L'Epistola di Ilaro: un contributo sistemico

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO Nei decenni seguenti la morte di Dante, Giovanni Boccaccio fu il primo letterato di alto rango a professare apprezzamento per la sua opera; un’inclinazione manifestatasi in tempi precoci rispetto ai gusti letterari mediotrecenteschi, influenzati dal magistero petrarchesco, caratterizzato da una diversa sensibilità 1 . Purtuttavia le notizie ed i testi che il Certaldese ha collazionato, non di rado in tradizione unica, in circa un quarantennio di fedeltà a Dante – si pensi ai superstiti, quasi tutti autografi: Vaticano Latino 3199, Toledano 104 6, Riccardiano 1035, Chigiano L V 176, Chigiano L VI 23, Laurenziano Pluteo XXIX 8 –, non gli hanno sempre meritato l’encomio della dantologia moderna. Dubbi, oscillanti tra apocrifia e interpolazione, hanno riguardato le Esposizioni e il Trattatello; dubbi hanno investito le tre epistole dantesche tramandateci dal suo Zibaldone laurenziano; dubbi hanno riguardato la postrema corrispondenza eglogistica tra Dante e Giovanni del Virgilio. Infine, dubbi hanno accompagnato (e continuano ad accompagnare) un celebre testo di interesse dantesco, l’epistola del monaco Ilaro. In anni recenti, gli studiosi più autorevoli hanno sempre convenuto con l’obliterare certi eccessi di iperscetticismo antiboccacciano, restituendo alla sua opera il pieno riconoscimento 2 . L’unico testo ancora sub iudice è l’epistola di Ilaro: probabilmente perché intorno ad essa è la dantologia maggiore ad essersi divisa; autori della levatura di Giuseppe Billanovich, riprendendo un’ipotesi degli ottocenteschi Adolfo Bartoli e Francesco Macrì-Leone, ne hanno sostenuto la falsità, benintesa quale frutto di 1 La bibliografia su Boccaccio dantista è sterminata, ai presenti fini si tengano presenti particolarmente: Giovanni Boccaccio editore e interprete di Dante, a cura della Società Dantesca Italiana, Firenze, Olschki, 1979; G. PADOAN, Il Boccaccio «fedele» di Dante, in ID., Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, ivi, Olschki, 1978, pp. 229-46. Utile la voce Boccaccio, Giovanni curata da Padoan per l’Enciclopedia Dantesca, 6 voll., Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970-’78 (= ED), I, pp. 645-50. 2 Altro discorso è il merito della singola notizia o lezione a testo, profili sotto cui il grande novelliere ha rivelato sovente amplificazioni, fraintendimenti ed errori. 1

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Nei decenni seguenti la morte di Dante, Giovanni Boccaccio fu il primo

letterato di alto rango a professare apprezzamento per la sua opera;

un’inclinazione manifestatasi in tempi precoci rispetto ai gusti letterari

mediotrecenteschi, influenzati dal magistero petrarchesco, caratterizzato

da una diversa sensibilità1. Purtuttavia le notizie ed i testi che il

Certaldese ha collazionato, non di rado in tradizione unica, in circa un

quarantennio di fedeltà a Dante – si pensi ai superstiti, quasi tutti

autografi: Vaticano Latino 3199, Toledano 104 6, Riccardiano 1035,

Chigiano L V 176, Chigiano L VI 23, Laurenziano Pluteo XXIX 8 –, non gli

hanno sempre meritato l’encomio della dantologia moderna. Dubbi,

oscillanti tra apocrifia e interpolazione, hanno riguardato le Esposizioni e

il Trattatello; dubbi hanno investito le tre epistole dantesche tramandateci

dal suo Zibaldone laurenziano; dubbi hanno riguardato la postrema

corrispondenza eglogistica tra Dante e Giovanni del Virgilio. Infine,

dubbi hanno accompagnato (e continuano ad accompagnare) un celebre testo

di interesse dantesco, l’epistola del monaco Ilaro.

In anni recenti, gli studiosi più autorevoli hanno sempre convenuto con

l’obliterare certi eccessi di iperscetticismo antiboccacciano, restituendo

alla sua opera il pieno riconoscimento2. L’unico testo ancora sub iudice è

l’epistola di Ilaro: probabilmente perché intorno ad essa è la dantologia

maggiore ad essersi divisa; autori della levatura di Giuseppe Billanovich,

riprendendo un’ipotesi degli ottocenteschi Adolfo Bartoli e Francesco

Macrì-Leone, ne hanno sostenuto la falsità, benintesa quale frutto di

1 La bibliografia su Boccaccio dantista è sterminata, ai presenti fini si tenganopresenti particolarmente: Giovanni Boccaccio editore e interprete di Dante, a cura dellaSocietà Dantesca Italiana, Firenze, Olschki, 1979; G. PADOAN, Il Boccaccio «fedele» diDante, in ID., Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, ivi, Olschki, 1978, pp. 229-46.Utile la voce Boccaccio, Giovanni curata da Padoan per l’Enciclopedia Dantesca, 6 voll.,Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970-’78 (= ED), I, pp. 645-50.2 Altro discorso è il merito della singola notizia o lezione a testo, profilisotto cui il grande novelliere ha rivelato sovente amplificazioni,fraintendimenti ed errori.

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esercizio retorico, non finalizzato alla frode3, condizionando gli studi

successivi e suscitando adesioni ripetute4. La tesi di Billanovich è stata

recentemente ripresa e modificata sotto il profilo della paternità del

testo, con numerose ed importanti innovazioni, da uno studioso del valore

di Saverio Bellomo5. Principale assertore dell’autenticità del testo è,

sulla scia di Vittore Branca, un altro dantista di chiara fama, Giorgio

3 G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla lettera di Ilaro al Trattatello in laude diDante, in ID., Prime ricerche dantesche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947;ID., La leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla lettera di Ilaro al Trattatello in laude di Dante, «StudiDanteschi», XXXVIII, 1949, pp. 45-144, da cui si cita.4 A titolo campionario si danno i seguenti casi: «Al Boccaccio sono staterestituite da ultimo, e in via definitiva, l’epistola dettata dalla pietas perDante all’immaginario frate Ilaro»; F. DI BENEDETTO, Considerazioni sullo ZibaldoneLaurenziano del Boccaccio e restauro testuale della prima redazione del «Faunus», «Italia Medioevalee Umanistica», XIV, 1971, pp. 91-128, p. 92; «Billanovich has brilliantlyexplained how Boccaccio fabricated his “leggenda dantesca”. So closely bound toantiquity by both his learning and his friendship with Petrarch, Boccaccio drewfrom ancient patterns an imaginative explanation of some facts concerning Dante’slife and works which he could not otherwise account for [...]. Thus he createdhis own myth of Dante, inflicting upon posterity the arduous task ofdiscriminating history from legendary invention»; L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio andthe Epistle to Cangrande, in ID., The Trecento Commentaries on the «Divina Commedia» and the Epistleto Cangrande, Oxford, Clarendon Press, 1974, pp. 105-23, pp. 111-2; «Diversa è larelazione tra l’una e l’altra delle due esercitazioni scolastiche scritte dallamano del Boccaccio, ma che si è stentato ad attribuirgli, la Lettera di Ilaro e l’Elegiadi Costanza [...]. Contro l’attribuzione della Lettera al Boccaccio si è schieratoil Padoan [...]. Ci sembra, quella del Padoan, “voce destinata a rimanereisolata”, come la definisce lui stesso, ma in forma interrogativa [...]. Ora laLettera di Ilaro, secondo il Billanovich fu composta probabilmente tra il 1345 eil 1346 a Ravenna: proprio come il volgarizzamento della quarta decade [diLivio]»; M. T. CASELLA, Tra Boccaccio e Petrarca. I. volgarizzamenti di Tito Livio e di Valerio Massimo,Roma-Padova, Antenore, 1982, pp. 289-90, n. 3. Invece è l’Elegia di Costanza che si ètentato senza seguito di espungere dal corpus boccacciano, così come molto incertaè oggi l’attribuzione del volgarizzamento della quarta Deca di Livio e senzaseguito alcuno quella del volgarizzamento di Valerio Massimo, per cui cfr. L.PETRUCCI, rec. a EAD., «Rassegna della Letteratura Italiana», II, 1984, pp. 367-87;E. LIPPI, rec. a EAD., «Studi sul Boccaccio», XIV, 1983-‘84, pp. 352-74; G.TANTURLI, Volgarizzamenti e ricostruzione dell’antico. I casi della terza e quarta deca di Tito Livio e di ValerioMassimo. La parte del Boccaccio (a proposito di un’attribuzione), «Studi Medievali», XXVII, 1986,pp. 811-88; V. BRANCA, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, Firenze, Sansoni, 19973; G.POMARO, Ancora ma non solo sul volgarizzamento di Valerio Massimo, «Italia Medioevale eUmanistica», XXXVI, 1993, pp. 199-232. Contrariamente a quanto asserisce Casella,inoltre, per Billanovich – in un passaggio tutto basato su logica apparente –l’epistola di Ilaro non è del 1345-‘46, ma si colloca tra la prima e la secondaepistola a Zanobi, cioè nel 1348-‘49: «Nella [prima] lettera del 1348 il

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Padoan6. Nella convinzione che sul piano biografico dantesco, scarno ed

incerto, l’epistola di Ilaro rappresenti una tessera di grande rilevanza,

in questa nota si procederà ad una prima sistemazione dell’ormai ponderosa

bibliografia sull’argomento.

L’epistola di Ilaro ci è conservata dal f. 67r dello Zibaldone, oggi

riconosciuto integralmente autografo del Boccaccio, noto come Laurenziano

Pluteo XXIX 87. Tale manoscritto è stato oggetto di studi fin dalla prima

metà dell’800, con Sebastiano Ciampi (1827) e Stefano Audin (1840), ma è

Boccaccio si era rivolto a Zanobi col “voi”. Invece nella seconda lettera usò ilclassico “tu”: non perché nei mesi seguenti fosse avanzato nella familiarità conZanobi, che doveva conoscere fino da quando egli aveva frequentato ragazzo lascuola di grammatica del padre di Zanobi, ma perché ora accettava quellainnovazione nella tecnica epistolare che i discepoli del Petrarca accolsero allaprima lezione dalle lettere del maestro [...]. Ilaro si era rivolto ad Uguccionecol “voi”. Perciò quel dettato è anteriore a questa seconda lettera a Zanobi: chefu scritta poco dopo il [secondo] rientro a Firenze; e dunque fu combinato dalBoccaccio ancora in Romagna»; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., pp. 120-1, n.3. Ancora: «Il Billanovich – con argomenti di peso decisivo – considera lalettera come un esercizio retorico del Boccaccio biografo di Dante, scritto forsepoco dopo l’epistola Mavortis miles, diretta al Petrarca, nel 1339»; V. ZACCARIA,Presenze di Dante nelle opere latine del Boccaccio, in Miscellanea di studi danteschi in memoria di SilvioPasquazi, 2 voll., Napoli, Federico & Ardia, 1993, II, pp. 893-903, p. 894. Siosserva, oltre il palese errore nel riportare la cronologia dell’epistola secondoBillanovich, che la Mavortis miles era una mera esercitazione retorica e non fucerto inviata al destinatario; giustamente Billanovich parla della: «lettera che[Boccaccio] aveva immaginato di indirizzare nel 1339 al Petrarca [...], il giovanedottissimo che vive[va] al di là delle Alpi»; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca,cit., p. 87.5 Fondamentale ai fini del presente lavoro, l’innovativo contributo di S. BELLOMO,Il sorriso di Ilaro e la prima redazione in latino della «Commedia», «Studi sul Bocaccio», XXXII,2004, pp. 201-35.6 Di Padoan da tener presenti: la voce Ilaro curata per l’ED; ID., Appunti sulla genesi ela pubblicazione della «Commedia», «Lettere Italianze», XXIX, 1977, pp. 401-15; ID.,Giovanni Boccaccio e la rinascita dello stile bucolico, in Giovanni Boccaccio editore e interprete di Dante,cit., pp. 25-72; ID., Il progetto di poema paradisiaco: «Vita Nuova», XLII (e l’Epistola di Ilaro), inID., Il lungo cammino del poema sacro, Firenze, Olschki, 1993, pp. 5-23. Padoan simuove entro un percorso già abbozzato da Branca fin dal 1958: «Non ho preso inconsiderazione la proposta ragionatissima del Billanovich [...] di vedere anchenella famosa epistola di Frate Ilario un’esercitazione letteraria del giovaneBoccaccio [...]; varie questioni restano infatti senza risposta: il tipo di prosalatina è diverso e meno retoricamente sostenuto, la falsificazione apparegratuita e senza una giustificazione plausibile, vi sono vari erroridifficilmente spiegabili; e soprattutto sembra inesplicabile un passo se sitratta di una trascrizione d’autore»; V. BRANCA, Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio.I. Un primo elenco dei codici e tre studi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958, p.227 e n..

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con Henri Hauvette (1894) che inizia la serie dei contributi scientifici,

culminata negli anni ’70 del secolo scorso con acquisizioni fondamentali

grazie a Filippo Di Benedetto e, per non marginali aggiunte, a Giorgio

Padoan, concludendosi circa un ventennio dopo con gli studi di Patrizia

Rafti e con quello collettivo di Stefano Zamponi, Martina Pantarotto ed

Antonella Tomiello8.

Lo Zibaldone laurenziano pone notevoli problemi a chi ne analizzi la

struttura, in quanto non solo ha risentito degli interventi di tardi

rilegatori che ne hanno ricomposto con mano non sempre felice la serie che

oggi conosciamo, ma perché risente di una complessa stratigrafia testuale

e di una provvisorietà materiale dei fascicoli risalenti allo stesso

7 Dal lontano A. M. BANDINI, Catalogus codicum Latinorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae, 5voll., Firenze, 1774-‘78, II, p. 28, la bibliografia sullo Zibaldone laurenzianosi è fatta ormai ingente, al punto da rendersi necessari appositi repertori, cuisi rimanda per esaurienti riferimenti: G. AUZZAS, I codici autografi. Elenco e bibliografia,«Studi sul Boccaccio», VII, 1973, pp. 1-21; Bibliografia degli Zibaldoni di Boccaccio (1976-1995), dati raccolti da C. Aresti et al., elaborati da F. Bianchi e A. MagiSpinetti, Roma, Viella, 1996. Del prezioso manoscritto esiste una riproduzione infac-simile a cura di G. BIAGI, Lo Zibaldone boccaccesco mediceo-laurenziano Plut. XXIX 8, Firenze,Olschki, 1915, la cui Introduzione, con l’elenco analitico dei testi per la solasezione allora ritenuta autografa (ff. 45-77), è ristampata in ID., Lo Zibaldoneboccaccesco della Medicea Laurenziana, «La Bibliofilia», XVII, 1915, pp. 45-53. Unfondamentale passo avanti per il riconoscimento dell’integrale autografia e pernumerosi aspetti paleografici e filologici è opera di F. DI BENEDETTO, Considerazioni,cit., e Mostra di manoscritti, documenti e edizioni. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana 22 maggio-31 agosto 1975, a cura del Comitato Promotore, 2 voll., Certaldo, Comitato PromotoreVI centenario, 1975, I, pp. 117-22, schede nn. 100 e 101 curate dallo stesso DiBenedetto; cfr. altresì A. DE LA MARE, The Handwriting of Italian humanists, Oxford,University Press for the Association internationale de bibliophilie, 1973, vol.I, t. 1, pp. 17-29. Infine, contributi di grande valore si sono susseguiti adopera di G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit.; V. BROWN, Boccaccio in Naples: the beneventanliturgical palimpsest of the Laurentian autograph, «Italia Medioevale e Umanistica», XXXIV,1991, pp. 41-126; P. RAFTI, «Lumina dictionum». Interpunzione e prosa in Giovanni Boccaccio. I,«Studi sul Boccaccio», XXIV, 1996, pp. 59-121, e EAD., «Lumina dictionum». Interpunzionee prosa in Giovanni Boccaccio. II, ivi, XXV, 1997, pp. 239-67; S. ZAMPONI, M. PANTAROTTO, A.TOMIELLO, Stratigrafia dello Zibaldone e della Miscellanea Laurenziani, in Gli Zibaldoni di Boccaccio.Memoria, scrittura, riscrittura, a cura di M. Picone e C. Cazalé Bérard, Firenze, Cesati,1998, pp. 181-258. Utile messa a punto H. W. STOREY, Contesti e culture testuali della letteradi frate Ilaro, «Dante Studies with the Annual Report of the Dante Society», CXXIV,2006, pp. 57-76.8 Quest’ultimo studio, per molti aspetti definitivo, mostra tuttavia palesiincongruenze proprio sul punto di maggior interesse ai fini del presente studio,per cui si daranno i debiti elementi nel seguito.

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Boccaccio. La storia di questo manoscritto è strettamente legata ad un

altro autografo boccacciano, la Miscellanea Laurenziana XXXIII 31:

Boccaccio ricavò entrambi da un artigianale adattamento di un antico

codice liturgico palinsesto, contenente un graduale in grafia beneventana

della seconda metà del XIII secolo, di cui il Certaldese aveva acquistato

a Napoli, intorno al 1330-‘35, otto fascicoli non consecutivi9.

L’originaria scrittura fu accuratamente erasa e il codice smembrato in

vario modo per servire ai fini del giovane letterato10. La struttura del

codice è resa ancor più complessa dal ricorrere di più livelli di

scrittura sovrapposti alla originale beneventana11.

Sulla scorta del più recente e completo studio dello Zibaldone,

procediamo ad un essenziale inquadramento delle prime due sezioni, le

quali interessano limitatamente ai presenti fini. Il primo gruppo di

fogli, numerati 2r-25v12, costituiti da tre quaterni palinsesti, con

scrittura a due colonne, contiene un’opera di Andalò del Negro (astronomo

e geografo genovese [1260-1334]), il Tractatus de spere materialis, e la prima

9 Tali fascicoli costituiscono gli attuali ff. 2-25 e 46-77 dello Zibaldone, e iff. 1-45 e 66-73 della Miscellanea.10 «Before writing over them [scil. i fogli del graduale], Boccaccio first cut intwo [...] the original bifolia of a codex which, because of its large size andspacious margins, must have served as a choir book. He then folded in two most ofthe separated leaves to make new bifolia; in approximately a dozen instances,however, he cut into two [...] the already separated leaves»; V. BROWN, Boccaccio inNaples, cit., p. 44.11 «Non tutti i fogli provenienti da quel codice erano destinati in un primo tempoad accogliere i testi che vi troviamo ora. In molti di essi, infatti, è ancoravisibile una rigatura verticale su quattro linee delimitanti due colonne anchenelle pagine dove il testo attuale è a una sola colonna centrale o a piena pagina[...] si notano delle rasure che hanno fatto sparire – talvolta completamente –alcune parole, la cui posizione fa pensare a titoli sovrastanti un testo dispostoappunto su due colonne [si tratta dei Facta et dicta di Valerio Massimo, ben noti alBoccaccio a partire proprio dal periodo napoletano] nel f. 56r dello Zibaldone,il più tormentato di questi palinsesti, si sono stratificate dunque trescritture: quella del primitivo testo liturgico, quella del testo su due colonne,quella del[la corrispondenza con Checco Rossi]; anzi [...] in alcuni punti si hala sovrapposizione di una quarta scrittura, poiché il nostro apportò qualchecorrezione al suo carme»; F. DI BENEDETTO, Considerazioni, cit., pp. 93-4 e n. 2.12 «Il foglio oggi segnato 1 è un antico foglio di guardia proveniente da unomeliario del sec. XII. Sul recto v’è un indice parziale scritto nel sec. XVII»;S. ZAMPONI et al., Stratigrafia, cit., p. 200 e n. 84.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

parte di una seconda, il Tractatus theorice planetarum. Sulle ragioni

dell’interruzione Padoan ha ritenuto, su base codicologica, che la

mancanza fosse imputabile alla caduta di un fascicolo, visto che una mera

caduta di interesse per l’opera del maestro genovese, di cui Boccaccio

intese le postreme lezioni a Napoli (Andalò vi morì nel 1334), mal si

concilierebbe con le sicure riprese in opere più tarde quali la Genealogia

e le Esposizioni. Tuttavia l’analisi materiale del codice rivela che se

anche vi fu caduta di un fascicolo, esso sarebbe stato insufficiente a

recepire l’intera parte residua13. Al di là di minime divergenze, non vi è

comunque dubbio nel datare le trascrizioni in esame al primo periodo

napoletano, convenzionalmente 1334-‘35.

Il successivo gruppo, ff. 26r-45v, deriva dalla giustapposizione di un

corpus di fogli estranei al graduale beneventano e si compone di 2 quaterni

e 4 fogli singoli, non palinsesti, con scrittura a piena pagina. Questa

sezione dello Zibaldone è nel contempo la più antica (ff. 26r-45r), in

quanto contiene testi ricopiati da Boccaccio quando era ancora a Firenze e

vi frequentava la scuola di Giovanni Mazzuoli da Strada, padre del più

noto Zanobi (1326-‘27 circa)14; e la più tarda (f. 45v), visto che

Boccaccio vi ricopiò tre alfabeti e l’epigrafe greca scoperta a S. Felice

ad Ema (1367). Per la terza e ultima parte lo scandaglio analitico sarà

spinto più a fondo, essendovi collocato il testo di principale interesse

ai nostri fini15.

13 «The corollary to this hypothesis would suggest that Boccaccio did not copy theremainder of the Tractatus theorice planetarum onto now missing portions of G [scil.l’originale codice liturgico], even though he used those sections in the Genealogiadeorum and Esposizioni. While the catchword at the bottom of [Zib. 25v] points tothe continuation of the text, the leaves now lacking in the eight quires wouldnot be sufficient to contain the rest. Nor does the continuity of the palimpsestliturgical text contained in the first three quires permit addition [...]. DiBenedetto [...] estimates that two more quaternions would have been necessary»;V. BROWN, Boccaccio in Naples, cit., p. 120 e n. 84.14 I testi sono: il Liber de dictis philosophorum, l’Antiquarum hystoriarum libellus, laSybillinorum verborum interpretatio, l’Epistula Alexandri ad Aristotilem.15 Un esaustivo elenco dei testi contenuti nello Zibaldone è in F. DI BENEDETTO,Presenza di testi minori negli Zibaldoni, in Gli Zibaldoni di Boccaccio, cit., pp. 13-28, alle pp.26-8.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Seguendo le risultanze codicologiche e paleografiche disponibili, si

distingueranno tre sezioni, per ognuna delle quali sarà dato un essenziale

corredo di note esplicative. Ciascun riquadro, secondo la sequenza dei

fogli, fornisce notizie sulla mise en pàge, i principali testi contenuti e

la datazione. La datazione, da intendersi convenzionale, è riportata in

grassetto quando è pressoché certa per elementi interni al testo; è

sottolineata quando si basa su ipotesi proposte dagli autori dello studio

collettivo (Zamponi et al.); senza alcuna evidenza ove la data, sebbene non

certa, sia comunemente accolta.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Ff. 46r-59v (1 quaterno, 2 fogli singoli, 1 duerno)

Sezione N.ro f. Mise en pàge Testi principali Datazione

1. 46r due colonne Liber sacrificiorum 1339

2. 46v-50r piena pagina Ecloga di GdV al Mussato

1339/1345-‘48

3. 50v due colonne Epist. Amico amicus a Zanobi

1348

4. 51r-55v due colonne Epistt., Dissuas. ad Ruf., Catilin. I

1339

4.a. 51rA Crepor celsitudinis

133916

4.b. 51rA-B/51vA Nereus amphytritibus17

1339

4.c. 51vA-B/52rA-B Mavortis miles

1339

5. 56r due colonne Corrisp. con Checco Rossi

1348

6. 56v-59r piena pagina Faunus (prima redazione)

1348

7. 59v due colonne Notizia di Livio, versi vari

1339

Note

gli schemi di rigatura presentano minime variazioni tra i principali

blocchi; in particolare per i gruppi 2. e 6. essa è leggermente diversa per

altezza dello specchio rigato e, quindi, per numero di linee, ma nella

supposta assenza di elementi storico-filologici contrastanti se ne propone

(Zamponi et al.) la coevità (ma cfr. infra);

per 4. si osservano continue minime variazioni nello specchio di scrittura

e, quindi, nel numero di linee;

16 «Nonas aprelis III, anno vero Incarnationis Verbi divini MCCCXXXVIIII».17 Erronea la dicitura, forse dovuta a refuso, di Nereus amphytribus presente nellostudio collettivo di Zamponi et al. (p. 213 e n. 116).

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

vi è stretta continuità grafica da f. 51r a f. 55v, in particolare per la

mise en pàge su due colonne e l’uso della maiuscola;

vi è solidarietà codicologica tra i ff. 2-25 e ff. 54-59 di Zib., con i ff.

118 di Misc. (collocati intorno al 1339), in virtù della complessiva

appartenenza ai primi tre fascicoli del graduale Beneventano (numerati G1,

G2 e G3 da Virginia Brown);

vi è stretta analogia tra f. 46r di Zib. e i ff. 46v-73v di Misc. (collocati

entro il 1339);

il f. 52rB fa eccezione quanto all’uso della maiuscola del suo gruppo di

appartenenza, in quanto non presenta la doppia maiuscola iniziale;

il f. 59r presenta caratteri misti: testo su due colonne, come il gruppo di

appartenenza (ff. 54-59), ma uso della maiuscola come nel gruppo successivo

(ff. 60r-66v);

il f. 59v è legato alle Satire di Persio per ragioni tematiche, codicologiche

e grafiche, con anche glosse marginali al testo del tutto analoghe ai ff.

46v-73v di Misc. (1339).

Come si può osservare la struttura del codice è quanto mai composita

per tipologia di testi, distribuzione cronologica, mise en pàge, soluzioni

grafiche. L’unica datazione dubbia proposta riguarda l’egloga di Giovanni

del Virgilio ad Albertino Mussato. Pur in assenza di elementi cogenti, la

si accetterebbe di buon grado, riportando il testo al periodo romagnolo di

Boccaccio (1345-‘48 circa), se alcuni elementi non avvicinassero

sensibilmente l’egloga a Mussato al Teseida (composto nel 1340 circa), in

particolare per l’aggettivo atteo: Invero non molto comune, che nell’egloga al Mussato, v. 15, compare chiosato

interlinearmene (achea «idest atteniensi») e nel Teseida è spiegato con maggior

respiro (attei «cioè atteniensi, perciò che la contrada nella quale è Attene si

chiama Attica»)18.

E per il ricorrere del nome proprio Alcone (Tes., VI XIX 4), che, presente

in Ovidio e Virgilio con modalità che destano forti perplessità su una

18 G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., p. 30.9

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

ripresa diretta, è invece presente con connotati particolarmente degni di

rilievo proprio:

[Nell’]egloga al Mussato, v. 210, dove a quel nome [...] è apposta la seguente

chiosa: “probus grecus fuit [...] Alcon dicitur, quia viri probissimi nomen

habet”. Nel Teseida Alcone è appunto tra i più fedeli compagni del re Peleo [...]

(Tes., VI XIX 4)19.

Inoltre, come segnalato da Di Benedetto e Padoan, l’attuale gruppo di

ff. 56-59 è stato oggetto di errata collocazione da parte di un tardo

rilegatore; esso risulta dotato di caratteri distintivi propri, sicché

risulta ancor meno cogente l’aggancio proposto da Zamponi et al. con i ff.

46v-50r sulla base dello schema di rigatura (del resto non perfettamente

coincidente)20. Infine, e a titolo definitivo, l’egloga a Mussato, come si

mostrerà nel seguito, era già nota a Boccaccio all’altezza delle Rime

napoletane e del Filocolo (1338 circa).

In conclusione, una collocazione dell’egloga mussatiana al periodo

romagnolo principalmente sulla base di un simile schema di rigatura non è

minimamente provata, risultando preferibile apparentarla al gruppo cui il

testo risulta codicologicamente legato: i ff. 46v-50r sono infatti

strettamente solidali ai ff. 51-53 di Zib. ed ai ff. 66-73 di Misc., gli

uni e gli altri datati con sicurezza al 1339, tutti contenenti (fino a f.

55v di Zib. e, a ritroso, fino a f. 46 di Misc.) testi del tardo periodo

napoletano, e tutti facenti parte del medesimo fascicolo del graduale

numerato G8 da Virginia Brown: è quindi evidente che, con la nota

19 Ivi, p. 31, n. 24.20 «Chi riordinò infine lo Zibaldone, nel cercare quale potesse essere il giustoposto dei fogli ora 56-59 [...] si avvide [...] che essi appartenevano al gruppodi fogli dello Zibaldone ora numerati 46-55 [...]. L’inserto tuttavia spicca perla propria autonoma individualità, distaccandosi chiaramente dalle trascrizionidei fogli precedenti e seguenti sia per le caratteristiche grafiche sia per gliampi margini lasciati in bianco [...] concorda con me [Di Benedetto] nel ritenerefrutto di errata collocazione l’attuale posizione dei ff. 56-59»; ivi, p. 47 e n.88.

10

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

eccezione di f. 50v21, il blocco di ff. 46-55 sia saldamente ancorato a

quel termine cronologico. Si aggiunga che, a detta degli stessi autori,

pur tra continue variazioni grafiche incomprimibili in Boccaccio, sono

numerosi anche i «fatti grafici» che consentono di apparentare i fogli

contenenti l’egloga a Mussato con gli altri fogli del periodo napoletano:

frequenza dei nessi di curve contrapposte, frequenza e forma di 2 = r, il

modulo di scrittura, la forma della s sinuosa e la forma della a onciale22.

Ff. 60-72 (4 fogli, 1 quaterno, 1 foglio).

Sezione N.ro f. Mise en pàge Testi principali

Datazione

1. 60r-63r piena pagina Elegia, Alleg., Ep. a Fed., Epp.

Dant. 1339

2. 63v-64v due colonne Satira di Pier delle Vigne

1339

3. 65r-v piena pagina Sacre famis

133923-‘40/’41

4. 66r-v piena pagina Razzìa di Gadres

1340-‘41/’42

5. 67r piena pagina Epistola di Ilaro

1340-‘41/’42

6. 67v-72v piena pagina Corrisp. Dante - G. del Virg.

1340-‘41/’42

21 «L’epistola Quam pium, trascritta al f. 50v dello Zibaldone, è contenuta in unfascicolo che è stato utilizzato in tempi diversi [...] con buona probabilitàcostituisce l’ultima sezione del manoscritto [...] fatta eccezione per [...] Zib.45v»; S. ZAMPONI et al., Stratigrafia, cit., p. 210, n. 104.22 Le informazioni sono tratte da p. 254 dello studio collettivo di Zamponi et al..23 «Iulii kalendas IIII».

11

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Note

è ribadita la stretta solidarietà di 66r-v con il gruppo di

appartenenza (ff. 60-66);

il f. 60r-v fa eccezione alla mise en pàge del suo gruppo, essendo il

testo disposto su due colonne.

In questa sezione dovremo discutere più di una proposta avanzata nello

studio collettivo. Osserviamo in primo luogo che, sebbene si ribadisca più

volte la stretta solidarietà del gruppo 60r-66v, per 3. (e di conseguenza

per 4.) si propone uno slittamento di circa 2 anni rispetto alle tre

epistole antiquiores di Boccaccio, con ciò portandoci al postremo periodo

napoletano, principalmente per la presenza di un modulo leggermente più

piccolo e di nessi di curve contrapposte un po’ meno frequenti (68%

rispetto a 96%) rispetto ai ff. 51r-52r. Tuttavia, la presenza in

Boccaccio di un noto oltranzismo multigrafico, entro ben distinti moduli

cronologici (si veda, tra i molti casi ordinari, quello monstre di Misc.

27v-38r, risolto ben diversamente dagli autori24) e persino entro singoli

testi25, avrebbe dovuto indurre più cautela su tali dislocazioni, non

24 In modo condivisibile si afferma: «[i ff. 27v-38r di Misc.] rispetto ai testitrascritti in precedenza sono stati vergati in una scrittura piuttosto anomala[...] Si assiste in questo caso a una scelta stilistica consapevole; non èaltrimenti giustificabile un cambio grafico così repentino ed isolato rispetto adaltre scritture dei due codici. [Si potrebbe ipotizzare] più semplicemente lasperimentazione di nuove espressioni grafiche, indotte da un exemplar diparticolare pregio [...]. Un terminus ante quem per datare questa sezione dellaMiscellanea è dato dall’epistola Sacre famis [...] composta secondo Padoan intornoal 1339 [ma che] è stata però trascritta in un momento successivo»; S. ZAMPONI etal., Stratigrafia, cit., p. 215. Osservato che la composizione della Sacre famis è del28 giugno 1339 per attestazione autografa di Boccaccio e non per ipotesi di Padoan, ilpunto debole emerge quando si propone di posticipare di anni, all’estremo periodonapoletano, i testi inclusi nei ff. 65r-66v di Zib. e, dopo di essi, di portare isuccessivi al periodo fiorentino appigliandosi a differenze grafiche molto menopronunciate che quelle rilevate (e obliterate…) per Misc. 27v-38r.25 È il caso della Crepor celsitudinis, dove le lettere maiuscole cambiano di modulotra prima e seconda parte: «L’esame del testo e della sua articolazione internamostra chiaramente la diversità tra la prima e l’ultima parte»; P. RAFTI, «Luminadictionum», cit., p. 77; cambiamenti di modulo della lettera evidenti anche nellaNereus amphytritibus lymphis, in coincidenza con il cambio di colonna da A a B. Ma icasi cosiddetti ordinari sono numerosi, come nella Dissuasiones Valerii ad Rufinum (ff.

12

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

solo; la percentuale dei citati nessi è un termine fragile ai fini di una

periodizzazione minuta, essendo instabile. Al riguardo, la sola cesura

cronologica significativa è incentrata sul cardine convenzionale del 1339:

prima di allora la percentuale dei nessi si aggira intorno al 30%,

dopodiché oscilla dal 70% al 90%; per paradosso, il 68% di f. 65r-v

potrebbe farlo apparentare a sezioni datate 1338-‘39 o 1345-‘48. Anche il

modulo di scrittura purtroppo è soggetto in Boccaccio a frequenti

variazioni, sicché nuovamente si potrebbero citare casi di modulo piccolo

o molto piccolo per testi sicuramente datati agli anni 1338-‘39 (f. 46r di

Zib. e ff. 46v-73v di Misc.). Ragionevolmente si tratta di parametri non

dirimenti di per sé, quanto piuttosto da associare ad altri elementi

affinché acquisiscano quella pregnanza che, di per sé soli, non hanno. Ma

non è tutto. Lo spostamento di un biennio o quasi della Sacre famis, in

assenza di elementi probanti, risulta tanto più labile vista la forte

solidarietà con testi omologhi sicuramente datati al 1339, nonché di una

data esplicita del testo stesso (28 giugno 1339). Inoltre è infondato

attribuire ad una data così artificialmente costruita (1341 circa) l’onere

di fungere da terminus post quem per i testi immediatamente successivi (ff.

67-72), in modo da doverli dislocare al periodo fiorentino a dispetto di

palesi disergie nei parametri grafici. Nel periodo fiorentino, infatti,

Boccaccio sviluppa per la prima volta una serie molto riconoscibile di novità

grafiche, ben evidenziate nello studio collettivo: tratti di frego con

funzione esornativa sulle aste ascendenti (cfr. ff. 73r-74v, sicuramente

fiorentini); piccolo svolazzo discendente dal tratto curvo della h;

maggior frequenza dei nessi e delle elisioni; uso della a priva di tratto

superiore anche in posizione non contestuale, con comparsa di un allografo

dal tratto sinistro tondeggiante, che richiama la corrispondente forma

corsiva; maggior frequenza delle unioni e legature fra tratti di lettere

contigue; altre variazioni sulla s, sia capitale che corsiva, e sulla r;

complessivamente una maggior attenzione verso una migliore leggibilità.

53r-54r) e nella Oratio prima in Catilinam (ff. 54rB-55v).13

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Ebbene, tali variazioni sono in larga misura assenti nei ff. 67-72,

rendendone metodologicamente poco comprensibile la collocazione al periodo

fiorentino. Infine, e a titolo definitivo, l’analisi dell’uso delle

maiuscole mostra un blocco saldamente omogeneo per i ff. 46v-72v, in virtù

di una caratteristica digrafia, perfettamente consonante con i ff. 17r-38v

di Misc. (datati guarda caso intorno al 1339). Nei testi del periodo

fiorentino-romagnolo (1342-‘48), invece, l’uso della maiuscola si

contraddistingue per elementi caratteristici affatto diversi, in virtù di

una netta rarefazione degli allografi e di una progressiva normalizzazione

grafico-esornativa26.

In conclusione, la proposta di spostare a Firenze il gruppo di ff. 67-

72 si rivela infondata. Peraltro, con motivazioni differenti da quelle

segnalate nello studio collettivo, è plausibile un lieve spostamento in

avanti della trascrizione della Sacre famis – e dei testi immediatamente

successivi (ff. 65-66) – rispetto alle epistole antiquiores del 1339, in

virtù non tanto dei caratteri di cura formale leggermente diversi tra i

gruppi di ff. 51-55 e 60-66 (risalenti presumibilmente all’influenza degli

archetipi27), quanto per un’imitazione ora meno pedissequa del modello

epistolare dantesco (Billanovich) e per una leggera modificazione della

morfologia interpuntiva (Rafti)28. Pertanto, contenere lo spostamento

26 Scrivono ragionevolmente gli stessi autori: «Quanto tempo intercorra [tra leepistole antiquiores e la Sacre famis] non si può oggettivamente stabilire: l’analisipaleografica non rivela però profonde fratture fra i due momenti»; S. ZAMPONI et al.,Stratigrafia, cit., p. 215.27 Tale diversità è riconducibile più che ad una distanza di tempo di anni,all’influenza dell’exemplar, come mostrato da Patrizia Rafti al termine della suaineccepibile analisi: «Se il copista è lo stesso per tutti i testi, se i testihanno in comune la natura prosastica e addirittura talvolta il genere testuale[...], se il periodo di trascrizione è il medesimo, la difformità interpuntivatra un testo e l’altro non può essere attribuita allo scrivente, ma alla realtàgrafico-testuale dell’antigrafo da cui questi traeva di volta in volta la propriacopia. Dunque acquista un’evidenza nuova la tesi di un Boccaccio attento agliaspetti distintivi e formali dell’antigrafo e quindi scrupoloso nel riprodurli»;P. RAFTI, «Lumina dictionum», cit., p. 264.28 La leggera variazione della morfologia del segno interpuntivo «costituisceun’ulteriore conferma grafica di una qualche dislocazione cronologicadell’Allegoria mitologica e dell’epistola Sacre famis rispetto agli altri testidella stessa fase grafica»; ivi, p. 73 e n. 22.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

entro il 1340 si rivela l’attribuzione cronologica più ragionevole per

65r-66v.

Per ragioni identiche a quelle appena viste, lo spostamento proposto di

f. 67r (nonché dell’intero blocco di ff. 67-72) al periodo fiorentino è da

ricusare29. Per completezza bibliografica, si segnala che Di Benedetto

segue da presso Billanovich e colloca la trascrizione ilariana addirittura

al 1348-‘49, il che è certamente errato; mentre Padoan opta per il tardo

periodo napoletano (1340-‘41) per motivazioni, approfondite subito nel

seguito, che chiamano in causa la data della corrispondenza tra Dante e

Giovanni del Virgilio. La datazione delle egloghe è il punto-chiave per la

collocazione della sezione dantesca dello Zibaldone. L’esame cronologico

della trascrizione della corrispondenza mette in evidenza alcune

incrinature nella ricostruzione, per altri versi ammirevole, elaborata

dagli autori dello studio collettivo. Riportiamo il passo cruciale:

Tralasciando la questione dell’autenticità dell’egloga [...] ricordiamo solo

che, accanto alla tradizionale attribuzione agli anni del primo soggiorno

romagnolo (1345-‘48, con la quale concorda anche Di Benedetto), è stata da

Giorgio Padoan avanzata la proposta di anticiparne la copia alla fine degli anni

’30, prima cioè del ritorno del Boccaccio a Firenze (1341). Questa ipotesi si

fonda sulla possibilità di reperire già a Napoli i testi trascritti, sul

carattere essenzialmente scolastico di tutte le opere offerte dai ff. 46r-72v

dello Zibaldone e sulla «evidente difformità grafica» dei ff. 46v-50r rispetto al

f. 50v, databile al 1348 o poco dopo [...]. Sempre agli stessi anni, 1345-‘48,

sono ricondotti dalla maggior parte degli studiosi il frammento epico di Giovanni

del Virgilio e lo scambio di versi tra Giovanni del Virgilio e Guido Vacchetta

[...] ancora una volta in base ai contatti che Boccaccio avrebbe allacciato in

29 Senza ripetere gli argomenti già riportati, ci si limita a citare il seguentepasso di Patrizia Rafti: «Topograficamente successive alla c. 65 sono invece lealtre composizioni in prosa prese in considerazione: il riassunto in latino diuna parte del Guerre de Gadres (c. 66) e l’epistola di frate Ilaro a Uguccione dellaFaggiuola (c. 67r), le quali presentano tuttavia nel complesso caratteristicheformali, e grafiche in particolare, tali da farle ritenere inserite nelloZibaldone in un tempo molto vicino a quello in cui lo furono le altre delloZibaldone»; ivi, p. 240.

15

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

questo periodo con l’ambiente romagnolo e la conseguente possibilità di venire a

conoscenza della produzione poetica locale. La potenziale debolezza di argomenti

del genere è stata messa in luce dal lavoro di Augusto Campana, in cui viene

ricostruita una trama di rapporti, personali ed epistolari, che poteva offrire al

Boccaccio la possibilità di conoscere testi d’origine romagnola prima del 1345 ed

in cui si segnalano echi della corrispondenza Guido Vacchetta-Giovanni del

Virgilio in un’opera del 1341-‘42, la Commedia delle ninfe fiorentine30.

Le materiali incongruenze presenti in questo passaggio denunciano un

chiaro fraintendimento delle fonti consultate. In breve, secondo

l’argomentare dei proponenti Boccaccio avrebbe potuto disporre della

corrispondenza tra Giovanni del Virgilio e Guido Vacchetta già a cavallo

tra il periodo napoletano e fiorentino (1341-‘42), come mostrerebbero

richiami presenti nella Commedia delle ninfe fiorentine e chiamando a conforto un

noto studio di Augusto Campana; la corrispondenza tra Dante e Giovanni del

Virgilio sarebbe invece stata disponibile al Certaldese solo nel periodo

romagnolo (1345-’48), conclusione vanamente osteggiata da Giorgio Padoan

sulla base di mere considerazioni di contesto culturale; tali

considerazioni sarebbero contraddette, per di più, dallo stesso Campana.

Ebbene, per corrispondere al vero, ciascuna di queste asserzioni va

diametralmente invertita: Padoan ha mostrato, sulla scorta degli studi di

Quaglio e di propri originali reperti, che la Commedia delle ninfe fiorentine

risente di richiami della corrispondenza tra Dante e Giovanni del Virgilio

e non certo di quella tra il maestro bolognese e Guido Vacchetta. A sua

volta Augusto Campana, lungi dal controvertire tale posizione, vi si è

ripetutamente mostrato incline; una prima volta proprio nello studio

proposto inspiegabilmente come fonte contraria:

[Dei testi scambiati da Dante con Giovanni Del Virgilio] è stato supposto che

[Boccaccio] li abbia trovati e trascritti in Romagna intorno al 1345-‘48 [...].

Ora bisognerà vedere come coordinare questa ipotesi con gli echi della

30 Ivi, pp. 185-6.16

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

corrispondenza già presenti in un’opera del Boccaccio del 1341-‘42, la Commedia

delle ninfe fiorentine31.

Una seconda volta Campana avalla la possibilità che Boccaccio abbia

recepito le egloghe delvirgiliano-dantesche già a Napoli, allorché Graziolo

Bambaglioli, chiaro giurista e Cancelliere del Comune felsineo, oltre che

commentatore del poema dantesco, vi si portò esule (seconda metà del

1334). Tale posizione, espressa oralmente, è riferita in modo fededegno da

Padoan, che conclude:

Gli incastri ora si congiungono perfettamente: in un elenco di testi

scolastici, ricco soprattutto per il settore giuridico ma con titoli anche per il

grammaticale, databile intorno al 1340 – la segnalazione è di Augusto Campana

[comunicazione al II Congresso Internazionale di Storia del Diritto, tenutosi a

Venezia nel settembre 1967] – compare la corrispondenza eglogistica di Dante e

Giovanni del Virgilio, unitamente al Diaffonus [Epistole Dantis et magistro Johannis de Virgilio

et diaffanus eius]32.

Anche Di Benedetto, che recepisce come di consueto le indicazioni di

Billanovich sulla collocazione romagnola della trascrizione, segnala

diligentemente la presenza di riserve da parte di Campana e di altri33.

Non basta. E’ proprio Campana che assevera la piena solidarietà grafica

della corrispondenza intercorsa tra Del Virgilio e Vacchetta con gli altri

testi romagnoli del gruppo di ff. 75r-76r e di parte di f. 77r, come per

primo già Billanovich, concordemente seguito da Di Benedetto e Padoan:

Per dire tutto, c’è un’identità perfetta di scrittura e d’inchiostro tra il De

quatuor temporibus anni e le due corrispondenze poetiche che lo seguono, e

praticamente anche il frammento epico che lo precede34.

31 A. CAMPANA, Guido Vacchetta e Giovanni del Virgilio (e Dante), «Rivista di Cultura Classica eMedievale», VII, 1965, pp. 252-65, a p. 254 e n..32 G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., p. 65 e nn. 130 e 131.33 F. DI BENEDETTO, Considerazioni, cit., pp. 99 e n. 3.34 A. CAMPANA, Guido Vacchetta, cit., p. 254.

17

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Infine, le condizioni di contesto culturale richiamate con acume da

Padoan non sono il presupposto per la datazione del gruppo eglogistico

agli anni napoletani, ma il risultato di una salda dimostrazione

filologica avviata da Quaglio e da tempo, come mostra ab illo tempore

l’apertura di studiosi come Branca e Campana, comunemente accolta35.

In conclusione, la proposta di inversione cronologica tra le egloghe

scambiate da Del Virgilio con Dante e Guido Vacchetta va decisamente

abiurata e riportata nell’alveo della consolidata communis opinio che,

coerentemente con i caratteri grafici e codicologici, attribuisce la prima

al periodo napoletano (1340-’41), l’altra a quello romagnolo (1345-’48).

Del resto, non si comprenderebbe perché mai l’interesse di Boccaccio si

sarebbe appuntato su un testo delvirgiliano del tutto minore diversi anni

prima di essersi imbattuto in quello maggiore (la corrispondenza con

Dante) che invece, con ogni probabilità, fu il motore delle successive

ricerche in area romagnola di testi contigui, come, appunto, la

corrispondenza con Vacchetta.

35 Mirabile per informazione e sintesi il seguente passo di Giuseppe Scalia,corredato da esaurienti riferimenti bibliografici nelle note che qui, perbrevità, si omettono: «Questo rapporto ideale [tra Dante e Boccaccio] èdocumentato fra l’altro da una ricca serie di riecheggiamenti danteschi già nelleopere del periodo napoletano, dalla Caccia di Diana, al Filostrato, al Filocolo, alleepistole retoriche Crepor celsitudinis e Mavortis milex del 1339, al Teseida [...]. Eraopinione comune che il Boccaccio fosse venuto a conoscenza di queste egloghedurante il primo soggiorno romagnolo (1345-1348) e le avesse allora trascritte,con altro, nel suo codice di servizio. Un’accuratissima indagine [condotta dalPadoan] sulla fascicolazione e composizione del manoscritto e tutta una vastagamma di argomentazioni critiche di notevole peso porta adesso a taluneconclusioni nuove, quali l’arretramento della data al 1339 circa [...]. Tra ivari riecheggiamenti delle egloghe segnalati da Antonio Enzo Quaglio nella suaedizione della Commedia delle ninfe fiorentine del Boccaccio [...] non trovo richiamatodal Padoan, se non erro, l’arrectis auribus di Egl., III 24, cui riferire «l’orecchieritto» di Com., III 12»; G. SCALIA, «Arnus» - «Sarnus». Dante, Boccaccio e un abbaglio orosiano,«Studi Medievali», XIX, 1979, pp. 625-55, pp. 647-8 e n. 139.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Ff. 73-77 (3 fogli, 1 bifolio).

Sezione N.ro f. Mise en pàge Testi principali

Datazione

1. 73r-74v piena pagina Notamentum, Epp. Petr.

1342-‘44

2. 75r-76r piena pagina Versi di Gio. del Virg.,

De quat. temp.,

corrisp. Gio. del Virg./G. Vacchetta

1345-‘48/’41

3. 76v-77r piena pagina Argus

1345-‘48

Note

la rigatura di 1. è epigrafica (un unicum dello Zibaldone e della

Miscellanea);

lo specchio scrittorio di 2. e 3. è identico.

Per le ragioni esposte in precedenza, questo gruppo va distribuito

interamente lungo il periodo fiorentino-romagnolo (1342-‘48 circa),

risultando la retrodatazione della sola sezione delvirgiliana fondata su

una serie di fraintendimenti dei proponenti.

Le conclusioni di questa parte dell’analisi conducono ad una prima

rilevante osservazione: pur con le inevitabili approssimazioni del caso,

la determinazione cronologica più attendibile porta il testo ilariano al

1340-‘41; la lieve posdatazione, avanzata in modo non convincente nello

studio collettivo, opta per l’inizio del secondo periodo fiorentino di

Boccaccio (1342) e non dà comunque supporto a quanto sostenuto da

Billanovich, nonché da altri sulla sola sua autorità: lo studioso,

obbligatosi nei margini di una prospettiva retoricistica, ha coerentemente

circoscritto la datazione al 1348-‘49, termine irricevibile. Altre

19

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

argomentazioni di grave peso esposte nel seguito consentiranno di

abbandonare definitivamente una posizione critica che, tuttavia, per esser

stata corredata da osservazioni e riscontri molto fini, risulterà per

altri versi comunque illuminante. Infine, pare forse sommario il resoconto

offerto da Saverio Bellomo sul punto, rispetto ad elementi non irrilevanti

per una datazione precisa:

Il terminus ante quem più sicuro da assegnare alla composizione dell’epistola di

Ilaro dovrà essere la data dell’ultimo testo inserito nello Zibaldone, che risale

alla fine del 1348 (epistola Quam pium a Zanobi)36.

Si può auspicare che i futuri interventi sull’epistola di Ilaro, sia

pro che contro l’autenticità, non rilancino per poca informazione tale

36 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., pp. 230-1. Osservato che l’ultimo testo inseritodello Zibaldone è del 1367 (f. 45v), nella ricostruzione degli aspetticodicologici e paleografici dello Zibaldone resa da Bellomo si trovano alcunipassaggi non in tutto condivisibili: «L’accoppiamento dei testi [scil. l’epistoladi Ilaro e le Egloghe] può rispondere infatti anche a un criterio [...], visto cheil medesimo fascicolo costituito dalle cc. 60-74, la cui contiguità le analisidei codicologi hanno mostrato originaria, contiene anche [...] un breve resocontodell’incoronazione di Petrarca, chiaramente collegato alla tematica della laureapoetica [...]. Onde anche l’epistola ilariana potrebbe aver ottenuto talecollocazione per analogia [...], toccando anch’essa il tema della gloria[poetica]»; ivi, pp. 228-9. L’intento di apparentare testi dello Zibaldone traloro molto diversi (l’epistola di Ilaro e le Egloghe) sulla base del filo tematicodella gloria poetica e della contiguità dei fascicoli appare bisognoso diapprofondimenti. Il tema della gloria poetica è del tutto secondario se nonesilissimo nell’economia dell’epistola di Ilaro. Non solo. La contiguità deifascicoli segnalata da Bellomo è a sua volta un dato non caratterizzante; dataper scontata la contiguità originaria dell’intero Zibaldone (ad eccezione dei ff.26-45) e della Miscellanea, in virtù della comune derivazione dal gradualeBeneventano, analisi più approfondite (Brown) hanno mostrato come la contiguitàcodicologica tra i ff. 60-74 abbia peculiarità interne non eludibili: i ff. 61-63e 72-73 di Zib., solidali tra loro e a loro volta con i ff. 35-38 e 42-43 diMisc., fanno parte del fascicolo numerato G4 da Brown; i ff. 64-71 di Zib. sonotra loro solidali e fanno parte di un altro fascicolo, numerato G6; di un altrodistinto fascicolo ancora fa parte il f. 74, solidale col gruppo di ff. 39-41 diMisc., che, con altri ff. di entrambi i codici, compongono infine il fascicolonumerato G5. Pertanto, al di là di una generica contiguità, per il capitale f.67r opera un diretto legame di solidarietà con scritti tutti riconducibili aiparaggi del 1339-‘40, al che andava dato il suo peso. Inoltre, dall’analisi sopraesposta si deduce che la contiguità espressa da Bellomo per i ff. 60-74 è incerta misura infranta anche dallo sviluppo dei fatti grafici, i quali da f. 73mostrano uno stacco ed una non trascurabile evoluzione.

20

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

termine (1348). Quando Billanovich lo propose, negli anni ’40 del secolo

scorso, gli studi sul Laurenziano presentavano ampie lacune scientifiche

oggi colmate; del che ogni consapevole studioso dovrà tener conto.

È merito di Giuseppe Billanovich aver per primo ricomposto in un

disegno unitario le tessere della precoce devozione dantesca del grande

novelliere, la quale dovette forse iniziare in modo nebuloso fin dal

periodo scolare fiorentino37, ma che solo a Napoli, grazie ad apporti

culturali determinanti, portò i suoi frutti. Le opere originali del

periodo napoletano, datate con varie sfumature e dislocazioni tra il 1332

ed il 1341, cominciano con l’Elegia di Costanza, proseguendo con la Caccia di

Diana, l’Allegoria mitologica, il Filocolo, il Filostrato, le Rime, le epistole latine, il

Teseida. Senza pretese di esaustività, sulla scia di Billanovich e delle

successive acquisizioni apportate da Vittore Branca e Antonio Enzo Quaglio

in sede di Edizione Nazionale, si può sommariamente osservare che la Caccia

di Diana (1334 circa) mostra già echi evidenti della Commedia, della Vita

nova e di diverse Rime dantesche. Di pochi anni successiva la composizione

dei quattro dictamina latini (1339), che denunciano la conoscenza sia della

Commedia, di cui si rinvengono tracce in particolare nella Sacre famis, sia

di un’ulteriore epistola dantesca, oltre le tre sicuramente note perché

trascritte38: l’epistola a Moroello39. Il Filocolo (all’incirca coevo dei

dictamina) mostra a sua volta echi da tutti i testi danteschi fin qui

citati. Il Teseida – composto in larga parte a Napoli nel 1339-‘41,

dopodiché compiuto, ricopiato e glossato a Firenze subito dopo – consente

di aggiungere il De vulgari Eloquentia, secondo la concorde opinione di

Billanovich e Branca, accolta da Quaglio. Si è visto poi, sulla scorta di

quest’ultimo, di Padoan e di altri (Scalia), come la Commedia delle ninfe

fiorentine, opera del primissimo periodo fiorentino (1342), denunci riprese

37 Molto a proposito è riportata dal Billanovich la citazione di Dante quale«primus studiorum dux et prima fax», tratta da una lettera del Boccaccio alPetrarca (Fam., XXI xv 2).38 Si tratta della III, a Cino, dell’XI, ai Cardinali italiani, e della XII,all’Amico fiorentino (probabilmente il nipote di Dante, Bernardo Riccomanni).39 È la IV secondo l’attuale ordinamento.

21

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

dallo scambio eglogistico danteo-delvirgiliano, così come già il Filocolo

all’altezza della «descrizione del pastore Calmata e soprattutto

nell’episodio di Eucomòs»40. Fondamentale: echi delvirgiliani derivanti dal

carme a Dante e dall’egloga a Mussato (si tratta di passi concernenti il

mito di Arione) sono stati notati da Padoan non solo nella Commedia delle

ninfe fiorentine, ma anche in un sonetto sicuramente napoletano (Rime, VII 2-3)

e nell’ultimo libro del Filocolo (V VIII 25):

In tutti questi passi è evidente che il Boccaccio non si rifà alla fonte

classica [...] cioè ai Fasti ovidiani (II 95-116), dove la scena è descritta in

modo ben diverso41.

Sempre nel Filocolo, nel penultimo libro, appare parafrasato il sonetto

che accompagnava l’epistola a Cino. Non databile la conoscenza,

virtualmente certa, dell’epistola ad Arrigo VII, mentre è sicuramente

successiva al periodo napoletano la conoscenza dell’epistola a Cangrande,

di cui vi sarebbe eco (molto incerta) nel Trattatello e (probabile) nelle

Esposizioni42.

È d’obbligo a questo punto interrogare il contesto napoletano coevo a

Boccaccio, al fine di identificare nel milieu culturale angioino quelle

figure che plausibilmente rifornirono l’armarium dantesco del grande

Certaldese. Per una prima vaga conoscenza della Commedia si può ascendere

in via ipotetica fino al primo periodo fiorentino, al tempo in cui

frequentava la scuola di Giovanni Mazzuoli da Strada; ma è sicuramente a

Napoli con Pietro Piccolo da Monteforte che viene in luce un primo

possibile tramite verso il poema dantesco43. Chiosa Billanovich: 40 G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., pp. 30-1.41 Ibidem.42 Punto della questione in L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle, cit..43 Pietro, nato nel 1307, scrive a Boccaccio (1372): «Qua de re quod de poesiDantis Alligerii, cum primum puer adhuc eam audivi et vidi, continuo dixisse merecolo impletumque video, iam illam scilicet, vulgari licet ydiomate promulgatam,apud magistros et studiosos in magno pretio, preconio laudeque futuram, ampliusmulto tanta dixi sepe et dicam de laudabili libro tuo, tanta venustate conspicuotantaque utilitate proficuo. Et iam ipsum apud plerosque magistros sacre pagine

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Pietro da Monteforte aveva potuto raggiungere la Commedia ancora giovanissimo

[...] calde ancora a Ravenna le ceneri di Dante [...]. E lo splendore ineffabile

del nuovo poema aveva vinto le dure riluttanze retoriche del lettore lontano per

regione e per professione [...] come subito aveva vinto quelle simili del

grammatico bolognese Giovanni del Virgilio44.

Naturalmente anche altri personaggi possono aspirare a pieno titolo al

ruolo di mediatori danteschi per la Commedia, in primo luogo Sennuccio del

Bene. Per il testo delle epistole disponiamo di tessere oltremodo

persuasive. L’epistola a Cino e il relativo sonetto si avvalgono della

presenza a Napoli del destinatario in persona, il quale insegnò diritto

presso lo Studio negli anni 1330-‘32 e che Boccaccio verosimilmente

conobbe. Per l’epistola a Moroello, oltre allo stesso Cino, pone la

propria candidatura un altro precocissimo settatore di Dante, appunto

Sennuccio. E’ ancora Billanovich a cogliere i termini della questione:

Un solo letterato del Trecento, oltre il Boccaccio, vediamo leggere la lettera

a Moroello: Sennuccio del Bene. Sennuccio, a imitazione di quella lettera e della

canzone che le era unita, immaginò di inviare a un amico col sonetto Punsemi il

fianco Amor con nuovi sproni la canzone Amor, tu sai ch’i’ son col capo cano; e riecheggiò

insieme in quel sonetto il sonetto che Dante aveva inviato a Cino coll’altra

lettera che il dettatore Boccaccio ebbe davanti nel 1339 [...]. È ora di

accorgerci che il Boccaccio e Sennuccio dovettero incontrarsi: anzitutto perché

legati alle stesse clientele, del Petrarca e di Dante. Mi pare quasi certo che il

vecchio esule bianco Sennuccio, che indirizzò [una sua canzone] al marchese

Franceschino Malaspina [...] debba aver passato al Boccaccio, scolaro dello

et doctores ac peritos et studiosos alios amabiliter valde viderunt, inter aliapredicentes, ut illorum in hoc verba numero referam et non mutem, quod erit adhucvalde predicabilis liber iste. Qua de re disposui et spopondi illum facerestudiosius esemplari et in armario Sancti Dominici de Neapoli predicatorumordinis alligatum catenula inter alios sacros libros ad magistrorum, lectorumatque studentium et predicantium commodum perpetuo collocare»; testo in G.BILLANOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boccaccio, in Medioevo e Rinascimento. Studiin onore di Bruno Nardi, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1955, I, pp. 3-76, alle pp. 48-9.44 Ivi, p. 17.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Studio napoletano, la lettera a Moroello Malaspina e, anche pare, la lettera a

Cino [...] pochi mesi dopo traduceva in una ottava del Filostrato il sonetto del

Petrarca a Sennuccio, Sennuccio i’ vo’ che sappia in qual manera [...]; che Sennuccio doveva

pure avergli trasmesso45.

Sennuccio fu ad Avignone al tempo di ser Petraccolo e, prima ancora,

era stato a Milano al tempo dell’incoronazione di Arrigo VII (cfr. la

canzone Da•ppoi ch’i’ ho perduta ogni speranza), dove con somma verosimiglianza fu

anche Dante; fu altresì in relazione con noti personaggi della corte

angioina, come Giovanni Barrili (cfr. la lettera – Var., LVII – di

Petrarca a Barrili, del gennaio 1342, accompagnatoria della Metr., II 146).

Egli svolse un’indiscutibile azione di mediatore tra i due sommi poeti

fiorentini del Trecento e il giovane Boccaccio, che poté recepire echi

della stessa Commedia anche da Sennuccio, il quale, nella citata canzone,

ne mostra una conoscenza talmente precoce (ad esempio di Inf., V 103, come

attesta il: «Tu quel che a nullo amato amar perdona»), da aver tratto in

inganno Michele Barbi, che giunse ad ipotizzare una relazione di

dipendenza inversa, da Sennuccio a Dante, poi controvertita da Contini47.

Graziolo Bambaglioli, secondo un’intuizione di Padoan (felicissima per

chi scrive), corroborata dal Campana (cfr. supra), è il primo candidato

per la trasmissione di testi di area bolognese ruotanti attorno a Giovanni

del Virgilio, a sua volta maestro di grammatica a Bologna negli anni a

cavallo del 1320:

45 G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 132 e n. 1.46 Con buona ragione Scarpati e Billanovich ritengono che in quel periodo (1341),forse sul richiamo delle magnifiche celebrazioni pubbliche tributate al Petrarca(febbraio 1341), di cui fu sodale fin dagli anni avignonesi, Sennuccio fosseeffettivamente a Napoli; cfr. G. BILLANOVICH, Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni diStoria e Letteratura, 1947, pp. 74-81; C. SCARPATI, Da Dante al Petrarca e dal Petrarca alBoccaccio. II. Tra Petrarca e Boccaccio: alcune schede biografiche su Sennuccio del Bene, in Il Boccaccionelle culture e nelle letterature nazionali, a cura di F. Mazzoni, Firenze, Olschki, 1978, pp.595-604, p. 602.47 Cfr. ora l’importante studio monografico di D. PICCINI, Un amico del Petrarca:Sennuccio del Bene e le sue rime, Roma-Padova, Antenore, 2004.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Dal 1334 [a Napoli] è, esule dalla sua Bologna, il commentatore della prima

cantica Graziolo Bambaglioli: in grazia della posizione pubblica che questi aveva

occupata nella sua città (già notaio e ufficiale del Comune, membro del Consiglio

degli Anziani e dal 1321 cancelliere), appaiono nella luce non dell’assurdo

presumibili suoi contatti col maestro che tanto era stato vicino all’ammirato

Alighieri e che aveva insegnato nello Studio bolognese dal 1321 al 132348.

Qualche vago titolo, sul punto, potrebbe vantare il dotto Paolo da

Perugia, forse tramite per l’arrivo di Cino allo Studio angioino, che a

Napoli giunge proveniente proprio dal capoluogo umbro:

Paolo fu unito al Boccaccio da viva stima ed amicizia, gli passò idee e libri.

Quando più tardi, dopo il rientro del Boccaccio a Firenze, commentò [rectius:

ricopiò glosse di un commento a] Persio [...] il perugino si avvalse nelle sue

chiose delle Allegorie ovidiane di Giovanni del Virgilio49.

Un’ulteriore tessera, estremamente suggestiva, può completare il

quadro:

Infine a Napoli nel 1338 arrivava, alfiere di quel Petrarca che nel 1320 aveva

con ogni probabilità ascoltato a Bologna le lezioni del Del Virgilio e che

conobbe per tempo l’opera del Mussato, Dionigi da Borgo S. Sepolcro50.

Dionigi, notoriamente legato all’entourage cardinalizio, aveva stretti

legami con i destinatari di un altro testo dantesco che, non casualmente,

troviamo ricopiato dal giovane Boccaccio, l’epistola ai cardinali

italiani51. Quest’epistola potrebbe tuttavia esser stata passata al

Certaldese anche da Sennuccio del Bene, che fu a sua volta familiare del

48 G. PADOAN, Giovanni Boccaccio, cit., p. 35.49 Ivi, p. 36.50 Ibidem. Cfr. inoltre Dionigi da Borgo Sansepolcro fra Petrarca e Boccaccio. Atti del Convegno,Sansepolcro 11-12 febbraio 2000, a cura di F. Suitner, Città di Castello, Petruzzi,2001.51 Dionigi era particolarmente legato ai cardinali Napoleone Orsini e GiovanniColonna.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

potente cardinale Giovanni Colonna, ipotesi preferibile per chi scrive,

anche alla luce di quanto si dirà conclusivamente (cfr. infra).

Naturalmente, non si è voluto, né lo si sarebbe potuto, esaurire la

raffigurazione di un intero milieu culturale, quanto mai intricato e denso

di scambi. Qualche tessera potrà essere meglio riposizionata, altre

potranno utilmente esservi aggiunte. Di una cosa, tuttavia, non è lecito

ormai dubitare: a Napoli Boccaccio, lungo la sua lunga ed operosa vigilia

dantesca, ebbe accesso a fonti di prim’ordine grazie a cui alimentare il

suo imponente dossier con tutti o quasi i testi fondamentali. In breve, il

Certaldese a Napoli, e poi più e meglio a Firenze52, si trovò in una

posizione talmente felice da doversi guardare con molta cautela

all’ipotesi di infiltrazioni dantesche per dir così eterodosse. Egli

poteva accedere a fonti numerose e molto vicine a Dante, così come, senza

soverchio sforzo, poteva provvedersi di riscontri dirimenti, quanto meno

su questioni capitali quali l’autenticità di un testo.

Non pochi i punti critici della tesi, portata ad un alto grado di

suggestività da Billanovich, secondo cui Boccaccio avrebbe costruito per

fini filodanteschi, certo non fraudolenti, il testo ilariano. Billanovich

adotta un’impostazione marcatamente retoricistica, per la quale passaggio

propedeutico alla comprensione (e costruzione) di un testo è la diligente

ricerca dei modelli e delle fonti che l’hanno ispirato. Su tali basi,

potendo vantare una conoscenza vastissima e ineguagliata del nostro

Trecento, egli ha prodotto una serie impressionante di richiami tra le

opere di Boccaccio (dantesche e non) e temi e luoghi letterari del poeta

fiorentino. Particolarmente insistiti, secondo lo studioso, gli echi che

rimandano l’epistola del monaco lunigianese a: Monarchia, Epistola IV, XI e

XII, Convivio, Egloghe, De vulgari e naturalmente la Commedia. Tuttavia se sotto

l’aspetto retoricistico la tesi è argomentata in modo eccellente, altri

profili restano sprovvisti di adeguata risposta.

52 Dove trovava ancora viventi i figli del poeta, in particolare Jacopo, e altrinomi celebri di provata contiguità dantesca, su tutti Giovanni Villani eSennuccio del Bene.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

In primo luogo, occorre tener presente che Boccaccio rifuse notizie

dell’epistola ilariana non solo in testi sospetti d’apologia, quale ad

esempio il Trattatello, ma anche in testi impegnati sotto il profilo

scientifico, quale la Genealogia deorum, ed esegetico, quali le Esposizioni;

col che si verrebbe a fare del Certaldese non solo un abile retore, ma un

deliberato falsificatore delle memorie dantesche, e sia pure per nobili

fini quali la difesa del poeta fiorentino, della sua opera e delle sue

scelte linguistiche. Infine, e a titolo definitivo per questo tipo di

argomento, è inimmaginabile che Boccaccio travasasse notizie

dell’impostura ilariana in un testo topico della sua militanza poetica,

nell’istante epocale della trasmissione della Commedia a colui cui

affidava il compito di accogliere Dante nell’empireo culturale del tempo,

Francesco Petrarca, che di quell’empireo era l’indiscusso arbiter et magister;

dicasi il carme Ytalie iam certus honos (1352 circa):

Novisti forsan et ipse, traxerit hunc iuvenem studiis per celsa nevosi Cyrreos

mediosque sinus tacitosque recessus nature celique vias terreque marisque, aonios

fontes, Parnasi culmen et antra, Iulia Pariseos dudum serusque britannus (vv. 12-

7)53.

53 Questo aspetto è ben sottolineato da Billanovich stesso: «L’intenzione delBoccaccio, che [nel carme a Petrarca] interpola l’epistola a Moroello e queiricordi del Purgatorio colla Cronica del Villani, è di presentare Dante chepercorre la Lunigiana per recarsi a Parigi»; ID., La leggenda dantesca, cit., pp. 87-8); ancora: «[All’atto di comporre il carme al Petrarca vediamo che] l’affezionecon cui il Boccaccio covò le fantasie che gli erano gradite ora lo eccitò acondensare nel ricordo esplicito di Parigi la perifrasi neutra “regioniultramontane”, oltre cui Ilaro non aveva potuto forzare il suo calamo spuntato didettatore»; ivi, p. 98; la medesima convinzione viene infine ribadita: «Prima lagenericità accademica del dictamen [ilariano] e poi la rigida dignità lirica [delcarme al Petrarca] solo avevano permesso al Boccaccio nella lettera di Ilaro enel carme rivolto al Petrarca di nominare “i paesi oltramontani” e la “giuliaParigi”»; ivi, p. 114. Fu poi naturalmente recepito dai successivi, per tuttiVittorio Zaccaria, che parla della «conferma di notizie dell’epistola di Ilaro,come quella del viaggio a Parigi [nei versi del carme, mossi da un] sinceroaffetto per il poeta, conosciuto dal Boccaccio appena diciassettenne a Napoli,nel contatto con Cino da Pistoia, con Graziano (sic) de’ Bambaglioli e forse conGiotto»; V. ZACCARIA., Presenze di Dante, cit., p. 895.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Billanovich, che intervenne con la propria personale autorevolezza per

spegnere la lunare polemica un tempo accesa da Aldo Rossi sulla

falsificazione delle egloghe dantesche, invocò con piena ragione

l’assurdità di un Boccaccio spacciatore di propri falsi all’accademico

Pietro da Moglio, al contiguo Checco Rossi ed all’austero Petrarca54. Ma,

salvo errore dello scrivente, egli va qui vicino a far compiere al

Certaldese un fallo molto simile.

Un secondo capitale argomento contro la tesi della falsificazione (nel

senso beninteso di esercizio retorico) boccacciana è rintracciato da

Patrizia Rafti, per la quale l’usus interpuntivo del grande novelliere nei

testi originali si contraddistingue per caratteri propri, laddove, stante

la nota soggezione del Certaldese agli exemplar da cui ricopiava, il

medesimo usus acquisisce per i testi altrui, incluso quello ilariano,

caratteri nettamente variabili:

All’interno dello Zibaldone [...] alla luce di queste considerazioni si può

tornare con un elemento di giudizio nuovo sulla vexata quaestio riguardante

l’autenticità della lettera di frate Ilaro [...]. L’analisi specifica

quantitativo-funzionale dei segni interpuntivi all’interno dell’epistola rivela

che, pur essendo essa distinta con sufficiente regolarità, minore è l’accuratezza

con cui i segni vi sono distribuiti rispetto ad altri testi sicuramente

autentici. Sia la virgola che il punto sono utilizzati infatti con criteri che

dimostrano una concezione molto superficiale della membratura del periodo: le

proposizioni si susseguono, giustapposte o inserite l’una nell’altra, in gruppi

più o meno complessi, ma spesso lasciati senza alcun segno distintivo interno che

ne rilevi i reciproci rapporti [...]. Un’altra difficoltà rispetto all’uso

54 Sulla complessa questione si aggiunge ora un importante reperto, scoperto daPaola Allegretti. Si tratta di un acrostico, dotato di suggestivi e persuasivicaratteri di simmetria, presente nella prima egloga dantesca, che il Boccaccio,presunto falsificatore, non mostrerebbe neppure d’aver riconosciuto: «SeBoccaccio, oltre che copista, fosse anche autore dell’egloga Vidimus in nigris, comesi è pervicacemente sostenuto, l’acrostico sarebbe stato evidenziato con unqualche espediente grafico. Non rilevato com’è, non riconosciuto dal Boccaccio,che se ne fa tramite innocente, garantisce la spettanza del testo ad altro autoreche lui, ossia a Dante»; P. ALLEGRETTI, Un acrostico per Giovanni del Virgilio, «StudiDanteschi», LXIX, 2004, pp. 289-93, p. 293.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

distintivo boccacciano costituisce il fatto che non si riscontri il punto

all’interno della proposizione con la funzione di separarne i membri in forma

implicita, funzione che gli è propria ed è normalmente rappresentata in tutti i

testi sicuramente da lui composti. In questo caso quindi l’analisi

dell’interpunzione sembrerebbe offrire un elemento a favore dell’autenticità

dell’epistola55.

Una pagina molto fitta riguarda gli errori ed i fraintendimenti di

copista, che rendono poco plausibile un’identità d’autore: del resto, che

Boccaccio fosse l’autore del falso fu già escluso da studiosi del livello

di Rajna e Vandelli, che pure nutrivano dubbi sulla danteità del testo.

Tali errori di copista, come traspare dal suo dettato, provocarono un

certo imbarazzo nello stesso Billanovich il quale, persuaso della sua

tesi, s’indusse peraltro a non darvi peso. I punti chiave sono:

1) Svista dapnatur per damnatur (§ 3);

2) Anomala variante nel testo: peteret ał quereret56 (§ 6)57;

55 P. RAFTI, Osservazioni sull’interpunzione del più antico codice boccacciano (Zibaldone laurenzianoXXIX.8), in Storia e teoria dell’interpunzione». Atti del Convegno internazionale di studi Firenze, 19-21maggio 1988, a cura di E. Cresti, N. Maraschio, L. Toschi, Roma, Bulzoni, 1992,pp. 49-63, pp. 57-8. Ancora: «[Il testo ilariano] rimane per la qualità e latipologia della distribuzione sempre distante dall’usus del Boccaccio»; EAD.,«Lumina dictionum», cit., p. 262.56 «Il codice ha qualcosa di [strano]; ał quereret, vale a dire aliter, od alias(farebbe il medesimo) quereret [...]. A noi è ben manifesto che ał quereret ebbe atrovarsi scritto in un ascendente, sia in margine, sia nell’interlinea, perindicare una variante del peteret. Un trascrittore credette invece d’aver a farecon un supplemento, e trasportò di peso le parole nel testo. Ci troviamo quidunque in cospetto di un fraintendimento materiale [...]. Coll’ał, non altrimentiche lezioni ricavate da un altro esemplare, si contrassegnavano proposte proprie.E di proporre una sostituzione ał peteret si vede subito un motivo; quid peteret s’eradetto un momento prima; e la ripetizione [...] dovette offendere qualchelettore»; P. RAJNA, Testo della lettera di frate Ilario e osservazioni sul suo valore storico, in Dante ela Lunigiana, Milano, Hoepli, 1909, pp. 245-6.57 Billanovich ritiene trattarsi di ripensamento o incertezza d’autore,spiegazione per nulla convincente. In realtà, già i primi e più attrezzatisostenitori della falsità dell’epistola non celarono gravi perplessità di frontea tali ricorrenze: «Taluni pochi errori che il testo della lettera presenta nonsi spiegano se non come errori materiali di lettura [...] ed errori siffatti alBoccaccio non sarebbero sfuggiti, se la lettera l’avesse compilata lui»; G.VANDELLI, «Bullettino della Società Dantesca Italiana», IX, 1902, p. 91.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

3) Possibile errore nell’intendere il segno tachigrafico per tantum,

inteso tñ e sciolto in tamen, alla base di un farraginoso raddoppio di

avversativa: sed loci tamen (§ 6);

4) Svista interogavi per interrogavi (§ 6);

5) Errore pensaris per pensaveris (§ 7);

6) Errore mea pars per una pars e svista Posquam per Postquam (§ 8);

7) Autocorrezione di admirarer in admirari (§ 10);

8) Errore videtur per videbatur (§ 10);

9) Svista tatummodo per tantummodo (§ 10);

10) Autocorrezione di inlustrium in illustrium (§ 11);

11) Possibile errore obiectos per abiectos (§ 11)58;

12) Svista subiuxit per subiunxit (§ 12);

13) Possibile errore prosequēt’, che va sciolto in prosequenter, ma in

realtà prosequerer o meglio prosequentibus (§ 12)59;

14) Errore di anticipo: trasmicterem originariamente di seguito a

prosequenter poi espunto (con tratto orizzontale) (§ 12);

15) Possibile errore postulatum per postillatum (§ 13);

16) Possibile omissione dopo Quod quidem di feci o altro equivalente (§

13);

58 Bellomo ritiene convincentemente possa trattarsi in tal caso di un mero lapsuscalami, cfr. ID., Il sorriso di Ilaro, cit., p. 213.59 Nota sul punto Vania Avellano: «Un nuovo esame autoptico del codice […]conferma che Boccaccio ha scritto prosequenter […]. L’avverbio […] pur non essendoregistrato dai dizionari di latino classico e medievale (antichi e moderni), ècomunque attestato – con il significato di poi, di seguito – in testi medievaliantecedenti l’epistola di Ilaro, per lo più monastici (elemento […] non del tuttoirrilevante dato il tipo di testo)»; V. AVELLANO, Per il testo dell’Epistola di frate Ilaro (parr.12-13), «Rivista di Studi Danteschi», IX, 2009, pp. 390-7, p. 394. Avellano faun’osservazione ulteriore, interessante ai presenti fini: «In corrispondenza delpasso […] compare un altro errore, in apparenza sanato perfettamente da Boccaccioin fase di trascrizione; prosequenter è seguito da trasmicterem (sbarrato con untratto orizzontale), che viene interpretato come errore d’anticipo del trasmicteremche segue poco più avanti […]. Boccaccio pare proprio inglobare erroneamente,copiando, due varianti dell’autore (mi riferisco alla frase quid aliter quereret) […].Crea difficoltà […] l’et che congiunge i due segmenti, là dove ci si aspetterebbeun vel o un aliter»; ivi, p. 395. Per queste e simili osservazioni, risultaantieconomico ritenere Boccaccio autore di un testo che, come copista, avrebbepoi così pedestremente martoriato.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

17) Svista Morello per Moruello (§ 14);

18) Svista oblatonem per oblationem (§ 14).

Si dirà, non tutti i lemmi sono ugualmente rilevanti, molti possono

legittimamente apparire marginali, scusabili se non addirittura

controvertibili (sebbene i più recenti editori si concedano a criteri fin

troppo conservativi nell’emendatio)60. Tuttavia ancor oggi di fronte a tale

messe, impressionante rispetto all’esiguità del testo, restano

incrollabili le osservazioni di Pio Rajna, che per primo ne avviò il

censimento:

[È da credere che] quando esso [scil. il testo ilariano] venne ad allogarsi nel

codice laurenziano aveva già dietro di sé un passato, che non c’è alcuna

necessità di ritenere lungo, ma che neppure si potrebbe, senza grave imprudenza,

pretendere brevissimo. Sta poi inconcusso che il documento non poté essere

fattura di chi lo trascrisse in quel codice [laddove] un esame attento mostra che

la scrittura è proprio la consueta [di Boccaccio]61.

Si aggiunga un’ulteriore conferma:

[Con riguardo al peteret ał quereret] Non si conoscono altri esempi di trascrizione

boccacciana in cui l’autore-copista abbia inserito correzioni o varianti

all’interno del testo, anziché nell’interlinea o a margine (o provvedendo alla

cassazione della parola errata): questo infatti, e solo questo, era l’uso

corrente. Anche Augusto Campana mi ha autorevolmente dichiarato di non conoscere

esempi analoghi di variante d’autore, e di non credere pertanto che il Boccaccio

possa essere, oltre che copista, anche l’autore della lettera ilariana»62.

60 Per una posizione aggiornata sulla questione testuale si veda B. ARDUINI, H. W.STOREY, Edizione diplomatico-interpretativa della lettera di frate Ilaro (Laur. XXIX 8, c. 67r), «DanteStudies with the Annual Report of the Dante Society», CXXIV, 2006, pp. 77-89.61 P. RAJNA, Testo della lettera, cit., pp. 246-7.62 G. PADOAN, Il progetto, cit., p. 11 e n. 24.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Anche per questa via, quindi, la paternità boccacciana dell’epistola

non acquisisce credito. Sul piano strettamente retorico, una forte

incongruenza è ben evidenziata da Padoan:

La trascrizione si ferma qui: ed è evidente che si tratta di un brano – la

prima parte di quell’epistola – poiché alla inscriptio sive salutatio (§ 1), all’exordium

(§§ 2-5) e alla narratio (§§ 6-14) non fanno seguito – come pure pretendevano le

norme dell’epistolografia medievale – le consuete petitio (in cui verisimilmente il

monaco avrà preso occasione dall’omaggio per richiedere al signore, secondo

l’uso, qualche grazia od esenzione di tasse per il convento), conclusio e datatio63.

Anche lo stile, retoricamente più dimesso, scolastico, elementare,

connotato da una piatta cultura chiesastica, non pare facilmente

attribuibile alla penna del Certaldese, specie, giusta la datazione di

Billanovich, nel 1348-‘49, allorché il grande novelliere mostra per prove

maiuscole di esservisi portato parecchie spanne al di sopra64.

Possiamo a questo punto aprire concisamente la pagina delle

incongruenze interne dell’epistola, le quali risaltano non solo se

confrontate con altri dati sicuri che conosciamo su Dante e le sue opere,

ma con le stesse convinzioni di Boccaccio, il quale parrebbe talora

63 Ivi, p. 8. Bellomo rettifica: «[Padoan sostiene] a torto che manca anche lapetitio, scambiandola per la sezione in cui devono necessariamente presentarsi lerichieste. In realtà i manuali chiarivano che: “petitio est persone mittentisexpressio, quid fieri vel non fieri velit convenienti affectione declarans. Necdicitur petitio, quia per eam aliquid postulatur, sicut nec salutatio, quiasempre salutem contineat, sed ab usu frequentiori nomen accepit” [tratto da: BONODA LUCCA, Cedrus Libani, a cura di G. Vecchi, Modena, Società Tipografica Modenese,1963, p. 76]». Peraltro, se una petitio vera e propria non era di rigore, ciò nontoglie che, se essa vi fu (il che non si può escludere), semplicemente non fucopiata.64 Asserisce Bellomo: «Si potrebbe controbattere tuttavia, con un po’ di eccessivasottigliezza, che la diversità riscontrabile potrebbe essere dovuta alla volontàmimetica di adeguamento ai livelli stilistici confacenti al falso monaco»; S.BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 214. Resta che una simile volontà mimetica dafalso monaco, unita alla reiterata rifusione che Boccaccio fece per decenni dellenotizie ilariane, ne farebbe un madornale falsificatore: il che oggi èirricevibile; cfr. F. BRUNI, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, IlMulino, 1990, p. 296 e n..

32

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

impigliarsi nelle maglie della sua stessa tela. Padoan coglie ottimamente

tale profilo:

Le notizie offerte dall’epistola ilariana non sempre sono coincidenti con le

conclusioni del Boccaccio: per il quale, non dico la Vita Nuova, ma neppure singole

rime in essa poi raccolte sono riconducibili alla puerizia di Dante [...].

Rimarrebbe poi incomprensibile, ove fosse invenzione boccacciana, l’indicazione

dell’intenzione di dedicare il Paradiso all’aragonese a fronte dei recisi giudizi

danteschi negativi su quel re e della diffusa notizia della dedica [...] a

Cangrande. L’imbarazzo che il Boccaccio onestamente dichiara di fronte ai dati

contraddittori, che egli pur si sente in dovere di registrare, toglie ogni dubbio

al proposito (di certo non ci si inventa una notizia [...] per poi metterne in

rilievo la contraddittorietà)65.

In conclusione, se è vero che l’impostazione retoricistica di

Billanovich è la via maestra per intendere i modelli ed i riferimenti

culturali di un testo medievale, è pur vero che il responso che se ne

ottiene appare in tal caso poco convincente, sintomo, se non si va troppo

lontano dal vero, dell’operare di un pregiudizio, sicché il metodo non fu

applicato in modo asettico ma, come traspare fin dalla prosa, monocorde,

alla ricerca di relazioni la cui direzione si presumeva a priori:

Ciò che convince Billanovich della correttezza della sua ipotesi è la perfetta

consonanza tra l’ideologia che emerge dall’epistola di Ilaro e quella di

Boccaccio, la cui preoccupazione costante [...] è appunto di conciliare la poesia

dantesca e la connessa opzione linguistica con la nascente cultura umanistica

dell’amico Petrarca. Per questo, quella del Billanovich si configura più come una

perorazione, che come una dimostrazione, prestando il fianco ad obiezioni

puntuali66.

65 G. PADOAN, Il progetto, cit., p. 10.66 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 213.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Ma è ormai tempo di rivedere l’idea stessa di falso dantesco (dicasi in

accezione tecnica, di testo non d’autore, non necessariamente composto e

fatto circolare con intenti fraudolenti). E l’ipotesi di un Boccaccio

falsario, sia pure nei limiti di una pia fraus finalizzata a difendere il

magistero artistico del vate fiorentino, si rivela poco convincente. La

sua adesione a Dante era nota e per promuovere la figura del grande poeta

il Certaldese avrebbe potuto scegliere altri strumenti, legittimi e più

consoni al suo proposito che non un malizioso esercizio retorico. A parere

di chi scrive, seppur non autografo, il Vat. Lat. 3199 è un monumento

autentico dell’apostolato dantesco di Boccaccio, un manifesto della sua

abnegazione e del profondo impegno personale. Di fronte a prove magistrali

di tale complessità, la tesi dell’esercizio retorico subdolamente

gabellato per autentico (ché questo fa Boccaccio, se lo si pone autore),

onde rifare il pedigree artistico all’esule, pare introdurre nella

questione un coefficiente eccessivo di banalizzazione.

Un sicuro punto critico riguarda la misura in cui il testo

dell’epistola sia storicamente congruente con i dati altrimenti noti, al

fine di valutare in che grado un falsificatore o un retore avrebbe dovuto

padroneggiarli per intessere un testo così ben congegnato da ingannare non

solo quei lontani posteri convinti della sua veridicità, ma anche quei

contemporanei trecenteschi contigui a Dante (Boccaccio a parte, Petrarca,

Benvenuto da Imola, l’Anonimo fiorentino, Filippo Villani) che lo

recepirono per autentico. Questo tipo di analisi si giova di un numero di

studi specialistici esiguo, di cui il maggiore è opera di Vincenzo Biagi

(1910)67. Utili aggiornamenti ed integrazioni vi ha apportato Padoan nel

corso di quasi un ventennio di studi (1975-‘93)68. Nel prosieguo

analizzeremo prioritariamente gli elementi che oggettivamente richiamano

una collocazione storica, in primo luogo la dedica ad Uguccione della

67 V. BIAGI, Un episodio celebre della vita di Dante. L’autenticità dell’epistola ilariana su documentiinediti, Modena, Formiggini, 1910. Seconda edizione, con aggiornamentobibliografico, Pisa, Nistri-Lischi, 1934, da cui si cita.68 Cfr. qui n. 6.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Faggiuola, che obbliga a porre il testo (o l’ambientazione del falso) tra

la metà del 1314 e i primi mesi del ’16, ossia il tempo in cui egli

esercitò il dominio su Pisa e Lucca, nonché la nomina di Federico

d’Aragona a re di Sicilia, della metà del 131469; non si prenderanno in

considerazione invece elementi che acquisiscono una precisa valenza solo

se visti alla luce di una tesi retrostante, come ad esempio la ricorrenza

del nome Ilaro che, per chi presuppone l’autenticità del testo, è elemento

confermativo poiché diffuso proprio nell’Ordine cui il monaco appartenne:

Un suffragio ad un Ilaro monaco [...] ce lo può dare [...] l’onomastica

dell’ordine benedettino, l’unico dove ricorra il nome Ilàro, (Ilaro, si badi, non

Ilario), anche nei secoli XIII e XIV, come si può vedere nelle storie monastiche

del Mabillon, dell’Armellini e di altri70.

Sarebbe un’impronta digitale della falsificazione (ora divenuta

scherzosa), per i sostenitori della tesi contraria:

Oh autore dell’epistola veramente Ilaro! Egli ride alle spalle di

generazioni di studiosi che non hanno fatto caso al suo nome parlante71.

1) Egregio et magnifico viro domino Uguiccioni de Fagiola: la salutatio è somigliante

ai titoli di magnificus et potens che i Pisani conferirono ad Uguccione,

diversamente dai predecessori che furono fregiati di altri appellativi,

quali excellens, sapiens o simili. Si aggiunga che la grafia è di forma

identica a quella che, tra le tante allora correnti (Ugucio, Uguccio,

Huguiccio, così come Faggiola, Fasola, ecc.), compare nei documenti pisani

coevi;

69 Bellomo afferma che: «[I dati interni dell’epistola] rinviano a un periodocompreso tra il 1312 e il 1315, vale a dire dopo la nomina di Federico d’Aragonaa re di Sicilia»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 205. In realtà Federicod’Aragona fu investito della dignità regia («rex Trinacrie») il 12 giugno 1314, aMessina.70 V. BIAGI, L’autenticità, cit., pp. 51-2.71 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 235.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

2) Humilis monacus de Corvo in faucibus Macre: denominazione particolarmente

felice, poiché alla concisione prescritta da Bono da Lucca abbina la

perfetta precisione topografica, come ebbero già a notare i massimi

eruditi locali, Repetti e Mazzini72;

3) Iste homo: la designazione anonima può richiamare varie circostanze,

dall’aderenza all’uso volgare, alla notorietà della persona citata presso

il destinatario (e la conoscenza di Dante con Uguccione è nell’ordine del

probabile più che del possibile; e più avanti Ilaro dice apertamente: illum

amicissimum vestrum iniunctum fuit), all’intento di celarne l’identità per non

irrilevanti ragioni di tutela dell’incolumità73;

4) Secundum quod accepi ab aliis, quod mirabile est, ante pubertatem inaudita loqui tentavit:

L’à dunque sentito dire e non è strano davvero che tal voce corresse anche tra

il clero, in quella diocesi di Luni, dove Dante nel 1306 aveva avuto rapporti col

vescovo Da Cammilla e con religiosi di Sarzana a comporre la pace tra il vescovo

72 I contributi di questi sommi eruditi sono censiti nel volume citato di Biagi e,in buona parte, si trovano riuniti nel volume collettivo Dante e la Lunigiana, cit..73 Il contesto storico offre utili elementi. Se, come propongono i sostenitoridell’autenticità, l’epistola fa riferimento ad un evento (il passaggio di Dantedalla Lunigiana, diretto nella regione padana nord-orientale) accaduto neiparaggi del 1314-‘15, possiamo osservare che, trovandosi l’esule non distantedallo stato fiorentino, che gli aveva comminato fin dal 1302 una condanna allapena capitale, era quindi evidente, trovandosi l’esule non distante dallo statofiorentino, l’opportunità per Ilaro di non nominarlo esplicitamente entro unacorrispondenza che, per avventura, avrebbe potuto cadere in mani ostili. Ma altridati si aggiungono a conforto: in primo luogo il trattato del 27 febbraio 1314,con cui re Roberto d’Angiò aveva vincolato Lucca ed i guelfi della Lunigiana, tracui i Malaspina, a non ricevere presso di sé i guelfi sbanditi ed i ghibellini.Ciò creava un ambiente locale gravemente rischioso per l’incolumità dell’esule.In più, nella vicina Sarzana dominava allora la fazione guelfa facente capo alvescovo Gherardino Malaspina (di origine lucchese, che tenne la diocesi dal 1312al 1318), proprio quel vescovo che Dante aveva recentemente infamato per fellonianella celebre epistola ai cardinali italiani (primavera del ’14): «Quidni?Cupiditatem unusquisque sibi duxit in uxorem, quemadmodum et vos, que nunquampietatis et equitatis, ut caritas, sed semper impietatis et iniquitatis estgenitrix. A, mater piissima, sponsa Christi, que in aqua et Spiritu generas tibifilios ad ruborem! Non caritas, non Astrea, sed filie sanguisuge facte sunt tibinurus; que quales pariant tibi fetus, preter Lunensem pontificem omnes aliicontestantur» (Ep., XI 7).

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

e i Malaspina. Si ricordino [...] i frati Guglielmo Malaspina, Guglielmo da

Godano, dei Minori74;

5) Partes ultramontanas: a partire da Boccaccio, comunemente ritenuto

riferimento a Parigi e, segnatamene, al suo celebre Studio. Tuttavia, dopo

i rilievi di Biagi, sulla scia del settecentesco Dionisi, vi è la

possibilità che Ilaro potesse riferirsi genericamente alla regione padana

transappenninica75. La coincidenza con il periodo in cui si pone la

seconda andata di Dante a Verona (1315-‘16 circa), secondo una nota tesi

74 V. BIAGI, L’autenticità, cit., p. 81. Constatata la genericità del riferimento diIlaro alle rime giovanili di Dante, non privo di imprecisione, non sembra intutto perspicua la critica di Bellomo sul punto, per cui Ilaro: «manifesta [...]un grado di aggiornamento sorprendente per un monaco che non vive in una città,ma in un monastero isolato su una altura. E tuttavia conosce il libello giovanilee amoroso di Dante [...] ed è aggiornato e sensibile rispetto a problematichedibattute nei circoli d’avanguardia dell’Italia settentrionale [...] soprattuttoquelle relative alla questione linguistica»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p.211. Tralasciando altri passaggi di segno opposto, per cui il monastero, ora nonpiù isolato, sarebbe invece: «di una certa fama perché dominava la Bocca di Magraed era punto di passaggio nel transito tra Toscana e pianura padana attraverso ilvalico del Cerreto»; ivi, p. 233, n. 81; è da notare che, visto il ripetutopassaggio di Dante per la diocesi lunense, l’aperta ammissione di notiziaindiretta, nonché l’evidente approssimazione della citazione, non si comprendeperché attribuire al monaco pretese di una conoscenza particolarmente penetrantedelle opere dantesche (di cui non fa mai neppure un nome) e addirittura dellequerelles linguistiche che sollevavano. Infine è assolutamente da condividere che icircoli proto-umanistici veneti fossero i più aggiornati sulle questionilinguistiche, ma si converrà che l’egemonia del latino per opere di dottrina erada tempo questione, nei suoi termini essenziali, di pubblico dominio presso laclasse clericale e laica alfabetizzata; né Ilaro si mostra propriamente in lineacon l’aristocratico distacco dal volgare di quei circoli à la page, nel qual caso,è da credere, avrebbe potuto simulare argomenti di maggior spessore che non unastupita acquiescenza: si concorderà che il quodammodo admirari dell’umile monacoè un po’ differente dal: «Nec margaritas profliga prodigus apris, / Nec premeCastalias indigna veste sorores» reperibile nel carme di un accademico purmoderato come Giovanni del Virgilio (Egl., I 21-2).75 Per completezza d’informazione, mi segnala con la consueta gentilezza LucaAzzetta che un lemma analogo, presente in un documento intorno ad Andrea Lancia,è riferibile ad Avignone: «in romana curia et partibus ultramontanis [...] priusconversabat», in ANDREA LANCIA, Ordinamenti, provvisioni e riformagioni del comune di Firenzevolgarizzati da Andrea Lancia (1355-1357), a cura di L. Azzetta, Venezia, Istituto Venetodi Scienze morali, Lettere e Arti, 2001, p. 22. Torna all’ipotesi precedente conun interessante lavoro, A. CASADEI, Considerazioni sull'epistola di Ilaro, «Dante. Rivistainternazionale di studi su Dante Alighieri», VIII, 2011, pp. 11-21. Ma, facendobase alle foci del Magra, qualora Dante fosse stato effettivamente diretto al dilà del vicino valico appenninico del Cerreto, di qui in pianura padana (e quindia Verona), ci si chiede in quale altro modo Ilaro avrebbe dovuto esprimersi.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

di Billanovich, accolta da Padoan e da Francesco Mazzoni76, risulta in tal

caso di notevole interesse;

6) Per Lunensem dyocesym transitum faceret: si deduce quindi un Dante che dal

sud o sud-est della Toscana avrebbe percorso la via Francigena nella parte

che da Altopascio saliva per la Versilia e scendeva a Luni. La strada

metteva quindi capo a Sarzana, città che, per noti motivi (cfr. qui n.

73), era in quel frangente ostile a Dante, inducendolo quindi a

raggiungere il più riparato monastero del Corvo: «Il Corvo non era sulla

strada, ma fuor di mano, per due ore e più di cammino»77. Di nuovo una

fortunata coincidenza se, come pare plausibile, Dante intorno alla prima

metà del 1315 era proprio in Toscana, non lontano dallo stato fiorentino,

a norma dell’Epistola XII, la quale attesta in quel periodo un atteggiamento

nuovamente conciliante della Signoria verso gli esuli non estremisti, che

Dante certamente osservò non lontano e con trepida partecipazione,

sebbene, giudicatene umilianti le condizioni, si spinse infine al rifiuto;

7) Monasterii supradicti se transtulit: «così si compiono le indicazioni di luogo,

e tutte esattissime»78;

8) Sive loci devotione, sive alia causa: l’inserimento della seconda opzione

lascia credere, se la lettera è autentica, ad un velato riferimento al

contesto ambientale in quel frangente molto critico per l’esule; se falsa,

sarebbe una felice pennellata d’autore;

9) Interrogavi quid peteret: puntualmente il retore, com’era compito del

foresterario, gli fa rispettare la regola benedettina: «docti fratres

eligantur, qui cum supervenientibus hospitibus loquantur»79;

10) Adhuc et michi et aliis fratribus meis: la dinamica dell’accoglienza è in

sintonia con le prescrizioni benedettine: «Omnes supervenientes hospites

tamquam Christus suscipiantur [...], et omnibus congruus honor exhibeatur;

76 Sul punto sia consentito rimandare a G. INDIZIO, Le tappe venete dell’esilio di Dante,«Miscellanea Marciana», XIX, 2004, pp. 35-64.77 V. BIAGI, L’autenticità, cit., p. 83.78 Ibidem.79 J. MABILLON, Annales Benedectini, II 430, citazione da V. BIAGI, L’autenticità, cit., p.41.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

maxime tamen domesticis fidei et peregrinis» (Reg. Ben., cap. LIII). In

accordo con le regole benedettine, i frati di un monastero dovevano essere

un certo numero, più di cinque (et michi et aliis fratribus meis);

11) Traxi illum seorsum ab aliis et habito secum deinde colloquio: «con linguaggio,

direi, tecnico; “Hospitibus autem cui non praecipitur nullatenus societur,

neque colloquetur” [...]; i monasteri meglio forniti avevano anche una

stanza speciale per i colloqui: il parlatorio»80;

12) Fama eius ad me per longa primo tempora venerat: singolare e fortunata

coincidenza, poiché tale passo può essere adattato alla prima sosta

lunigianese di Dante che, per essersi legato ai nomi più illustri della

regione, per cui conto svolse un’importante azione diplomatica, dovette

effettivamente avere una qualche risonanza. Anche la perifrasi temporale

si adatta come un guanto al decennio frattanto trascorso;

13) Ecce, dixit, una pars operis mei, quod forte numquam vidisti: ancora una volta

l’aderenza minuta alla situazione biografica dantesca solleva stupore. Nel

1315 l’Inferno era effettivamente divulgato e ne circolavano già da tempo

gruppi di canti, come mostrano ad esempio le precocissime riprese in Dino

Frescobaldi, Cino da Pistoia, Sennuccio del Bene oltre che nel

volgarizzatore ovidiano anonimo, un tempo identificato con Andrea Lancia;

mentre il Purgatorio con ogni probabilità non lo era ancora (nulla quaestio per

il Paradiso);

14) Talia vobis monumenta relinquo, ut mei memoriam firmius teneatis: accantonate le

ricorrenti illazioni circa il dono dell’originale manoscritto dell’Inferno

(così come i dubbi sull’incongruità di un Dante che fida in uno

sconosciuto per recapitare un suo dono ad Uguccione), che non hanno

appigli nel testo – Dante semplicemente consente che il monastero ne

acquisisca una copia; ed il dono ad Uguccione è opera di Ilaro, non del

poeta – merita attenzione un dubbio espresso da Bellomo:

80 Ibidem.39

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Non resta che pensare che il poeta permettesse di farne una copia, con la

conseguenza però di dovere ammettere o una sosta al monastero molto lunga, di

almeno un mese, dati i tempi richiesti da una trascrizione, ovvero un accordo per

ricuperare l’esemplare successivamente [...]. Il tempo di un mese è ottimistico,

ove si consideri che la trascrizione avrebbe dovuto essere compiuta con la cura

che si addiceva a un manoscritto di dedica [...]. Appare poi singolare la scelta

di servirsi di un monaco appena conosciuto per recapitare una copia a Uguccione,

a meno che non sia dovuta a particolari legami di quest’ultimo con quel

convento81.

Tale argomentare non sembra invero ricercare l’economicità: una sosta

al monastero prolungata innaturalmente per i lunghi tempi richiesti

dall’approntamento di un manoscritto di dedica è ipotesi gratuita, anche

perché trascura che il monastero non avrebbe potuto in nessun caso

confezionare un manoscritto di dedica, essendo poco più che un romitorio.

Semplicemente, con i minimi mezzi disponibili in loco, il manoscritto poté

essere slegato in fascicoli in modo da mettere all’opera più di un monaco,

circostanza comune per la copia di codici anche di qualche pregio (si

pensi all’usatissimo metodo della pecia adottato nelle città universitarie

come Bologna, ad esempio). La copiatura fu stringata, al caso con modici

ausili tachigrafici, in un codice non di pregio ma di servizio. Le

economie di tempo sono evidenti e in pochi giorni si sarà completata la

trascrizione. Con più agio si sarebbe poi proceduto al confezionamento di

un manoscritto di dedica, meglio nella prossima e più attrezzata curia di

Sarzana, da inviare al signore di Pisa – e quando Ilaro scrive ad

Uguccione, Dante ha ormai lasciato il monastero – dalla cui abbazia di S.

Michele degli Scalzi il romitorio dipendeva. Quanto alla trasmissione del

manoscritto al Faggiolano, che aveva legami familiari strettissimi proprio

coi Camaldolesi (altra fortunata coincidenza)82, si ricorda che Dante81 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., pp. 210-1 e n. 16.82 La lista degli elementi probanti è lunga: nel 1303 Uguccione concede beneficiai monaci Camaldolesi stanziati presso i possedimenti aviti su cui avevasignoria; nel 1306 consentì che suo fratello Federico si ascrivesse all’Ordine;nel 1308 concede un beneficio al monastero di Trivio, a sua volta situato presso

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

afferma di voler trasmettere copia (monumenta) della prima parte della sua

opera al monastero (vobis, quindi neppure al monaco, cui dà del “tu”, men

che meno ad Uguccione): null’altro83. Come traspare dal testo, infine,

Dante ha solo suggerito di accompagnare il manoscritto con delle chiose –

il che conferma definitivamente che l’intera operazione era nelle mani del

monaco e non dell’autore – sì da accrescere il valore del dono:

esattamente come farà egli più tardi con l’Epistola XIII;

15) Si vero de aliis duabus partibus [...] ab egregio viro domino Morello Marchione secundam

partem [...] requiratis; et apud illustrissimum Fredericum Regem Cecilie poterit ultima inveniri.

Nam sicut auctor asseruit se in suo proposito destinasse, postquam totam consideravit Ytaliam, vos

tres preelegit ad oblationem istius operis tripartiti: tralasciando, per ora, il tema

della decadenza dall’uso comune della lingua classica e dell’inizio della

Commedia in versi latini, che ritroveremo nell’ultima parte di questa

nota, concentriamoci su tale ultimo passaggio. Osserviamo che l’intenzione

manifestata da Dante assume una forma che, seppur mutata nel destinatario,

è molto simile a quanto apparirà nell’epistola a Cangrande, con una

vicinanza anche lessicale notevole:

De istis tria sunt in quibus pars ista quam vobis destinare proposui [...].

Deinde inquiremus alia tria non solum per respectum ad totum, sed etiam per

respectum ad ipsam partem oblatam» (Ep., XIII 19).

Giusta la tesi del falso, sarebbe del tutto ovvio ipotizzare ch’egli

traesse dall’epistola echi verbali per colorire dantescamente lo schema

i possedimenti di famiglia; nel 1313 Uguccione tenne l’adunanza di guerra perdeliberare la guerra contro Lucca nella chiesa di S. Jacopo di Poggio che, comeil monastero del Corvo, era soggetto ai Camaldolesi pulsanesi di S. Michele degliScalzi; nel 1315 Ludovico il Bavaro, a petizione del Faggiolano, attribuisce, conaltri privilegi, le terre di quella chiesa in feudo allo stesso Uguccione e aifratelli Francesco e Neri; un nipote di Uguccione (figlio di suo fratelloFrancesco che perì a Montecatini) è dei Camaldolesi nel 1350.83 Ricordiamo, con Biagi, che: «A quei tempi interessare ad un’opera lasollecitudine di frati, era il mezzo migliore per assicurarne, o accelerarne ladivulgazione. Del resto, insieme con questo pensiero, poté concorrere la volontàdi sciogliere verso gli ospiti cortesi un debito di gratitudine»; V. BIAGI,L’autenticità, cit., p. 85.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

ben tradizionale della dedica. Ma a cominciare da Billanovich, che ben

individuò tale aspetto84, ci si costrinse a tenerlo in sordina visto il

campeggiare dell’inopinata dedica ilariana a Federico d’Aragona di contro

proprio a quella scaligera, universalmente nota85. Siamo di fronte ad una

topica ragguardevole, tanto più sconcertante in chi, come abbiamo potuto

constatare, ha mostrato finora un’attenzione ed un’abilità mimetica non

comune86. Ma non è tutto. Dopo la morte di Dante non solo l’epistola a

Cangrande ma, tralasciando gli inediti De vulgari Eloquentia e Convivio, anche

la Commedia, nel Purgatorio e, al di là di ogni dubbio, nel Paradiso, lascia

deflagrare in più punti un giudizio negativo per il «novissimo Federico».

Occorrerebbe pensare allora ad un retore che, straordinariamente abile nel

ritrarre l’incontro tra un oscuro monaco ed il grande esule, sapesse poco

e male delle opere dell’autore, poco perfino del sacro poema.

Sul punto è stato agevole ricordare (Padoan) che Boccaccio stesso è il

primo a trovare contraddittoria una notizia di dedica che egli sapeva, per

autorevole tradizione, non rispondente al vero; il legame tra Dante e

Cangrande doveva essere divulgato in ambiente ravennate e veneto: veronese

84 «Qui mi limito a segnalare questi incontri tra la lettera di Ilaro e la letteraa Cangrande: “ad introdutionem oblati operis”, “ad ipsam partem oblatam”,“subiectum partis oblate” (Ep. XIII, 4, 6, 11), “ad oblationem istius operis” (Ep.di Ilaro, I 76); “pars ista quam vobis destinare proposui” (Ep. XIII, 6), “opus […]destinare intendo” e “opus ipsum destino” (Ep. di Ilaro, I 17-8 e 67)»; G. BILLANOVICH,La leggenda dantesca, cit., p. 108 e n..85 «Ma credo che siano coincidenze casuali, prodotte da ragioni di affinità diargomento»; ibidem. Ma il punto, specie se confrontato con altre meno stringentiagnizioni pur passate comodamente in giudicato, non è pacifico. Qualora vi fossedi mezzo un falsario, i prestiti citati appaiono in effetti tutt’altro cheinfondati: tuttavia poiché Boccaccio per unanime consenso degli studiosi (daParodi a Vandelli, da Billanovich a Mazzoni a Jenaro-MacLennan) raggiungeeffettivamente tardi l’epistola scaligera, ne segue che i precoci prestitiilariani, alla data della trascrizione laurenziana (1340 circa), dovranno esseresegnalati quali elementi gravemente contrari alla tesi del falso boccacciano.Vista la controversia tuttora in corso (ma cfr. almeno DANTE ALIGHIERI, L’Epistola aCangrande, a cura di E. Cecchini, Firenze, Giunti, 1995) si preferisce peraltronon impiegare tali riscontri in pro di qualsivoglia tesi attributiva.86 Francamente insignificante la motivazione offerta da Billanovich di fronteall’inusitata dedica aragonese: «Egli [scil. Boccaccio] neppure si allarma dellemaledizioni e dei disprezzi con cui Dante aveva depresso quel principe in tantesue pagine»; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 83.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

in primo luogo, ma anche veneziano, come dimostra il sonetto di Giovanni

Quirini, Segnor ch’avete di pregio corona; ambienti cui sarà da aggiungere quello

fiorentino, dove furono custodite le memorie dirette del poeta dai figli e

da un cenacolo di precoci estimatori: Andrea Lancia, ad esempio, conobbe

l’epistola a Cangrande come integralmente di Dante prima del 134287.

Scrive Enzo Cecchini, riferendosi nell’occasione alla presunta

falsificazione dell’epistola scaligera:

Un falso intenzionale mira ovviamente ad evitare ogni stranezza, a raggiungere

il massimo della credibilità88.

Eppure, i versi di Ilaro sono palesemente incongruenti perfino rispetto

al preteso oggetto della falsificazione, l’incipit della Commedia, il che,

si converrà, è un’enormità: pare difficile non accordarsi con Padoan

quando si chiede quale falsario avrebbe mai perso l’occasione di ricalcare

l’incipit ilariano sull’antecedente biblico dantesco, cioè Isaia, allorché

riferisce della lamentazione di Ezechìa (38, 10): «Ego dixi: in dimidio

dierum meorum vadam ad portas Inferi».

Saverio Bellomo, impostando il proprio contributo sull’ipotesi che il

falsario sia Giovanni del Virgilio (2004), giunto di fronte alla necessità

di trovare una spiegazione plausibile a tale incongruenza, si riferisce a

quanto opinato un tempo da Rajna89:

Allora lo scambio di destinatario del Paradiso va considerato intenzionale

[...]. E si capisce. Nell’ambiente legato a Mussato, lo Scaligero, pur87 Cfr. il fondamentale studio di L. AZZETTA, Le chiose alla «Commedia» di Andrea Lancia,l’«Epistola a Cangrande» e altre questioni dantesche, «L’Alighieri», XX, 2003, pp. 5-73.88 DANTE ALIGHIERI, L’Epistola a Cangrande, ed. Cecchini, cit., p. XVII.89 P. RAJNA, Testo della lettera, cit., p. 266: «O sarebbe mai con un proposito ostileallo Scaligero che l’autore della lettera scrisse quel ch’egli scrisse,suggellando l’asserzione delle tre dediche [...]. Diventa allora intelligibile,pare a me, l’intrusione fatta di Federico. Lo scopo essendo di escludere, non sistette a badar troppo per il sottile, se colui che si surrogava era, oppur no,persona veramente adatta. Cane morì nel 1329; ed io riterrei probabile ches’avesse di mira lui vivo [...]. Resulterebbe di qui un dato cronologico [...].La lettera dev’essere stata fabbricata poco dopo la morte di Dante».

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

ghibellino, era però il grande nemico di Padova [...]. Questa osservazione induce

anche a ritenere la stesura della lettera anteriore alla morte di Cangrande,

avvenuta nel 1329, con il vantaggio di stringere la cronologia più dappresso a

Giovanni del Virgilio [scomparso intorno al 1327]90.

Si viene così ad enfatizzare un’inedita valenza antiscaligera del testo

ilariano in buona misura autoreferenziale, priva di presupposti. A tale

riguardo, non è chiaro in base a cosa ritenere Del Virgilio così

visceralmente legato a Mussato e a Padova da fargli commettere una

stridente topica pur di realizzare un intento polemico antiveronese di

cui, dalle scarne notizie biografiche e dalle opere oggi note, non risulta

essere mai stato affetto91. Anzi. È a tutti noto che nell’egloga di

risposta a Dante (1320) Del Virgilio propone, tra i grandi temi epici

degni del canto latino del poeta, le disfatte che Cangrande aveva

clamorosamente inflitto proprio ai Padovani (1314-‘17); il che, si vorrà

consentire, non è quanto di più filopadovano e antiscaligero si possa

desiderare. Inoltre, sebbene da posizioni moderate, il professore

bolognese non esitò a manifestare la propria riprovazione per l’opera

maggiore di Dante (almeno la parte a lui già nota, le prime due cantiche),

suggerendogli pressantemente di adottare i modelli epici della latinità90 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 233. Per motivare l’eccentrica preferenzaaccordata a Federico d’Aragona, oltre a richiamare le note benemerenze ghibellinedel re siciliano, Bellomo scrive: «né forse fu ininfluente la fama che a Veneziaaveva goduto l’Aragonese, proprio in ambiente letterario, quando nel 1316 donò aldoge Giovanni Soranzo una coppia di leoni, che presto generarono tre leoncinivivos et pilosos»; ivi, p. 234; cfr. G. MONTICOLO, Poesie latine del principio del secolo XIV nelcodice 277 ex Brera al R. Archivio di Stato di Venezia, «Il Propugnatore», III, 1890, pp. 244-303, pp. 244-7.91 Se legami di sensibilità culturale, corroborati da una postrema egloga (1327ca.), sono da mettere nell’ordine del certo, le poche circostanze materiali a noinote ci obbligano a non andare molto oltre; si pensi che Del Virgilio incontròMussato solo una volta, di sfuggita, alle porte di Bologna, nella tarda estatedel 1319, in occasione di un’ambasceria guidata dal poeta padovano per richiedereaiuti contro l’assedio di Cangrande. Del Virgilio non si trattenne con lui né loinvitò per ospitalità poiché, commisuratevi le proprie condizioni materiali, nonsi ritenne all’altezza di tanto personaggio (cfr. l’egloga a Mussato Tu modo Pieriisvates redimite corymbis, in particolare i vv. 105-65, che denunciano a chiare lettereche i due non si erano in pratica mai visti e che si conoscevano semplicementeper fama, molto in grazia della mediazione di Rainaldo dei Cinzi).

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

classica, ben più consoni all’altezza della materia e in linea con le

proprie convinzioni accademiche.

Un atteggiamento tutto diverso dimostra invece Ilaro, le cui remore

sono quelle trite di un modesto scolastico attardato, non certo quelle dei

circoli proto-umanistici à la pàge, con cui Giovanni aveva sensibilità

comune; remore, per di più, presto accantonate, ancora una volta in

contraddizione con l’atteggiamento ben più combattivo del grammatico

bolognese che, paventando un: «Sunt forsan mea regna tibi despecta?» (Ecl.,

III 77), non esita a minacciare: «Me contempne: sitim Frigio Musone

levabo, scilicet – hoc nescis? – fluvio potabor avito» (Ecl., III 88-9). Un

passo di Luis Jenaro-MacLennan apre la strada ad una più attenta

storicizzazione del tema delle dediche evidenziandone, in relazione ai

dubbi espressi sul punto dallo stesso Certaldese, un fattore ben noto di

dinamicità:

Boccaccio certainly knew that a work could be dedicated without being finished,

and that an author could change his mind at some stage of the work and dedicate

it to some patron other than the one he first intended. This can easily be

illustrated from Boccaccio’s dedications of some of his own works»92.

92 L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle, cit., p. 115. Lo studioso si riferisceai casi del De mulieribus e del De casibus. In tale più realistico contesto, la dedicaall’Aragonese, inconcepibile alla luce di un falso che di norma rifuggedall’inverosimile, può essere più distesamente esaminata. Sulla scia di Biagi,Giorgio Padoan ha fornito le tessere più convincenti: su Federico si hannogiudizi (ma collettivi) non lusinghieri nel De vulgari (1304, cfr. DvE, I XII 5); enell’ultimo libro del Convivio (1307-‘08, cfr. Conv., IV VI 20); mirati, ma con toniancora moderati, in Purg., VII 119; con accenti roventi in Par., XIX 130-5 e XX 61-3.Dal 1304 al 1308 Federico non è oggetto di strali, piuttosto è accomunato aipotenti dell’epoca in una generale deplorazione dei tempi. L’Inferno, che copre unlasso che va all’incirca dal 1308 al 1314, non presenta giudizi di sorta, mentreuna prima menzione in Purg., III 116 è, contrariamente a quanto si è cercato disostenere, largamente elogiativa. Federico ed il fratello Alfonso vi sono citatiquali «l’onor di Cicilia e d’Aragona», appellativo presto degradato a terminetecnico da interpreti preoccupati di preservare una fantomatica monoliticitàdelle opinioni dantesche, e pertanto ritenuto né elogiativo né dispregiativo (ilche, se anche fosse, avrebbe invece il suo peso); ovvero, ancor menoconvincentemente, è stato abbassato ad espediente retorico: visto che a parlare èl’avo dei due sovrani, Manfredi di Svevia, secondo i vulgatori di questa tesiquesti non potrebbe che elogiare i suoi discendenti. Un assurdo evidente: a far

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Non è chiaro infine il motivo per cui Del Virgilio, esercitandosi

retoricamente anni dopo la morte di Dante, quindi a sacro poema

integralmente pubblicato, appuntasse innaturalmente la narrazione sulla

sola prima cantica, dando le altre due per venture. Dovremmo certo pensare

ad una felicissima mossa creativa (che, come altre già incontrate, si

adatterebbe però più ad un forte novelliere che ad un buon grammatico ma

mediocre letterato quale il bolognese), con anche un’aderenza biografica

non meno che brillante. Da un punto di vista storico c’è un solo argomento

che si oppone all’esistenza del monaco Ilaro: l’assenza di documenti,

laddove un reperto scritto sarebbe stato desiderabile. La circostanza dà

parlare i personaggi del poema, qui come altrove, è sempre Dante; simularel’intervento di un membro illustre di una casata, o addirittura del direttocapostipite, serve in più occasioni al poeta per conferire verosimiglianza allatesi che dialogicamente espone. Non di rado sono denunciati con accenti polemicile malefatte e i vizi di familiari e discendenti del personaggio stesso: i casidi Forese Donati, che condanna con toni apocalittici il fratello Corso, e di UgoCapeto, che esecra i discendenti della sua stessa stirpe, esentano da ulterioriesemplificazioni. Non si vede quindi perché il solo Manfredi avrebbe dovuto usareun surplus di retorica cortesia in pro dei suoi discendenti nolente Dante. Infine, aprescindere dal significato di onor, che Dante stia elaborando un episodio permolti versi gradito al monarca siculo-aragonese è evidente per prove benmaiuscole: in primo luogo in quel canto si certifica la discendenza legittima diFederico da Manfredi di Svevia laddove, in quel frangente di accesa ostilità, ipolemisti al soldo di Roberto d’Angiò propalavano la notizia della suaillegittimità. Secondariamente, in quel canto Dante rende plasticamente nulli glieffetti della scomunica papale (perché non sorretta da zelo cristiano): infattiil poeta fa salvo Manfredi, morto scomunicato, atteggiamento doppiamente graditoa Federico poiché, non solo suo nonno, ma anch’egli viveva scomunicato. Come sivede, l’apertura di credito da parte dell’esule oltrepassa certe angustieinterpretative, risultando del resto naturale verso chi aveva dapprima appoggiatoArrigo VII e ne aveva poi raccolto, con Uguccione della Faggiola, l’eredità: nonsarà da trascurare che nel corso del 1315 si andava preparando un trattato dialleanza proprio tra quei due massimi alfieri dell’imperialismo italico,circostanza con cui si può ritenere provata ad abundantiam la possibilità di unatemporanea inclinazione dell’esule verso entrambi, proprio e solo nel tempo incui il retore ilariano, con un tempismo eccellente, avrebbe ambientato il suofalso, nel breve lasso tra il 1314 e il 1315. In quel momento Federico edUguccione raccolgono, più di quanto non avesse ancora fatto Cangrande, l’ereditàdi Arrigo VII, scendendo l’uno in guerra aperta contro l’odiatissimo re Roberto(seconda metà del 1314), l’altro attaccando frontalmente Firenze e ponendosiapertamente sotto la bandiera imperialista del neoeletto Ludovico il Bavaro(1315). Che Dante mal riponesse la propria fiducia lo dimostreranno i fatti, maciò non toglie che in quel frangente, e solo in quello, il poeta ne degnasseentrambi.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

da pensare ma non va forzata oltre il lecito. Infatti, come hanno

avvertito i massimi eruditi locali, da Podestà, a Sforza, a Mazzini e a

Biagi, l’archivio del monastero non è pervenuto93. Sono pervenuti invece

documenti, in serie pur essa molto lacunosa, riguardanti i rapporti tra il

Monastero e la chiesa di S. Michele degli Scalzi che vi aveva signoria,

dove appaiono naturalmente non tutti i frati, ma il Priore, il Procuratore

e altri frati che occasionalmente partecipassero agli atti in qualità di

testimoni. Se quindi l’assenza di Ilaro dalle carte superstiti può

suscitare legittimo disappunto, non se ne potranno sensatamente trarre

conseguenze capitali. A tal proposito, sarà il caso di notare che Dante

stesso ci dice irrefutabilmente di essere passato dalle immediate

vicinanze del Monastero, quando scrive:

Noi divenimmo intanto a pie’ del monte; / quivi trovammo la roccia sì erta, /

che ’ndarno vi sarien le gambe pronte. / Tra Lerice e Turbìa la più diserta, / la

più rotta ruina è una scala, / verso di quella, agevole e aperta (Purg., III 46-

51).

Il poeta parla palesemente di cosa vista, né ciò risulta messo in

discussione dai moderni commentatori; ebbene Lerici era, al tempo, un

piccolo castello nelle immediate vicinanze della foce del fiume Magra, a

pochissima distanza dal Monastero di S. Croce: e di questo, bisognerà pur

tenere conto94.93 L. PODESTÀ, Del Monastero di Santa Croce del Corvo, «Atti e Memorie della R. Deputazionedi Storia patria per le Provincie Modenesi e Parmensi», VI, 1896, pp. 117-31; G.SFORZA, Castruccio Castracani degli Antelminelli in Lunigiana, ivi, VI, 1893, pp. 299-327; U.MAZZINI, Il Monastero di S. Croce del Corvo, in Dante e la Lunigiana, cit., pp. 211-31; V. BIAGI,L’autenticità, cit..94 Più che condivisibile la chiosa apposta, quasi un secolo fa, da FrancescoTorraca: «Lerici: poco distante da Sarzana, dove Dante fu nel 1306 [...] e dallafoce della Magra, dove [è] il convento di S. Croce del Corvo. Ci è giunta,conservataci dal Boccaccio, un’epistola di frate Ilario, “umile monaco del Corvo”[...]. Per molto tempo s’è giudicata apocrifa l’epistola, e inventato di [sana]pianta il racconto; ma ora si comincia a pensare che in questo possa essere unfondo di verità, e che Dante poté capitare al monastero del Corvo tra il 1314 eil 1315. In relazione con l’epistola è notevole la menzione di Lerici e Turbia;non pare che Dante descriva, qui, per sentito dire»; DANTE ALIGHIERI, La Divina

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Il contributo di Bellomo ha il pregio di aver per primo fissato

l’attenzione sul versante strettamente filologico, passando al pettine

stretto i pochi versi ricordati da Ilaro, riferendo del presunto incipit

latino della Commedia. L’obiettivo dello studioso, che ha perseguito con

acribia un percorso innovativo ed originale in relazione alla questione

ilariana, è dimostrare come le fonti utilizzate per la composizione di

quei versi fossero pressoché ignote a Dante. Su tali basi pare lecito

concludere per la attribuzione ad un retore di quella sezione

dell’epistola e, per estensione analogica, dell’intero testo ilariano.

Ricostruendo i presupposti materiali di quel tormentato incipit,

osserviamo che esso, nei termini in cui ne riferisce Ilaro, fa riferimento

a due circostanze: a. una progressiva evoluzione della riflessione

linguistica in Dante, che lo porta da un’iniziale adesione al latino quale

mezzo espressivo preferenziale per opere di dottrina, ad un orientamento

finale di segno opposto, constatato il deplorevole stato culturale dei

suoi tempi; e b. un concreto tentativo di perseguire la strada

linguisticamente canonica, ben presto accantonato. Con riferimento alla

prima circostanza, osserviamo che Dante stesso, all’altezza della Vita nova

(1293-‘94 circa), mostra di accogliere la preminenza del latino,

riservando elettivamente al volgare la materia amorosa95. Solo un decennio

Commedia, nuovamente commentata da F. Torraca, Milano, Società Editrice DanteAlighieri, 19153, nota al verso.95 «E non è molto numero d’anni passati che apparirono prima questi poete volgari;ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondoalcuna proportione. E segno che sia picciolo tempo, è che se volemo cercare inlingua d’oco e in quella di sì, noi non troviamo cose dette anzi lo presentetempo per .CL. anni. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di saperedire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì. E lo primo checominciò a dire sì come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere lesue parole a donna, alla quale era malagevole d’intendere li versi latini. Equesto è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò siacosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore»;Vn, XVI 4-6. Dante compì al riguardo un’evoluzione notevole, partendo da posizionilinguistiche ben tradizionali, come testimonia proprio la Vita nova. D’altro lato,come nota Padoan, il De vulgari, scritto in latino, la parte iniziale del Convivio (IIX 5), dove si riconosce il latino essere «più bello, più virtuoso e più nobile»,la Commedia, il cui titolo riconosce al volgare una posizione umile rispetto allostile alto della tragedìa, per non dire, infine, della Monarchia, delle Epistole e del

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

dopo, con il Convivio e il De vulgari, si aggiungono le tessere fondamentali

di una riflessione linguistica giunta ad esiti radicalmente nuovi; per

tutti, valga il celebre passo del Convivio (I IX 5).

Con riferimento al secondo tema, un tentativo di abbozzo in latino poi

interrotto, disponiamo di una testimonianza non dirimente ma neppure

irrilevante, risalente, attraverso il nipote Filippo, al grande cronista

Giovanni Villani, e quindi ad un tempo precedente l’esilio da Firenze:

Audivi, patruo meo Johanne Villani hystorico referente, qui Danti fuit amicus

et sotius, poetam aliquando dixisse quod, collatis versibus suis cum metris

Maronis, Statii, Oratii, Ovidii et Lucani, visum ei fore iuxta purpuram cilicium

collocasse. Cumque se potentissimum in rithmis vulgaribus intellexisset, ipsis

suum accomodavit ingenium.

Che Dante abbia provato ad emulare i grandi della latinità classica

senza esito è quindi circostanza da ritenere verosimile96, e d’altronde

perfettamente in linea con le concezioni dei generi letterari e

linguistiche allora correnti che imponevano, in via preliminare, un

serrato confronto con la lingua dotta. Giunto alla parte centrale della

propria dimostrazione, scrive Bellomo:

Affrontiamo la questione da un’altra specola, appuntando la nostra attenzione

sui due esametri e mezzo, che, se costituiscono un prodotto di Dante stesso,

rappresentano il portato più rilevante dell’epistola: «Ultima regna canam,

fluvido contermina mundo, / spiritibus que lata patent, que premia solvunt / pro

meritis cuicunque suis...»97.

De situ, testimoniano in Dante persistenti concessioni alla superiorità del latino.96 FILIPPO VILLANI, Expositio seu Comentum super Commedia Dantis Allegherii, a cura di S.Bellomo, Firenze, Le Lettere, 1989, p. 77. Sul punto, che potrebbe ancheoccultare rimandi allusivi al poema e quindi non rappresentare la realtà in modoobiettivo ma letterariamente ricostruito, cfr. la rec. all’edizione bellomiana adopera di L. C. ROSSI, «Medioevo e Rinascimento», XV, 1990, pp. 447-52, inparticolare pp. 451-2. Naturalmente, «letterariamente ricostruito» non può essereidentificato tout court con falso.97 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 219.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

È la prima volta che il tema dell’autenticità dell’epistola di Ilaro

viene portato sul terreno strettamente filologico, mai affrontato con

tanta perizia in passato. A parziale scusante di tale scarsa attenzione,

si possono annoverare le notevoli assonanze tra i versi ilariani e quelli

danteschi, in particolare della prima egloga a Del Virgilio:

Tunc ego: “Cum mundi circumflua corpora cantu / astricoleque meo, velut infera

regna, patebunt”» (Ecl., II 48-9).

Come si può vedere, in due soli versi ricorrono ben cinque lemmi

ilariani: mundus, fluere (nelle forme aggettivali derivate, con e senza

prefisso), cantus (verbo e sostantivo), regna e patere. Non si fosse trattato

di Dante, tali riscontri sarebbero stati giudicati sufficienti ad

apparentare i due testi in un’identità d’autore (Biagi, Padoan, Cecchini).

Ma anche in caso di falso si è sempre rilevata, da Rajna a Vandelli a

Billanovich, la stretta parentela dei due orditi, ché l’ipotetico autore

avrebbe falsato Dante con Dante98. Bellomo, che mira ad attribuire a Del

Virgilio l’epistola, preferisce enfatizzare più sfumate assonanze

delvirgiliane, mettendo in secondo piano le consonanze strettamente

dantesche, ritenendole, al caso, labili, come di fronte alla congiunzione

dantesca di regna con patere, scalzata da una ricorrenza senechiana di lata

con patere99.

Con ordine. Il primo esametro Ultima regna canam, fluido contermina mundo viene

sezionato in due sintagmi: da un lato ultima regna, dall’altro contermina

mundo. Il primo è ricondotto univocamente a Claudiano, (quasi) certamente

98 Billanovich parla del «primo esametro formato dal Boccaccio “Ultima regna canamfluvido contermina mundo”, che egli ricalcò sui termini di Dante “mundicircumflua corpora”»; ID., La leggenda dantesca, cit., p. 76, n. 1.99 Riproponendo le osservazioni di Rajna (cfr. ID., Testo della lettera, cit., p. 263),Bellomo considera con favore la ricorrenza di tre lemmi delvirgiliani distribuitinei primi cinque versi del carmen indirizzato a Dante, quali: cantibus, pro meritis eregna; cui vengono aggiunti, sempre seguendo Rajna e con un po’ di larghezza,letifluum e confinia; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro., cit., p. 224.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

ignoto a Dante e quindi prova di non autenticità: «[...] Cur ultima regna

quiescunt» (De raptu Proserpinae, I 224). Ribadisce Bellomo:

Le concordanze elettroniche, tra i loro tanti vantaggi, presentano anche quello

di renderci discretamente sicuri dell’unicità dell’occorrenza nell’ambito

dell’intera letteratura. Al più si incontrano sintagmi simili, ma non identici,

in contesti non analoghi, come Chaldaei ultima regni in Lucano, Phars., VIII 226 e

ultima tellus in Ovidio, Metam., IV 627100.

Senza voler intaccare l’importanza della ricerca, resta che il ricorso

a Claudiano non può considerarsi vincolante, sia perché il sintagma non è

in posizione omologa, sia perché l’accostamento dei due termini era

oltremodo diffuso in autori talvolta molto vicini a Dante. La suggestione

combinatoria poté essere suscitata anche da alcune delle seguenti

ricorrenze:

1) Quamobrem postea, cum proelio victus in ULTIMA REGNI refugisset et mori decrevisset (A.

Gellio, Noc. Att., XVII XVI 5);

2) Arua super Cyri Chaldaeique ULTIMA REGNI (Lucano, Bell. Civ., VIII 226);

3) ULTIMA REGNI sui adhuc intacta esse, inde bello vires haud aegre reparaturum (Q. C.

Rufo, Hist. Alex., V I 5);

4) Calliope, Indorum populos et REGNA canamus / ULTIMA terrarum tellus aspergitur Indi (R.

F. Avieno, Perieg. 1294-6);

5) ULTIMA Tarquinius Romanae gentis habebat / REGNA (Ovidio, Fasti, II 686-7);

6) Ad Tartara olim REGNAque, o nate, ULTIMA (Seneca, Her. Oet., 1765).

In un tale contesto il ricorso a Claudiano diviene ipotesi suggestiva

ma non affatto dirimente, oltre che poco economica. Veniamo al contermina

mundo:

Anche la clausola del verso è preconfezionata [ricalcando] la clausola del

verso seguente [...]: «...et omnis / undique diffusi regio contermina mundi». Il

100 Ivi, p. 223.51

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

verso proviene da un’epistola metrica inviata al Doge di Venezia Giovanni Soranzo

in occasione della stupefacente pesca di un pesce spada. Ma ancora più

stupefacente per noi [...] è apprendere che l’autore del componimento risponde al

nome di Albertino Mussato [...]. Per quanto non siano necessarie prove

documentarie per dimostrare l’improbabilità che Dante conoscesse e utilizzasse

proprio un testo del Mussato, si può aggiungere, ad abundantiam, che l’epistola

[deve essere posteriore al 1312, allorché salì in carica il doge] e fu

probabilmente di alcuni anni più tarda [1314 circa]101.

La clausola è leggermente imperfetta, nonché di accesso impervio, ed è

ipotetico porre che la vedesse Del Virgilio. Non solo. Non sarà da

tralasciare che l’invio di epistole gratulatorie ed ambasciate,

nell’ambito del conflitto che dal 1309 aveva opposto la Repubblica di S.

Marco alla Santa Sede, riprese, dopo circa un lustro di isolamento, nei

primi mesi del 1314, allorché, revocata la scomunica clementina, si

riaprirono i canali diplomatici con Venezia; sarà da ricordare che furono

proprio Padovani e Ravennati, per ovvi motivi, a riattivare

tempestivamente le relazioni diplomatiche interrotte: e se per i primi

l’azione di Albertino Mussato è accertata, per i secondi è almeno

possibile la presenza di Dante, giusta l’epistola a Guido da Polenta (dopo

gli interventi di Padoan, guardata con meno sospetto dagli studiosi, tra

cui – ciò che importa ai presenti fini – lo stesso Bellomo102), risultando

101 Ivi, pp. 223-5. Parlò di quest’epistola, in termini non edificanti, GuidoBillanovich: «Encomiastica fino all’adulazione l’epistola VI al doge GiovanniSoranzo [a] celebrazione di un fatto portentoso (“De pisce invento habentegladium ad similitudinem ensis”), degno in tutto del miracolo di potenza egiustizia della Serenissima. Molto interessante è qui il prologo in prosa, nelquale Albertino si dichiara non solo “istoriarum scriptor”, ma anche [...] “artispoetice professor”»; ID., Il Preumanesimo padovano. Il Trecento, in Storia della cultura veneta,5 voll., Vicenza, Neri Pozza, 1976-‘87, II, pp. 19-110, a p. 79. Per GuidoBillanovich l’epistola appartiene ad un genere «fisico-naturale, un po’ tronfioper la goffa erudizione»; ivi, p. 80. Il prologo in parola e la relativa epistoladogale si trovano pubblicati in G. MONTICOLO, Poesie latine, cit., pp. 270-97.102 «Il Petrocchi [...] sostiene che questa affermazione [scil. “Verone perquadriennium continuum operi studiose vacavit” di Filippo Villani] sia untentativo di ovviare all’“errore” del Boccaccio [...] ma di errore forse non sitratta se, come pare, è autentica l’Epistola a Guido da Polenta»; S. Bellomo, inFILIPPO VILLANI, Expositio seu Comentum, cit., p. 39 e n. 58.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

non impossibile l’eventualità ch’egli udisse leggere o entrasse in

contatto con altri testi gratulatori d’occasione, quali quelli di Mussato

o di altri, approntati a fini diplomatici.

Sul punto, salvo errore di chi scrive, resta da dire che non si

conoscono altre ricorrenze in clausola di contermina immediatamente seguito

dal sostantivo mundus103. Posto tuttavia che va considerato non solo ciò

che è in clausola, a pena di restringere ingiustificatamente la ricerca

delle fonti, specie in un autore di non eccelsa sensibilità umanistica

come Dante, resta una notevole distanza grammaticale e di senso: infatti

in Ilaro contermina è neutro plurale accordato a regna, mentre in Mussato è

femminile singolare accordato a regio. Su tali basi, non sarà quindi

impossibile riconoscere l’influenza di un’altra fonte in versi, che può

aver suggerito l’accostamento dell’aggettivo contermina al sintagma

(ultima) regna, e che porta il nome ben dantesco di Lucano: «Inde peti

placuit Libyci contermina Mauris / regna Iubae» (Phars., IX 300-1).

Rivolgiamoci ora alla ricorrenza di lata con patere; scrive Bellomo:

Quanto all’immagine dei regni che si spalancano [...] mi pare indubbio che

risenta del seguente verso delle Troades di Seneca [cui regna campi lata Thessalici patent,

v. 878]. Le concordanze elettroniche ci forniscono una sola occorrenza di patere

combinato con l’aggettivo latus [nell’improbabile Silio Italico] (Punica, XVI 674)[104]. Piuttosto sarà da considerare l’espressione contigua [...] nella prima

egloga dantesca, che però rispetto a quella senecana mi pare meno pertinente105.

Sul punto occorre una riflessione preliminare: Bellomo, nel censire le

rispondenze tra Ilaro e Seneca, pone in marcata evidenza anche il lemma

regna oltre a quello oggetto d’esame, lata patent, creando un effetto

fortemente suggestivo («cui regna campi lata Thessalici patent»), dando la

103 Osserviamo che la differenza di caso (mundo vs. mundi), diviene ora nonrilevante, diversamente che per Lucano (regna vs. regni, che a parità ditrattamento avrebbe forse potuto, per economicità, scalzare Claudiano).104 La fonte è: «secura pericli / litora lata patent, et opima pace quieta / stattellus». Si potrà correggere il [XVI 674] indicato da Bellomo in [XVI 683].105 Ivi, p. 224.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

ricorrenza di ben tre lemmi ilariani in un solo verso senechiano. Fatto

sta che regna è stato già utilizzato poco prima in servizio di Claudiano

(ultima regna), sicché delle due l’una: o si rinuncia al collegamento col De

raptu Proserpinae (e a Claudiano) o ci si limita al lata patent: come traspare

dal suo dettato, lo studioso sceglie questa seconda strada106; e

giustamente, vista l’attrazione di regna e ultima. Ancora una volta la

fonte, se si dimostrasse univoca, rimanderebbe ad un retore distinto da

Dante, poiché si suppone che il poeta fiorentino non conoscesse Seneca

tragico:

Circa la conoscenza o meno di Dante delle tragedie di Seneca [...] un fatto è

certo: l’unico riferimento ad esse sicuro, perché esplicito, compare nell’Epistola a

Cangrande e ha tutta l’aria di essere un generico riferimento che non prova

minimamente una conoscenza diretta [...], [d’altronde] anche se l’Alighieri

conobbe le tragedie, pare però da escludere [...] una sua conoscenza diretta

della recensio E [tradizione del testo delle tragedie di Seneca riscoperta da

Lovato Lovati a Pomposa intorno all’ultimo quindicennio del XIII secolo e rimasta

in circolazione ristretta nei circoli proto-umanistici padovani]. Ebbene ancora

una volta cogliamo con le mani nel sacco il nostro falsario, poiché egli dimostra

di conoscere Seneca proprio secondo il testo di E, che al v. 878 delle Troades

legge appunto patent, contro la lezione iacent della concorrente famiglia A107.

Poiché, come si mostrerà, Dante poté ricavare il sintagma in questione

da una fonte a lui ben nota, non ci addentreremo in questa sede in una

questione intricatissima quale quella qui appena adombrata da Bellomo. Non

ci si può tuttavia esimere da due brevi osservazioni: in primo luogo la

conoscenza diretta di Seneca tragico in Dante è oggi ampiamente condivisa

dagli specialisti, ed è communis opinio, restando l’opinione contraria quasi

isolata a Giorgio Brugnoli, il quale mostra sul punto la massima

intransigenza perché ciò gli è viatico per servire ad un’altra tesi

106 Ne sia prova l’accostamento a Silio Italico, in cui Bellomo trova: «litora latapatent», senza alcuna vicinanza a regna.107 Ivi, pp. 225-6.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

minoritaria di cui era alfiere: la falsità dell’epistola a Cangrande.

Sarebbe arduo dar conto dettagliatamente delle ragioni di ciascuno

studioso, né è oggetto del presente lavoro; si rimanda pertanto ai loro

contributi per più precisi riferimenti108.

Infine, non si può in tutto concordare con l’altra affermazione sulla

netta distinzione tra le due famiglie A ed E che ci tramandano le tragedie

di Seneca: se la famiglia E era rara a cavallo tra XIII e XIV secolo in

Italia, nonché sconosciuta in Europa, era però diffusa proprio e solo nel

108 Dei ripetuti interventi in cui l’autore s’impegnò per arginare il dilaganteaffermarsi della tesi contraria, cfr. da ultimo G. BRUGNOLI, Percorsi della tradizionemanoscritta di Seneca, in Seneca nel bimillenario della nascita. Atti del Convegno nazionale di Chiavaridel 19-20 aprile 1997, Pisa, ETS, 1998, pp. 77-107. Dei precedenti da segnalare: ID.,La tradizione manoscritta di Seneca tragico alla luce delle testimonianze medievali, «Memoriedell’Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche eFilologiche», VIII, 1957, pp. 201-87; ID., Le tragedie di Seneca nei Florilegi medioevali,«Studi Medievali», I, 1960, pp. 138-52; ID., «Ut patet per Senecam in suis tragediis»,«Rivista di Cultura Classica e Medievale», IV, 1963, pp. 146-63; ID., Dante - «Inf.»XXX 13 sgg., «L’Alighieri», VII, 1966, pp. 98-9; ID., Cena Tydei, «Giornale diFilologia Italiana», XVII, 1986, pp. 221-34. Si dà di seguito, cronologicamentedisposta, la serie ormai imponente dei principali studi specialistici che, purcon varietà di argomenti, si mostrano inclini alla tesi, oggi largamentecondivisa, di una conoscenza diretta di Seneca tragico: ampio ma dispersivo, E.PROTO, Dante e i poeti latini, «Atene e Roma», XI, 1908, pp. 23-48 e 222-36; XII, 1909,pp. 7-24 e 278-90; XIII, 1910, pp. 79-103 e 149-62; ragionatissimo, E. G. PARODI,Le tragedie di Seneca e la «Divina Commedia», «Bullettino della Società Dantesca Italiana»,XXI, 1914, pp. 241-52; di limitata importanza, F. GHISALBERTI, L’enigma delle Naiadi,«Studi Danteschi», XVI, 1932, pp. 105-25 e ID., La Quadriga del Sole nel «Convivio»,«Studi Danteschi», XVIII, 1934, pp. 69-77; un cenno in F. MAZZONI, in velatapolemica col primo contributo di Brugnoli, Guido Da Pisa interprete di Dante e la sua fortunapresso il Boccaccio, «Studi Danteschi», XXXV, 1958, pp. 157-98, p. 93: «E non entrosu quanto vien detto un po’ di fretta, circa la conoscenza che Dante ebbe diSeneca»; epigrafica, S. MALOSTI, Dante traduttore?, «Convivium», XXXII, 1964, pp. 242-59; di più ampio spettro, ma con utili cenni su Seneca, A. RONCONI, Per Danteinterprete dei poeti latini, «Studi Danteschi», XLI, 1964, pp. 5-44; decisivo, G. CONTINI,Filologia ed esegesi dantesca, ora in ID., Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976, pp. 113-42; ricco di informazioni e ben ragionato, C. ZAMPESE, «Pisa novella Tebe»: un indizio dellaconoscenza di Seneca tragico da parte di Dante, «Giornale Storico della LetteraturaItaliana», CXV, 1989, pp. 1-21; di impostazione monografica, G. MEZZADROLI, Seneca inDante. Dalla tradizione medievale all’officina dell’autore, Firenze, Le Lettere, 1990; ancora C.VILLA, Le tragedie di Seneca nel Trecento, in Seneca e il suo tempo. Atti del Convegno nazionale di Roma-Cassino 11-14 novembre 1998, a cura di P. Parroni, Roma, Salerno, 2000, pp. 469-80;EAD., Rileggere gli archetipi: la dismisura di Ugolino, in Leggere Dante, a cura di LuciaBattaglia Ricci, Ravenna, Longo, 2003, pp. 113-29. Più recentemente, T. LEUKER,L’«orazion picciola» dell'Ulisse dantesco e un'invettiva di Seneca, «L’Alighieri», XXXII, 2008, pp.91-4.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

distretto (ben dantesco) tra Padova e Verona, tra i circoli proto-

umanistici locali109; resta inoltre che la famiglia A pura era in Italia

pressoché sconosciuta al tempo di Dante, non se ne hanno testimonianze se

non dalla seconda metà del Trecento e, per gli anni immediatamente

precedenti, solo la si ipotizza per abduzione110, al punto che il suo

archetipo (α’) è stato finora, e non persuasivamente, a malapena

congetturato111. Invece, com’è communis opinio tra i filologi classici, in

quel tempo in Italia era diffusa una famiglia mista, denominata AE, basata

su codici della famiglia A interpolati da lezioni della concorrente, e più

autorevole, famiglia E112. In conclusione, non si vuol certo affermare che

109 Scrive uno dei massimi specialisti, Alexander MacGregor, che: «Le esplicitetestimonianze storiche [...] indicano soltanto l’Italia del Nord come unica sededella tradizione-E dal XIV secolo fino alla metà del XV. Soltanto [dal 1438 sitrovano testi di tale famiglia] a nord delle Alpi [...]. Per i precedenticentocinquant’anni, i discendenti localizzabili di “E” sono tutti nord-italiani[...] i MSS-E di provenienza sicura sono ristretti a sette città della vallePadana, in un quadrilatero formato da Cremona, Verona, Vicenza e Venezia. Ilcentro di quest’area rimane Padova, sede del circolo pre-umanistico di Lovato eAlbertino Mussato [...]. È affascinante, in ogni caso, vedere questo manoscritto[scil. l’Etruscus o Pomposianus, capostipite della famiglia E] diventare – per cosìdire – un sasso gettato in uno stagno: è da Padova che l’influenza di “E” siirradia in un piccolo cerchio»; A. MACGREGOR, L’abbazia di Pomposa, centro originario delletragedie «E», «La Bibliofilia», LXXXV, 1983, pp. 171-85, pp. 175-8. Di quest’autore,si veda anche ID., The manuscript tradition of Seneca’s tragedies: ante renatas in Italia litteras,«Transactions and Proceedings of the American Philological Society», CII, 1971,pp. 327-56.110 Scrive Richard H. Rouse, nel suo fondamentale contributo sulla tradizione A:«The surviving “pure” A manuscripts from fourtheenth century in Italy [...]descends from the β or English family. Although these specific manuscripts datefrom the middle of the [XIV] century, they provide a sound basis on which toassume that a β text had been brought, probably from England, to Italy somewhatearlier, quite possibly many years earlier»; R. H. ROUSE, The «A» text of Seneca’stragedies, «Revue d’histoires et des texts», I, 1971, pp. 93-121, p. 118.111 La congettura è di un altro specialista, Giancarlo Giardina, ma non ècondivisa da Rouse, che scrive: «Giardina tends to the theory that they [scil. itesti contaminati A + E] descend from a single A text which included copiousvariae lectiones from the E tradition [...]; he postulates the existence of anindependent A text in Italy descending from the primitive α, which designates α’.However, it seems to me that the number and the significance of the variants inquestion are not of sufficient magnitude to require the existence of α’»; R. H.ROUSE, The «A» text, cit., pp. 116-7.112 Scrive Giancarlo Giardina, cui si deve l’attuale e più autorevole edizionedelle tragedie di Seneca: «La tradizione manoscritta del XIV secolo registra piùdi cento codici, tranne tre tutti da includere nella recensio interpolata (A), più

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Dante conobbe sicuramente la recensio E (né d’altronde è minimamente certo

che la conoscesse Del Virgilio), ma solo che poté in via ipotetica

entrarvi in contatto, poiché fin dal 1303 il poeta, a norma del De vulgari e

di altri notevoli elementi113, sosta ripetutamente proprio nell’area in cui

allora andava diffondendosi quella famiglia. Non solo. Anche qualora ciò

non fosse, sarebbe da sapere (e noi non lo sappiamo) quale tipo di

interpolazioni avessero la fonte o le fonti (con somma probabilità del

tipo misto AE) di Seneca tragico che il poeta poté consultare, prima di

escludere con certezza che gli fosse sconosciuta una lezione piuttosto che

un’altra. Si aggiunga, a tal proposito, che manoscritti di Seneca tragico

erano sicuramente reperibili anche al di fuori del circolo lovatiano-

mussatiano, come dimostra il caso del dotto padovano Geremia da

Montagnone. Il contesto è obiettivamente molto complesso e non consente

conclusioni univoche in alcun modo. Visto che la ricorrenza proposta dal

Bellomo non è né in clausola né strettamente consequenziale (c’è Thessalici

frapposto tra i due lemmi) e neppure metricamente coincidente114, è aperta

la possibilità ad una derivazione di lata con patere che non rimandi

necessariamente a Seneca tragico; essa non è affatto rara, compare ben due

volte, ad esempio, nei libri iniziali delle Heroides di Ovidio: «[...]

timeo tamen omnia demens et patet in curas area lata meas» (Her., I 72) e:

«quaque patent oculis aequora lata meis» (Her., II 122).

Giunti al premia solvunt, vi è invero un certo imbarazzo nell’affrontare

un sintagma che Dante (o il retore ilariano) sviluppa in base ad un

concetto biblico talmente noto da risultare pressoché anodino, rendendo

esattamente quasi tutti del tipo contaminato AE»; G. GIARDINA, La riscoperta di Senecatragico tra Quattrocento e Seicento, in Seneca nella coscienza dell’Europa, a cura di I. Dionigi,Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 172-83, pp. 173-4.113 Cfr. G. INDIZIO, Le tappe venete, cit..114 Osserviamo, con Bellomo, che il verso senechiano è metricamente disomogeneorispetto al verso ilariano: trimetro giambico il primo, esametro il secondo.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

quindi non facile la ricerca di fonti ad hoc115. Tuttavia, limitando il

discorso al profilo filologico, scrive Bellomo:

Per la clausola del secondo verso, soccorre ancora Claudiano, ma qui quello

ancora più desueto dell’In Eutropium (XX 211): «sic hostes punire solent, haec

praemia solvunt / excidiis»116.

Premesso che l’insistita ricerca di fonti tanto desuete finisce col

provocare effetti collaterali indesiderati, poiché oltre un certo dosaggio

si finisce col mettere fuori gioco non solo Dante ma anche il non proprio

eccelso Del Virgilio, l’area semantica claudianea appare invero piuttosto

distante da quella ilariana117; certamente la ricorrenza è di qualche peso

e si potrebbe passarla in giudicato ove non vi fossero altre vie

accessibili. Ma si danno di seguito alcune ricorrenze (la prima è

prosastica) di praemia con solvere, cui forse Dante poté ricorrere più

agevolmente, attraverso la fonte diretta o excerpta, florilegia e sententiae, che

in quel raro testo claudianeo:

1) Cicerone: «Atque utinam, patres conscripti, [civibus] omnibus solvere

nobis praemia liceret!» (Phil., XIV 30);

2) Virgilio: «premia posse rear solvi»(Aen., IX 254);

3) Ovidio: «Tempus adest [...] / praemia (sunt promissa mihi dignoque

nepoti) / solvere et ablatum terris inponere caelo» (Met., XIV 808-11).

Infine, per il sintagma pro meritis si osserva che, ove lo si leghi a

praemia invece che a solvere, si schiudono accostamenti più economici,115 La lezione biblica era da lungo tempo proverbiale; si ritrova, ad esempio, inEccl., XVI, 15; Ad Rom., II, 6; Gen., IV, 13; Jos., XI, 20; Job., VI, 2; Esth., XVI, 18;Ad Hebr., X, 29 (nell’elencazione mi servo di G. PADOAN, rec. a A. ROSSI, Il carme diGiovanni del Virgilio a Dante, «Studi sul Boccaccio», II, 1964, pp. 475-508, p. 482 e n.1).116 S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 224. Si potrà correggere la citazione da [XX211] in [XX 219].117 Scrive Bellomo: «Si noti [...] come qui il sostantivo praemia sia amaramentedeclinato a indicare il bottino di guerra, ricompensa di orrori e delitti e a untempo punizione del nemico. Si avvia cioè a comprendere anche la significazionenegativa implicita nell’impiego del vocabolo come vox media»; ibidem.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

sebbene prosastici, di quelli visti fin qui, sulla scia del concetto

proverbiale biblico (Matteo 16, 27: «Reddet unicuique secundum opera

eius»):

1) Dante: «Et cum premia sint meritis mensuranda iuxta illud evangelicum

“Eadem mensura qua mensi fueritis, remetietur vobis [Matth. 7, 2]”»

(Mon., II III 5);

2) Tommaso d’Aquino: «Postulatio, ut praemia pro meritis retribuantur» (Lect.

Sup. I Ep. B. Pauli ad Tim., II, lect. 1);

3) Rabano Mauro: «sed pro meritis aeternitatis praemia» (Comm. in Eccl., VII

11);

4) Historia fratris Dulcini Heresiarche: «Ut pro meritis eorum premia digna

reciperent» (Cap. XI)118.

In un contesto a tal misura proverbiale, attribuire a Claudiano e, per

tale via, a Del Virgilio il monopolio nell’accostamento di praemia con

solvere pare forse eccessivo.

In aggiunta a quanto visto fin qui, si deve accennare ad un tema, ben

altrimenti vasto e complesso, riguardante le modalità con cui talvolta si

attribuiscono presunte fonti alla biblioteca di un autore medievale,

traendo conseguenze capitali da meri accostamenti di lemmi, spesso a

ricorrenza unica e privi di altri riscontri; ma, soprattutto, senza la

debita attenzione verso il profilo culturale dell’autore, né per

l’effettiva accessibilità dei testi portatori delle pretese agnizioni. Ai

presenti fini un caso emblematico è dato proprio da Del Virgilio. Non può

sfuggire che le fonti proposte da Bellomo come materiali consultati per

congegnare retoricamente gli esametri pseudodanteschi annoverano in appena

due versi e mezzo testi rarissimi e quasi introvabili. Il caso di

Claudiano è rivelatore. In alcune edizioni dello scambio eglogistico (a

cura di Albini-Pighi, Cecchini, ecc.) viene segnalato che il sintagma118 Quest’ultimo caso valga semplicemente come indice di un sintagma mediamentediffuso, non raro.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

delvirgiliano «Frondentes ripas [...]» (Ecl., III 4) è ripreso da Claudiano

e dal suo «[...] frondentibus [...] ripis» (Paneg. de sex. Cons. Hon. Aug., 195).

La proposta merita molta attenzione, perché potrebbe legittimamente

persuadere – chi ritenga Giovanni del Virgilio autore dell’epistola

ilariana – che egli conoscesse Claudiano. In realtà si tratta di un caso

ben sintomatico del dispositivo attribuzionistico cui si è accennato. La

suggestione claudianea non si basa su di un calco perfetto ché, a tacere

della diversa collocazione nel verso e del disomogeneo contesto

letterario, le differenze strutturali tra i sintagmi sono evidenti (si

pensi, per contrasto, alla ben altra pregnanza del virgiliano «[...]

divine senex, a sic eris alter ab illo eris alter ab illo» di Ecl., V 49,

mediato da Servio: «Videtur allegoria [...] hinc est tu nunc eris alter ab

illo» e traslato di peso da Giovanni nel suo «Fortunate senex, tu nunc

eris alter ab illo» di Ecl., III 33); essa si fonda invece sul semplice

accostamento dei lemmi frondens e ripa, avendo cura di espungerne

l’intermedio (umidus), non omogeneo alla combinazione desiderata. Se altri

fattori congiurassero per una conoscenza di Claudiano da parte di Del

Virgilio (una seconda ricorrenza claudianea, una generale affinità

culturale, una specifica vicinanza contestuale dei lemmi nei due testi,

ecc.), la via per passare in giudicato l’agnizione sarebbe meno

disagevole, ma: a) non si danno ricorrenze claudianee in altre sezioni

delle opere delvirgiliane; b) Claudiano è un autore generalmente poco noto

nel Medioevo e, in quanto panegirista d’occasione, culturalmente non

contiguo al grammatico bolognese; c) anche a tacere della palese

imperfezione del calco, il contesto bucolico dell’egloga delvirgiliana è

molto distante dall’arido servilismo laudativo che pervade i versi del

poeta greco-latinizzato al console Onorio Augusto. Sul punto, altre due

osservazioni s’impongono.

La prima, di portata generale, c’induce a dubitare sistematicamente

delle pretese agnizioni quando non debitamente sorrette da sicuri

riscontri testuali ovvero da solide affinità culturali e di genere

60

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

letterario tra l’autore e la sua (presunta) fonte; diversamente, è

frequente assistere a proliferazioni agnitive ai limiti

dell’indocumentabile. Per Del Virgilio, ad esempio, dati per scontati

Virgilio, Lucano e Stazio, come pure i ben divulgati Orazio e Ovidio,

tracce confortanti sono state portate (Velli) per Arnolfo di Orleans,

Giovanni di Garlandia, Draconzio, Servio, Eberardo Alemanno, forse

Fulgenzio119; muovendosi invece sulla base di meri, e quasi sempre isolati,

accostamenti combinatori di lemmi, gli studiosi (Albini-Pighi, Brugnoli-

Scarcia, Velli, ecc.) sono andati più lontano, sommando insieme una

quantità pirotecnica di autori, inverosimile per un modesto grammatico:

dai non del tutto impossibili Iuvenco, Sedulio, Prudenzio, Alano di Lilla,

Persio, si è poi proseguito - con varia gradazione nella proposta - con:

Aratore, Giovenale, Properzio, Valerio Flacco, Paolo d’Aquileia, Gregorio

Magno, Marziale, Catullo, Venanzio, Terenzio, Livio, Cicerone, Cesare,

Marziano Capella, Fedro, Silio Italico, Calpurnio, Matthieu de Vendome,

Seneca, Ennodio, Quintiliano, Plauto, Tacito, Gellio, Macrobio, Nemesiano

e Svetonio. Il che denuncia un’anomalia metodologica alla fonte: un simile

profilo obbligherebbe infatti a riconoscere a Giovanni del Virgilio una

così ampia conoscenza e una tale perizia in ingegneria preumanistica del

verso da doverlo affiancare, se non preporre, al circolo dei pionieri

Lovato, Albertino e Rolandino. Non solo. Poco o nulla si è tenuto conto

dell’effettiva accessibilità dei testi degli autori proposti, come pure

del respiro culturale invero limitato del bolognese, e delle fonti

indirette disponibili, incluse le rigogliose tradizioni scoliastiche (in

particolare di Virgilio, Orazio, Terenzio, ecc.).

Considerando più da vicino l’agnizione claudianea osserviamo che, salvo

rarissimi prestiti da Ovidio, nell’occasione Giovanni rielabora pressoché

esclusivamente materiale virgiliano, su tutte: Ecl., II, V e VII, e Georg.,

IV; testi che, nella costruzione dell’egloga delvirgiliana, pienamente

119 Fondamentale G. VELLI, Il linguaggio letterario di Giovanni del Virgilio, «Italia Medioevale eUmanistica», XXIV, 1981, pp. 137-58.

61

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

soddisfano quanto ad ambientazione, contenuto, personaggi e lemmi120. Non è

tutto. Teniamo presente che nei primi 15 versi della virgiliana Ecl., VII

troviamo ben 8 lemmi (viridens, ripa, iuvencus, agnus, capella, respondere, resonare, umbra)

ricorrenti nei soli 11 versi iniziali dell’egloga delvirgiliana, cui

aggiungiamo il ben noto calco dell’incipit (Forte sub [...]); un affollamento

rivelatore proprio lì dove cadrebbe l’inusitato inserto claudianeo (v. 4).

Infine, frondens è un lemma frequentissimo in Virgilio (Georg., II 119 e IV

24; Aen., III 25, V 129, VI 208, VII 135, ecc.) e collocato regolarmente

in ambienti testuali vicinissimi all’egloga di Giovanni121.

Al termine di questo lavoro l’autenticità dell’epistola può dirsi

minimamente acquisita né, per converso, può esservi più spazio per un

esercizio retorico boccacciano122, sebbene non si potranno evitare futuri

120 Sul tema scrive Bellomo: «Contro la mia tesi [i.e. la ascrivibilità delvirgiliana o peridelvirgiliana dell’epistola ilariana] si schiera ora [2006] G.Indizio […], ripercorrendo obiezioni già ampiamente discusse e superate, maindicando anche qualche fonte accessibile a Dante in alternativa a quelle da meindicate: giudichi il lettore della loro maggiore o minore pertinenza, senzaconfondere il campo del possibile, con quello del probabile»; S. BELLOMO, Dante lettoda Boccaccio, «Letture Classensi», XXXVII, 2007, pp. 31-6.121 Naturalmente, ricombinando diversamente tra loro i diversi lemmi si potrannoottenere sintagmi diversi e percorrere altri iter combinatori. Un esempio che dà dapensare si trova in Avieno, geografo del IV secolo, in particolare per l’idea dicantare regni lontani: «Calliope, Indorum populos et regna canamus. / Ultimaterrarum tellus aspergitur Indi / fluctibus Oceani; primam coquit hanc radiissol, / sol Hyperionius, sol magni gratia mundi»; Perieg., 1294-7.122 Non in tutto condivisibile l’affermazione di Billanovich il quale, volendodifendere Boccaccio dalla taccia di falsificatore avanzata da Aldo Rossi per loscambio eglogistico, dovette a sua volta giustificare il presunto falso ilariano,ragion per cui scrisse: «Certo il Boccaccio imbastì nella lettera del monacoIlaro una sua versione fantastica delle peregrinazioni dell’esule Dante e dellaformazione della Commedia; ma tenne questa lettera così celata dentro il suosolito Laurenziano 29. 8 che essa vi rimase sepolta per secoli»; G. BILLANOVICH,Giovanni del Virgilio, cit., p. 22. No, le notizie pseudo-boccacciane non rimaserosepolte affatto. Abbiamo visto più volte come Petrarca ne fosse in qualche misuradestinatario e perciò a conoscenza, così come lo furono coloro che attinsero alTrattatello e, più tardi, alle Esposizioni. Si segnalano, nella lista dei recettoriancora trecenteschi l’Anonimo fiorentino: «Avea cominciato l’Autore questa suatripartita Commedia in questi versi latini: Ultima regna canam fluvido conterminamundo, / Spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt /Pro meritis cuicumque suis, etc.; etgià distesa la materia alquanto inanzi, quando mutò consiglio, avendo rispettoche i signori et gli altri uomini et potenti avean quasi del tutto abbandonatigli studj liberali et filosofichi, et quasi veruno era che a scienzia attendesse;et se pur veruno v’attendea, facea i libri degli autori traslatare in volgare»;

62

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

rilanci riproposti con i consueti toni di novità. L’opinione di

Billanovich e dei successivi suoi settatori va però definitivamente

archiviata.

Sebbene l’opinione di chi scrive sull’attendibilità dell’epistola sia

palese, in questa sede si proporrà conclusivamente un’ipotesi di lavoro

volta a reperire elementi contestuali in pro di chi aderisca all’opposta

sponda attributiva. Partendo dall’assunto che nella catena di trasmissione

al Certaldese, che trascrive intorno al 1340, vi furono sicuramente un

abile retore (non necessariamente un falsario, anche se neppure

quest’ipotesi si possa escludere a priori) e un mediatore ilaro-boccacciano

che recepì il testo e lo trasmise a Boccaccio, si procederà a fissare i

requisiti verosimili da rispettare al fine di comporre una candidatura

credibile al ruolo.

Per quanto la proposta di Billanovich sia da ricusare sul piano del

merito, su quello del metodo è indubbio, per chi scrive, che essa resti la

sola via perseguibile e che anzi la lezione di quel venerato maestro vada

semmai estesa. Billanovich ha brillantemente mostrato come viatico

essenziale per indagare i testi medievali sia una convincente ricognizione

dei generi, delle fonti e dei referenti letterari cui ogni autore di

chiosa a Inf., I, proemio; Benvenuto da Imola: «Secundo, quia autor, vidensliberalia studia, potissime poetica, esse deserta a principibus et nobilibus,quiprincipaliter solebant in poeticis delectari, et quibus opera poetica solebantolim intitulari, et ob hoc opera Virgilii et aliorum excellentium poetarum jacereneglecta et despecta, cautius et prudentius se reduxit ad stilum vulgarem, cumjam literaliter incoepisset sic: Ultima regna canam, fluvido contermina mundo, Spiritibus quaelata patent, quae premia solvunt, Pro meritis cuicumque suis, etc.»; chiosa a Inf., I 10-2;Filippo Villani: «Quibus respondetur poetam metro eroyco ceptitasse hoc modo,videlicet: Ultima regna canam fluvido contermina mundo, spiritibus que lata patent, que premia solvuntpro meritis cuicumque suis. Iamque in opere pluribus processerat odis; deindepensitatione meliori eidem placuit cum stilo simu consilium: animadvertitsiquidem vir prudens phylosophiam et ipsam poesim, similiter et liberalium artiumstudia fore a temporalibus dominis penitus derelicta, qui huiusce studia multipendere solebant»; chiosa a Inf., I Pref.. Tutti, come si vede, accolgono laretorica falsificazione di Boccaccio, dal che è anche ragionevole dedurre che nondovett’essere lui il retore-falsario: ben difficilmente infatti il Certaldeseavrebbe agito in modo tanto subdolo e malizioso da trarre ininganno similipersonalità, con molte delle quali era legato da stretti rapporti di sodalità eamicizia.

63

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

quell’età si ispira; pertanto, se di un retore-falsario del Trecento si vorrà

seriamente discutere, si dovrà dimostrare aver questi agito non solo come

un abile centonista (il che, grazie alle combinazioni allusive ed alle

derive di senso virtualmente infinite che ogni testo offre, potrebbe

portare fin troppo lontano); ma anche come un medievale del Trecento: e

questo richiede di ricostruire un contesto culturale, metodi di lavoro ed

exempla senza misurarsi coi quali si finirebbe col proporre figure di

retore-falsari forse troppo scaltrite e vicine ad una sensibilità

umanistica, se non modernizzante. Billanovich stesso, quando contribuì a

demolire lo stereotipo del Boccaccio falsario delle Egloghe, e Domenico De

Robertis, quando tolse ogni spazio alla falsificazione della Tenzone con

Forese, ci hanno diffidato dal prestare un eccesso di subdola perizia ai

retori-falsari del Trecento, visto che essi ne erano culturalmente

sprovvisti. Quale che fosse la natura dell’operazione letteraria in gioco

(dicasi un esercizio retorico volto a magnificare un autore diletto, la

cd. pia fraus, ovvero il puro e semplice falso mosso da intenti

speculativi): «Il Trecento non è ancora l’età dei falsi macchinati per

pura speculazione letteraria»123.

Il primo nodo da affrontare, preliminare a qualsivoglia esame di un

testo, falso o retoricamente costruito, è il cui prodest? Se un autore

produsse un non irrilevante sforzo per comporre l’epistola, dovette avere

un fine. Sotto tale profilo la candidatura di Boccaccio è preferibile a

quella di Giovanni del Virgilio. Più che credibile, iuxta propria principia, la

motivazione offerta da Billanovich:

Gli allarmi di Giovanni del Virgilio contro l’uso del volgare, che traducevano

convinzioni che si erano indurite nelle scuole [...] rimettevano in discussione

per il Boccaccio l’esemplare venerato della Commedia [...]. Naturalmente egli

ricorse subito all’apologia del volgare che Dante aveva esposto sulla soglia del

Convivio, e ne ricavò come trama della difesa che immaginò di dover fare di Dante e

123 G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 135.64

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

di se stesso il lamento che Dante lì aveva espresso contro i nobili che

abbandonavano l’arte delle lettere, lasciandola scadere tra i vili plebei124.

Un passaggio che, nella sua salda concisione, mette fuori gioco proprio

Del Virgilio. Se l’epistola ilariana appare agli studiosi, a tutti gli

studiosi, fino almeno a Padoan, un tentativo di difesa della scelta del

volgare in pro di Dante e della Commedia (autentico o meno non rileva per

ora), non si vede come potesse alternativamente esserne autore un Giovanni

Del Virgilio, notoriamente contrario alla veste linguistica del poema

sacro, ovvero un qualsiasi grammatico o retore di analoga o più rigida

osservanza accademica, magari pre o proto-umanistica, di tipo «padovano».

Se quel dettato non fu una difesa, ma una palinodia scherzosa o d’altro

genere, l’ipotesi di lavoro resta tutta da dimostrare. Un primo tassello

dello pseudo-Ilaro è in realtà proprio l’aperta e disponibile sensibilità

verso l’uso del volgare, di cui si abbozza palesemente una

giustificazione, risalendo al deplorevole stato culturale dei tempi125.

Un secondo elemento che caratterizza il falsario dell’epistola riguarda

il sicuro ed ampio curriculum dantesco. È questo, si vedrà, un elemento

discriminante, e ancora una volta la candidatura del Certaldese si lascia

preferire ad ogni altra. Boccaccio fu il primo letterato di rango che fin

dagli anni del suo apprendistato giovanile si rivolse a Dante

collazionando, a cavallo tra terzo e quarto decennio del XIV secolo, una

silloge invidiabile per ampiezza e valore. Tralasciando la Commedia, che

non può avere peso dirimente vista la sua diffusione, sarà invece utile

esaminare i richiami ilariani tratti da opere dantesche individuati da

Billanovich, anche sulla scorta di Biagi e Rajna, suddividendoli, a norma

delle indicazioni dello stesso proponente, tra certi e possibili:

124 Ivi, pp. 68-9.125 Per Bellomo l’epistola sarebbe una «prosecuzione del dialogo bucolicointrapreso con Dante [con il] sapore di una piccola rivincita postuma sul suonetto rifiuto di scrivere un poema latino»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p.232.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

a)richiami certi: Convivio (I IX 5); Monarchia (I I 1-3 e 5; I III 3; I IV

4); Epistola IV (per ambientazione lunigianese e dedica a Moroello);

Epistola XI (2, 5, 16); Epistola XII (2); De vulgari Eloquentia (II IV 2); Egloga II

(vv. 48-9);

b)richiami possibili: Convivio (I I 12; I VII 14; IV VI 4); Monarchia (III

XV 16); Epistola XIII126; De vulgari Eloquentia (II IV 1); Egloga II (vv. 36-7).

Come noto, la tradizione delle opere di Dante ha una storia

tormentatissima che solo in parte, grazie ai tesori d’ingegno profusi

dagli studiosi, è venuta oggi alla luce. Di una cosa tuttavia non è da

dubitare: a parte il poema sacro, alcune Rime e la Vita nova, la gran parte

delle opere minori dantesche ebbe una diffusione assai limitata, a volte

decisamente ristretta, il che, nell’identificazione del nostro retore-

falsario, dovrà avere il suo peso. Limitando prudenzialmente le

osservazioni ai richiami certi, varrà la pena ricordare che, escluso

Boccaccio, pare non facile indicare chi altri, prima del 1340 – anno della

trascrizione laurenziana –, potesse aver acquisito una così vasta

dimestichezza con il corpus dantesco da poter combinare il dettato

ilariano. È questo un tassello qualificante del profilo dello pseudo-

Ilaro: egli fu un precoce conoscitore di Dante, probabilmente un cultore

del poeta fiorentino. La storia della tradizione delle opere minori di

Dante consente indubbiamente un passo avanti nell’indagine, finora non

esperito:

• Monarchia127: sebbene non vi si possa dare peso dirimente, la storia del

trattato ha pure una sua peculiarità, che potrebbe avere un valore

indiziario sui caratteri dello pseudo-Ilaro. Come noto, la notizia

del trattato si diffuse in certa misura subito dopo la morte del

126 In realtà l’Epistola a Cangrande avrebbe titolo per risiedere tra i richiami certi,ma si preferisce non procedere in tal senso.127 Più di uno i prestiti segnalati, tra i principali: «Il Boccaccio costruì ilprologo di Ilaro sulla falsariga del prologo della Monarchia»; G. BILLANOVICH, Laleggenda dantesca, cit., p. 126; cfr. altresì pp. 67-8. Concorda S. BELLOMO, Il sorriso diIlaro, cit., p. 212.

66

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

poeta, tanto che vi è esplicita notizia, ad esempio, nell’epitafio

delvirgiliano. Una precoce tradizione fiorentina, a monte delle

citazioni indirette di Villani e Boccaccio, è facilmente

congetturabile come per tutte le opere compiute di Dante – ad

eccezione del De situ –, ed è ormai indubbia128. Tuttavia, una fonte

informata e non sospettabile di minimizzare l’opera dantesca ci

attesta che, in un primo tempo, il trattato fu nel mondo dei

letterati poco conosciuto129. Ma non erano passati dieci anni dalla

scomparsa del poeta fiorentino che si verificò un evento destinato ad

incidere traumaticamente sulla fortuna del libello: la

strumentalizzazione perpetrata dai giuristi e dai polemisti che

appoggiavano Ludovico il Bavaro, al tempo dello scontro con papa

Giovanni XXII, e che ebbe il suo culmine negli anni 1327-‘29130; ciò

provocò la reazione dei giuristi e polemisti di parte curiale e

spinse il cardinale Legato Bertrando del Poggetto a condannare

pubblicamente l’opera a Bologna, manifestando l’intenzione, poi

fortunatamente stornata grazie ai buoni uffici di Ostasio da Polenta

e Pino della Tosa, di bruciare anche le ossa dell’autore. Di questa

vicenda, come noto, è sempre il Certaldese a darci notizia sicura,

confermato da una fonte autorevole ed indipendente quale Bartolo da

128 In chiose, tratte da manoscritti laurenziani primo-quattrocenteschi (Pl.42.14, 15 e 16), che Rudy Abardo considera agli albori del secolare commentodantesco (ma potrebbe trattarsi banalmente di materiale appartenente allanebulosa dell’Ottimo), si trova scritto: «sì com’egli tracta nella sua Monarchianella prima et seconda parte; et volendo provare questo imperio averegiurisdictione iudicatoria circa questi beni temporali, prova in questo modo: lapena che de’ esser vendecta d’alcuno peccato, fa bisogno che sia imposta alpeccante da persona che abbi ordinario giudicio, altrimenti sarebbe non vendectama ingiuria»; R. ABARDO, Una nuova fonte dantesca per Boccaccio, «Rivista di StudiDanteschi», III, 2003, pp. 429-42, p. 430 e n. 7.129 «Per la qual cosa [scil. le polemiche tra le fazioni curialiste e imperialiste,e la condanna del cardinale Del Poggetto] il libro, il quale infino allora appenaera saputo, divenne molto famoso»; GIOVANNI BOCCACCIO, Trattatello in laude di Dante, a curadi P. G. Ricci, Milano, Mondadori, 1974, p. 54.130 Della copiosa bibliografia sul punto, basti il rinvio a G. BILLANOVICH, I primiumanisti italiani nello scontro tra Papa Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, «Italia Medioevale eUmanistica», XXXVII, 1994, pp. 179-86.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Sassoferrato (1313-‘57), allievo di Cino da Pistoia e chiaro giurista

del medio Trecento. Come riferisce Ricci, precedente curatore

dell’Edizione Nazionale, la condanna della Monarchia ebbe esiti non

indifferenti sulla storia della tradizione diretta ed indiretta, la

quale da allora (1328 circa) non solo divenne rarefatta e perfino

criptica131, ma per alcuni decenni si canalizzò nel ristretto ambito

della polemica giuridica tra curialisti ed imperialisti. Non è un

caso se, pur esprimendo essi posizioni critiche tra loro anche molto

difformi, la fortuna del trattato fino alla metà avanzata del XIV

secolo e oltre è affidata ai nomi di: Guido Vernani, Francesco di

Meyronnes, Alberico da Rosciate, Guglielmo Centueri, Bartolo da

Sassoferrato, Agostino Trionfi, Agostino Favaroni, Antonio dei

Roselli132.

Boccaccio, che da una redazione all’altra del Trattatello edulcorò il

racconto della condanna, obliterando in seconda redazione perfino il

titolo del trattato, è un buon termometro di quanto invece il mondo

dei letterati-commentatori, dopo il 1328, vi si avvicinasse con un

crescendo di cautelosa prudenza133. In via di probabilità lo pseudo-

131 Eloquente l’explicit alla Monarchia conservatoci nel celebre codice berlinese,scoperto da Ludwig Bertalot nel 1917, contenente, tra l’altro, una tradizionefondamentale del De vulgari; giunto al punto di dichiarare l’autore dell’opera, ilcopista scherzosamente glissa: «endivinalo sel voy sapere». Chiosa Pier VincenzoMengaldo nella voce De vulgari Eloquentia curata per l’ED: «[L’explicit] significasoltanto la volontà di mantenere anepigrafa e nascosta l’opera politica per ilpericolo della persecuzione ecclesiastica iniziatasi nel 1328».132 L’esemplificazione non è da intendersi esaustiva, ma l’assunto di base nonpare discutibile. Riferimenti bibliografici essenziali: B. NARDI, Fortuna della«Monarchia» nei secoli XIV e XV, in ID., Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia eLetteratura, 1944, pp. 163-205; M. MACCARRONE, Dante e i teologi del XIV-XV secolo, «StudiRomani», V, 1957, pp. 20-8; N. MATTEINI, Il più antico oppositore politico di Dante: Guido Vernanida Rimini. Testo critico del «De Reprobatione Monarchiae», Padova, Cedam, 1958; A. VALLONE,Antidantismo politico nel XIV secolo, Napoli, Liguori, 1973.133 «[La condanna per eresia provocò per un verso] il rapido diffondersi deltrattato, e per l’altro la rapida distruzione di molte copie [...] bandite daiconventi, bruciate sulla piazza, ovunque braccate. [Da allora in avanti latradizione della Monarchia è drammaticamente sconvolta:] copie volutamente reseanonime e celate in mezzo a scritti di altra natura, a testimonianza di tempi edi luoghi nei quali era pericoloso possedere il trattato dantesco; [...] a talicopie altre se ne contrappongono [di maggior cura formale e] con abbondanti

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Ilaro che, a un di presso, scriverebbe tra il 1325 (dopo la morte di

Dante certamente) ed il 1335 (qualche tempo prima della trascrizione

boccacciana), per aver usato del trattato politico dovrà ascriversi

tra i più precoci cultori di Dante, o meglio ad un cenacolo dantesco

connotato da comprovati legami con tradizioni dirette del Dante

minore; ovvero, meno persuasivamente, al novero dei polemisti di

formazione giuridica, meglio se al versante laico o comunque di parte

imperialista. Al novero dei lettori del trattato (lettori attenti, se

ne hanno usato per un falso o un’esercitazione retorica) pare

improbabile ascrivere Boccaccio, né facilmente vi si ascriverebbe Del

Virgilio, che non pare legato stabilmente ad un cenacolo dantesco, né

appartenne alla categoria dei polemisti-giuristi militanti, né, al di

là di un generico riferimento nell’epitafio dantesco, mostra di

conoscere a fondo la Monarchia134;

• Epistola IV135: in merito alla tradizione di quest’espistola, sulla scorta

di Billanovich Jenaro-MacLennan osserva molto perspicuamente che:

postille [che] apertamente rivelano le inclinazioni [che muovevano verso uno]studio aperto, lungo, polemico»; voce Monarchia, dell’ED, curata da P. G. Ricci.Tra i primissimi commentatori (ante 1340) fa un uso diretto del trattato, salvoerrore, il solo Iacomo della Lana e, di mera conserva, l’Ottimo (chiosa a Par.,VII proemio).134 «Theologus Dantes [...] qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis /distribuit, laycis rethoricisque modis» (vv. 1 e 5-7).135 Afferma Billanovich: «La lettera di Ilaro dipende dalla lettera a Moroello»;G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit., p. 138 e n.; cfr. altresì le pp. 110-1. PerBellomo sarebbe naturale pensare all’Epistola IV quale riferimento per Ilaro,tuttavia, sviluppando alcune riflessioni sulla tradizione del testo e la suaaccessibilità, lo studioso opta per espungerlo dalle fonti del falsario, il qualeavrebbe tratto ispirazione per l’ambientazione lunigianese e la dedicamalaspiniana semplicemente dai riferimenti elogiativi presenti nelle prime duecantiche e (ma è lectio facilior) dalla fama del Monastero, concludendo che: «Delresto, se l’idea della dedica fosse venuta dall’epistola a Moroello, si sarebbeprobabilmente immaginato che Dante fosse diretto verso l’Arno, cioè nel Casentino[...]; Ilaro pensava invece a un’altra mèta: Verona»; S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro,cit., p. 233 e n. 82.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Yet we know that the epistle to Moroello was of extreme rarity throughout

the Trecento, Boccaccio himself and Sennuccio del Bene being the only two

men of letters of that period who give evidence of knowing it136.

Su tali basi la candidatura boccacciana, per altri versi

irricevibile, appare preferibile a quella delvirgiliana, messa qui

palesemente fuori gioco. La storia della tradizione dell’Epistola IV

rimanda ancora una volta lo pseudo-Ilaro ad una ben identificabile

area: quella di un cenacolo dantesco, meglio fiorentino, che unico

garantisce, oltre ad una complessiva adesione al mondo culturale

dantesco, anche il necessario accesso alle opere minori, con

un’ampiezza altrove sconosciuta;

• Epistola XI e XII137: tradizione unica, strettamente boccacciana, per

entrambe le epistole, con cogenti ricadute in termini di

accessibilità del testo che obbligano ad espungere non solo Del

Virgilio, ma anche ogni altro presunto retore o falsario che non

abbia potuto attingere alla medesima tradizione la quale, per

elementare ragionevolezza, si vorrà fiorentina per la XII138:

fiorentina ovvero curiale per la XI;

136 L. JENARO-MACLENNAN, Boccaccio and the Epistle, cit., p. 118. Cfr. altresì G.BILLANOVICH, Petrarca letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di Storia eLetteratura, 1947, p. 88 e n. 2; ID., La leggenda dantesca, cit., p. 132, n. 1. Noteessenziali sulla tradizione delle epistole in F. MAZZONI, Le Epistole di Dante, inConferenze aretine, Arezzo-Bibbiena, Tip. Zelli, 1966, pp. 47-100.137 Afferma Billanovich: «In questa lettera [scil. l’epistola di Ilaro] emergonoechi sicuri dalle lettere di Dante ai cardinali italiani e all’amico fiorentino»;ID., La leggenda dantesca, cit., p. 138 e n. 1. Per l’epistola ai cardinali concordaS. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.138 Salvo errore dello scrivente, rispetto al censimento di Billanovich l’Epistola XIIè un caso non ripreso né discusso da Bellomo.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

• De vulgari Eloquentia139: solo apparentemente controverse le indicazioni

discendenti dalla tradizione del trattato dantesco sul volgare; da un

lato la si conosce esilissima, in generale settentrionale e

bolognese/padovana in particolare – ma un’originaria circolazione

fiorentina sarà da mettere comunque in conto –, di diffusione e

fortuna oltremodo scarse140; dall’altra si vorrebbe accreditare

(Mengaldo), sebbene senza ferma convinzione, una conoscenza precoce

del trattato (addirittura ante 1321) da parte del grammatico Del

Virgilio, sulla base di tenui richiami: a DvE, II IV 5 rimanderebbe il

v. 50 del carme delvirgiliano (ma in realtà è calco quasi perfetto di

Virgilio, Buc., IX 36); a DvE, I X 9 rimanderebbero invece i vv. 15-6

dello stesso carme («clerus vulgaria tempnit / [...] cum sint

idyomata mille»; ma forgiati su Orazio, Sat., II II 38 e su un

usatissimo dispositivo di finitum pro infinito); meno infido ma non

dirimente il ricorrere dell’inusitato astripetis in Ecl., I 5, che

rimanderebbe a DvE, II IV 11. Naturalmente, per ricusare l’accesso al

trattato da parte di Giovanni Del Virgilio Dante vivente basterà

notare non solo che altri grammatici e dotti del tempo, da Francesco

da Barberino ad Antonio da Tempo fino a Gidino da Sommacampagna e,

senza andare troppo lontani, allo stesso Del Virgilio all’altezza

della sua – non datata – Ars dictaminis, ne ignorano completamente

l’esistenza (come pure l’intero secolare commento trecentesco); ma

soprattutto che, trattandosi di opera incompiuta e per nulla

predisposta per la pubblicazione, non si vede come avrebbe potuto

essere divulgata dall’autore prima del 1321. Difficilmente eccepibile

la notazione di Guglielmo Gorni che, riferita alla tradizione del

Convivio, calza ad unguem per il De vulgari: «È un assurdo anacronismo139 Afferma Billanovich: «E ora egli [scil. Boccaccio] si affretta di incorporareanche un frammento di quell’enunciato [scil. “que nichil aliud est quam fictioretorica musicaque poita”] nella sintesi di disciplina retorica che fa esporre alsuo Ilaro: [...] vulgari, dico, non semplici, sed musico»; ID., La leggenda dantesca, cit., p.72. Concorda S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.140 Peraltro Boccaccio, come c’insegnano Billanovich e Branca, lo conobbe giàall’altezza del Teseida.

71

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

pensare che Dante potesse divulgare una sua opera imperfetta o

promuoverne la conoscenza o lettura, lui vivo»141. Ancora una volta, le

indicazioni che si ricavano in merito al profilo dello pseudo-Ilaro

appaiono piuttosto univoche: chi usò del trattato doveva far parte di

un cenacolo dantesco, probabilmente quello fiorentino, che prima e

meglio di ogni altro aderì e si approvvigionò dell’opera dantesca,

ivi inclusi testi inediti introvabili altrove;

• Convivio142: tralasciando i richiami evidentissimi dell’epistola di

Ilaro all’Egloga II, all’altezza dei presunti esametri incipitari del

poema, come pure quelli, meno stringenti, al carme delvirgiliano (i

quali lasciano evidentemente impregiudicata l’attribuzione a

Boccaccio come a Del Virgilio), l’esame della tradizione e della

fortuna del trattato dottrinale ci permette un passo avanti. La

tradizione del testo è notevolmente tarda, in gran parte

quattrocentesca, con soli due esemplari trecenteschi ed una

stringente connotazione fiorentina; scrive Guglielmo Gorni:

In questa tradizione [...] quel che resta è così francamente fiorentino,

che si è imbarazzati a interpretare questo fatto a norma della cronologia

dell’opera e della sua spettanza al tempo dell’esilio. Non sorprende, come è

ovvio, che esista una vigorosa tradizione fiorentina: bensì che non ne

esistano [...] altre al di fuori di quella143.

Sviluppando la fondamentale ricognizione di Franca Brambilla Ageno

in sede di Edizione Nazionale, Luca Azzetta giunge a censire

141 G. GORNI, Appunti sulla tradizione del «Convivio», ora in ID., Dante prima della «Commedia»,Firenze, Cadmo, 2001, pp. 239-52, a p. 245.142 Afferma Billanovich: «Naturalmente egli [scil. Boccaccio] ricorse subitoall’apologia del volgare che Dante aveva esposto sulla soglia del Convivio, e nericavò come trama della difesa che immaginò di dover fare di Dante e di se stessoil lamento che Dante lì aveva espresso contro i nobili che avevano abbandonatol’arte delle lettere, lasciandola scadere tra i vili plebei»; ID., La leggendadantesca, cit., p. 69. Concorda S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 212.143 G. GORNI, Appunti sulla tradizione, cit., p. 244.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

citazioni indirette dell’Ottimo (in forma anepigrafa in prima

redazione, 1334 circa; in forma esplicita in terza redazione, 1340

circa), di Pietro Alighieri (1341 circa) e di Andrea Lancia (1342

circa). Azzetta, nel corso di un’indagine serrata ed informata,

mostra come i pochi dati disponibili inducano a ritenere che: «il

Convivio non fosse un’opera comunemente accessibile e nota ai lettori

della Commedia nel Trecento»144. Oltre ai nomi di Guglielmo Maramauro,

Benvenuto da Imola, Francesco da Buti, dell’Anonimo fiorentino e,

dubitativamente, del minor Villani, Azzetta include nel novero dei

commentatori che non si servirono del trattato lo stesso Boccaccio

che, pur rubricandolo nel suo Trattatello, non ne ha lasciato traccia

tangibile nelle Esposizioni. La posizione è espressa già da Guglielmo

Gorni:

Non si può che deprecare, in questa [scil. del Convivio] tradizione,

l’assenza del Boccaccio editore e copista [...] Una tradizione municipale

che il Boccaccio non fece in tempo e non ebbe agio di conoscere [...] Chissà

se il Boccaccio, che non lo trascrisse né lo cita mai nel suo commento al

poema, ne ebbe conoscenza diretta145.

Se per Boccaccio si è in forse quanto ad un contatto diretto col

trattato, per Del Virgilio proprio non si vedrebbe come trovare uno

spazio. La lettura del Convivio prima del 1335-‘40, lontano da Firenze,

è pressoché inconcepibile. La circostanza vulnera in modo gravissimo

la candidatura delvirgiliana, poiché indizi che il grammatico144 L. AZZETTA, La tradizione del «Convivio» negli antichi commenti alla «Commedia»: Andrea Lancia,l’«Ottimo commento» e Pietro Alighieri, «Rivista di Studi Danteschi», V, 2005, pp. 3-34, p.6.145 G. GORNI, Appunti sulla tradizione, cit., pp. 243-4 e n. 7. L’ipotesi di conoscenzadiretta del Convivio poggia su tenui e, a detta dello stesso proponente, elusivetracce nel Decameron; cfr. R. FERRERI, Appunti sulla presenza del «Convivio» nel «Decameron»,«Studi sul Boccaccio», XIX, 1990, pp. 63-77; nonché sull’attribuzione alCertaldese del volgarizzamento della quarta Deca di Tito Livio che, oggipesantemente sub iudice, quand’anche si rivelasse esatta è comunque irrilevante aipresenti fini, in quanto da collocarsi successivamente alla trascrizionelaurenziana (1340-‘41 ca.), agli anni del soggiorno romagnolo (1345-‘48).

73

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

bolognese frequentasse Firenze – men che meno che fosse accolto

stabilmente in un cenacolo dantesco –, sono non si dice scarsi, ma

completamente assenti. Non è tutto: se non fu Dante a riproporre ad

Ilaro la lamentazione sulla decadenza dei tempi moderni (incluso

l’esito, che fu solo suo, di un poema sacro in volgare),

effettivamente solo un falsario a conoscenza del trattato avrebbe

potuto riecheggiarlo con quella vicinanza che tutti, da Biagi, a

Billanovich, a Padoan e, ciò che più conta, allo stesso Bellomo146, gli

riconoscono. Senza ripetere le considerazioni di Gorni sull’assurdità

di un Dante che diffonda opere incompiute ed in uno stato, a quanto è

dato di risalire, precario, si può concludere che un accesso diretto

al trattato in tempi anteriori alla trascrizione laurenziana è

circostanza da ritenersi possibile unicamente nell’ambito del

cenacolo fiorentino. Indizi che il trattato cominciasse a circolare

si hanno in anni così a ridosso di quella trascrizione da doversi

ritenere, se la verosimiglianza ha un peso, che: se non autentico, il

dettato ilariano fu architettato a Firenze non prima e non dopo il

1335-‘40, ossia tra il primo diffondersi in città del Convivio e la

data della trascrizione laurenziana. È appena il caso di ricordare

che Giovanni del Virgilio muore intorno al 1327, anno dopo il quale

non si hanno più notizie di lui.

Peccando di semplicismo, chi scrive esclude non solo una qualsiasi

ipotesi di attribuzione boccacciana del testo, ipotesi non più

sostenibile, ma altresì delvirgiliana147. A quanto visto fin qui si può146 Traggo quest’indicazione anche dal seguente passaggio: «[Di fronte alladecadenza culturale dei tempi] non restava che impiegare una lingua più pervia,concludendo con una metafora parente stretta di quella da cui rampollerà iltitolo di Convivio, invano si porge alla bocca dei lattanti un cibo da masticare»;S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 204.147 Per Bellomo è «respinta l’ipotesi di Billanovich»; IVI, p. 217, mentrel’ipotesi di una falsificazione di diversa paternità, a suo avviso, è stata daPadoan obliterata «un po’ frettolosamente»; ibidem. Certo solleva perplessitàl’atteggiamento del finto Ilaro per la sua totale disattenzione ai profilipseudo-epigrafici tipici di ogni consimile operazione, per i quali la credibilità

74

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

aggiungere che, a fronte delle doti non comuni di mimesi letteraria

richieste allo (pseudo-)Ilaro, il pur onesto grammatico bolognese ci

appare un letterato impari al compito; ritessendo le fila di un secolo di

studi, Giovanni Reggio traccia un bilancio che non dà scampo:

L’egloga di Giovanni del Virgilio mostra una differenza assai notevole rispetto

a quella di Dante [...] Guardiamo anche la struttura stessa dell’egloga: né scena

pastorale, né dialogo. C’è un convenzionale sfondo bucolico e l’egloga si riduce

ad un lungo monologo di Mopso in cui si riprendono e si avviluppano spunti

dell’egloga dantesca. Quindi la forma del genere è infelice nella composizione;

gli ingredienti, per così dire, pastorali applicati dall’esterno: opera di un

grammatico, insomma, non di un poeta [...]. A giudicare dall’egloga, si direbbe

o l’antichità di un testo, apocrifo o falso, guadagnano enormementedall’attribuzione (strumentale ma esplicita) all’auctoritas di riferimento. Perrestare all’ambito strettamente dantesco, pensiamo alle pretese falsificazionidell’epistola a Cangrande, i cui sostenitori possono almeno vantare il confortodel rispetto delle più elementari norme pseudo-epigrafiche, senza cui l’interaoperazione rischierebbe di abortire sul nascere; ma la lista potrebbe estendersia piacere. Autorevole e illuminante con riferimento all’ennesima presunta(fortunatamente senza seguito) falsificazione dantesca, la Tenzone con Forese, èl’intervento di Domenico De Robertis che, mutatis mutandis, si adatta come un guantoal caso ilariano. Dopo aver doverosamente premesso che una contraffazione dicarattere filologico (come evidentemente è quella ilariana) sarebbe«inconcepibile per l’epoca», lo studioso tocca lo spinoso problemadell’architettura del falso in più passaggi; il seguente mi pare di una pregnanzanotevole per ricostruire l’abito mentale di un “vero” falsario del Trecento: «Afare accettare la cosa, a mettere in circolazione il falso, sarebbe bastato porreil nome di Dante [...] senza preoccupazione di verosimiglianza paleografica. Rimeantiche sono state acquisite in abbondanza attraverso testimonianze recenziori efin la tradizio ne a stampa»; ancora, notando l’impressionante diversità di manotra i testi poetici sicuri di Del Virgilio, di mediocre fattura, e l’incipitilariano, nonché, paragonando l’ordito diversissimo delle opere accademichedelvirgiliane con l’ampia sezione prosastica dell’epistola, viene lecitoriprendere un altro passaggio di De Robertis: «E soprattutto, siamo sicuri sitratti, non dico della stessa mano, ma dello stesso linguaggio? [...] Perché vabene la contraffazione, ma che diavolo di falsario sarebbe questo! Dante gliriserverebbe un posto d’onore nella decima bolgia»; D. DE ROBERTIS, Ancora per Dante eForese Donati, in Feconde venner le carte. Studi in onore di Ottavio Besomi, 2 voll., a cura di T.Crivelli, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1997, I, pp. 35-48, citazioni alle pp.35-6 e 41. In realtà, sarebbe invece da spiegare come mai il falsificatore diIlaro abbia rinunciato a ciò cui qualunque suo collega avrebbe rinunciatomalvolentieri. Sul tema del falso letterario, con particolare riferimento aDante, sia consentito ora rimandare a G. INDIZIO, Dante e l’enigma del monaco Ilaro di S.Croce del Corvo, «Dante Studies», CXXIV, 2006, pp. 91-118.

75

L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

che in un così mediocre poeta, come Del Virgilio, l’intensità del suo sentimento

d’affetto verso Dante [...] facessero intoppo alla fantasia e i versi gli

riuscissero sforzati e contorti148.

Per quanto avventurarsi in illazioni sia sempre sconsigliabile, nei

limiti di un’ipotesi di lavoro chi scrive ritiene che la tradizione delle

opere di Dante impiegate per combinare il dettato ilariano rimandi

univocamente ad un’unica e ben determinata area geografico-culturale, che

sola poté accogliere al suo interno ed alimentare adeguatamente un retore-

falsario di memorie dantesche, e sia pure per pii fini laudativi; un

autore, preferibilmente fiorentino o comunque partecipe di quel cenacolo

che con tanta sollecitudine ammirò e custodì le memorie dell’esule, cui

parteciparono con ogni verosimiglianza Pietro e Jacopo, e tra cui dovremo

ancora almeno nominare Giovanni Villani, l’Ottimo, Andrea Lancia,

Sennuccio del Bene: oltre che, una volta ristabilitosi a Firenze - ma

virtualmente fin dagli anni napoletani -, Giovanni Boccaccio. È questa, a

mio parere, la sola strada che i sostenitori della tesi dello pseudo-Ilaro

(abile retore o malizioso falsario che sia) potranno sensatamente

percorrere per trovare adeguato riscontro ad una candidatura che, ad oggi,

pare estremamente sfuggente.

Allo stato attuale ritengo probabile che vi fosse o avesse stabili

contatti con Firenze, intorno agli anni 1325-‘40, un mediatore ilaro-

boccacciano, ossia un cultore dell’opera dantesca che si trovò, per

vicissitudini proprie, nella posizione di poter recepire e trasmettere a

Boccaccio un testo memorabile (autentico) di area lunigianese. Già queste

pur caute osservazioni ci mostrano come Boccaccio, se fu tratto in

inganno, come è d’obbligo ipotizzare nell’ipotesi di un testo non

autentico, lo fu da un sodale fiorentino. Il testo, infatti,

dovett’essergli trasmesso come assolutamente affidabile: ricordiamo che il

Certaldese rifuse le notizie essenziali dell’epistola in numerose sue

148 Il giudizio è di uno specialista delle egloghe dantesche, G. REGGIO, Le «Egloghe» diDante, Firenze, Olschki, 1969, pp. 70-8.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

opere, anche le più impegnate sotto il profilo dell’erudizione e

dell’esegesi; nonché in corrispondenze, come quella con Petrarca (Ytalie iam

certus honos), per cui è per nulla agevole invocare «una soglia di coscienza

tra il vero e il falso assai più alta della nostra»149. Tuttavia l’inganno

del grande novelliere è circostanza, considerati i rapporti di profonda

stima ed amicizia che dovettero intercorrere in quel cenacolo di sodali,

assai poco verosimile150.

Infine, sia consentito sondare il cenacolo fiorentino dantesco per

proporre conclusivamente una candidatura al ruolo di mediatore ilaro-

boccacciano, in base ai caratteri ed al profilo qui ricostruito. Se

l’appartenenza alla schiera dei precoci cultori danteschi è un dato

oggettivamente verosimile, come pure la fiorentinità e l’adesione

all’espressione letteraria in lingua volgare (toscana), dal lato

soggettivo aver costui intrattenuto relazioni documentabili con l’area

lunigianese e con Boccaccio ci appaiono credenziali quanto mai

149 Traggo la citazione da S. BELLOMO, Il sorriso di Ilaro, cit., p. 228. Bellomo, iuxtapropria principia, ragionevolmente concede che dalla falsa epistola ilariana «fuingannato il Boccaccio»; ibidem.150 Benvenuto da Imola ci ha lasciato una testimonianza notevole di come Petrarcae Boccaccio, di fronte alla vulgata di un Dante insufficiente al verso latino, nedifendessero la scelta linguistica nella composizione del poema; una difesa chesi fonda appunto sulla lamentazione ilariana (dico ilariana perché affidata adIlaro ben più che all’inedito e quasi sconosciuto Convivio) sullo stato culturaledei tempi, e di cui proprio Boccaccio era stato il divulgatore, con ciò – siadetto per l’ennesima volta - escludendosi funditus et radicitus ogni ipotesi difalsificazione da parte sua: «Quia auctor [scil. Dante], videns liberalia studia,potissime poetica, esse deserta a principibus et nobilibus, qui principalitersolebant in poeticis delectari, et quibus opera poetica solebant olim intitulari,et ob hoc opera Virgilii et aliorum excellentium poetarum jacere neglecta etdespecta, cautius et prudentius se reduxit ad stilum vulgarem, cum jamliteraliter incoepisset sic: Ultima regna canam, fluvido contermina mundo, / Spiritibus quae latapatent, quae premia solvunt / Pro meritis cuicumque suis etc. Alii tamen et multi comuniterdicunt, quod autor cognovit stilum suum literalem non attingere ad tam arduumthema; quod et ego crederem, nisi me moveret autoritas novissimi poetaePetrarcae, qui loquens de Dante scribit ad venerabilem praeceptorem meumBoccatium de Certaldo: “Magna mihi de ingenio ejus oppinio est potuisse eumomnia, quibus intendisset”» (chiosa a Inf., II 10-2). Che il contesto in cuiBenvenuto inserisce la nota risposta di Petrarca a Boccaccio – i quali egliconobbe de visu – sia strettamente ilariano è visibilmente fuor di dubbio.

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

desiderabili. Su tali basi, l’ipotesi di lavoro non può che convergere sul

nome di Sennuccio del Bene.

Sennuccio di Benuccio di Senno del Bene (1265/’70-1349) fu rimatore

fiorentino tradizionalmente incluso tra i minori, partecipe defilato ma

sicuro del periodo stilnovista, precocissimo settatore di Dante e suo

sodale politico, oltre che fedele imitatore; personalità cospicua per

rango familiare, mezzi economici e relazioni curiali: in primo luogo con

la fondamentale clientela cardinalizia avignonese ma anche curtensi con le

aule ben dantesche di Arrigo VII e dei lunigianesi Malaspina; che ben

poteva coprire il ruolo di mediatore letterario verso Boccaccio, come

infatti fu ed è documentato tanto per la capitale esperienza dantesca

quanto per l’emergente magistero petrarchesco. Non pare agevole, ad oggi,

rintracciare altri nomi di sì provate credenziali da poter ragionevolmente

soppiantare Sennuccio quale tramite a Boccaccio del testo ilariano, sia

pure, s’intende, nei termini di una ipotesi di lavoro. A conforto, si

riportano di seguito alcune osservazioni tratte dagli studi di

Billanovich, Mazzoni e Piccini che, per chi accetti i presupposti qui

accolti, non difetteranno, grazie all’autorevolezza dei contributori, di

valore probatorio:

1)precoce culto di Dante: «per Sennuccio la stella polare è Dante

[...]. L’influsso dantesco è nel complesso talmente ingente da parere

incalcolabile: non c’è quasi componimento, non escluso il giovanile

tirocinio stilnovistico, in cui Sennuccio non guardi a qualcuno dei

versanti toccati dal suo grande concittadino [...] fino al limite

della citazione integrale»151;

2)mediatore dantesco-boccacciano: «a conferma dei rapporti tra i due

non esistono prove documentarie, ma indizi testuali che rendono

credibili ipotesi biografiche»152. In quest’ambito tessere

151 D. PICCINI, Un amico del Petrarca, cit., pp. XXXI e LII.152 Ivi, p. XXV; imponente il novero di studiosi che si sono espressi in tal senso:E. G. PARODI, recensendo G. VOLPI, Rime di trecentisti minori, «Bullettino della SocietàDantesca Italiana», XVII, 1910, pp. 79-80; G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca, cit.,pp. 132-3 e n. 1, poi con aggiornamenti in ID., L’altro Stil nuovo. Da Dante teologo a

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

inequivocabili sono rappresentate dalla corrispondenza tra Dante e

Cino, dall’epistola a Moroello ed all’Amico fiorentino (molto

probabilmente anche quella ai Cardinali, forse quella ad Arrigo) che,

dicasi le prime due, Sennuccio sicuramente imitò in testi propri e

che: «provano, come aveva [già] visto il Billanovich, il maneggio da

parte di Sennuccio di testi non comuni all’epoca, la sua funzione,

insomma, di mediatore ([...] presso il giovane Boccaccio) di preziose

perle dantesche»153;

3)relazioni con la Lunigiana: «Non sarà un caso che sia l’Epistola IV che

la canzone “montanina”, sia d’altra parte una porzione delle rime di

corrispondenza con Cino [...] abbiano a che fare con la persona di

Moroello e con i Malaspina. Quel marchese Franceschino, di cui Dante

fu procuratore per rogare la pace col vescovo di Luni il 6 ottobre

1306, è colui che Sennuccio cita esplicitamente dopo la morte di

Arrigo VII (in Da•ppoi ch’i’ ho perduta) come speranza e rifugio»154. È poi

noto che Sennuccio, Cino, Moroello e Franceschino furono presenti

alle cerimonie regali di Milano tra dicembre e gennaio 1310-‘11.

Evento cui, con verosimiglianza, prese parte anche Dante. Conclude

Piccini: «Facile che i Malaspina abbiano passato a Sennuccio intorno

a quegli anni [...] le carte dantesche in qualche modo concernenti il

casato»155.

Petrarca filologo, «Studi Petrarcheschi», XI, 1994, pp. 1-98, in particolare pp. 47-51; F. MAZZONI, Moderni errori di trascrizione nelle epistole dantesche conservate nello ZibaldoneLaurenziano, in Gli Zibaldoni del Boccaccio, cit., pp. 315-25, pp. 316-7.153 D. PICCINI, Un amico del Petrarca, cit., p. LIV. Pienamente condivisibile la chiosa diBillanovich: «Perciò ritengo che a Napoli proprio Sennuccio – e non Cino daPistoia, benché maestro di quell’Università – abbia passato al Boccaccio, lìancora studente e largamente sottoposto all’influenza di Dante e specialmentedella Comedìa, i testi di due epistole di Dante, ciascuna seguita da un sonetto,l’uno e l’altro imitati da Sennuccio nel suo sonetto Punsemi il fianco Amor con nuovisproni: l’epistola a Cino [...] e l’epistola a Moroello Malaspina»; G. BILLANOVICH,Da Dante al Petrarca e dal Petrarca al Boccaccio. I. Firenze, Padova, Avignone, Napoli, in Il Boccaccio nelleculture, cit., pp. 583-95, p. 591.154 Ibidem.155 Ivi, p. LV. Chi scrive ritiene forse eccessiva l’ipotesi di Piccini, sebbene insé non impossibile. Assodati i fitti rapporti con la corte dei Malaspina, speciecon Franceschino e Moroello, che aprivano a Sennuccio una finestra

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L’EPISTOLA DI ILARO: UN CONTRIBUTO SISTEMICO

Per lo scrivente l’epistola di Ilaro è un testo autentico, che ci salva

notizie preziosissime per la biografia dantesca, di norma molto avara di

testimonianze e notizie anche solo vagamente attendibili156. L’evento cui

fa riferimento l’epistola è da assegnarsi per elementi interni al periodo

post arrighiano, nella fase in cui Federico d’Aragona ed Uguccione della

Faggiuola apparvero come gli immediati eredi e continuatori dell’opera di

Arrigo VII, quindi tra il 1314 ed il 1315, preferibilmente la prima e non

la seconda metà, poiché Morello Malaspina è dato da Ilaro ancora per

vivente, ed egli morì l’8 aprile 1315157. Il testo lunigianese fu

recuperato anni dopo da una personalità di sicura appartenenza dantesca,

che certamente fu agevolata nel rintracciare il reperto nella misura in

cui poté avvantaggiarsi di consolidati rapporti con la più cospicua corte

della Lunigiana, quella dei Malaspina. Questa personalità di sicura

autorevolezza, da cui doverosamente ci attendiamo una stretta vicinanza

all’opera di Dante, come pure precoci scambi culturali con Boccaccio, può

essere identificata in via ipotetica con Sennuccio del Bene158.

importantissima su un’area di sicura danteità, sarebbe più ragionevole ritenereche egli richiedesse e ottenesse copia di testi danteschi in loro mano, come purenotizie di area lunigianese riguardanti il grande concittadino, che a tempodebito passò al Certaldese, il quale, sul punto, riferisce non a caso aneddotinotevoli. Che abbia avuto accesso ai testi originali, come paventa Piccini, cheparla di trasmissione delle «carte dantesche [...] concernenti il casato», paremeno probabile, a giudicare, ad esempio, dagli errori di trascrizione delleepistole da cui sono viziate le copie per dir così “sennucciano-boccacciane”dello Zibaldone laurenziano, per cui cfr. l’importante intervento di F. MAZZONI,Moderni errori, cit.; cenni in ID., Le Epistole di Dante, cit..156 Tra i più recenti ed attrezzati sostenitori di una manipolazione del testo, manon di falso integrale, si veda A. CASADEI, Considerazioni sull'epistola di Ilaro, cit..157 La preziosa segnalazione mi è venuta dalla cortesia di Eliana M. Vecchi, cheha recentemente recuperato la notizia in un Liber anniversariorum del conventogenovese di S. Francesco di Castelletto, per cui cfr. EAD., La data di morte di MorelloMalaspina, signore di Giovagallo, e il problema della sua sepoltura in Genova, «Studi Lunigianesi»,XXXII-XXXIII, 2002-‘03, pp. 81-90.158 Suggestiva è per chi scrive l’illazione per cui Sennuccio si sia portato aNapoli nel 1341 per le celebrazioni poetiche petrarchesche (circostanza, dati irapporti strettissimi tra i due personaggi e la comune devozione agli studi, daritenersi più che plausibile, al di là di quanto testimonia la Varia LVII sullapresenza di Sennuccio a Napoli ante gennaio 1342); in quell’occasione potrebbeaver trasmesso a Boccaccio testi danteschi non recapitati in precedenza, penso

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soprattutto al De vulgari, che il certaldese mostra di conoscere solo nell’ultimaopera napoletana, il Teseida (ma una successiva revisione fiorentina è ugualmentecerta), ed all’epistola di Ilaro che il grande novelliere, forse non a caso,copia con le egloghe nella postrema sezione napoletana dello Zibaldone laurenziano(ff. 67r-72v).

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