IL CONTRIBUTO DELLA COMUNICAZIONE POLITICA ALLA DEMOCRAZIA

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IL CONTRIBUTO DELLA COMUNICAZIONE POLITICA ALLA DEMOCRAZIA 1. Lo stretto intreccio fra la politica e la comunicazione in democrazia. Certamente oggi, ma anche da molto tempo prima dello sviluppo di Internet, sappiamo che la comunicazione è indispensabile alla politica e, come ci accingiamo ad argomentare in questo saggio, ancora più indispensabile alla democrazia. In effetti, fin dall’antichità greca, Aristotele aveva evidenziato con chiarezza la consustanzialità del politico e della comunicazione insistendo sulla doppia natura dell’essere umano, animale sociale e animale simbolico. Ovvero, più esattamente animale politico perché simbolico, vale a dire dotato della capacità linguistica. E’ proprio perché è in grado di esprimere opinioni, giudizi e preferenze che l’essere umano permette alla città di funzionare. La tradizione aristotelica ha trovato discendenti/discepoli nel pensiero politico attraverso, in special modo, Immanuel Kant, Hanna Arendt e Jürgen Habermas. Politica e comunicazione Ma come spiegare più concretamente questa consustanzialità fra i due ordini di fenomeni sociali che sono, da un lato, la politica e, dall’altro, la comunicazione? Samuel Finer la stabilisce correttamente in uno dei primi paragrafi, intitolato « The nature of politics », della sua opera più importante: Comparative Government (1970). Secondo lui, la vita quotidiana è una sequenza di decisioni da prendere che sono altrettanti dilemmi. A differenza del dilemma economico, il dilemma politico si caratterizza fin dall’inizio per la sua natura collettiva. Affinché vi sia politica bisogna che vi sia un gruppo. Inoltre, al dilemma politico non viene attribuita una collocazione in una parte qualunque della società. Il politico può sorgere da un qualsiasi luogo della società. Un problema politico può nascere dalla distribuzione diseguale delle ricchezze, dalla divisione etnica e culturale, dalle differenze religiose, dai conflitti linguistici, e così via. Dunque, oltre al carattere collettivo, il politico richiede l’emergere di un problema che non è specificato a priori come di natura politica. Quello che assicura il legame fra il politico e la comunicazione emerge dalla società come luogo che “processa” problemi. Finer indica che, per fare fronte ai problemi che 1

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IL CONTRIBUTO DELLA COMUNICAZIONE POLITICA ALLA

DEMOCRAZIA

1. Lo stretto intreccio fra la politica e la comunicazione in democrazia.

Certamente oggi, ma anche da molto tempo prima dello sviluppo di Internet,

sappiamo che la comunicazione è indispensabile alla politica e, come ci accingiamo

ad argomentare in questo saggio, ancora più indispensabile alla democrazia. In effetti,

fin dall’antichità greca, Aristotele aveva evidenziato con chiarezza la consustanzialità

del politico e della comunicazione insistendo sulla doppia natura dell’essere umano,

animale sociale e animale simbolico. Ovvero, più esattamente animale politico perché

simbolico, vale a dire dotato della capacità linguistica. E’ proprio perché è in grado di

esprimere opinioni, giudizi e preferenze che l’essere umano permette alla città di

funzionare. La tradizione aristotelica ha trovato discendenti/discepoli nel pensiero

politico attraverso, in special modo, Immanuel Kant, Hanna Arendt e Jürgen

Habermas.

Politica e comunicazione

Ma come spiegare più concretamente questa consustanzialità fra i due ordini di

fenomeni sociali che sono, da un lato, la politica e, dall’altro, la comunicazione?

Samuel Finer la stabilisce correttamente in uno dei primi paragrafi, intitolato « The

nature of politics », della sua opera più importante: Comparative Government (1970).

Secondo lui, la vita quotidiana è una sequenza di decisioni da prendere che sono

altrettanti dilemmi. A differenza del dilemma economico, il dilemma politico si

caratterizza fin dall’inizio per la sua natura collettiva. Affinché vi sia politica bisogna

che vi sia un gruppo. Inoltre, al dilemma politico non viene attribuita una collocazione

in una parte qualunque della società. Il politico può sorgere da un qualsiasi luogo

della società. Un problema politico può nascere dalla distribuzione diseguale delle

ricchezze, dalla divisione etnica e culturale, dalle differenze religiose, dai conflitti

linguistici, e così via. Dunque, oltre al carattere collettivo, il politico richiede

l’emergere di un problema che non è specificato a priori come di natura politica.

Quello che assicura il legame fra il politico e la comunicazione emerge dalla società

come luogo che “processa” problemi. Finer indica che, per fare fronte ai problemi che

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minacciano la sua sopravvivenza, la comunità deve accordarsi sulle linee d’azione

comune, sulle policies. I componenti della comunità in questione debbono molto

sovente confrontarsi per decidere quale di queste policies è la più opportuna fra

diversi « progetti che si escludono reciprocamente ». Per Finer (1980), il ciclo della

politica comincia proprio là : è quello che accade fra il momento dell’espressione di

progetti che si escludono reciprocamente e il momento dell’adozione di una decisione

legittima che verrà imposta a tutti. Da parte nostra (Gerstlé, 2004), facciamo risalire il

politico, a monte, nel processo sociale di emergenza del problema oppure della sua

pubblicizzazione, vale a dire del riconoscimento che esiste un problema pubblico che

si traduce in uno scarto fra la situazione esistente e quella che il pubblico considera

come desiderabile. Alla fase del riconoscimento pubblico segue la fase della

politicizzazione che corrisponde al fatto che il pubblico ammette che il mutamento di

situazione risulta dalla responsabilità di una autorità pubblica. Con la terza fase che

definiamo polarizzazione, ritroviamo Finer e la sua concettualizzazione dei progetti

che si escludono reciprocamente. Dunque, tutti i processi che intervengono per

passare dalla situazione polarizzata ad una situazione normalizzata, che si tratti di

negoziazione, di persuasione, di argomentazione, di seduzione, di intimidazione,

ricorrono alla comunicazione. Tutti i processi non violenti di regolamentazione delle

crisi aperte dall’emergenza dei problemi fanno ricorso alla comunicazione. In altre

parole, come avevano capito gli inventori della democrazia, il linguaggio ha una virtù

pacificatrice. Questo non significa affatto che la comunicazione debba essere

assimilata in modo naturale alla pace e alla cooperazione. Sostenere questo porta a

quello che potrebbe essere definito una « ideologia della comunicazione ». In realtà,

la comunicazione può essere anche violenta, così come si esprime nel concetto di

« violenza simbolica » caro a Pierre Bourdieu (1991). Il ricorso a segni e simboli può

prendere una forma autenticamente competitiva, come è spesso il caso nella

comunicazione politica.

Oggi si ha la tendenza a ritenere che la politica faccia la sua apparizione nel

processo sociale più presto di quel che immaginasse Finer e che sia a monte della

polarizzazione che i problemi emergono e si consolidano per essere riconosciuti in

quanto suscettibili di dare luogo all’intervento del potere pubblico attraverso il

processo di politicizzazione. Come ha sostenuto filosofo Claude Lefort (1981), la

comunicazione serve per mascherare « l’indeterminatezza del politico », il fatto che il

politico può scaturire da qualsiasi luogo della società. Di qui l’importanza assunta,

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nello studio della comunicazione dalle tematiche dell’agenda politica, della

collocazione (framing) e della priorità (priming) che costituiscono i pregiudizi di

accessibilità dell’informazione per il pubblico in generale. In questo modo, la

democrazia è dunque il sistema nel quale l’emergere dei problemi è collettivo e nel

quale il loro trattamento passa attraverso la dialettica dell’accordo e del disaccordo,

della cooperazione e del conflitto. Affinché il sistema operi,è necessario che possa

appoggiarsi sulla partecipazione del maggior numero di cittadini. Cosicché, la

comunicazione politica democratica ha bisogno della partecipazione civica.

b) Democrazia diretta, democrazia rappresentativa e democrazia deliberativa

Sappiamo che, storicamente, questa partecipazione può prendere forme diverse:

democrazia diretta, rappresentativa oppure deliberativa. Nel primo caso, lo spazio

pubblico ateniese può servire da modello mostrando in che modo la connessione fra

governanti e governati assicuri la selezione e il trattamento dei problemi costitutivi di

un’unica agenda segnata dalla complessità delle domande e delle decisioni. E’

sufficiente che un cittadino introduca una tematica nell’agorà perché venga

immediatamente iscritta nell’agenda collettiva delle decisioni da prendere. Per

Habermas (1962), siamo in presenza di uno spazio pubblico allargato nel quale

l’utilizzazione del linguaggio dà regole centrali alla città come l’isegoria (ciascun

cittadino ha eguale diritto di prendere la parole) oppure la parrhesia (l’impegno da

parte del cittadino di parlare liberamente), oppure l’isopsephia (ciascuna parola ha lo

stesso peso). Questo spazio pubblico si è ristretto in modo considerevole nel

Medioevo al punto di diluirsi nello spettacolo politico della sua potenza che il signore

dà ai suoi sudditi e ai suoi vassalli. Bisogna attendere il secolo dell’Illuminismo per

assistere al ridispiegarsi dello spazio pubblico ai comandi dell’uso critico che i

cittadini possono fare del loro ragionamento applicato agli affari pubblici. Infine, lo

spazio pubblico contemporaneo si rifeudalizza con la riduzione della comunicazione

politica a uno spettacolo al quale i cittadini vengono condotti per « acclamare » e per

decidere periodicamente l’identità dei loro governanti prima di tornare ai loro affari

privati.

Con la democrazia rappresentativa è venuto il tempo della disgiunzione fra l’agenda

pubblica e l’agenda formale che costituisce l’agenda politica nello spazio pubblico.

L’agenda pubblica è l’insieme dei problemi dibattuti in una comunità politica di

qualsiasi dimensione dal livello locale fino a quello internazionale. L’agenda formale

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è costituita dai problemi che i decisori accettano di mettere all’ordine del giorno dei

problemi da decidere nell’arena del potere in questione: il governo, l’assemblea

locale, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Secondo Bernard Manin (1995), questa democrazia rappresentativa è passata

attraverso tre forme successive di trasformazione: la democrazia parlamentare, la

democrazia dei partiti, la democrazia del pubblico. Rimane, tuttavia, che il principio

del governo rappresentativo che si ritrova in ciascuna di quelle forme include quattro

elementi indispensabili: la periodicità delle elezioni che autorizza un reale controllo

dei governati sui governanti ; il margine di manovra di cui dispongono i governanti

per attuare i loro programmi. Questi due primi elementi mettono l’accento sul

contributo dei governanti al sistema. Di contro, gli altri due elementi insistono sulle

condizioni della partecipazione dei cittadini. Tanto per cominciare, la libertà di

opinione è indispensabile all’esercizio della critica da parte dei governati; in seguito,

la messa in opera nel dibattito di linee d’azione comune, delle politiche pubbliche

adottate dà a questo spazio pubblico il suo carattere del tutto democratico.

Le tre forme storiche successive della democrazia rappresentativa non si

distinguono che per l’accento che viene posto sull’attore centrale del sistema. Nel

quadro della democrazia parlamentare all’inizio del XXesimo secolo è il notabile che

intrattiene relazioni quasi clientelari con la sua circoscrizione. Nella democrazia dei

partiti della metà del XXesimo secolo, sono le organizzazioni partitiche che dominano

completamente lo spazio pubblico. Infine, nella democrazia del pubblico, la

partecipazione dei governati è diventata centrale grazie ai sondaggi e ad altre

manifestazioni più o meno spettacolari della comunicazione politica attraverso i mass

media. Questa rappresentazione, un po’ euforica, del potere dei governati nella

democrazia rappresentativa si scontra, tuttavia, con un certo numero di limiti, in

special modo nell’elaborazione dell’agenda politica, limiti ai quali la democrazia

deliberativa sarebbe maggiormente in grado di venire a capo.

In effetti, la democrazia deliberativa (sulla quale si veda il capitolo di Daniela

Giannetti), consisterebbe in un « ideale intuitivo di una associazione democratica

nella quale la giustificazione dei termini e delle condizioni dell’associazione procede

da una argomentazione e da un ragionamento pubblico fra cittadini eguali. In un

simile ambito, i cittadini condividono un impegno comune a fronte della soluzione

dei problemi di scelta collettiva attraverso un ragionamento pubblico e considerano le

loro istituzioni di base legittime nella misura in cui stabiliscono un quadro favorevole

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ad una deliberazione pubblica libera» secondo Joshua Cohen (1989).

Tornando a quello che costituisce l’ordine democratico abituale, Robert Dahl

s’interrogava nel 2005 su « quali sono le istituzioni politiche di cui ha bisogno la

democrazia su vasta scala? ». La sua risposta è chiara: “1) rappresentanti eletti ; 2)

elezioni libere, eque e frequenti; 3) libertà di espressione ; 4) pluralità di fonti di

informazione ; 5) autonomia di associazione ; 6) cittadinanza inclusiva. » Dunque,

Dahl aggiunge alcuni elementi al principio del governo rappresentativo di Manin, in

particolare, l’esistenza di fonti alternative di informazione, elemento questo che attira

la nostra attenzione sul potere di condizionamento del suffragio attraverso

l’informazione che viene dai mass media. Dahl aggiunge altresì l’autonomia

associativa che rimanda a quello che in sociologia politica viene definito il capitale

sociale dei cittadini. Sappiamo che, per Robert Putnam (2000), i mass media sono una

minaccia per il capitale sociale in ragione del « time crunch » (accelerazione e

stritolamento dei tempi) che implicano e della «sindrome del mondo cattivo» che

rappresentano. Non soltanto, divorano il tempo libero dei cittadini che non riescono

più ad associarsi e trascurano le loro relazioni sociali, ma, per di più, la televisione,

per esempio, continua a mettere in scena nella stessa fiction anche l’informazione,

sempre più divertente (soft news e infotainment), riguardo ad individui nei quali non

si può più avere fiducia. Ne consegue un declino della fiducia negli altri che genera

un’ ulteriore erosione del capitale sociale. Infine, Robert Dahl parla della cittadinanza

inclusiva, segno di una democratizzazione per estensione dei cittadini riconosciuti in

grado di partecipare al gioco democratico.

A questo proposito, bisogna sottolineare una curiosa inversione storica fra la densità

della comunicazione politica e l’intensità dell’impegno politico. La densità della

comunicazione era forte nel passato, poiché la democrazia era diretta e vi era

sovrapposizione fra governanti e governati. Poi, lo è stata fino a quando la

democrazia si basava su partiti e nella misura in cui le organizzazioni partitiche, che

monopolizzavano la comunicazione politica, diffondevano messaggi densi in termini

dottrinali e programmatici. Oggi, assistiamo a un movimento d’inclusione

democratica crescente che si paga al prezzo di una riduzione concomitante della

comunicazione politica che sostiene di modernizzarsi per raggiungere un pubblico

trasformato in audience di massa, indecisa ovvero indifferente alla politica. Questa

inversione fra dimensione della comunità dei cittadini e densità della comunicazione

politica risalta bene dall’approccio storico alle campagne elettorali proposto da Pippa

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Norris (2003) e da Jay Blumler (1995). La proliferazione degli strumenti di

comunicazione apre possibilità all’espressione dei profani della politica e lascia libero

un lessico volgarizzato con conseguenze dubbie per la democrazia minacciata dal

populismo incoraggiato dai mass media.

2. Cittadini democratici, mass media e informazione politica.

Nel bene e nel male, dunque, i mass media appaiono i canali cruciali e ineliminabili

della comunicazione politica delle democrazie contemporanee. Esaminiamo, pertanto,

più a fondo il loro ruolo: sono essi strumenti della democrazia nel senso che ne

contribuiscono al buon funzionamento, oppure sono elementi che esercitano un

impatto negativo? Gran parte della letteratura corrente sulla comunicazione politica si

è concentrata sull’aspetto dell’informazione, chiedendosi se i mass media sono

davvero in grado di trasmettere ai cittadini sufficiente informazione da permettere

loro di partecipare con adeguata consapevolezza alla vita democratica.

Questo marcato interesse per la questione dell’informazione all’interno della

sfera degli studi di comunicazione politica non è ovviamente casuale. Se, in passato,

la letteratura si era focalizzata sui messaggi provenienti dagli attori politici –in special

modo gli attori istituzionali- mirati a persuadere i cittadini, da una ventina d’anni a

questa parte, sembra che l’informazione proveniente dai mass media sia divenuta un

potente sostituto della propaganda partigiana. Questo spostamento del focus

sull’informazione mediatica a spese della comunicazione diretta degli attori è

probabilmente da mettere in relazione con il declino delle società democratiche

cosiddette avanzate, come hanno mostrato Susan Pharr e Robert Putnam (2000) in

Disaffected democracies. Effettivamente, è come se, ora, la perdita di legittimità da

parte di chi governa e di chi aspira a farlo avesse condotto ad un deterioramento dei

discorsi politici ai quali i cittadini non credono più. E questo vuoto che si è creato ha

lasciato spazio al discorso dei media e specialmente al discorso dei giornalisti oggi

investiti di una missione di interesse pubblico: raccontare la verità, il che,

sfortunatamente, si trasforma spesso nel raccontare ciò che è verosimile.

Ma torniamo dalla domanda da cui abbiamo preso le mosse: quanto i media

sono efficaci nell’informare compiutamente il cittadino? Le risposte sono molteplici

e, per certi versi, discordanti. Per lungo tempo e’ prevalsa, ed e’ ancora condivisa da

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molti, una visione pessimista delle capacità dei mass media di informare

compiutamente i cittadini. Questa interpretazione, che vede tra i suoi sostenitori

alcuni dei pionieri degli studi della comunicazione politica, quali Murray Edelman

(1988), Thomas Patterson (1980; 1993), non soltanto considera i mass media

inefficaci nel comunicare informazione utile al cittadino, ma addirittura li ritiene un

ostacolo al buon funzionamento delle democrazie contemporanee. Infatti, i media

avrebbero trasformato la politica in un grande spettacolo, per lo più televisivo, nel

quale fatti e personaggi sono presentati in virtù della loro capacità di fare audience

piuttosto che della loro sostanziale rilevanza per la vita democratica. Anzi, in questo

modo, proprio gli aspetti più importanti della vita collettiva risultano trascurati dai

media, mentre lo spazio della discussione politica viene occupato da questioni per lo

più superficiali e di importanza trascurabile, quali scandali o eventi di banale

importanza.

Secondo questa linea d’argomentazione, l’atteggiamento dei media ha

trasformato il cittadino democratico da soggetto attivo e partecipante a soggetto

passivo, bersagliato da un’informazione in gran parte superflua e incapace di reagire

in modo propositivo. Giovanni Sartori (1997), ad esempio, sostiene che l’homo videns

ha ormai sostituito il cittadino che pensa e ragiona; l’uomo contemporaneo crede a

quel che vede senza interrogarsi se il primato dell’immagine non contenga, nella sua

ingannevole pretesa di riprodurre fedelmente la realtà, anche un aspetto

manipolatorio. Non esiste più uno spazio di discussione politica che non sia in

qualche modo assoggettato alle regole imposte dai moderni mezzi di comunicazione,

che richiedono visibilità, spettacolarità, capacità di semplificare e ridurre qualsiasi

argomento ad uno slogan efficace. Il momento cruciale della vita di una democrazia,

vale a dire gli appuntamenti elettorali, sono trasformati in una successione di “eventi

mediatici”, secondo la nota definizione di Dayan e Katz (1994), i quali catalizzano

l’attenzione del pubblico senza entrare davvero nel merito di quali siano le alternative

in campo e senza , quindi, fornire l’informazione necessaria ad una scelta di voto

consapevole.

Un altro aspetto di cui non si può non rendere conto è che, ormai, quando si

parla di informazione politica, i mass media sembrano rivolgersi a veri e propri

consumatori più che a dei cittadini, (Underwood 2001; Lewis, Inthorn e Wahl-

Jorgensen 2005). Il cittadino medio risulta bersagliato dall’informazione politica in

modo non molto diverso dalla propaganda commerciale. Spesso sono gli stessi mezzi

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a essere utlizzati (spot televisivi, marketing telefonico, pubblicità postale e via e-mail)

e un linguaggio simile, fatto di slogan e di immagini atte a catturare l’attenzione.

Questo modo di concepire il rapporto tra l’informazione politica e i suoi

destinatari è certo divenuto dominante nella pratica della propaganda politica dove

consulenti, esperti di pubbliche relazioni, sondaggisti e uffici stampa parlano ormai il

linguaggio del marketing commerciale, opportunamente adattato al contesto politico.

Altrettanto evidente è che, anche nel mondo del giornalismo più tradizionale, esistono

pressioni a conformarsi a uno stile orientato al mercato in cui l’esigenza di informare i

cittadini sui fatti della politica convive con l’obiettivo di potenziare al massimo le

vendite. Si cerca di dare al pubblico quello che vuole, assumendo quindi un’impronta

più popolare (Underwood 1998; 2001). Infatti, spinti dalla concorrenza di canali

televisivi commerciali e giornali popolari, anche i telegiornali del servizio pubblico e i

giornali più blasonati danno spazio alla cronaca e al gossip. Il giornalismo, in

generale, si è ormai evoluto verso una commercializzazione, un’attenzione

all’audience, una ricerca del profitto sempre maggiori. Questo fenomeno solleva

interrogativi cruciali sul confine tra la “missione” del giornalismo politico, che è

appunto quella di riferire i fatti della politica e, fin dove possibile, controllare

l’operato dei governanti e della classe dirigente, e la necessità di offrire storie

interessanti, capaci di attrarre l’attenzione e di guadagnare qualche lettore e

telespettatore in più. Infatti, come sottolineano Graber, McQuail e Norris (1998, 5),

“le tecniche preposte ad attrarre larghe audience –cioè l’enfasi posta sugli aspetti

conflittuali, drammatici e sulle novità- possono diventare un ostacolo al serio lavoro

di riportare i fatti”.

In maniera crescente, anche gli studiosi della comunicazione politica accettano

la fondamentale identità cittadino-consumatore senza porsi il problema se questo

corrisponda ad un allontanamento e ad una degenerazione del modello ideale di

cittadino democratico. Tutta la letteratura sul marketing politico, ad esempio, si limita

a registrare i trend emergenti delle campagne elettorali dando per scontato che esiste

un’analogia tra il mercato di un qualunque bene commerciale e quello del voto

(Newman 1999). Tuttavia, come sottolineano Bennett e Entnam (2001, xxv), esiste

una linea di divisione importante tra coloro che non vedono alcun pericolo nella

riduzione della sfera pubblica a mero mercato e, anzi, considerano un aumento della

competizione nell’offerta di informazione politica come il mezzo per ottenere

consumatori e, quindi, cittadini più soddisfatti e coloro che, invece, temono che questa

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rappresentazione non possa che impoverire il significato della cittadinanza

democratica. Il dibattito è aperto e, senza dubbio, rimarrà al centro della riflessione

sulla comunicazione politica degli anni a venire.

Una delle conseguenze dell’affermarsi delle logiche di mercato anche nel

campo dell’informazione politica è, di certo, l’aumento vertiginoso della quantità

dell’offerta di informazione. Complice anche la diversificazione dei mass media, con

l’avvento della televisione a pagamento e di internet, i cittadini si trovano circondati

da una sovrabbondanza di informazione politica. Ironicamente, al pari della

iperproliferazione dell’informazione commerciale, la sovraesposizione mediatica a cui

il cittadino medio e’ esposto durante una tipica campagna elettorale moderna non

conduce necessariamente ad una scelta maggiormente consapevole ne’ “migliore”

rispetto ai contenuti (Lewis et al. 2005, 132). Il cittadino e’ travolto da

“un’indistinguibile mistura di messaggi provenienti dalle più diverse fonti. Pubblicità,

pubbliche relazioni, sondaggi, propaganda sono mescolate nei programmi di

informazione insieme al resoconto dei fatti e ai commenti editoriali in un modo che

può confondere o ingannare il consumatore di notizie distratto” (Graber, McQuail e

Norris 1998, 253). Alla fin fine, il principale problema del cittadino rispetto

all’informazione politica consiste nel discernere, vale a dire trovare un criterio di

selezione dell’informazione.

A partire dall’assunto che informarsi significa, in realtà, scegliere alcune

notizie e scartarne altre, alcuni studiosi delineano una visione alternativa a quella del

cittadino passivo e manipolato che abbiamo fin qui evocato. Infatti, per quanto

spettatore piuttosto che attore nel dibattito politico, il cittadino comunque “ragiona”

(Popkin 1991, Norris 2000) e riesce a selezionare “nel mucchio” l’informazione che

lo interessa. Non sarebbe, pertanto, vero che l’informazione politica fa male e provoca

il cosiddetto “malessere da video” (video malaise), inducendo i cittadini a distaccarsi

dalla politica. Al contrario, l’esposizione all’informazione politica attraverso i mass

media migliora in generale la conoscenza dei problemi e la consapevolezza dei

cittadini, e tende anche a renderli maggiormente partecipi della vita democratica di

quanto non siano coloro che non consumano informazione politica, ovvero che non

leggono i giornali e non guardano telegiornali e altri programmi di informazione

politica. Il “circolo virtuoso” che esiste tra informazione e partecipazione

“rappresenta un processo iterativo che esercita gradualmente un impatto positivo sulla

democrazia… Gli effetti devono essere intesi come diffusi, operanti cumulativamente

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attraverso l’esposizione ai media di un’intera vita piuttosto che risultare dall’impatto

di uno specifico messaggio” (Norris 2000).

La posizione di Norris e di altri studiosi della comunicazione politica, ad

esempio, Neuman, Just e Crigler (1992), Newton (1999) porta ad una sostanziale

rivalutazione dei mass media come strumenti della democrazia. Resta da definire se la

funzione educatrice e informativa venga esercitata sull’intera cittadinanza o, in modo

selettivo, su una minoranza qualificata della popolazione, quella che possiede a priori

un interesse e una motivazione tali da poter profittare dell’informazione politica.

Senza dubbio, la capacità dei cittadini di districarsi nella giungla dell’informazione

politica varia a seconda delle loro risorse e caratteristiche personali. Tuttavia, sarebbe

ugualmente sbagliato generalizzare a proposito dell’azione positiva o negativa dei

mass media prescindendo da un’analisi differenziata degli stessi mass media in quanto

portatori di contenuti e di stili d’informazione diversi. E’ vero, infatti, che l’offerta di

informazione politica attraverso i mass media risulta assai diversificata. Alcune fonti

di informazione sono, per così dire, maggiormente informative rispetto ad altre

(Newton 1999, Hooghe 2002). Chi segue regolarmente le cosiddette hard news,

ovvero i media tradizionalmente più autorevoli, come i grandi quotidiani nazionali, i

telegiornali, i programmi di approfondimento politico, si fa ovviamente un’idea molto

più completa e dettagliata della politica. Il discorso può cambiare rispetto alle soft

news, giornali popolari, telegiornali locali e vari programmi di intrattenimento, che

sono indubbiamente meno articolati ed esaurienti dal punto di vista dell’informazione

politica.

E’ evidente che le hard news sono in grado di trasmettere più informazione

politica, trattano argomenti più specifici, tipo questioni economiche e internazionali,

offrono maggiori occasioni di approfondimento. Tuttavia, non si deve sottovalutare il

ruolo delle soft news come canali di informazione politica. Esse sono, infatti, in grado

di raggiungere una audience alternativa rispetto a quelle delle hard news e, quindi, di

risultare comunque trasmettitori di informazione politica per alcune categorie di

cittadini.. Delli Carpini e Williams (2001) osservano che la distinzione tra

l’informazione vera e propria delle hard news e il cosiddetto infotainment, cioè il mix

di informazione e intrattenimento, è sempre più sottile e, non di rado, questioni

sollevate dai tabloids (giornali popolari) finiscono con l’occupare anche l’agenda dei

media in generale, soprattutto nel caso di scandali riguardanti la vita privata dei

politici. Inoltre, l’avvento dei cosiddetti nuovi media ha reso ulteriormente sfumata e

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incerta la distinzione tra informazione “tradizionale” e infotainment moltiplicando le

possibilità di accesso allo spazio pubblico di informazione anche per attori che sono

estranei all’establishment dei media (ibidem, 175).

Non vi è dubbio che l’utilizzo di internet ha reso molto più agevole e

immediato trovare informazione politica abbassando radicalmente i costi della ricerca

e dell’assunzione dell’informazione stessa. Oggi i cittadini interessati possono

arricchire la loro conoscenza politica servendosi di molteplici fonti. I lettori abituali di

un giornale, ad esempio, hanno oggi la possibilità di dare un’occhiata anche alle altre

principali testate on-line nonché a riviste specializzate e alla stampa estera. Chiunque

sia interessato ad una particolare problematica può trovare in rete un’infinità di links

utili: dai siti ufficiali del governo a quelli delle associazioni e dei gruppi di pressione,

dalle rassegne stampa dei giornali ai blog di attivisti e cittadini interessati. Tuttavia,

Internet non è solo un mezzo efficace per integrare l’informazione già assunta

attraverso i mass media tradizionali: è anche un luogo dove le notizie circolano in

tempi più rapidi e in modo più incontrollato.

La vicenda Clinton-Lewinsky è in questo senso esemplare. Infatti, fu un

giornalista di Internet il primo a diffondere la notizia che il pubblico ministero Ken

Starr stava investigando su una presunta relazione tra Clinton e una stagista della Casa

Bianca. Immediatamente, lo scandalo divenne priorità assoluta nell’agenda di tutti i

mass media, sia occupando le pagine dei giornali e la programmazione dei telegiornali

sia trasformandosi nel principale argomento di talkshow e di altri programmi di

intrattenimento (Zaller 1998, 2001; Delli Carpini e Williams 2001). Lo scandalo

Lewinsky ha, quindi, mostrato al mondo non solo l’enorme potenziale di Internet

come mezzo per sottoporre all’attenzione generale argomenti scottanti, ma anche la

sua capacità di attraversare in qualche modo la linea di demarcazione tra la

discussione politica tradizionalmente impostata dalle hard news e quella più popolare

delle soft news. Sul “Monicagate”, infatti, furono i media tradizionali a seguire, anche

nei toni del dibattito, quelli popolari e non viceversa.

La caratteristica principale delle soft news, nonché una delle ragioni del loro

successo presso ampie fasce della popolazione, non è solo quella di usare un

linguaggio più semplice e comprensibile di quello dei media tradizionali, ma anche di

sfruttare uno stile di comunicazione atto a generare reazioni di tipo emotivo nel

pubblico. Non a caso questa forma di comunicazione si basa sulla narrazione non di

fenomeni o eventi astratti, ma di storie individuali, di persone con le quali

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eventualmente il pubblico può identificarsi. Questo aspetto e’ stato spesso criticato

perché indurrebbe ad una generale superficializzazione e ad un’eccessiva

spettacolarizzazione della politica. Questo è innegabile. Tuttavia, d’altra parte, non si

può trascurare il potenziale di questo tipo di comunicazione nel portare determinate

questioni all’attenzione di ampie fasce di cittadini. A questo proposito, Zaller (2003,

121), osserva che le storie intense, drammatiche che sono alla base delle soft news,

“sono fantastiche per attirare l’attenzione su questioni importanti”. Il dramma di un

bambino malato a causa dell’inquinamento ambientale, oppure la vicenda di una

persona che, perso il lavoro, si ritrova a dormire per strada parlano più forte e chiaro

di mille statistiche sui danni all’ambiente e i tassi di disoccupazione. Non è detto,

dunque, che l’informazione necessaria al cittadino per comprendere i fatti della

politica debba sempre e solo provenire dalle fonti di informazione di serie A, ovvero

dalle hard news. Al contrario, e’ ormai il caso che le riflessioni sulla comunicazione

politica nelle moderne democrazie tengano in considerazione anche il ruolo delle fonti

meno ortodosse, quali tabloids, talkshow etc, nel fornire informazione utile e a

promuovere forme di partecipazione.

Nel frattempo, il marketing elettorale ha scoperto e sta sfruttando

intensamente le potenzialità dell’infotainment in termini di propaganda politica. Non a

caso, nelle recenti campagne elettorali, vediamo sempre più spesso candidati recarsi

ospiti nelle trasmissioni più svariate, che spesso non hanno nulla a che fare con

l’approfondimento politico. In Usa, e’ ormai tradizione che i candidati alla presidenza

o altre personaggi politici di rilievo si facciano intervistare in talkshow di

intrattenimento come l’Oprah Winfrey Show o in trasmissioni di satira come il David

Letterman Show. In Italia, abbiamo visto uno dei leader della coalizione di centro-

sinistra Piero Fassino partecipare al talk show C’è posta per te di Maria De Filippi e

numerosi altri politici recarsi al programma Il senso della vita di Paolo Bonolis a

parlare della loro famiglia e di altri aspetti della loro vita privata. Una delle più

riuscite partecipazioni televisive del primo ministro Silvio Berlusconi è stata la sua

inaspettata apparizione alla famosa trasmissione italiana di calcio Il processo del

lunedì condotta da Aldo Biscardi.

La strategia che guida queste iniziative è, ovviamente, quella di occupare spazi

non squisitamente politici allo scopo di tentare di stabilire un contatto con fasce di

elettori che non sono altrimenti raggiunti dai canali tradizionali di informazione.

Poiché è risaputo che i livelli di interesse per la politica sono piuttosto bassi in tutte le

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democrazie occidentali, in campagna elettorale i candidati cercano ogni via possibile

per imporsi all’attenzione degli elettori. Oltre tutto, molte di queste trasmissioni

hanno audience definite in modo ben preciso. Questo consente di tagliare su misura

(targetization) il proprio messaggio in modo mirato: se un politico e’ ospite di MTV,

un canale di musica pop seguito soprattutto da giovani, non parlerà certo di pensioni,

ma più probabilmente di politiche a favore dell’occupazione; cercherà di usare un

linguaggio immediato e informale; farà magari cose un po’ fuori dagli schemi come

suonare il sassofono, come fece Bill Clinton. Ad un talkshow pomeridiano seguito da

casalinghe e/o pensionate, invece, lo stile sarà certo più rassicurante e tradizionalista e

gli argomenti trattati riguarderanno sicuramente la famiglia, l’istruzione, la sanità etc.

Questa occupazione da parte della politica di spazi che appartengono alla

cultura popolare ha uno scopo, quello di guadagnare voti. Vale la pena, tuttavia, di

chiedersi se la democrazia può trarre qualche vantaggio da questa evoluzione del

sistema dei media. O se, invece, si tratta di un fenomeno che deve destare solo

preoccupazione. Secondo alcuni, avere la possibilità di conoscere meglio a livello

personale coloro che ci governano può essere utile. Inoltre, l’infotainment offre a

quelle fasce della popolazione che non seguono per nulla la politica sui canali

tradizionale almeno un’occasione di riflettere sui temi politici. Secondo altri, invece,

questa assunzione da parte dei candidati di ruoli che non rientrano nella sfera politica

propriamente detta è solo un passo ulteriore in un processo di degenerazione della

politica in spettacolo, un mezzo per sollecitare la morbosità del pubblico rispetto alla

vita privata dei politici allo stesso modo di quanto avviene con le star del cinema o

della musica.

Comunque la si pensi, non si può non tenere a mente che uno degli elementi

basilari della leadership democratica risiede nell’autorevolezza insita nella carica. Si

suppone, pertanto, che coloro che assumono ruoli istituzionali debbano mantenere una

certo distacco tra la loro attività ufficiale e la loro vita privata. Un’eccessiva

familiarità tra il leader e i suoi concittadini, in altri termini, può pagare nel breve

periodo in termini di popolarità, ma rischia di indebolire l’autorevolezza della carica

nel tempo. Il problema e’ particolarmente sentito negli Stati Uniti dove la presidenza

detiene, fin dai suoi esordi, una funzione quasi sacerdotale di custodia dei valori della

Repubblica e dove, più che altrove, il presidente si trova oggi esposto, da parte dei

mass media, a un maniacale scrutinio dei più intimi aspetti della sua vita privata

(Stuckey 1991). Non si tratta, però, di una questione estranea alle altre democrazie

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occidentali. In Gran Bretagna, numerose carriere politiche si sono infrante a causa di

pettegolezzi di natura sessuale; nella Francia dove il generale de Gaulle protestò

vivacemente perché, complice la cameriera, qualcuno si era permesso di profanare

l’immagine del presidente diffondendo innocenti fotografie della sua camera da letto

e dove il presidente Mitterrand riuscì per anni a tenere nascosta l’esistenza di una

figlia segreta, oggi la stampa non si pone problemi a rendere pubblici tutti gli alti e

bassi del matrimonio del leader gollista Nicolas Sarkozy. Persino, in Italia dove,

tradizionalmente, le famiglie degli uomini politici sono sempre rimaste nell’ombra e

le preferenze sessuali dei politici sono sempre state un tabù assoluto, di recente

pettegolezzi e insinuazioni sono diventati all’ordine del giorno.

Per arrivare al punto, trattare i politici come attori famosi o rockstar sembra

essere il nuovo trend emergente nei mass media. Né i politici, benché ovviamente

disturbati quando vengono presi di mira per questioni spiacevoli, tentano veramente di

sottrarsi a questa personalizzazione. Spinti dai loro esperti di marketing, si espongono

sempre di più, scrivendo autobiografie, rilasciando interviste sulle loro vicende

personali, partecipando a programmi il cui principale obiettivo sembra quello di

mostrare il loro lato “umano”. Resta da chiedersi se questo sia quello che i cittadini

realmente vogliono (o che la democrazia realmente richiede) oppure se tutto questo

non sia piuttosto il frutto di un gigantesco equivoco montato da indagini di marketing

sostanzialmente ingannevoli e da pregiudizi infondati circa le preferenze del pubblico.

Infatti, alcune ricerche offrono spunti per una riflessione non banale (Underwood

1998, 180 e ss) sul fatto che, se i cittadini apprezzano di ricevere le notizie in modo

“facilmente digeribile”, non per questo non vogliono sapere nulla dei problemi

sociali e globali o degli avvenimenti politici. In generale, i cittadini non gradiscono

accumulare enciclopedie di informazioni presentate in modo noioso e complicato, ma

vogliono essere messi al correnti di fatti salienti secondo il modello di cittadino

“vigile” proposto da Michael Schudson (1998). Secondo questo punto di vista, quello

che occorre al buon cittadino sono dei campanelli d’allarme (Zaller 2003) che i mass

media dovrebbero suonare per avvertire i cittadini di ogni situazione anomala, dagli

abusi di potere alle posizioni prese dai politici in contrasto con il loro programma o

con quello del loro partito (Hutchings 2003).

Se tutto questo ha un fondamento, quindi, esiste una responsabilità che i mass

media non possono ignorare nello spingersi oltre sulla strada di un’eccessiva

personalizzazione della politica e di una totale commercializzazione

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dell’informazione, anche se probabilmente, come suggeriscono Graber, Mc Quail e

Norris (1998, 256), il problema andrebbe affrontato non solo dagli stessi giornalisti,

ma congiuntamente ai cittadini attivi e consapevoli e a quei politici che prendono sul

serio il loro dovere di rappresentare i propri elettori. In altre parole, non spetta solo ai

mass media decidere se possono e vogliono essere strumenti della democrazia, ma

soprattutto i cittadini devono cercare di partecipare al processo comunicativo anziché

porsi solo come ricettori passivi dello spettacolo della politica.

3. Dalla conversazione alla partecipazione politica

Nel precedente paragrafo ci siamo chiesti se i cittadini hanno la concreta possibilità di

essere informati dai media in modo da poter partecipare alla vita delle moderne

democrazie. In chiusura, abbiamo osservato che i mass media possono essere

strumenti della democrazia soltanto se i cittadini si trasformano da spettatori/

consumatori in attori del processo comunicativo. Pertanto, dobbiamo ora interrogarci

se i cittadini sono davvero motivati a prendere parte al processo democratico e quali

sono i canali di espressione delle opinioni e di partecipazione attraverso cui questo

interesse prende forma.

Incominciamo dalla prima e più semplice forma attraverso cui il cittadino medio

partecipa: la discussione politica. Infatti, come norma generale espressa per la prima

volta da Katz e Lazarsfeld negli anni Cinquanta, le opinioni politiche dei cittadini non

sono plasmate interamente dall’influenza diretta dei mass media , ma si formano

anche attraverso forme di comunicazione interpersonale. In parole povere, noi

parliamo con altri di quanto leggiamo sui giornali, vediamo alla televisione,

scopriamo navigando su Internet. Talvolta svolgiamo queste attività, soprattutto

guardare la TV, insieme ad altre persone: questo rende le due operazioni –ascoltare e

commentare- praticamente simultanee. Pertanto, suggerisce che le due forme di

comunicazione, quella mediatica e quella interpersonale non siano indipendenti l’una

dall’altra, ma piuttosto interagiscano in qualche modo fra loro (Lenart 1994, 40-1).

L’idea della discussione politica come “filtro” dell’influenza dei mass media

e’ certamente tra le più condivise. Avanzata inizialmente da Katz e Lazarsfeld (1955),

consiste nella semplice, ma intelligente e originale ipotesi secondo la quale il modo

con cui un cittadino discute di politica e, soprattutto, con chi ne discute determina il

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suo modo di porsi di fronte al messaggio mediatico. In particolare, Katz e Lazarsfeld

riscontrarono l’esistenza nelle varie comunità di persone definibili come leader

d’opinione che agivano come veri e propri interpreti dell’informazione politica e ne

influenzavano in modo rilevante la ricezione. L’ipotesi della discussione

interpersonale come “filtro” e’ stata successivamente sottoposta ad altre, più recenti,

analisi empiriche, ricevendo sostanziali conferme. Huckfeld e Sprague (1995; 2001)

hanno studiato il ruolo dei network interpersonali, in particolare quelli composti da

parenti e amici intimi, nel plasmare le opinioni politiche dei cittadini.

Attraverso una ricerca condotta in quattro paesi, USA, Gran Bretagna, Spagna

e Germania orientale, Schmitt-Beck (2003) è giunto alla conclusione che la

discussione politica ha la capacità di moderare o accentuare l’influenza dei mass

media a seconda se il messaggio proveniente dai media è più o meno in accordo con

l’orientamento politico del gruppo di discussione in cui il cittadino è coinvolto. Più

precisamente, se un cittadino vive e discute di politica con persone che la pensano

tutte nello stesso modo, l’influenza dei media apparirà sicuramente filtrata dalla

discussione interpersonale che enfatizzerà i messaggi favorevoli, ma neutralizzerà

oppure bloccherà le voci discordanti . Se, invece, vive e discute di politica all’interno

di un network eterogeneo o neutro, allora i messaggi dei media gli arriveranno senza

essere rafforzati, in senso positivo o negativo, dall’ambiente circostante.

Si deve sottolineare che, abitualmente, le persone dimostrano una tendenza a

parlare di politica con altre persone che condividono le loro idee, quindi a muoversi in

network omogenei: si tratta della cosiddetta ipotesi dell’omofilia, secondo cui, in altri

termini, il simile si accompagna col simile. Tuttavia, mentre la ricerca di Katz e

Lazarsfeld e, in generale, gli studi della scuola della Columbia (Berelson, Lazarsfeld e

McPhee 1954) avevano registrato la prevalenza di un alto grado di omogeneità

nell’ambiente di discussione politica, Schmitt-Beck (2003, 245) sembra rilevare una

maggiore indipendenza dell’orientamento del network di discussione dalle

predisposizioni individuali. Altrettanto, analizzando le elezioni del 1992, Beck,

Dalton, Greene e Huckfeldt (2002, 61) hanno riscontrato che almeno un 30 per cento

di americani non si trovava in un network uniformemente schierato per una parte o

per l’altra. Questo indica che esiste lo spazio affinché i messaggi provenienti dai mass

media possano essere oggetto di discussione, ma non necessariamente enfatizzati

oppure contrastati dall’ambiente circostante secondo un pattern prevedibile. A

sostegno dell’esistenza di network eterogenei di discussione politica, Huckfeld,

16

Johnson e Sprague (2004) presentano un’ampia evidenza empirica per la quale la

diversità delle opinioni politiche all’interno dei network non soltanto è piuttosto

comune, ma è anche, in realtà, funzionale al fatto che in una democrazia i cittadini

sono (e soprattutto dovrebbero essere) coinvolti in un minimo ammontare di scambi

d’opinione e di discussione.

La conversazione politica viene praticata, quindi, come ci hanno confermato

gli studi sopra citati, e ha un ruolo nel formare le opinioni dei cittadini. Ma, quali sono

le modalità del discorso informale e quali sono le circostanze che incentivano i

cittadini a parlare di politica? Su questo punto, la ricerca è meno sviluppata, ma

nondimeno ha offerto risultati interessanti. In Crosstalk, Just et al. (1996) mostrano

che i cittadini reagiscono ai messaggi dei media in modo positivo nel senso che, se

l’offerta di informazione aumenta, anche la discussione politica è più intensa. I media,

quindi, sembrano offrire la materia su cui discutere: dopodiché, però, i cittadini

tendono a rielaborare i messaggi dei media mettendoli in relazione con la loro

esperienza personale. Analogamente Gamson (1992) riscontra che la gente interpreta

l’informazione che viene dai mass media attraverso le proprie esperienze e quelle di

persone che conoscono.

Walsh (2004), usando una metodologia inusuale per la letteratura sulla

comunicazione politica, l’osservazione diretta e prolungata nel tempo di un gruppo di

cittadini, fa luce su un fenomeno fondamentale per la vita di una comunità

democratica, cioè la discussione che ha luogo all’interno di un gruppo di persone che

ha rapporti di familiarità e regolarità nelle frequentazioni1. Tra i risultati emersi vi è,

innanzitutto, che parlare di politica con un gruppo di persone con le quali sussistono

confidenza e familiarità è evidentemente gratificante per i membri del gruppo stesso.

La discussione politica non appare come lo scopo principale di questo tipo di incontri

informali, che non hanno alcun esplicito obiettivo di partecipazione civica.

Nondimeno, i discorsi attinenti alla politica sono frequenti e coinvolgono i

componenti del gruppo a riflettere su questi argomenti e a farsi un’idea che si forma

proprio attraverso l’interazione con gli altri membri.

La conversazione informale non finalizzata allo scopo di prendere decisioni

ne’ a forme di propaganda e proselitismo appare, quindi, il ponte tra quella che è la

riflessione personale del cittadino e un suo maggiore impegno nella sfera pubblica. 1 Walsh (2004) ha scelto di seguire gli incontri di un gruppo di uomini bianchi relativamente anziani e di classe media che si incontravano regolarmente in un caffè e chiacchieravano di vari argomenti, compreso la politica.

17

Infatti,“attraverso il modo con cui le persone scelgono di interagire o meno con altri,

essi creano e riproducono idee circa chi fa parte della comunità, chi ritengono

responsabile per essa, quali politiche vogliono vedere attuate e il modo in cui

desiderano passare il proprio tempo. La cittadinanza è in parte fondata sull’individuo

e in parte sulla collettività, ma una dimensione aggiuntiva della cittadinanza deriva

proprio dall’interazione interpersonale che collega questi due elementi” (Welsh 2004,

15).

Non a caso il fatto di parlare spesso di politica in privato, ovvero con la

famiglia o con amici, sembra essere la precondizione per un coinvolgimento non solo

in discussioni pubbliche, vale a dire in contesti dove i cittadini esprimono le proprie

idee, ad esempio i public meetings, ma anche in riunioni sociali che coinvolgono

anche semplici conoscenze o estranei (Conover, Searing, Crewe 2002, 39). Infatti,

coloro che riferiscono di parlare spesso di politica in pubblico sono anche quelli

maggiormente coinvolti in intense discussioni in privato. Non per tutti, tuttavia, la

discussione interpersonale sembra essere condizione sufficiente ad attraversare il

ponte e lasciarsi coinvolgere da forme di partecipazione più attiva. I dati di Conover,

Searing e Crewe (2002), raccolti per USA e Gran Bretagna, ci dicono che oltre il 70%

per cento degli americani e l’87% percento degli inglesi non parlano mai situazioni

percepite come pubbliche e, solo di rado, si lasciano andare a parlare di politica con

estranei.

Questo è, naturalmente, uno stato di cose che, in generale, non depone a

favore del buono stato della democrazia. Le ragioni per cui i cittadini sono restii ad

esprimersi in pubblico dovrebbero essere più intensamente investigate dagli studiosi

della comunicazione politica. Sicuramente, come suggeriscono Conover, Searing e

Crewe (2002, 60), esiste un retaggio culturale per cui le opinioni politiche sono un

fatto privato e la gente non vuole manifestarle. Esiste certo il timore che la

discussione politica scateni conflitti e tensioni tra gli interlocutori. Il clima

d’opinione, talvolta, trasforma alcune preferenze politiche in posizioni impopolari e,

quindi, costringe i cittadini coinvolti a chiudersi nel silenzio per non rischiare

l’isolamento sociale (Noelle-Neumann 1984). Più semplicemente, non possiamo

dimenticare le alte percentuali di cittadini non interessati alla politica che da decenni

vengono registrate in tutte le survey nazionali. Indubbiamente, il disinteresse

rappresenta una barriera alla discussione sia privata sia pubblica.

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A fronte di tutto ciò, vi è, tuttavia, un dato che emerge dalle ricerche

qualitative che non può essere ignorato: i cittadini coinvolti in reti associative nelle

quali si discute di politica traggono soddisfazione dal partecipare alla discussione

(Welsh 2004); le persone dichiarano di cercare nelle discussione politica informazioni

utili a capire meglio la politica e chi ha delle idee in merito prova piacere ad

esprimerle (Conover, Searing e Crewe 2002); il modo in cui le persone parlano di

politica lascia intravedere la presenza di una coscienza civica che, adeguatamente

stimolata, potrebbe essere riattivata (Gamson 1992); i cittadini coinvolti nei sondaggi

deliberativi finora condotti si sono detti molto soddisfatti dell’esperienza che li ha

visti impegnati un intero weekend a discutere di politica (Fishkin 1995).

Opportunamente stimolato, quindi, il cittadino medio non sembra ostile a farsi

coinvolgere nella discussione politica ed, eventualmente, anche in forme di

deliberazione pubblica, ovvero in occasioni di pubblica discussione finalizzate a

prendere delle decisioni riguardanti la collettività. Ne segue una domanda: forse gli

alti tassi di disinteresse per la politica derivano da una mancanza di stimoli? Non

esiste, per caso, una potenzialità, che non è stata forse ancora sfruttata appieno, di

incentivare la comunicazione politica e, quindi, di migliorare la democrazia? E se è

così, quale dovrebbe essere il compito dei mass media?

Al giorno d’oggi, sembrano esserci parecchi ostacoli affinché i cittadini

possano essere indotti a interessarsi e a parlare di politica. La crisi di organizzazioni

come i partiti di massa e i sindacati ha sicuramente cambiato le abitudini

partecipative: oggi sempre meno cittadini sono iscritti ai partiti, si recano in sezione,

lavorano per il partito facendo così parte di una comunità che condivide in primo

luogo un linguaggio e, quindi, una forma di comunicazione (Dalton e Wattemberg

2001). Lo stesso vale per altre forme di associazionismo. Alcuni anni fa, in un libro

che ha destato una vivace discussione, Robert Putnam (2000) ha denunciato il calo

della partecipazione ad ogni attività di tipo associativo negli Stati Uniti, paese dove

tradizionalmente il ruolo delle associazioni politiche e sociali e’ sempre stato

maggiore che, ad esempio, in Europa. Le analisi comparate di Dalton (2002; 2004),

Norris (1999) mostrano un calo di fiducia dei cittadini nelle istituzioni del governo,

del parlamento e, in generale, dei politici. A questo calo corrisponde un declino delle

forme più tradizionali di partecipazione come il voto e, appunto, il sostegno diretto

alle organizzazioni partitiche.

19

Se i canali più convenzionali della partecipazione politica hanno perso la loro

centralità, altre forme di partecipazione appaiono, invece, più vive e praticate di

qualche tempo fa (Verba, Schlozman e Brady 1995; Inglehart 1997; Dalton 2002).

Secondo Dalton (2004, 177), forme di partecipazione quali firmare petizioni, aderire a

boicottaggi, prendere parte a manifestazioni o a occupazioni di edifici rappresentano

oggi un modo di partecipare attivamente alla vita democratica e non più come il

manifestarsi di un’opposizione al sistema. Anzi, risulta che chi dichiara di credere

fortemente ai valori democratici è anche chi maggiormente incline a partecipare a

forme di protesta attiva, come manifestare e aderire a boicottaggi politici. Come viene

argomentato da Norris (1999), in realtà, i cittadini contemporanei non sono dei

rivoluzionari né degli antidemocratici, nel senso di voler rimpiazzare un sistema con

un altro, ma sono “critici” delle forme e dei modi in cui la democrazia concretamente

si manifesta e vorrebbero, quindi, trovare dei modelli alternativi di partecipazione

democratica. Da qui non solo l’intensificarsi delle attività di protesta, ma anche l’alto

grado di approvazione che risulta dalle survey nei confronti di ogni forma di

democrazia diretta o deliberativa (Dalton 2004).

Ci deve, a questo punto, chiedere in che modo i mezzi di comunicazione

possono contribuire al manifestarsi di queste nuove modalità di partecipazione

politica. Certamente, le forme di protesta più diffuse, soprattutto manifestazioni,

cortei, picchetti e occupazioni, sollecitano l’attenzione dei media in quanto

spettacolari. Di conseguenza, si intravede un’influenza dei mass media nel favorire e

incentivare, più o meno involontariamente, queste modalità di espressione. La

manifestazione come modo di azione collettiva segue la stessa logica del controllo

dell’informazione da parte dei politici e dei governi: per esistere bisogna essere

visibili e, quindi, conquistarsi uno spazio mediatico (Gerstlé 2004, 235 e ss.). Chi

protesta deve, pertanto, ottenere una copertura dei mass media che non solo renda noti

gli eventi e gli obiettivi dei promotori, ma che possa anche suscitare simpatie e

consenso. I mass media , quindi, sono cruciali sia per diffondere la protesta e attirare

altri potenziali manifestanti sia per esercitare una pressione sull’autorità pubblica alla

quale la protesta si rivolge.

I nuovi media, particolarmente Internet, sono visti come uno spazio di

discussione politica che può integrare i canali più tradizionali della comunicazione

politica e favorire , in particolare, forme di partecipazione non convenzionali. Il

capitolo di Lusoli su Internet in questo volume ci offre un’ampia rassegna su questo

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tema. Qui vorremmo suggerire soltanto alcune riflessioni. Certamente, Internet

incentiva forme di partecipazione non convenzionali in quanto agevola i contatti

diretti tra persone che sostengono le medesime cause e permette ad ogni tipo di

associazione o movimento di creare “forum virtuali” dove diffondere informazioni,

chiamare a raccolta i simpatizzanti, organizzare iniziative a livello locale, nazionale, e

addirittura globale, come e’ avvenuto, ad esempio, con il Global Forum. La rete è

sicuramente un luogo dove, coperti dall’anonimato e, quindi, relativamente al sicuro

anche in regimi non democratici, i cittadini possono esprimersi liberamente, attraverso

blog e forum di discussione2. Internet, inoltre, è uno strumento potenzialmente

cruciale per l’applicazione di forme di democrazia deliberativa, in quanto crea uno

spazio pubblico dove i cittadini possono partecipare ai processi di decisione e alla

definizione dell’agenda politica.

Questa visione ideale dell’impatto delle nuove tecnologie sul funzionamento

delle democrazie contemporanee si scontra, tuttavia, con almeno un argomento molto

rilevante: il problema della frammentazione e della polarizzazione delle opinioni

politiche. Bisogna, infatti, prendere atto che le società contemporanee sono diventate

molto più complesse e frammentate in una miriade di interessi e di identità diverse. La

vera sfida delle democrazie contemporanee appare, quindi, quella di riuscire a

coordinare queste diverse voci al fine di arrivare a scelte collettive che siano

espressione di un interesse generale (Dalton, Cain e Scarrow 2003, 251). Internet dà

spazio alle differenze proprio in quanto un singolo cittadino interessato a una certa

questione riesce a trovare in Internet tutta l’informazione che desidera e il sostegno di

gruppi e singoli individui che condividono le sue stesse opinioni. Spesso, tuttavia,

questo reciproco riconoscimento tra persone che stanno dalla stessa parte si tramuta in

un’estremizzazione delle posizioni politiche. Cass Sunstein (2003) ha suscitato molta

discussione sostenendo che Internet è il mezzo ideale per accrescere le esperienze

comuni con altre persone che la pensano come noi, ma, per come è strutturato, tende a

diminuire le probabilità di imbattersi in informazioni contrastanti.

In generale, il moderno sistema dei media, passando da un’impostazione

generalista ad una sempre più specializzata –pensiamo, ad esempio, ai canali

televisivi tematici che erodono sempre più le audience dei programmi come i

telegiornali nazionali - finisce per ostacolare, o quanto meno per non favorire,

2 Un caso particolarmente interessante è quello iraniano , dove un numero molto alto di giovani, soprattutto donne, usa i blogger, cioè veri e propri diari on-line (Rawnsley 2005, 179).

21

l’acquisizione di esperienze comuni con tutti gli altri membri della collettività

politica. In questo modo, il rischio più concreto è quello di avere cittadini che

conoscono bene i propri interessi e quelli del proprio gruppo di appartenenza, ma non

hanno idea di quelli che sono i problemi della collettività né posseggono la necessaria

flessibilità per accettare soluzioni di compromesso tra le diverse esigenze. Come

osserva Rawnsley (2005, 185), in questo modo “viene completamente a cadere

l’ideale liberale della funzione educativa di un sistema di comunicazione basato

sull’interazione tra idee, informazioni e fonti alternative. Non possiamo più dire che

quanto più si partecipa tanto maggiore è l’accumulo di conoscenza sui temi politici.

Piuttosto, il sistema di filtro che permette ai cittadini di scegliere l’informazione che

vogliono ricevere e da quali fonti vogliono riceverla, significa che essi non si trovano

più nella situazione di confrontarsi con idee opposte, limitando in questo modo la

nostra conoscenza e comprensione della politica”.

Il problema del controllo della rete e della sua eventuale manipolazione deve,

inoltre, mettere in guardia rispetto ad un’eccessiva enfatizzazione dei nuovi media

come soluzione alle difficoltà in cui sembrano versare la teoria e la pratica della

moderna cittadinanza democratica. Shapiro (1999) sottolinea che Internet è dominata

da grandi interessi economici e che spesso l’informazione che raggiunge i cittadini

non è veramente scelta, ma personalizzata a seconda delle loro preferenze e dei loro

consumi. In un recente studio sulle campagne elettorali, Howard (2006) delinea un

quadro che non può non sollevare notevoli preoccupazioni: infatti, le nuove

tecnologie risultano oggi così avanzate che è possibile personalizzare al massimo la

propaganda politica. Attraverso banche dati sempre più raffinate, che incrociano

informazioni che derivano da acquisti fatti con le carte di credito, abbonamenti a

riviste, dati di sondaggi e altre svariate fonti, i responsabili di una campagna elettorale

sono in grado non solo di bersagliare i cittadini di messaggi telefonici e di e-mail su

argomenti appropriatamente scelti fra quelli che dovrebbero interessare, ma possono

addirittura fare sì che persone con preferenze e profili differenti, collegandosi allo

stesso sito di propaganda, accedano in pratica a informazioni diverse, tagliate su

misura a seconda delle loro predisposizioni. Il cittadino spesso non si rende neppure

conto che l’informazione alla quale ha accesso non è la stessa alla quale accedono

anche gli altri cittadini. In questo modo, l’informazione e’ distribuita tra l’elettorato,

ma non realmente condivisa dai membri della collettività.

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La concezione di cittadinanza che emerge da un siffatto contesto e’

necessariamente “privatizzata” nel senso che “gli ambiti di deliberazione e di

decisione dei cittadini coinvolti sono individualizzati e intimi”…L’incentivo a

partecipare non deriva dal senso del dovere civico, ma dal voler porre rimedio a

qualche problema privato. La sfera politica dell’ipermedia è disegnata appositamente

per spostare la partecipazione democratica dalla sfera pubblica delle manifestazioni

politiche, delle assemblee pubbliche, dei commenti dei giornali e della discussione nei

caffè alla sfera privata degli schermi dei computer, delle tastiere e dell’offerta di

un’informazione altamente personalizzata” (Howard 2006, 189). In altri termini, il

cittadino potrà anche venire indotto da varie sollecitazioni a interessarsi ai temi che lo

toccano da vicino, a firmare petizioni, a dare anche un contributo in denaro, ma la sua

percezione generale della vita politica rimarrà parziale, condizionata da esperienze

mediatiche personalizzate e, soprattutto, privata da ogni incontro casuale con

l’informazione imprevista e non filtrata. Questo fenomeno, ovviamente, ripropone le

perplessità sopra avanzate: può un sistema democratico funzionare adeguatamente se i

cittadini ignorano e, di conseguenza, non si curano dei problemi della collettività e si

preoccupano soltanto dei propri interessi? L’evoluzione delle nuove tecnologie e’

tanto rapida che è impossibile fare profezie, ma, certamente, la riflessione sul rapporto

tra comunicazione politica e democrazia non potrà fare a meno di affrontare questo

dilemma nei prossimi anni.

4. Per concludere: Quattro concezioni di che cosa è comunicazione

La nostra analisi dovrebbe aver mostrato che ci sono diverse ragioni per ritenere che

potenziare la comunicazione politica può contribuire a rendere migliore la

democrazia, ma anche che l’evoluzione del sistema mediatico contemporaneo

contiene in sé elementi che possono anche peggiorare la democrazia. Poiché le

modalità della comunicazione politica discendono da come la comunicazione stessa

viene definita e interpretata, il modo più appropriato di concludere questo saggio ci

sembra quello di interrogarci su quale concezione di comunicazione politica si presti

meglio a generare le pratiche comunicative più adatte a favorire il buon

funzionamento dei regimi democratici.

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E’ logico pensare che molte delle tendenze che abbiamo fin qui identificato come

potenzialmente dannose per gli ideali e le pratiche democratiche siano collegate a una

visione molto tecnologica che insiste sugli strumenti e sul loro sviluppo spettacolare a

partire dal XXesimo secolo. Il determinismo tecnologico di Marshall MacLuhan si è

rapidamente trasformato come modalità di ricorso per migliorare la democrazia e la

comunicazione politica si è rapidamente trovata ridotta al rango di una delle

conseguenze dell’innovazione delle tecniche. Ma, in realtà, nulla è più dubbio di

questa riduzione della comunicazione politica alle condizioni tecnologiche della sua

produzione e ciò nonostante la tecnologia abbia modificato profondamente le regole

del gioco. A partire da qui, è possibile distinguere quattro concezioni importanti della

comunicazione politica.

La concezione strumentale riposa sull’insieme delle tecniche e dei metodi di cui

dispongono gli attori politici, più spesso, i governanti, per sedurre, controllare e

manipolare l’opinione pubblica. Questa rappresentazione mutila tanto la

comunicazione quanto la politica poiché disgiunge quello che è consustanziale.

Proietta una concezione tecnica, addirittura tecnocratica della prima su una

concezione manipolativa della seconda. Si tratterà allora essenzialmente dell’abilità di

gestire una immagine in quello che è presentato come la « nuova comunicazione

politica » subordinata alla pubblicità, ai sondaggi e alla televisione. Se non c’è dubbio

che simili forme di comunicazione sono effettive, la loro pretesa di esaurire la

questione deve essere respinta.

La concezione ecumenica è rappresentata bene dalla definizione di Pippa

Norris (2000). La comunicazione politica è un « processo interattivo che concerne la

trasmissione dell’informazione fra gli attori politici, i mezzi di informazione e il

pubblico ». Ci si avvicina così alla rappresentanza sistemica nella quale dominano il

funzionalismo e le idee di circolazione dell’informazione in un contesto nel quale non

vengono affatto presi in considerazione gli ostacoli alla comunicazione né l’esistenza

di rapporti di forza fra i partecipanti al processo. Questa definizione è simile a quella

che ha dato J-M.Cotteret (1973) come « scambio di informazioni fra governanti e

governati attraverso canali di trasmissione strutturati o informali ». La nozione di

scambio schiaccia i rapporti di disuguaglianza che possono svilupparsi nella

comunicazione politica. In altre parole, in questa concezione ecumenica tutto avviene

come se l’eguaglianza presiedesse allo svolgimento di scambi comunicativi fra attori i

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cui status sono indifferenziati sia che si tratti del Presidente della repubblica che si

rivolge alla nazione sia che si tratti di operai che manifestano contro la chiusura della

loro fabbrica. D’altronde, è dubbio che i protagonisti si scambino unicamente

informazione. Sappiamo che attraverso questi scambi sono in questione anche altri

beni simbolici: immagini, rappresentazioni più o meno precostruite, preferenze, e così

via. In breve, la nozione di scambio rimane sospetta di finire di neutralizzare rapporti

autenticamente politici che implicano spesso disuguaglianza di status e di risorse

disponibili.

La terza concezione, che potremmo chiamare competitiva, sembra molto più

soddisfacente. E’ fondata sull’idea di competizione fra rappresentazioni intese ad

imporre determinate percezioni alla più ampia opinione pubblica. Jay Blumler (1990)

la descrive bene : « è una competizione per influenzare e controllare, grazie ai

principali mass media, le percezioni pubbliche dei più importanti avvenimenti politici

e delle poste in gioco». Si passa, dunque, dallo scambio indeterminato alla

concorrenza esplicita per il controllo delle rappresentazioni collettive nel cui ambito

viene riconosciuto ai mass media un posto di rilievo. In questo modo, vengono inoltre

riconosciuti il ruolo determinante del cognitivo e del simbolico nei procedimenti

politici e anche il riavvicinamento della dialettica “conflitto/cooperazione”con la

costruzione di significato. La comunicazione politica diventa essenzialmente una

strategia simbolica se si aggregano le due fondamenta teoriche dell’interazionismo

strategico e dell’interazionismo simbolico.

Infine, la concezione deliberativa è fortemente influenzata dalla concezione

habermasiana della comunicazione liberata dai vincoli della dominazione. E’ una

visione ancora largamente normativa in quanto consiglia l’uso pubblico della ragione

critica, ma comincia a trovare nell’ordine del diritto positivo inizi di messa in opera

attraverso gli obblighi di informazione ai quale si trovano vincolate le autorità

pubbliche (Lascoumes, 2001) e le esigenze, sempre più pressanti (SIG, 2005), del

dibattito pubblico ovvero fra cittadini, sotto forme diverse che vanno dalle conférence

de consensus e ai questionnaire de choix dell’esperienza francese (Bütschi 2000)

passando per i sondaggi deliberativi o le “giurie di cittadini” che avvicinano alla

democrazia dal basso (Hermès 2000).

In una qualche misura tutte e quattro queste concezioni colgono, rispecchiano

e delineano alcuni dei contributi essenziali che la comunicazione politica offre al

funzionamento della democrazia. Tuttavia, alcune di esse, soprattutto la strumentale e

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l’ecumenica, ci sembrano compatibili con alcune degenerazioni dei processi

comunicativi, in particolare, la tendenza a ridurre la sfera comunicativa a sfera di

scambio tra cittadini consumatori, governanti manipolatori e mass media imprenditori

commerciali. Quello che ci pare importante, e che ci sembra che la terza concezione

metta bene in evidenza, è che nell’analisi e nella pratica sono i rapporti fra gli attori

politici, i comunicatori intermediari e i cittadini a plasmare la comunicazione politica.

In altri termini, quanto e in che misura la comunicazione politica può essere strumento

di miglioramento della democrazia dipende dal grado di impegno di tutti gli attori

coinvolti: governi più responsabili che, anziché manipolarla, permettano all’opinione

pubblica di giudicare il loro operato e applicare un meccanismo di accountability;

mass media consapevoli che il loro “prodotto” non ha una valenza soltanto

commerciale, ma anche un valore civico; cittadini che partecipano e sono, a loro

volta, in grado di imporre un miglioramento delle modalità di comunicazione politica

(e delle competenze e delle responsabilità degli stessi operatori della comunicazione).

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