Wittgenstein sulla Certezza. Il gioco linguistico del sapere.
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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO”
DIPARTIMENTO FLESS
Corso di laurea triennale in Filosofia
TESI DI LAUREA IN STORIA DELLA FILOSOFIA
IL GIOCO LINGUISTICO DEL SAPERE.
WITTGENSTEIN SULLA CERTEZZA
Relatore: Laureando:
Chiar.mo Prof. Costantino Esposito Antonio Pignataro
Anno Accademico 2012-2013
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Nel corso delle nostre ricerche non arriviamo mai alle nostre proposizioni fondamentali;
raggiungiamo la frontiera del linguaggio che ci impedisce di continuare a porci
ulteriori domande. Non raggiungiamo il fondo delle cose,
ma perveniamo a un puntoin cui non possiamo più procedere,
in cui non possiamo porre ulteriori domande.
[Ludwig Wittgenstein]
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In questa tesi si vuole analizzare il concetto di certezza nella filosofia dell'ultimo
Wittgenstein. Negli ultimi mesi di vita, infatti, il filosofo austriaco scrisse più di
seicento proposizioni, che furono pubblicate postume nell'opera nota come On
Certainty. Qui egli affrontò e risolse alcuni problemi lasciati aperti da due articoli, A
Defense of Common Sense e Proof of External World, di George Edward Moore, suo
maestro e collega. L'obbiettivo filosofico di quest'ultimo era una critica della posizione
idealista, la quale negava strenuamente la possibilità di accettare come vera l'esistenza
del mondo esterno, e in maniera implicita di quella scettica. Quest'ultima infatti era
considerata una conseguenza della prima. Proprio dal panorama dell'idealismo inglese
dominante in quegli anni, attraverso la critica di Moore, di Russell e di altri filosofi
nacque quel modo analitico di fare filosofia, che troverà in Wittgenstein il suo maggior
interprete più originale.
Contro la posizione idealista Moore scrisse due importanti contributi nel
tentativo di dimostrarne la fallacia. Nel primo, in particolare, egli enunciò una serie di
proposizioni che dichiarava di conoscere con assoluta certezza. La strategia del filosofo
inglese era basata sul dimostrare logicamente come le affermazioni idealiste erano tra
loro contraddittorie e per farlo si appellò all'evidenza delle sue proposizioni e al fatto
che le stesse appartenevano al senso comune. Il criterio che sottostava a tali
proposizioni era quello dell'auto-evidenza, ovvero il fatto che tali asserzioni erano
fondamentali, non ulteriormente analizzabili e la cui verità era, appunto, auto-evidente,
nel senso che non necessitavano di alcuna prova preliminare. Tuttavia, in entrambi gli
articoli, in maniera contraddittoria alla natura di queste proposizioni, egli tentò, nelle
battute finali, una loro dimostrazione. Per farlo adoperò il termine «sapere» alla stregua
di «esser certi», conducendo la sua strategia argomentativa attraverso l'analisi dei dati
sensoriali e delle sue personali convinzioni. Wittgenstein ritenne problematico sia l'uso
che Moore faceva di «sapere», sia il fatto che il filosofo inglese si rifacesse alle proprie
sensazioni elaborare le sue dimostrazioni.
Da tali problematiche nacquero le riflessioni contenute in On Certainty.
Riflessioni che rappresentavano una “soluzione” dei suddetti problemi. Ciò che sarà
interessante notare è come la risposta del filosofo austriaco non sia una soluzione in
senso positivo, ma una vera e propria dissoluzione del problema stesso.
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Prima, però, sarà fondamentale presentare e spiegare il lessico di Wittgenstein.
Un lavoro non fine a se stesso, ma funzionale alla comprensione delle tesi di On
Certainty e alla soluzione dei problemi lasciati aperti da Moore. A tal fine Wittgenstein
utilizzò la nozione di “gioco linguistico del sapere”, attraverso la quale mostrò come il
dubitare sistematico dell'idealista sia un non senso e mini la possibilità del parlare
stesso. Occorrerà, dunque, dedicare un capitolo alle Philosophisce Untersuchungen, in
maniera particolare all'argomento che Wittgenstein, in quest'opera, elaborò contro il
linguaggio privato delle sensazioni.
Egli sosteneva che il linguaggio era una affare pubblico. Il significato di un
termine derivava dall'uso pubblico che una comunità ne faceva. Forte della sua tesi, il
filosofo austriaco mosse delle notevoli critiche non tanto alla pretesa filosofica di
Moore, quanto alla sua strategia argomentativa che se in un primo momento era basata
sull'auto-evidenza della proposizioni del senso comune, si fece poi più articolata e fu
condotta attraverso l'utilizzo di un'argomentazione basata sull'analisi dei “dati
sensoriali”. Questa espressione, come vedremo più diffusamente dopo, creò non pochi
problemi a Moore che adoperò sottili spiegazioni per chiarificarla. Così come non pochi
problemi creò allo stesso Wittgenstein, il quale condannava questo tipo di strategia
basata sui dati soggettivi (per questo privati) del singolo individuo.
In definitiva, questa tesi vuole precisare quale sia la posizione di Wittgenstein
riguardo la certezza e la soluzione che implicitamente fornisce, alla critica idealista,
sulla scorta degli articoli di Moore. Ma vuole anche mostrare e analizzare il modo in
cui è condotta tale argomentazione. Punto, quest'ultimo, che costituisce il vero motivo
di interesse per questo pensatore.
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INTRODUZIONE
Attraverso i secoli la filosofia ha sviluppato un suo proprio linguaggio che sotto i
colpi della storia si è continuamente reinventato e specializzato. Periodicamente, in
maniera talvolta velata, talvolta esplicita, essa ha cercato di imitare il linguaggio
scientifico aspirando ad un pari rigore espositivo e concettuale. Ludwig Wittgenstein, ha
vissuto in un contesto storico e culturale in cui la filosofia quasi si identificava con la
logica, che a sua volta voleva assurgere a fondamento e spiegazione della matematica,
scienza certa per antonomasia.
Emblematico di tale concezione è il libro che avvicinò definitivamente
Wittgenstein alla riflessione filosofica: I Principia Mathematica di Alfred North
Whitehead e Bertrand Russell. Quest'ultimo diverrà poi il suo “padre accademico”. Lo
scopo di quest'opera era di mostrare che la matematica si reggeva su un numero limitato
di principi logici fondamentali. L'intenzione di Whitehead e Russel era opporsi
dichiaratamente alla visione kantiana che descriveva la matematica separata e distinta
dalla logica e fondata sulla “struttura della sensibilità”, ovvero sulle nostre “intuizioni a
priori” del tempo e dello spazio (cfr. Monk, 1990, pp. 38-39).
In questo clima avverrà la formazione del genio di Wittgenstein, che dopo una
lunga e travagliata gestazione, nel 1921 pubblicherà il Tractatus logico-philosophicus.
L'intento dell'opera era di mostrare che tutti i problemi della filosofia tradizionale non
erano veri problemi, ma semplicemente fraintendimenti linguistici. Dunque la filosofia
avrebbe dovuto condursi come un'attività di chiarificazione del linguaggio attraverso la
logica. Egli stesso la considererà un'opera definitiva, oltre la quale nessuno avrebbe
potuto dire più nulla di filosoficamente valido, tanto è vero che andò via da Cambridge
con la convinzione di aver adempiuto al suo compito filosofico.
Tuttavia, qualche anno dopo, precisamente nel marzo 1928, Wittgenstein
assistette a Vienna, ad una conferenza di Luitzen Egbertus Jan Brouwer, il principale
interprete dell'intuizionismo in matematica, intitolata Matematica, scienza e linguaggio.
Insieme con lui c'erano Julius Waismann e Herbert Feigl. Dalle parole di quest'ultimo
apprendiamo che
fu assai interessante assistere al cambiamento che si produsse in Wittgenstein
quella sera […] diventò incredibilmente loquace e cominciò ad abbozzare delle
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idee che avrebbero costituito il punto di partenza dei suoi scritti posteriori […]
quella sera segnò il ritorno di Wittgenstein a un deciso interesse per l'attività
filosofica (Nedo, Ranchetti, 1983, pp. 223).
Infatti un anno dopo Wittgenstein fece il suo ritorno a Cambridge. «Dio è arrivato. L'ho
incontrato sul treno delle 5:15» - cosí John Maynard Keynes, il più importante
economista dell'epoca, annunciò in una lettera ad un'amica, il ritorno di Wittgenstein
(cfr. Monk, 1990, p. 255)
Nel 1929, il Circolo di Vienna, fondato da Schlick nel 1924, pubblicò il suo
manifesto Die Wissenschaftliche Weltauffassung. Alla base dello stesso vi era una forte
istanza anti-metafisica, nella quale si identificavano tutti i membri del circolo. Schlick e
Waismman dopo aver letto il Tractatus cominciarono a trattenere una fitta
corrispondenza con Wittgenstein. I due furono i primi interlocutori del mutamento di
Wittgenstein, il quale, cambiava spesso idea e si distaccava in maniera sempre più
marcata dalla sua prima opera. Quest'atteggiamento portò Schlick e tutto il circolo a
ridimensionare i rapporti con l'autore del Tractatus; di lui però continuarono a
considerare con interesse la formulazione del principio di verificabilità. Durante un
colloquio, avvenuto nel 1929, Wittgenstein lo enunciò in questi termini:
Se dico, per esempio: “Là, in cima al cassettone c'è un libro,” come faccio a
verificarlo? È sufficiente che lo guardi e lo osservi da più lati o che lo prenda in
mano, lo palpi, lo apra, lo sfogli ecc.? Ci sono due concezioni a riguardo. L'una
dice: qualunque cosa io faccia non potrò mai verificare completamente la
proposizione. Essa si lascia per così dire sempre una scappatoia. Qualunque
cosa facciamo non siamo mai certi di non aver commesso un errore. L'altra
concezione, che vorrei far mia, dice: No, se non sono in grado di verificare
compiutamente il senso di una proposizione non posso neppure intendere
qualcosa con la proposizione. Essa allora non vuol dir nulla. Per stabilire il
senso di una proposizione dovrei conoscere un determinato procedimento che
mi dica quando una proposizione possa valere come verificata (Waissman,
1975, pp. 35-36).
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Affinché una proposizione abbia senso – come aveva già detto nel Tractatus - noi
dobbiamo avere una qualche idea di ciò che accade se essa è vera. Schlick e tutti i
positivisti, seguendo ciò che Wittgenstein aveva scritto in precedenza, interpretarono
questa formulazione come un dogma, come una teoria verificazionista del significato. Il
filosofo austriaco si distaccò nettamente da questa interpretazione. Egli rifuggiva,
infatti, qualsiasi epistemologia di tipo fondazionalista. Sempre nel 1929, durante una
riunione del Moral Science Club di Cambridge affermò:
Una volta solevo dire, al fine di chiarire l'uso di una proposizione che era una
buona idea porsi la seguente domanda: “Come si potrebbe verificare questa
asserzione?” Ma questa non è che una delle modalità per chiarire l'uso di una
parola o di una proposizione. Per esempio, un'altra domanda che risulta spesso
molto utile porsi è: “Come s'è imparata questa parola?” “Come ci si disporrebbe
a insegnare a un bambino l'uso di questa parola?” Invece c'è stato chi ha
trasformato questo suggerimento della verifica in un dogma: come se avessi
proposto una teoria del significato (Fann, 1967, pp. 49-55).
In questa citazione, in particolare nelle due domande, possiamo notare come il metodo
di Wittgenstein si faccia più pratico rispetto alla sua prima filosofia. Nel Tractatus egli
sosteneva che un linguaggio per essere sensato, avrebbe dovuto possedere una struttura
logica. In altre parole Wittgenstein credeva che esistesse un unico linguaggio, quello
della logica. La sua riflessione mostrava un approccio totalmente teorico, formulato, per
così dire dall'alto. Mentre adesso, ci si rende conto di come il suo discorso si faccia
meno teorico e più pratico.
Dopo l'episodio della conferenza di Brouwer, i dialoghi con l'economista
italiano Piero Sraffa possono essere considerati un punto di svolta in questa fase di
transizione. Un aneddoto vuole che
Wittgenstein insisteva in una discussione con Sraffa che una proposizione e ciò
che essa descrive devono avere la stessa “forma logica”, o la stessa
“grammatica”. Al che, Sraffa, con un tipico gesto napoletano “si passò la punta
delle dita di una mano sotto il mento […] e domandò: 'Qual è la forma logica di
questo?' (Malcolm, 1984, pp. 58).
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Alcuni vedono il concreto esempio di Sraffa come ciò che avrebbe convinto
Wittgenstein dell'errore del Tractatus (cfr. Malcolm, 1984, p. 58).
Era dunque assurdo definire una proposizione come un'immagine della realtà
che descrive. Wittgenstein allora cominciò a pensare che non esistesse un solo tipo di
linguaggio, quello della logica, ma che ce n'erano molteplici.
In questa direzione continuò a muoversi lo sviluppo della riflessione di
Wittgenstein. Negli anni che vanno dal 1930 al 1935, tenne alcuni corsi di filosofia a
Cambridge. Durante tali lezioni cominciò ad utilizzare espressioni quali “gioco
linguistico”, “regola”, “uso”, che saranno poi meglio definite nelle Philosophisce
Untersuchungen.
Quest'opera, pubblicata postuma nel 1953, raccoglie tutte le riflessioni di
Wittgenstein dal 1936. Riflessioni che sono state rivisitate e rielaborate nel corso degli
anni, quasi fino alla sua morte. Anche per questo motivo, oltre che per quanto
specificato all'inizio, non deve sorprendere che una loro analisi sia necessaria per
leggere e capire le riflessioni di On Certainty.
Il prossimo capitolo sarà dedicato alla lettura e alla spiegazione di alcune
espressioni delle Untersuchungen, utili per comprendere sia la pars destruens della
critica a Moore, sia la pars costruens condotta contro l'idealismo.
In On Certainty, Wittgenstein sosterrà che il gioco linguistico del dubitare non
può venir prima di quello della certezza. È necessario condividere un linguaggio,
accettare delle credenze comuni, come “la terra esiste da molti anni”, prima di poter
iniziare a dubitare e a conoscere. In altri termini, le certezze del senso comune, ovvero
quelle che utilizziamo nel quotidiano che sembrano autoevidenti, e sulle quali
costruiamo ogni nostra forma di azione e interazione, vengono prima di ogni dubbio e
conoscenza, e non sono passabili di un'analisi proposizionale e teorica:
Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia [corsivo mio],
e la mia vanga si piega. Allora sono disposto a dire: « Ecco, agisco proprio
così».
(Ricorda che a volte richiediamo definizioni, non per il loro contenuto, ma per
la forma della definizione. La nostra è una richiesta architettonica; la
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definizione è come un finto cornicione che non sorregge nulla.) (Wittgenstein,
1953, § 217).
Lo “strato di roccia” del quale parla Wittgenstein è proprio quell'insieme di proposizioni
che Moore enuncerà nella parte iniziale del suo articolo. Uno strato che né dubbio né
conoscenza possono scalfire,e che, al tempo stesso, costituisce la condizione necessaria
della loro stessa esistenza.
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Capitolo 1
IL “BACKGROUND” DI “ON CERTAINTY”
1.1 Considerazioni Introduttive
La necessità di dedicare un intero capitolo alle Philosophisce Untersuchungen -
d'ora in avanti PU - nasce da due esigenze. In primo luogo, in quest'opera rintracciamo
tutto il lessico che Wittgenstein adotterà nel redigere le note di On Certainty - d'ora in
avanti OC. Le PU sono scritte come delle “scorribande di pensieri” (cfr. Spinicci, 2000,
p. 211), che ritornano continuamente, da prospettive diverse, sugli stessi temi. Uno stile
che rintracciamo anche nelle note di OC, che tuttavia godono di un'unità tematica unica
tra le opere di Wittgenstein. (cfr. Moyal-Sharrock, 2004, p. 2)
Qui infatti le scorribande si fanno più mirate nel continuo tentativo di “prendere
la mira su un bersaglio che non si è sicuri di aver pienamente colto” (Spinicci, 2000, p.
212). Impressione che conferma Wittgenstein stesso quando dice:
io credo che il leggere queste mie annotazioni potrebbe interessare un filosofo:
un filosofo che sappia pensare da sé. Infatti, anche se raramente ho colto il
bersaglio, lui potrebbe tuttavia riconoscere a quale bersaglio io abbia
incessantemente continuato a mirare (OC § 387).
Il bersaglio al quale il filosofo si riferisce è la definizione del gioco linguistico del
sapere, del suo spazio semantico e delle sue corrette modalità d'uso. Di questo
parleremo diffusamente più avanti.
Ritornando sulle due opere di cui prima, c'è da aggiungere che non possono
essere definite dei lavori, nel senso canonico del termine, piuttosto dei work in progress.
Il loro stile è talmente a-sistematico, discontinuo, fatto di lunghe digressioni e rapidi
cambi di direzione, che si stenta a trovarne una trama. In particolare in OC, ciò ostacola
la già difficile comprensione, ma al tempo stesso permette di
seguire Wittgenstein attraverso le pieghe del suo pensiero, stando attenti alle sue
cangianti sfumature, alle sottigliezze delle sue allusioni, al preciso grado delle
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sue enfasi. L'usare in maniera, qualche volta fuorviante, le parole, l'oscuro ed
inevitabile legame delle varie fasi del suo pensiero, è ciò che fa di On Certainty
l'opera più affascinante e impegnativa dei suo ultimi lavori (Moyal-Sharrock,
2004, p.1-2).
Lo stile di PU e OC, che Stroll ha definito “broken text” (cfr. Stroll, 2002, p. 447), non
solo affascina esteticamente, bensì indica al lettore quale sia stato per Wittgenstein lo
scopo della filosofia. Per lui la filosofia non è mai stata una dottrina: essa non insegna
nulla, non espone un sapere, ma è un'attività di chiarificazione del linguaggio, che tenta
di districare i fraintendimenti e ridare quanta più possibile trasparenza a concetti e
proposizioni. Il suo tono, che alterna domande e risposte, esempi pratici e proposizioni
ermetiche, interpella in maniera decisa la riflessione autonoma del lettore. Il carattere
fortemente aporetico delle sue argomentazioni spesso mostra le difficoltà che lo stesso
Wittgenstein incontrava, ma soprattutto non ci fornisce alcuna soluzione precostituita,
non ci evita alcun tipo di fatica, non ha alcun obbiettivo se non «indicare alla mosca la
via d'uscita dalla trappola» (Wittgenstein, 2009, § 309). Wittgenstein ci mostra
semplicemente come fare, come dissolvere l'incantamento operato dal nostro linguaggio
ai danni del nostro intelletto.
In definitiva, la filosofia è un'attività terapeutica per il nostro intelletto che si
realizza attraverso un continuo processo di chiarificazione concettuale.
Attraverso quali strumenti e come questo processo di chiarificazione possa darsi
è l'altra ragione per la quale l'analisi di PU risulta imprescindibile per il nostro lavoro,
in particolare per l'argomentazione che risolverà l'enpasse delle tesi di Moore sul senso
comune e sull'esistenza del mondo esterno. Infine, in un'ottica maggiore, saranno
fondamentali per definire gli spazi semantici all'interno dei quali si potrà dire di sapere
qualcosa, nel senso di conoscerla oggettivamente.
1.2 Il lessico delle “Philosophisce Untersuchungen”
Prima di addentrarci nell'analisi del linguaggio svolta in PU, è opportuno
esplicitare la prospettiva filosofica dalla quale emergono le riflessioni di Wittgenstein.
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Se il Tractatus è stato redatto da un punto di vista logicizzante, le
Untersuchungen sono costruite da una prospettiva diversa. Il Tractatus presenta, infatti,
uno stile teorico e rigidamente gerarchico, proprio come un palazzo di ghiaccio, senza
attriti, monolitico.
Al contrario le Untersuchungen sono redatte in modo disordinato, sembra quasi
che il loro autore non voglia farci perdere nemmeno un passaggio del suo pensiero.
È significativa la grande quantità di esempi che Wittgenstein porta. Questi
esempi parlano sempre di attività quotidiane come l'insegnamento, il parlare, il
misurare, il vedere; e vengono presentati in forma di descrizione, senza alcuna
costruzione teorica o sistematica. Sulla scorta dell'osservazione di attività quali, il
parlare, il relazionarsi,o di altre pratiche quotidiane, potremmo definire “antropologica”
la prospettiva delle PU. Definizione che sta a significare una nuova prospettiva
filosofica, fatta di osservazione e descrizione, condotta partendo dalle forme di vita
all'interno delle quali tali pratiche sono inserite.
Ma la nozione dalla quale è opportuno partire è quella di gioco linguistico: essa
sintetizza tutte le innovazioni - delle quali parleremo - del pensiero e del lessico di
Wittgenstein e costituisce l'essenza della soluzione che egli formulerà riguardo sia agli
errori di Moore che alle pretese idealiste e scettiche.
Nel Tractatus vi era l'idea che il linguaggio costituisse una sorta di immagine del
mondo. Nelle Untersuchungen, al contrario, il linguaggio viene riportato ad una pratica
propria di una forma di vita. Infatti, se prendiamo come esempio la parola “cane”,
possiamo dire che è l'immagine di un “cane”, ma parole come “salve”, “forse”, “al
diavolo” che immagine ci danno? Non si può più dare, allora, una sola relazione che
lega il linguaggio al mondo. Vi sono invece più relazioni, diversi usi del linguaggio. In
altri termini, vi sono diversi giochi linguistici. Allo stesso modo significato ed essenza
non coincidono più, anzi, a pensarci bene, è insensato parlare dell'essenza di una parola
o di un linguaggio. Non ci sono più essenze: il significato di una parola coincide col
modo in cui essa è usata in un certo gioco linguistico
Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e
ordine? - Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti
d'impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E
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questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi
tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire sorgono e altri
invecchiano e vengono dimenticati. (Un'immagine approssimata potrebbero
darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola «gioco linguistico» è
destinata a mettere in evidenza il fatto che parlare un linguaggio fa parte di
un'attività, o di una forma di vita [corsivo mio] (PU, §23).
È evidente che il gioco linguistico non ha esclusivamente a che fare con il linguaggio
parlato, ma con una serie di attività, o meglio con tutte le attività che coinvolgono il
soggetto. Si potrebbe dire che si crea un gioco ogni qualvolta si dà una intersoggettività,
una possibilità di interazione tra almeno due soggetti. Wittgenstein non definisce mai in
positivo cosa sia un gioco linguistico, non ce fornisce una formulazione teorica; afferma
piuttosto che egli considera il gioco linguistico come un concetto aperto. Questa
precisazione mostra come lui voglia opporsi a ciò che Gottlob Frege aveva definito
concetto chiuso. Si dà un concetto chiuso nella misura in cui esiste una proprietà che
consente, per ogni oggetto, di determinare se esso soddisfa il concetto in questione
oppure no (cfr. Frege, 1977, p. 207). La ragione di questa presa di distanza da Frege è da
rintracciarsi nel fatto che, secondo Wittgenstein, non esiste nessuna caratteristica
comune tale da permettere di determinare una classe di oggetti corrispondente alla
nozione di gioco linguistico, ma soltanto delle somiglianze di famiglia:
Considera, ad esempio, i processi che chiamiamo «giochi». Intendo giochi da
scacchiera, giochi di carte, giochi di palla, gare sportive, e via discorrendo. Che
cosa è comune a tutti questi giochi? - Non dire: « Deve esserci qualcosa di
comune a tutti, altrimenti no si chiamerebbero 'giochi' »- ma guarda se ci sia
qualcosa di comune a tutti. - Infatti, se li osservi, non vedrai certamente qualche
cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai
tutta una serie ( PU, §66).
Dunque nel caso di un concetto aperto, come quello di gioco linguistico, ad una
caratteristica comune Wittgenstein sostituisce l'idea che vi siano delle somiglianze di
famiglia. Tutti gli oggetti che cadono sotto un concetto aperto non avranno in comune
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una nota caratteristica, ma saranno riconoscibili attraverso una serie di somiglianze che,
proprio come in una famiglia, si sovrappongono e si incrociano.
Ora, rileggendo la parte finale di PU, § 23, vediamo Wittgenstein sostenere che
parlare un linguaggio fa parte di una attività o forma di vita. Quest'affermazione si
inserisce in quella prospettiva che si è definita “antropologica”, in quanto far parte di
una forma di vita significa far parte di una comunità. Nozione quest'ultima che
Wittgenstein precisa molto bene. Condizione necessaria affinché si possa parlare di
comunità e dunque di gioco linguistico è l'intersoggettività. Un linguaggio può definirsi
tale solo se pubblico, ovvero solo se accessibile per tutti. Wittgenstein sostiene inoltre
che noi impariamo a parlare perché apparteniamo ad una cultura, ad una forma di vita.
In altre parole, il nostro linguaggio nasce da ciò che facciamo e tutto questo è un affare
pubblico.
Proprio per questo la prospettiva a partire dalla quale andrebbe condotta l'attività
filosofica deve essere una prospettiva antropologica che quindi non parta, come hanno
fatto i filosofi nella tradizione di Descartes, dalla loro solitudine o dalle loro
“sensazioni” private. È necessario invece partire dalla propria cultura e dalla pratica che
si vive insieme.
D'altra parte, però, il fatto che due o più persone pratichino un'attività o si
scambino delle proposizioni non è condizione sufficiente per giocare un gioco
linguistico, per parlare di un linguaggio.
L'altra caratteristica fondamentale che definisce un gioco linguistico è
l'accettazione e la condivisione di un certo paradigma di correttezza.
Immaginiamo di giocare una partita a scacchi alla quale assistono anche altre
persone, che sanno giocare allo stesso gioco. Durante la partita accade che noi e il
nostro avversario muoviamo, ad esempio, l'alfiere in linea retta e la torre sulle
diagonali1; o peggio, muoviamo tutti i pezzi a casaccio. I presenti, convinti di assistere
ad una partita di scacchi, stupiti ci chiederebbero a che gioco stiamo giocando, e
affermerebbero che qualunque gioco sia, di certo non è quello degli scacchi. Noi e il
nostro avversario basiti per questa obiezione, risponderemmo che siamo conviti di star
giocando correttamente a scacchi.
1Nel gioco degli scacchi l'alfiere può muoversi solo per diagonali, mentre la torre in verticale e in orrizzontale.
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Lo scopo di questo esempio - nel tentativo di spiegare cosa sia il paradigma di
correttezza di un gioco linguistico - è chiarire cosa significhi seguire correttamente una
regola, vale a dire cosa sia una regola e quali siano le condizioni a partire dalle quali si
possa davvero parlare di seguire una regola. Dunque il paradigma di correttezza è un
insieme di regole, sempre diverso, che fungono da grammatica, da modelli di
riferimento, per il darsi di un gioco linguistico.
Ciò che viene spontaneo chiedersi a questo punto è come nascano queste regole.
Partendo dal concetto di grammatica, come “insieme delle regole semantiche d'uso di
un termine e al tempo stesso determinazione delle caratteristiche essenziali del referente
del termine” (Voltolini, 2009, p.36), si potrebbe pensare che queste regole siano
totalmente arbitrarie. Secondo Wittgenstein, invece, la grammatica consegue alla natura
che si attiene ad essa. Dunque la grammatica non è una costruzione intellettuale fatta a
tavolino. È lo stesso filosofo austriaco a confermarlo:
noi abbiamo un sistema cromatico così come un sistema numerico. Tali sistemi
dipendono dalla nostra natura o dalla natura delle cose? Come dobbiamo
metterla? - Non dalla natura dei colori. C'è allora qualcosa di arbitrario in questo
sistema? Si e no. È affine tanto a ciò che è arbitrario tanto a ciò che non lo è.
(Zettel, § 357 - 358)
Wittgenstein sta cercando di capire quanto vi sia di costruito o di arbitrario nei sistemi
sui quali ci basiamo, fino a che punto possiamo smontarli e modificarli attraverso
l'analisi del linguaggio e fino a che punto l'accordarci sulle regole da utilizzare è mera
convenzione. Allo stesso tempo si chiede perché adottiamo un sistema anziché un altro
o per quale motivo due comunità distinte diano un nome diverso ad un medesimo
oggetto o un significato diverso ad una stessa pratica.
Nella ricerca dell'“essenza” di un sistema Wittgenstein arriverà al punto in cui la
sua vanga si piegherà contro lo strato della roccia. Egli non potrà formulare nessun
giudizio in positivo al riguardo, ma capirà che ci comportiamo in una certa maniera
perché apparteniamo ad una certa “cultura”, possediamo certe tradizioni, e siamo
condizionati da certe abitudini.
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È necessario adesso soffermarci su come apprendiamo le regole che utilizziamo
e in base a che cosa le impieghiamo correttamente. È capitato e capita ad ognuno di noi
di trovarsi di fronte ad una nuova applicazione di una regola. Cosa ci garantisce che la
stiamo seguendo in correttamente?
«In che modo posso seguire una regola?» - se questa non è una domanda
riguardante le cause, è una richiesta di giustificare il fatto che, seguendo una
regola, agisco così (PU, § 217).
Alberto Voltolini fornisce un'interpretazione interessante di questo paragrafo.
Apparentemente, infatti, il problema del seguire correttamente una regola
potrebbe sembrare epistemologico: si potrebbe pensare che ci si stia chiedendo il modo
in cui sapere qual è il comportamento corretto nel caso di una nuova applicazione di
una regola. Invece la questione sembra essere più fondamentale, sembra essere
ontologica. Supponiamo di sapere, nella maniera più completa, ciò che determinerebbe
la correttezza dell'applicazione di una regola in una nuova circostanza. In altre parole
supponiamo di trovarci di fronte ad una divinità onnisciente. Che cosa questa divinità
dovrebbe conoscere? Cosa fa sí che, senza averla mai applicata in precedenza
applichiamo correttamente quella regola?
Qui Wittgenstein esamina alcune possibili risposte. La prima opzione è di rifarsi
ad una sorta di “formulazione della regola in termini generali”, ovvero mostrare ciò che
tutte le applicazioni ottenute fino a quel momento hanno in comune. Rifacendoci a
queste formulazioni in termini generali, risulterebbe possibile anticipare ciò che nella
realtà non vi è ancora:
di dove proviene l'idea secondo cui l'inizio della successione sarebbe un tratto
visibile di un binario che si prolunga, invisibilmente, all'infinito? Ebbene, in
luogo della regola potremmo rappresentarci binari. E all'applicazione illimitata
della regola corrispondono binari infinitamente lunghi (PU, § 217).
Dire questo, però, è come dire che vi è una realtà ideale in cui le applicazioni sono già
date, al di là di una loro successiva realizzazione empirica. Questa soluzione che
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evidenzia una sorta di platonismo di fondo non soddisfa Wittgenstein il quale si
domanda cosa significhi che esiste una regola in una qualche regione ideale che già
contiene tutte le sue possibili applicazioni.
A difendere tale posizione interviene il “mentalista normativo” - il quale fornisce
un supporto epistemologico all'ipotesi “platonica” – in quanto sostiene che la realtà
precedente viene afferrata in un unico atto mentale. Secondo questa posizione si
comprende il significato di qualcosa solo attraverso un processo psichico. Quest'atto
mentale coglierebbe in una sorta di intuizione le applicazioni che non sono state ancora
eseguite. Ma secondo Wittgenstein né la formulazione in termini generali della regola,
né la giustificazione fornita in termini di un atto mentale che ne coglierebbe il preteso
senso, hanno la capacità di precorrere le nuove applicazioni della regola prima che
queste si diano empiricamente. Entrambe le posizioni fungerebbero, infatti, solo da
interpretazione decisiva dell'espressione della regola, tale che solo una determinata
applicazione della regola in nuove circostanze risulti essere l'applicazione corretta (cfr.
Voltolini, 2009, p. 80). A questa argomentazione si riferisce Wittgenstein quando scrive:
Qualunque cosa io faccia, può sempre essere resa compatibile con la regola
mediante una qualche interpretazione (PU, § 198).
Il problema è che la prima applicazione di una regola in una nuova situazione potrebbe
risultare sia in accordo che in disaccordo con l'interpretazione addotta.. Dunque queste
soluzioni non fanno che rimandare il problema non fornendo alcuna soluzione
definitiva:
Il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo
d'agire, poiché qualsiasi modo d'agire può essere messo d'accordo con la regola.
La risposta è stata: Se può essere messo d'accordo con la regola potrà anche
essere messo in contraddizione con essa.
Che si tratti di un fraintendimento si può già vedere dal fatto che in questa
argomentazione avanziamo un'interpretazione dopo l'altra; come se ogni singola
interpretazione ci tranquillizzasse almeno per un momento, finché non pensiamo
a un'interpretazione che sta a sua volta dietro la prima (PU, § 201).
17
In definitiva tali posizioni sostengono che ci sia in fondo un'interpretazione della regola
dotata da sempre di un suo senso; dunque bisognerebbe solo scavare tra le
interpretazioni fino a trovare quella più genuina. Per Wittgenstein questo tipo
d'approccio è sbagliato in quanto porterebbe ad un regresso all'infinito. Ogni
interpretazione non farebbe altro che rimpiazzare un segno o l'espressione di una regola
con un altro:
[…] Ogni interpretazione è sospesa nell'aria insieme con l'interpretato; quella
non può servire da sostegno a questo. Le mie interpretazioni, da sole, non
determinano il significato (PU, § 198).
Dopo aver spiegato il fraintendimento che nasce dal considerare il seguire una regola
pari ad un'interpretazione, Wittgenstein deve ancora fornire una risposta al problema del
seguire una regola. A tal riguardo scrive:
esiste un modo di concepire una regola che non è un'interpretazione, ma che si
manifesta, per ogni singolo caso di applicazione, in ciò che chiamiamo «seguire
la regola» e «contravvenire ad essa» (PU, § 201).
Quando egli parla di un modo non-interpretativo intende dire che l'applicazione di una
regola in una nuova circostanza fungerà da modello, ovvero da paradigma di
correttezza, per le successive applicazioni della regola nella medesima circostanza (cfr.
Frascolla, 1994, cap.3). In qualche modo allora, la prima applicazione di una regola ad
una nuova circostanza sarà un'applicazione empirica, ovvero simile a qualsiasi altra
applicazione di una regola, ma, al tempo stesso assumerà lo statuto di modello di
correttezza per le altre applicazioni. Di conseguenza, non si potrà predicare la
correttezza o la scorrettezza delle applicazioni paradigmatiche, in quanto sono proprio
esse a fornire il criterio discriminante per le applicazioni successive. A questo punto la
questione sembrerebbe rovesciarsi. Ogni nuova applicazione paradigmatica definisce
ciò che la regola è in se stessa. Fare di un'applicazione in ogni nuova circostanza il
paradigma della regola generale significa istituire una nuova regola particolare che caso
per caso specifica quella generale. Prendiamo la regola “aggiungere 2”. Dire che
18
partendo dallo 0 bisogna ogni volta aggiungere ad un numero x la quantità 2 per
ottenere un numero y, significa formulare in maniera generale una regola. Si dia il caso
in cui bisogna aggiungere 2 al numero 1000. Diremo che 1002 è il risultato corretto
dell'applicazione “aggiungi 2” al caso particolare.
Quest'ultimo esempio evidenzia che applicare una regola in una nuova
circostanza, vale a dire definirne un'applicazione paradigmatica, significhi, nella realtà
dei fatti, agire. Un agire che nasce spontaneo e caratterizza un modo d'essere dell'uomo.
In altre parole, trattare un'applicazione come paradigmatica è per l'uomo un'operazione
irriflessa:
quando seguo la regola non scelgo. Seguo la regola ciecamente (PU, § 219).
operiamo senza fare appello a nessun suggerimento ulteriore (PU, § 228).
Per spiegare quanto dicono queste due brevi righe consideriamo, come fa Wittgenstein,
l'esempio di un' allievo e di un maestro. Il maestro addestra letteralmente l'allievo in
maniera tale che questi tratti come paradigmatica, in una nuova circostanza, una stessa
applicazione che egli già tratta come tale. L'allievo viene educato attraverso continui
esempi, guidato con espressioni di assenso o diniego a seconda che faccia bene o faccia
male:
gli faccio vedere come si fa, e lui fa come faccio io; e influisco su di lui con
espressioni di consenso, di rifiuto, di aspettazione, di incoraggiamento. Lo lascio
fare, oppure lo trattengo e così via (PU, § 208).
In questo modo si insegna all'allievo ad agire in modo che faccia sempre così.
Allargando il campo d'azione potremmo spostare questa dinamica sul piano
comunitario o antropologico. Al maestro si sostituiranno le abitudini e le tradizioni, vale
a dire la cultura, e all'allievo ogni singolo individuo che appartiene ad essa,
sottolineando comunque, che il rapporto maestro-allievo è direttivo, quello cultura-
singolo no. Una certa forma di vita, infatti, agisce in maniera costante e indiretta sulle
19
nostre reazioni, sul nostro linguaggio, sulle nostre abitudini, e in questo modo non ci
dice cosa fare, non ci consegna una teoria, ma un modo di vivere.
Alla luce di questo è ancora più chiaro perché all'inizio del capitolo la
prospettiva di Wittgenstein è stata definita antropologica:
Lasciami chiedere: Che cosa ha da spartire l'espressione della regola – diciamo,
un segnale stradale – con le mie azioni? Che tipo di connessione sussiste tra le
due cose? - Ebbene, forse questa: sono stato addestrato a reagire in un certo
modo a questo segno, e ora reagisco così. […] in questo modo […] ho anche
messo in evidenza che uno si regola secondo le indicazioni di un segnale
stradale solo in quanto esiste un uso stabile, un'abitudine. (PU, § 198)
Lo stesso Wittgenstein però si rende conto che una tale spiegazione è incompleta.
L'addestramento e l'abitudine da sole sono insufficienti. Deve esserci qualcosa di più
fondamentale su cui basare l'addestramento e l'abitudine stessa. Egli chiama questo
qualcosa la naturalità, ovvero una sorta di disposizione naturale, un terreno comune sul
quale si formano spontaneamente le pratiche di vita. Per spiegarlo torna ancora una
volta sul caso dell'allievo e del maestro. Se il primo, al comando “aggiungi 2” a 1000,
scrivesse 1004, lo riterremmo sicuramente in errore. Wittgenstein fa notare, però, che se
l' allievo reiterasse nel commettere l'errore, si potrebbe pensare che egli sia per natura
portato a comprendere l'ordine “aggiungi 2” come “aggiungi 4”, o magari “aggiungi 6”
dal 2000 in poi. Si potrebbe ipotizzare cioè che egli stia in realtà seguendo una regola
diversa dalla nostra.
A questo punto, prendendo per buona l'ipotesi di Wittgenstein - ovvero che
l'allievo stia seguendo una regola diversa dalla nostra - si deve precisare se sia dunque
possibile che un singolo segua una regola sua propria, e cosa consenta ad
un'applicazione di avere un valore paradigmatico:
Ciò che chiamiamo «seguire una regola» è forse qualcosa che potrebbe esser
fatto da un uomo, una sola volta nella sua vita? E questa, naturalmente, è
un'annotazione sulla grammatica dell'espressione «seguire una regola». Non è
possibile che un solo uomo abbia seguito una regola solo una volta. Non è
possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un
20
ordine sia stato dato e compreso, e così via. - Fare una comunicazione, dare o
comprendere un ordine, e simili, non sono cose che possano esser state fatte una
volta sola. - Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare
una partita a scacchi sono abitudini (usi, istruzioni) (PU, § 199).
Nessuno può seguire da solo, e una sola volta, una regola in quanto mancherebbe di
un'applicazione paradigmatica, mancherebbe di un riferimento. Infatti, condizione
necessaria e sufficiente affinché l'applicazione di una regola in una circostanza nuova
abbia un valore paradigmatico è che essa sia usata in modo pubblico, ovvero che sia
fruibile da una pluralità di individui che la usino a loro volta in maniera conforme alle
sue applicazioni paradigmatiche in determinate circostanze.
Una regola che non sia disponibile intersoggetivamente, che non possegga
quindi dei criteri di correttezza (applicazioni paradigmatiche), non sarà affatto una
regola. Dall'impossibilità grammaticale di far proprie “regole private” (espressione che
non ha alcune senso), si torna a quanto si diceva riguardo al gioco linguistico, ossia che
il linguaggio non può darsi privatamente.
Di ciò, ossia dell'impossibilità del linguaggio privato, si parlerà ancora nel
prossimo paragrafo, attraverso la critica che Wittgenstein rivolge al linguaggio privato
delle sensazioni.
Prima, però è necessario precisare perché si è detto che la soluzione di
Wittgenstein al problema del seguire una regola costituisca una sua dissoluzione.
Ricordiamo che si può parlare di correttezza o scorrettezza di un'applicazione in una
nuova circostanza solo nella misura in cui si dispone di un'applicazione paradigmatica
in base alla quale si stabiliscono i criteri di correttezza. Ma allora proprio per questo,
prima che si realizzi un'applicazione paradigmatica, non ha senso domandarsi come
l'applicazione di una regola in una nuova circostanza possa essere considerata corretta.
Da ciò deriva che non c'è nulla che debba determinare in anticipo se
l'applicazione di una regola in una nuova circostanza sia corretta o meno, proprio perché
non c'è niente da determinare. In tal modo, quindi, non vi è alcun problema da risolvere.
21
1.3 L'argomento contro il linguaggio privato delle sensazioni
Il problema del seguire privatamente una regola apre la strada alla riflessione sul
linguaggio privato ed in particolare sul linguaggio privato delle sensazioni. Tale
riflessione prenderà tutta la parte centrale delle PU:
Ma sarebbe anche pensabile un linguaggio in cui uno potesse esprimere per
iscritto o oralmente le sue esperienze vissute interiori – i suoi sentimenti, umori,
ecc. – per uso proprio? — Perché, queste cose non possiamo già farle nel nostro
linguaggio ordinario? - Ma io non l'intendevo così. Le parole di questo
linguaggio dovrebbero riferirsi a ciò di cui solo chi parla può avere conoscenza;
alle sue sensazioni immediatamente, private. Dunque un altro non potrebbe
comprendere questo linguaggio (PU, § 243).
Nella sua analisi Wittgenstein tratterà come equivalenti sia la tesi secondo la quale ci si
può riferire alle proprie sensazioni inventando un linguaggio proprio e sia quella
secondo cui il linguaggio ordinario riguardante le sensazioni è in realtà privato . Questo
perché ciascuno dà alle proprie sensazioni un significato differente, in modo che
nessuno, a parte egli stesso, le possa comprendere (cfr. PU, § 273). Come abbiamo detto
prima, seguire una regola privatamente o credere di seguire una regola è contro la stessa
grammatica del seguire una regola.
Wittgenstein si confronterà continuamente con “un rappresentante” del
privatismo semantico, per cui il significato di ogni termine del linguaggio è privato.
Secondo questa teoria, il significato di un termine sta nell'esperienza vissuta da
un certo soggetto mentre pronuncia quel termine. E dato che questa esperienza è
accessibile a lui soltanto, il suo linguaggio sarà necessariamente privato.
L'argomento principe, che Wittgenstein impugnerà contro il privatismo
semantico sarà fornito dall'impossibilità strutturale di utilizzare un linguaggio privato;
la sua possibilità vanificherebbe infatti la distinzione tra il seguire una regola e il
credere di farlo. La confutazione si articola come segue.
Supponiamo che un individuo conii un segno “S” per indicare una sua
sensazione e che l'appunti in un diario ogni volta che prova questa sensazione. Poiché
egli è l'unico a sapere quando la prova, nessun altro può capire per cosa stia “S” (PU, §
22
258). Questo è un esempio di uso privato del linguaggio. A tale individuo Wittgesntein
mostra l'assenza, nel suo linguaggio, di un'applicazione paradigmatica grazie alla quale
poter verificare la correttezza del suo appuntare “S”. Se il privatista rispondesse che,
quando segna “S”, egli è concentrato sulla sua sensazione, e adduce questo come metro
di verifica, Wittgensetin ribatterebbe evidenziando il fraintendimento che opera nelle
dinamiche di giustificazione del privatista. Quest'ultimo infatti, sarebbe soltanto
convinto delle sensazione che sta provando, ma l'esserne convinti, e quindi dichiarare di
possedere la certezza di sapere qualcosa, non rientra nel gioco linguistico del seguire
correttamente una regola, ma rientra in quello del credere di seguirla:
«Ebbene, io credo che questa sia ancora la sensazione S».
- Tu credi di crederlo!
Ma allora, chi ha tracciato il segno sul calendario non avrebbe annotato proprio
nulla? - Non pensare che sia ovvio che chi fa un segno - per esempio in un
calendario – prenda nota di qualcosa. Un'annotazione ha una funzione, e, finora,
quell'«S» non ne ha alcuna. (Si può parlare fra sé e sé. - Ma parlano tra sé e sé
tutti quelli che parlano quando nessun altro è presente?) (PU, § 260).
Il privatista, potrebbe controbattere dicendo che egli sa per davvero e in modo certo che
usa correttamente “S” in quanto gli basta confrontare i ricordi per saper che non sta
sbagliando. Tuttavia, il fenomeno del ricordare non soddisfa alcun criterio oggettivo di
conoscenza, può solo sembrare corretto al suo fruitore (PU, § 265).
Si potrebbe leggere quest'ultima critica come una posizione scettica nei confronti
della memoria; in realtà il problema sussisterebbe anche se si possedesse una memoria
infallibile. Un soggetto, dotato di una memoria infallibile, non possiederebbe comunque
un'applicazione paradigmatica in base alla quale dire che ha usato “S” in modo corretto:
[…] consultare una tabella nell'immaginazione è tanto poco consultare una
tabella, quanto l'immagine del risultato di un esperimento ideale è un
esperimento (PU, § 265).
23
Per rafforzare la sua critica, Wittgenstein analizza anche la grammatica dei termini di
sensazione. Il termine “sensazione” è un termine che appartiene al linguaggio comune.
Esso ha un suo spazio semantico e quindi è inserito in molteplici giochi
linguistici. Tali giochi sono l'unica via attraverso la quale ci relazioniamo e ci
comprendiamo. Ora, come il significato della parola “sensazione” dipende da come
viene usata all'interno di questi giochi. La cosa fondamentale è che al di là dei vari
significati, il termine ricopre un ruolo all'interno del linguaggio che noi tutti accettiamo
e condividiamo in maniera spontanea per via della nostra naturalità. In altre parole,
anche i termini di sensazione possiedono una loro grammatica.
È proprio questo che manca al privatista, un gioco linguistico all'interno del
quale la sua “sensazione” ricopra un ruolo. Manca la necessaria componente
dell'intersoggettività. Il suo è un continuo riferirsi a qualcosa che, stando all'esterno del
gioco linguistico, non si mostra agli altri, non è manifesto e dunque manca della
possibilità di essere verificato. Il loro manifestarsi esteriore è forse la componente
grammaticale più importante del gioco linguistico dei termini di sensazione
Su quest'argomentazione torneremo più diffusamente nel terzo capitolo. Ad ogni
modo, non si può parlare di un linguaggio privato delle sensazioni, perché un
linguaggio è fondamentalmente un affare pubblico.
24
Capitolo 2
MOORE FILOSOFO DEL SENSO COMUNE
2.1 Due articoli
A Defense of Common Sense e Proof of External World sono i titoli dei due
articoli che saranno oggetto di questo capitolo. Entrambi nascono da una forte
avversione del filosofo inglese George Edward Moore per gli argomenti della visione
scettica e di quella idealista. Ma nonostante questo presentano sostanziali differenze.
Il primo, scritto nel 1925, è un acceso appello al senso comune e incarna la
volontà di opporsi a tutti quei filosofi che dubitano e negano l’esistenza della materia,
dell’io, dello spazio e del tempo, e delle menti altrui. Moore definisce tali pretese non
solo false ma addirittura paradossali, in quanto minerebbero la quotidiana possibilità di
formulare proposizioni sull'esistenza dell'io, dello spazio, del tempo e delle menti altrui.
Nella parte iniziale dell'articolo elencherà i cosiddetti truismi del senso comune. Tali
proposizioni sono per l'autore talmente certe da non necessitare di nessuna sorta di
disamina complementare. In Proof of External World, scritta nel 1939, invece, Moore
tenterà di spiegare perché ritiene i truismi enunciati quattordici anni prima cosí certi e
indubitabili.
2.2 Il senso comune
Come già accennato, questo saggio parte da un elenco di truismi, o di
“proposizioni empiriche in prima persona concernenti perlopiù la propria mente e il
proprio corpo”(Coliva, 2003, p. 21):
Esiste al presente un corpo umano vivente, che è il mio corpo. Questo corpo è
nato in un certo momento del passato, e da allora è esistito senza soluzione di
continuità, ancorché non senza aver subito mutamenti. Fin dal momento della
nascita, è stato sempre o a contatto o poco discosto dalla superficie della terra; e
da quando è nato sono anche sempre esistite molte altre cose, di forme e
grandezze tridimensionali, da cui esso si è trovato a varie distanze. […] Fra le
cose che, in questo senso, hanno fatto parte del suo ambiente circostante c'è
sempre stato, in ogni momento successivo alla sua nascita,un gran numero di
25
altri corpi umani viventi. […] Ma la terra esisteva già, e da molti anni, anche
prima che il mio corpo nascesse. […] Infine, io sono un essere umano, e, da
quando il mio corpo è nato, ho avuto, in tempi differenti, molte esperienze
differenti, di ognuno di molti tipi diversi: per esempio, ho spesso percepito sia
il mio corpo proprio sia le altre cose che hanno fatto parte del suo ambiente
circostante, compresi altri corpi umani; non solo ho percepito oggetti di questo
genere, ma ho anche osservato fatti che li concernono, come, ad es., il fatto che
sto osservando ora, che questa mensola del caminetto è al presente più vicina al
mio corpo di questo scaffale; […] ho avuto aspettazioni riguardo al futuro, ed
ho avuto molte credenze di altro genere, sia vere che false; ho pensato ad
oggetti immaginari e a persone ed eventi, senza credere alla loro realtà; ho fatto
dei sogni; e ho avuto sentimenti di molti generi diversi (Moore, 1970, pp. 22-
23).
Subito dopo, Moore aggiunge di sapere che tali proposizioni valgono non solo per lui
ma per tutti gli altri; ma soprattutto che anche tutti gli altri nutrono convinzioni simili
alle sue. A questo punto, un rappresentante della corrente idealista chiederebbe a Moore
delle spiegazioni, in quanto gli sarebbe impossibile accettare queste proposizioni come
date. Il filosofo inglese risponderà spiegando come, il fatto che queste proposizioni
siano auto-evidenti per tutti, non è da confondere con la possibilità di conoscerne la
corretta analisi del significato. Allora distinguerà da un lato, un significato ordinario
delle parole, dall’altro una certa attività filosofica di analisi del significato. Dicendo
questo, egli vuol chiarire l’uso che fa del linguaggio e mantenersi alla larga da una
qualsivoglia analisi che, appunto, ritiene impossibile:
Un' espressione come << La terra esiste da molti anni >> è l’esempio più tipico
di espressione assolutamente priva di ambiguità e di cui tutti intendiamo il
significato. Chiunque pensi il contrario, suppongo che stia in realtà
confondendo la questione se noi intendiamo il significato dell’espressione (che
certamente tutti noi intendiamo) con la questione interamente differente se noi
sappiamo ciò che essa significa, se noi sappiamo, cioè, dare un’analisi corretta
del suo significato. << La terra esiste da molti anni >> in qualunque sua
occorrenza è, secondo me, una questione estremamente difficile, e a cui
26
nessuno, come fra poco metterò in luce, sa dare risposta (Moore, 1970, pp. 26-
27).
Sarebbe infatti un controsenso sollevare una qualsivoglia questione di come si debba
analizzare qualcosa che intendiamo se non lo si è in qualche modo già inteso.
Moore si scaglia, allora, contro quei filosofi che non solo si rifiutano di accettare
come assolutamente vere proposizioni quali quelle citate all'inizio di questo capitolo,
ma anche contro quei filosofi che le ritengono addirittura ambigue. Ancora una volta
egli mostra ai suddetti pensatori, che sono l'emblema della posizione scettica e idealista,
l'insensatezza del loro rifiuto e quindi della loro posizione. Infatti, se la classe di quelle
proposizioni note come “truismi” è tale che nessuna proposizione di quella classe è
vera, allora nessun filosofo è mai esistito, e quindi nessun filosofo ha mai potuto
sostenere, riguardo alla classe di cui prima, che nessuna proposizione ad essa
appartenente sia vera. D'altro canto,
“se ci sono effettivamente stati dei filosofi, ci sono anche stati degli esseri
umani; e se ci sono stati degli esseri umani, anche il resto di ciò che viene
asserito da quelle proposizioni è certamente vero (Moore, 1970, p. 30).
L'unica cosa che, attualmente, Moore dichiara di poter fare è il mostrare che il
contenuto di quelle proposizioni è di fatto vero. E, a suo dire, nulla potrebbe inficiare lo
statuto di verità di tali proposizioni.
Secondo il filosofo inglese gli idealisti sostengono sempre qualcosa di falso
quando negano la realtà dei truismi. Essi, infatti, negando il nostro statuto di “esseri
umani”, si precludono la possibilità logica del parlare stesso, e quindi la possibilità di
esprimere un qualsivoglia giudizio. Lo scettico, da parte sua, negando che si possa
sapere che esistono degli oggetti materiali, sostiene sempre una posizione insensata.
Vediamo perché.
Proprio questa schiera di pensatori ha definito i truismi di Moore «credenze del
senso comune» affermando che, pur essendo credenze nutrite dall'intero genere umano,
esse rimangano ad ogni modo solo credute e mai conosciute. Guardando ad un
passaggio in cui Moore si sta riferendo ad uno scettico si legge
27
Se egli, poi, asserisce: «Queste credenze sono credenze del senso comune, ma non
sono materia di conoscenza», è come se dicesse: «Ci sono stati molti altri esseri
umani, oltre a me stesso, che hanno condiviso queste credenze, ma né io, né alcuno
di tutti gli altri ha mai saputo che esse sono vere» (Moore. 1970, p. 33).
Il tono che permea questa citazione ci mostra come le credenze del senso comune siano
inevitabilmente vere e allo stesso tempo sembra deridere chi le mette in discussione.
Moore dichiara, ad ogni modo, di non poter esibire una conoscenza diretta di tali
truismi. Egli non può fornire delle ragioni che supportino le sue asserzioni di verità
riguardo i suddetti truismi. Ma allo stesso tempo dice di essere assolutamente convinto
della loro veridicità, sulla scorta di proposizioni conosciute in passato, che ne sarebbero
la prova evidente. Tuttavia, anche di queste prove Moore non sa darci spiegazioni e,
come in un circolo vizioso, continua ad appellarsi ad un “sapere evidente” che tutti
condivideremmo:
Noi ci troviamo tutti, io credo, in questa strana situazione: sappiamo di fatto
molte cose, riguardo alle quali sappiamo anche che dobbiamo avere avuto
qualche prova evidente della loro verità; ma non sappiamo come siamo venuti a
saperle, cioè non riusciamo a individuare la prova originaria della loro verità
(Moore, 1970, 35).
Non si può dunque parlare di una confutazione delle tesi dello scettico e dell'idealista, e
questo tentativo di Moore potrebbe ritenersi un fallimento filosofico. Tuttavia, «ciò che
è più interessante al fine di comprendere la posizione di Moore non è tanto il suo
fallimento quanto piuttosto la sua strenua difesa della visione del mondo del senso
comune» (Coliva, 2003, p. 29).
Dopo una difesa appassionata del senso comune, è sorprendente scoprire Moore
alle prese con un'analisi insoddisfacente in termini di dati sensoriali dei truismi.
Moore intraprende un percorso non solo infelice, ma anche pericoloso,
soprattutto per il modo in cui è condotto. Egli parte dalla proposizione «Al momento sto
percependo una mano umana» che, a suo avviso, deriva dalla congiunzione di due
proposizioni basilari: « Sto percependo questo » e «Questa è una mano umana ».
28
Il primo “questo” si riferisce ad un dato sensoriale, mentre il secondo a ciò è
rappresentativo della mano.
A tal punto, l'unica mossa che potrebbe dare all'analisi di Moore una svolta
positiva sarebbe una definizione, una spiegazione di cosa egli intende con “dato
sensoriale”. Premettendo il suo insuccesso, Moore non rinuncia comunque a fornircene
3:
1. Il dato sensoriale è una parte della mano: coincide con la parte della superficie
della mano che percepisco.
2. Il dato sensoriale è la manifestazione di una singola cosa, non ulteriormente
analizzabile che è in relazione causale con una parte (ad esempio un dito) della
superficie della mano.
3. Se, come sosteneva John Stuart Mill, gli oggetti materiali sono possibilità
permanenti di sensazione, definiremo il dato sensoriale come un intero insieme
di fatti ipotetici che hanno la forma: “Se fossero state soddisfatte queste (altre)
condizioni, io avrei percepito un dato sensoriale intrinsecamente collegato a
questo dato sensoriale in questo (altro) modo.” (cfr. Moore, 1970, p. 50).
Gli interrogativi e le perplessità su ciò che il filosofo afferma non sono pochi. Infatti è
lo stesso Moore ad avanzare alcune obiezioni fondamentali. Alla definizione 1 si
potrebbe obbiettare ad esempio che quando si vede doppio si hanno due dati sensoriali
distinti ed è impossibile che essi siano identici all'unica parte della superficie della mano
che è effettivamente data.
Nella 2. non è specificato cosa sia e come si possa conoscere questa entità
rappresentativa a metà tra la mano reale e il dato sensoriale. Infine, contro la definizione
3 si può obbiettare che le molteplici ipotesi, che impongono condizioni diverse, possono
anche contraddirsi. Nel caso specifico, se osserviamo la mano da angolazioni diverse
potremmo vedere in un caso cinque dita, in un altro soltanto 3, predicando così due
proprietà diverse per lo stesso oggetto materiale.
Appurato, allora, che un'analisi del concetto di “dato sensoriale” porta ad un
vicolo ceco, l'unico “cardine” sul quale l'argomentazione di Moore continua a reggersi è
quello dell'auto-evidenza dei suoi truismi. Ora, proprio attorno a questo cardine si
costruirà la critica di Wittgenstein.
29
Secondo Coliva infatti l'argomentazione dell'auto-evidenza, oltre a non costituire
una confutazione delle tesi scettiche o idealiste, presenta dei punti deboli. In primo
luogo l' auto-evidenza presenta un forte richiamo al modello della visione. Ovvero, così
come con la vista afferriamo istantaneamente il colore di un oggetto che ci sta di fronte,
così attraverso la facoltà cognitiva dell'intuizione dovremmo conoscere immediatamente
la verità della proposizione in questione.
Si tratta di un modello inadeguato sia perché non specifica cosa sia l'intuizione,
sia perché ammette nel gioco del conoscere la posizione del mentalismo epistemologico,
secondo la quale per sapere che “p” è vera basterebbe trovarsi nello stato mentale,
introspettivamente noto al soggetto, corrispondente all'intuizione della sua verità.
In sintesi Moore afferma l'esistenza di proposizioni auto-evidenti, che per
definizione non dipendono da alcuna prova. Allo stesso tempo egli si interroga sulla
possibilità dell'ingannarsi. Senza indugi afferma però di possedere una conoscenza
effettiva e certa delle verità delle proposizioni in questione. Inoltre afferma di averne la
prova, una prova però che non è in grado di riprodurre. Il genere di prove a cui si
riferiva sarebbero di ordine temporale, ovvero le avremmo acquisite in passato, prima
che potessimo pervenire ad altre conoscenze. Ne deriva dunque che tali truismi
svolgono un ruolo fondante per tutto il sistema delle nostre conoscenze.
Ma se le cose stanno così, si deve obbiettare che una proposizione non può
essere al tempo stesso primitiva e derivata. Delle due, l'una; o ai suoi truismi il filosofo
inglese deve riservare un ruolo fondante, che escluderebbe qualsivoglia analisi, oppure
deve fornire non solo delle evidenze, ma anche delle argomentazioni che spieghino
questo genere di proposizioni.
2.3 Il mondo esterno
«Resta però sempre uno scandalo per la filosofia e per la ragione umana in
generale, il dover ammettere l'esistenza delle cose fuori di noi solo per fede, e
se mai a qualcuno venisse in mente di metterla in dubbio, il non poter opporgli
nessuna dimostrazione soddisfacente» (Kant, KrV, B XXXIX, p. 62, nota).
Cosí si apre il saggio che Moore scrive quattordici anni dopo A defense of Common
Sense. A partire da queste parole di Kant, Moore immagina che anche per il filosofo
30
tedesco la dimostrazione dell'esistenza del mondo esterno sia una questione di primaria
importanza. Egli infatti aveva sostenuto di averne fornito una dimostrazione possibile,
nella seconda edizione di Kritik der reinen Vernunft (KrV). Moore tiene a sottolineare,
però, che Kant aveva, dichiarato di aver fornito una dimostrazione «della realtà
obbiettiva dell'intuizione esterna». Si tratta di una delle differenze linguistiche su cui il
filosofo inglese si soffermerà nella prima parte del suo saggio.
Dal fatto che Moore stia scrivendo Proof of External World, intuiamo che la
prova di Kant non può essere considerata né convincente, né definitiva. Il filosofo
inglese intende poi verificare che tipo di prova Kant abbia fornito e verificare se
davvero sia l'unica possibile.
Per questo scrive Proof of External World, al fine di risolvere un problema nel quale
persino Kant aveva fallito; vale a dire dimostrare l'esistenza di cose al di fuori di noi.
Come prima cosa egli avvia un processo di chiarificazione dell'espressione «cose
al di fuori di noi»:
credo che si debba riconoscere che l'espressione «cose al di fuori di noi» sia
piuttosto bizzarra e che il suo significato non sia certo un modello di chiarezza
(Moore, 1970, p. 135).
In prima istanza, si potrebbe parlare, per essere più chiari, di «cose esterne»,
espressione che a sua volta abbrevierebbe «cose esterne alla nostra mente». Fino a
questo passaggio Moore si trova in sostanziale accordo con Kant che distingueva tra
oggetti esterni in senso trascendentale e oggetti esterni in senso empirico.
Moore sceglie di trattare la questione in merito agli oggetti empiricamente
esterni, escludendo quelli esterni in senso trascendentale. Tali oggetti ovvero, quelli che
si possono incontrare nello spazio, sarebbero costituiti dai «corpi materiali», dalle «cose
materiali» e dagli «oggetti fisici». Tuttavia prendendo poi in considerazione un'ombra,
si chiede se sia possibile far rientrare una cosa simile nel gruppo di oggetti
empiricamente esterni. In maniera intuitiva saremmo portati a negare tale possibilità.
L'ombra è un qualcosa che intuitivamente non chiameremmo mai oggetto, e meno che
mai oggetto fisico. Moore, però, dichiara di voler far rientrare anche questo tipo di cose
all'interno degli «oggetti che si possono incontrare nello spazio»:
31
Desidero che la formula « cose che si possono incontrare nello spazio » venga
intesa in questo senso lato e comprensivo; di modo che, dimostrare che ci siano
state due ombre distinte, comporterebbe subito che ci siano state almeno due «cose
che si possono incontrare nello spazio», e tale prova sarebbe valida per il nostro
assunto quanto una prova che dimostrasse l'esistenza di almeno due «oggetti fisici»
di un tipo qualsiasi (Moore, 1970, p. 137).
Durante il confronto con Kant, Moore prende coscienza del fatto che il dominio della
formula «cose che si possono incontrare nello spazio» non è abbastanza ampio quanto
quello di un'altra espressione che il filosofo tedesco adopera:
Tuttavia, poiché l'espressione «fuori di noi» comporta un'ambiguità inevitabile,
significando a volte qualcosa che esiste come cosa in se stessa, distinta da noi, a
volte ciò che rientra semplicemente nel fenomeno esterno, per evitare ogni
incertezza riguardo a tale concetto in quest'ultimo significato distingueremo gli
oggetti «empiricamente esterni» da quelli che potemmo chiamare esterni in
senso trascendentale, denominando i primi, direttamente «cose che si trovano
nello spazio» (Kant, KrV, A373, p. 1277).
Kant non traccia alcuna differenza tra le «cose che si trovano nello spazio» e quelli che
il filosofo inglese ha definito essere oggetti empirici che «si possono incontrare nello
spazio». È questa l'equivalenza che Moore non condivide e dunque critica.
Egli adduce come esempio il fenomeno del “negative after-image”. È il
fenomeno che avviene quando, dopo aver fissato una macchia bianca su uno sfondo
nero, si volge lo sguardo ad uno sfondo bianco, e si vede su di esso per un breve tempo
una macchia grigia. È un esperimento che Moore stesso ha riprodotto più volte, usando
una stella a quattro a punte al posto di una macchia. Al riguardo egli dichiara
apertamente che non può far rientrare la macchia grigia tra gli oggetti che «si possono
incontrare nello spazio», perché oggetto un oggetto di questo tipo dovrebbe esser visto
da tutti e non solo da chi ha fissato a lungo una stellina bianca su uno sfondo nero:
Quando io dico che la stella di carta bianca a quattro punte, su cui tenevo fisso
lo sguardo, era un «oggetto fisico» ed era una cosa «che si può incontrare nello
spazio», io con ciò implico il fatto che chiunque si fosse trovato nella stanza in
32
quel periodo di tempo e avesse avuto una vista e un senso del tatto normali
avrebbe potuto vederla e sentirla (Moore, 1970, p. 138).
Moore non è disposto a dire che si tratti di cose che si possono «incontrare nello
spazio», perché non tutti avrebbe potuto vedere la stessa immagine, ovvero la stella
grigia a quattro punte. Mentre se egli insieme con altri individui avessero guardato
contemporaneamente uno stesso punto, nel quale, poniamo, vi fosse ubicata una sedia,
tutti l'avrebbero vista, nel senso che l'avrebbero potuta «incontrare nello spazio».
Già qui l'argomentazione di Moore inizia a farsi ridondante. Egli continua a
fornire esempi ma non riesce a definire con ulteriore precisione il dominio della
formulazione «oggetti che si possono incontrare nello spazio». Conclude tuttavia che
per il suo scopo, l'impossibilità di chiarificare ulteriormente la suddetta espressione, non
costituirà un problema. A chi scrive sembra chiaro che questo tentativo di
chiarificazione sia votato ad arginare il più possibile l'attacco degli scettici. Moore, nel
cercando di definire un dominio ben preciso, ha infatti scremato il più possibile i
fraintendimenti sull'espressione «cose al di fuori di noi».
Ciò che tiene adesso a precisare è che parlare di qualcosa come esistente implica
allo stesso tempo che questa la si possa incontrare nello spazio. Ad esempio, dalla
proposizione “ci sono delle piante” consegue la proposizione “si possono incontrare
della piante nello spazio”. Ciò, continua Moore, non vale però per la nozione di «cose
esterne». Tuttavia molti filosofi utilizzano le due espressioni come se fossero
equivalenti, non rendendosi conto che per «cose esterne» si possono intendere anche
cose esterne alla nostra mente, oltre che al nostro corpo. Differenza che, come si è visto
può essere specificata e ci ha condotti al dominio di «cose che si possono incontrare
nello spazio».
Prima di considerare la dimostrazione vera e propria, è opportuno esaminare
un'ultima digressione di Moore, riguardo al significato dell'espressione «avere
un'esperienza»:
un filosofo, il quale segua quest'uso particolare dell'espressione, direbbe che io,
in un dato momento sto «avendo un'esperienza», se e soltanto se nel momento
in questione io o (1) sono cosciente, o (2) sto sognando, oppure (3) mi trovo in
condizioni simili a quella della coscienza o del sogno, in quell'ovvio rispetto in
33
cui lo stato del sogno assomiglia allo stato della coscienza, e in cui lo stato, per
es., dell'allucinazione visiva somiglia ad entrambi (Coliva, 2003, p. 36).
In definitiva, lo scopo di questa specificazione, ovvero l'esigenza di differenziare
“esterno alla mente” e “interno alla mente”, è di mostrare come sia contraddittorio
asserire che un dolore fisico sia qualcosa che «si possa incontrare nello spazio». Esso
non può rientrare in questo dominio di cose in quanto è contraddittorio dire che quel
dolore esiste nel momento in cui io non ne ho esperienza.
La strategia argomentativa adottata fino ad ora da Moore, si è basata a tratti
sull'intuizione, sulla spontaneità della reazione del singolo, lasciando alcuni passaggi
incompleti. Ma adesso passiamo alla prova vera e propria. Moore tenendo una mano
tesa di fronte al suo pubblico disse:
In questo momento, io sono perfettamente in grado di dimostrare per esempio
che esistono due mani umane. Come? Tenendo levate le mie due mani e
dicendo, mentre faccio un certo gesto con la mano destra, «ecco qui una
mano», e poi aggiungendo, mente faccio un certo gesto con la sinistra, «e qui
ecco un'altra mano». E se, facendo ciò, io ho anche dimostrato ipso facto
l'esistenza di cose esterne, vedete bene che io sono ora in grado di ripetere la
prova in numerosi altri modi:non c'è bisogno di moltiplicare gli esempi (Moore,
1970, p. 154).
Dopo di ciò Moore prosegue dicendo che questa sarebbe una prova rigorosa perché:
(a) le premesse sono diverse dalla conclusione;
(b) esse sono conosciute come vere e non sono solo credute tali;
(c) la conclusione segue realmente dalle premesse. (cfr. Coliva, 2003, p. 36).
Il primo problema alla quale una tale dimostrazione va incontro è come ha potuto
Moore sostenere di sapere che le sue premesse fossero vere, ma allo stesso tempo
ammettere di non essere in grado di provarle.
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Purtroppo Moore non va oltre questo genere di argomentazioni che non
convincono né lo scettico, né l'idealista, in quanto fanno appello all'evidenza e al buon
senso. Tanto è vero che il suo discorso incontrò solo delle critiche.
4. Alcune critiche a Moore
Le argomentazioni fornite da Moore, oltre a stimolare la riflessione di
Wittgenstein, furono oggetto di critica e di revisione da parte di altri pensatori. Qui ci
soffermeremo in particolare sulle obiezioni mosse da Thompson Clarke e Barry
Stround, che fanno parte della corrente del contestualismo, e sulle considerazioni di
Malcolm il quale, come vedremo, sarà importante per la riflessione di Wittgenstein.
Prima di illustrare le posizioni di Clarke e Stround è opportuno dire qualcosa
sulla base teorica che le accomuna, ovvero sul contestualismo. Esso sostiene che
esistono diversi contesti, determinati da diversi standard di ammissibilità relativamente
a ciò che vale come giustificazione o prova di una certa proposizione.(cfr. Coliva, 2003,
p. 51). Ovvero, ciò che può essere conosciuto in un certo contesto, non può considerarsi
tale in un altro. Nel nostro caso i due contesti sono quello del linguaggio ordinario e
quello del linguaggio filosofico.
Secondo la distinzione di Clarke il primo è quello che si dà in ciascuna delle
nostre pratiche linguistiche quotidiane, e muove da una «prospettiva interna», il
secondo invece è quello che si dà nel fare filosofia, e muove da una «prospettiva
esterna». Il merito di quest'ultimo sarebbe quello di riuscire ad estrapolare dalla prassi
del linguaggio ordinario, la struttura logica dello stesso, considerandolo nella sua
purezza. Con ciò si intende dire che, il discorso filosofico opera una sorta di
chiarificazione del linguaggio ordinario, derivandone solo la pura forma logica.
Inoltre il primo tipo di linguaggio può fornire una conoscenza di carattere
relativamente oggettivo, mentre il secondo produce conoscenze assolutamente
oggettive. Tuttavia, affinché si possa parlare di discorso filosofico, per Clarke è
necessario che si alcune condizioni. Ad esempio, il concetto in questione e anche
l'intero schema concettuale devono poter essere separati dalla nostra prassi, cioè da
qualunque caratteristica inerisca al «discorso ordinario»; ci si deve poter rappresentare
in un certo ruolo: come un osservatore puro [corsivo mio], distaccato dai concetti e
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dalle entità e in grado, il più delle volte attraverso i sensi di accertare che le entità
soddisfino le condizioni dettate dai concetti (cfr. Clarke, 1972).
Nel caso di Moore, secondo Clarke, noi possiamo accertare che esiste un modo
esterno semplicemente guardando la nostra mano. E questo fa parte del linguaggio
ordinario, muove cioè, da una «prospettiva interna». Ciò di cui, invece, non possiamo
sincerarci è se i nostri sensi ci stiano ingannando o meno. Interrogarsi su tale possibilità
è ciò che fa lo scettico quando si pone sul piano del discorso filosofico, ovvero da un
punto di vista «esterno».
Clarke conclude dicendo che, se Moore si muovesse sul piano del discorso
ordinario allora si verificherebbe una vera e propria «lobotomia filosofica»: vale a dire
che la mossa del filosofo del senso comune viene condotta dall'interno per controbattere
ad una critica formulata dall'esterno. Se invece, la sua pretesa fosse di carattere
filosofico, allora peccherebbe di dogmatismo, in quanto si sottrarrebbe al problema
dello scettico.
Stroud dal canto suo sembra non avere dubbi. L'argomentazione di Moore è da
collocarsi nel contesto del discorso ordinario. E per quanto su tale piano costituisca
un'ottima prova è insufficiente nel risolvere i dubbi dello scettico (cfr. Stroud, 1984, p.
127). Dunque anche Stroud sostiene che vi sia una sorta di «lobotomia filosofica»,
ovvero un dislivello, un mancato collegamento, tra il piano dello scettico e quello dello
stesso Moore.
Alla visione contestualista si potrebbe ora obbiettare che Moore non ravvisa
nessuna separazione tra «discorso ordinario» e «discorso filosofico». Vi è infatti un solo
schema concettuale di riferimento al quale fanno capo tutti gli esseri umani anche se
alcuni di essi sono filosofi di professione. Tale sistema è quello delle credenze del senso
comune.
Passiamo ora alle critiche formulate da Malcolm, il quale ebbe ripetute
discussioni con Wittgenstein riguardo all'uso che Moore faceva del verbo «sapere».
Possiamo rintracciare in tale problema, ovvero l'uso del verbo «sapere» il problema
comune che legherà le riflessioni dei tre filosofi. A sostegno di questa tesi leggiamo
nella biografia di Wittgenstein scritta da Malcolm:
36
Nel 1939, G.E. Moore tenne una conferenza al Circolo di Scienza Morale, una
sera in cui Wittgenstein non era presente; Moore tentava di dimostrare che un
individuo può sapere di provare questa o quest'altra sensazione, ad esempio una
sensazione di dolore. Tesi contraria a quella propugnata originariamente da
Wittgenstein, che i concetti di conoscenza e di certezza non si applicano in
alcun modo alle proprie sensazioni (cfr. PU, § 246). Wittgenstein, venuto a
conoscenza della conferenza di Moore, reagì come un cavallo da battaglia. Il
martedì seguente si recò da Moore; io ero presente con […] altre persone;
Moore rilesse il saggio e Wittgenstein lo controbatté immediatamente. Era
eccitato come non lo avevo mai visto nel corso di una discussione; ardeva di
indignazione e parlava rapidamente e con vigore (Malcolm, 1964, p. 47).
Malcolm prende particolarmente di mira la strategia argomentativa utilizzata da
Moore in Proof of external world. Malcolm sostiene che in tale articolo vi sia una
compiuta confutazione delle tesi scettiche. Infatti, Moore non farebbe che mostrare allo
scettico come i suoi dubbi vadano contro il linguaggio ordinario, vale a dire contro la
possibilità stessa di parlare, di formulare proposizioni ed esprimere giudizi di valore.
Malcolm in qualche modo esplicita, dunque, ciò che vi era di nascosto
nell'atteggiamento ironico di Moore nei confronti dello scettico e del suo voler dubitare
anche dove sembrava superfluo farlo.
Per quanto invece riguarda la critica di Malcolm sull'uso che Moore fa del verbo
«sapere», è opportuno riportare quanto il primo stabilisce circa la grammatica del verbo
sapere e quindi le condizioni circa le quali si può asserire «So che p»:
(a) vi deve essere un dubbio da sciogliere;
(b) bisogna saper fornire ragioni per supportare la propria soluzione;
(c) deve essere possibile un'indagine per verificare se sia o meno il caso che p.
Moore non rispetta nessuna di queste tre condizioni. Quando egli dice «So che qui c'è
una mano» non vi è alcun dubbio da sciogliere. Allo scettico che dubita in merito a
quanto asserito Moore risponde di sapere ciò con certezza senza portarne dare ragione
alcuna, se non quella di saperlo effettivamente. E infine le indagini condotte su base
sensoriale non sono sufficienti a fugare i dubbi dello scettico.
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In sintesi, Malcolm ravvisa due errori, uno per parte. Lo scettico dubita anche
quando il suo dubbio è insensato. Ma da ciò non si può concludere, e questo è l'errore di
Moore, che dato che non vi può essere dubbio c'è assoluta certezza o conoscenza. Da
«non vi è dubbio che questa sia una mano» non bisogna dedurre che «è certo che questa
sia una mano».
Per concludere, Moore sostiene che il dubbio filosofico è insensato in quanto va
contro la visione del mondo del senso comune; mentre secondo Malcolm, e come
vedremo nel prossimo capitolo, secondo Wittgenstein, il dubbio filosofico è insensato
perché viola la grammatica del dubitare e le sue condizioni di legittimità.
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Capitolo 3
IL GIOCO LINGUISTICO DEL SAPERE
3.1 La critica a Moore
Le discussioni per me più preziose furono quelle che si svolsero tra
Wittgenstein e me, ed ebbero per argomento la Proof of an External World di
Moore e la Defense of Common Sense. In particolare, parlammo della tesi di
Moore, secondo la quale è uso corretto del linguaggio il dire, tenendo le mani
alzate dinanzi a sé: «So per certo che questo è un albero!» Avevo affermato in
che questo era un uso insensato di «sapere», e Moore mi aveva risposto
vivamente con una lettera. Wittgenstein ed io parlammo di tali questioni nel
corso di numerose conversazioni, in cui egli formulò osservazioni
importantissime sul concetto di conoscenza (Malcolm, 1964, p. 118).
Ritroviamo in On Certainty molte delle riflessioni che Wittgenstein formulò durante
questi dialoghi. All'interno di tale opera rintracciamo inoltre la critica che egli condusse
contro gli articoli di Moore.
Chi scrive non ha fatto rientrare tali argomentazioni nel paragrafo 3.4 per due
motivazioni. In primo luogo, perché non sembrava affatto opportuno trattare un
contributo come quello di Wittgenstein alla stregua di altri; ma soprattutto perché tale
contributo non consta solo di una critica (pars destruens), ma anche di una pars
costruens che, per inciso, costituirà anche la dissoluzione della pretesa scettica della
quale discuteremo più avanti. Partiamo dal testo.
Ora, si può enumerare quello che si sa (come fa Moore)? Così sui due piedi,
credo di no. - Altrimenti le parole «Io so» sarebbero usate malamente. E
attraverso questo cattivo uso della parola sembra che si mostri uno stato
mentale strano ed estremamente importante (OC, §6).
Da tale affermazione ricaviamo che il problema ravvisato da Wittgenstein, nelle
elaborazioni di Moore, sta nell'uso che quest'ultimo fa dell'espressione «Io so».
Rileggendo i due contributi di Moore, si evince come egli voglia convincerci
del suo sapere più attraverso il tono che utilizza quando dice di conoscere con certezza
39
qualcosa, che attraverso l'ausilio di un rigoroso ragionamento. In altre parole, Moore
tenta di convincerci ostentando quella sicurezza peculiare dello stato d'animo dell'essere
convinti, o meglio dell'essere certi.
Nel gioco linguistico del sapere non vi è, però, spazio per i processi interni e
quindi neanche per gli stati d'animo (vedi 1.3). Non basta asserire «So che p» con un
tono convinto, o addurre una fede incrollabile nella propria conoscenza «di p» per
garantire che «p» sia effettivamente vera. Ovvero, dire di conoscere qualcosa basandosi
sullo stato psicologico che si ha mentre lo si dice non è criterio di conoscenza. Per
Wittgenstein sia l'asserire «p», sia asserire «di sapere che p» necessitano di criteri
pubblici di controllo e non possono essere legittimati unicamente dallo stato psicologico
del soggetto. C'è dunque una profonda differenza tra il «sapere» e «l'esser certi». In
particolare, quello che Wittgenstein critica a Moore è di utilizzare la prima espressione
in luogo della seconda:
Propriamente, il punto di vista di Moore mette capo a questo: Il concetto di
'sapere' è analogo ai concetti di 'credere', 'dubitare', 'essere convinti', in questo:
che l'enunciato «Io so...» non può essere un errore. E se è così, allora, da una
dichiarazione si può concludere alla verità di una asserzione. E qui si trascura la
forma «Io credevo di sapere». - Ma se non si deve ammettere questa forma,
allora anche nell'asserzione dovrà essere logicamente impossibile un errore. E
di questo non può non accorgersi chi conosce il gioco linguistico; qui
l'assicurazione di uno degno di fede, che lui lo sa,non può aiutarlo (OC, § 21).
Quello che Wittgestein vuole dire è questo.
Se, il sapere corrisponde ad uno stato mentale di infallibilità del soggetto stesso,
non ci si può in alcuna maniera sbagliare su quanto si asserisce di sapere. Ma, e così
fosse allora l'espressione “credevo di sapere” non avrebbe senso.
Ora, rileggendo ancora una volta i due articoli di Moore, notiamo come la
concezione di sapere che ivi contenuta è strettamente legata a quella di «visione». Il
filosofo inglese, infatti, non fa che ripetere che la verità dei sui truismi e di proposizioni
empiriche come «questa è una mano» sia autoevidente. In questo modo egli fornisce
solo una delle definizioni di sapere che non rende conto del nostro uso altamente
specializzato di tale concetto (cfr. OC, § 11).
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Ad esempio, a volte, si può intendere «sapere» come «non poter sbagliare»,
quindi essere convinti, essere certi. In altri casi lo si potrebbe sostituire con il semplice
«avere delle buone ragioni per sostenere qualcosa».
Secondo il privatista semantico - lo stesso avversario col quale l'austriaco si è
confrontato nel primo capitolo e con il quale continuerà a confrontarsi ogni qualvolta si
parlerà dei vissuti, degli stati d'animo e del ruolo che questi, insieme agli stati mentali,
hanno nel processo della conoscenza -, per distinguere tra «sapere» ed «credere» è
necessaria un'analisi psicologica di quello che accade nel soggetto quando pronuncia
tali asserzione. Per Wittgenstein, però, ricondurre il significato di termini come
«sapere» e «credere» ai vissuti che accompagnano il loro essere pronunciati è
un'operazione impraticabile in quanto ogni tentativo di interpretare il sapere e il credere
come uno stato d'animo risulta insensato:
Si può dire «Lui lo crede, però non è così», ma non: «Lui lo sa, però non è
così». Questo proviene forse dalla differenza tra lo stato d'animo del credere e
quello del sapere? No. - «Stato d'animo» si può chiamare, poniamo, ciò che si
esprime nel tono del discorso, nei gesti, ecc. Sarebbe dunque possibile parlare
d'uno stato d'animo della convinzione; e questo stato d'animo può essere lo
stesso, sia che si sappia, sia che si creda falsamente. Il pensare che alle parole
«credere» e «sapere» debbano corrispondere stati differenti sarebbe come se si
credesse che alla parola «Io» e al nome «Ludwig» debbano corrispondere
uomini differenti, per il fatto che sono differenti concetti (OC, § 42).
Wittgenstein ci fa riflettere sul fatto che dire «x sa che p» non significa fare
un'asserzione su ciò che quella persona vive, ma significa, piuttosto, sostenere che
quella persona saprebbe rispondere correttamente a certe domande (Spinicci, 2000, p.
219). Affermare di conoscere qualcosa significa essere capaci di rispondere a delle
domande su una certa questione adducendo delle ragioni a sostegno delle proprie
risposte. Rintracciamo una concezione simile del concetto di sapere già nelle PU:
La grammatica della parola «sapere» è, come si vede facilmente, strettamente
imparentata alla grammatica delle parole «potere» ed «essere in grado». Ma è
anche strettamente imparentata a quella della parola «comprendere». (PU, § 150)
41
Per spiegare cosa Wittgenstein intende, consideriamo la successione 1, 2, 6, 12, 20... -
può accadere che ad un certo punto sappiamo continuare tale successione e, in qualche
modo arriviamo a definire la regola che le sottostà (in questo caso è n(n+1), con n≠0).
Come suggerisce Spinicci, in quel momento potremmo sentirci soddisfatti e
orgogliosi, ma questo vissuto, questo stato mentale che stiamo vivendo non si lega a
priori alla soluzione. Infatti, tale stato deriva dal nostro aver preso coscienza di essere in
grado di risolvere la serie numerica. Il vissuto psichico o emotivo non è dunque
rilevante alla fine della soluzione, ma è semplicemente un segnale che ci fa capire di
esser capaci di saper giustificare la risposta nel momento in cui ci verrà chiesto di
risolvere tale problema. In altri termini, lo stato d'animo accompagna le mia capacità di
rispondere e addurre ragioni:
Se «ora comprendo il sistema» non dice la stessa cosa che: «Mi viene in mente
una formula . . .» (o «Pronuncio la formula», «La scrivo» ecc.) - ne consegue
forse che impiego la proposizione «ora comprendo . . .», o «ora posso
continuare» come descrizione di un processo che ha luogo dietro, o accanto,
l'atto del pronunciare una formula?
Se 'dietro l'atto del pronunciare una formula' dev'esserci qualcosa, questo
qualcosa saranno certe circostanze, che mi autorizzano a dire che posso
continuare – quando mi viene in mente la formula. Ma non pensare affatto al
comprendere come a un 'processo psichico'! - Infatti è proprio questo il modo di
dire che ti confonde le idee. Chiediti invece: in quale caso, in quali circostanze
diciamo: «Ora so andare avanti»? Voglio dire, quando mi è venuta in mente la
formula. -
Nel caso in cui esistono processi (anche processi psichici) caratteristici del
comprendere, il comprendere non è un processo psichico. (Processi psichici
sono: l'aumentare o diminuire di una sensazione di dolore, l'ascoltare una
melodia, una proposizione) (PU, § 154).
Quando improvvisamente, ha saputo andare avanti da solo, ha compreso il
sistema, è probabile che abbia avuto una determinata esperienza vissuta. […]
— Ma ciò che per noi lo autorizza, in tal caso, a dire che comprende, che sa
42
andare avanti, sono le circostanze nelle quali ha avuto questa esperienza
vissuta. (PU, § 155)
Qui Wittgenstein sta cercando di mettere in luce un'importante differenza concettuale
tra credenza e conoscenza (cfr. Wright, 1983, p. 205). Come abbiamo visto, e vedremo,
la sua strategia si baserà sulla chiarificazione del linguaggio, e sarà condotta attraverso
la descrizione della grammatica del gioco linguistico del sapere che porterà alla luce
ulteriori errori commessi da Moore. Egli ci mostrerà, inoltre, il modo per “risolvere” il
la pretesa della posizione scettica.
Pretesa alla quale Moore, secondo Wittgenstein, si era opposto in maniera
interessante ma adottando argomentazioni di nullo valore filosofico (cfr. Wright, 1983,
p. 204). È come se Moore avesse gettato la luce sbagliata sul problema.
3.2 La strategia argomentativa
Presentata la pars destruens della critica di Wittgenstein, in questo paragrafo
descriveremo la “soluzione” che il filosofo austriaco ha elaborato per risolvere i dubbi
nutriti dallo scettico riguardo l'esistenza del mondo e la possibilità di saper dimostrare
tale esistenza.
Wittgenstein intende condurre la sua argomentazione avvalendosi del «gioco
linguistico» e della sua funzione terapeutica nei confronti del linguaggio. Egli
descriverà le caratteristiche del gioco linguistico del sapere e del dubitare per spiegare
quali sono i criteri che delimitano l'applicazione di questi concetti. Ovvero quali sono le
regole in base alle quali il gioco viene giocato nella maniera corretta. Regole che non si
imparano necessariamente in maniera direttiva, ma che possono venire apprese in modo
implicito, anche durante lo svolgersi del gioco. Gioco che per essere giocato richiede a
tutti partecipanti di uniformarsi a certe regole, la descrizione e l'esplicitazione delle
quali non dirà nulla di nuovo ma aiuterà il filosofo a parlare in maniera corretta
evitando di proferire proposizioni insensate. Partiamo da un esempio:
L'impiego corretto delle parole «Io so». Un tizio con la vista corta mi chiede:
«Credi che quella cosa che vediamo là sia un albero?» - Io gli rispondo: «Io lo
so: lo vedo bene e lo conosco bene». A: «È in casa N.N.?» - Io: «Credo di sí» -
A: «Era in casa ieri?» - Io: «Ieri era in casa; questo lo so perché ho parlato con
43
lui». - A: «Sai che questa parte della casa è stata aggiustata da poco o lo credi
soltanto?» - Io: «Lo so, mi sono informato da...» (OC, § 483).
Qui dunque si dice «Io so», e si danno, o almeno si possono dare le ragioni del
sapere. (OC, § 484).
Ora, il fatto di aver parlato con N.N. non è condizione sufficiente e necessaria per dire
di sapere in maniera oggettiva che N.N. fosse in casa (poteva, infatti, trattarsi di un
gemello, o di un sosia). Giustificare in questa maniera la nostra asserzione riguardo
N.N. ci garantisce di aver usato «Io so» in maniera corretta. Da questa ottemperanza ai
criteri d'uso dell'espressione «Io so» segue che, se il mio interlocutore conosce il gioco
linguistico non potrà fare a meno di convenire con la mia affermazione. Vale a dire, i
criteri da me forniti per affermare «so che p» costituiscono allo stesso le prove a
favore del fatto che p sia effettivamente vera (cfr. Coliva, 2003, p. 67).
Al contrario, se avessi detto di sapere che N.N. ieri era in casa senza addurre
alcuna giustificazione, avrei usato il verbo sapere nella maniera sbagliata, ponendomi al
di fuori del gioco linguistico.
Per chiarificare ulteriormente cosa faccia parte del gioco linguistico del sapere,
Wittgenstein pensa ad un altro esempio proponendo di verificare se:
«Io so che questo è un...» dica qualcosa di diverso da «Questo è un...» - Nella
prima proposizione si menziona una persona, nella seconda no (OC, § 587).
Ma con le parole «Io so che...», non dico forse di trovarmi in uno stato ben
determinato, cosa che, invece, la pura e semplice asserzione «Questo è un ...»
non dice? E tuttavia a un'asserzione così spesso si risponde chiedendo: «Come
fai a saperlo?» - «Ma certo, non foss'altro perché il fatto, che io asserisca
questo, ci fa conoscere che credo di saperlo». - Questo si potrebbe esprimere
cosí: In un giardino zoologico potrebbe esserci un cartellino: «Questa è una
zebra», ma certo non uno così: «So che questa è una zebra». «Io so» ha senso
soltanto quando una persona lo dice. Allora, però, è indifferente se l'asserzione
sia «Io so ...», oppure «Questo è ...» (OC, § 588).
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Apparentemente non sorge nessun problema se consideriamo come equivalenti le due
espressioni. Tuttavia vi sono delle differenze che vengono evidenziate più avanti:
Anche se a «So che è cosí» si può sostituire «É così», tuttavia, alla negazione
dell'una non si può sostituire la negazione dell'altra. Con «Io non so ...», nel
gioco linguistico entra un elemento nuovo (OC, § 593).
Infatti se dico «Io non so che p» la negazione incide sul verbo e mostra la mia
incapacità di asserire che p. Mentre «non p» asserisce qualcosa sul fatto stesso (cfr.
Coliva, 2003, p. 69). In definitiva, nel caso affermativo «sapere» e «io so» sono quasi
equivalenti, mentre nel caso negativo non lo sono.
Wittgenstein continua poi nella sua opera di chiarificazione dicendo che quando
si forniscono ragioni si possono usare indifferentemente «so che p» e «sono sicuro che
p»:
La differenza tra il concetto «sapere» e il concetto «essere sicuro», non è per
nulla di grande importanza, tranne là dove «Io so» dovrebbe voler dire «Non
posso sbagliarmi». Per esempio, in un'aula giudiziaria in ogni mia
testimonianza, invece di «Io so» si potrebbe dire «Sono sicuro». Si potrebbe
persino immaginare che l'«Io so» sia vietato (OC, § 8).
Tale certezza si basa sul corretto svolgimento del gioco linguistico. Quando il soggetto
sostituisce «essere sicuro» a «sapere» vuole solo indicare che quello che ha asserito
riguardo p è tutto quello che poteva dire di conoscere in quelle date circostanze.
Dunque, in questo caso «sapere» ed «essere sicuri» si “incontrano”. Dove questi due
concetti non si incontrano è nelle dinamiche dell'argomentazione di Moore. L'uso che
l'inglese fa di «sapere» nei truismi è sbagliato.
Infatti, dire «so che questa è la mia mano» perché la si sta guardando vale solo se si sa
già cosa si intende per mano. E giustificare il sapere sulla base dell'aver visto non fa che
dar vita ad un circolo vizioso che non conduce a nessuna conoscenza ulteriore:
Ma è anche corretto usare le parole «Io so» nei contesti che Moore cita, almeno
in circostanze ben determinate? (E bensì vero che io non so cosa voglia «So
45
che sono un essere umano». Ma anche a questa espressione si potrebbe dare un
senso). Per ciascuna di queste proposizioni potrei immaginare circostanza che
farebbero una mossa nel nostro gioco linguistico; circostanze grazie alle quali il
gioco linguistico perderebbe tutto ciò che è filosoficamente sorprendente
(OC, § 622).
Ciò che è filosoficamente sorprendente nei truismi di Moore è l'impossibilità di
immaginare il contrario di quanto affermato in tali proposizoni. Da ciò egli deriva
l'indubitabilità delle sue proposizioni. Quello che Wittgenstein, a questo punto vuole
rendere esplicito, è che Moore non può giustificare tale sapere semplicemente
ribadendo allo scettico e all'idealista che lui sa che ciò che sta affermando è vero:
L'errore di Moore consiste nel contrapporre, all'asserzione che una certa cosa
non si può sapere, «Io la so» (OC, § 521).
Per far si che la sua asserzione filosofica abbia valore, Moore deve far ben altro
che assicurarci della sua personale convinzione di conoscere in maniera certa la verità
delle proposizioni enunciate in A Defense of Common Sense. In particolare, dal
momento che Moore non giustifica le sue asserzioni, non è possibile trattare come
equivalenti «sapere» ed «essere certi». Inoltre, continua, Wittgenstein, se Moore usasse
«Io so» al posto di «Io sono certo» le sue proposizioni non sarebbero più
“filosoficamente sorprendenti”. Ma sarebbero soltanto delle normali proposizioni
empiriche il cui valore di verità è tutt'altro che evidente.
Quello che Wittgenstein vuole dire è che ha senso dubitare sulla verità di una
proposizione se e solo se può darsi il caso che questa possa essere vera o falsa. Ma non
è il caso delle proposizioni di Moore. E proprio riguardo a tali proposizioni, il filosofo
austriaco dichiara che non esiste alcun tipo di indagine che possa condurci ad affermare
con la stessa certezza di Moore che tali proposizioni sono assolutamente vere e
conosciute come tali.
Da qui Wittgenstein deriva che i truismi di Moore, non essendo la conclusione di
nessun tipo di dimostrazione, non possono dirci nulla di più di quanto già non
sappiamo, e che quindi dire «Io so che questa è la mia mano» è insensato:
46
Così mi sembra di aver già saputo qualcosa per tutto questo tempo; e che
tuttavia non abbia senso il dirlo, l'enunciare questa verità (OC, § 466).
Le proposizioni di Moore esplicitano soltanto delle cose ovvie, delle certezze, le quali
caratterizzano la visione del mondo propria del senso comune. E dato che il senso
comune è lo sfondo sul quale impariamo a distinguere tra vero e falso, l'insieme di tali
certezze precede e preesiste all'individuo (cfr. Coliva, p. 75).
Detto ciò, per Wittgenstein dire di conoscere qualcosa che è ovvio è una mossa
che si colloca all'esterno del nostro gioco linguistico del sapere. Infatti, dire di sapere
qualcosa è lecito solo quando si adducono delle ragioni valide, in particolar modo delle
argomentazioni che abbiano un rilevante valore filosofico. Su ciò che ovvio, come si è
visto, non si può indagare in alcun modo; o meglio qualsiasi indagare sarebbe inutile in
quanto non può darci più di quanto già cogliamo nell'immediatezza dell'intuizione.
Per Wittgenstein, dunque, dare un'informazione rilevante è un requisito della
grammatica del gioco linguistico del «sapere». Ciò significa che se questo gioco
ammettesse mosse come quella di Moore, quando dice di conoscere la verità di certe
proposizioni ovvie, verrebbe meno la distinzione tra un uso sensato e insensato di
sapere e il gioco collasserebbe su se stesso.
In definitiva, se per il filosofo inglese, dire «Io so che questa è la mia mano»
significa pronunciare un'asserzione sulla quale è impossibile dubitare e che è certamente
vera, per il filosofo austriaco, invece, porre i truismi di Moore sotto l'egida del sapere
significa esporli all'esame del dubbio, dunque ammettere la possibilità che essi siano
falsi. Il darsi di questa possibilità ci obbliga a giustificare le nostre asserzioni di verità
riguardo una qualsivoglia proposizione. In altre parole, se dobbiamo rendere conto della
verità di un'asserzione è perché ha senso pensare che questa possa essere falsa. Inoltre,
solo se ammettiamo tale possibilità, siamo autorizzati a dubitare riguardo il valore di
verità di p e, infatti, cominciamo a cercare delle ragioni che ci rendano capaci di dire
che p è vera.
In una situazione simile la mossa immediatamente al dubbio sarebbe quella di
ricercare le ragioni volte a giustificare le nostre pretese di conoscenza.
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Da qui possiamo concludere che il campo d'applicazione del dubbio coincide
con quello d'applicazione della conoscenza:
Si può dire «Dove non è dubbio non vi è nemmeno sapere»? (OC, § 121).
Per dubitare, così come per dire di sapere, è fondamentale avere delle ragioni da esibire
al momento in cui ci vien chiesta una giustificazione riguardo certe nostre domande
(dubbio) e certe altre nostre risposte (dire di sapere).
Alla luce di quanto detto nelle righe precedenti, possiamo fare un discorso
analogo per l'errore. Ovvero, dal momento in cui il gioco linguistico del sapere e del
dubitare appartengono al dominio della possibilità, risulta intuitivo far coincidere anche
lo spazio logico dell'errore con quello dei primi due. Dove non si dà necessità di verità,
si darà la possibilità di sbagliarsi.
Ma su quale terreno comune riposa la possibilità logica del darsi di queste tre
azioni del pensiero? Possiamo davvero immaginare un mondo in cui dubbio ed errore la
facciano sempre da padroni? Non si necessita di uno spazio comune di convinzioni vere
e certe?
Potremmo immaginarci un uomo che sbagliasse sempre là dove riteniamo che un
errore sia escluso, e non ne incontriamo mai neppure uno? Per esempio, quel tizio
mi dice, con la medesima sicurezza (e con tutti i segni della sicurezza) con cui lo
dico io, che lui abita in questo luogo così e così, che ha questa determinata età. Che
viene da questa città così e così, ecc.; però si sbaglia. Ma in che rapporto sta con
quest'errore? Che cosa devo supporre? (OC, §67)
Wittgenstein vuole capire cosa accadrebbe se iscrivessimo l'errore compiuto
dall'individuo dell'ultima citazione all'interno del gioco linguistico dell'errore. È
possibile? Cosa accadrebbe? Se un individuo ci dicesse, sbagliando, dove abita, come
si chiama, quanti anni ha, ecc..; ovvero se tale soggetto sbagliasse dove noi riteniamo
impossibile sbagliare, farebbe parte o no del nostro gioco linguistico?
Se facessimo rientrare l'ammettere di poter sbagliare su cose che noi riteniamo
indubitabili all'interno del gioco linguistico origineremmo un controsenso. Se invece
non lo facessimo rientrare, probabilmente non potremmo nemmeno comprendere quello
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che il soggetto dell'esempio ci dice, in quanto ci muoveremmo secondo paradigmi di
riferimento diversi.
Approfondiamo adesso la prima ipotesi. Se ammettessimo l'errore del nostro
interlocutore vedremmo collassare il nostro gioco linguistico su se stesso. Infatti se sarà
lecito dubitare, e quindi sbagliare, su cose ovvie, di cosa mai si potrà aver certezza? Se
dunque lo spazio logico dell'errore sconfinasse dal suo campo d'applicazione porterebbe
con sé lo stesso terreno sul quale si regge il nostro gioco linguistico:
L'esercizio d'uso dell'uso della regola mostra anche che cosa sia un errore nel
suo impiego (OC, § 29).
In altre parole, un errore può definirsi tale solo se può comunque collocarsi nello spazio
delle conoscenze vere di chi sbaglia (cfr. Spinicci, 2000, p. 239)
Ora, dopo aver descritto i giochi di sapere, dubitare e sbagliare, è opportuno
ritornare a parlare della sensatezza del dubbio.
Nell'ultimo paragrafo si vedrà quando il dubbio è utilizzato in maniera legittima
e quando no; dunque verificheremo cosa comporta dubitare in maniera iperbolica, ossia
illegittima. Sarò presentata infine la dissoluzione della pretesa scettica elaborata da
Wittgenstein e si enuncerà in maniera definitiva cosa accomuna i giochi linguistici di
sapere, dubitare, sbagliare ed essere certi.
3.3 La Dissoluzione del Problema
Immagina un uomo che voglia andare a prendere un amico alla stazione e che
non solo consulti accuratamente l'orario e a una certa ora vada alla stazione, ma
dica: «Io non credo che il treno arriverà davvero, ma nonostante ciò vado
egualmente alla stazione». Fa tutto quello che fanno gli uomini ordinari, ma lo
accompagna col dubbio e con l'irritazione nei confronti di se stesso, ecc (OC, §
399).
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La domanda che sorge spontanea è per quale motivo l'uomo dell'esempio si rechi in
stazione nonostante dubiti dell'arrivo del treno. Probabilmente perché, come dice lui
stesso, non è certo che il treno non arrivi, lo crede soltanto. Egli avverte la solita
sensazione che ci investe quando non siamo sicuri di qualcosa. Se provassimo a
chiedergli di motivare questo suo stato d'animo sicuramente ci risponderebbe non
fornendoci alcuna ragione ma continuerebbe semplicemente a mostrarsi dubbioso.
Come abbiamo visto, imitare il comportamento di chi dubita non basta per
partecipare al gioco linguistico del dubbio. Così come non è sufficiente affermare di
essere nello «stato mentale» del dubbio o affermare di sentirsi «dubbiosi». Per dubitare
correttamente e sensatamente è necessario addurre delle ragioni per giustificare il
proprio dubbio e, in seconda battuta, è necessario agire in conformità allo stesso.
Condizioni che l'individuo dell'esempio non rispetta, ponendosi al di fuori dal gioco
linguistico del dubitare. Così scrive Wittgenstein a tal riguardo:
Il dubbio ha certe manifestazioni caratteristiche, ma queste sono le sue
caratteristiche soltanto in certe circostanze. Se un tizio dicesse che dubita
dell'esistenza delle sue mani, e continuasse sempre a guardarle da tutte le parti,
e cercasse di convincersi che non c'è nessun trucco fatto con gli specchi, o altre
cose del genere, noi non saremmo sicuri di poter dire che tutto questo è
dubitare. Potremmo descrivere il suo modo di agire come uno dei
comportamenti simili al dubitare, ma il suo gioco non sarebbe il nostro (OC, §
255).
Abbiamo detto che per dubitare correttamente e sensatamente serve, rispettivamente,
fornire ragioni e agire di conseguenza al nostro dubbio. Della prima ne abbiamo già
parlato, della seconda ne diremo adesso.
Torniamo all'esempio dell'uomo che dubita di avere due mani. Cosa accadrebbe
se gli ordinassimo di portarci un bicchiere d'acqua? Direbbe forse che non può in
quanto dubita dell'esistenza delle sue mani? Se fosse coerente a tal punto sarebbe
fortemente limitato nella pratica quotidiana. Adesso rendiamo tale dubbio iperbolico. Se
dubitassimo di tutto quello che, ad esempio, Moore afferma nelle sue proposizioni del
senso comune ci troveremmo di fronte ad un'impossibilità strutturale di far qualsiasi
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cosa. Il prezzo che dovremmo pagare per un tale dubbio sarebbe il silenzio. Vediamo
ancora Wittgenstein:
Se un tizio dubitasse se la Terra esisteva già cent'anni fa, io non lo capirei per
questa ragione: che non saprei che cosa non potrei più ammettere come prova
(OC, § 231).
Se mettessimo in dubbio anche questo, ovvero che Terra esisteva già cento anni fa, o in
maniera più radicale che la Terra esista, di cosa potremmo più parlare? Poniamoci, ad
esempio, dalla prospettiva della ricerca storica. Su cosa baseremmo le nostre ricerche se
dubitassimo che la Terra sia mai esistita e con essa reperti, documenti ecc.? Quello che
si vuol dire è che vi sono strumenti funzionali al dubbio stesso che quest'ultimo non può
mettere in discussione, pena la sua insensatezza.
Per dirla con la Coliva:
I nostri dubbi circa l'esistenza sono soggetti a restrizioni metodologiche che
garantiscono la possibilità stessa del porsi del dubbio, viceversa non sapremmo
più cosa potrebbe parlare a favore o contro una certa ipotesi (Coliva, 2003, p.
109).
Qui l'espressione «restrizioni metodologiche» esprime la necessità di ridimensionare il
dubbio iperbolico caratteristico della filosofia scettica. Come prima si potrebbe chiedere
ad uno scettico che motivo ha di dubitare riguardo l'esistenza della Terra. Questi non ce
ne mostrerebbe alcuno. Non ci fornirebbe nessuna ragione che giustificherebbe la sua
pretesa, che dunque non riconosceremmo come legittima:
Mi sembra ridicolo il voler mettere in dubbio l'esistenza di Napoleone; ma se
un tizio mettesse in dubbio che 150 anni fa la Terra esisteva, forse sarei più
disposto a prestargli ascolto, perché, così facendo, quel tale mette in dubbio
tutto quanto il nostro sistema di prove. Non mi viene da pensare che questo
sistema sia più sicuro di quanto non lo è una sicurezza che si trova in esso (OC,
§ 185).
51
Per Wittgenstein è solo sulla base della certezza che si possono avanzare dubbi.
Ad esempio, deve essere certo e quindi universalmente accettato come tale, il
significato delle parole. Se così non fosse, come detto sopra, non si potrebbe parlare di
nulla, o meglio non si potrebbe esprimere alcun tipo di giudizio sensato. Dunque oltre a
quanto è stato già detto sulla grammatica del gioco del dubitare, Wittgenstein fa
rientrare tra i criteri dello stesso gioco il dover accettare per certe le proposizioni
enunciate da Moore.
Anteponendo la certezza al dubbio, Wittgenstein enuncia l' ultima premessa (le
prime sono quelle fornite dall'analisi della grammaticale del gioco linguistico del
dubitare) dell'argomentazione che andrà a dissolvere la pretesa scettica.
Con questa mossa, ovvero quella di anteporre la certezza al dubbio, il filosofo
austriaco attua un rovesciamento importante nei confronti di quel filosofo francese che
nel 1641 scrisse le Meditationes de prima philosophia, ovvero Renè Descartes.
Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo
accolto come vere una quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho
fondato sopra principi così mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio ed
incerto; di guisa che m'era d'uopo prendere seriamente una volta in vita mia a
disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per
cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa
di fermo e di durevole nelle scienze.
[…] Ora, dunque, che il mio spirito è libero da ogni cura, e che mi son
procurato un riposo sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò
seriamente e con libertà a una distruzione generale di tutte le mie antiche
opinioni
(Descartes, Prima Meditazione,1986, p. 17).
Questo atteggiamento secondo Wittgenstein è totalmente sbagliato. Per capire perché è
necessario esasperarlo, ossia bisogna arrivare al punto in cui verrebbe meno la
possibilità stessa del linguaggio, del suo apprendimento, la possibilità come detto
prima, di poter dire o fare qualsiasi cosa. Detto ciò, egli dissolverà la pretesa scettica,
che sarà rappresentata dalle tesi di Descartes, attraverso due argomenti, ovvero quello
epistemico circa l'affidabilità dei sensi e quello linguistico contro l'ipotesi del sogno.
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Uno degli argomenti principali attraverso i quali Descartes dubita circa
l'esistenza delle cose esterne è l'effettiva affidabilità dei sensi. Secondo il francese, le
nostre conoscenze del mondo esterno derivano dai sensi. Tuttavia questi sensi ci hanno
più volte ingannato senza che noi ce ne accorgessimo. Da qui Descartes deduce che essi
potrebbero ingannarci sempre, data la nostra occasionale incoscienza a riguardo:
Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l'ho
appreso dai sensi, o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che
questi sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai
interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati (Descartes, Prima
Meditazione, 1986, p. 18).
Nelle dinamiche di questa argomentazione c'è una cosa che Descartes dimentica di
domandarsi. Egli non tiene conto che quando ci accorgiamo di aver sbagliato, e dunque
ci avvediamo del fatto che i nostri sensi ci hanno ingannato, sono proprio quegli stessi
sensi a mostrarci il nostro errore e a permetterci di correggerlo.
Nell'argomentazione di Descartes, Wittgenstein ravvisa un errore grammaticale.
Il filosofo francese, infatti, non ha alcuna ragione cogente sulla quale fondare la sua
affermazione riguardo l'assoluta erroneità dei sensi. D'altro canto, però, Wittgenstein
non sostiene nemmeno che i nostri sensi siano totalmente infallibili, egli ci invita a
rifuggire da argomentazioni e dubbi condotti in maniera razionalmente immotivata e
immotivabile (cfr. Coliva, 2003, p. 115).
In definitiva, siamo razionalmente legittimati a credere che i nostri sensi non ci
ingannano sempre perché l'ipotesi opposta non potrebbe avere nessuna ragione in suo
favore e dunque il dubbio rispetto a questa proposizione risulterebbe irrazionale e
insensato.
Rimane adesso da affrontare l'argomento più forte a favore dello scettico, ovvero
quello linguistico del sogno. Descartes formula tale argomento nella prima meditazione.
Il filosofo francese, in prima battuta si rende conto che ci sono situazioni in cui
sarebbe davvero insensato dubitare di avere un corpo, indossare un abito, star seduto
ecc. (Descartes, Prima Meditazione, 1986, p. 19), tuttavia da buon scettico compie una
mossa che gli permette di dubitare anche nel caso di una situazione simile a quella
appena descritta:
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Bene – certo – come se non fossi uomo che di notte sono solito dormire e,
quindi, nei sogni subire quelle medesime cose – a volte anche meno credibili –
che questi 'dementi' subiscono mentre son desti. Quante volte, infatti, la quiete
della notte non mi persuade che sono qui, vestito, seduto accanto al fuoco, tutte
cose abituali, quando invece dopo essermi spogliato giaccio sotto le coltri? Ora
con occhi certamente desti vedo questo foglio, questo capo che muovo non è
assopito e, prudente e consapevole, allungo questa mano e «la» sento; a chi
dorme tutte queste cose non apparirebbero così distintamente. Non ricordo
forse di essere astato altre volte ingannato da simili pensieri mentre stavo
dormendo? Quando rifletto con più attenzione su queste cose, vedo tanto
chiaramente che non si danno mai indizi certi per poter distinguere la veglia dal
sonno che rimango attonito e questo stesso stupore quasi mi rafforza
nell'opinione che sto dormendo (Descartes, Prima Meditazione, 1986, p. 20).
Alla luce di quanto scritto in questo estratto, sembra che ogni individuo abbia a
disposizione una sorta di «test qualitativo» riguardo le proprie sensazioni, per
distinguere tra quelle che si danno durante il sonno e quelle che si danno da svegli. In
particolare le prime sarebbero più vaghe rispetto alle seconde. Dunque non ci si può
ingannare riguardo il proprio stato. Ma le cose non stanno così per il francese.
Egli ipotizza, con una mossa ancora più radicale, che ci sia un genio maligno
che gli fa sognare di percepire in modo qualitativamente identico, anche nella
situazione paradigmatica su descritta (cfr. Descartes, Prima Meditazione, 1986, p. 21)
Chiunque legga tali citazioni potrà facilmente rendersi conto che le mosse di
Descartes rispecchiano a pieno la natura del dubbio scettico. Tale dubbio è per
definizione metodico, ovvero non necessita di ragioni a sostenerlo e, affinché sia
possibile formularlo è sufficente la semplice possibilità logico-metafisica. In altre
parole per gli scettici è sempre possibile dubitare.
Che questo non rientri tra le corde del gioco linguistico del dubitare elaborato da
Wittgenstein non ci sorprende. Quello che si rivela problematico è la minaccia che tale
formulazione scettica muove nei confronti della possibilità di conoscere l'esistenza del
mondo esterno. Se le cose stessero come asserito da Descartes, non si avrebbe modo di
distinguere le sensazioni che si provano durante il sonno e quelle che si provano
durante la veglia. In altre parole, non potremmo più utilizzare i sensi per asserire che
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quello che percepiamo è reale. Non si potrebbe nemmeno ricorrere ad un test di
verifica, in quanto il dubbio scettico, applicandosi in maniera iperbolica, invaliderebbe
ogni nuova proposta.
Adesso, la risposta pensata da Wittgenstein non risolverà attraverso un test
empirico il problema “sonno-veglia”, ma riformulerà tale questione in modo che la
stessa non trovi neppure ragione di nascere. Vediamo:
Non posso seriamente supporre che in questo momento sto sognando. Chi,
sognando, dica : «Io sogno», anche se parlasse in modo da essere udito, non
avrebbe più ragione di quanta non ne avrebbe se, in sogno dicesse «piove», mente
piove davvero. Anche se il suo sogno fosse realmente connesso con il rumore della
pioggia. (OC, § 676)
Questo significa che se io asserissi qualcosa mentre sto dormendo, una persona accanto
a me non si curerebbe della mia asserzione. Cosa invece che farebbe se l'avessi proferita
da sveglio. Detto in altri termini, rispetto a terzi, il fatto che io stia dormendo, fa si che
ogni mio eventuale proferimento non venga ritenuto come una mossa condotta
all'interno del gioco linguistico, in questo caso dell'asserire. Non solo, ma se si
ammettesse che chi sogna possa effettivamente asserire qualcosa ne deriverebbe che
egli stia sognando che anche le parole pronunciate abbiano un significato. Per capire,
leggiamo dal testo:
L'argomentazione «Forse sto sognando» è insensata per questo: perché, in
questo caso, anche quest'espressione rientra nel sogno; si, ci rientra anche
questo: che queste parole abbiano un significato (OC, § 383).
Dunque, se io durante il sonno, dicessi «piove», e si desse il caso che nella realtà
stesse realmente piovendo, il mio giudizio sarebbe soltanto accidentalmente vero (cfr.
Coliva, 2003, p. 122).
Infatti, come potrei asserire qualcosa se stessi solo sognando che la mia
asserzione abbia un significato? Quello che Wittgenstein vuole dire è che affinché si
possa dire che io conosco il significato delle parole, e possa dunque adottarle per
esprimere una proposizione, deve potersi dare il caso che io pronunci in maniera
55
intenzionale una certa proposizione. Ma se sto dormendo, per grammatica, non potrei
fare nulla di intenzionale, non potrei esprimere alcun giudizio sullo stato reale delle
cose. Siamo dunque di fronte ad un'impossibilità grammaticale. Infatti, nessuno
potrebbe descrivere un sogno mentre questo è in atto. Per questa ragione qui, egli
afferma che dire «sto sognando» è dire qualcosa di insensato. Nessun problema sussiste,
invece, nel dire «ho sognato». È solo facendo sapere a qualcuno quello che è accaduto
in sogno che impariamo il concetto di sognare, un concetto che possiamo comprendere
e quindi applicare solo dopo aver sognato.
In definitiva, l'argomento del sogno formulato da Descartes è insensato, non ha
ragion d'essere in quanto dire «sto sognando» o meglio «forse sto sognando» è una
mossa che non può darsi in alcun caso all'interno del gioco linguistico. L'errore dello
scettico è allora quello di sollevare un dubbio che non è sensatamente esprimibile. Al
contrario, il fatto che quando un individuo asserisce intenzionalmente qualcosa non può
non essere sveglio apparterrà alla grammatica del «asserire» o del «giudicare».
Tuttavia l'impossibilità di dubitare di star sognando, non implica secondo la
grammatica del gioco linguistico di «sapere», che si conosca l'esistenza del mondo
esterno. Wittgenstein anzi sostiene che tale conoscenza non si possa dare, dato che non
se ne possono fornire ragioni. Piuttosto essa è l'assunzione che sottostà ai nostri giochi
linguistici.
È lo strato di roccia contro il quale la nostra vanga si piega.
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CONCLUSIONE
A questo punto non resta che tirar le somme della problematica che è stata
descritta e analizzata in questo lavoro.
Wittgenstein ha gettato la “giusta luce” sul problema della certezza. Egli l'ha
analizzata da un punto di vista originale, ma soprattutto ha adottato una strategia
efficace per rispondere alle pretese della posizione scettica, o meglio per vanificarle.
Nei due contributi di Moore, soprattutto in A Defense of Common Sense, il filosofo
austriaco aveva intuito l'importanza di una riflessione che vertesse sulle possibilità del
sapere e dell'essere certi. Tuttavia, come abbiamo ampiamente visto, egli non era
soddisfatto delle soluzioni di Moore che mancavano di efficacia. Il filosofo inglese,
implicitamente, commetteva lo stesso errore che Wittgenstein ravvisò nella posizione
del mentalismo semantico. Giustificare di sapere qualcosa in base alle sensazioni che si
nutrono oltre ad essere una mossa filosoficamente vacua, era anche insensata alla luce
della grammatica del gioco linguistico del sapere.
Tramite la descrizione di quest'ultima nozione e l'analisi delle sue dinamiche,
Wittgenstein non ha risposto al dubbio scettico riguardo la conoscenza del mondo
esterno, che è per sua stessa natura “iperbolico” , ma lo ha dissolto in due momenti. In
un primo momento, attraverso svariati esempi, ha mostrato cosa accadrebbe
praticamente se lo scettico avesse ragione. Se davvero dubitassimo di quelle cose che ci
appaiono certissime non potremmo fare altro che restare in silenzio e probabilmente
“impazzire” (cfr. OC, § 67). Ogni gioco linguistico collasserebbe su se stesso, ed ogni
nostro pensare e agire sarebbe svuotato di qualsiasi significato. Poi, tracciando la
grammatica del gioco linguistico del dubitare, ha dimostrato come fosse necessario
esibire delle ragioni valide per dubitare di qualcosa. Dubitare in maniera indiscriminata
innescherebbe un meccanismo vizioso che annullerebbe la valenza di ogni tipo di
regola, di ogni tipo di criterio stabile di riferimento, impedirebbe, in altre parole, ogni
tipo di prassi e di conoscenza.
Tuttavia Wittgenstein mostra un sincero interesse per la natura dei truismi di
Moore. Egli li definisce “filosoficamente sorprendenti”. Queste proposizioni sono per
natura auto-evidenti, ovvero non necessitano di argomenti che ne stabiliscano il valore
di verità. Questo, però, non significa, come sosteneva Moore, che esse sono
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assolutamente vere. Tali proposizioni, dice Wittgenstein, sono sorprendenti perché si
sottraggono per natura ad un indagine che ne stabilisca il valore di verità. In altre parole,
i truismi non possono essere né veri, né falsi: essi sono certi. Quello che adesso il
filosofo austriaco vuole stabilire è il ruolo che tali proposizioni devono avere all'interno
del nostro processo di conoscenza. Dopo aver dimostrato, per dirla in termini linguistici,
che lo spazio semantico di tali proposizioni non coincide con quello di sapere, dubitare
e sbagliare, Wittgenstein afferma che tali proposizione costituiscono le fondamenta del
nostro linguaggio. Esse sono la roccia contro cui la nostra vanga si piega e oltre la quale
la nostra analisi non può spingersi.
Secondo Wittgenstein la certezza non è solo un grado più alto di conoscenza.
Queste due nozioni sono regolate da regole d'applicazione diverse, sottostanno a
grammatiche differenti. Quello che rimane da fare è verificare in che rapporto stanno
certezza e conoscenza. Ed è questo l'autentico scopo della tesi, ossia mostrare l'originale
rapporto che Wittgenstein stabilisce tra queste due nozioni, ed in particolare il ruolo che
riserva alla certezza.
Egli afferma che le proposizioni certe svolgono un ruolo fondamentale nel
processo della conoscenza. Esse sono le condizioni senza le quali tale processo non
potrebbe nemmeno avviarsi. Danno senso al processo conoscitivo. I truismi di Moore,
ad esempio, sono proposizioni primitive sulla base delle quali può darsi la stessa
possibilità del dubbio, che tuttavia non deve oltrepassare il limite del suo campo
semantico, pena l'impossibilità logica della sua stessa formulazione. Se dubitassimo del
fatto che la Terra esiste da molti anni non potremmo permetterci di proferire nessun
giudizio sensato, in quanto ci mancherebbe “la terra sotto i piedi”; saremmo
strutturalmente impossibilitati ad agire. Ma se non è possibile alcun indagine teorica su
tali proposizioni come facciamo a comprenderle?
Wittgenstein risponde dicendo che la certezza di tali proposizioni ci è data nella
prassi. Ad esempio, nessuno ci ha mai insegnato che la Terra esiste da molti anni, o che
noi abbiamo un corpo, l'abbiamo semplicemente appreso vivendo. Da qui Wittgenstein
conclude che la certezza, a differenza della conoscenza, è un affare pratico. Essa non ha
nulla a che vedere con l'indagine proposizionale.
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Inoltre, in queste pagine si è voluto far notare quale sia la conseguenza delle
affermazioni di Wittgestein riguardo lo statuto della certezza e la sua relazione con la
conoscenza. Dicendo che la certezza precede il dubbio e la conoscenza, il filosofo
austriaco ha operato un notevole rovesciamento nei confronti di tutta la tradizione
filosofica che si rifaceva e si rifà a Descartes. Come abbiamo visto, il filosofo francese
infatti sosteneva che era il dubbio ad anticipare la conoscenza e non il contrario. Le
conseguenze di tale rovesciamento sono notevoli. Wittgenstein propone una nuova
prospettiva filosofica che non parta dalle riflessioni solipsistiche del filosofo, o peggio
dalle sue sensazioni. Ma ci propone una prospettiva antropologica all'interno della quale
il pensiero nasce dall'osservazione delle varie prassi. Pensiero e linguaggio non sono più
un affare prettamente teoretico, essi sono prima di tutto fenomeni che si danno nel
quotidiano e in tale dimensione vanno riportati. Il linguaggio non deve essere lo
strumento tramite con cui costruire teorie o cercare essenze, ma deve avere una funzione
puramente descrittiva e terapeutica. Il linguaggio deve liberare l'intelletto, o il pensiero
che dir si voglia, dall'incantamento che esso stesso ha prodotto in secoli di filosofia.
Oltre il linguaggio, oltre i suoi usi e oltre le prassi quotidiane non vi è nulla. Tutto
quello che serve per far filosofia, sostiene Wittgenstein, è già sotto i nostri occhi.
Alla luce di ciò, chi scrive ritiene che il filosofo austriaco difficilmente avrebbe
condiviso le critiche contestualiste di Stroud e Clarke. Così come avrebbe definito
insensata la distinzione tra «linguaggio ordinario» e «linguaggio filosofico».
Inoltre la radicalità delle tesi di Wittgenstein fa sorgere una questione. Ossia se
sia più corretto parlare di riflessioni di stampo ontologico oppure epistemologico.
Premettendo che Wittgenstein era riluttante di fronte a denominazioni di tal genere,
sarebbe ad ogni modo interessante vedere in quale prospettiva si potrebbero meglio
inscrivere tali riflessioni.
Ad esempio Avrum Stroll sostiene che in On Certainty vi è un originale tipo di
fondazionalismo. Nella formulazione di Wittgenstein infatti il fondamento differisce
categorialmente da quanto è da esso fondato, nel senso che ciò che funge da
fondamento del gioco linguistico sta al di fuori del gioco linguistico stesso (cfr. Stroll,
1994, cap. 9). Per dirla in altri termini, il gioco linguistico è fondato sulla certezza.
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Secondo Stroll, inoltre, il fondamento può essere relativo o assoluto. Un
fondamento è relativo quando è costituito da proposizioni che possono essere
momentaneamente sostituite e utilizzate in giochi linguisti diversi. Mentre è assoluto
quando le proposizioni che lo compongono non possono essere sostituite da altre. Ad
esempio secondo Stroll la prosizione “La Terra esiste da moltissimo tempo” rientra nel
fondamento di tipo assoluto. Mentre “Nessun uomo è mai stato sulla luna” è una
proposizione cardine di tipo relativo.
Chi scrive sostiene tuttavia che tale distinzione non rispecchi appieno il senso di
ciò che Wittgenstein dice riguardo le proposizioni cardine. È infatti sbagliato
considerare una qualsivoglia proposizione cardine come necessariamente assoluta. Essa
sarà necessaria solo in maniera contingente. Ritenere che alcune proposizioni cardine ci
sembrano necessariamente assolute è dovuto al fatto che, qui ed ora non riusciamo ad
immaginare altrimenti, non riusciamo a re-inserirle nel traffico dei giochi linguistici.
Se dunque per Wittgenstein non vi è alcune necessità metafisica che sottostà ai
cardini di tipo assoluto, tra questi e i cardini relativi vi sarà una distinzione puramente
contingente.
Probabilmente Wittgenstein avrebbe rifuggito una simile analisi. Infatti, ha più
volte dichiarato di non voler prendere parte a nessuna impresa filosofica. D'altro canto
le proposizioni cardine alle quali perviene non sono né prodotte, né giustificate da
alcuna argomentazione filosofica; esse sono già date. Il compito che il filosofo austriaco
intende svolgere è riportarle alla nostra attenzione. Si può dire che, in quale modo, egli
le scopre e ce ne descrive il ruolo, aggiungendo che questo è tutto quello che
filosoficamente è lecito e sensato fare:
Ma la fondazione, la giustificazione delle prove, arrivano a un termine – Il
termine, però, non consiste nel fatto che certe proposizioni ci saltano
immediatamente agli occhi come vere, e dunque in una specie di vedere da
parte nostra, ma è il nostro agire che sta a fondamento del giuoco linguistico
(OC, § 204).
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INDICE
INTRODUZIONE 1
CAPITOLO I
Il “background” di On Certainty
1.1 Considerazioni Introduttive 6
1.2 Il lessico delle Philosophisce Untersuchungen 7
1.3 L'argomento contro il linguaggio privato delle sensazioni 18
CAPITOLO II
Moore filosofo del senso comune
2.1 Due articoli 21
2.2 Il senso comune 21
2.3 Il mondo esterno 26
2.4 Alcune critiche 31
CAPITOLO III
Il gioco linguistico del sapere
3.1 La critica di Wittgenstein 35
3.2 La strategia argomentativa 39
3.3 La dissoluzione del problema 46
CONCLUSIONE 53
61
BIBLIOGRAFIA
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