze, Giunti, 1995) si preferisce peraltronon impiegare tali riscontri in pro di qualsivoglia tesi attributiva.86 Francamente insignificante la motivazione offerta da Billanovich di fronteall’inusitata dedica aragonese: «Egli [scil. Boccaccio] neppure si allarma dellemaledizioni e dei disprezzi con cui Dante aveva depresso quel principe in tantesue pagine»; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 83.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
in primo luogo, ma anche veneziano, come dimostra il sonetto di Giovanni
Quirini, Segnor ch’avete di pregio corona; ambienti cui sarà da aggiungere quello
fiorentino, dove furono custodite le memorie dirette del poeta dai figli e
da un cenacolo di precoci estimatori: Andrea Lancia, ad esempio, conobbe
l’epistola a Cangrande come integralmente di Dante prima del 134287.
Scrive Enzo Cecchini, riferendosi nell’occasione alla presunta
falsificazione dell’epistola scaligera:
Un falso intenzionale mira ovviamente ad evitare ogni stranezza, a raggiungere
il massimo della credibilità88.
Eppure, i versi di Ilaro sono palesemente incongruenti perfino rispetto
al preteso oggetto della falsificazione, l’incipit della Commedia, il che,
si converrà, è un’enormità: pare difficile non accordarsi con Padoan
quando si chiede quale falsario avrebbe mai perso l’occasione di ricalcare
l’incipit ilariano sull’antecedente biblico dantesco, cioè Isaia, allorché
riferisce della lamentazione di Ezechìa (38, 10): «Ego dixi: in dimidio
dierum meorum vadam ad portas Inferi».
Saverio Bellomo, impostando il proprio contributo sull’ipotesi che il
falsario sia Giovanni del Virgilio (2004), giunto di fronte alla necessità
di trovare una spiegazione plausibile a tale incongruenza, si riferisce a
quanto opinato un tempo da Rajna89:
Allora lo scambio di destinatario del Paradiso va considerato intenzionale
[...]. E si capisce. Nell’ambiente legato a Mussato, lo Scaligero, pur87 Cfr. il fondamentale studio di L. AZZETTA, Le chiose alla «Commedia» di Andrea Lancia,l’«Epistola a Cangrande» e altre questioni dantesche, «L’Alighieri», XX, 2003, pp. 5-73.88 DANTE ALIGHIERI, L’Epistola a Cangrande, ed. Cecchini, cit., p. XVII.89 P. RAJNA, Testo della lettera, cit., p. 266: «O sarebbe mai con un proposito ostileallo Scaligero che l’autore della lettera scrisse quel ch’egli scrisse,suggellando l’asserzione delle tre dediche [...]. Diventa allora intelligibile,pare a me, l’intrusione fatta di Federico. Lo scopo essendo di escludere, non sistette a badar troppo per il sottile, se colui che si surrogava era, oppur no,persona veramente adatta. Cane morì nel 1329; ed io riterrei probabile ches’avesse di mira lui vivo [...]. Resulterebbe di qui un dato cronologico [...].La lettera dev’essere stata fabbricata poco dopo la morte di Dante».
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
ghibellino, era però il grande nemico di Padova [...]. Questa osservazione induce
anche a ritenere la stesura della lettera anteriore alla morte di Cangrande,
avvenuta nel 1329, con il vantaggio di stringere la cronologia più dappresso a
Giovanni del Virgilio [scomparso intorno al 1327]90.
Si viene così ad enfatizzare un’inedita valenza antiscaligera del testo
ilariano in buona misura autoreferenziale, priva di presupposti. A tale
riguardo, non è chiaro in base a cosa ritenere Del Virgilio così
visceralmente legato a Mussato e a Padova da fargli commettere una
stridente topica pur di realizzare un intento polemico antiveronese di
cui, dalle scarne notizie biografiche e dalle opere oggi note, non risulta
essere mai stato affetto91. Anzi. È a tutti noto che nell’egloga di
risposta a Dante (1320) Del Virgilio propone, tra i grandi temi epici
degni del canto latino del poeta, le disfatte che Cangrande aveva
clamorosamente inflitto proprio ai Padovani (1314-‘17); il che, si vorrà
consentire, non è quanto di più filopadovano e antiscaligero si possa
desiderare. Inoltre, sebbene da posizioni moderate, il professore
bolognese non esitò a manifestare la propria riprovazione per l’opera
maggiore di Dante (almeno la parte a lui già nota, le prime due cantiche),
suggerendogli pressantemente di adottare i modelli epici della latinità90 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 233. Per motivare l’eccentrica preferenzaaccordata a Federico d’Aragona, oltre a richiamare le note benemerenze ghibellinedel re siciliano, Bellomo scrive: «né forse fu ininfluente la fama che a Veneziaaveva goduto l’Aragonese, proprio in ambiente letterario, quando nel 1316 donò aldoge Giovanni Soranzo una coppia di leoni, che presto generarono tre leoncinivivos et pilosos»; ivi, p. 234; cfr. G. MONTICOLO, Poesie latine del principio del secolo XIV nelcodice 277 ex Brera al R. Archivio di Stato di Venezia, «Il Propugnatore», III, 1890, pp. 244-303, pp. 244-7.91 Se legami di sensibilità culturale, corroborati da una postrema egloga (1327ca.), sono da mettere nell’ordine del certo, le poche circostanze materiali a noinote ci obbligano a non andare molto oltre; si pensi che Del Virgilio incontròMussato solo una volta, di sfuggita, alle porte di Bologna, nella tarda estatedel 1319, in occasione di un’ambasceria guidata dal poeta padovano per richiedereaiuti contro l’assedio di Cangrande. Del Virgilio non si trattenne con lui né loinvitò per ospitalità poiché, commisuratevi le proprie condizioni materiali, nonsi ritenne all’altezza di tanto personaggio (cfr. l’egloga a Mussato Tu modo Pieriisvates redimite corymbis, in particolare i vv. 105-65, che denunciano a chiare lettereche i due non si erano in pratica mai visti e che si conoscevano semplicementeper fama, molto in grazia della mediazione di Rainaldo dei Cinzi).
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
classica, ben più consoni all’altezza della materia e in linea con le
proprie convinzioni accademiche.
Un atteggiamento tutto diverso dimostra invece Ilaro, le cui remore
sono quelle trite di un modesto scolastico attardato, non certo quelle dei
circoli proto-umanistici à la pàge, con cui Giovanni aveva sensibilità
comune; remore, per di più, presto accantonate, ancora una volta in
contraddizione con l’atteggiamento ben più combattivo del grammatico
bolognese che, paventando un: «Sunt forsan mea regna tibi despecta?» (Ecl.,
III 77), non esita a minacciare: «Me contempne: sitim Frigio Musone
levabo, scilicet – hoc nescis? – fluvio potabor avito» (Ecl., III 88-9). Un
passo di Luis Jenaro-MacLennan apre la strada ad una più attenta
storicizzazione del tema delle dediche evidenziandone, in relazione ai
dubbi espressi sul punto dallo stesso Certaldese, un fattore ben noto di
dinamicità:
Boccaccio certainly knew that a work could be dedicated without being finished,
and that an author could change his mind at some stage of the work and dedicate
it to some patron other than the one he first intended. This can easily be
illustrated from Boccaccio’s dedications of some of his own works»92.
92 L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle, cit., p. 115. Lo studioso si riferisceai casi del De mulieribus e del De casibus. In tale più realistico contesto, la dedicaall’Aragonese, inconcepibile alla luce di un falso che di norma rifuggedall’inverosimile, può essere più distesamente esaminata. Sulla scia di Biagi,Giorgio Padoan ha fornito le tessere più convincenti: su Federico si hannogiudizi (ma collettivi) non lusinghieri nel De vulgari (1304, cfr. DvE, I XII 5); enell’ultimo libro del Convivio (1307-‘08, cfr. Conv., IV VI 20); mirati, ma con toniancora moderati, in Purg., VII 119; con accenti roventi in Par., XIX 130-5 e XX 61-3.Dal 1304 al 1308 Federico non è oggetto di strali, piuttosto è accomunato aipotenti dell’epoca in una generale deplorazione dei tempi. L’Inferno, che copre unlasso che va all’incirca dal 1308 al 1314, non presenta giudizi di sorta, mentreuna prima menzione in Purg., III 116 è, contrariamente a quanto si è cercato disostenere, largamente elogiativa. Federico ed il fratello Alfonso vi sono citatiquali «l’onor di Cicilia e d’Aragona», appellativo presto degradato a terminetecnico da interpreti preoccupati di preservare una fantomatica monoliticitàdelle opinioni dantesche, e pertanto ritenuto né elogiativo né dispregiativo (ilche, se anche fosse, avrebbe invece il suo peso); ovvero, ancor menoconvincentemente, è stato abbassato ad espediente retorico: visto che a parlare èl’avo dei due sovrani, Manfredi di Svevia, secondo i vulgatori di questa tesiquesti non potrebbe che elogiare i suoi discendenti. Un assurdo evidente: a far
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Non è chiaro infine il motivo per cui Del Virgilio, esercitandosi
retoricamente anni dopo la morte di Dante, quindi a sacro poema
integralmente pubblicato, appuntasse innaturalmente la narrazione sulla
sola prima cantica, dando le altre due per venture. Dovremmo certo pensare
ad una felicissima mossa creativa (che, come altre già incontrate, si
adatterebbe però più ad un forte novelliere che ad un buon grammatico ma
mediocre letterato quale il bolognese), con anche un’aderenza biografica
non meno che brillante. Da un punto di vista storico c’è un solo argomento
che si oppone all’esistenza del monaco Ilaro: l’assenza di documenti,
laddove un reperto scritto sarebbe stato desiderabile. La circostanza dà
parlare i personaggi del poema, qui come altrove, è sempre Dante; simularel’intervento di un membro illustre di una casata, o addirittura del direttocapostipite, serve in più occasioni al poeta per conferire verosimiglianza allatesi che dialogicamente espone. Non di rado sono denunciati con accenti polemicile malefatte e i vizi di familiari e discendenti del personaggio stesso: i casidi Forese Donati, che condanna con toni apocalittici il fratello Corso, e di UgoCapeto, che esecra i discendenti della sua stessa stirpe, esentano da ulterioriesemplificazioni. Non si vede quindi perché il solo Manfredi avrebbe dovuto usareun surplus di retorica cortesia in pro dei suoi discendenti nolente Dante. Infine, aprescindere dal significato di onor, che Dante stia elaborando un episodio permolti versi gradito al monarca siculo-aragonese è evidente per prove benmaiuscole: in primo luogo in quel canto si certifica la discendenza legittima diFederico da Manfredi di Svevia laddove, in quel frangente di accesa ostilità, ipolemisti al soldo di Roberto d’Angiò propalavano la notizia della suaillegittimità. Secondariamente, in quel canto Dante rende plasticamente nulli glieffetti della scomunica papale (perché non sorretta da zelo cristiano): infattiil poeta fa salvo Manfredi, morto scomunicato, atteggiamento doppiamente graditoa Federico poiché, non solo suo nonno, ma anch’egli viveva scomunicato. Come sivede, l’apertura di credito da parte dell’esule oltrepassa certe angustieinterpretative, risultando del resto naturale verso chi aveva dapprima appoggiatoArrigo VII e ne aveva poi raccolto, con Uguccione della Faggiola, l’eredità: nonsarà da trascurare che nel corso del 1315 si andava preparando un trattato dialleanza proprio tra quei due massimi alfieri dell’imperialismo italico,circostanza con cui si può ritenere provata ad abundantiam la possibilità di unatemporanea inclinazione dell’esule verso entrambi, proprio e solo nel tempo incui il retore ilariano, con un tempismo eccellente, avrebbe ambientato il suofalso, nel breve lasso tra il 1314 e il 1315. In quel momento Federico edUguccione raccolgono, più di quanto non avesse ancora fatto Cangrande, l’ereditàdi Arrigo VII, scendendo l’uno in guerra aperta contro l’odiatissimo re Roberto(seconda metà del 1314), l’altro attaccando frontalmente Firenze e ponendosiapertamente sotto la bandiera imperialista del neoeletto Ludovico il Bavaro(1315). Che Dante mal riponesse la propria fiducia lo dimostreranno i fatti, maciò non toglie che in quel frangente, e solo in quello, il poeta ne degnasseentrambi.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
da pensare ma non va forzata oltre il lecito. Infatti, come hanno
avvertito i massimi eruditi locali, da Podestà, a Sforza, a Mazzini e a
Biagi, l’archivio del monastero non è pervenuto93. Sono pervenuti invece
documenti, in serie pur essa molto lacunosa, riguardanti i rapporti tra il
Monastero e la chiesa di S. Michele degli Scalzi che vi aveva signoria,
dove appaiono naturalmente non tutti i frati, ma il Priore, il Procuratore
e altri frati che occasionalmente partecipassero agli atti in qualità di
testimoni. Se quindi l’assenza di Ilaro dalle carte superstiti può
suscitare legittimo disappunto, non se ne potranno sensatamente trarre
conseguenze capitali. A tal proposito, sarà il caso di notare che Dante
stesso ci dice irrefutabilmente di essere passato dalle immediate
vicinanze del Monastero, quando scrive:
Noi divenimmo intanto a pie’ del monte; / quivi trovammo la roccia sì erta, /
che ’ndarno vi sarien le gambe pronte. / Tra Lerice e Turbìa la più diserta, / la
più rotta ruina è una scala, / verso di quella, agevole e aperta (Purg., III 46-
51).
Il poeta parla palesemente di cosa vista, né ciò risulta messo in
discussione dai moderni commentatori; ebbene Lerici era, al tempo, un
piccolo castello nelle immediate vicinanze della foce del fiume Magra, a
pochissima distanza dal Monastero di S. Croce: e di questo, bisognerà pur
tenere conto94.93 L. PODESTÀ, Del Monastero di Santa Croce del Corvo, «Atti e Memorie della R. Deputazionedi Storia patria per le Provincie Modenesi e Parmensi», VI, 1896, pp. 117-31; G.SFORZA, Castruccio Castracani degli Antelminelli in Lunigiana, ivi, VI, 1893, pp. 299-327; U.MAZZINI, Il Monastero di S. Croce del Corvo, in Dante e la Lunigiana, cit., pp. 211-31; V. BIAGI,L’autenticità, cit..94 Più che condivisibile la chiosa apposta, quasi un secolo fa, da FrancescoTorraca: «Lerici: poco distante da Sarzana, dove Dante fu nel 1306 [...] e dallafoce della Magra, dove [è] il convento di S. Croce del Corvo. Ci è giunta,conservataci dal Boccaccio, un’epistola di frate Ilario, “umile monaco del Corvo”[...]. Per molto tempo s’è giudicata apocrifa l’epistola, e inventato di [sana]pianta il racconto; ma ora si comincia a pensare che in questo possa essere unfondo di verità, e che Dante poté capitare al monastero del Corvo tra il 1314 eil 1315. In relazione con l’epistola è notevole la menzione di Lerici e Turbia;non pare che Dante descriva, qui, per sentito dire»; DANTE ALIGHIERI, La Divina
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Il contributo di Bellomo ha il pregio di aver per primo fissato
l’attenzione sul versante strettamente filologico, passando al pettine
stretto i pochi versi ricordati da Ilaro, riferendo del presunto incipit
latino della Commedia. L’obiettivo dello studioso, che ha perseguito con
acribia un percorso innovativo ed originale in relazione alla questione
ilariana, è dimostrare come le fonti utilizzate per la composizione di
quei versi fossero pressoché ignote a Dante. Su tali basi pare lecito
concludere per la attribuzione ad un retore di quella sezione
dell’epistola e, per estensione analogica, dell’intero testo ilariano.
Ricostruendo i presupposti materiali di quel tormentato incipit,
osserviamo che esso, nei termini in cui ne riferisce Ilaro, fa riferimento
a due circostanze: a. una progressiva evoluzione della riflessione
linguistica in Dante, che lo porta da un’iniziale adesione al latino quale
mezzo espressivo preferenziale per opere di dottrina, ad un orientamento
finale di segno opposto, constatato il deplorevole stato culturale dei
suoi tempi; e b. un concreto tentativo di perseguire la strada
linguisticamente canonica, ben presto accantonato. Con riferimento alla
prima circostanza, osserviamo che Dante stesso, all’altezza della Vita nova
(1293-‘94 circa), mostra di accogliere la preminenza del latino,
riservando elettivamente al volgare la materia amorosa95. Solo un decennio
Commedia, nuovamente commentata da F. Torraca, Milano, Società Editrice DanteAlighieri, 19153, nota al verso.95 «E non è molto numero d’anni passati che apparirono prima questi poete volgari;ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondoalcuna proportione. E segno che sia picciolo tempo, è che se volemo cercare inlingua d’oco e in quella di sì, noi non troviamo cose dette anzi lo presentetempo per .CL. anni. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di saperedire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì. E lo primo checominciò a dire sì come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere lesue parole a donna, alla quale era malagevole d’intendere li versi latini. Equesto è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò siacosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore»;Vn, XVI 4-6. Dante compì al riguardo un’evoluzione notevole, partendo da posizionilinguistiche ben tradizionali, come testimonia proprio la Vita nova. D’altro lato,come nota Padoan, il De vulgari, scritto in latino, la parte iniziale del Convivio (IIX 5), dove si riconosce il latino essere «più bello, più virtuoso e più nobile»,la Commedia, il cui titolo riconosce al volgare una posizione umile rispetto allostile alto della tragedìa, per non dire, infine, della Monarchia, delle Epistole e del
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
dopo, con il Convivio e il De vulgari, si aggiungono le tessere fondamentali
di una riflessione linguistica giunta ad esiti radicalmente nuovi; per
tutti, valga il celebre passo del Convivio (I IX 5).
Con riferimento al secondo tema, un tentativo di abbozzo in latino poi
interrotto, disponiamo di una testimonianza non dirimente ma neppure
irrilevante, risalente, attraverso il nipote Filippo, al grande cronista
Giovanni Villani, e quindi ad un tempo precedente l’esilio da Firenze:
Audivi, patruo meo Johanne Villani hystorico referente, qui Danti fuit amicus
et sotius, poetam aliquando dixisse quod, collatis versibus suis cum metris
Maronis, Statii, Oratii, Ovidii et Lucani, visum ei fore iuxta purpuram cilicium
collocasse. Cumque se potentissimum in rithmis vulgaribus intellexisset, ipsis
suum accomodavit ingenium.
Che Dante abbia provato ad emulare i grandi della latinità classica
senza esito è quindi circostanza da ritenere verosimile96, e d’altronde
perfettamente in linea con le concezioni dei generi letterari e
linguistiche allora correnti che imponevano, in via preliminare, un
serrato confronto con la lingua dotta. Giunto alla parte centrale della
propria dimostrazione, scrive Bellomo:
Affrontiamo la questione da un’altra specola, appuntando la nostra attenzione
sui due esametri e mezzo, che, se costituiscono un prodotto di Dante stesso,
rappresentano il portato più rilevante dell’epistola: «Ultima regna canam,
fluvido contermina mundo, / spiritibus que lata patent, que premia solvunt / pro
meritis cuicunque suis...»97.
De situ, testimoniano in Dante persistenti concessioni alla superiorità del latino.96 FILIPPO VILLANI, Expositio seu Comentum super Commedia Dantis Allegherii, a cura di S.Bellomo, Firenze, Le Lettere, 1989, p. 77. Sul punto, che potrebbe ancheoccultare rimandi allusivi al poema e quindi non rappresentare la realtà in modoobiettivo ma letterariamente ricostruito, cfr. la rec. all’edizione bellomiana adopera di L. C. ROSSI, «Medioevo e Rinascimento», XV, 1990, pp. 447-52, inparticolare pp. 451-2. Naturalmente, «letterariamente ricostruito» non può essereidentificato tout court con falso.97 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 219.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
È la prima volta che il tema dell’autenticità dell’epistola di Ilaro
viene portato sul terreno strettamente filologico, mai affrontato con
tanta perizia in passato. A parziale scusante di tale scarsa attenzione,
si possono annoverare le notevoli assonanze tra i versi ilariani e quelli
danteschi, in particolare della prima egloga a Del Virgilio:
Tunc ego: “Cum mundi circumflua corpora cantu / astricoleque meo, velut infera
regna, patebunt”» (Ecl., II 48-9).
Come si può vedere, in due soli versi ricorrono ben cinque lemmi
ilariani: mundus, fluere (nelle forme aggettivali derivate, con e senza
prefisso), cantus (verbo e sostantivo), regna e patere. Non si fosse trattato
di Dante, tali riscontri sarebbero stati giudicati sufficienti ad
apparentare i due testi in un’identità d’autore (Biagi, Padoan, Cecchini).
Ma anche in caso di falso si è sempre rilevata, da Rajna a Vandelli a
Billanovich, la stretta parentela dei due orditi, ché l’ipotetico autore
avrebbe falsato Dante con Dante98. Bellomo, che mira ad attribuire a Del
Virgilio l’epistola, preferisce enfatizzare più sfumate assonanze
delvirgiliane, mettendo in secondo piano le consonanze strettamente
dantesche, ritenendole, al caso, labili, come di fronte alla congiunzione
dantesca di regna con patere, scalzata da una ricorrenza senechiana di lata
con patere99.
Con ordine. Il primo esametro Ultima regna canam, fluido contermina mundo viene
sezionato in due sintagmi: da un lato ultima regna, dall’altro contermina
mundo. Il primo è ricondotto univocamente a Claudiano, (quasi) certamente
98 Billanovich parla del «primo esametro formato dal Boccaccio “Ultima regna canamfluvido contermina mundo”, che egli ricalcò sui termini di Dante “mundicircumflua corpora”»; ID., La leggenda dantesca, cit., p. 76, n. 1.99 Riproponendo le osservazioni di Rajna (cfr. ID., Testo della lettera, cit., p. 263),Bellomo considera con favore la ricorrenza di tre lemmi delvirgiliani distribuitinei primi cinque versi del carmen indirizzato a Dante, quali: cantibus, pro meritis eregna; cui vengono aggiunti, sempre seguendo Rajna e con un po’ di larghezza,letifluum e confinia; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro., cit., p. 224.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
ignoto a Dante e quindi prova di non autenticità: «[...] Cur ultima regna
quiescunt» (De raptu Proserpinae, I 224). Ribadisce Bellomo:
Le concordanze elettroniche, tra i loro tanti vantaggi, presentano anche quello
di renderci discretamente sicuri dell’unicità dell’occorrenza nell’ambito
dell’intera letteratura. Al più si incontrano sintagmi simili, ma non identici,
in contesti non analoghi, come Chaldaei ultima regni in Lucano, Phars., VIII 226 e
ultima tellus in Ovidio, Metam., IV 627100.
Senza voler intaccare l’importanza della ricerca, resta che il ricorso
a Claudiano non può considerarsi vincolante, sia perché il sintagma non è
in posizione omologa, sia perché l’accostamento dei due termini era
oltremodo diffuso in autori talvolta molto vicini a Dante. La suggestione
combinatoria poté essere suscitata anche da alcune delle seguenti
ricorrenze:
1) Quamobrem postea, cum proelio victus in ULTIMA REGNI refugisset et mori decrevisset (A.
Gellio, Noc. Att., XVII XVI 5);
2) Arua super Cyri Chaldaeique ULTIMA REGNI (Lucano, Bell. Civ., VIII 226);
3) ULTIMA REGNI sui adhuc intacta esse, inde bello vires haud aegre reparaturum (Q. C.
Rufo, Hist. Alex., V I 5);
4) Calliope, Indorum populos et REGNA canamus / ULTIMA terrarum tellus aspergitur Indi (R.
F. Avieno, Perieg. 1294-6);
5) ULTIMA Tarquinius Romanae gentis habebat / REGNA (Ovidio, Fasti, II 686-7);
6) Ad Tartara olim REGNAque, o nate, ULTIMA (Seneca, Her. Oet., 1765).
In un tale contesto il ricorso a Claudiano diviene ipotesi suggestiva
ma non affatto dirimente, oltre che poco economica. Veniamo al contermina
mundo:
Anche la clausola del verso è preconfezionata [ricalcando] la clausola del
verso seguente [...]: «...et omnis / undique diffusi regio contermina mundi». Il
100 Ivi, p. 223.51
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
verso proviene da un’epistola metrica inviata al Doge di Venezia Giovanni Soranzo
in occasione della stupefacente pesca di un pesce spada. Ma ancora più
stupefacente per noi [...] è apprendere che l’autore del componimento risponde al
nome di Albertino Mussato [...]. Per quanto non siano necessarie prove
documentarie per dimostrare l’improbabilità che Dante conoscesse e utilizzasse
proprio un testo del Mussato, si può aggiungere, ad abundantiam, che l’epistola
[deve essere posteriore al 1312, allorché salì in carica il doge] e fu
probabilmente di alcuni anni più tarda [1314 circa]101.
La clausola è leggermente imperfetta, nonché di accesso impervio, ed è
ipotetico porre che la vedesse Del Virgilio. Non solo. Non sarà da
tralasciare che l’invio di epistole gratulatorie ed ambasciate,
nell’ambito del conflitto che dal 1309 aveva opposto la Repubblica di S.
Marco alla Santa Sede, riprese, dopo circa un lustro di isolamento, nei
primi mesi del 1314, allorché, revocata la scomunica clementina, si
riaprirono i canali diplomatici con Venezia; sarà da ricordare che furono
proprio Padovani e Ravennati, per ovvi motivi, a riattivare
tempestivamente le relazioni diplomatiche interrotte: e se per i primi
l’azione di Albertino Mussato è accertata, per i secondi è almeno
possibile la presenza di Dante, giusta l’epistola a Guido da Polenta (dopo
gli interventi di Padoan, guardata con meno sospetto dagli studiosi, tra
cui – ciò che importa ai presenti fini – lo stesso Bellomo102), risultando
101 Ivi, pp. 223-5. Parlò di quest’epistola, in termini non edificanti, GuidoBillanovich: «Encomiastica fino all’adulazione l’epistola VI al doge GiovanniSoranzo [a] celebrazione di un fatto portentoso (“De pisce invento habentegladium ad similitudinem ensis”), degno in tutto del miracolo di potenza egiustizia della Serenissima. Molto interessante è qui il prologo in prosa, nelquale Albertino si dichiara non solo “istoriarum scriptor”, ma anche [...] “artispoetice professor”»; ID., Il Preumanesimo padovano. Il Trecento, in Storia della cultura veneta,5 voll., Vicenza, Neri Pozza, 1976-‘87, II, pp. 19-110, a p. 79. Per GuidoBillanovich l’epistola appartiene ad un genere «fisico-naturale, un po’ tronfioper la goffa erudizione»; ivi, p. 80. Il prologo in parola e la relativa epistoladogale si trovano pubblicati in G. MONTICOLO, Poesie latine, cit., pp. 270-97.102 «Il Petrocchi [...] sostiene che questa affermazione [scil. “Verone perquadriennium continuum operi studiose vacavit” di Filippo Villani] sia untentativo di ovviare all’“errore” del Boccaccio [...] ma di errore forse non sitratta se, come pare, è autentica l’Epistola a Guido da Polenta»; S. Bellomo, inFILIPPO VILLANI, Expositio seu Comentum, cit., p. 39 e n. 58.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
non impossibile l’eventualità ch’egli udisse leggere o entrasse in
contatto con altri testi gratulatori d’occasione, quali quelli di Mussato
o di altri, approntati a fini diplomatici.
Sul punto, salvo errore di chi scrive, resta da dire che non si
conoscono altre ricorrenze in clausola di contermina immediatamente seguito
dal sostantivo mundus103. Posto tuttavia che va considerato non solo ciò
che è in clausola, a pena di restringere ingiustificatamente la ricerca
delle fonti, specie in un autore di non eccelsa sensibilità umanistica
come Dante, resta una notevole distanza grammaticale e di senso: infatti
in Ilaro contermina è neutro plurale accordato a regna, mentre in Mussato è
femminile singolare accordato a regio. Su tali basi, non sarà quindi
impossibile riconoscere l’influenza di un’altra fonte in versi, che può
aver suggerito l’accostamento dell’aggettivo contermina al sintagma
(ultima) regna, e che porta il nome ben dantesco di Lucano: «Inde peti
placuit Libyci contermina Mauris / regna Iubae» (Phars., IX 300-1).
Rivolgiamoci ora alla ricorrenza di lata con patere; scrive Bellomo:
Quanto all’immagine dei regni che si spalancano [...] mi pare indubbio che
risenta del seguente verso delle Troades di Seneca [cui regna campi lata Thessalici patent,
v. 878]. Le concordanze elettroniche ci forniscono una sola occorrenza di patere
combinato con l’aggettivo latus [nell’improbabile Silio Italico] (Punica, XVI 674)[104]. Piuttosto sarà da considerare l’espressione contigua [...] nella prima
egloga dantesca, che però rispetto a quella senecana mi pare meno pertinente105.
Sul punto occorre una riflessione preliminare: Bellomo, nel censire le
rispondenze tra Ilaro e Seneca, pone in marcata evidenza anche il lemma
regna oltre a quello oggetto d’esame, lata patent, creando un effetto
fortemente suggestivo («cui regna campi lata Thessalici patent»), dando la
103 Osserviamo che la differenza di caso (mundo vs. mundi), diviene ora nonrilevante, diversamente che per Lucano (regna vs. regni, che a parità ditrattamento avrebbe forse potuto, per economicità, scalzare Claudiano).104 La fonte è: «secura pericli / litora lata patent, et opima pace quieta / stattellus». Si potrà correggere il [XVI 674] indicato da Bellomo in [XVI 683].105 Ivi, p. 224.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
ricorrenza di ben tre lemmi ilariani in un solo verso senechiano. Fatto
sta che regna è stato già utilizzato poco prima in servizio di Claudiano
(ultima regna), sicché delle due l’una: o si rinuncia al collegamento col De
raptu Proserpinae (e a Claudiano) o ci si limita al lata patent: come traspare
dal suo dettato, lo studioso sceglie questa seconda strada106; e
giustamente, vista l’attrazione di regna e ultima. Ancora una volta la
fonte, se si dimostrasse univoca, rimanderebbe ad un retore distinto da
Dante, poiché si suppone che il poeta fiorentino non conoscesse Seneca
tragico:
Circa la conoscenza o meno di Dante delle tragedie di Seneca [...] un fatto è
certo: l’unico riferimento ad esse sicuro, perché esplicito, compare nell’Epistola a
Cangrande e ha tutta l’aria di essere un generico riferimento che non prova
minimamente una conoscenza diretta [...], [d’altronde] anche se l’Alighieri
conobbe le tragedie, pare però da escludere [...] una sua conoscenza diretta
della recensio E [tradizione del testo delle tragedie di Seneca riscoperta da
Lovato Lovati a Pomposa intorno all’ultimo quindicennio del XIII secolo e rimasta
in circolazione ristretta nei circoli proto-umanistici padovani]. Ebbene ancora
una volta cogliamo con le mani nel sacco il nostro falsario, poiché egli dimostra
di conoscere Seneca proprio secondo il testo di E, che al v. 878 delle Troades
legge appunto patent, contro la lezione iacent della concorrente famiglia A107.
Poiché, come si mostrerà, Dante poté ricavare il sintagma in questione
da una fonte a lui ben nota, non ci addentreremo in questa sede in una
questione intricatissima quale quella qui appena adombrata da Bellomo. Non
ci si può tuttavia esimere da due brevi osservazioni: in primo luogo la
conoscenza diretta di Seneca tragico in Dante è oggi ampiamente condivisa
dagli specialisti, ed è communis opinio, restando l’opinione contraria quasi
isolata a Giorgio Brugnoli, il quale mostra sul punto la massima
intransigenza perché ciò gli è viatico per servire ad un’altra tesi
106 Ne sia prova l’accostamento a Silio Italico, in cui Bellomo trova: «litora latapatent», senza alcuna vicinanza a regna.107 Ivi, pp. 225-6.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
minoritaria di cui era alfiere: la falsità dell’epistola a Cangrande.
Sarebbe arduo dar conto dettagliatamente delle ragioni di ciascuno
studioso, né è oggetto del presente lavoro; si rimanda pertanto ai loro
contributi per più precisi riferimenti108.
Infine, non si può in tutto concordare con l’altra affermazione sulla
netta distinzione tra le due famiglie A ed E che ci tramandano le tragedie
di Seneca: se la famiglia E era rara a cavallo tra XIII e XIV secolo in
Italia, nonché sconosciuta in Europa, era però diffusa proprio e solo nel
108 Dei ripetuti interventi in cui l’autore s’impegnò per arginare il dilaganteaffermarsi della tesi contraria, cfr. da ultimo G. BRUGNOLI, Percorsi della tradizionemanoscritta di Seneca, in Seneca nel bimillenario della nascita. Atti del Convegno nazionale di Chiavaridel 19-20 aprile 1997, Pisa, ETS, 1998, pp. 77-107. Dei precedenti da segnalare: ID.,La tradizione manoscritta di Seneca tragico alla luce delle testimonianze medievali, «Memoriedell’Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche eFilologiche», VIII, 1957, pp. 201-87; ID., Le tragedie di Seneca nei Florilegi medioevali,«Studi Medievali», I, 1960, pp. 138-52; ID., «Ut patet per Senecam in suis tragediis»,«Rivista di Cultura Classica e Medievale», IV, 1963, pp. 146-63; ID., Dante - «Inf.»XXX 13 sgg., «L’Alighieri», VII, 1966, pp. 98-9; ID., Cena Tydei, «Giornale diFilologia Italiana», XVII, 1986, pp. 221-34. Si dà di seguito, cronologicamentedisposta, la serie ormai imponente dei principali studi specialistici che, purcon varietà di argomenti, si mostrano inclini alla tesi, oggi largamentecondivisa, di una conoscenza diretta di Seneca tragico: ampio ma dispersivo, E.PROTO, Dante e i poeti latini, «Atene e Roma», XI, 1908, pp. 23-48 e 222-36; XII, 1909,pp. 7-24 e 278-90; XIII, 1910, pp. 79-103 e 149-62; ragionatissimo, E. G. PARODI,Le tragedie di Seneca e la «Divina Commedia», «Bullettino della Società Dantesca Italiana»,XXI, 1914, pp. 241-52; di limitata importanza, F. GHISALBERTI, L’enigma delle Naiadi,«Studi Danteschi», XVI, 1932, pp. 105-25 e ID., La Quadriga del Sole nel «Convivio»,«Studi Danteschi», XVIII, 1934, pp. 69-77; un cenno in F. MAZZONI, in velatapolemica col primo contributo di Brugnoli, Guido Da Pisa interprete di Dante e la sua fortunapresso il Boccaccio, «Studi Danteschi», XXXV, 1958, pp. 157-98, p. 93: «E non entrosu quanto vien detto un po’ di fretta, circa la conoscenza che Dante ebbe diSeneca»; epigrafica, S. MALOSTI, Dante traduttore?, «Convivium», XXXII, 1964, pp. 242-59; di più ampio spettro, ma con utili cenni su Seneca, A. RONCONI, Per Danteinterprete dei poeti latini, «Studi Danteschi», XLI, 1964, pp. 5-44; decisivo, G. CONTINI,Filologia ed esegesi dantesca, ora in ID., Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976, pp. 113-42; ricco di informazioni e ben ragionato, C. ZAMPESE, «Pisa novella Tebe»: un indizio dellaconoscenza di Seneca tragico da parte di Dante, «Giornale Storico della LetteraturaItaliana», CXV, 1989, pp. 1-21; di impostazione monografica, G. MEZZADROLI, Seneca inDante. Dalla tradizione medievale all’officina dell’autore, Firenze, Le Lettere, 1990; ancora C.VILLA, Le tragedie di Seneca nel Trecento, in Seneca e il suo tempo. Atti del Convegno nazionale di Roma-Cassino 11-14 novembre 1998, a cura di P. Parroni, Roma, Salerno, 2000, pp. 469-80;EAD., Rileggere gli archetipi: la dismisura di Ugolino, in Leggere Dante, a cura di LuciaBattaglia Ricci, Ravenna, Longo, 2003, pp. 113-29. Più recentemente, T. LEUKER,L’«orazion picciola» dell'Ulisse dantesco e un'invettiva di Seneca, «L’Alighieri», XXXII, 2008, pp.91-4.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
distretto (ben dantesco) tra Padova e Verona, tra i circoli proto-
umanistici locali109; resta inoltre che la famiglia A pura era in Italia
pressoché sconosciuta al tempo di Dante, non se ne hanno testimonianze se
non dalla seconda metà del Trecento e, per gli anni immediatamente
precedenti, solo la si ipotizza per abduzione110, al punto che il suo
archetipo (α’) è stato finora, e non persuasivamente, a malapena
congetturato111. Invece, com’è communis opinio tra i filologi classici, in
quel tempo in Italia era diffusa una famiglia mista, denominata AE, basata
su codici della famiglia A interpolati da lezioni della concorrente, e più
autorevole, famiglia E112. In conclusione, non si vuol certo affermare che
109 Scrive uno dei massimi specialisti, Alexander MacGregor, che: «Le esplicitetestimonianze storiche [...] indicano soltanto l’Italia del Nord come unica sededella tradizione-E dal XIV secolo fino alla metà del XV. Soltanto [dal 1438 sitrovano testi di tale famiglia] a nord delle Alpi [...]. Per i precedenticentocinquant’anni, i discendenti localizzabili di “E” sono tutti nord-italiani[...] i MSS-E di provenienza sicura sono ristretti a sette città della vallePadana, in un quadrilatero formato da Cremona, Verona, Vicenza e Venezia. Ilcentro di quest’area rimane Padova, sede del circolo pre-umanistico di Lovato eAlbertino Mussato [...]. È affascinante, in ogni caso, vedere questo manoscritto[scil. l’Etruscus o Pomposianus, capostipite della famiglia E] diventare – per cosìdire – un sasso gettato in uno stagno: è da Padova che l’influenza di “E” siirradia in un piccolo cerchio»; A. MACGREGOR, L’abbazia di Pomposa, centro originario delletragedie «E», «La Bibliofilia», LXXXV, 1983, pp. 171-85, pp. 175-8. Di quest’autore,si veda anche ID., The manuscript tradition of Seneca’s tragedies: ante renatas in Italia litteras,«Transactions and Proceedings of the American Philological Society», CII, 1971,pp. 327-56.110 Scrive Richard H. Rouse, nel suo fondamentale contributo sulla tradizione A:«The surviving “pure” A manuscripts from fourtheenth century in Italy [...]descends from the β or English family. Although these specific manuscripts datefrom the middle of the [XIV] century, they provide a sound basis on which toassume that a β text had been brought, probably from England, to Italy somewhatearlier, quite possibly many years earlier»; R. H. ROUSE, The «A» text of Seneca’stragedies, «Revue d’histoires et des texts», I, 1971, pp. 93-121, p. 118.111 La congettura è di un altro specialista, Giancarlo Giardina, ma non ècondivisa da Rouse, che scrive: «Giardina tends to the theory that they [scil. itesti contaminati A + E] descend from a single A text which included copiousvariae lectiones from the E tradition [...]; he postulates the existence of anindependent A text in Italy descending from the primitive α, which designates α’.However, it seems to me that the number and the significance of the variants inquestion are not of sufficient magnitude to require the existence of α’»; R. H.ROUSE, The «A» text, cit., pp. 116-7.112 Scrive Giancarlo Giardina, cui si deve l’attuale e più autorevole edizionedelle tragedie di Seneca: «La tradizione manoscritta del XIV secolo registra piùdi cento codici, tranne tre tutti da includere nella recensio interpolata (A), più
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Dante conobbe sicuramente la recensio E (né d’altronde è minimamente certo
che la conoscesse Del Virgilio), ma solo che poté in via ipotetica
entrarvi in contatto, poiché fin dal 1303 il poeta, a norma del De vulgari e
di altri notevoli elementi113, sosta ripetutamente proprio nell’area in cui
allora andava diffondendosi quella famiglia. Non solo. Anche qualora ciò
non fosse, sarebbe da sapere (e noi non lo sappiamo) quale tipo di
interpolazioni avessero la fonte o le fonti (con somma probabilità del
tipo misto AE) di Seneca tragico che il poeta poté consultare, prima di
escludere con certezza che gli fosse sconosciuta una lezione piuttosto che
un’altra. Si aggiunga, a tal proposito, che manoscritti di Seneca tragico
erano sicuramente reperibili anche al di fuori del circolo lovatiano-
mussatiano, come dimostra il caso del dotto padovano Geremia da
Montagnone. Il contesto è obiettivamente molto complesso e non consente
conclusioni univoche in alcun modo. Visto che la ricorrenza proposta dal
Bellomo non è né in clausola né strettamente consequenziale (c’è Thessalici
frapposto tra i due lemmi) e neppure metricamente coincidente114, è aperta
la possibilità ad una derivazione di lata con patere che non rimandi
necessariamente a Seneca tragico; essa non è affatto rara, compare ben due
volte, ad esempio, nei libri iniziali delle Heroides di Ovidio: «[...]
timeo tamen omnia demens et patet in curas area lata meas» (Her., I 72) e:
«quaque patent oculis aequora lata meis» (Her., II 122).
Giunti al premia solvunt, vi è invero un certo imbarazzo nell’affrontare
un sintagma che Dante (o il retore ilariano) sviluppa in base ad un
concetto biblico talmente noto da risultare pressoché anodino, rendendo
esattamente quasi tutti del tipo contaminato AE»; G. GIARDINA, La riscoperta di Senecatragico tra Quattrocento e Seicento, in Seneca nella coscienza dell’Europa, a cura di I. Dionigi,Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 172-83, pp. 173-4.113 Cfr. G. INDIZIO, Le tappe venete, cit..114 Osserviamo, con Bellomo, che il verso senechiano è metricamente disomogeneorispetto al verso ilariano: trimetro giambico il primo, esametro il secondo.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
quindi non facile la ricerca di fonti ad hoc115. Tuttavia, limitando il
discorso al profilo filologico, scrive Bellomo:
Per la clausola del secondo verso, soccorre ancora Claudiano, ma qui quello
ancora più desueto dell’In Eutropium (XX 211): «sic hostes punire solent, haec
praemia solvunt / excidiis»116.
Premesso che l’insistita ricerca di fonti tanto desuete finisce col
provocare effetti collaterali indesiderati, poiché oltre un certo dosaggio
si finisce col mettere fuori gioco non solo Dante ma anche il non proprio
eccelso Del Virgilio, l’area semantica claudianea appare invero piuttosto
distante da quella ilariana117; certamente la ricorrenza è di qualche peso
e si potrebbe passarla in giudicato ove non vi fossero altre vie
accessibili. Ma si danno di seguito alcune ricorrenze (la prima è
prosastica) di praemia con solvere, cui forse Dante poté ricorrere più
agevolmente, attraverso la fonte diretta o excerpta, florilegia e sententiae, che
in quel raro testo claudianeo:
1) Cicerone: «Atque utinam, patres conscripti, [civibus] omnibus solvere
nobis praemia liceret!» (Phil., XIV 30);
2) Virgilio: «premia posse rear solvi»(Aen., IX 254);
3) Ovidio: «Tempus adest [...] / praemia (sunt promissa mihi dignoque
nepoti) / solvere et ablatum terris inponere caelo» (Met., XIV 808-11).
Infine, per il sintagma pro meritis si osserva che, ove lo si leghi a
praemia invece che a solvere, si schiudono accostamenti più economici,115 La lezione biblica era da lungo tempo proverbiale; si ritrova, ad esempio, inEccl., XVI, 15; Ad Rom., II, 6; Gen., IV, 13; Jos., XI, 20; Job., VI, 2; Esth., XVI, 18;Ad Hebr., X, 29 (nell’elencazione mi servo di G. PADOAN, rec. a A. ROSSI, Il carme diGiovanni del Virgilio a Dante, «Studi sul Boccaccio», II, 1964, pp. 475-508, p. 482 e n.1).116 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 224. Si potrà correggere la citazione da [XX211] in [XX 219].117 Scrive Bellomo: «Si noti [...] come qui il sostantivo praemia sia amaramentedeclinato a indicare il bottino di guerra, ricompensa di orrori e delitti e a untempo punizione del nemico. Si avvia cioè a comprendere anche la significazionenegativa implicita nell’impiego del vocabolo come vox media»; ibidem.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
sebbene prosastici, di quelli visti fin qui, sulla scia del concetto
proverbiale biblico (Matteo 16, 27: «Reddet unicuique secundum opera
eius»):
1) Dante: «Et cum premia sint meritis mensuranda iuxta illud evangelicum
“Eadem mensura qua mensi fueritis, remetietur vobis [Matth. 7, 2]”»
(Mon., II III 5);
2) Tommaso d’Aquino: «Postulatio, ut praemia pro meritis retribuantur» (Lect.
Sup. I Ep. B. Pauli ad Tim., II, lect. 1);
3) Rabano Mauro: «sed pro meritis aeternitatis praemia» (Comm. in Eccl., VII
11);
4) Historia fratris Dulcini Heresiarche: «Ut pro meritis eorum premia digna
reciperent» (Cap. XI)118.
In un contesto a tal misura proverbiale, attribuire a Claudiano e, per
tale via, a Del Virgilio il monopolio nell’accostamento di praemia con
solvere pare forse eccessivo.
In aggiunta a quanto visto fin qui, si deve accennare ad un tema, ben
altrimenti vasto e complesso, riguardante le modalità con cui talvolta si
attribuiscono presunte fonti alla biblioteca di un autore medievale,
traendo conseguenze capitali da meri accostamenti di lemmi, spesso a
ricorrenza unica e privi di altri riscontri; ma, soprattutto, senza la
debita attenzione verso il profilo culturale dell’autore, né per
l’effettiva accessibilità dei testi portatori delle pretese agnizioni. Ai
presenti fini un caso emblematico è dato proprio da Del Virgilio. Non può
sfuggire che le fonti proposte da Bellomo come materiali consultati per
congegnare retoricamente gli esametri pseudodanteschi annoverano in appena
due versi e mezzo testi rarissimi e quasi introvabili. Il caso di
Claudiano è rivelatore. In alcune edizioni dello scambio eglogistico (a
cura di Albini-Pighi, Cecchini, ecc.) viene segnalato che il sintagma118 Quest’ultimo caso valga semplicemente come indice di un sintagma mediamentediffuso, non raro.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
delvirgiliano «Frondentes ripas [...]» (Ecl., III 4) è ripreso da Claudiano
e dal suo «[...] frondentibus [...] ripis» (Paneg. de sex. Cons. Hon. Aug., 195).
La proposta merita molta attenzione, perché potrebbe legittimamente
persuadere – chi ritenga Giovanni del Virgilio autore dell’epistola
ilariana – che egli conoscesse Claudiano. In realtà si tratta di un caso
ben sintomatico del dispositivo attribuzionistico cui si è accennato. La
suggestione claudianea non si basa su di un calco perfetto ché, a tacere
della diversa collocazione nel verso e del disomogeneo contesto
letterario, le differenze strutturali tra i sintagmi sono evidenti (si
pensi, per contrasto, alla ben altra pregnanza del virgiliano «[...]
divine senex, a sic eris alter ab illo eris alter ab illo» di Ecl., V 49,
mediato da Servio: «Videtur allegoria [...] hinc est tu nunc eris alter ab
illo» e traslato di peso da Giovanni nel suo «Fortunate senex, tu nunc
eris alter ab illo» di Ecl., III 33); essa si fonda invece sul semplice
accostamento dei lemmi frondens e ripa, avendo cura di espungerne
l’intermedio (umidus), non omogeneo alla combinazione desiderata. Se altri
fattori congiurassero per una conoscenza di Claudiano da parte di Del
Virgilio (una seconda ricorrenza claudianea, una generale affinità
culturale, una specifica vicinanza contestuale dei lemmi nei due testi,
ecc.), la via per passare in giudicato l’agnizione sarebbe meno
disagevole, ma: a) non si danno ricorrenze claudianee in altre sezioni
delle opere delvirgiliane; b) Claudiano è un autore generalmente poco noto
nel Medioevo e, in quanto panegirista d’occasione, culturalmente non
contiguo al grammatico bolognese; c) anche a tacere della palese
imperfezione del calco, il contesto bucolico dell’egloga delvirgiliana è
molto distante dall’arido servilismo laudativo che pervade i versi del
poeta greco-latinizzato al console Onorio Augusto. Sul punto, altre due
osservazioni s’impongono.
La prima, di portata generale, c’induce a dubitare sistematicamente
delle pretese agnizioni quando non debitamente sorrette da sicuri
riscontri testuali ovvero da solide affinità culturali e di genere
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
letterario tra l’autore e la sua (presunta) fonte; diversamente, è
frequente assistere a proliferazioni agnitive ai limiti
dell’indocumentabile. Per Del Virgilio, ad esempio, dati per scontati
Virgilio, Lucano e Stazio, come pure i ben divulgati Orazio e Ovidio,
tracce confortanti sono state portate (Velli) per Arnolfo di Orleans,
Giovanni di Garlandia, Draconzio, Servio, Eberardo Alemanno, forse
Fulgenzio119; muovendosi invece sulla base di meri, e quasi sempre isolati,
accostamenti combinatori di lemmi, gli studiosi (Albini-Pighi, Brugnoli-
Scarcia, Velli, ecc.) sono andati più lontano, sommando insieme una
quantità pirotecnica di autori, inverosimile per un modesto grammatico:
dai non del tutto impossibili Iuvenco, Sedulio, Prudenzio, Alano di Lilla,
Persio, si è poi proseguito - con varia gradazione nella proposta - con:
Aratore, Giovenale, Properzio, Valerio Flacco, Paolo d’Aquileia, Gregorio
Magno, Marziale, Catullo, Venanzio, Terenzio, Livio, Cicerone, Cesare,
Marziano Capella, Fedro, Silio Italico, Calpurnio, Matthieu de Vendome,
Seneca, Ennodio, Quintiliano, Plauto, Tacito, Gellio, Macrobio, Nemesiano
e Svetonio. Il che denuncia un’anomalia metodologica alla fonte: un simile
profilo obbligherebbe infatti a riconoscere a Giovanni del Virgilio una
così ampia conoscenza e una tale perizia in ingegneria preumanistica del
verso da doverlo affiancare, se non preporre, al circolo dei pionieri
Lovato, Albertino e Rolandino. Non solo. Poco o nulla si è tenuto conto
dell’effettiva accessibilità dei testi degli autori proposti, come pure
del respiro culturale invero limitato del bolognese, e delle fonti
indirette disponibili, incluse le rigogliose tradizioni scoliastiche (in
particolare di Virgilio, Orazio, Terenzio, ecc.).
Considerando più da vicino l’agnizione claudianea osserviamo che, salvo
rarissimi prestiti da Ovidio, nell’occasione Giovanni rielabora pressoché
esclusivamente materiale virgiliano, su tutte: Ecl., II, V e VII, e Georg.,
IV; testi che, nella costruzione dell’egloga delvirgiliana, pienamente
119 Fondamentale G. VELLI, Il linguaggio letterario di Giovanni del Virgilio, «Italia Medioevale eUmanistica», XXIV, 1981, pp. 137-58.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
soddisfano quanto ad ambientazione, contenuto, personaggi e lemmi120. Non è
tutto. Teniamo presente che nei primi 15 versi della virgiliana Ecl., VII
troviamo ben 8 lemmi (viridens, ripa, iuvencus, agnus, capella, respondere, resonare, umbra)
ricorrenti nei soli 11 versi iniziali dell’egloga delvirgiliana, cui
aggiungiamo il ben noto calco dell’incipit (Forte sub [...]); un affollamento
rivelatore proprio lì dove cadrebbe l’inusitato inserto claudianeo (v. 4).
Infine, frondens è un lemma frequentissimo in Virgilio (Georg., II 119 e IV
24; Aen., III 25, V 129, VI 208, VII 135, ecc.) e collocato regolarmente
in ambienti testuali vicinissimi all’egloga di Giovanni121.
Al termine di questo lavoro l’autenticità dell’epistola può dirsi
minimamente acquisita né, per converso, può esservi più spazio per un
esercizio retorico boccacciano122, sebbene non si potranno evitare futuri
120 Sul tema scrive Bellomo: «Contro la mia tesi [i.e. la ascrivibilità delvirgiliana o peridelvirgiliana dell’epistola ilariana] si schiera ora [2006] G.Indizio […], ripercorrendo obiezioni già ampiamente discusse e superate, maindicando anche qualche fonte accessibile a Dante in alternativa a quelle da meindicate: giudichi il lettore della loro maggiore o minore pertinenza, senzaconfondere il campo del possibile, con quello del probabile»; S. BELLOMO, Dante lettoda Boccaccio, «Letture Classensi», XXXVII, 2007, pp. 31-6.121 Naturalmente, ricombinando diversamente tra loro i diversi lemmi si potrannoottenere sintagmi diversi e percorrere altri iter combinatori. Un esempio che dà dapensare si trova in Avieno, geografo del IV secolo, in particolare per l’idea dicantare regni lontani: «Calliope, Indorum populos et regna canamus. / Ultimaterrarum tellus aspergitur Indi / fluctibus Oceani; primam coquit hanc radiissol, / sol Hyperionius, sol magni gratia mundi»; Perieg., 1294-7.122 Non in tutto condivisibile l’affermazione di Billanovich il quale, volendodifendere Boccaccio dalla taccia di falsificatore avanzata da Aldo Rossi per loscambio eglogistico, dovette a sua volta giustificare il presunto falso ilariano,ragion per cui scrisse: «Certo il Boccaccio imbastì nella lettera del monacoIlaro una sua versione fantastica delle peregrinazioni dell’esule Dante e dellaformazione della Commedia; ma tenne questa lettera così celata dentro il suosolito Laurenziano 29. 8 che essa vi rimase sepolta per secoli»; G. BILLANOVICH,Giovanni del Virgilio, cit., p. 22. No, le notizie pseudo-boccacciane non rimaserosepolte affatto. Abbiamo visto più volte come Petrarca ne fosse in qualche misuradestinatario e perciò a conoscenza, così come lo furono coloro che attinsero alTrattatello e, più tardi, alle Esposizioni. Si segnalano, nella lista dei recettoriancora trecenteschi l’Anonimo fiorentino: «Avea cominciato l’Autore questa suatripartita Commedia in questi versi latini: Ultima regna canam fluvido conterminamundo, / Spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt /Pro meritis cuicumque suis, etc.; etgià distesa la materia alquanto inanzi, quando mutò consiglio, avendo rispettoche i signori et gli altri uomini et potenti avean quasi del tutto abbandonatigli studj liberali et filosofichi, et quasi veruno era che a scienzia attendesse;et se pur veruno v’attendea, facea i libri degli autori traslatare in volgare»;
62
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
rilanci riproposti con i consueti toni di novità. L’opinione di
Billanovich e dei successivi suoi settatori va però definitivamente
archiviata.
Sebbene l’opinione di chi scrive sull’attendibilità dell’epistola sia
palese, in questa sede si proporrà conclusivamente un’ipotesi di lavoro
volta a reperire elementi contestuali in pro di chi aderisca all’opposta
sponda attributiva. Partendo dall’assunto che nella catena di trasmissione
al Certaldese, che trascrive intorno al 1340, vi furono sicuramente un
abile retore (non necessariamente un falsario, anche se neppure
quest’ipotesi si possa escludere a priori) e un mediatore ilaro-boccacciano
che recepì il testo e lo trasmise a Boccaccio, si procederà a fissare i
requisiti verosimili da rispettare al fine di comporre una candidatura
credibile al ruolo.
Per quanto la proposta di Billanovich sia da ricusare sul piano del
merito, su quello del metodo è indubbio, per chi scrive, che essa resti la
sola via perseguibile e che anzi la lezione di quel venerato maestro vada
semmai estesa. Billanovich ha brillantemente mostrato come viatico
essenziale per indagare i testi medievali sia una convincente ricognizione
dei generi, delle fonti e dei referenti letterari cui ogni autore di
chiosa a Inf., I, proemio; Benvenuto da Imola: «Secundo, quia autor, vidensliberalia studia, potissime poetica, esse deserta a principibus et nobilibus,quiprincipaliter solebant in poeticis delectari, et quibus opera poetica solebantolim intitulari, et ob hoc opera Virgilii et aliorum excellentium poetarum jacereneglecta et despecta, cautius et prudentius se reduxit ad stilum vulgarem, cumjam literaliter incoepisset sic: Ultima regna canam, fluvido contermina mundo, Spiritibus quaelata patent, quae premia solvunt, Pro meritis cuicumque suis, etc.»; chiosa a Inf., I 10-2;Filippo Villani: «Quibus respondetur poetam metro eroyco ceptitasse hoc modo,videlicet: Ultima regna canam fluvido contermina mundo, spiritibus que lata patent, que premia solvuntpro meritis cuicumque suis. Iamque in opere pluribus processerat odis; deindepensitatione meliori eidem placuit cum stilo simu consilium: animadvertitsiquidem vir prudens phylosophiam et ipsam poesim, similiter et liberalium artiumstudia fore a temporalibus dominis penitus derelicta, qui huiusce studia multipendere solebant»; chiosa a Inf., I Pref.. Tutti, come si vede, accolgono laretorica falsificazione di Boccaccio, dal che è anche ragionevole dedurre che nondovett’essere lui il retore-falsario: ben difficilmente infatti il Certaldeseavrebbe agito in modo tanto subdolo e malizioso da trarre ininganno similipersonalità, con molte delle quali era legato da stretti rapporti di sodalità eamicizia.
63
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
quell’età si ispira; pertanto, se di un retore-falsario del Trecento si vorrà
seriamente discutere, si dovrà dimostrare aver questi agito non solo come
un abile centonista (il che, grazie alle combinazioni allusive ed alle
derive di senso virtualmente infinite che ogni testo offre, potrebbe
portare fin troppo lontano); ma anche come un medievale del Trecento: e
questo richiede di ricostruire un contesto culturale, metodi di lavoro ed
exempla senza misurarsi coi quali si finirebbe col proporre figure di
retore-falsari forse troppo scaltrite e vicine ad una sensibilità
umanistica, se non modernizzante. Billanovich stesso, quando contribuì a
demolire lo stereotipo del Boccaccio falsario delle Egloghe, e Domenico De
Robertis, quando tolse ogni spazio alla falsificazione della Tenzone con
Forese, ci hanno diffidato dal prestare un eccesso di subdola perizia ai
retori-falsari del Trecento, visto che essi ne erano culturalmente
sprovvisti. Quale che fosse la natura dell’operazione letteraria in gioco
(dicasi un esercizio retorico volto a magnificare un autore diletto, la
cd. pia fraus, ovvero il puro e semplice falso mosso da intenti
speculativi): «Il Trecento non è ancora l’età dei falsi macchinati per
pura speculazione letteraria»123.
Il primo nodo da affrontare, preliminare a qualsivoglia esame di un
testo, falso o retoricamente costruito, è il cui prodest? Se un autore
produsse un non irrilevante sforzo per comporre l’epistola, dovette avere
un fine. Sotto tale profilo la candidatura di Boccaccio è preferibile a
quella di Giovanni del Virgilio. Più che credibile, iuxta propria principia, la
motivazione offerta da Billanovich:
Gli allarmi di Giovanni del Virgilio contro l’uso del volgare, che traducevano
convinzioni che si erano indurite nelle scuole [...] rimettevano in discussione
per il Boccaccio l’esemplare venerato della Commedia [...]. Naturalmente egli
ricorse subito all’apologia del volgare che Dante aveva esposto sulla soglia del
Convivio, e ne ricavò come trama della difesa che immaginò di dover fare di Dante e
123 G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 135.64
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
di se stesso il lamento che Dante lì aveva espresso contro i nobili che
abbandonavano l’arte delle lettere, lasciandola scadere tra i vili plebei124.
Un passaggio che, nella sua salda concisione, mette fuori gioco proprio
Del Virgilio. Se l’epistola ilariana appare agli studiosi, a tutti gli
studiosi, fino almeno a Padoan, un tentativo di difesa della scelta del
volgare in pro di Dante e della Commedia (autentico o meno non rileva per
ora), non si vede come potesse alternativamente esserne autore un Giovanni
Del Virgilio, notoriamente contrario alla veste linguistica del poema
sacro, ovvero un qualsiasi grammatico o retore di analoga o più rigida
osservanza accademica, magari pre o proto-umanistica, di tipo «padovano».
Se quel dettato non fu una difesa, ma una palinodia scherzosa o d’altro
genere, l’ipotesi di lavoro resta tutta da dimostrare. Un primo tassello
dello pseudo-Ilaro è in realtà proprio l’aperta e disponibile sensibilità
verso l’uso del volgare, di cui si abbozza palesemente una
giustificazione, risalendo al deplorevole stato culturale dei tempi125.
Un secondo elemento che caratterizza il falsario dell’epistola riguarda
il sicuro ed ampio curriculum dantesco. È questo, si vedrà, un elemento
discriminante, e ancora una volta la candidatura del Certaldese si lascia
preferire ad ogni altra. Boccaccio fu il primo letterato di rango che fin
dagli anni del suo apprendistato giovanile si rivolse a Dante
collazionando, a cavallo tra terzo e quarto decennio del XIV secolo, una
silloge invidiabile per ampiezza e valore. Tralasciando la Commedia, che
non può avere peso dirimente vista la sua diffusione, sarà invece utile
esaminare i richiami ilariani tratti da opere dantesche individuati da
Billanovich, anche sulla scorta di Biagi e Rajna, suddividendoli, a norma
delle indicazioni dello stesso proponente, tra certi e possibili:
124 Ivi, pp. 68-9.125 Per Bellomo l’epistola sarebbe una «prosecuzione del dialogo bucolicointrapreso con Dante [con il] sapore di una piccola rivincita postuma sul suonetto rifiuto di scrivere un poema latino»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p.232.
65
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
a)richiami certi: Convivio (I IX 5); Monarchia (I I 1-3 e 5; I III 3; I IV
4); Epistola IV (per ambientazione lunigianese e dedica a Moroello);
Epistola XI (2, 5, 16); Epistola XII (2); De vulgari Eloquentia (II IV 2); Egloga II
(vv. 48-9);
b)richiami possibili: Convivio (I I 12; I VII 14; IV VI 4); Monarchia (III
XV 16); Epistola XIII126; De vulgari Eloquentia (II IV 1); Egloga II (vv. 36-7).
Come noto, la tradizione delle opere di Dante ha una storia
tormentatissima che solo in parte, grazie ai tesori d’ingegno profusi
dagli studiosi, è venuta oggi alla luce. Di una cosa tuttavia non è da
dubitare: a parte il poema sacro, alcune Rime e la Vita nova, la gran parte
delle opere minori dantesche ebbe una diffusione assai limitata, a volte
decisamente ristretta, il che, nell’identificazione del nostro retore-
falsario, dovrà avere il suo peso. Limitando prudenzialmente le
osservazioni ai richiami certi, varrà la pena ricordare che, escluso
Boccaccio, pare non facile indicare chi altri, prima del 1340 – anno della
trascrizione laurenziana –, potesse aver acquisito una così vasta
dimestichezza con il corpus dantesco da poter combinare il dettato
ilariano. È questo un tassello qualificante del profilo dello pseudo-
Ilaro: egli fu un precoce conoscitore di Dante, probabilmente un cultore
del poeta fiorentino. La storia della tradizione delle opere minori di
Dante consente indubbiamente un passo avanti nell’indagine, finora non
esperito:
• Monarchia127: sebbene non vi si possa dare peso dirimente, la storia del
trattato ha pure una sua peculiarità, che potrebbe avere un valore
indiziario sui caratteri dello pseudo-Ilaro. Come noto, la notizia
del trattato si diffuse in certa misura subito dopo la morte del
126 In realtà l’Epistola a Cangrande avrebbe titolo per risiedere tra i richiami certi,ma si preferisce non procedere in tal senso.127 Più di uno i prestiti segnalati, tra i principali: «Il Boccaccio costruì ilprologo di Ilaro sulla falsariga del prologo della Monarchia»; G. BILLANOVICH, Laleggenda dantesca, cit., p. 126; cfr. altresì pp. 67-8. Concorda S. BELLOMO, Il sorriso diIlaro, cit., p. 212.
66
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
poeta, tanto che vi è esplicita notizia, ad esempio, nell’epitafio
delvirgiliano. Una precoce tradizione fiorentina, a monte delle
citazioni indirette di Villani e Boccaccio, è facilmente
congetturabile come per tutte le opere compiute di Dante – ad
eccezione del De situ –, ed è ormai indubbia128. Tuttavia, una fonte
informata e non sospettabile di minimizzare l’opera dantesca ci
attesta che, in un primo tempo, il trattato fu nel mondo dei
letterati poco conosciuto129. Ma non erano passati dieci anni dalla
scomparsa del poeta fiorentino che si verificò un evento destinato ad
incidere traumaticamente sulla fortuna del libello: la
strumentalizzazione perpetrata dai giuristi e dai polemisti che
appoggiavano Ludovico il Bavaro, al tempo dello scontro con papa
Giovanni XXII, e che ebbe il suo culmine negli anni 1327-‘29130; ciò
provocò la reazione dei giuristi e polemisti di parte curiale e
spinse il cardinale Legato Bertrando del Poggetto a condannare
pubblicamente l’opera a Bologna, manifestando l’intenzione, poi
fortunatamente stornata grazie ai buoni uffici di Ostasio da Polenta
e Pino della Tosa, di bruciare anche le ossa dell’autore. Di questa
vicenda, come noto, è sempre il Certaldese a darci notizia sicura,
confermato da una fonte autorevole ed indipendente quale Bartolo da
128 In chiose, tratte da manoscritti laurenziani primo-quattrocenteschi (Pl.42.14, 15 e 16), che Rudy Abardo considera agli albori del secolare commentodantesco (ma potrebbe trattarsi banalmente di materiale appartenente allanebulosa dell’Ottimo), si trova scritto: «sì com’egli tracta nella sua Monarchianella prima et seconda parte; et volendo provare questo imperio averegiurisdictione iudicatoria circa questi beni temporali, prova in questo modo: lapena che de’ esser vendecta d’alcuno peccato, fa bisogno che sia imposta alpeccante da persona che abbi ordinario giudicio, altrimenti sarebbe non vendectama ingiuria»; R. ABARDO, Una nuova fonte dantesca per Boccaccio, «Rivista di StudiDanteschi», III, 2003, pp. 429-42, p. 430 e n. 7.129 «Per la qual cosa [scil. le polemiche tra le fazioni curialiste e imperialiste,e la condanna del cardinale Del Poggetto] il libro, il quale infino allora appenaera saputo, divenne molto famoso»; GIOVANNI BOCCACCIO, Trattatello in laude di Dante, a curadi P. G. Ricci, Milano, Mondadori, 1974, p. 54.130 Della copiosa bibliografia sul punto, basti il rinvio a G. BILLANOVICH, I primiumanisti italiani nello scontro tra Papa Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, «Italia Medioevale eUmanistica», XXXVII, 1994, pp. 179-86.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Sassoferrato (1313-‘57), allievo di Cino da Pistoia e chiaro giurista
del medio Trecento. Come riferisce Ricci, precedente curatore
dell’Edizione Nazionale, la condanna della Monarchia ebbe esiti non
indifferenti sulla storia della tradizione diretta ed indiretta, la
quale da allora (1328 circa) non solo divenne rarefatta e perfino
criptica131, ma per alcuni decenni si canalizzò nel ristretto ambito
della polemica giuridica tra curialisti ed imperialisti. Non è un
caso se, pur esprimendo essi posizioni critiche tra loro anche molto
difformi, la fortuna del trattato fino alla metà avanzata del XIV
secolo e oltre è affidata ai nomi di: Guido Vernani, Francesco di
Meyronnes, Alberico da Rosciate, Guglielmo Centueri, Bartolo da
Sassoferrato, Agostino Trionfi, Agostino Favaroni, Antonio dei
Roselli132.
Boccaccio, che da una redazione all’altra del Trattatello edulcorò il
racconto della condanna, obliterando in seconda redazione perfino il
titolo del trattato, è un buon termometro di quanto invece il mondo
dei letterati-commentatori, dopo il 1328, vi si avvicinasse con un
crescendo di cautelosa prudenza133. In via di probabilità lo pseudo-
131 Eloquente l’explicit alla Monarchia conservatoci nel celebre codice berlinese,scoperto da Ludwig Bertalot nel 1917, contenente, tra l’altro, una tradizionefondamentale del De vulgari; giunto al punto di dichiarare l’autore dell’opera, ilcopista scherzosamente glissa: «endivinalo sel voy sapere». Chiosa Pier VincenzoMengaldo nella voce De vulgari Eloquentia curata per l’ED: «[L’explicit] significasoltanto la volontà di mantenere anepigrafa e nascosta l’opera politica per ilpericolo della persecuzione ecclesiastica iniziatasi nel 1328».132 L’esemplificazione non è da intendersi esaustiva, ma l’assunto di base nonpare discutibile. Riferimenti bibliografici essenziali: B. NARDI, Fortuna della«Monarchia» nei secoli XIV e XV, in ID., Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia eLetteratura, 1944, pp. 163-205; M. MACCARRONE, Dante e i teologi del XIV-XV secolo, «StudiRomani», V, 1957, pp. 20-8; N. MATTEINI, Il più antico oppositore politico di Dante: Guido Vernanida Rimini. Testo critico del «De Reprobatione Monarchiae», Padova, Cedam, 1958; A. VALLONE,Antidantismo politico nel XIV secolo, Napoli, Liguori, 1973.133 «[La condanna per eresia provocò per un verso] il rapido diffondersi deltrattato, e per l’altro la rapida distruzione di molte copie [...] bandite daiconventi, bruciate sulla piazza, ovunque braccate. [Da allora in avanti latradizione della Monarchia è drammaticamente sconvolta:] copie volutamente reseanonime e celate in mezzo a scritti di altra natura, a testimonianza di tempi edi luoghi nei quali era pericoloso possedere il trattato dantesco; [...] a talicopie altre se ne contrappongono [di maggior cura formale e] con abbondanti
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Ilaro che, a un di presso, scriverebbe tra il 1325 (dopo la morte di
Dante certamente) ed il 1335 (qualche tempo prima della trascrizione
boccacciana), per aver usato del trattato politico dovrà ascriversi
tra i più precoci cultori di Dante, o meglio ad un cenacolo dantesco
connotato da comprovati legami con tradizioni dirette del Dante
minore; ovvero, meno persuasivamente, al novero dei polemisti di
formazione giuridica, meglio se al versante laico o comunque di parte
imperialista. Al novero dei lettori del trattato (lettori attenti, se
ne hanno usato per un falso o un’esercitazione retorica) pare
improbabile ascrivere Boccaccio, né facilmente vi si ascriverebbe Del
Virgilio, che non pare legato stabilmente ad un cenacolo dantesco, né
appartenne alla categoria dei polemisti-giuristi militanti, né, al di
là di un generico riferimento nell’epitafio dantesco, mostra di
conoscere a fondo la Monarchia134;
• Epistola IV135: in merito alla tradizione di quest’espistola, sulla scorta
di Billanovich Jenaro-MacLennan osserva molto perspicuamente che:
postille [che] apertamente rivelano le inclinazioni [che muovevano verso uno]studio aperto, lungo, polemico»; voce Monarchia, dell’ED, curata da P. G. Ricci.Tra i primissimi commentatori (ante 1340) fa un uso diretto del trattato, salvoerrore, il solo Iacomo della Lana e, di mera conserva, l’Ottimo (chiosa a Par.,VII proemio).134 «Theologus Dantes [...] qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis /distribuit, laycis rethoricisque modis» (vv. 1 e 5-7).135 Afferma Billanovich: «La lettera di Ilaro dipende dalla lettera a Moroello»;G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 138 e n.; cfr. altresì le pp. 110-1. PerBellomo sarebbe naturale pensare all’Epistola IV quale riferimento per Ilaro,tuttavia, sviluppando alcune riflessioni sulla tradizione del testo e la suaaccessibilità, lo studioso opta per espungerlo dalle fonti del falsario, il qualeavrebbe tratto ispirazione per l’ambientazione lunigianese e la dedicamalaspiniana semplicemente dai riferimenti elogiativi presenti nelle prime duecantiche e (ma è lectio facilior) dalla fama del Monastero, concludendo che: «Delresto, se l’idea della dedica fosse venuta dall’epistola a Moroello, si sarebbeprobabilmente immaginato che Dante fosse diretto verso l’Arno, cioè nel Casentino[...]; Ilaro pensava invece a un’altra mèta: Verona»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro,cit., p. 233 e n. 82.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
Yet we know that the epistle to Moroello was of extreme rarity throughout
the Trecento, Boccaccio himself and Sennuccio del Bene being the only two
men of letters of that period who give evidence of knowing it136.
Su tali basi la candidatura boccacciana, per altri versi
irricevibile, appare preferibile a quella delvirgiliana, messa qui
palesemente fuori gioco. La storia della tradizione dell’Epistola IV
rimanda ancora una volta lo pseudo-Ilaro ad una ben identificabile
area: quella di un cenacolo dantesco, meglio fiorentino, che unico
garantisce, oltre ad una complessiva adesione al mondo culturale
dantesco, anche il necessario accesso alle opere minori, con
un’ampiezza altrove sconosciuta;
• Epistola XI e XII137: tradizione unica, strettamente boccacciana, per
entrambe le epistole, con cogenti ricadute in termini di
accessibilità del testo che obbligano ad espungere non solo Del
Virgilio, ma anche ogni altro presunto retore o falsario che non
abbia potuto attingere alla medesima tradizione la quale, per
elementare ragionevolezza, si vorrà fiorentina per la XII138:
fiorentina ovvero curiale per la XI;
136 L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle, cit., p. 118. Cfr. altresì G.BILLANOVICH, Petrarca letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di Storia eLetteratura, 1947, p. 88 e n. 2; ID., La leggenda dantesca, cit., p. 132, n. 1. Noteessenziali sulla tradizione delle epistole in F. MAZZONI, Le Epistole di Dante, inConferenze aretine, Arezzo-Bibbiena, Tip. Zelli, 1966, pp. 47-100.137 Afferma Billanovich: «In questa lettera [scil. l’epistola di Ilaro] emergonoechi sicuri dalle lettere di Dante ai cardinali italiani e all’amico fiorentino»;ID., La leggenda dantesca, cit., p. 138 e n. 1. Per l’epistola ai cardinali concordaS. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.138 Salvo errore dello scrivente, rispetto al censimento di Billanovich l’Epistola XIIè un caso non ripreso né discusso da Bellomo.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
• De vulgari Eloquentia139: solo apparentemente controverse le indicazioni
discendenti dalla tradizione del trattato dantesco sul volgare; da un
lato la si conosce esilissima, in generale settentrionale e
bolognese/padovana in particolare – ma un’originaria circolazione
fiorentina sarà da mettere comunque in conto –, di diffusione e
fortuna oltremodo scarse140; dall’altra si vorrebbe accreditare
(Mengaldo), sebbene senza ferma convinzione, una conoscenza precoce
del trattato (addirittura ante 1321) da parte del grammatico Del
Virgilio, sulla base di tenui richiami: a DvE, II IV 5 rimanderebbe il
v. 50 del carme delvirgiliano (ma in realtà è calco quasi perfetto di
Virgilio, Buc., IX 36); a DvE, I X 9 rimanderebbero invece i vv. 15-6
dello stesso carme («clerus vulgaria tempnit / [...] cum sint
idyomata mille»; ma forgiati su Orazio, Sat., II II 38 e su un
usatissimo dispositivo di finitum pro infinito); meno infido ma non
dirimente il ricorrere dell’inusitato astripetis in Ecl., I 5, che
rimanderebbe a DvE, II IV 11. Naturalmente, per ricusare l’accesso al
trattato da parte di Giovanni Del Virgilio Dante vivente basterà
notare non solo che altri grammatici e dotti del tempo, da Francesco
da Barberino ad Antonio da Tempo fino a Gidino da Sommacampagna e,
senza andare troppo lontani, allo stesso Del Virgilio all’altezza
della sua – non datata – Ars dictaminis, ne ignorano completamente
l’esistenza (come pure l’intero secolare commento trecentesco); ma
soprattutto che, trattandosi di opera incompiuta e per nulla
predisposta per la pubblicazione, non si vede come avrebbe potuto
essere divulgata dall’autore prima del 1321. Difficilmente eccepibile
la notazione di Guglielmo Gorni che, riferita alla tradizione del
Convivio, calza ad unguem per il De vulgari: «È un assurdo anacronismo139 Afferma Billanovich: «E ora egli [scil. Boccaccio] si affretta di incorporareanche un frammento di quell’enunciato [scil. “que nichil aliud est quam fictioretorica musicaque poita”] nella sintesi di disciplina retorica che fa esporre alsuo Ilaro: [...] vulgari, dico, non semplici, sed musico»; ID., La leggenda dantesca, cit., p.72. Concorda S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.140 Peraltro Boccaccio, come c’insegnano Billanovich e Branca, lo conobbe giàall’altezza del Teseida.
71
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
pensare che Dante potesse divulgare una sua opera imperfetta o
promuoverne la conoscenza o lettura, lui vivo»141. Ancora una volta, le
indicazioni che si ricavano in merito al profilo dello pseudo-Ilaro
appaiono piuttosto univoche: chi usò del trattato doveva far parte di
un cenacolo dantesco, probabilmente quello fiorentino, che prima e
meglio di ogni altro aderì e si approvvigionò dell’opera dantesca,
ivi inclusi testi inediti introvabili altrove;
• Convivio142: tralasciando i richiami evidentissimi dell’epistola di
Ilaro all’Egloga II, all’altezza dei presunti esametri incipitari del
poema, come pure quelli, meno stringenti, al carme delvirgiliano (i
quali lasciano evidentemente impregiudicata l’attribuzione a
Boccaccio come a Del Virgilio), l’esame della tradizione e della
fortuna del trattato dottrinale ci permette un passo avanti. La
tradizione del testo è notevolmente tarda, in gran parte
quattrocentesca, con soli due esemplari trecenteschi ed una
stringente connotazione fiorentina; scrive Guglielmo Gorni:
In questa tradizione [...] quel che resta è così francamente fiorentino,
che si è imbarazzati a interpretare questo fatto a norma della cronologia
dell’opera e della sua spettanza al tempo dell’esilio. Non sorprende, come è
ovvio, che esista una vigorosa tradizione fiorentina: bensì che non ne
esistano [...] altre al di fuori di quella143.
Sviluppando la fondamentale ricognizione di Franca Brambilla Ageno
in sede di Edizione Nazionale, Luca Azzetta giunge a censire
141 G. GORNI, Appunti sulla tradizione del «Convivio», ora in ID., Dante prima della «Commedia»,Firenze, Cadmo, 2001, pp. 239-52, a p. 245.142 Afferma Billanovich: «Naturalmente egli [scil. Boccaccio] ricorse subitoall’apologia del volgare che Dante aveva esposto sulla soglia del Convivio, e nericavò come trama della difesa che immaginò di dover fare di Dante e di se stessoil lamento che Dante lì aveva espresso contro i nobili che avevano abbandonatol’arte delle lettere, lasciandola scadere tra i vili plebei»; ID., La leggendadantesca, cit., p. 69. Concorda S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.143 G. GORNI, Appunti sulla tradizione, cit., p. 244.
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
citazioni indirette dell’Ottimo (in forma anepigrafa in prima
redazione, 1334 circa; in forma esplicita in terza redazione, 1340
circa), di Pietro Alighieri (1341 circa) e di Andrea Lancia (1342
circa). Azzetta, nel corso di un’indagine serrata ed informata,
mostra come i pochi dati disponibili inducano a ritenere che: «il
Convivio non fosse un’opera comunemente accessibile e nota ai lettori
della Commedia nel Trecento»144. Oltre ai nomi di Guglielmo Maramauro,
Benvenuto da Imola, Francesco da Buti, dell’Anonimo fiorentino e,
dubitativamente, del minor Villani, Azzetta include nel novero dei
commentatori che non si servirono del trattato lo stesso Boccaccio
che, pur rubricandolo nel suo Trattatello, non ne ha lasciato traccia
tangibile nelle Esposizioni. La posizione è espressa già da Guglielmo
Gorni:
Non si può che deprecare, in questa [scil. del Convivio] tradizione,
l’assenza del Boccaccio editore e copista [...] Una tradizione municipale
che il Boccaccio non fece in tempo e non ebbe agio di conoscere [...] Chissà
se il Boccaccio, che non lo trascrisse né lo cita mai nel suo commento al
poema, ne ebbe conoscenza diretta145.
Se per Boccaccio si è in forse quanto ad un contatto diretto col
trattato, per Del Virgilio proprio non si vedrebbe come trovare uno
spazio. La lettura del Convivio prima del 1335-‘40, lontano da Firenze,
è pressoché inconcepibile. La circostanza vulnera in modo gravissimo
la candidatura delvirgiliana, poiché indizi che il grammatico144 L. AZZETTA, La tradizione del «Convivio» negli antichi commenti alla «Commedia»: Andrea Lancia,l’«Ottimo commento» e Pietro Alighieri, «Rivista di Studi Danteschi», V, 2005, pp. 3-34, p.6.145 G. GORNI, Appunti sulla tradizione, cit., pp. 243-4 e n. 7. L’ipotesi di conoscenzadiretta del Convivio poggia su tenui e, a detta dello stesso proponente, elusivetracce nel Decameron; cfr. R. FERRERI, Appunti sulla presenza del «Convivio» nel «Decameron»,«Studi sul Boccaccio», XIX, 1990, pp. 63-77; nonché sull’attribuzione alCertaldese del volgarizzamento della quarta Deca di Tito Livio che, oggipesantemente sub iudice, quand’anche si rivelasse esatta è comunque irrilevante aipresenti fini, in quanto da collocarsi successivamente alla trascrizionelaurenziana (1340-‘41 ca.), agli anni del soggiorno romagnolo (1345-‘48).
73
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
bolognese frequentasse Firenze – men che meno che fosse accolto
stabilmente in un cenacolo dantesco –, sono non si dice scarsi, ma
completamente assenti. Non è tutto: se non fu Dante a riproporre ad
Ilaro la lamentazione sulla decadenza dei tempi moderni (incluso
l’esito, che fu solo suo, di un poema sacro in volgare),
effettivamente solo un falsario a conoscenza del trattato avrebbe
potuto riecheggiarlo con quella vicinanza che tutti, da Biagi, a
Billanovich, a Padoan e, ciò che più conta, allo stesso Bellomo146, gli
riconoscono. Senza ripetere le considerazioni di Gorni sull’assurdità
di un Dante che diffonda opere incompiute ed in uno stato, a quanto è
dato di risalire, precario, si può concludere che un accesso diretto
al trattato in tempi anteriori alla trascrizione laurenziana è
circostanza da ritenersi possibile unicamente nell’ambito del
cenacolo fiorentino. Indizi che il trattato cominciasse a circolare
si hanno in anni così a ridosso di quella trascrizione da doversi
ritenere, se la verosimiglianza ha un peso, che: se non autentico, il
dettato ilariano fu architettato a Firenze non prima e non dopo il
1335-‘40, ossia tra il primo diffondersi in città del Convivio e la
data della trascrizione laurenziana. È appena il caso di ricordare
che Giovanni del Virgilio muore intorno al 1327, anno dopo il quale
non si hanno più notizie di lui.
Peccando di semplicismo, chi scrive esclude non solo una qualsiasi
ipotesi di attribuzione boccacciana del testo, ipotesi non più
sostenibile, ma altresì delvirgiliana147. A quanto visto fin qui si può146 Traggo quest’indicazione anche dal seguente passaggio: «[Di fronte alladecadenza culturale dei tempi] non restava che impiegare una lingua più pervia,concludendo con una metafora parente stretta di quella da cui rampollerà iltitolo di Convivio, invano si porge alla bocca dei lattanti un cibo da masticare»;S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 204.147 Per Bellomo è «respinta l’ipotesi di Billanovich»; IVI, p. 217, mentrel’ipotesi di una falsificazione di diversa paternità, a suo avviso, è stata daPadoan obliterata «un po’ frettolosamente»; ibidem. Certo solleva perplessitàl’atteggiamento del finto Ilaro per la sua totale disattenzione ai profilipseudo-epigrafici tipici di ogni consimile operazione, per i quali la credibilità
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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
aggiungere che, a fronte delle doti non comuni di mimesi letteraria
richieste allo (pseudo-)Ilaro, il pur onesto grammatico bolognese ci
appare un letterato impari al compito; ritessendo le fila di un secolo di
studi, Giovanni Reggio traccia un bilancio che non dà scampo:
L’egloga di Giovanni del Virgilio mostra una differenza assai notevole rispetto
a quella di Dante [...] Guardiamo anche la struttura stessa dell’egloga: né scena
pastorale, né dialogo. C’è un convenzionale sfondo bucolico e l’egloga si riduce
ad un lungo monologo di Mopso in cui si riprendono e si avviluppano spunti
dell’egloga dantesca. Quindi la forma del genere è infelice nella composizione;
gli ingredienti, per così dire, pastorali applicati dall’esterno: opera di un
grammatico, insomma, non di un poeta [...]. A giudicare dall’egloga, si direbbe
o l’antichità di un testo, apocrifo o falso, guadagnano enormementedall’attribuzione (strumentale ma esplicita) all’auctoritas di riferimento. Perrestare all’ambito strettamente dantesco, pensiamo alle pretese falsificazionidell’epistola a Cangrande, i cui sostenitori possono almeno vantare il confortodel rispetto delle più elementari norme pseudo-epigrafiche, senza cui l’interaoperazione rischierebbe di abortire sul nascere; ma la lista potrebbe estendersia piacere. Autorevole e illuminante con riferimento all’ennesima presunta(fortunatamente senza seguito) falsificazione dantesca, la Tenzone con Forese, èl’intervento di Domenico De Robertis che, mutatis mutandis, si adatta come un guantoal caso ilariano. Dopo aver doverosamente premesso che una contraffazione dicarattere filologico (come evidentemente è quella ilariana) sarebbe«inconcepibile per l’epoca», lo studioso tocca lo spinoso problemadell’architettura del falso in più passaggi; il seguente mi pare di una pregnanzanotevole per ricostruire l’abito mentale di un “vero” falsario del Trecento: «Afare accettare la cosa, a mettere in circolazione il falso, sarebbe bastato porreil nome di Dante [...] senza preoccupazione di verosimiglianza paleografica. Rimeantiche sono state acquisite in abbondanza attraverso testimonianze recenziori efin la tradizio ne a stampa»; ancora, notando l’impressionante diversità di manotra i testi poetici sicuri di Del Virgilio, di mediocre fattura, e l’incipitilariano, nonché, paragonando l’ordito diversissimo delle opere accademichedelvirgiliane con l’ampia sezione prosastica dell’epistola, viene lecitoriprendere un altro passaggio di De Robertis: «E soprattutto, siamo sicuri sitratti, non dico della stessa mano, ma dello stesso linguaggio? [...] Perché vabene la contraffazione, ma che diavolo di falsario sarebbe questo! Dante gliriserverebbe un posto d’onore nella decima bolgia»; D. DE ROBERTIS, Ancora per Dante eForese Donati, in Feconde venner le carte. Studi in onore di Ottavio Besomi, 2 voll., a cura di T.Crivelli, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1997, I, pp. 35-48, citazioni alle pp.35-6 e 41. In realtà, sarebbe invece da spiegare come mai il falsificatore diIlaro abbia rinunciato a ciò cui qualunque suo collega avrebbe rinunciatomalvolentieri. Sul tema del falso letterario, con particolare riferimento aDante, sia consentito ora rimandare a G. INDIZIO, Dante e l’enigma del monaco Ilaro di S.Croce del Corvo, «Dante Studies», CXXIV, 2006, pp. 91-118.
75
L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO
che in un così mediocre poeta, come Del Virgilio, l’intensità del suo sentimento
d’affetto verso Dante [...] facessero intoppo alla fantasia e i versi gli
riuscissero sforzati e contorti148.
Per quanto avventurarsi in illazioni sia sempre sconsigliabile, nei
limiti di un’ipotesi di lavoro chi scrive ritiene che la tradizione delle
opere di Dante impiegate per combinare il dettato ilariano rimandi
univocamente ad un’unica e ben determinata area geografico-culturale, che
sola poté accogliere al suo interno ed alimentare adeguatamente un retore-
falsario di memorie dantesche, e sia pure per pii fini laudativi; un
autore, preferibilmente fiorentino o comunque partecipe di quel cenacolo
che con tanta sollecitudine ammirò e custodì le memorie dell’esule, cui
parteciparono con ogni verosimiglianza Pietro e Jacopo, e tra cui dovremo
ancora almeno nominare Giovanni Villani, l’Ottimo, Andrea Lancia,
Sennuccio del Bene: oltre che, una volta ristabilitosi a Firenze - ma
virtualmente fin dagli anni napoletani -, Giovanni Boccaccio. È questa, a
mio parere, la sola strada che i sostenitori della tesi dello pseudo-Ilaro
(abile retore o malizioso falsario che sia) potranno sensatamente
percorrere per trovare adeguato riscontro ad una candidatura che, ad oggi,
pare estremamente sfuggente.
Allo stato attuale ritengo probabile che vi fosse o avesse stabili
contatti con Firenze, intorno agli anni 1325-‘40, un mediatore ilaro-
boccacciano, ossia un cultore dell’opera dantesca che si trovò, per
vicissitudini proprie, nella posizione di poter recepire e trasmettere a
Boccaccio un testo memorabile (autentico) di area lunigianese. Già queste
pur caute osservazioni ci mostrano come Boccaccio, se fu tratto in
inganno, come è d’obbligo ipotizzare nell’ipotesi di un testo non
autentico, lo fu da un sodale fiorentino. Il testo, infatti,
dovett’essergli trasmesso come assolutamente affidabile: ricordiamo che il
Certaldese rifuse le notizie essenziali dell’epistola in numerose sue
148 Il giudizio è di uno specialista delle egloghe dantesche, G. REGGIO, Le «Egloghe» diDante, Firenze, Olschki, 1969, pp. 70-8.
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opere, anche le più impegnate sotto il profilo dell’erudizione e
dell’esegesi; nonché in corrispondenze, come quella con Petrarca (Ytalie iam
certus honos), per cui è per nulla agevole invocare «una soglia di coscienza
tra il vero e il falso assai più alta della nostra»149. Tuttavia l’inganno
del grande novelliere è circostanza, considerati i rapporti di profonda
stima ed amicizia che dovettero intercorrere in quel cenacolo di sodali,
assai poco verosimile150.
Infine, sia consentito sondare il cenacolo fiorentino dantesco per
proporre conclusivamente una candidatura al ruolo di mediatore ilaro-
boccacciano, in base ai caratteri ed al profilo qui ricostruito. Se
l’appartenenza alla schiera dei precoci cultori danteschi è un dato
oggettivamente verosimile, come pure la fiorentinità e l’adesione
all’espressione letteraria in lingua volgare (toscana), dal lato
soggettivo aver costui intrattenuto relazioni documentabili con l’area
lunigianese e con Boccaccio ci appaiono credenziali quanto mai
149 Traggo la citazione da S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 228. Bellomo, iuxtapropria principia, ragionevolmente concede che dalla falsa epistola ilariana «fuingannato il Boccaccio»; ibidem.150 Benvenuto da Imola ci ha lasciato una testimonianza notevole di come Petrarcae Boccaccio, di fronte alla vulgata di un Dante insufficiente al verso latino, nedifendessero la scelta linguistica nella composizione del poema; una difesa chesi fonda appunto sulla lamentazione ilariana (dico ilariana perché affidata adIlaro ben più che all’inedito e quasi sconosciuto Convivio) sullo stato culturaledei tempi, e di cui proprio Boccaccio era stato il divulgatore, con ciò – siadetto per l’ennesima volta - escludendosi funditus et radicitus ogni ipotesi difalsificazione da parte sua: «Quia auctor [scil. Dante], videns liberalia studia,potissime poetica, esse deserta a principibus et nobilibus, qui principalitersolebant in poeticis delectari, et quibus opera poetica solebant olim intitulari,et ob hoc opera Virgilii et aliorum excellentium poetarum jacere neglecta etdespecta, cautius et prudentius se reduxit ad stilum vulgarem, cum jamliteraliter incoepisset sic: Ultima regna canam, fluvido contermina mundo, / Spiritibus quae latapatent, quae premia solvunt / Pro meritis cuicumque suis etc. Alii tamen et multi comuniterdicunt, quod autor cognovit stilum suum literalem non attingere ad tam arduumthema; quod et ego crederem, nisi me moveret autoritas novissimi poetaePetrarcae, qui loquens de Dante scribit ad venerabilem praeceptorem meumBoccatium de Certaldo: “Magna mihi de ingenio ejus oppinio est potuisse eumomnia, quibus intendisset”» (chiosa a Inf., II 10-2). Che il contesto in cuiBenvenuto inserisce la nota risposta di Petrarca a Boccaccio – i quali egliconobbe de visu – sia strettamente ilariano è visibilmente fuor di dubbio.
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desiderabili. Su tali basi, l’ipotesi di lavoro non può che convergere sul
nome di Sennuccio del Bene.
Sennuccio di Benuccio di Senno del Bene (1265/’70-1349) fu rimatore
fiorentino tradizionalmente incluso tra i minori, partecipe defilato ma
sicuro del periodo stilnovista, precocissimo settatore di Dante e suo
sodale politico, oltre che fedele imitatore; personalità cospicua per
rango familiare, mezzi economici e relazioni curiali: in primo luogo con
la fondamentale clientela cardinalizia avignonese ma anche curtensi con le
aule ben dantesche di Arrigo VII e dei lunigianesi Malaspina; che ben
poteva coprire il ruolo di mediatore letterario verso Boccaccio, come
infatti fu ed è documentato tanto per la capitale esperienza dantesca
quanto per l’emergente magistero petrarchesco. Non pare agevole, ad oggi,
rintracciare altri nomi di sì provate credenziali da poter ragionevolmente
soppiantare Sennuccio quale tramite a Boccaccio del testo ilariano, sia
pure, s’intende, nei termini di una ipotesi di lavoro. A conforto, si
riportano di seguito alcune osservazioni tratte dagli studi di
Billanovich, Mazzoni e Piccini che, per chi accetti i presupposti qui
accolti, non difetteranno, grazie all’autorevolezza dei contributori, di
valore probatorio:
1)precoce culto di Dante: «per Sennuccio la stella polare è Dante
[...]. L’influsso dantesco è nel complesso talmente ingente da parere
incalcolabile: non c’è quasi componimento, non escluso il giovanile
tirocinio stilnovistico, in cui Sennuccio non guardi a qualcuno dei
versanti toccati dal suo grande concittadino [...] fino al limite
della citazione integrale»151;
2)mediatore dantesco-boccacciano: «a conferma dei rapporti tra i due
non esistono prove documentarie, ma indizi testuali che rendono
credibili ipotesi biografiche»152. In quest’ambito tessere
151 D. PICCINI, Un amico del Petrarca, cit., pp. XXXI e LII.152 Ivi, p. XXV; imponente il novero di studiosi che si sono espressi in tal senso:E. G. PARODI, recensendo G. VOLPI, Rime di trecentisti minori, «Bullettino della SocietàDantesca Italiana», XVII, 1910, pp. 79-80; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit.,pp. 132-3 e n. 1, poi con aggiornamenti in ID., L’altro Stil nuovo. Da Dante teologo a
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inequivocabili sono rappresentate dalla corrispondenza tra Dante e
Cino, dall’epistola a Moroello ed all’Amico fiorentino (molto
probabilmente anche quella ai Cardinali, forse quella ad Arrigo) che,
dicasi le prime due, Sennuccio sicuramente imitò in testi propri e
che: «provano, come aveva [già] visto il Billanovich, il maneggio da
parte di Sennuccio di testi non comuni all’epoca, la sua funzione,
insomma, di mediatore ([...] presso il giovane Boccaccio) di preziose
perle dantesche»153;
3)relazioni con la Lunigiana: «Non sarà un caso che sia l’Epistola IV che
la canzone “montanina”, sia d’altra parte una porzione delle rime di
corrispondenza con Cino [...] abbiano a che fare con la persona di
Moroello e con i Malaspina. Quel marchese Franceschino, di cui Dante
fu procuratore per rogare la pace col vescovo di Luni il 6 ottobre
1306, è colui che Sennuccio cita esplicitamente dopo la morte di
Arrigo VII (in Da•ppoi ch’i’ ho perduta) come speranza e rifugio»154. È poi
noto che Sennuccio, Cino, Moroello e Franceschino furono presenti
alle cerimonie regali di Milano tra dicembre e gennaio 1310-‘11.
Evento cui, con verosimiglianza, prese parte anche Dante. Conclude
Piccini: «Facile che i Malaspina abbiano passato a Sennuccio intorno
a quegli anni [...] le carte dantesche in qualche modo concernenti il
casato»155.
Petrarca filologo, «Studi Petrarcheschi», XI, 1994, pp. 1-98, in particolare pp. 47-51; F. MAZZONI, Moderni errori di trascrizione nelle epistole dantesche conservate nello ZibaldoneLaurenziano, in Gli Zibaldoni del Boccaccio, cit., pp. 315-25, pp. 316-7.153 D. PICCINI, Un amico del Petrarca, cit., p. LIV. Pienamente condivisibile la chiosa diBillanovich: «Perciò ritengo che a Napoli proprio Sennuccio – e non Cino daPistoia, benché maestro di quell’Università – abbia passato al Boccaccio, lìancora studente e largamente sottoposto all’influenza di Dante e specialmentedella Comedìa, i testi di due epistole di Dante, ciascuna seguita da un sonetto,l’uno e l’altro imitati da Sennuccio nel suo sonetto Punsemi il fianco Amor con nuovisproni: l’epistola a Cino [...] e l’epistola a Moroello Malaspina»; G. BILLANOVICH,Da Dante al Petrarca e dal Petrarca al Boccaccio. I. Firenze, Padova, Avignone, Napoli, in Il Boccaccio nelleculture, cit., pp. 583-95, p. 591.154 Ibidem.155 Ivi, p. LV. Chi scrive ritiene forse eccessiva l’ipotesi di Piccini, sebbene insé non impossibile. Assodati i fitti rapporti con la corte dei Malaspina, speciecon Franceschino e Moroello, che aprivano a Sennuccio una finestra
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Per lo scrivente l’epistola di Ilaro è un testo autentico, che ci salva
notizie preziosissime per la biografia dantesca, di norma molto avara di
testimonianze e notizie anche solo vagamente attendibili156. L’evento cui
fa riferimento l’epistola è da assegnarsi per elementi interni al periodo
post arrighiano, nella fase in cui Federico d’Aragona ed Uguccione della
Faggiuola apparvero come gli immediati eredi e continuatori dell’opera di
Arrigo VII, quindi tra il 1314 ed il 1315, preferibilmente la prima e non
la seconda metà, poiché Morello Malaspina è dato da Ilaro ancora per
vivente, ed egli morì l’8 aprile 1315157. Il testo lunigianese fu
recuperato anni dopo da una personalità di sicura appartenenza dantesca,
che certamente fu agevolata nel rintracciare il reperto nella misura in
cui poté avvantaggiarsi di consolidati rapporti con la più cospicua corte
della Lunigiana, quella dei Malaspina. Questa personalità di sicura
autorevolezza, da cui doverosamente ci attendiamo una stretta vicinanza
all’opera di Dante, come pure precoci scambi culturali con Boccaccio, può
essere identificata in via ipotetica con Sennuccio del Bene158.
importantissima su un’area di sicura danteità, sarebbe più ragionevole ritenereche egli richiedesse e ottenesse copia di testi danteschi in loro mano, come purenotizie di area lunigianese riguardanti il grande concittadino, che a tempodebito passò al Certaldese, il quale, sul punto, riferisce non a caso aneddotinotevoli. Che abbia avuto accesso ai testi originali, come paventa Piccini, cheparla di trasmissione delle «carte dantesche [...] concernenti il casato», paremeno probabile, a giudicare, ad esempio, dagli errori di trascrizione delleepistole da cui sono viziate le copie per dir così “sennucciano-boccacciane”dello Zibaldone laurenziano, per cui cfr. l’importante intervento di F. MAZZONI,Moderni errori, cit.; cenni in ID., Le Epistole di Dante, cit..156 Tra i più recenti ed attrezzati sostenitori di una manipolazione del testo, manon di falso integrale, si veda A. CASADEI, Considerazioni sull'epistola di Ilaro, cit..157 La preziosa segnalazione mi è venuta dalla cortesia di Eliana M. Vecchi, cheha recentemente recuperato la notizia in un Liber anniversariorum del conventogenovese di S. Francesco di Castelletto, per cui cfr. EAD., La data di morte di MorelloMalaspina, signore di Giovagallo, e il problema della sua sepoltura in Genova, «Studi Lunigianesi»,XXXII-XXXIII, 2002-‘03, pp. 81-90.158 Suggestiva è per chi scrive l’illazione per cui Sennuccio si sia portato aNapoli nel 1341 per le celebrazioni poetiche petrarchesche (circostanza, dati irapporti strettissimi tra i due personaggi e la comune devozione agli studi, daritenersi più che plausibile, al di là di quanto testimonia la Varia LVII sullapresenza di Sennuccio a Napoli ante gennaio 1342); in quell’occasione potrebbeaver trasmesso a Boccaccio testi danteschi non recapitati in precedenza, penso
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soprattutto al De vulgari, che il certaldese mostra di conoscere solo nell’ultimaopera napoletana, il Teseida (ma una successiva revisione fiorentina è ugualmentecerta), ed all’epistola di Ilaro che il grande novelliere, forse non a caso,copia con le egloghe nella postrema sezione napoletana dello Zibaldone laurenziano(ff. 67r-72v).
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