Contributo del Collezionismo storico al patrimonio numismatico italiano
IL CONTRIBUTO DELLA COMUNICAZIONE POLITICA ALLA DEMOCRAZIA
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IL CONTRIBUTO DELLA COMUNICAZIONE POLITICA ALLA
DEMOCRAZIA
1. Lo stretto intreccio fra la politica e la comunicazione in democrazia.
Certamente oggi, ma anche da molto tempo prima dello sviluppo di Internet,
sappiamo che la comunicazione è indispensabile alla politica e, come ci accingiamo
ad argomentare in questo saggio, ancora più indispensabile alla democrazia. In effetti,
fin dall’antichità greca, Aristotele aveva evidenziato con chiarezza la consustanzialità
del politico e della comunicazione insistendo sulla doppia natura dell’essere umano,
animale sociale e animale simbolico. Ovvero, più esattamente animale politico perché
simbolico, vale a dire dotato della capacità linguistica. E’ proprio perché è in grado di
esprimere opinioni, giudizi e preferenze che l’essere umano permette alla città di
funzionare. La tradizione aristotelica ha trovato discendenti/discepoli nel pensiero
politico attraverso, in special modo, Immanuel Kant, Hanna Arendt e Jürgen
Habermas.
Politica e comunicazione
Ma come spiegare più concretamente questa consustanzialità fra i due ordini di
fenomeni sociali che sono, da un lato, la politica e, dall’altro, la comunicazione?
Samuel Finer la stabilisce correttamente in uno dei primi paragrafi, intitolato « The
nature of politics », della sua opera più importante: Comparative Government (1970).
Secondo lui, la vita quotidiana è una sequenza di decisioni da prendere che sono
altrettanti dilemmi. A differenza del dilemma economico, il dilemma politico si
caratterizza fin dall’inizio per la sua natura collettiva. Affinché vi sia politica bisogna
che vi sia un gruppo. Inoltre, al dilemma politico non viene attribuita una collocazione
in una parte qualunque della società. Il politico può sorgere da un qualsiasi luogo
della società. Un problema politico può nascere dalla distribuzione diseguale delle
ricchezze, dalla divisione etnica e culturale, dalle differenze religiose, dai conflitti
linguistici, e così via. Dunque, oltre al carattere collettivo, il politico richiede
l’emergere di un problema che non è specificato a priori come di natura politica.
Quello che assicura il legame fra il politico e la comunicazione emerge dalla società
come luogo che “processa” problemi. Finer indica che, per fare fronte ai problemi che
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minacciano la sua sopravvivenza, la comunità deve accordarsi sulle linee d’azione
comune, sulle policies. I componenti della comunità in questione debbono molto
sovente confrontarsi per decidere quale di queste policies è la più opportuna fra
diversi « progetti che si escludono reciprocamente ». Per Finer (1980), il ciclo della
politica comincia proprio là : è quello che accade fra il momento dell’espressione di
progetti che si escludono reciprocamente e il momento dell’adozione di una decisione
legittima che verrà imposta a tutti. Da parte nostra (Gerstlé, 2004), facciamo risalire il
politico, a monte, nel processo sociale di emergenza del problema oppure della sua
pubblicizzazione, vale a dire del riconoscimento che esiste un problema pubblico che
si traduce in uno scarto fra la situazione esistente e quella che il pubblico considera
come desiderabile. Alla fase del riconoscimento pubblico segue la fase della
politicizzazione che corrisponde al fatto che il pubblico ammette che il mutamento di
situazione risulta dalla responsabilità di una autorità pubblica. Con la terza fase che
definiamo polarizzazione, ritroviamo Finer e la sua concettualizzazione dei progetti
che si escludono reciprocamente. Dunque, tutti i processi che intervengono per
passare dalla situazione polarizzata ad una situazione normalizzata, che si tratti di
negoziazione, di persuasione, di argomentazione, di seduzione, di intimidazione,
ricorrono alla comunicazione. Tutti i processi non violenti di regolamentazione delle
crisi aperte dall’emergenza dei problemi fanno ricorso alla comunicazione. In altre
parole, come avevano capito gli inventori della democrazia, il linguaggio ha una virtù
pacificatrice. Questo non significa affatto che la comunicazione debba essere
assimilata in modo naturale alla pace e alla cooperazione. Sostenere questo porta a
quello che potrebbe essere definito una « ideologia della comunicazione ». In realtà,
la comunicazione può essere anche violenta, così come si esprime nel concetto di
« violenza simbolica » caro a Pierre Bourdieu (1991). Il ricorso a segni e simboli può
prendere una forma autenticamente competitiva, come è spesso il caso nella
comunicazione politica.
Oggi si ha la tendenza a ritenere che la politica faccia la sua apparizione nel
processo sociale più presto di quel che immaginasse Finer e che sia a monte della
polarizzazione che i problemi emergono e si consolidano per essere riconosciuti in
quanto suscettibili di dare luogo all’intervento del potere pubblico attraverso il
processo di politicizzazione. Come ha sostenuto filosofo Claude Lefort (1981), la
comunicazione serve per mascherare « l’indeterminatezza del politico », il fatto che il
politico può scaturire da qualsiasi luogo della società. Di qui l’importanza assunta,
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nello studio della comunicazione dalle tematiche dell’agenda politica, della
collocazione (framing) e della priorità (priming) che costituiscono i pregiudizi di
accessibilità dell’informazione per il pubblico in generale. In questo modo, la
democrazia è dunque il sistema nel quale l’emergere dei problemi è collettivo e nel
quale il loro trattamento passa attraverso la dialettica dell’accordo e del disaccordo,
della cooperazione e del conflitto. Affinché il sistema operi,è necessario che possa
appoggiarsi sulla partecipazione del maggior numero di cittadini. Cosicché, la
comunicazione politica democratica ha bisogno della partecipazione civica.
b) Democrazia diretta, democrazia rappresentativa e democrazia deliberativa
Sappiamo che, storicamente, questa partecipazione può prendere forme diverse:
democrazia diretta, rappresentativa oppure deliberativa. Nel primo caso, lo spazio
pubblico ateniese può servire da modello mostrando in che modo la connessione fra
governanti e governati assicuri la selezione e il trattamento dei problemi costitutivi di
un’unica agenda segnata dalla complessità delle domande e delle decisioni. E’
sufficiente che un cittadino introduca una tematica nell’agorà perché venga
immediatamente iscritta nell’agenda collettiva delle decisioni da prendere. Per
Habermas (1962), siamo in presenza di uno spazio pubblico allargato nel quale
l’utilizzazione del linguaggio dà regole centrali alla città come l’isegoria (ciascun
cittadino ha eguale diritto di prendere la parole) oppure la parrhesia (l’impegno da
parte del cittadino di parlare liberamente), oppure l’isopsephia (ciascuna parola ha lo
stesso peso). Questo spazio pubblico si è ristretto in modo considerevole nel
Medioevo al punto di diluirsi nello spettacolo politico della sua potenza che il signore
dà ai suoi sudditi e ai suoi vassalli. Bisogna attendere il secolo dell’Illuminismo per
assistere al ridispiegarsi dello spazio pubblico ai comandi dell’uso critico che i
cittadini possono fare del loro ragionamento applicato agli affari pubblici. Infine, lo
spazio pubblico contemporaneo si rifeudalizza con la riduzione della comunicazione
politica a uno spettacolo al quale i cittadini vengono condotti per « acclamare » e per
decidere periodicamente l’identità dei loro governanti prima di tornare ai loro affari
privati.
Con la democrazia rappresentativa è venuto il tempo della disgiunzione fra l’agenda
pubblica e l’agenda formale che costituisce l’agenda politica nello spazio pubblico.
L’agenda pubblica è l’insieme dei problemi dibattuti in una comunità politica di
qualsiasi dimensione dal livello locale fino a quello internazionale. L’agenda formale
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è costituita dai problemi che i decisori accettano di mettere all’ordine del giorno dei
problemi da decidere nell’arena del potere in questione: il governo, l’assemblea
locale, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Secondo Bernard Manin (1995), questa democrazia rappresentativa è passata
attraverso tre forme successive di trasformazione: la democrazia parlamentare, la
democrazia dei partiti, la democrazia del pubblico. Rimane, tuttavia, che il principio
del governo rappresentativo che si ritrova in ciascuna di quelle forme include quattro
elementi indispensabili: la periodicità delle elezioni che autorizza un reale controllo
dei governati sui governanti ; il margine di manovra di cui dispongono i governanti
per attuare i loro programmi. Questi due primi elementi mettono l’accento sul
contributo dei governanti al sistema. Di contro, gli altri due elementi insistono sulle
condizioni della partecipazione dei cittadini. Tanto per cominciare, la libertà di
opinione è indispensabile all’esercizio della critica da parte dei governati; in seguito,
la messa in opera nel dibattito di linee d’azione comune, delle politiche pubbliche
adottate dà a questo spazio pubblico il suo carattere del tutto democratico.
Le tre forme storiche successive della democrazia rappresentativa non si
distinguono che per l’accento che viene posto sull’attore centrale del sistema. Nel
quadro della democrazia parlamentare all’inizio del XXesimo secolo è il notabile che
intrattiene relazioni quasi clientelari con la sua circoscrizione. Nella democrazia dei
partiti della metà del XXesimo secolo, sono le organizzazioni partitiche che dominano
completamente lo spazio pubblico. Infine, nella democrazia del pubblico, la
partecipazione dei governati è diventata centrale grazie ai sondaggi e ad altre
manifestazioni più o meno spettacolari della comunicazione politica attraverso i mass
media. Questa rappresentazione, un po’ euforica, del potere dei governati nella
democrazia rappresentativa si scontra, tuttavia, con un certo numero di limiti, in
special modo nell’elaborazione dell’agenda politica, limiti ai quali la democrazia
deliberativa sarebbe maggiormente in grado di venire a capo.
In effetti, la democrazia deliberativa (sulla quale si veda il capitolo di Daniela
Giannetti), consisterebbe in un « ideale intuitivo di una associazione democratica
nella quale la giustificazione dei termini e delle condizioni dell’associazione procede
da una argomentazione e da un ragionamento pubblico fra cittadini eguali. In un
simile ambito, i cittadini condividono un impegno comune a fronte della soluzione
dei problemi di scelta collettiva attraverso un ragionamento pubblico e considerano le
loro istituzioni di base legittime nella misura in cui stabiliscono un quadro favorevole
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ad una deliberazione pubblica libera» secondo Joshua Cohen (1989).
Tornando a quello che costituisce l’ordine democratico abituale, Robert Dahl
s’interrogava nel 2005 su « quali sono le istituzioni politiche di cui ha bisogno la
democrazia su vasta scala? ». La sua risposta è chiara: “1) rappresentanti eletti ; 2)
elezioni libere, eque e frequenti; 3) libertà di espressione ; 4) pluralità di fonti di
informazione ; 5) autonomia di associazione ; 6) cittadinanza inclusiva. » Dunque,
Dahl aggiunge alcuni elementi al principio del governo rappresentativo di Manin, in
particolare, l’esistenza di fonti alternative di informazione, elemento questo che attira
la nostra attenzione sul potere di condizionamento del suffragio attraverso
l’informazione che viene dai mass media. Dahl aggiunge altresì l’autonomia
associativa che rimanda a quello che in sociologia politica viene definito il capitale
sociale dei cittadini. Sappiamo che, per Robert Putnam (2000), i mass media sono una
minaccia per il capitale sociale in ragione del « time crunch » (accelerazione e
stritolamento dei tempi) che implicano e della «sindrome del mondo cattivo» che
rappresentano. Non soltanto, divorano il tempo libero dei cittadini che non riescono
più ad associarsi e trascurano le loro relazioni sociali, ma, per di più, la televisione,
per esempio, continua a mettere in scena nella stessa fiction anche l’informazione,
sempre più divertente (soft news e infotainment), riguardo ad individui nei quali non
si può più avere fiducia. Ne consegue un declino della fiducia negli altri che genera
un’ ulteriore erosione del capitale sociale. Infine, Robert Dahl parla della cittadinanza
inclusiva, segno di una democratizzazione per estensione dei cittadini riconosciuti in
grado di partecipare al gioco democratico.
A questo proposito, bisogna sottolineare una curiosa inversione storica fra la densità
della comunicazione politica e l’intensità dell’impegno politico. La densità della
comunicazione era forte nel passato, poiché la democrazia era diretta e vi era
sovrapposizione fra governanti e governati. Poi, lo è stata fino a quando la
democrazia si basava su partiti e nella misura in cui le organizzazioni partitiche, che
monopolizzavano la comunicazione politica, diffondevano messaggi densi in termini
dottrinali e programmatici. Oggi, assistiamo a un movimento d’inclusione
democratica crescente che si paga al prezzo di una riduzione concomitante della
comunicazione politica che sostiene di modernizzarsi per raggiungere un pubblico
trasformato in audience di massa, indecisa ovvero indifferente alla politica. Questa
inversione fra dimensione della comunità dei cittadini e densità della comunicazione
politica risalta bene dall’approccio storico alle campagne elettorali proposto da Pippa
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Norris (2003) e da Jay Blumler (1995). La proliferazione degli strumenti di
comunicazione apre possibilità all’espressione dei profani della politica e lascia libero
un lessico volgarizzato con conseguenze dubbie per la democrazia minacciata dal
populismo incoraggiato dai mass media.
2. Cittadini democratici, mass media e informazione politica.
Nel bene e nel male, dunque, i mass media appaiono i canali cruciali e ineliminabili
della comunicazione politica delle democrazie contemporanee. Esaminiamo, pertanto,
più a fondo il loro ruolo: sono essi strumenti della democrazia nel senso che ne
contribuiscono al buon funzionamento, oppure sono elementi che esercitano un
impatto negativo? Gran parte della letteratura corrente sulla comunicazione politica si
è concentrata sull’aspetto dell’informazione, chiedendosi se i mass media sono
davvero in grado di trasmettere ai cittadini sufficiente informazione da permettere
loro di partecipare con adeguata consapevolezza alla vita democratica.
Questo marcato interesse per la questione dell’informazione all’interno della
sfera degli studi di comunicazione politica non è ovviamente casuale. Se, in passato,
la letteratura si era focalizzata sui messaggi provenienti dagli attori politici –in special
modo gli attori istituzionali- mirati a persuadere i cittadini, da una ventina d’anni a
questa parte, sembra che l’informazione proveniente dai mass media sia divenuta un
potente sostituto della propaganda partigiana. Questo spostamento del focus
sull’informazione mediatica a spese della comunicazione diretta degli attori è
probabilmente da mettere in relazione con il declino delle società democratiche
cosiddette avanzate, come hanno mostrato Susan Pharr e Robert Putnam (2000) in
Disaffected democracies. Effettivamente, è come se, ora, la perdita di legittimità da
parte di chi governa e di chi aspira a farlo avesse condotto ad un deterioramento dei
discorsi politici ai quali i cittadini non credono più. E questo vuoto che si è creato ha
lasciato spazio al discorso dei media e specialmente al discorso dei giornalisti oggi
investiti di una missione di interesse pubblico: raccontare la verità, il che,
sfortunatamente, si trasforma spesso nel raccontare ciò che è verosimile.
Ma torniamo dalla domanda da cui abbiamo preso le mosse: quanto i media
sono efficaci nell’informare compiutamente il cittadino? Le risposte sono molteplici
e, per certi versi, discordanti. Per lungo tempo e’ prevalsa, ed e’ ancora condivisa da
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molti, una visione pessimista delle capacità dei mass media di informare
compiutamente i cittadini. Questa interpretazione, che vede tra i suoi sostenitori
alcuni dei pionieri degli studi della comunicazione politica, quali Murray Edelman
(1988), Thomas Patterson (1980; 1993), non soltanto considera i mass media
inefficaci nel comunicare informazione utile al cittadino, ma addirittura li ritiene un
ostacolo al buon funzionamento delle democrazie contemporanee. Infatti, i media
avrebbero trasformato la politica in un grande spettacolo, per lo più televisivo, nel
quale fatti e personaggi sono presentati in virtù della loro capacità di fare audience
piuttosto che della loro sostanziale rilevanza per la vita democratica. Anzi, in questo
modo, proprio gli aspetti più importanti della vita collettiva risultano trascurati dai
media, mentre lo spazio della discussione politica viene occupato da questioni per lo
più superficiali e di importanza trascurabile, quali scandali o eventi di banale
importanza.
Secondo questa linea d’argomentazione, l’atteggiamento dei media ha
trasformato il cittadino democratico da soggetto attivo e partecipante a soggetto
passivo, bersagliato da un’informazione in gran parte superflua e incapace di reagire
in modo propositivo. Giovanni Sartori (1997), ad esempio, sostiene che l’homo videns
ha ormai sostituito il cittadino che pensa e ragiona; l’uomo contemporaneo crede a
quel che vede senza interrogarsi se il primato dell’immagine non contenga, nella sua
ingannevole pretesa di riprodurre fedelmente la realtà, anche un aspetto
manipolatorio. Non esiste più uno spazio di discussione politica che non sia in
qualche modo assoggettato alle regole imposte dai moderni mezzi di comunicazione,
che richiedono visibilità, spettacolarità, capacità di semplificare e ridurre qualsiasi
argomento ad uno slogan efficace. Il momento cruciale della vita di una democrazia,
vale a dire gli appuntamenti elettorali, sono trasformati in una successione di “eventi
mediatici”, secondo la nota definizione di Dayan e Katz (1994), i quali catalizzano
l’attenzione del pubblico senza entrare davvero nel merito di quali siano le alternative
in campo e senza , quindi, fornire l’informazione necessaria ad una scelta di voto
consapevole.
Un altro aspetto di cui non si può non rendere conto è che, ormai, quando si
parla di informazione politica, i mass media sembrano rivolgersi a veri e propri
consumatori più che a dei cittadini, (Underwood 2001; Lewis, Inthorn e Wahl-
Jorgensen 2005). Il cittadino medio risulta bersagliato dall’informazione politica in
modo non molto diverso dalla propaganda commerciale. Spesso sono gli stessi mezzi
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a essere utlizzati (spot televisivi, marketing telefonico, pubblicità postale e via e-mail)
e un linguaggio simile, fatto di slogan e di immagini atte a catturare l’attenzione.
Questo modo di concepire il rapporto tra l’informazione politica e i suoi
destinatari è certo divenuto dominante nella pratica della propaganda politica dove
consulenti, esperti di pubbliche relazioni, sondaggisti e uffici stampa parlano ormai il
linguaggio del marketing commerciale, opportunamente adattato al contesto politico.
Altrettanto evidente è che, anche nel mondo del giornalismo più tradizionale, esistono
pressioni a conformarsi a uno stile orientato al mercato in cui l’esigenza di informare i
cittadini sui fatti della politica convive con l’obiettivo di potenziare al massimo le
vendite. Si cerca di dare al pubblico quello che vuole, assumendo quindi un’impronta
più popolare (Underwood 1998; 2001). Infatti, spinti dalla concorrenza di canali
televisivi commerciali e giornali popolari, anche i telegiornali del servizio pubblico e i
giornali più blasonati danno spazio alla cronaca e al gossip. Il giornalismo, in
generale, si è ormai evoluto verso una commercializzazione, un’attenzione
all’audience, una ricerca del profitto sempre maggiori. Questo fenomeno solleva
interrogativi cruciali sul confine tra la “missione” del giornalismo politico, che è
appunto quella di riferire i fatti della politica e, fin dove possibile, controllare
l’operato dei governanti e della classe dirigente, e la necessità di offrire storie
interessanti, capaci di attrarre l’attenzione e di guadagnare qualche lettore e
telespettatore in più. Infatti, come sottolineano Graber, McQuail e Norris (1998, 5),
“le tecniche preposte ad attrarre larghe audience –cioè l’enfasi posta sugli aspetti
conflittuali, drammatici e sulle novità- possono diventare un ostacolo al serio lavoro
di riportare i fatti”.
In maniera crescente, anche gli studiosi della comunicazione politica accettano
la fondamentale identità cittadino-consumatore senza porsi il problema se questo
corrisponda ad un allontanamento e ad una degenerazione del modello ideale di
cittadino democratico. Tutta la letteratura sul marketing politico, ad esempio, si limita
a registrare i trend emergenti delle campagne elettorali dando per scontato che esiste
un’analogia tra il mercato di un qualunque bene commerciale e quello del voto
(Newman 1999). Tuttavia, come sottolineano Bennett e Entnam (2001, xxv), esiste
una linea di divisione importante tra coloro che non vedono alcun pericolo nella
riduzione della sfera pubblica a mero mercato e, anzi, considerano un aumento della
competizione nell’offerta di informazione politica come il mezzo per ottenere
consumatori e, quindi, cittadini più soddisfatti e coloro che, invece, temono che questa
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rappresentazione non possa che impoverire il significato della cittadinanza
democratica. Il dibattito è aperto e, senza dubbio, rimarrà al centro della riflessione
sulla comunicazione politica degli anni a venire.
Una delle conseguenze dell’affermarsi delle logiche di mercato anche nel
campo dell’informazione politica è, di certo, l’aumento vertiginoso della quantità
dell’offerta di informazione. Complice anche la diversificazione dei mass media, con
l’avvento della televisione a pagamento e di internet, i cittadini si trovano circondati
da una sovrabbondanza di informazione politica. Ironicamente, al pari della
iperproliferazione dell’informazione commerciale, la sovraesposizione mediatica a cui
il cittadino medio e’ esposto durante una tipica campagna elettorale moderna non
conduce necessariamente ad una scelta maggiormente consapevole ne’ “migliore”
rispetto ai contenuti (Lewis et al. 2005, 132). Il cittadino e’ travolto da
“un’indistinguibile mistura di messaggi provenienti dalle più diverse fonti. Pubblicità,
pubbliche relazioni, sondaggi, propaganda sono mescolate nei programmi di
informazione insieme al resoconto dei fatti e ai commenti editoriali in un modo che
può confondere o ingannare il consumatore di notizie distratto” (Graber, McQuail e
Norris 1998, 253). Alla fin fine, il principale problema del cittadino rispetto
all’informazione politica consiste nel discernere, vale a dire trovare un criterio di
selezione dell’informazione.
A partire dall’assunto che informarsi significa, in realtà, scegliere alcune
notizie e scartarne altre, alcuni studiosi delineano una visione alternativa a quella del
cittadino passivo e manipolato che abbiamo fin qui evocato. Infatti, per quanto
spettatore piuttosto che attore nel dibattito politico, il cittadino comunque “ragiona”
(Popkin 1991, Norris 2000) e riesce a selezionare “nel mucchio” l’informazione che
lo interessa. Non sarebbe, pertanto, vero che l’informazione politica fa male e provoca
il cosiddetto “malessere da video” (video malaise), inducendo i cittadini a distaccarsi
dalla politica. Al contrario, l’esposizione all’informazione politica attraverso i mass
media migliora in generale la conoscenza dei problemi e la consapevolezza dei
cittadini, e tende anche a renderli maggiormente partecipi della vita democratica di
quanto non siano coloro che non consumano informazione politica, ovvero che non
leggono i giornali e non guardano telegiornali e altri programmi di informazione
politica. Il “circolo virtuoso” che esiste tra informazione e partecipazione
“rappresenta un processo iterativo che esercita gradualmente un impatto positivo sulla
democrazia… Gli effetti devono essere intesi come diffusi, operanti cumulativamente
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attraverso l’esposizione ai media di un’intera vita piuttosto che risultare dall’impatto
di uno specifico messaggio” (Norris 2000).
La posizione di Norris e di altri studiosi della comunicazione politica, ad
esempio, Neuman, Just e Crigler (1992), Newton (1999) porta ad una sostanziale
rivalutazione dei mass media come strumenti della democrazia. Resta da definire se la
funzione educatrice e informativa venga esercitata sull’intera cittadinanza o, in modo
selettivo, su una minoranza qualificata della popolazione, quella che possiede a priori
un interesse e una motivazione tali da poter profittare dell’informazione politica.
Senza dubbio, la capacità dei cittadini di districarsi nella giungla dell’informazione
politica varia a seconda delle loro risorse e caratteristiche personali. Tuttavia, sarebbe
ugualmente sbagliato generalizzare a proposito dell’azione positiva o negativa dei
mass media prescindendo da un’analisi differenziata degli stessi mass media in quanto
portatori di contenuti e di stili d’informazione diversi. E’ vero, infatti, che l’offerta di
informazione politica attraverso i mass media risulta assai diversificata. Alcune fonti
di informazione sono, per così dire, maggiormente informative rispetto ad altre
(Newton 1999, Hooghe 2002). Chi segue regolarmente le cosiddette hard news,
ovvero i media tradizionalmente più autorevoli, come i grandi quotidiani nazionali, i
telegiornali, i programmi di approfondimento politico, si fa ovviamente un’idea molto
più completa e dettagliata della politica. Il discorso può cambiare rispetto alle soft
news, giornali popolari, telegiornali locali e vari programmi di intrattenimento, che
sono indubbiamente meno articolati ed esaurienti dal punto di vista dell’informazione
politica.
E’ evidente che le hard news sono in grado di trasmettere più informazione
politica, trattano argomenti più specifici, tipo questioni economiche e internazionali,
offrono maggiori occasioni di approfondimento. Tuttavia, non si deve sottovalutare il
ruolo delle soft news come canali di informazione politica. Esse sono, infatti, in grado
di raggiungere una audience alternativa rispetto a quelle delle hard news e, quindi, di
risultare comunque trasmettitori di informazione politica per alcune categorie di
cittadini.. Delli Carpini e Williams (2001) osservano che la distinzione tra
l’informazione vera e propria delle hard news e il cosiddetto infotainment, cioè il mix
di informazione e intrattenimento, è sempre più sottile e, non di rado, questioni
sollevate dai tabloids (giornali popolari) finiscono con l’occupare anche l’agenda dei
media in generale, soprattutto nel caso di scandali riguardanti la vita privata dei
politici. Inoltre, l’avvento dei cosiddetti nuovi media ha reso ulteriormente sfumata e
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incerta la distinzione tra informazione “tradizionale” e infotainment moltiplicando le
possibilità di accesso allo spazio pubblico di informazione anche per attori che sono
estranei all’establishment dei media (ibidem, 175).
Non vi è dubbio che l’utilizzo di internet ha reso molto più agevole e
immediato trovare informazione politica abbassando radicalmente i costi della ricerca
e dell’assunzione dell’informazione stessa. Oggi i cittadini interessati possono
arricchire la loro conoscenza politica servendosi di molteplici fonti. I lettori abituali di
un giornale, ad esempio, hanno oggi la possibilità di dare un’occhiata anche alle altre
principali testate on-line nonché a riviste specializzate e alla stampa estera. Chiunque
sia interessato ad una particolare problematica può trovare in rete un’infinità di links
utili: dai siti ufficiali del governo a quelli delle associazioni e dei gruppi di pressione,
dalle rassegne stampa dei giornali ai blog di attivisti e cittadini interessati. Tuttavia,
Internet non è solo un mezzo efficace per integrare l’informazione già assunta
attraverso i mass media tradizionali: è anche un luogo dove le notizie circolano in
tempi più rapidi e in modo più incontrollato.
La vicenda Clinton-Lewinsky è in questo senso esemplare. Infatti, fu un
giornalista di Internet il primo a diffondere la notizia che il pubblico ministero Ken
Starr stava investigando su una presunta relazione tra Clinton e una stagista della Casa
Bianca. Immediatamente, lo scandalo divenne priorità assoluta nell’agenda di tutti i
mass media, sia occupando le pagine dei giornali e la programmazione dei telegiornali
sia trasformandosi nel principale argomento di talkshow e di altri programmi di
intrattenimento (Zaller 1998, 2001; Delli Carpini e Williams 2001). Lo scandalo
Lewinsky ha, quindi, mostrato al mondo non solo l’enorme potenziale di Internet
come mezzo per sottoporre all’attenzione generale argomenti scottanti, ma anche la
sua capacità di attraversare in qualche modo la linea di demarcazione tra la
discussione politica tradizionalmente impostata dalle hard news e quella più popolare
delle soft news. Sul “Monicagate”, infatti, furono i media tradizionali a seguire, anche
nei toni del dibattito, quelli popolari e non viceversa.
La caratteristica principale delle soft news, nonché una delle ragioni del loro
successo presso ampie fasce della popolazione, non è solo quella di usare un
linguaggio più semplice e comprensibile di quello dei media tradizionali, ma anche di
sfruttare uno stile di comunicazione atto a generare reazioni di tipo emotivo nel
pubblico. Non a caso questa forma di comunicazione si basa sulla narrazione non di
fenomeni o eventi astratti, ma di storie individuali, di persone con le quali
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eventualmente il pubblico può identificarsi. Questo aspetto e’ stato spesso criticato
perché indurrebbe ad una generale superficializzazione e ad un’eccessiva
spettacolarizzazione della politica. Questo è innegabile. Tuttavia, d’altra parte, non si
può trascurare il potenziale di questo tipo di comunicazione nel portare determinate
questioni all’attenzione di ampie fasce di cittadini. A questo proposito, Zaller (2003,
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“sono fantastiche per attirare l’attenzione su questioni importanti”. Il dramma di un
bambino malato a causa dell’inquinamento ambientale, oppure la vicenda di una
persona che, perso il lavoro, si ritrova a dormire per strada parlano più forte e chiaro
di mille statistiche sui danni all’ambiente e i tassi di disoccupazione. Non è detto,
dunque, che l’informazione necessaria al cittadino per comprendere i fatti della
politica debba sempre e solo provenire dalle fonti di informazione di serie A, ovvero
dalle hard news. Al contrario, e’ ormai il caso che le riflessioni sulla comunicazione
politica nelle moderne democrazie tengano in considerazione anche il ruolo delle fonti
meno ortodosse, quali tabloids, talkshow etc, nel fornire informazione utile e a
promuovere forme di partecipazione.
Nel frattempo, il marketing elettorale ha scoperto e sta sfruttando
intensamente le potenzialità dell’infotainment in termini di propaganda politica. Non a
caso, nelle recenti campagne elettorali, vediamo sempre più spesso candidati recarsi
ospiti nelle trasmissioni più svariate, che spesso non hanno nulla a che fare con
l’approfondimento politico. In Usa, e’ ormai tradizione che i candidati alla presidenza
o altre personaggi politici di rilievo si facciano intervistare in talkshow di
intrattenimento come l’Oprah Winfrey Show o in trasmissioni di satira come il David
Letterman Show. In Italia, abbiamo visto uno dei leader della coalizione di centro-
sinistra Piero Fassino partecipare al talk show C’è posta per te di Maria De Filippi e
numerosi altri politici recarsi al programma Il senso della vita di Paolo Bonolis a
parlare della loro famiglia e di altri aspetti della loro vita privata. Una delle più
riuscite partecipazioni televisive del primo ministro Silvio Berlusconi è stata la sua
inaspettata apparizione alla famosa trasmissione italiana di calcio Il processo del
lunedì condotta da Aldo Biscardi.
La strategia che guida queste iniziative è, ovviamente, quella di occupare spazi
non squisitamente politici allo scopo di tentare di stabilire un contatto con fasce di
elettori che non sono altrimenti raggiunti dai canali tradizionali di informazione.
Poiché è risaputo che i livelli di interesse per la politica sono piuttosto bassi in tutte le
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democrazie occidentali, in campagna elettorale i candidati cercano ogni via possibile
per imporsi all’attenzione degli elettori. Oltre tutto, molte di queste trasmissioni
hanno audience definite in modo ben preciso. Questo consente di tagliare su misura
(targetization) il proprio messaggio in modo mirato: se un politico e’ ospite di MTV,
un canale di musica pop seguito soprattutto da giovani, non parlerà certo di pensioni,
ma più probabilmente di politiche a favore dell’occupazione; cercherà di usare un
linguaggio immediato e informale; farà magari cose un po’ fuori dagli schemi come
suonare il sassofono, come fece Bill Clinton. Ad un talkshow pomeridiano seguito da
casalinghe e/o pensionate, invece, lo stile sarà certo più rassicurante e tradizionalista e
gli argomenti trattati riguarderanno sicuramente la famiglia, l’istruzione, la sanità etc.
Questa occupazione da parte della politica di spazi che appartengono alla
cultura popolare ha uno scopo, quello di guadagnare voti. Vale la pena, tuttavia, di
chiedersi se la democrazia può trarre qualche vantaggio da questa evoluzione del
sistema dei media. O se, invece, si tratta di un fenomeno che deve destare solo
preoccupazione. Secondo alcuni, avere la possibilità di conoscere meglio a livello
personale coloro che ci governano può essere utile. Inoltre, l’infotainment offre a
quelle fasce della popolazione che non seguono per nulla la politica sui canali
tradizionale almeno un’occasione di riflettere sui temi politici. Secondo altri, invece,
questa assunzione da parte dei candidati di ruoli che non rientrano nella sfera politica
propriamente detta è solo un passo ulteriore in un processo di degenerazione della
politica in spettacolo, un mezzo per sollecitare la morbosità del pubblico rispetto alla
vita privata dei politici allo stesso modo di quanto avviene con le star del cinema o
della musica.
Comunque la si pensi, non si può non tenere a mente che uno degli elementi
basilari della leadership democratica risiede nell’autorevolezza insita nella carica. Si
suppone, pertanto, che coloro che assumono ruoli istituzionali debbano mantenere una
certo distacco tra la loro attività ufficiale e la loro vita privata. Un’eccessiva
familiarità tra il leader e i suoi concittadini, in altri termini, può pagare nel breve
periodo in termini di popolarità, ma rischia di indebolire l’autorevolezza della carica
nel tempo. Il problema e’ particolarmente sentito negli Stati Uniti dove la presidenza
detiene, fin dai suoi esordi, una funzione quasi sacerdotale di custodia dei valori della
Repubblica e dove, più che altrove, il presidente si trova oggi esposto, da parte dei
mass media, a un maniacale scrutinio dei più intimi aspetti della sua vita privata
(Stuckey 1991). Non si tratta, però, di una questione estranea alle altre democrazie
13
occidentali. In Gran Bretagna, numerose carriere politiche si sono infrante a causa di
pettegolezzi di natura sessuale; nella Francia dove il generale de Gaulle protestò
vivacemente perché, complice la cameriera, qualcuno si era permesso di profanare
l’immagine del presidente diffondendo innocenti fotografie della sua camera da letto
e dove il presidente Mitterrand riuscì per anni a tenere nascosta l’esistenza di una
figlia segreta, oggi la stampa non si pone problemi a rendere pubblici tutti gli alti e
bassi del matrimonio del leader gollista Nicolas Sarkozy. Persino, in Italia dove,
tradizionalmente, le famiglie degli uomini politici sono sempre rimaste nell’ombra e
le preferenze sessuali dei politici sono sempre state un tabù assoluto, di recente
pettegolezzi e insinuazioni sono diventati all’ordine del giorno.
Per arrivare al punto, trattare i politici come attori famosi o rockstar sembra
essere il nuovo trend emergente nei mass media. Né i politici, benché ovviamente
disturbati quando vengono presi di mira per questioni spiacevoli, tentano veramente di
sottrarsi a questa personalizzazione. Spinti dai loro esperti di marketing, si espongono
sempre di più, scrivendo autobiografie, rilasciando interviste sulle loro vicende
personali, partecipando a programmi il cui principale obiettivo sembra quello di
mostrare il loro lato “umano”. Resta da chiedersi se questo sia quello che i cittadini
realmente vogliono (o che la democrazia realmente richiede) oppure se tutto questo
non sia piuttosto il frutto di un gigantesco equivoco montato da indagini di marketing
sostanzialmente ingannevoli e da pregiudizi infondati circa le preferenze del pubblico.
Infatti, alcune ricerche offrono spunti per una riflessione non banale (Underwood
1998, 180 e ss) sul fatto che, se i cittadini apprezzano di ricevere le notizie in modo
“facilmente digeribile”, non per questo non vogliono sapere nulla dei problemi
sociali e globali o degli avvenimenti politici. In generale, i cittadini non gradiscono
accumulare enciclopedie di informazioni presentate in modo noioso e complicato, ma
vogliono essere messi al correnti di fatti salienti secondo il modello di cittadino
“vigile” proposto da Michael Schudson (1998). Secondo questo punto di vista, quello
che occorre al buon cittadino sono dei campanelli d’allarme (Zaller 2003) che i mass
media dovrebbero suonare per avvertire i cittadini di ogni situazione anomala, dagli
abusi di potere alle posizioni prese dai politici in contrasto con il loro programma o
con quello del loro partito (Hutchings 2003).
Se tutto questo ha un fondamento, quindi, esiste una responsabilità che i mass
media non possono ignorare nello spingersi oltre sulla strada di un’eccessiva
personalizzazione della politica e di una totale commercializzazione
14
dell’informazione, anche se probabilmente, come suggeriscono Graber, Mc Quail e
Norris (1998, 256), il problema andrebbe affrontato non solo dagli stessi giornalisti,
ma congiuntamente ai cittadini attivi e consapevoli e a quei politici che prendono sul
serio il loro dovere di rappresentare i propri elettori. In altre parole, non spetta solo ai
mass media decidere se possono e vogliono essere strumenti della democrazia, ma
soprattutto i cittadini devono cercare di partecipare al processo comunicativo anziché
porsi solo come ricettori passivi dello spettacolo della politica.
3. Dalla conversazione alla partecipazione politica
Nel precedente paragrafo ci siamo chiesti se i cittadini hanno la concreta possibilità di
essere informati dai media in modo da poter partecipare alla vita delle moderne
democrazie. In chiusura, abbiamo osservato che i mass media possono essere
strumenti della democrazia soltanto se i cittadini si trasformano da spettatori/
consumatori in attori del processo comunicativo. Pertanto, dobbiamo ora interrogarci
se i cittadini sono davvero motivati a prendere parte al processo democratico e quali
sono i canali di espressione delle opinioni e di partecipazione attraverso cui questo
interesse prende forma.
Incominciamo dalla prima e più semplice forma attraverso cui il cittadino medio
partecipa: la discussione politica. Infatti, come norma generale espressa per la prima
volta da Katz e Lazarsfeld negli anni Cinquanta, le opinioni politiche dei cittadini non
sono plasmate interamente dall’influenza diretta dei mass media , ma si formano
anche attraverso forme di comunicazione interpersonale. In parole povere, noi
parliamo con altri di quanto leggiamo sui giornali, vediamo alla televisione,
scopriamo navigando su Internet. Talvolta svolgiamo queste attività, soprattutto
guardare la TV, insieme ad altre persone: questo rende le due operazioni –ascoltare e
commentare- praticamente simultanee. Pertanto, suggerisce che le due forme di
comunicazione, quella mediatica e quella interpersonale non siano indipendenti l’una
dall’altra, ma piuttosto interagiscano in qualche modo fra loro (Lenart 1994, 40-1).
L’idea della discussione politica come “filtro” dell’influenza dei mass media
e’ certamente tra le più condivise. Avanzata inizialmente da Katz e Lazarsfeld (1955),
consiste nella semplice, ma intelligente e originale ipotesi secondo la quale il modo
con cui un cittadino discute di politica e, soprattutto, con chi ne discute determina il
15
suo modo di porsi di fronte al messaggio mediatico. In particolare, Katz e Lazarsfeld
riscontrarono l’esistenza nelle varie comunità di persone definibili come leader
d’opinione che agivano come veri e propri interpreti dell’informazione politica e ne
influenzavano in modo rilevante la ricezione. L’ipotesi della discussione
interpersonale come “filtro” e’ stata successivamente sottoposta ad altre, più recenti,
analisi empiriche, ricevendo sostanziali conferme. Huckfeld e Sprague (1995; 2001)
hanno studiato il ruolo dei network interpersonali, in particolare quelli composti da
parenti e amici intimi, nel plasmare le opinioni politiche dei cittadini.
Attraverso una ricerca condotta in quattro paesi, USA, Gran Bretagna, Spagna
e Germania orientale, Schmitt-Beck (2003) è giunto alla conclusione che la
discussione politica ha la capacità di moderare o accentuare l’influenza dei mass
media a seconda se il messaggio proveniente dai media è più o meno in accordo con
l’orientamento politico del gruppo di discussione in cui il cittadino è coinvolto. Più
precisamente, se un cittadino vive e discute di politica con persone che la pensano
tutte nello stesso modo, l’influenza dei media apparirà sicuramente filtrata dalla
discussione interpersonale che enfatizzerà i messaggi favorevoli, ma neutralizzerà
oppure bloccherà le voci discordanti . Se, invece, vive e discute di politica all’interno
di un network eterogeneo o neutro, allora i messaggi dei media gli arriveranno senza
essere rafforzati, in senso positivo o negativo, dall’ambiente circostante.
Si deve sottolineare che, abitualmente, le persone dimostrano una tendenza a
parlare di politica con altre persone che condividono le loro idee, quindi a muoversi in
network omogenei: si tratta della cosiddetta ipotesi dell’omofilia, secondo cui, in altri
termini, il simile si accompagna col simile. Tuttavia, mentre la ricerca di Katz e
Lazarsfeld e, in generale, gli studi della scuola della Columbia (Berelson, Lazarsfeld e
McPhee 1954) avevano registrato la prevalenza di un alto grado di omogeneità
nell’ambiente di discussione politica, Schmitt-Beck (2003, 245) sembra rilevare una
maggiore indipendenza dell’orientamento del network di discussione dalle
predisposizioni individuali. Altrettanto, analizzando le elezioni del 1992, Beck,
Dalton, Greene e Huckfeldt (2002, 61) hanno riscontrato che almeno un 30 per cento
di americani non si trovava in un network uniformemente schierato per una parte o
per l’altra. Questo indica che esiste lo spazio affinché i messaggi provenienti dai mass
media possano essere oggetto di discussione, ma non necessariamente enfatizzati
oppure contrastati dall’ambiente circostante secondo un pattern prevedibile. A
sostegno dell’esistenza di network eterogenei di discussione politica, Huckfeld,
16
Johnson e Sprague (2004) presentano un’ampia evidenza empirica per la quale la
diversità delle opinioni politiche all’interno dei network non soltanto è piuttosto
comune, ma è anche, in realtà, funzionale al fatto che in una democrazia i cittadini
sono (e soprattutto dovrebbero essere) coinvolti in un minimo ammontare di scambi
d’opinione e di discussione.
La conversazione politica viene praticata, quindi, come ci hanno confermato
gli studi sopra citati, e ha un ruolo nel formare le opinioni dei cittadini. Ma, quali sono
le modalità del discorso informale e quali sono le circostanze che incentivano i
cittadini a parlare di politica? Su questo punto, la ricerca è meno sviluppata, ma
nondimeno ha offerto risultati interessanti. In Crosstalk, Just et al. (1996) mostrano
che i cittadini reagiscono ai messaggi dei media in modo positivo nel senso che, se
l’offerta di informazione aumenta, anche la discussione politica è più intensa. I media,
quindi, sembrano offrire la materia su cui discutere: dopodiché, però, i cittadini
tendono a rielaborare i messaggi dei media mettendoli in relazione con la loro
esperienza personale. Analogamente Gamson (1992) riscontra che la gente interpreta
l’informazione che viene dai mass media attraverso le proprie esperienze e quelle di
persone che conoscono.
Walsh (2004), usando una metodologia inusuale per la letteratura sulla
comunicazione politica, l’osservazione diretta e prolungata nel tempo di un gruppo di
cittadini, fa luce su un fenomeno fondamentale per la vita di una comunità
democratica, cioè la discussione che ha luogo all’interno di un gruppo di persone che
ha rapporti di familiarità e regolarità nelle frequentazioni1. Tra i risultati emersi vi è,
innanzitutto, che parlare di politica con un gruppo di persone con le quali sussistono
confidenza e familiarità è evidentemente gratificante per i membri del gruppo stesso.
La discussione politica non appare come lo scopo principale di questo tipo di incontri
informali, che non hanno alcun esplicito obiettivo di partecipazione civica.
Nondimeno, i discorsi attinenti alla politica sono frequenti e coinvolgono i
componenti del gruppo a riflettere su questi argomenti e a farsi un’idea che si forma
proprio attraverso l’interazione con gli altri membri.
La conversazione informale non finalizzata allo scopo di prendere decisioni
ne’ a forme di propaganda e proselitismo appare, quindi, il ponte tra quella che è la
riflessione personale del cittadino e un suo maggiore impegno nella sfera pubblica. 1 Walsh (2004) ha scelto di seguire gli incontri di un gruppo di uomini bianchi relativamente anziani e di classe media che si incontravano regolarmente in un caffè e chiacchieravano di vari argomenti, compreso la politica.
17
Infatti,“attraverso il modo con cui le persone scelgono di interagire o meno con altri,
essi creano e riproducono idee circa chi fa parte della comunità, chi ritengono
responsabile per essa, quali politiche vogliono vedere attuate e il modo in cui
desiderano passare il proprio tempo. La cittadinanza è in parte fondata sull’individuo
e in parte sulla collettività, ma una dimensione aggiuntiva della cittadinanza deriva
proprio dall’interazione interpersonale che collega questi due elementi” (Welsh 2004,
15).
Non a caso il fatto di parlare spesso di politica in privato, ovvero con la
famiglia o con amici, sembra essere la precondizione per un coinvolgimento non solo
in discussioni pubbliche, vale a dire in contesti dove i cittadini esprimono le proprie
idee, ad esempio i public meetings, ma anche in riunioni sociali che coinvolgono
anche semplici conoscenze o estranei (Conover, Searing, Crewe 2002, 39). Infatti,
coloro che riferiscono di parlare spesso di politica in pubblico sono anche quelli
maggiormente coinvolti in intense discussioni in privato. Non per tutti, tuttavia, la
discussione interpersonale sembra essere condizione sufficiente ad attraversare il
ponte e lasciarsi coinvolgere da forme di partecipazione più attiva. I dati di Conover,
Searing e Crewe (2002), raccolti per USA e Gran Bretagna, ci dicono che oltre il 70%
per cento degli americani e l’87% percento degli inglesi non parlano mai situazioni
percepite come pubbliche e, solo di rado, si lasciano andare a parlare di politica con
estranei.
Questo è, naturalmente, uno stato di cose che, in generale, non depone a
favore del buono stato della democrazia. Le ragioni per cui i cittadini sono restii ad
esprimersi in pubblico dovrebbero essere più intensamente investigate dagli studiosi
della comunicazione politica. Sicuramente, come suggeriscono Conover, Searing e
Crewe (2002, 60), esiste un retaggio culturale per cui le opinioni politiche sono un
fatto privato e la gente non vuole manifestarle. Esiste certo il timore che la
discussione politica scateni conflitti e tensioni tra gli interlocutori. Il clima
d’opinione, talvolta, trasforma alcune preferenze politiche in posizioni impopolari e,
quindi, costringe i cittadini coinvolti a chiudersi nel silenzio per non rischiare
l’isolamento sociale (Noelle-Neumann 1984). Più semplicemente, non possiamo
dimenticare le alte percentuali di cittadini non interessati alla politica che da decenni
vengono registrate in tutte le survey nazionali. Indubbiamente, il disinteresse
rappresenta una barriera alla discussione sia privata sia pubblica.
18
A fronte di tutto ciò, vi è, tuttavia, un dato che emerge dalle ricerche
qualitative che non può essere ignorato: i cittadini coinvolti in reti associative nelle
quali si discute di politica traggono soddisfazione dal partecipare alla discussione
(Welsh 2004); le persone dichiarano di cercare nelle discussione politica informazioni
utili a capire meglio la politica e chi ha delle idee in merito prova piacere ad
esprimerle (Conover, Searing e Crewe 2002); il modo in cui le persone parlano di
politica lascia intravedere la presenza di una coscienza civica che, adeguatamente
stimolata, potrebbe essere riattivata (Gamson 1992); i cittadini coinvolti nei sondaggi
deliberativi finora condotti si sono detti molto soddisfatti dell’esperienza che li ha
visti impegnati un intero weekend a discutere di politica (Fishkin 1995).
Opportunamente stimolato, quindi, il cittadino medio non sembra ostile a farsi
coinvolgere nella discussione politica ed, eventualmente, anche in forme di
deliberazione pubblica, ovvero in occasioni di pubblica discussione finalizzate a
prendere delle decisioni riguardanti la collettività. Ne segue una domanda: forse gli
alti tassi di disinteresse per la politica derivano da una mancanza di stimoli? Non
esiste, per caso, una potenzialità, che non è stata forse ancora sfruttata appieno, di
incentivare la comunicazione politica e, quindi, di migliorare la democrazia? E se è
così, quale dovrebbe essere il compito dei mass media?
Al giorno d’oggi, sembrano esserci parecchi ostacoli affinché i cittadini
possano essere indotti a interessarsi e a parlare di politica. La crisi di organizzazioni
come i partiti di massa e i sindacati ha sicuramente cambiato le abitudini
partecipative: oggi sempre meno cittadini sono iscritti ai partiti, si recano in sezione,
lavorano per il partito facendo così parte di una comunità che condivide in primo
luogo un linguaggio e, quindi, una forma di comunicazione (Dalton e Wattemberg
2001). Lo stesso vale per altre forme di associazionismo. Alcuni anni fa, in un libro
che ha destato una vivace discussione, Robert Putnam (2000) ha denunciato il calo
della partecipazione ad ogni attività di tipo associativo negli Stati Uniti, paese dove
tradizionalmente il ruolo delle associazioni politiche e sociali e’ sempre stato
maggiore che, ad esempio, in Europa. Le analisi comparate di Dalton (2002; 2004),
Norris (1999) mostrano un calo di fiducia dei cittadini nelle istituzioni del governo,
del parlamento e, in generale, dei politici. A questo calo corrisponde un declino delle
forme più tradizionali di partecipazione come il voto e, appunto, il sostegno diretto
alle organizzazioni partitiche.
19
Se i canali più convenzionali della partecipazione politica hanno perso la loro
centralità, altre forme di partecipazione appaiono, invece, più vive e praticate di
qualche tempo fa (Verba, Schlozman e Brady 1995; Inglehart 1997; Dalton 2002).
Secondo Dalton (2004, 177), forme di partecipazione quali firmare petizioni, aderire a
boicottaggi, prendere parte a manifestazioni o a occupazioni di edifici rappresentano
oggi un modo di partecipare attivamente alla vita democratica e non più come il
manifestarsi di un’opposizione al sistema. Anzi, risulta che chi dichiara di credere
fortemente ai valori democratici è anche chi maggiormente incline a partecipare a
forme di protesta attiva, come manifestare e aderire a boicottaggi politici. Come viene
argomentato da Norris (1999), in realtà, i cittadini contemporanei non sono dei
rivoluzionari né degli antidemocratici, nel senso di voler rimpiazzare un sistema con
un altro, ma sono “critici” delle forme e dei modi in cui la democrazia concretamente
si manifesta e vorrebbero, quindi, trovare dei modelli alternativi di partecipazione
democratica. Da qui non solo l’intensificarsi delle attività di protesta, ma anche l’alto
grado di approvazione che risulta dalle survey nei confronti di ogni forma di
democrazia diretta o deliberativa (Dalton 2004).
Ci deve, a questo punto, chiedere in che modo i mezzi di comunicazione
possono contribuire al manifestarsi di queste nuove modalità di partecipazione
politica. Certamente, le forme di protesta più diffuse, soprattutto manifestazioni,
cortei, picchetti e occupazioni, sollecitano l’attenzione dei media in quanto
spettacolari. Di conseguenza, si intravede un’influenza dei mass media nel favorire e
incentivare, più o meno involontariamente, queste modalità di espressione. La
manifestazione come modo di azione collettiva segue la stessa logica del controllo
dell’informazione da parte dei politici e dei governi: per esistere bisogna essere
visibili e, quindi, conquistarsi uno spazio mediatico (Gerstlé 2004, 235 e ss.). Chi
protesta deve, pertanto, ottenere una copertura dei mass media che non solo renda noti
gli eventi e gli obiettivi dei promotori, ma che possa anche suscitare simpatie e
consenso. I mass media , quindi, sono cruciali sia per diffondere la protesta e attirare
altri potenziali manifestanti sia per esercitare una pressione sull’autorità pubblica alla
quale la protesta si rivolge.
I nuovi media, particolarmente Internet, sono visti come uno spazio di
discussione politica che può integrare i canali più tradizionali della comunicazione
politica e favorire , in particolare, forme di partecipazione non convenzionali. Il
capitolo di Lusoli su Internet in questo volume ci offre un’ampia rassegna su questo
20
tema. Qui vorremmo suggerire soltanto alcune riflessioni. Certamente, Internet
incentiva forme di partecipazione non convenzionali in quanto agevola i contatti
diretti tra persone che sostengono le medesime cause e permette ad ogni tipo di
associazione o movimento di creare “forum virtuali” dove diffondere informazioni,
chiamare a raccolta i simpatizzanti, organizzare iniziative a livello locale, nazionale, e
addirittura globale, come e’ avvenuto, ad esempio, con il Global Forum. La rete è
sicuramente un luogo dove, coperti dall’anonimato e, quindi, relativamente al sicuro
anche in regimi non democratici, i cittadini possono esprimersi liberamente, attraverso
blog e forum di discussione2. Internet, inoltre, è uno strumento potenzialmente
cruciale per l’applicazione di forme di democrazia deliberativa, in quanto crea uno
spazio pubblico dove i cittadini possono partecipare ai processi di decisione e alla
definizione dell’agenda politica.
Questa visione ideale dell’impatto delle nuove tecnologie sul funzionamento
delle democrazie contemporanee si scontra, tuttavia, con almeno un argomento molto
rilevante: il problema della frammentazione e della polarizzazione delle opinioni
politiche. Bisogna, infatti, prendere atto che le società contemporanee sono diventate
molto più complesse e frammentate in una miriade di interessi e di identità diverse. La
vera sfida delle democrazie contemporanee appare, quindi, quella di riuscire a
coordinare queste diverse voci al fine di arrivare a scelte collettive che siano
espressione di un interesse generale (Dalton, Cain e Scarrow 2003, 251). Internet dà
spazio alle differenze proprio in quanto un singolo cittadino interessato a una certa
questione riesce a trovare in Internet tutta l’informazione che desidera e il sostegno di
gruppi e singoli individui che condividono le sue stesse opinioni. Spesso, tuttavia,
questo reciproco riconoscimento tra persone che stanno dalla stessa parte si tramuta in
un’estremizzazione delle posizioni politiche. Cass Sunstein (2003) ha suscitato molta
discussione sostenendo che Internet è il mezzo ideale per accrescere le esperienze
comuni con altre persone che la pensano come noi, ma, per come è strutturato, tende a
diminuire le probabilità di imbattersi in informazioni contrastanti.
In generale, il moderno sistema dei media, passando da un’impostazione
generalista ad una sempre più specializzata –pensiamo, ad esempio, ai canali
televisivi tematici che erodono sempre più le audience dei programmi come i
telegiornali nazionali - finisce per ostacolare, o quanto meno per non favorire,
2 Un caso particolarmente interessante è quello iraniano , dove un numero molto alto di giovani, soprattutto donne, usa i blogger, cioè veri e propri diari on-line (Rawnsley 2005, 179).
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l’acquisizione di esperienze comuni con tutti gli altri membri della collettività
politica. In questo modo, il rischio più concreto è quello di avere cittadini che
conoscono bene i propri interessi e quelli del proprio gruppo di appartenenza, ma non
hanno idea di quelli che sono i problemi della collettività né posseggono la necessaria
flessibilità per accettare soluzioni di compromesso tra le diverse esigenze. Come
osserva Rawnsley (2005, 185), in questo modo “viene completamente a cadere
l’ideale liberale della funzione educativa di un sistema di comunicazione basato
sull’interazione tra idee, informazioni e fonti alternative. Non possiamo più dire che
quanto più si partecipa tanto maggiore è l’accumulo di conoscenza sui temi politici.
Piuttosto, il sistema di filtro che permette ai cittadini di scegliere l’informazione che
vogliono ricevere e da quali fonti vogliono riceverla, significa che essi non si trovano
più nella situazione di confrontarsi con idee opposte, limitando in questo modo la
nostra conoscenza e comprensione della politica”.
Il problema del controllo della rete e della sua eventuale manipolazione deve,
inoltre, mettere in guardia rispetto ad un’eccessiva enfatizzazione dei nuovi media
come soluzione alle difficoltà in cui sembrano versare la teoria e la pratica della
moderna cittadinanza democratica. Shapiro (1999) sottolinea che Internet è dominata
da grandi interessi economici e che spesso l’informazione che raggiunge i cittadini
non è veramente scelta, ma personalizzata a seconda delle loro preferenze e dei loro
consumi. In un recente studio sulle campagne elettorali, Howard (2006) delinea un
quadro che non può non sollevare notevoli preoccupazioni: infatti, le nuove
tecnologie risultano oggi così avanzate che è possibile personalizzare al massimo la
propaganda politica. Attraverso banche dati sempre più raffinate, che incrociano
informazioni che derivano da acquisti fatti con le carte di credito, abbonamenti a
riviste, dati di sondaggi e altre svariate fonti, i responsabili di una campagna elettorale
sono in grado non solo di bersagliare i cittadini di messaggi telefonici e di e-mail su
argomenti appropriatamente scelti fra quelli che dovrebbero interessare, ma possono
addirittura fare sì che persone con preferenze e profili differenti, collegandosi allo
stesso sito di propaganda, accedano in pratica a informazioni diverse, tagliate su
misura a seconda delle loro predisposizioni. Il cittadino spesso non si rende neppure
conto che l’informazione alla quale ha accesso non è la stessa alla quale accedono
anche gli altri cittadini. In questo modo, l’informazione e’ distribuita tra l’elettorato,
ma non realmente condivisa dai membri della collettività.
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La concezione di cittadinanza che emerge da un siffatto contesto e’
necessariamente “privatizzata” nel senso che “gli ambiti di deliberazione e di
decisione dei cittadini coinvolti sono individualizzati e intimi”…L’incentivo a
partecipare non deriva dal senso del dovere civico, ma dal voler porre rimedio a
qualche problema privato. La sfera politica dell’ipermedia è disegnata appositamente
per spostare la partecipazione democratica dalla sfera pubblica delle manifestazioni
politiche, delle assemblee pubbliche, dei commenti dei giornali e della discussione nei
caffè alla sfera privata degli schermi dei computer, delle tastiere e dell’offerta di
un’informazione altamente personalizzata” (Howard 2006, 189). In altri termini, il
cittadino potrà anche venire indotto da varie sollecitazioni a interessarsi ai temi che lo
toccano da vicino, a firmare petizioni, a dare anche un contributo in denaro, ma la sua
percezione generale della vita politica rimarrà parziale, condizionata da esperienze
mediatiche personalizzate e, soprattutto, privata da ogni incontro casuale con
l’informazione imprevista e non filtrata. Questo fenomeno, ovviamente, ripropone le
perplessità sopra avanzate: può un sistema democratico funzionare adeguatamente se i
cittadini ignorano e, di conseguenza, non si curano dei problemi della collettività e si
preoccupano soltanto dei propri interessi? L’evoluzione delle nuove tecnologie e’
tanto rapida che è impossibile fare profezie, ma, certamente, la riflessione sul rapporto
tra comunicazione politica e democrazia non potrà fare a meno di affrontare questo
dilemma nei prossimi anni.
4. Per concludere: Quattro concezioni di che cosa è comunicazione
La nostra analisi dovrebbe aver mostrato che ci sono diverse ragioni per ritenere che
potenziare la comunicazione politica può contribuire a rendere migliore la
democrazia, ma anche che l’evoluzione del sistema mediatico contemporaneo
contiene in sé elementi che possono anche peggiorare la democrazia. Poiché le
modalità della comunicazione politica discendono da come la comunicazione stessa
viene definita e interpretata, il modo più appropriato di concludere questo saggio ci
sembra quello di interrogarci su quale concezione di comunicazione politica si presti
meglio a generare le pratiche comunicative più adatte a favorire il buon
funzionamento dei regimi democratici.
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E’ logico pensare che molte delle tendenze che abbiamo fin qui identificato come
potenzialmente dannose per gli ideali e le pratiche democratiche siano collegate a una
visione molto tecnologica che insiste sugli strumenti e sul loro sviluppo spettacolare a
partire dal XXesimo secolo. Il determinismo tecnologico di Marshall MacLuhan si è
rapidamente trasformato come modalità di ricorso per migliorare la democrazia e la
comunicazione politica si è rapidamente trovata ridotta al rango di una delle
conseguenze dell’innovazione delle tecniche. Ma, in realtà, nulla è più dubbio di
questa riduzione della comunicazione politica alle condizioni tecnologiche della sua
produzione e ciò nonostante la tecnologia abbia modificato profondamente le regole
del gioco. A partire da qui, è possibile distinguere quattro concezioni importanti della
comunicazione politica.
La concezione strumentale riposa sull’insieme delle tecniche e dei metodi di cui
dispongono gli attori politici, più spesso, i governanti, per sedurre, controllare e
manipolare l’opinione pubblica. Questa rappresentazione mutila tanto la
comunicazione quanto la politica poiché disgiunge quello che è consustanziale.
Proietta una concezione tecnica, addirittura tecnocratica della prima su una
concezione manipolativa della seconda. Si tratterà allora essenzialmente dell’abilità di
gestire una immagine in quello che è presentato come la « nuova comunicazione
politica » subordinata alla pubblicità, ai sondaggi e alla televisione. Se non c’è dubbio
che simili forme di comunicazione sono effettive, la loro pretesa di esaurire la
questione deve essere respinta.
La concezione ecumenica è rappresentata bene dalla definizione di Pippa
Norris (2000). La comunicazione politica è un « processo interattivo che concerne la
trasmissione dell’informazione fra gli attori politici, i mezzi di informazione e il
pubblico ». Ci si avvicina così alla rappresentanza sistemica nella quale dominano il
funzionalismo e le idee di circolazione dell’informazione in un contesto nel quale non
vengono affatto presi in considerazione gli ostacoli alla comunicazione né l’esistenza
di rapporti di forza fra i partecipanti al processo. Questa definizione è simile a quella
che ha dato J-M.Cotteret (1973) come « scambio di informazioni fra governanti e
governati attraverso canali di trasmissione strutturati o informali ». La nozione di
scambio schiaccia i rapporti di disuguaglianza che possono svilupparsi nella
comunicazione politica. In altre parole, in questa concezione ecumenica tutto avviene
come se l’eguaglianza presiedesse allo svolgimento di scambi comunicativi fra attori i
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cui status sono indifferenziati sia che si tratti del Presidente della repubblica che si
rivolge alla nazione sia che si tratti di operai che manifestano contro la chiusura della
loro fabbrica. D’altronde, è dubbio che i protagonisti si scambino unicamente
informazione. Sappiamo che attraverso questi scambi sono in questione anche altri
beni simbolici: immagini, rappresentazioni più o meno precostruite, preferenze, e così
via. In breve, la nozione di scambio rimane sospetta di finire di neutralizzare rapporti
autenticamente politici che implicano spesso disuguaglianza di status e di risorse
disponibili.
La terza concezione, che potremmo chiamare competitiva, sembra molto più
soddisfacente. E’ fondata sull’idea di competizione fra rappresentazioni intese ad
imporre determinate percezioni alla più ampia opinione pubblica. Jay Blumler (1990)
la descrive bene : « è una competizione per influenzare e controllare, grazie ai
principali mass media, le percezioni pubbliche dei più importanti avvenimenti politici
e delle poste in gioco». Si passa, dunque, dallo scambio indeterminato alla
concorrenza esplicita per il controllo delle rappresentazioni collettive nel cui ambito
viene riconosciuto ai mass media un posto di rilievo. In questo modo, vengono inoltre
riconosciuti il ruolo determinante del cognitivo e del simbolico nei procedimenti
politici e anche il riavvicinamento della dialettica “conflitto/cooperazione”con la
costruzione di significato. La comunicazione politica diventa essenzialmente una
strategia simbolica se si aggregano le due fondamenta teoriche dell’interazionismo
strategico e dell’interazionismo simbolico.
Infine, la concezione deliberativa è fortemente influenzata dalla concezione
habermasiana della comunicazione liberata dai vincoli della dominazione. E’ una
visione ancora largamente normativa in quanto consiglia l’uso pubblico della ragione
critica, ma comincia a trovare nell’ordine del diritto positivo inizi di messa in opera
attraverso gli obblighi di informazione ai quale si trovano vincolate le autorità
pubbliche (Lascoumes, 2001) e le esigenze, sempre più pressanti (SIG, 2005), del
dibattito pubblico ovvero fra cittadini, sotto forme diverse che vanno dalle conférence
de consensus e ai questionnaire de choix dell’esperienza francese (Bütschi 2000)
passando per i sondaggi deliberativi o le “giurie di cittadini” che avvicinano alla
democrazia dal basso (Hermès 2000).
In una qualche misura tutte e quattro queste concezioni colgono, rispecchiano
e delineano alcuni dei contributi essenziali che la comunicazione politica offre al
funzionamento della democrazia. Tuttavia, alcune di esse, soprattutto la strumentale e
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l’ecumenica, ci sembrano compatibili con alcune degenerazioni dei processi
comunicativi, in particolare, la tendenza a ridurre la sfera comunicativa a sfera di
scambio tra cittadini consumatori, governanti manipolatori e mass media imprenditori
commerciali. Quello che ci pare importante, e che ci sembra che la terza concezione
metta bene in evidenza, è che nell’analisi e nella pratica sono i rapporti fra gli attori
politici, i comunicatori intermediari e i cittadini a plasmare la comunicazione politica.
In altri termini, quanto e in che misura la comunicazione politica può essere strumento
di miglioramento della democrazia dipende dal grado di impegno di tutti gli attori
coinvolti: governi più responsabili che, anziché manipolarla, permettano all’opinione
pubblica di giudicare il loro operato e applicare un meccanismo di accountability;
mass media consapevoli che il loro “prodotto” non ha una valenza soltanto
commerciale, ma anche un valore civico; cittadini che partecipano e sono, a loro
volta, in grado di imporre un miglioramento delle modalità di comunicazione politica
(e delle competenze e delle responsabilità degli stessi operatori della comunicazione).
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