La Casa dell'Uomo. Il contributo di Gio Ponti e Bernard Rudofsky sul tema dell'abitazione

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Storia dell’Architettura contemporanea – Prof Maristella Casciato A.A 2008-2009 – Monica Prencipe

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L’ETA’ DEL DUBBIO

Un motivo per studiare oggi Gio Ponti e Bernard Rudofsky

“Non c’è –il tempo ce lo fa capire- una verità, né la verità;

di ogni cosa ci sono due verità, specie in quest’epoca straordinaria

in cui tutto si trasforma e tutto resta eterno nell’eterno fluire del tempo”

Gio Ponti, Amate l’Architettura, 1957

Quello cha accadeva settant’anni fa ormai è Storia. Ma ciò non vuol dire che essa sia morta, o che rimanga

senza significato al di fuori del valore storico-artistico che ogni frammento possiede.

La Storia si ripete, rigurgita continuamente gli stessi pensieri, le stesse tensioni, ma queste si camuffano

sotto la polvere delle mode e dei costumi propri di un periodo storico.

Studiare l’incontro di due voci –per certi versi “fuori dal coro”- come quella di Bernard Rudofsky e Gio Ponti

è uno dei tanti modi di riflettere sulle scelte di oggi.

Entrambi sono profondamente convinti che gli individui (e con questo intendo anche gli artisti e gli

architetti) sono tanto unici e diversi da rendere impossibile una visione così unitaria del proprio tempo.

Il rischio è quello di cadere nell’appiattimento delle sfumature (finendo per diventare propaganda di una

voce piuttosto che di un’altra).

La rinuncia del ritratto dai contorni definiti, a favore di una ricerca “sul campo”, è una precisa scelta

ideologica basata sull’apertura al dialogo e alle possibilità di miglioramento, nella fiducia che “lo spirito del

tempo” si farà strada da sé.

Una riflessione insomma sulla “ricerca della modernità”, una ricerca onesta, sincera, critica e, soprattutto,

aperta.

Ed è proprio questa disarmante rinuncia ad un’ideologia chiara che continua ad essere uno dei tratti

distintivi delle nostre generazioni, vivendo oggi più che mai in un mondo in cui i mass media, i big della

moda, il mercato dell’arte, consci della mancanza di paradigmi fermi, guidano, secondo le loro regole, i

nostri gusti, abitudini, modi di dire, modi di vivere.

La rinuncia alle ideologie è il prezzo che l’uomo “moderno” ( è questa la vera l’essenza del Novecento) paga

alla propria coscienza, ma questo non ci giustifica nel seguire l’ultima “forma” senza sostanza, ma anzi ci

congeda una volta per tutte dalla forma mentis precedente (quella fatta di convenzioni e regole di

circostanza) e ci permette di creare razionalmente uno spazio -ma più in generale un mondo- che si accordi

alla nostra individualità.

E’ la conquista della facoltà di scegliere la vera capacità che l’uomo del novecento ha finalmente ritrovato

come valore imprescindibile dalla propria umanità.

2

“E’ nella casa l’amore per la civiltà”

Gio Ponti

3

SOMMARIO

L’ETA’ DEL DUBBIO ................................................................................................................................. 1

PARTE I (INTRODUZIONE) ....................................................................................................................... 4

LA CASA DELL’UOMO NELL’ETA’ DELLA MECCANIZZAZIONE .................................................................. 4

1. LA CASA DELL’UOMO DOPO LA RISCOPERTA DEGLI ARHETIPI .............................................................. 5

2. IL BAGAGLIO CULTURALE DI GIO PONTI E BERNARD RUDOFSKY: ......................................................... 6

PARTE II

GLI ANNI TRENTA SOTTO IL “TETTO” DI DOMUS ...................................................................................... 8

1. IL RUOLO DI DOMUS NELLA CREAZIONE DELLO “STILE” MODERNO .................................................... 9

2. PONTI, RUDOFSKY E COSENZA NELLE PAGINE DI DOMUS .................................................................. 11

3. ALTRI PROGETTI DI “CASA IDEALE” NELLE PAGINE DI DOMUS ........................................................... 15

PARTE III

LA FASE AMERICANA DI RUDOFSKY E LA PRATICA DELLA CRITICA CULTURALE ....................................... 21

PARTE IV

GLI ANNI CINQUANTA E LA “JOIE DE VIVRE” NELLE OPERE DI GIO PONTI................................................ 24

1. I MUTAMENTI DEL DOPOGUERRA E LA “LIBERAZIONE DELLA CASA” ................................................. 25

2. “AMATE L’ARCHITETTURA”: NUOVO INNO ALLA SPIRITUALITA’ NELL’ARTE ...................................... 27

3. TRE VILLE INVENTATE: PLANCHART, ARREAZA, NEMAZEE .................................................................. 29

CONCLUSIONE: IL BILANCIO DELLA MODERNITA’ PER GIO PONTI E BERNARD RUDOFSKY ....................... 35

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO ............................................................................................................ 36

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PARTE I (INTRODUZIONE)

LA CASA DELL’UOMO NELL’ETA’ DELLA MECCANIZZAZIONE

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1. LA CASA DELL’UOMO DOPO LA RISCOPERTA DEGLI ARHETIPI

“Architettura ed arti sono, in quanto corpo,

la figura materiale della nostra civiltà,

e, in quanto arte, la figura spirituale di essa”

Gio Ponti

“L’architettura non è solo un problema di tecnologia o di

estetica, ma piuttosto la cornice di un modo di vivere –e,

con un po’ di fortuna- un modo di vivere intelligente

Bernard Rudofsky

L’analisi del ruolo e del concetto dell’abitazione (a prescindere dal tempo) è anche e soprattutto un modo

per riflettere sulle concezioni fondanti di una cultura, sulle sue invariati: cos’è d’altronde la casa se non lo

spazio ancestrale dell’architettura, il rifugio ultimo dell’esistenza individuale, il fulcro minimo della società?

Molti studiosi di antropologia oggi studiano l’architettura delle altre civiltà e finiscono per scorgere

strutture sociali, meccanismi di parentela, credenze mitiche; perché quindi non dovrebbe essere la stessa

cosa con la nostra cultura Occidentale?

Per quanto oggi una nostra abitazione ci può sembrare lontana dall’astrazione di un uomo sdraiato su un

fianco nell’atto di procreare (come invece accade proprio sotto il nostro naso tra i dogon del Mali), è ancora

valida l’idea di vedere nel rifugio dell’abitazione una “istanza di civiltà”1.

1. Già nel 1932, in occasione della Triennale di Milano sul tema dell’abitazione moderna, Ponti scriverà: “Saranno

questi edifici una rappresentazione in senso morale, della nostra civiltà medesima, della civiltà che costruiamo”, Gio

Ponti, “Quale sarà la nostra casa domani?”, in Domus, a. IV, n.49, gennaio 1932, p.2

FIG 1. LA CAPANNA PRIMITIVA E UNA CAPANNA “PRIMITIVA” (tribù dogon del Mali)

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2. IL BAGAGLIO CULTURALE DI GIO PONTI E BERNARD RUDOFSKY:

la riscoperta dell’architettura “spontanea” tra relativismo culturale e “arte di vivere”

“Il folclore è frutto di un laboratorio successivamente

dischiuso da un secolo all’altro. (…) Lo scopo primitivo ha

predominato, questo “riparo” si è sviluppato nel senso

utilitario delle sue funzioni.”

LeCorbusier

“Quando si è vestiti in modo moderno? Quando non si dà

nell’occhio. Io non do nell’occhio, poi mi capita di partire

per Timbuctu e Krätzenkirchen. Vengo osservato con

meraviglia perché qui do nell’occhio”

Adolf Loos, “Nonostante tutto”

Nella comune ricerca di alternative possibili, rispetto ad una banale “storia degli stili” proposta in sede

accademica, l’avanguardia di inizio novecento ritrovò un profondo interesse per lo studio di esempi

dimenticati quanto presenti sotto gli occhi di tutti: la cosiddetta architettura “spontanea” o “rurale”.

La ricerca dell’archetipo, del primigenio, del primitivo, anche nei suoi istinti più vicini alla Terra era sintomo

di una spassionata ricerca di autenticità.

D’altronde non è possibile trovare un antidoto migliore, per contrastare l’eclettismo e la solennità dello

stile accademico, che le “vibranti e modeste architetture che popolano le coste del Mediterraneo e

rappresentano una forma di vita basata su desiderio istintivo di armonia con la Natura nella quale si

inseriscono”2.

L’enorme successo e il profondo influsso di questa tradizione “altra” tuttavia è soprattutto dato dalle

successive riflessioni e dall’uso di questa durante tutta la prima metà del XX secolo.

Lo stesso LeCorbusier (all’epoca ancora Pierre-Jeanneret) intraprenderà tra il 1910 e il 1911 un lungo

viaggio, il cosiddetto Voyage d’Orient, che lo avrebbe condotto attraverso la Boemia, la Serbia, la Romania,

la Bulgaria, al monte Athos, ad Atene, per poi ricondurli in Svizzera attraverso l’Italia.

I suoi carnet e le memorie del suo viaggio (pubblicate solo rispettivamente ne 1987 e nel 1966),

mostreranno come molte delle cosiddette “invenzioni lecorbuseriane” non sono altro che splendide

riletture del mondo antico in tutte le sue forma: dalle rovine di Adriano fino alle piccole case pompeiane.

E anche non pochi degli stessi concetti declamati in Vers une architecture, sono in realtà desunti

dall’osservazione dell’architettura cosiddetta vernacolare.

In modo analogo, pochi decenni dopo nel 1936, uno dei maggiori esponenti del razionalismo italiano come

Giuseppe Pagano, si trovò completamente a suo agio nell’allestire un’intera sezione della VI Triennale di

Milano alle fotografie fatte in lungo e in largo in tutte le campagne e le coste d’Italia, da Nord a Sud,

sottolineandone ogni volta le peculiarità moderne di funzionalità, efficienza e attenzione al luogo.

D’altro canto, Gio Ponti, direttore della Triennale, vedeva l’esperienza di Pagano come uno dei tasselli,

piccoli e indispensabili, per ricomporre le file di una tradizione che trascendeva la lezione delle opere

eccezionali (la cui importanza non era in nessun modo messa in dubbio), e si espandeva a tutti i campi del

fare, compresa la tradizione costruttiva popolare, nel comune sforzo di una “ricerca delle origini” con

regole universalmente valide.

La formazione di Ponti tuttavia rientrava a pieno titolo proprio in quell’accademismo tanto denigrato dalle

falangi più estremiste. Quello che lo distinse tuttavia dagli altri coetanei fu un atteggiamento da subito

antidogmatico e pieno di vivo interesse verso la modernità che cercava di risvegliare la placida borghesia

milanese. Riusciva contemporaneamente ad esaudire i desideri dei propri insegnanti, a discutere

animatamente con i gruppi futuristi e collaborare al disegno delle nuove linee di ceramiche della Richard-

Ginori. Fu proprio la passione per il disegno in genere che , fin da piccolo, lo convinsero che nessuna delle

arti fosse superiore alle altre, ma che in qualche modo, tutte concorrevano ugualmente alla definizione di

uno “stile”, o, meglio, di una “cultura”.

2. Carlos Martì Arìs, “Cosenza e il Mediterraneo”, in Luigi Cosenza. Il territorio abitabile, Alinea editrice, Firenze

2007, p.127

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Alla comune matrice morrissiana facevano poi riferimento entrambi i principali filoni dell’architettura

moderna: da una parte quella francese di LeCorbusier, la quale per prima influenzò quella italiana; dall’altra

quella tedesca, che grazie alla sagace personalità di Adolf Loos, traghettò gli ideali arts and cratfs in una

dimensione moderna e spesso provocatoria. Infatti la sua visione “relativista” degli usi e dei costumi,

rispetto alle banali definizioni di “moderno” e di civiltà “occidentale”, è alla base di tutto il sentire

contemporaneo.

Memorabile -e non priva di sottile ironia- rimane la sua critica al “primitivismo” della società austriaca

derivata dall’osservazione del comportamento tipico dei viennesi: quello della mancanza dei cucchiaini

nelle saliere dei ristoranti3.

L’importanza centrale di questo personaggio non fu quindi “solamente” quella di aver introdotto per primo

il concetto di “decoro” (in opposizione all’ornamento smodato, figlio di una cultura del sovrabbondante),

ma anche quella di aver aperto la strada ad una mentalità provocatoria e dichiaratamente “dissidente”

senza per questo essere estremista.

Un esempio d’eccezione di questa mentalità è infatti rappresentato proprio dalla figura di Bernard

Rudofsky (1905-1988) che, non a caso, nasce proprio in Moravia. Da Adolf Loos riprenderà, oltre alla

negazione dell’individualismo dell’architetto (che con il suo ego finisce per sovrapporsi all’individuo che vi

abita), anche l’interesse sociologico verso abitudini e modi di vivere diversi.

Dal canto suo Rudofsky non fu né un architetto, né un teorico, quanto piuttosto un libero pensatore, e

come tale il suo ruolo fu principalmente quello di destabilizzare abitudini e usi comuni che non mostrassero

una sostanziale motivazione logica.

L’abitudine allo scetticismo lo aveva preso dalla cultura austriaca fin de siécle, fatta di una miriade di

identità culturali, con altrettanti usi e metodi costruttivi. Questo lo aveva portato fin dagli anni di studio

all’Università Tecnica di Vienna (Technische Hochschule Wien), ad una naturale sfiducia nell’introduzione di

drastici cambiamenti all’interno di una cultura, e insieme ad una grande apertura verso le alternative

provenienti da tutto il mondo.

E’ importante sottolineare come la sua sia stata insieme una formazione tecnica (la sua tesi era uno studio

approfondito sulle primitive strutture in cemento delle isole Cicladi), e artistica, nel senso di intrisa di quello

storicismo ancora caratteristico delle scuole d’arte applicata.

Proprio qui apprende la concezione dell’arte come “sforzo morale”, le cui radici risalgono alle riflessioni di

Morris e Ruskin.

Anche nel suo caso, l’importanza di Morris non si riduce a questo: proprio dalla sua istanza morale nasce

infatti la visione dell’arte come concetto olistico e totalizzante dell’uomo; tutto, infatti, contribuisce alla

nostra idea del mondo, e l’arte ne è la sua più alta produzione, in tutte le sue forme, dagli oggetti di uso

domestico, ai tessuti, ai vestiti, all’architettura.

Non stupisce affatto, quindi, che ad aprire uno dei suoi più importanti articoli su Domus (n.123, Marzo

1938), dal titolo più che perentorio “Non ci vuole un nuovo modo di costruire, ci vuole un nuovo modo di

vivere”, sia proprio una citazione di Morris: “Come la gente può aspettarsi una buona architettura finché

veste tali abiti?”

E proprio in ogni tipo di manifestazione dell’arte (soprattutto nei vestiti, nelle calzature e nell’architettura)

Rudofsky cercherà di portare un senso, una logica; ma farà di più, egli farà da anello di congiunzione tra le

produzioni artistiche riconosciute, e le produzione della “civiltà” in senso ancora più ampio, fino ad

includere in un discorso coerente tutta l’architettura “spontanea”, ampiamente documentata e studiata

durante le sue visite in Grecia e in Italia, prima e durate la collaborazione italiana con Gio Ponti.

Lo studio quindi, dell’incontro prima e degli successivi sviluppi poi, di queste due figure, risulta abbastanza

interessante da una lato per la loro natura eterogenea (cultura classica da un lato e cultura più tecnica

dall’altro), ma anche per la sorprendente vitalità con la quale si ritrovarono ad affrontare il tema del “vivere

moderno”.

3. Adolf Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 2005, p.176

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PARTE II

GLI ANNI TRENTA SOTTO IL “TETTO” DI DOMUS

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1. IL RUOLO DI DOMUS NELLA CREAZIONE DELLO “STILE” MODERNO

Nel 1928 nascono “La Casa bella”, diretta dal critico d’arte Guido Marangoni, e “Domus”, guidata proprio

da Gio Ponti e dal barnabita Giovanni Semeria. Già dal nome delle due testate è chiara la centralità assoluta

del problema della casa in un momento in cui l’architettura sta ridefinendo se stessa.

Siamo in questi anni proprio a cavallo tra le proposte dei “pionieri” (nel 1929 uscirà il primo volume

dell’Opera completa di LeCorbusier), che come le avanguardie militari, devono farsi strada tra la folla dei

benpensanti e stravolgere le idee con modi irruenti, e quello della “seconda generazione”, che, di poco più

giovane dei suoi predecessori, si farà carico di una ben più problematica diffusione delle idee del moderno

(momento cruciale è nel 1932 la mostra al MoMA “The International Style”).

Tuttavia già dalla nascita Domus ci propone un approccio nuovo, ma sempre e comunque animato dalla

ricerca sulla “casa del proprio tempo”.

Scriverà Ponti:

“La casa all’italiana è come il luogo scelto da noi per godere in vita nostra, con lieta possessione, le bellezze

che le nostre terre e i nostri cicli ci regalano in lunghe stagioni.

Nella casa italiana non vi è grande distinzione di architettura fra esterno ed interno…

La casa all’Italiana è di fuori e di dentro senza complicazioni, accoglie suppellettili e belle opere d’arte e

vuole ordine e spazio fra di esse e non folla o miscuglio…

Il suo disegno non discende dalle sole esigenze materiali del vivere, essa non è soltanto una ‘machine à

habiter’. Il cosiddetto ‘comfort’ non è nella casa all’Italiana solo nella rispondenza delle cose alle necessità,

ai bisogni, ai comodi della nostra vita ed alla organizzazione dei servizi.

Codesto suo ‘comfort’ è in qualcosa di superiore, esso è nel darci con l’architettura una misura per i nostri

stessi pensieri, nel darci con la sua semplicità una salute per i nostri costumi, nel darci con la sua larga

accoglienza il senso di una vita confidente e numerosa, ed è infine, per quel suo facile e lieto ornato aprirsi

fuori e comunicare con la natura, nell’invito che la casa italiana offre al nostro spirito di ricrearsi in riposanti

visioni di pace, nel che consiste nel pieno senso della bella parola italiana, il CONFORTO”4.

Queste parole rimangono delle vere e proprie linee guida nella conduzione di una rivista che vuole

innanzitutto essere alla portata di tutti, e non solo per un pubblico di specialisti, proprio perché crede che

sia necessario affrontare il problema dell’arte da un punto di vista più ampio, dove non a caso l’abitazione

diventa il luogo di concentrazione di una molteplicità di riflessioni di carattere non solo estetico, ma anche

morale e civile.

Proprio questo fa di Domus una rivista sostanzialmente diversa dalla posizione più “militante” di Pagano

(l’aggettivo è calzante se si pensa alle sue numerose campagne militari durante la Grande Guerra) che

combatte un’estenua battaglia per l’affermazione dei principi moderni.

Inizialmente tacciato di “ottimismo benpensante”, sintomo secondo lo stesso direttore di Casabella di una

segreto accordo con le forze più reazionarie del paese5, sarà solo dagli anni trenta che le posizioni di Ponti e

della rivista iniziano a farsi sempre più polemiche -e più acute- verso non solo lo stanco classicismo

accademico, ma anche verso una visione “fredda e razionale” dell’architettura moderna.

Da dieci anni infatti Domus portava avanti questa visione “morale” dell’arte e dall’architettura (che già

dall’inizio però prende le distanza da quella “macchina per abitare” figlia della meccanizzazione), la quale

però non poteva tardare a mostrare i suoi limiti, non solo dal punto di vista ideologico, ma anche da quelli

dell’efficacia comunicativa.

4. Gio Ponti, “La casa all’italiana”, Domus, a. I, n.1, gennaio 1928, p.7

5. Fulvio Irace, Gio Ponti. La casa all’italiana, Electa, Milano 1988, p.25

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In questo senso le posizioni politiche e sociali di Ponti lo porteranno fin dall’inizio alla necessità di fissare

nella casa e nel nucleo familiare il momento fondamentale per una riforma reale (e quindi morale) della

società. La visione, intrisa di filosofia crociana6 e di profondo zelo cattolico, ha da subito molta presa sul

pubblico, in una realtà in cui spesso le istanze democratiche sono confuse con quelle populiste; i toni della

rivista, le cui intenzioni sono sempre le migliori, scivolano, con sorprendente fluidità, dai toni rivoluzionari

a quelli più nostalgici, dove, se non altro, colpisce la visione sinceramente liberale e democratica con cui le

voci del coro si esprimono.

Dopo qualche anno infatti la rivista, sempre più in mano allo stesso Ponti, inizierà a rinnovarsi

periodicamente, annettendo sempre nuove sezioni, nuova grafica, nuovi collaboratori, tra cui anche

Bernard Rudofsky, che dal 1937 inizia a lavorare per la rivista milanese.

Non fu però solo questa continua spinta al cambiamento la vera forza e novità della rivista: ma piuttosto fu

quella di rappresentare veramente un’alternativa al panorama architettonico proposta dalle

contemporanee Casabella e Architettura. Il suo obiettivo primario infatti -quello di rappresentare la vita

moderna in tutte le sue forme- gli permise di mantenere una libertà di giudizio nella selezione delle opere,

degli ambiti e dei commenti che le altre testate ritenevano di non potersi permettere.

Mantenersi sul filo del rasoio però, badando a non cadere dall’una o dall’altra parte della staccionata senza

risultare per questo “qualunquisti”, è molto più difficile di quanto non si creda. L’equilibrista in questo caso

è proprio Ponti, che con i suoi poliedrici interessi e la sua figura carismatica riesce ad attirare a sé una

schiera di collaboratori coordinati secondo un disegno comune che solo lui poteva gestire.

La rivista diventa fondamentale quindi, non tanto per la sua continuità con la tradizione, quanto per la sua

capacità di instaurare rapporti non solo tra le arti, ma anche tra gli stessi collaboratori, come un grande

“tetto” sotto il quale tutti potevano ripararsi.

6. Sul numero di Casabella (settembre 1930) riporterà: “Uno Stile non è soltanto la cosa, come pretenderebbe un

classico, ma è anche l’Uomo, come affermano i Romantici”, in Fulvio Irace, Gio Ponti. La casa all’italiana, Electa,

Milano 1988, p.30

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2. PONTI, RUDOFSKY E COSENZA NELLE PAGINE DI DOMUS

Un esempio proficuo di queste collaborazioni che, una volta nate nella rivista possono anche finire in vere e

proprie opere cardine del modernismo in Italia, è quella tra il provocatore Rudofsky e il partenopeo Luigi

Cosenza. La conoscenza, avvenuta proprio tramite l’aiuto di Ponti, lì porterà infatti alle realizzazioni dal

1934 al 1937 di due ville nello splendido paesaggio del Golfo di Napoli: Villa Oro (1934-37) e Villa

Campanella (1936). Mentre la prima rappresenta non solo un esempio di contaminazione del modello

purista della “scatola bianca”, ma anche un felice esempio di collaborazione con la committenza, la seconda

resterà invece più nell’ambito delle proposte progettuali in risposta al problema della “casa di vacanza”.

Entrambe le case verranno ampiamente pubblicate e commentate dallo stesso Ponti sulle pagine di Domus

che in questi anni si stava sempre più occupando di temi legati allo sviluppo di un’architettura della casa

per il tempo libero (nuova grande necessità del vivere “moderno”), e di stabilire rapporti con gli esempi

dimenticati della cultura italiana: la casa tradizionale e la domus romana.

Facendo solo un piccolo balzo avanti troviamo un’interessante articolo di Rudofsky che nel febbraio del

1938 apparirà sulle pagine di Domus (n.122) sulla casa “funzionale e moderna” di Josef Berger.

Ad accompagnare il commento della casa Rudosky inserisce, nella ricerca di echi sostanziali tra architetture

lontane nello spazio e nel tempo, un confronto tra la casa pompeiana e quella giapponese; la somiglianza

non in termini stilistici ma in termini di qualità dello spazio è sorprendente: il ruolo fondamentale è quello

svolto dagli spazi aperti, vere e proprie “stanze” della casa.

Ma nell’articolo non scrive nulla di tutto questo e, lasciando che siano le immagini a chiarire le affinità

profonde dei luoghi aggiunge: “Tutto ciò prova che le fatiche e le aspirazioni umane sboccano in risultanze

universali, e che tali sono gli stili. La vita è molto meno complicata che non ne sospettiamo. Ai nostri padri

spetta l’onore di aver offuscato con maestria questo fatto, attraverso una catalogazione di stili puramente

formale”.

Alla base della sua profonda ammirazione per queste due culture (quella mediterranea e quella

giapponese), sta la visione della casa come parte di un progetto più ampio, che trascende sia il problema

dell’abitazione moderna che quello dello “stile moderno”: in questi luoghi lui ritrova un’idea dell’esistenza

basata sulla riscoperta dei piaceri fondanti dell’uomo , spirituali e sensoriali.

Potremmo definire il suo un ideale “epicureo” della vita, vicino all’ideale oraziano di “medietà”

(caratteristica peraltro attribuita anche a Ponti nel saggio di Fulvio Irace7) in bilico tra emozione fisica e

intellettuale.

La linea tuttavia è sottile, e pertanto, nella ricerca di tale equilibrio delle parti occorre una profonda e

sapiente analisi delle abitudini, usi, costumi contemporanei: dall’osservazione di tutti gli altri modi di vivere

(e costruire) alla ricerca della calzatura che meglio asseconda la nostra andatura.

Ancora una volta il progetto di architettura è parte del ben più ambizioso “progetto di vita” che ha come

7. Fulvio Irace, Gio Ponti. La casa all’italiana, Electa, Milano 1988, p.16

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obiettivo non la supremazia del nuovo spirito, ma, al contrario, la sempiterna dignità dell’individuo.

La dichiarazione d’intenti di Rudofsky si era infatti da poco concretizzata nella ben più complessa Villa Oro,

concepita come un grande belvedere sul golfo sottostante.

Nel dicembre 1937 appare infatti sulle pagine di Domus un articolo di Ponti a commento della casa appena

ultimata frutto di qualche anno di lavori dei due architetti.

Scrive Ponti: “In questo paese di bellezze senza paragoni una grande contentezza di se stessi ha ostacolato

conoscenza e critica. Mentre questo potrebbe essere il luogo di una profonda coscienza architettonica in

quanto proprio nel golfo di Napoli si possono studiare forme di abitazione che non hanno mutato da

duemila anni, espresse in certe costruzioni che sono quasi i fondamenti dell’estetica architettonica8”.

D’altronde è sempre lo stesso Ponti che già durante la Triennale del 1933 affida alla tradizione accademica

di Napoli, rappresentata dall’architetto Canino, la costruzione di una casa d’abitazione di chiara ispirazione

pompeiana.

Rispetto però ad una semplice riproposizione, per certi versi anche un po’ nostalgica, di una tipologia

antica, quello che fanno Rudofsky e Cosenza è una vera opera di commistione di caratteri desunti dalla

tradizione locale e quelle di più “alta” di matrice modernista.

L’esterno è giocato sui contrasti (intonaco-pietra) e sulle apparenti contraddizioni (pilastro in cemento -

muro portante), le quali però finiscono col risolversi naturalmente in un’unità compositiva.

I vani stereometrici, chiare forme sotto la luce, sembrano accatastati l’uno sull’altro come le stanze delle

case dei pescatori, per i quali l’abitazione non è il frutto compiuto di una mente artistica, ma è costruita per

stratificazioni, per progressive aggiunte, in accordo alle necessità. All’apparente casualità esterna

corrisponde tuttavia un attento studio dei percorsi interni secondo i principi modernisti: servizi e garage al

8. Gio Ponti, “Casa a Posillipo”, Domus, a. XI, n.138, giugno 1939, p.8

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piano terra, soggiorno, cucina e patio al primo piano e zona notte al secondo.

La distribuzione però, come nella tradizione popolare, è ridotta al minimo, sostituita dai passaggi esterni.

Già in questo progetto si comprende l’importanza degli spazi aperti i quali, moltiplicandosi in patii, verande,

terrazze, portici, moltiplica anche le possibilità delle relazioni, la qualità della fruizione del mondo esterno:

in alcuni casi è un luogo riparato e chiuso all’esterno, alle volte è una grande finestra sul paesaggio, altre

una terrazza a picco sul mare sottostante. L’esplorazione delle possibilità date dalla manipolazione degli

spazi esterni all’abitazione stessa diventa l’elemento cardine nella ricchezza della tradizione popolare e, allo

stesso tempo, una critica ai limiti imposti dalla nuova tradizione moderna. Gli interni, allo stesso modo, pur

restando lisci e funzionali, si concedono momenti di colore e drappi dai colori sgargianti che richiamano la

presenza all’esterno della vegetazione.

Con la sua morbida curva l’edificio riesce ad assecondare il movimento della Terra circostante, senza

costringerla in nessun modo, e anzi richiudendosi leggermente su se stesso in un intimo salotto all’aperto.

Villa Oro è quindi il risultato dell’osservazione più che della pedissequa applicazione delle formule, ma

tuttavia la sua novità rimane per certi versi limitata al gioco dei contrasti e degli spazi esterni in quanto la

struttura degli spazi è ancora quella tradizionale, in una labirintica distribuzione di spazi funzionali.

La messa in discussione e la riduzione all’osso degli spazi necessari alla vita –alla buona vita- avverranno

solo successivamente col progetto di Villa Campanella (o Villa a Posillipo), al cui programma funzionale

minimo richiesto per una “casa di vacanza” viene poeticamente associata una visione di “casa ideale”, le cui

dotazioni ridotte all’osso non sono il frutto di una mancanza, quanto piuttosto di un’attenta selezione degli

oggetti veramente “utili” alla nostra vita materiale, ma, soprattutto, spirituale.

In un ipotetico ritorno all’età dell’oro, l’uomo riduce i propri bisogni a pochi ed essenziali elementi: il

focolare, la doccia, il solario, la passerella che si affaccia sull’interminabile orizzonte. Il vero spettacolo è

quello della Natura mentre i volumi dell’architettura sono sintetizzati nei due monoliti solitari,

impenetrabili quanto imprescindibili e fatalmente separati dall’albero centrale. Sinuosamente, questo

s’infila nella copertura come una lingua di fuoco che, senza sforzo, brucia la sottile lastra che la separa dal

cielo, dalla luce, dalla vita. I due materiali usati: anche qui la pietra e il cemento intonacato, non fanno che

riassumere le categorie antitetiche degli elementi naturali e quelli artificiali, nell’eterna lotta dell’Uomo

contro la materia.

La Villa Campanella inoltre abolisce anche l’ultimo filtro tra l’Uomo e la Natura: anche le finestre

scompaiono finché la casa non diviene pura manipolazione dello spazio aperto, a metà tra architettura

dell’Uomo e architettura del paesaggio.

Avvolto nella sua aurea di austera semplicità, quest’opera possiede una grandiosa carica espressiva,

complice anche la magnifica posizione geografica.

Non meno attento all’aspetto poetico Ponti ama illustrare gli edifici accompagnandoli con schizzi e parole

che focalizzano più l’atmosfera e l’orizzonte culturale che i metodi costruttivi e la distribuzione delle

funzioni. Nelle prime righe di commento infatti appare subito di primaria importanza stabilire il profilo

dell’Uomo (moderno) che vive in questo luogo, come se lo spazio architettonico non potesse in alcun modo

prescindere da chi lo occuperà.

A gennaio del 1937 ancora Ponti affermerà: “Hanno studiato questa residenza ideale per un amico

immaginario, sano di corpo e sano di mente, senza pregiudizi, allegro e di buon appetito.9”

Il loro è chiaramente un programma di carattere utopico più che un serio suggerimento alla costruzione

della tipologia della “casa di vacanza”. Eppure il carattere gioviale e più “carnale” della natura umana viene

messo in evidenza come uno degli elementi fondanti dell’Uomo.

In una fantasiosa visione di una geografia analoga Rudofsky vede l’edificio a picco sul mare solcato dai

viaggi di Ulisse; è il mondo greco, matrice comune a tutta la cultura occidentale, verso cui puntano i due

architetti; verso la città di Atene per la sua cultura, Sparta per l’educazione al movimento, e Sibele per la

sensualità della vita e il contatto con la Natura.

9. Gio Ponti, “Una villa per Positano e per … altri lidi”, Domus, a. IX, n.109, gennaio 1937, p.8

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Forse ispirato da questi due progetti, anche lo stesso Ponti finisce nel 1937 con il realizzare una piccola villa

al mare per la famiglia Marchesano (Bordighera): il prospetto è informale, c’è una certa accentuazione

dell’orizzontalità delle linee ma manca ancora di incisività un linguaggio ancora incerto tra neoclassicismo

“novecento” e modernismo “lecorbuseriano”.

In questo periodo infatti c’è sempre una sostanziale distanza tra le opere di progetto e le realizzazioni.

Il mondo e il dibattito architettonico riflesso nelle pagine di Domus risulta quindi più vivace del panorama

delle opere realizzate. Ma pur essendo consapevolmente lontani dalla reale possibilità di “mettere in

pratica” principi e dichiarazioni d’intenti, la forza indagatrice della rivista non ne risulta lesa.

Il carattere utopico degli articoli, che sfocerà poi in vere e proprie descrizioni in chiave onirica della “casa

moderna”, sarà infatti alla base delle realizzazioni di Gio Ponti negli anni cinquanta che sfrutterà questi anni

come veri e propri “esperimenti” nonché momenti di profondo dialogo con collaboratori provenienti da

tutta Europa.

.

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15

3. ALTRI PROGETTI DI “CASA IDEALE” NELLE PAGINE DI DOMUS

“E’ nella casa dove più e soltanto siamo persone, individui singoli, con le nostre intime, estreme libertà ed

evasione con i nostri sogni. Essa, la casa deve quindi essere eminentemente il luogo e lo specchio della

personalità …. E’ appunto la idiota standardizzazione della abitazione che ha fatto divenire la casa in molti

casi (appunto quando rispecchia soltanto un ordine a noi esteriore) un altro luogo dal quale evadere: essa

ha da essere il nostro rifugio, il luogo per le nostre intime e complete evasioni dalle durezze del lavoro

quotidiano”10

. Gio Ponti, 1941

Con il progressivo avvicinarsi dello scontro mondiale, gli articoli e le riflessioni presero progressivamente

toni più “evasivi”, legati ad una visione idilliaca del mito mediterraneo, in una sorta di ritrovata “armonia”

con la Natura. Non che l’aspetto tecnico fosse ritenuto meno fondamentale, ma l’incalzare delle posizioni

estremiste nel dibattito architettonico e politico non fece che “retrocedere” in qualche modo una

personalità tollerante e più incline al dialogo come Ponti, la quale finì per rifugiarsi sempre più all’interno di

progetti teorici, case ideali e pubblicazioni più surreali.

Il totale distacco divenne poi evidente con la “pausa” di Ponti da direttore della rivista duranti gli anni più

cruenti della guerra, durante la quale egli preferì dedicarsi ad una rivista come “Stile”, più indipendente e

improntata alla riflessione artistica che non alla creazione di nuove opposizioni. Per l’architetto milanese fu

sostanzialmente un periodo di riflessione sul lavoro svolto in Italia in materia di architettura moderna.

Grazie anche ad una grafica minimale, disegnata a pennellate veloci e piccoli disegni a mano libera dello

stesso Ponti, la rivista voleva ritenersi una piccola “isola felice”, un posto sicuro nel quale ritrovare un po’ di

bellezza, proprio in un momento in cui oramai tutto sembrava perso negli orrori della guerra.

Cercando tuttavia di analizzare in modo più compiuto i momenti salienti di questa progressiva discesa in un

mondo mitico e diverso dal presente, si possono ripercorrere progressivamente i diversi progetti di case

ideali che mano a mano si susseguono nelle pagine della rivista, la quale diviene sempre più un diario di

bordo dei pensieri e delle conclusioni del direttore stesso.

BERNARD RUDOFSKY: CASA A PROCIDA E LA CASA-GIARDINO

Sulla scia delle realizzazioni del Golfo di Napoli nel marzo del 1938 esce un lungo articolo di Bernard

Rudofsky per una prima “casa ideale”: la “casa a Procida”.

La sua è sì un’utopia, ma con una collocazione ben precisa. Ancora una volta però e l’elemento mitico,

meglio di quello geografico, che meglio rappresenta la posizione del progetto rispetto all’isola: il

promontorio del Circeo, il Vesuvio e così via.

Anche se il modulo generale dell’impianto planimetrico è regolato dalle misure del tatami giapponese, la

casa si organizza tutta attorno alla stanza centrale, verso la quale sono rivolte tutte le aperture, come

tradizione italica. Per sottolineare il carattere centrale di questo spazio, i corridoi sono aboliti a favore dei

passaggi esterni, e le stanze vengono così a ridursi in piccole cellule in cui svolgere tutte le proprie mansioni

in privato. Ci sono inoltre due zone giorno: una a diretto contatto con il giardino esterno (a sua volta

delimitato da un altro recinto), e un altro invece pensato per la stagione più fredda e le serate di pioggia: la

sala e quindi ridotta agli elementi essenziali: un pianoforte, un letto-triclinio per rilassarsi, e le finestre

profonde con il doppio infisso che permettono di modulare a proprio piacimento la luce e le aperture della

sala. Non c’è nessun oggetto superfluo, nessun elemento di disturbo.

Una nota a parte meritano le soluzioni per la zona dei servizi e la camera da letto.

Sempre nell’ottica infatti del recupero delle “buone pratiche di vita” rientra anche lo spostamento del

fulcro del problema dall’idea di “igiene” a quella del “lavarsi”: il suo archetipo, la senso emozionale di

10. Gio Ponti, “La casa vivente ”, Bellezza, n.10, 1948

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questo gesto, risiede nell’idea della “purificazione” fisica e spirituale. Il bagno viene quindi diviso in due

stanze: da una parte troviamo solo la vasca, ridotta ad un netto scasso nel pavimento di pietra poi riempito

d’acqua, mentre nell’altra vengono lasciati gli “arnesi”, semplici elementi funzionali la cui posizione e

rilevanza è figlia del proprio tempo.

Anche la stanza da letto è regredita al solo pavimento completamente ricoperto di materassi, al cui centro

scende una zanzariera per proteggere chi dorme durante l’estate.

La dotazione minima della casa, che tocca quasi punte di ascetismo mistico (come anche il piccolo

padiglione esterno nel verde comporto solo di un tendone, un triclinio, e uno specchio d’acqua), non lascia

tuttavia indifferenti neanche noi, poiché in essi troviamo ancora valori, sogni e speranze di vita per l’oggi.

La vera proposta di Rudofsky, più che una provocazione, lanciata sulle pagine di Domus è quella di

intendere la “scienza dell’Architettura” piuttosto come un sistema (e uno dei molti possibili) per conoscere

e interpretare le azioni umane, e non come un sistema di verità.

L’analisi è quindi “antropocentrica”, fatta su chi vi abita realmente e cerca nella casa non un riparo, ma un

rifugio, non un soggiorno, ma un focolare.

L’apparente inversione di prospettiva (da fuori a dentro), lo porta ad iniziare uno studio approfondito sul

modello mediterraneo della casa, una riflessione che, pur seguendo la logica “razionale”, finisce per

risultare quasi anacronistica: in un mondo in cui l’Uomo si può permettere di “aprire” la scatola della casa,

ha senso chiuderla totalmente e aprirla nell’unica direzione i cui sarebbe necessario ripararsi, il tetto?

A ben guardare tuttavia risulta assurdo il contrario, e cioè che, poiché la tecnica ci permette di avere pareti

di vetro, l’Uomo può rinunciare alla sua intimità in favore delle “esigenze moderne”!

Il senso vero di questa ricerca sta quindi tutto nello studio, razionale, di quali siano le necessità spirituali e

sociali che fanno dell’abitazione una “casa”, e non, al contrario, cercando un nuovo modo di vivere desunto

dalle nuove possibilità tecnologiche.

“Per le persone di gusto e sane di mente ragionatrice “modernità” è un’aristocrazia nella scelta e l’adozione di una

misura e di una semplicità che si sposa alle più educate esigenze. Modernità è un atteggiamento di vivere, di pensare,

di conoscere, di giudicare, prima che di “arredare”11

.

La citazione proviene da una piccola riflessione teorica, posta a fronte della “casa a Procida”, che proponga

un’immagine sintetica e suggestiva di quelli che sono i principi fondanti dell’abitazione: la casa-giardino, la

quale consiste, in pratica, in un’unica stanza verde, senza tetto, senza finestre e una porta, dove si adagiano

liberamente gli oggetti, e solo quelli veramente necessari.

11. Bernard Rudofsky, “Falsi e giusti concetti nella casa”, Domus, a. X, n.123, marzo 1938, p.1

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Ogni elemento raffigurato ha un significato ben preciso: la casa pompeiana, come quella giapponese, trova

il suo fulcro nel patio centrale, il quale è visto non solo come una vera e propria “stanza” senza tetto, ma

come luogo fisico-simbolico dove è concentrata la sacralità del privato.

La casa dell’Uomo rifiuta l’ornamento e l’apparenza all’esterno, poiché essa è sovrastruttura sociale, per cui

l’unico decoro è l’uso dei materiali locali, e la riduzione dell’architettura ad una sorta di “contenitore

neutrale”10

.

Le pareti spesse, in mattoni rossi, (rotte solo dalla porta come elemento di passaggio) rifiutano

l’evanescenza dei materiali moderni, e riportano invece all’idea ancestrale del “recinto” come “atto

fondativo” dell’abitazione. Un’interpretazione, la sua, anche di certi atteggiamenti istintivi dell’uomo

mediterraneo, che cerca nella sua casa un elemento radicato, solido, al di là dei terremoti economici e

sociali, una metafora insomma, di quello che, per un italiano, è il senso sociale della famiglia.

La geometria è rigida, semplice, poiché l’Uomo riconosce che la Natura è organica, ma l’Architettura, come

artificio, è minerale.

L’idea è quella di un’hortus conclusus, in cui è possibile godere del contatto degli elementi naturali.

Così il manto verde e l’albero ci raccontano un modo di vivere la Natura: non si tratta della visione

“sublime” degli spazi aperti, lo spannung provata di fronte all’immensità del tutto; ma piuttosto è il

contatto cheto e dolce dell’erba sui piedi nudi, è l’Uomo che ritrova il contatto con la Terra, come elemento

reale, sensazione tattile e olfattiva, oltre che visiva.

Poi solo un letto-triclinio, due sedie, un tavolo, un pianoforte, una lampada, un attaccapanni: la riduzione

all’essenziale non vuol costringere alla “sopravvivenza”, ma piuttosto è la selezione oculata degli elementi

necessari alla “vita”. Il pianoforte rimanda alla più irrazionale delle arti, la musica, la lampada è per la

lettura, il letto è anche triclinio per desinare, le sedie sono per la compagnia.

Ogni elemento, poiché è frutto di una cultura, ha un significato psicologico e sociologico prima di diventare

carattere architettonico.

Ed è proprio questa stratificazione di significati che dà alla ricerca di Rudofsky un senso nuovo rispetto, ad

esempio, alle teorie ottocentesche (tra cui quella di Semper), sulla ricerca degli elementi fondanti

dell’architettura: il tetto, il recinto, il focolare, sono caratteristiche generiche, che non ci dicono nulla sul

carattere proprio di uno spazio, che va quindi compreso e restituito in base alla cultura di un luogo, alla sua

visione sociale della famiglia, al valore dell’individuo rispetto alla comunità.

Non è un caso quindi che l’esempio più celebre di questa “teoria naturale” dell’abitazione sia stata costruita

proprio da un italiano emigrato a New York: Costantino Nivola, per cui Rudofsky progetta nel 1949-50, la

Nivola House-Garden.

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Il progetto, a metà tra scultura, architettura e paesaggismo può quindi essere inteso come un decalogo

dell’abitazione mediterranea, e insieme una riproposizione della trazione italiana del giardino grazie alla

modulazione degli spazi che lo delimitano: non esiste nell’architettura tradizionale italica, un interno e un

esterno ben definiti; di fatto lo spazio varia, poiché cambia, adattandosi alle varie attività umane

all’esterno. Il recinto chiuso, la maglia del pergolato, la corte aperta, sono i vocaboli della lingua

dell’architettura italiana per definire la qualità di uno spazio aperto.

Di fatto, la casa-stanza verde, è un programma ideale, anzi, quasi sur-reale, dell’abitazione moderna, e in

quanto tale non rappresenta la risposta a requisiti minimi, né indici, né standard, che invece

caratterizzavano la ricerca dei CIAM sull’Existenzminimum.

La necessità tuttavia di dare un volto umano alla dottrina “modernista”, agli spazi minimi, alla

razionalizzazione degli arredi, stava portando i maestri stessi del modernismo verso soluzioni meno

consuete. Un’interessante eco infatti delle idee di Rudofsky viene proprio da LeCorbusier, i cui scritti

vengono spesso riproposti in questi numeri sulle pagine di Domus.

E’ lo stesso LeCorbusier infatti a pubblicare in un numero di pochi mesi precedente a quello della casa-

giardino, un articolo –dal titolo “il Vero sola ragione dell’architettura”- a commento di una casa a picco sul

mare di Capri, costruita da un suo amico senza l’aiuto degli architetti.

Anche qui il “progetto” è il pretesto per parlare un modo di intendere il moderno ce va oltre gli aspetti

superficiali della “patina modernista”, ma che finisce per ricalcare i valori sempiterni dell’architettura,

poiché coincidono con i bisogni immutabili dell’animo umano.

Nel numero 124 invece (il mese dopo la pubblicazione della casa ideale di Rudofsky), ecco spuntare un altro

progetto anomalo di Le Corbusier: si pubblicano (a illustrazione di una lettera di un cliente stanco degli

architetti che continuano a prendere il “moderno” come una formula da applicare senza criterio) gli interni

di Charles de Beistegui (1930-31). L’intento leggero, divertente, che pervade l’intero intervento, agisce,

proprio come il modello di Rudofsky, in maniera dissacrante verso quella “rigidità etica” propria della prima

avanguardia.

La foto del salotto incoerentemente posto nel verde inoltre, di fronte ad un focolare incastonato in alti

muri-balaustre, rimandano anche visivamente proprio a quegli elementi caratteristici del “fulcro” della

casa.

I due progetti, sebbene sicuramente non accomunabili negli intenti, ci riportano però ad una stessa

dimensione di astrazione, ad uno stesso approccio di semplificazione.

In entrambi i casi è l’orizzonte culturale a dare carattere di “domesticità” alla casa.

GIO PONTI: LE CASE AL MARE E IL PROGETTO PER L’HOTEL SAN MICHELE

“Io penso, convintissimo, che questa semplicità sia il

raggiungimento di un lusso dello spirito e che ogni

aggiunta di ricchezza conduca assolutamente a un

risultato inferiore”12

Gio Ponti

“E’ cosa certa che le membra dell’architettura dipendano

dalle membra dell’Uomo. Chi non è stato o non è buon

maestro di figure e massime di notomia, non se ne può

intendere”

Michelangelo

Sulla scia di queste pubblicazioni poi Gio Ponti stesso proporrà durante tutta l’estate del 1939, una serie di

progetti sul tema –tipicamente mediterraneo- della “casa al mare”.

Gli elementi ancora una volta si ripetono in una variazione infinita di possibilità: il soggiorno all’aperto, su

cui si affacciano le abitazioni, che, seppur con spazi minimi rispetto alle proposte precedenti, iniziano ad

assorbire un carattere leggermente vernacolare (come ad esempio la progettazione dell’esterno “per

12. Gio Ponti, “Un casa al mare”, Domus, a. XI, n.138, giugno 1939, p.34

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stanze”, come nell’architettura tradizionale in cui accade che l’aspetto finale dell’oggetto architettonico è

solo frutto del graduale aumento dei vani).

Le piante sono studiate per spiegare come ci si vive, cosa si vede, come si sta seduti.

Anche nel suo caso la rappresentazione del progetto è resa con tinte forti e seguendo la tecnica del

ribaltamento della visione dell’interno sul pavimento (come nelle case romane in cui anche questo era un

elemento importante della decorazione della casa), la quale restituisce una visione immediata ed esplicita

della vita all’interno della casa.

Altro elemento fondamentale per le sue successive realizzazioni è la descrizioni della pianta attraverso le

visuali di chi vi abita. Nei suoi disegni il segno dei muri diviene sempre più inconsistente, mentre prendono

forza pian piano i percorsi interni, le viste attraverso la casa, gli scorci improvvisi sull’esterno.

All’improvviso, in questa nuova architettura fatta di persone viventi che occupano uno spazio per il loro

bisogno spirituale, i tradizionali segni dell’architettura sembrano non bastare più, e vengono così sempre

accompagnati da nuovi commenti, aggiunte, momenti di svago.

Lo spazio interno diventa una composizione frammentaria di momenti unici, studiati ad hoc dall’architetto.

I colori, le fantasie, le divagazioni artistiche, frutto anche di quella magica fuga dall’incubo della guerra, non

sono più viste come sovrabbondanze inutili a fini funzionali, ma piuttosto come una serie di creazioni che il

“genio” dell’architetto regala alla sua committenza.

Anche la sezione prospettica diventa un modo per “raccontare” come questi spazi a chiunque non abbia

una formazione prettamente tecnica, ma sia semplicemente alla ricerca di un piccolo “rifugio” dello spirito.

Gli spazi procedono gradualmente dall’interno verso esterno nella ricerca di una definizione sempre

maggiore del carattere degli spazi di transizione.

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L’importanza data alle caratteristiche dei materiali, al colore, al rapporto con gli elementi naturali

circostanti, sono tutti elementi anch’essi derivati dalla “visione” della casa-giardino, a metà tra idillio

mediterraneo, e nuovo sviluppo di un’edilizia turistica di qualità.

Durante quegli stessi anni infatti Gio Ponti e Bernard Rudofsky avevano collaborato alla stesura di un

progetto per un Hotel vicino Capri (Hotel San Michele),

la cui costruzione verrà sospesa a causa della guerra.

In questo caso il problema andava a spostarsi

gradualmente anche all’agglomerato di edifici, i quali

venivano concepiti come un piccolo villaggio

organizzato attorno ad un centro urbano con edifici per

servizi generali (reception, ristorante, bar).

I singoli rifugi invece, vengono pensati uno diverso

dall’altro, per sfruttare al meglio in ogni punto quelle

che sono le condizioni del sito (orientamento, venti

etc.).

Il senso di libertà dell’individuo, finalmente padrone

del proprio spazio, e un ritrovato contatto con la

Natura sono qui trasformati in piccole architetture,

dove alla riduzione al minimo dello spazio coperto,

corrisponde una varietà molto più ampia di luoghi

all’esterno della “scatola”.

Di fatto, molti dei disegni pubblicati sul numero di

giugno del 1939 derivano da una rielaborazione degli

schizzi fatti nel 1937 per questo progetto. Le singole

unità residenziali infatti non sono altro infatti che

piccole abitazioni “utopiche”, lontane anni luce dalle

preoccupazioni e i problemi del mondo metropolitano.

Questo fu solo l’inizio di una fase –che si concluderà poi con la partenza di Rudofsky per il Brasile e il

successivo abbandono di Gio Ponti alla direzione della rivista- di sperimentazione delle possibilità della

“casa ideale”, progettata sulla scia del motto: “Non abbiamo bisogno di un nuovo modo di costruire,

abbiamo bisogno di un nuovo modo di vivere”.

Il secondo conflitto mondiale segnerà di fatto una netta cesura con le esperienze precedenti, tuttavia il

magnifico laboratorio di sperimentazione che Domus fu negli anni Trenta rappresenterà il necessario

preludio agli sviluppi dell’architettura di Ponti nel secondo dopoguerra.

Svincolatosi gradualmente da una certa tendenza “neoclassica”, accomodante e per certi versi anche un po’

nostalgica, giungerà agli anni cinquanta con rinnovata vitalità e gioia di vivere.

Grazie ad una strana inversione dei ruoli, se negli anni Trenta è Rudofsky a risultare molto più dissacrante

rispetto al suo direttore, è Ponti nei decenni successivi a rappresentare il volto più emancipato

dell’architettura. Alla sempre più pervadente vitalità dell’architetto milanese farà da contraltare un

graduale abbandono della progettazione per Rudofsky, a favore di progetti dal carattere fortemente teorico

nel nuovo continente.

21

PARTE III

LA FASE AMERICANA DI RUDOFSKY E LA PRATICA DELLA CRITICA CULTURALE

22

1. LA VISIONE DELLA STORIA NELLA COSTRUZIONE DELLO SPIRITO MODERNO: GIEDION E

RUDOFSKY

“La forma delle abitazioni cambierà velocemente come

velocemente cambia la moda dei vestiti”

Sigfried Giedion (citando Henry Ford)

“La casa non deve essere di moda perché

non deve passare di moda”

Gio Ponti

La ricerca di Rudosky delle radici dei costumi e dei modi di vivere dell’umanità, che si protrarrà per tutta la

sua vita, rappresenta uno degli studi più ricchi di suggestioni, alla ricerca di un’alternativa alla propensione

dell’Occidente di soccombere all’industrializzazione.

In questo senso gli articoli scritti per Domus tra il 1937 e il ’39, rappresentano l’inizio di una serie di

pubblicazioni molto più approfondite sul tema dell’architettura cosiddetta “spontanea” e sull’analisi dei

costumi del mondo cosiddetto “moderno” (nel 1947 con The unfashionable human body, mentre nel 1964

uscirà il suo libro più celebre Architecture without architects, entrambi cataloghi di due mostre tenute al

MoMA di New York).

La sua analisi, è questo il punto fondamentale che ancora attrae per la sua modernità, presuppone, prima

di tutto, l’abbandono di ogni tipo di preconcetto verso le altre tradizioni, poiché, a ben guardare

“Occidente” non è sempre sinonimo di “razionalità”, e tantomeno di “modernità”.

Anche se è soprattutto nel campo dell’analisi dell’abbigliamento che risulta più incisivo nella messa a nudo

di una presunta “superiorità” occidentale (la quale, invece, alle volte, non fa che scimmiottare senza

saperlo mode paragonabili a quelle delle popolazioni non “civilizzate”), e nell’analisi dell’architettura

tradizionale che troviamo echi dissonanti con altri autori, veri e propri fautori del “mito moderno”.

Nel 1948 esce in Inghilterra il libro di Sigried Giedion Mechanization takes Command. A Contribution to

Anonymous History (trad. it. L'era della meccanizzazione, Milano 1967).

Lo spirito che anima le due pubblicazioni, che non fanno che condensare in un discorso compiuto anni di

ricerche più ampie, è praticamente agli antipodi: Giedion vede infatti nell’evoluzione della strumentazione

tecnica dell’uomo un elemento imprescindibile della modernità, che, come in una magnifica e logica linea

evolutiva, porta dai tempi ancestrali ai giorni nostri; la trattazione i Rudosky invece è tutto fuorché lineare,

ma si lascia invece trasportare dalle analogie delle immagini, dallo spirito dei luoghi lontani tra loro, alla

ricerca non di una ma di molteplici, infinitamente complesse, e tutte profondamente razionali, radici

dell’architettura.

Giedion vuole mettere un ordine e dare delle priorità, vuole anche dare una base storica sostanziosa ai

principi tayloristi propri della produzione applicati all’architettura: funzionalità, efficienza, igiene, linearità.

A questi Rudofsky risponde spostando il punto focale: praticità, conforto, pulizia, semplicità.

Non è un gioco di parole: è nella loro esattezza che sta tutta la differenza.

La funzionalità (una risposta al come fare una cosa con il minor sforzo possibile) che non si chiede perché

compiamo quell’azione in quel determinato modo è pura meccanicità.

L’efficienza che non tenga conto nelle necessità spirituali e sensoriali del nostro corpo (il contatto “filtrato”

con la Natura, o la sensazione tattile che i materiali provocano sulla nostra pelle), è solo aridità di spirito.

L’igiene che non contempli un’idea più ampia di “cura del proprio corpo” (eco qui ancora una volta del

detto latino “mens sana in corpore sano”), non è che una necessità sanitaria al limite della sopravvivenza.

La linearità, visto come dogma di fede dell’angolo retto, è solo ricadere negli stessi errori commessi dagli

storicisti13

.

Alla base dei due approcci sta il diverso valore dato alle innovazioni industriali e dei materiali: Giedion trova

nell’approccio scientifico-matematico la base per scomporre le attività domestiche in unità meccaniche,

mentre Rudofsky vede le conquiste tecnologiche non come un avanzamento reale del progresso, ma come

13. Bernard Rudofsky, “Falsi e giusti concetti nella casa”, in Domus, a. X, n.123, marzo 1938, p.1

23

uno dei tanti aspetti della manifestazione di una civiltà che non può essere giudicata solo in base all’uso o

meno di un fucile automatizzato.

Una buona metafora di queste due visioni ci viene dal mondo delle scienze evolutive: il modello

darwiniano. Questo infatti, il cui eco in entrambi i libri è sicuramente molto poco casuale, parte

dall’osservazione che in ogni luogo vi sono specie animali e vegetali perfettamente adatte alle particolari

condizioni dell’ambiente, tuttavia Darwin non arriverà mai a immaginare l’evoluzione come una scala (cosa

che sarà invece fatta proprio da Giedion e dalla cultura positivista), dove alla base stanno concezioni meno

evolute e, alla sommità, l’uomo industriale.

In realtà il modello proposto è sostanzialmente diverso: l’evoluzione, sostiene Darwin, non è lineare, ma

procede per ramificazioni: non vi sono tra gli animali e le piante oggi viventi sulla Terra organismi più

evoluti e organismi meno evoluti. E’ questo il modello di Rudofsky applicato all’antropologia: partendo

dall’idea che esistono tante civiltà di pari dignità, ognuna presenta profondi di significato e istanze di

modernità. In questo senso vanno anche fugati i dubbi di quanti vedono in lui reminescenze nostalgiche di

una perduta “età dell’oro” (cosa che invece caratterizza i moralisti ottocenteschi), primo tra tutti lo stesso

Tafuri14

.

Nell’avanzamento dell’industrializzazione infatti non vede né un sostanziale progresso (visione positivista)

né un regresso (visione nostalgica), quanto piuttosto, una delle tante alternative del mondo

contemporaneo. Non bisogna quindi confondere la visione pessimista regressiva, con la condanna –etica,

sociale e politica- della fiducia incondizionata dell’occidente di essere la depositaria della verità.

La visione di Giedion tuttavia riscuote certamente più successo, in un momento della storia in cui avere

fiducia nell’industrializzazione è necessario per credere nella rinascita economica del mondo, mentre quella

di Rudofsky non vuole sostituire un ordine, ma piuttosto punta a destabilizzarlo con la provocazione.

14. Manfredo Tafuri, Storia dell’Architettura italiana 1944-85, Einaudi, Torino 1986, p.326

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PARTE IV

GLI ANNI CINQUANTA E LA “JOIE DE VIVRE” NELLE OPERE DI GIO PONTI

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1. I MUTAMENTI DEL DOPOGUERRA E LA “LIBERAZIONE DELLA CASA”

Il conflitto mondiale aveva finalmente reso possibile prendere le distanze dal passato.

Quello in cui non era mai veramente riuscita l’avanguardia artistica più radicale, riuscì, senza neanche

volerlo, ai politici e alla classe militare.

Le diseguaglianze sociali, le carenze sanitarie e le leggerezze politiche in materia urbanistica scoppiarono

improvvisamente come bombe a orologeria programmata: il giorno dopo la fine della guerra tutti

riuscivano finalmente a vedere gli errori commessi in passato e tutti, come i pellegrini nell’anno delle

indulgenze, si potevano sentire “mondati” dai peccati precedenti.

I problemi dell’Italia infatti non erano cambiati, erano sempre gli stessi, solo ricoperti da una coltre di

macerie che rendeva impossibile far finta di non vedere.

Il profilo psicologico dell’Italia al risveglio dal conflitto mondiale fu uno degli aspetti necessari alla

comprensione dei successivi sviluppi del paese: sostanzialmente tutti infatti potevano sinceramente dire di

aver chiuso col passato e così, quando si andò a formare una nuova Italia, una repubblica democratica

finalmente a suffragio universale, non si sentì il bisogno impellente di cercare una nuova classe dirigente,

ma molti si “traghettarono” semplicemente al di là della barricata dopo essersi cosparsi il capo di cenere.

Questo fu vero soprattutto tra gli architetti che da sempre avevano avuto un rapporto ambiguo col potere

fascista e non privo di contraddizioni. La buona tolleranza infatti, che aveva caratterizzato il regime in

materia di architettura moderna, non fece che procrastinare la scelta decisiva di quella generazione di

progettisti che sapeva di credere soprattutto negli ideali della modernità e della libertà individuale.

Ed è proprio quindi nell’ambiguità di questo periodo che risiede la possibilità dello slittamento di significato

da un’architettura moderna impugnata egualmente come simbolo del regime fascista prima e della

repubblica democratica poi. Chiaro però che fossero necessari degli aggiustamenti di tiro, e chiaro che, se si

volevano nuove ispirazioni, queste andavano cercate non più nelle vecchie e stanche capitali europee, ma

nei fervori politici e culturali delle nuove nazioni indipendenti nate dallo smembramento delle potenze

coloniali.

Anche Gio Ponti partecipò più che attivamente a questo grandioso “trasloco” dal quale, lui come gli altri, ne

uscì profondamente segnato. Lontano dalla possibilità di rifugiarsi di nuovo nei toni evasivi di “Stile”, decise

anche lui che la nostalgia e la contemplazione non erano adatti all’ideale della ricostruzione: “Se vogliamo

conservare all’espressione umana un valore di civiltà, anzi, i suoi valori di civiltà, dobbiamo essere novatori,

ricrearla continuamente. L’avrete visto: la guerra ha distrutto opere d’arte: illusione nostra era che esse

durassero oltre queste vicende del tempo. Per ‘recuperarle’ non vi è che da farle di nuovissime,

ambiziosissimamente. L’arte è un fenomeno di creazione, di vita”16

.

All’interno di questo vortice di attività frenetica e benefica, in opposizione alla contemplazione sedentaria

figlia di un’opulenza viziata, Ponti ingloba le sue ricerche e le sue conclusioni condotte sulla casa nei

decenni precedenti alla guerra. Tuttavia, per riproporre il tema dell’abitazione moderna ad un pubblico

diventato tanto sensibile da averlo trasformato in grido politico, Ponti deve allargarne la prospettiva.

Intuendo come il problema di lì a pochi mesi sarebbe uscito dai salotti per rigettarsi nelle strade, decide di

“La grandezza di un architetto sta nel sapere interpretare le

voci segrete dell’edificio. Sta in una obbedienza intelligente alla

natura delle cose. Da ciò deriva che la “spontaneità” degli

edifici, anche degli edifici moderni; da ciò l’architettura potrà

dirsi spontanea e sarà anche

– vorrei dire – facile, chiara, perfetta.”15

15. Gio Ponti, “Invito a considerare tutta l’architettura come spontanea ”, Domus, a. XVIII, n.304, marzo 1955, p.1

16. Gio Ponti, Ciò che dobbiamo conoscere per ricostruire il paese, Milano 1944, p.91

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affrontarne sia le questioni tecniche più urgenti, che quelle teoriche. La casa, in sostanza, diventerà per lui

vero banco di prova di una serie di riflessioni sulla natura stessa dell’Architettura.

Il 1947 segnerà per Ponti il ritorno alla direzione “Domus”, la quale viene subito inaugurata con la

pubblicazione di alcuni opuscoli allegati: “Politica dell’Architettura” e “Verso la casa esatta”.

Il rinnovato ruolo sociale dell’architettura è intesa però non solo come un’utopia democratica (la casa per

tutti) ma come vero e proprio scopo dell’architettura moderna che si fa quindi “sostanza della politica

sociale, per gesti concreti; essa è la sostanza di una politica che non si vuol risolvere più, né esaurire, in

dibattiti teorici e proclamazioni di diritti e doveri ed eguaglianze, ma si vuol risolvere in condizioni concrete

di esistenza civile degli uomini: non si esaurisce nel dibattere e proclamare, per fare un esempio, il diritto

alla “casa per ciascuno”, ma vuole identificare quel diritto nella costruzione vera e propria della casa

(bella)”17

.

Questo diritto è tutt’altro che riducibile alla pianificazione del piano-tipo o della casa-tipo; l’individualità

umana infatti è anch’essa diventata una necessità prioritaria.

Se quindi prima della guerra la “casa al mare” era un luogo per ritrovare se stessi, un pretesto d’evasione

dal clamore della metropoli da parte di un certo ceto borghese più che facoltoso; ora è veramente il luogo

dove tutti (anche i meni ricchi) devono riconoscersi, una specie di “democratizzazione” dell’abitazione,

nuovo sacrario dei diritti inviolabili di ogni cittadini.

Il riconoscimento dell’importanza dell’individualità nella costruzione della casa moderna è quindi allo stesso

tempo punto di sintesi delle passate esperienze nella rivista Domus, e insieme nuovo elemento di

riflessione nel momento in cui l’architetto è chiamato a risolvere uno dei più grandi dilemmi del

dopoguerra: come comportarsi di fronte alle evidenti necessità pratiche di creare abitazioni per grandi

masse in breve tempo, senza cadere nella monotonia della ripetizione ossessiva?

La ricostruzione su vasta scala infatti rendeva necessario l’aiuto dell’industria, che grazie ai concetti di

standardizzazione e normalizzazione, aveva reso disponibile un’ampia gamma di scelte costruttive, nuovi

materiali, nuove tecniche, nuove frontiere. D’altronde però l’elemento tecnico doveva essere gestito dalle

mani degli architetti, essi si dovevano “servire” delle nuove possibilità tra cui la loro varietà, rapidità,

precisione e adattabilità, eliminandone però la monotonia alienante.

L’implicita critica che Ponti muove alla nuova società è quella di essersi arresa ad un “consumismo” delle

immagini e delle forme, con conseguenze del tutto inaccettabili per chi, dopotutto, crede ancora nel potere

dell’Arte. Le apparenti contraddizioni quindi che Ponti sembra esprimere nelle sue riflessioni, sono poi, di

fatto, risolte alla luce delle motivazioni: lo scopo “sociale” dell’architettura non è solo sviluppo di un’unità

perfettamente funzionale, ma comprende anche la preservazione di quei “margini di libertà” individuali

all’interno della propria casa; l’apporto dell’industria, necessario alla costruzione dei grandi numeri, è

interessante per le possibilità che apre all’architetto, non perché egli ne resti schiavo; la casa è fatta per chi

vi abita, per i loro sogni, i loro interessi, e perciò scopo prioritario dell’architetto è rappresentarlo con

giudizio e, per quanto possibile, far sì che lo spazio creato risulti anche “versatile”, “mobile”, capace di

adattarsi a nuove situazioni inaspettate.

La casa del futuro non solo è “esatta”, ma soprattutto “adatta” all’Uomo che la abita: “Si va nella tecnica

dal pesante al leggero, dall’opaco al trasparente. Ciò che è antico, primitivo, primordiale è rozzo e pesante,

opaco: via via si passa al leggero, poi al trasparente: dalla pietra, al ferro, al bronzo, si passa ai metalli

leggeri e infine alle materie plastiche trasparenti… Ci sarà uno stile leggero e trasparente, semplice,

collegato ad un costume sociale semplificato”18

.

L’immagine utopica (quasi espressionista e in molti punti vicina ai toni profetici di Taut) di questa nuova

architettura leggera e trasparente diventerà una sorta di guida nelle realizzazioni delle grandi ville fuori

dall’Italia, nonché un preludio ad uno dei suoi testi più famosi: “L’Architettura – dirà infatti - è un

cristallo”.

17. Gio Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova 1957, p.19

18. Gio Ponti, “Come sarà lo Stile architettonico futuro? ”, Stile, n.8, marzo 1946

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Diversamente dagli anni trenta quindi, saranno proprio queste grandi visioni dell’Uomo del futuro a portare

Ponti alla dissoluzione della scatola modernista, e al superamento dei suoi caratteri più esteriori, in favore

di soluzioni non preconfezionate ma, anzi, sempre in rapporto dialettico con la storia e la tradizione

europea.

2. “AMATE L’ARCHITETTURA”: NUOVO INNO ALLA SPIRITUALITA’ NELL’ARTE

Il libro viene stampato nel 1957 e rappresenta sostanzialmente una somma delle riflessioni dello stesso

Ponti. I suoi toni epigrafici, quasi una vera e propria raccolta di slogan, lo accomunano alle affermazioni

profetiche di LeCorbusier di Vers une architecture, di cui vuole idealmente rappresentare la prosecuzione

italiana. In realtà non fa che assemblare come un grande puzzle tutti i pensieri più importanti già pubblicati

in modo sparso sulle pagine di Domus, in particolare quelle dal dopoguerra in poi. Il risultato finale è quello

di una grande “collezione di idee” alle quali però rinuncia di dare un coordinamento univoco: in questo

senso l’interpretazione del lettore diviene elemento attivo della comunicazione, in quanto non basato sulla

volontà di trasmettere un “sistema di verità”, ma piuttosto sulla necessità di “eccitare alla contraddizione”,

invitare al dibattito e al confronto. Ancora una volta il rifiuto dei dogmatismi diventa fondamentale nella

costruzione della propria visione dell’architettura.

Anche la veste grafica diventa parte del progetto, e anch’esso riflette una certa libertà di accostamenti e di

possibilità: le pagine sono suddivise in piccoli moduli ma questi sono scanditi dai colori, le immagini sono

ridotte al minimo (non è infatti assolutamente vero per Ponti che la riflessione teorica sia meno

fondamentale dell’architettura costruita), i pensieri ordinati uno dopo l’altro senza una precisa logica se

non quella del rimando e dell’analogia.

Come un famoso mazzo di tarocchi della letteratura italiana, queste pagine offrono al lettore una

molteplicità di letture che va molto al di là degli intenti dell’autore stesso, il quale addirittura lo pensa come

un libro da sfogliare a caso la sera prima di addormentarsi, lasciandosi così trasportare dalle connessioni e

le corrispondenze “empatiche”. Molto distante dal voler sistematizzare il corpus teorico dell’architettura

moderna, Ponti sceglie il campo dell’indeterminatezza e della possibilità come terreno comune per una

discussione su temi più incalzanti della modernità.

Parlare di questo libro diventa inevitabile se si vuole poi parlare della sua architettura costruita. Le sue

famose ville in Sudamerica e in Iran infatti non sono altro che la sintesi logica di quanto già chiaramente

espresso in queste pagine, e non sarebbe difficile leggerle seguendolo passo passo.

Davanti alla fervida fantasia di questo architetto infatti è difficile vedere come queste siano in realtà

racchiuse all’interno di scelte razionali e più che consapevoli per lo stesso autore.

La tendenza è sempre quella di sganciare le proprie riflessioni dalla trattazione teorica tradizionale, basata

su tesi, antitesi, scelte di campo, argomentazioni certe, per riversarsi in una sorta di lirismo magica,

surreale, che da sempre hanno caratterizzato le descrizioni di Ponti in materia di Architettura.

Basti pensare ad uno dei brani più suggestivi dell’intero libro:

“Questa casa all’italiana è bella come un cristallo, ma è

forata come una grotta piena di stalattiti. E’ un cristallo

quando è bellissima, semplice, ma ha dentro l’Uomo, diavolo

di Cartesio: ma è tanto umana… La casa perfetta è quella che

ci arresta sulla soglia aperta intimiditi dal suo segreto umano

e dalla sua bellezza architettonica”

Gio Ponti”19

19. Gio Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova 1957, p.107-108

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“(PARLIAMO PER INTERPOSTE IMMAGINI)

Il pavimento è un teorema

L’obelisco è un enigma

La fontana è una voce

La scala è una voragine

Il tetto naviga nel cielo, chiglia in alto

La volta è un volo

La loggia è una navicella

La finestra è una trasparenza (è la vista è la vita)

La stanza è un mondo

Il grattacielo è una forza

La porta è un invito

Il colonnato è un coro

La casa è un sogno”

In queste parole non possiamo non trovare un’eco con le parole di Rudofsky e la sua visione della casa-

giardino. Quello che da sempre caratterizza Ponti infatti è proprio questa capacità di conferire significati

poetici profondi agli elementi architettonici primari in una forma intima ed essenziale, priva di inutili

sovrastrutture culturali, nel tentativo di creare uno spazio che esca dall’edilizia (comunque necessaria) ed

entri nel campo dell’opera d’arte universale.

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3. TRE VILLE INVENTATE: PLANCHART, ARREAZA, NEMAZEE

LA COMMITTENZA ILLUMINATA DI PONTI VERO “PADRE” DELL’ARCHITETTURA

Anala e Armando Planchart negli anni cinquanta Gio Ponri e Shafi Nemazee

L’occasione si presentò negli anni cinquanta, quanto la rivista e la fama internazionale di Ponti riuscirono a

travalicare i confini nazionali. Infatti a seguito del nuovo assetto politico dell’intero mondo conosciuto,

suddiviso nei due blocchi capitanati dalle superpotenze USA e URSS, si assistette alla nascita di una

cooperazione tra gli stati alleati che sarebbe stata inimmaginabile prima della seconda guerra mondiale.

L’opportunità di questo nuovo mondo, globalizzato ancora solo all’interno dei due circuiti chiusi, riuscì

anche a tramutarsi in qualcosa di concreto per alcuni degli architetti italiani delle generazioni precedenti.

che sopravvivevano

Fu questo il caso di Gio Ponti dopo il progetto del Pirellone nel 1956, la cui pubblicazione sulle pagine di

Domus lo aveva portato ad avere fama a livello internazionale (aiutato anche dal sempre più imponente

fenomeno dell’emigrazione italiana nei nuovi territori “a Sud” del mondo). Furono infatti le stesse famiglie

straniere che lo contattarono, poiché profondamente desiderose di dare forma alle loro aspirazioni di

modernità e di cambiamento.

Stiamo parlando delle tre ville di questo periodo, nonché le più famose di tutta la sua produzione: le prime

due, Villa Planchart (1953-60) e Villa Arreaza (1954-58), situate entrambe a Caracas; e una terza - Villa

Nemazee - a Teheran (1960-64).

E’ interessante osservare che ciò che stava accadendo contemporaneamente in due luoghi molto distanti

tra loro come il Venezuela e l’Iran era il riflesso di una ben più imponente trasformazione a livello globale,

rendendoli molto più simili di quanto si creda sotto più di un aspetto. Proprio in quegli anni infatti

entrambe le nazioni stavano attraversando un momento di forte sviluppo forzato dell’economia,

principalmente basata sull’estrazione del petrolio e la sua esportazione a livello internazionale. Primo

partner commerciale iraniano era proprio l’Italia del dopoguerra, mentre in Venezuela la componente

italiana della popolazione era triplicata nell’Ultimo decennio sotto la guida del dittatore militare Jiménez

che riteneva l’immigrazione europea il cardine fondamentale per lo sviluppo di un’economia moderna.

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In entrambi i casi sia lo Shah Mohammad Pahlavi che il generale Marcos Pérez Jiménez avevano fortemente

puntato ad una riforma totale dell’economia e, soprattutto in Iran, all’abolizione di retaggi culturali figli

della troppo intromissione del potere religioso in materia politica. Tuttavia il regime si era mantenuto in

entrambi i casi fortemente dittatoriale e alla spinta economica non era seguita l’adeguata serie di riforme

sociali che avrebbero dovuto accompagnare la riconversione dell’economia, finendo solo per creare più

disparità di quanto non ce ne fossero già state all’inizio.

Anche la classe dirigente nata da queste grandi rivoluzioni rappresenta essa stessa l’atteggiamento

contradditorio del potere politico nei confronti delle masse: all’atteggiamento liberale e vicino alle posizioni

più democratiche fanno da contraltare posizioni sociali ai vertici delle catene multinazionali; e seppur intrisi

fortemente nella cultura occidentale mostrano però un sincero attaccamento alla terra d’origine,

rendendoli più vicini ai grandi filantropi ottocenteschi che non ai riformatori militanti della seconda metà

del secolo. Si tratta di una generazione in bilico tra la spinta progressista verso un futuro migliore, diverso

dal precedente, e la viscerale ricerca di un contatto con l’universo naturale e culturale depositato nelle loro

memorie.

Armando Planchart era un dirigente venezuelano in vista della General Motors, la cui passione segreta era

la cura e l’allevamento di magnifiche orchidee tropicali, mentre Vida e Shafi Nemazee facevano parte di una

grande famiglia di grandi commercianti e ambasciatori iraniani negli Stati Uniti, che fondò nel 1950 il più

moderno ospedale dell’intera nazione. Lontani dalle necessità di rappresentanza e di “aulicità” tipiche

dell’architettura pubblica, i grandi personaggi del paese potevano finalmente essere liberi di avere una casa

che rappresentasse prima di tutto se stessi e ciò in cui credevano.

Entrambe le città poi, proprio in quegli anni, si stavano dotando delle prime università libere sull’impronta

degli istituti americani, portandole naturalmente al centro del dibattito internazionale dell’architettura.

Tutti questi fattori contribuirono al fortunato incontro di Gio Ponti con i suoi illuminati committenti, tra i

quali si instaurò subito un forte sentimento prima di tutto di amicizia.

Può forse sorprendere solo chi non si sia mai interrogato sulla natura “sentimentale” e quasi “religiosa”

della ricerca architettonica di Gio Ponti, l’insistenza con cui torna ad affacciarsi con nitidezza di contorni e

importanza di significato l’immagine di quella lontana “casa della felicità”, progettata e pensata fin dalla

fondazione stessa della rivista Domus nel lontano 1928. La casa ideale che mette a punto in questi anni

infatti è sostanzialmente una casa che si adatta alle esigenze e alla vita di chi vi abita.

Poiché, come dice Vitruvio, “dell’architettura il committente è il padre, l’architetto la madre”.

IL SOGNO DELLA CASA E IL “REALISMO MAGICO” DI GIO PONTI

Le ville tuttavia, non rappresentano che tre diverse variazioni di un’unica grande “casa universale”. L’unità

di pensiero e delle soluzioni adottate ci fanno infatti intuire quanto la sua ricerca sia razionale e sempre su

di un doppio filone: da un lato la ricerca della pura bellezza architettonica, il gioco dei volumi nudi e della

scoperta degli spazi; dall’altra l’attenzione amorevole all’uomo che dovrà vivere in questi luoghi, nonché il

Caracas: come la civiltà nacque, mosse, dai tropici per la

ivi migliore naturale condizione di clima per vivere, così la

civiltà tornerà ai tropici perché ivi sono ancora le migliori

naturali condizioni di vita: ecco la mia profezia (…)

Qui nella felicità dei tropici fiorirà l’architettura moderna,

nella perfetta condizione per essa: altrove l’architettura è

una complicata difesa, qui l’architetto è un’ala sotto la

quale vivere, in un Paradiso Terrestre”20

Teheran: qui non vi è la lussureggiante vegetazione del

Venezuela. Così come la larga sporgenza della gronda su

tutti i fronti, il verde serve a schermare la forza del sole

iraniano. Il cristallo è comunque abbacinato, e riflette”.21

20. Gio Ponti, “Una villa fiorentina” in Domus, n.375, febbraio 1961, p.2

21. Gio Ponti, “A Teheran una villa”, in Domus, n.422, gennaio 1965, p.14

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gentile avvallamento delle richieste dei suoi committenti, cercando prima di tutto di capire quale sia il loro

“sogno della casa”. Nella maggior parte dei casi infatti l’edificio nasce da uno schizzo degli stessi; e sarà poi

preciso compito dell’architetto estrapolarne il senso – il sogno appunto, l’immagine sintetica – per

riproporre poi una versione matura che sposi insieme l’arte di costruire lo spazio e la possibilità di viverli,

una casa insomma “tutta moderna ma che sia amata e felice”22

.

Scriverà sul numero 422 di Domus: “l’architettura è uno spettacolo che gli ambienti offrono e che da essi si

offre – spettacolo che viene dal concepire l’architettura vuota come un fatto architettonico a sé, e

dall’immaginarla poi animata: giova a ciò l’ambiente più alto che caratterizza tutte queste mie ville, e che

consente le belle vedute da diversi livelli, ed asseconda quel bisogno di uno spazio più grande che è una

necessità: giovano a ciò le aperture visuali (le infilate) tra ambiente e ambiente, per vederne

simultaneamente le più parti, con la possibilità tuttavia, d’isolamento degli ambienti; e tutto ciò ascoltando

ed intuendo con affettuosa amicizia coloro per i quali, e per la cui discendenza, si fa la casa.”

Questo duplice aspetto, questa natura “ibrida” del progetto, è tesa principalmente a risolvere le

contraddizioni del moderno poiché la prima esigenze rimanda al rapporto con l’architettura classica,

all’equilibrio e alla potenza degli elementi della costruzione, mentre del secondo aspetto sono conseguenze

le “distorsioni” dello spazio, lo studio ossessivo delle visuali, l’insistenza sulle finiture il design, la ricerca di

nuove “attrezzature” che rendano la casa più “maneggevole”, facile, adattabile alle necessità del momento.

Questo atteggiamento presuppone la visione di una casa piena di gente, fatta per essere goduta “dal suo

interno”, nonché pensata per “intrattenere” essa stessa i suoi abitanti ed essere sempre l’oggetto di nuove

possibilità. I mobili, accuratamente disegnati in ogni loro dettaglio, rimandano sempre a qualcosa d’altro:

un mobile per liquori diventa un quadro di nature morte, un quadro sul muro è un’apertura a scomparsa, la

“facciata di maioliche” del patio una raffinata metafora cristallizzata della rigogliosa natura tropicale.

L’elemento surreale e il richiamo continuo all’analogia non fa altro che “stratificare” di significati gli oggetti;

in modo non dissimile dalle composizione di Magritte, Mirò, Dalì (non è un caso che nella villa Planchart sia

anche prevista una grande scultura di Calder), Ponti gioca con una sorta di realismo magico e non privo di

ironia.

Con lui l’inaspettato diventa parte dello “spettacolo dell’architettura” e, come nel teatro pirandelliano, è

alla continua ricerca del ribaltamento dei ruoli, poiché chi guarda è a sua volta osservato, chi è dentro è

contemporaneamente fuori, ciò che sembra compatto all’esterno diventa “svuotato” all’interno, chi vive

nella casa allo stesso tempo subisce e agisce su di essa, modificandola continuamente.

La pianta da libera diventa “liberata” dalle pareti (primo desiderio di Anala Planchart era quello di avere

una “casa senza muri”), fluida nella continua compenetrazione degli spazi, dei materiali, dei rivestimenti;

flessibile, con mobili a scomparsa, sedie superleggere; letteralmente “infestata” dal verde (in forma

minerale, tessile, o vegetale che sia) nel caso della Villa Planchart, oppure “sottomarina” come la Villa

Arreaza, o ancora “riarsa” come Villa Nemazee sotto il sole cocente del Medio Oriente.

Se la premessa dell’abitazione è uno schizzo del committente, la prima bozza del progetto di Ponti è invece

frutto di una vera e propria visione; come nel caso di Villa Planchart dove questa è esposta ai coniugi

venezuelani con profondo ardore: “La vostra casa sarà gentile come una farfalla posata in cima alla collina.

Niente muri a chiudere gli spazi, ma muri che limitino, con il gioco degli occhi, gli spazi. All’esterno questi

muri un po’ staccati consentiranno, di notte, la possibilità di un’illuminazione meravigliosa. Niente luci

all’interno; saranno l’architettura stessa e certi mobili ad illuminare”23

.

Questa di Ponti è veramente una “machine à habiter” costruita su misura per l’Uomo moderno: per i suoi

sogni, la sua libertà ritrovata, il nuovo spirito ludico, l’amore per l’arte e il design.

In questo senso le tre opere esposte rappresentano l’ultimo grande momento di una profonda evoluzione

che aveva avuto le sue origini all’interno di un mondo molto più radicato nella tradizione e del quale Ponti

22. Gio Ponti, “Villa la Diamantina nel Country Club a Caracas”, in Domus, n.349, dicembre 1958, p.9

23. Gio Ponti, “Il modello della villa Planchart in costruzione a Caracas” in Domus, n.303, febbraio 1955, p.5

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non vorrà mai – a ragione – completamente disfarsi. Se l’incognita era capire come traghettare l’esempio

della storia dell’architettura al di qua della seconda guerra mondiale, questo fu reso possibile solo da

personaggi come lui che seppero interpretare non solo la lezione dei classici, ma anche tutta

quell’architettura cosiddetta “spontanea” e ancora priva di un vero approfondimento.

Il ruolo infatti, durante il periodo del fascismo, di una rivista come Domus fu fondamentale per quella certa

attenzione ai bisogni spirituali, prima che materiali, dell’Uomo moderno che ritroveremo in forma matura

solo alla fine degli anni cinquanta.

VILLA PLANCHART (1953-60)

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VILLA ARREAZA (1954-58)

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VILLA NEMAZEE (1960-64)

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CONCLUSIONE: IL BILANCIO DELLA MODERNITA’ DI GIO PONTI E

BERNARD RUDOFSKY

Quello che realmente cambia dopo la guerra sono solo alcune cose: in primo luogo le necessità contingenti

(poiché la casa diventa veramente il problema principale della popolazione), le possibilità costruttive ma

soprattutto il sentimento e la consapevolezza con le quali Gio Ponti approccia il tema dell’abitazione: alle

atmosfere metafisiche degli anni Trenta fanno seguito i ben più surreali e vivaci giochi degli anni Cinquanta.

Anche le forme diventano meno “ingenue”, più colte e raffinate poiché riesce ad affrancarsi anche da quel

certo tono nostalgico che ispirava le sue case bianche (costruite come i fantastici abitanti di una perduta

età dell’oro), a favore di linee più “organiche”, nel senso che finiscono col deformarsi seguendo le necessità

dell’occhio, indicando le visuali, confondendo gli spazi, segnando le linee di forza dell’edificio.

E per quanto il risultato finale risulti distante dalle prime sperimentazioni, di fatto, il senso non è

assolutamente mutato.

Possiamo solo appuntare che quello a cui Ponti veramente rinuncia è invece quella propensione alla

“critica” del moderno che gli aveva permesso di rivolgere lo sguardo verso gli esempi meno usuali

dell’architettura: invece di cercare sempre nuovi mondi, Ponti trova la sua miglior espressione nella ricerca

di un equilibrio con quello che ha già sottomano.

Tale ruolo “dissidente” sarà invece rivestito da un personaggio come Bernard Rudofsky che dedicherà tutta

la seconda parte della sua vita alla ricerca costante di nuove realtà, di nuovi modi di vivere.

A ben vedere infatti, la pecca del mondo in cui Ponti opera - in modo assolutamente sincero si intende - è

forse una certa ipocrisia di fondo, un perbenismo di facciata che si evidenzia nelle disparità sociali del

paese, e, in alcuni casi, una segreta ammirazione per la cultura vincitrice “occidentale” e americanizzata che

si riconosce come “migliore”.

Come due facce di una stessa medaglia, Ponti e Rudofsky rappresentano i due atteggiamenti possibili (e

complementari) alla modernità: il primo cogliendone gli aspetti poetici e le possibilità espressive, l’altro

sottolineandone le infondate certezze, la sottile ottusità e i dogmi non detti.

Profondamente legati da una solida amicizia, e provenienti dalla comune esperienza italiana, finiscono

entrambi per sondare le profondità dell’Uomo moderno in modi diversi ma altrettanto efficaci: il primo con

la forza della fantasia e della creatività, l’altro grazie all’assidua pratica della critica e della provocazione

intellettuale.

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BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

GIO PONTI

Scritti su Gio Ponti

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Lucia Miodini, Gio Ponti. Gli anni Trenta, Electa, Milano 2001

Graziella Rocella, Ponti, Taschen, Germania 2007

Michele Porchu, Attilio Stocchi, Gio Ponti. Tre ville inventate, Abitare Segesta edizioni, Milano 2003

Articoli su Gio Ponti

Laura Bossi, “Gio Ponti, Teheran, Villa Nemazee. La joie d’y vivre di Gio Ponti attraverso il racconto della

figlia Lisa e una testimonianza di Shahab Katouzian”, in Domus, a.LXXVIII, n.901, marzo 2007, pp.64-67

Fulvio Irace, “Corrispondenze. La villa Planchart di Gio Ponti a Caracas”, in Lotus International, n.60, 1989,

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Fulvio Irace, “Caracas un dramma urbano”, in Abitare, n. 253, 1987, pp.212-21

Articoli di Gio Ponti

“La casa all’italiana”, in Domus, a. I, n.1, gennaio 1928, p.1

“Quale sarà la nostra casa i domani?”, in Domus, a. IV, n.49, gennaio 1932, p.2

“Concezione dell’edificio d’abitazione”, in Domus, a. IV, n.52, aprile 1932, p.187

“Ieri e oggi”, in Domus, a. IV, n.58, ottobre 1932, pp.380-381

“Moderno o non moderno”, in Domus, a. V, n.71, novembre 1933, pp.578

“Una villa per Positano e per…altri lidi”, in Domus, a. IX, n.109, gennaio 1937, pp.11-17

“Stuoie napoletane”, in Domus, a. IX, n.119, novembre 1937, pp.18-19

“Case al mare”, in Domus, a.XI, n.138, giugno 1939, pp.33-46

“Due progetti di ville al mare”, in Domus, a.XI, n.140, agosto 1939, pp.30-38

“Il modello della villa Planchart in costruzione a Caracas”, in Domus, a.XXVII, n.303, febbraio 1955, pp.2-14

“Invito a considerare tutta l’architettura come spontanea ”, Domus, a. XVIII, n.304, marzo 1955, p.1

“Modello per la villa Arreaza nel “Country Club” a Caracas”, in Domus, a.XXVII, n.304, marzo 1955, pp.2-6

“Villa la Diamantina nel Country Club a Caracas”, in Domus, n.349, dicembre 1958, pp.5-22

“Una villa fiorentina”, in Domus, n.375, febbraio 1961, pp.1-40

“A Teheran una villa”, in Domus, n.422, gennaio 1965, pp.14-19

Libri di Gio Ponti Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova 1957

BERNARD RUDOFSKY

Scritti su Bernard Rudofsky

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Manfredo Tafuri, Storia dell’Architettura italiana 1944-85, Einaudi, Torino 1986, p.326

Renato Anelli, “Mediterraneo ai tropici”, in Casabella, a.LXVII, n.708, febbraio 2003, pp.86-95

Articoli di Bernard Rudofsky in Domus

“Rapporti”, in Domus, a. X, n.122, febbraio 1938, pp. 2-5

Storia dell’Architettura contemporanea – Prof Maristella Casciato A.A 2008-2009 – Monica Prencipe

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“Falsi e giusti concetti nella casa”, in Domus, a. X, n.123, marzo 1938, p.1

“Le scoperte di un’isola”, in Domus, a. X, n.123, marzo 1938, pp.2-4

“Non ci vuole un nuovo modo di costruire, ci vuole un nuovo modo di vivere”, in Domus, a. X, n.123,

marzo 1938, pp.5-15

“La moda abito disumano”, in Domus, a. X, n.124, aprile 1938, pp.10-13

“Variazioni”, in Domus, a. X, n.124, aprile 1938, pp.14-15

“Origine dell’abitazione”, in Domus, a. X, n.124, aprile 1938, pp.16-19

“Fine della città”, in Domus, a. X, n.124, aprile 1938, pp.20-21

“Le più desiderabili ville del mondo”, in Domus, a. XXI, n.234, marzo 1949, pp.3-9

“Giardino, stanza all’aperto”, in Domus, a.XXIV, n.272, luglio-agosto 1952, pp.1-4

“Decadenza del bagno”, in Domus, a.XXV, n.288, novembre 1953, pp.37-40

Libri di Bernard Rudofsky

The unfashionable human body, Doubleday&Company, New York 1947

Le meraviglie dell’architettura spontanea. Note per una storia naturale dell’Architettura con speciale

riferimento a quelle specie che vengono tradizionalmente neglette o del tutto ignorate, Laterza, 1979

Architecture without architects. A short introduction to non-pedigreed architecture, University of New

Mexico Press, Albuquerque 2007

ALTRI SCRITTI

LeCorbusier, “Il vero sola ragione dell’architettura”, in Domus, a.XIX, n.118, ottobre 1937, pp.1-8

Adolf Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 2005

Sigfried Giedion, L’era della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967

Marco De Michelis, “La casa della riforma della vita”, in Georges Teyssot, Il progetto domestico, Electa

1986, p.1986, pp.204-30

Cherubino Gambardella, La casa del Mediterraneo. Napoli tra memoria e progetto, Officina edizioni,

Roma 1995

Maria Pia Fontana, Miguel Y.Mayorga, Luigi Cosenza. Il territorio abitabile, Alinea editrice, Firenze 2007