William Hazlitt lettore di Shakespeare

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Collana di Linguistica, Letteratura e Glottodidattica diretta da Pasquale Guaragnella Patrizia Mazzotta Paolo Pintacuda LA STADERA

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Collana di Linguistica, Letteratura e Glottodidatticadiretta da

Pasquale GuaragnellaPatrizia MazzottaPaolo Pintacuda

LA STADERA

I volumi di questa collana sono sottoposti a un sistema di double blind referee

WILLIAM HAZLITT LETTORE DI SHAKESPEARE

Cristina Consiglio

ISBN 978-88-6760-089-2

2013 © Pensa MultiMedia Editore s.r.l.73100 Lecce • Via Arturo Maria Caprioli, 8 • Tel. 0832.23043525038 Rovato (BS) • Via Cesare Cantù, 25 • Tel. 030.5310994

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Volume stampato con il contributo del Dipartimento di Lettere Lingue Artidell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” – Progetto di Ateneo 2006-2008 e PRIN 2008 ‘Il futuro come intreccio’

INDICE

Ritratto di un critico 7

Macbeth 17La recita delle passioni 31

Otello 49Un gioco sconsiderato 65

Amleto 83Il più amabile dei misantropi 91

Lear 111Oltre l’artificio 133

Bibliografia 147

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Hazlitt non amava leggere i suoi contemporanei. Le sue opere pre-ferite, trenta al massimo, appartenevano al passato. Le leggeva e ri-leggeva certo di trovarvi il necessario. Sugli scaffali della sua biblio-teca spiccavano i nomi di Milton, Burke, Sterne, Cervantes, Goethe,Schiller. In On Reading Old Books1 li ricorda tutti con ammirazione.Passa in rassegna i protagonisti dei suoi romanzi più amati lodandoin modo puntuale le loro virtù e quelle dei loro creatori. Il tono al-l’improvviso si fa vago. Come di fronte a un capolavoro, difficile pro-nunciare più del suo nome: è la volta di Shakespeare.Era il 1821 e già da alcuni anni Hazlitt lavorava su materiali

shake speariani. Voleva conoscere più a fondo l’età elisabettiana e l’in-tera generazione dei suoi drammaturghi. Shakespeare era per lui fi-gura rappresentativa dell’immaginazione, «the genius of humanity».Con agili ragionamenti e sguardo acuto, cercava di comprendere piùa fondo e più da vicino il modo in cui Shakespeare penetrava «themixed motives of human nature». Le sue opere lo appassionavano, ateatro come nel suo studio. Ritratti fatti di parole. La varietà e ric-chezza della galleria dei personaggi shakespeariani gli offrivano l’oc-casione per mescolare l’apprendistato artistico alla professione digiornalista e di critico teatrale.

Ritratto di un critico

1 W. Hazlitt, «On Reading Old Books» (1821), in The Plain Speaker. Opinions onBooks Men and Things (XII, pp. 220-29), in The Complete Works of William Hazlitt,21 vols., edited by P.P. Howe after the edition of A.R. Waller and A. Glover, J.M.Dent, London 1930-34, reprinted by AMS Press, Inc., New York 1967. Da orain poi il riferimento a questa edizione sarà indicato tra parentesi tonde, il nu-mero del volume seguito dal numero di pagina.

Hazlitt approfondisce il ruolo e il carattere dell’attore e del per-sonaggio. Segue la corrente romantica, della nuova temperie sono at-traversate le sue frequentazioni, eppure si tratta di una figura origi-nale, che spesso sfugge alla stessa definizione di critico. Perché se ilcompito della critica è quello di leggere e analizzare un’opera ridu-cendo il più possibile pregiudizi e riserve, interessi e passioni, se ilcompito della critica è raggiungere principi generali sulla base diesempi particolari, egli è senz’altro un critico sui generis. Non è im-parziale, non ha una tecnica analitica costante, non cerca riscontripassati o presenti. Crede in un genere di critica che sappia rifletterecolori, luci e ombre. Segue il proprio istinto, si dedica al proprio la-voro. Non si preoccupa dei posteri, non intende consegnare veritàassolute alle generazioni future.In On Criticism2, tracciando un ritratto del critico, Hazlitt auspi-

ca un gusto disinteressato e un sentimento personale libero di rico-noscere verità e bellezza ovunque siano. Deluso dai suoi contempo-ranei, preoccupati solo di decretare successi e insuccessi, dichiara dinon condividere l’ammirazione incondizionata, così come il disprez-zo o la totale indifferenza. Promuove una critica di tipo biografico,dà voce a simpatie e preferenze, malesseri e disagi. Presenta le opered’arte senza riferimenti a criteri estetici oggettivi. Per Hazlitt le ideemigliori sono quelle che esprimono la personalità dell’autore.La scrittura non fu subito il suo impegno principale. Il padre, pa-

store della chiesa unitariana, avrebbe voluto che suo figlio seguisse lastessa strada. Lo indirizzò, appena adolescente, alla carriera ecclesia-stica, ma presto gli entusiasmi giovanili si affievolirono. Hazlitt ab-bandonò il College che frequentava per dedicarsi a letture politichee filosofiche: Rousseau, William Godwin, Hobbes, Burke e Bentham. All’età di vent’anni, nel gennaio del 1798, ascoltò a Shrewsbury un

sermone di Samuel Taylor Coleridge. Il giorno dopo il poeta fece vi-sita al reverendo Hazlitt e il giovane William poté conoscerlo e par-lare con lui di politica e cultura. Coleridge fu colpito positivamentedall’acume del ragazzo e lo invitò ad accompagnarlo a Nether Sto-wey, dove avrebbe trascorso un soggiorno di studi. Lì Hazlitt conob-

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2 W. Hazlitt, «On Criticism» (1822), in Table Talk: or, Original Essays on Men andManners (VIII, 214-26).

be anche Wordsworth, che in quegli anni lavorava con Coleridge al-le Lyrical Ballads. Il nucleo delle idee politiche, filosofiche e artistichedi Hazlitt sicuramente si consolidò in quel periodo, ma non provocòdecisive scelte di vita. Continuò a seguire le proprie passioni, in par-ticolare la pittura. Nel 1802 fu a Parigi e trascorse mesi copiando di-pinti del Louvre. Poi passò ai ritratti, ma non rivelò spiccate attitudi-ni e la sorte non gli fu benevola.Grazie all’incoraggiamento di Charles Lamb completò i primi

saggi e iniziò a lavorare come cronista parlamentare per il «MorningChronicle». Iniziò a scrivere con disapprovazione, persino suo mal-grado, considerando i risultati positivi che avrebbe raggiunto solofrutto del caso. Nel saggio On the Pleasure of Painting3 descrive convelata nostalgia il compito dell’artista, gradevole perché mai stancan-te4, a differenza di quello dello scrittore, costretto a tornare più vol-te sui medesimi passaggi prima di raggiungere la forma definitiva diun’opera; e, continua Hazlitt, qualora l’avesse raggiunta, sempre alprezzo di noiose revisioni, l’unico modo per provare piacere nel ri-leggere i propri lavori, sarebbe dimenticare di averli scritti. I pittori,osservatori umili e attenti del mondo esteriore e di quello interiore,hanno un duplice sguardo sulla realtà, quel che il critico custodirà alungo del proprio apprendistato.La produzione di Hazlitt parte da collaborazioni di stampo gior-

nalistico con riviste dell’epoca per arrivare alla forma saggio, la prefe-rita. Sorprende che egli scrivesse per denaro, che la saggistica e il gior-nalismo fossero la sua fonte di sostentamento. Per avere fortuna era ne-cessario seguire le tendenze dell’epoca, i gusti e le preferenze di letto-ri e spettatori, far trapelare con prudenza le opinioni personali, maHazlitt non era affatto uno scrittore prudente: «I say what I think: Ithink what I feel. I cannot help receiving certain impressions fromthings; and I have sufficient courage to declare (somewhat abruptly)what they are»5.

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Ritratto di un critico

3 W. Hazlitt, «On the Pleasure of Painting» (1822), in Table Talk: or, Original Essayson Men and Manners (VIII, 5-13).

4 «One is never tired of painting, because you have to set down not what youknew already, but what you have just discovered. In the former case you trans-late feelings into words; in the latter, names into things» (VIII, 7).

5 W. Hazlitt, Preface to A View of The English Stage (V, 175).

Nonostante non amasse parlare in pubblico, a volte tenne lezioni econferenze. Tra i suoi desideri, una vita meditativa, di studio e con-templazione della natura, senza doveri e legami da rispettare. Se la ne-cessità non lo avesse costretto a vivere dei proventi della propria pen-na, avrebbe volentieri condotto «a sort of dreaming existence», lonta-no dalla confusione della vita di società.Si intuisce perché molti lo abbiano descritto come un uomo

sfuggente, passionale, impulsivo. È un ritratto di lui che risponde alvero, ma è altrettanto vero che, a giudicare dallo stile e dai contenu-ti delle sue opere e da alcuni episodi di cui fu protagonista, si dimo-strò versatile e non privo di spirito6. In una lettera a Thomas Wed-gewood del settembre 1803, Coleridge riassume il carattere bizzarrodel suo giovane amico in poche, efficaci battute. Racconta che eraamabile e paziente con i bambini, ma geloso e cupo con le donne.Un uomo permaloso dalle maniere scostanti, eppure brillante e ori-ginale nello stile. A volte le stranezze della sua indole gli costaronoinsoddisfazione e solitudine, altre volte furono la sua salvezza, fontedi una curiosità inesauribile. Negli anni tra il 1813 e il 1816, Hazlitt lesse August Wilhelm

Schlegel e fu il primo in Inghilterra a recensire il critico tedesco. Erauna buona occasione per estendere la sua riflessione su Shakespeare.Fin dalla prefazione ai Characters Hazlitt nomina la sua opera come«by far the best account of the plays of Shakespeare that has hitherto

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WILLIAM HAZLITT LETTORE DI SHAKESPEARE

6 Durante gli ultimi mesi del 1811 Hazlitt tenne, a Londra, un ciclo di lectures sul-la filosofia. In quel periodo non svolgeva altre attività. Si racconta che conclusel’ultima delle proprie lezioni con una fiaba orientale, che egli riteneva riassu-messe in maniera ammirevole le gioie e i dolori di una vita di contemplazione:«In a forest in ancient Hindustan there once lived a monkey, whose soul had for-merly occupied a human body. He had been a Brahmin, ‘skillful in all abstruselearning’, and in order to continue his studies in solitude, retired to a cave onthe banks of the Jumna, where, with the passing of time, having ‘wandered toofar from the abode of the social virtues’, he neglected his ablutions and declinedto ‘a condition below humanity’. Even in his monkeyhood, retaining all his loveof abstruse research, he continued to dwell apart from his fellows – and ‘so-journed in this wood from youth to age, regardless of everything, save cocoanutsand metaphysics’. ‘I too’, Hazlitt concluded, ‘should be very well contented topass my life like this monkey, did I but know how to provide myself with a sub-stitute for cocoanuts’», J. Kinnaird, William Hazlitt, Critic of Power, ColumbiaUniversity Press, New York 1978, p. 86.

appeared»7. Nella seconda metà del Settecento Shakespeare godeva diuna posizione preminente nel repertorio teatrale tedesco. La novitàproposta da Schlegel erano le traduzioni in versi, più fedeli al blankverse degli originali inglesi. Le prime furono A Midsummer Night’sDream, Hamlet e Romeo and Juliet. Una scelta difficile, poiché bisogna-va convincere il pubblico tedesco della necessità e della validità di unatale proposta, nonostante il grande successo delle traduzioni in prosaprodotte da Wieland ed Eschenburg tra il 1762 e il 1782.Per preparare il pubblico alle sue traduzioni, Schlegel preferì la

forma-saggio: Etwas über William Shakespeare bei Gelegenheit WilhelmMeister, pubblicato anonimo nell’aprile del 1796 su una rivista diret-ta da Schiller, si presentava come giustificazione e difesa dell’uso delverso in quanto poesia, linguaggio dell’anima, della passione e del-l’immaginazione.La riflessione di Schlegel partiva da un commento del Wilhelm

Meister di Goethe, per poi passare ad una discussione sulla natura deldialogo drammatico e mostrare i criteri estetici osservati in una nuo-va traduzione di Shakespeare. Rinunciare alla forma in versi o all’al-ternanza tra versi e prosa, significava perdere gran parte delle sue do-ti artistiche e drammatiche. Il Wilhelm Meister, ambientato nel cuoredel Settecento tedesco, ripercorre le tappe della ricerca di un’identi-tà culturale. Prima di riconoscere in Shakespeare la via da seguire, ilprotagonista si confronta con la tradizione. Il racconto dei viaggi edelle peripezie di una compagnia teatrale è occasione per discutere icanoni della tragédie classique, il valore di Corneille, Racine e Voltairee affrontare il problema della libertà dell’artista. Il romanzo di Goethe completava il lavoro di intellettuali come

Johann Elias Schlegel, uno zio di August Wilhelm, che già negli an-ni Quaranta del Settecento si interrogava sul valore delle traduzioniin versi di Shakespeare, confrontandole con la produzione teatrale te-desca dell’epoca. Così Lessing, che nella Hamburgische Dramaturgie(1767-68) si servì di Shakespeare per proporre la creazione di un tea-tro tedesco libero dalla ‘dominazione francese’. Per Schlegel, Shake-speare era l’esempio ideale di natural genius, il creatore per eccellen-za, libero dalle convenzioni, il modello più influente nello sviluppo

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Ritratto di un critico

7 W. Hazlitt, Preface to Characters of Shakespeare’s Plays (IV, 171).

del teatro tedesco della seconda metà del Settecento. Sono alcuneidee delle Vorlesungen über dramatische Kuntz und Literature di Schle-gel, che, lette in traduzione nel 1815, Hazlitt recensì.Lo stile della critica schlegeliana è regolare e anche quando i pe-

riodi diventano lunghi e complessi, il loro tono cadenzato permetteal lettore di seguire da vicino i pensieri dell’autore. La struttura com-plessa, la caduta ritmica, la capacità ‘immaginativa’ del suo linguag-gio, si combinano in un’eleganza retorica e rendono la sua prosa pia-cevole e convincente. Hazlitt non era interessato e coinvolto dallenovità critiche dell’approccio schlegeliano, ma si sentiva incoraggia-to dall’entusiasmo del critico tedesco per Shakespeare. Nella struttu-ra, nelle dinamiche, la critica di Hazlitt segue quella dello scrittoretedesco, nel contenuto e nella prospettiva estetica se ne allontana. In Schlegel il tema dominante è la consapevole abilità artistica di

Shakespeare: la costruita e ragionata unità dei suoi drammi è il cen-tro del suo interesse. In Hazlitt è la fedeltà alla natura propria dei per-sonaggi shakespeariani: le loro azioni sono il ritratto delle passioniumane, essi agiscono e reagiscono come persone reali. Laddove inHazlitt l’arte è vano tentativo di copiare la natura, in Schlegel è ca-pacità creativa dell’immaginazione, che può addirittura raggiungerela perfezione, come in Shakespeare. Lo sconfinato entusiasmo e latendenza a dare risposte impressionistiche ai drammi sono alcuni deitratti comuni che fecero di Hazlitt il principale e il più fedele difen-sore di Schlegel in Inghilterra, ma non il suo discepolo8.Hazlitt coinvolge i lettori senza la pretesa di istruirli. Non offre

loro spiegazioni esaurienti. Vuole condurli ad interrogarsi sulle pro-prie letture. Era il percorso che egli stesso più volte aveva seguito. In-curiosito dalla vastità e varietà del canone shakespeariano, si era de-dicato alla letteratura teatrale dell’età elisabettiana, lungo un itinera-rio che va dai Characters of Shakespeare’s Plays (1817), al ciclo di con-ferenze Lectures on the Dramatic Literature of the Age of Elizabeth (1820),passando per A View of the English Stage (1818), una raccolta di scrit-ti di critica teatrale prodotti fra il 1814 e il 1818.

Characters of Shakespeare’s Plays è una rilettura dei drammi shake-

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8 Per l’influenza di A.W. Schlegel sulla critica teatrale di Hazlitt, cfr. T.G. Sauer,A.W. Schlegel’s Shakespearean Criticism in England, 1811-1846, Bouvier VerlagHerbert Grundmann, Bonn 1981.

speariani alla quale Hazlitt giunge dopo alcuni anni di recensioniteatrali. Già da tempo, infatti, seguiva gli attori più acclamati sullescene londinesi, in particolare le interpretazioni misurate e solenni diJohn Kemble e quelle appassionate e intense di Edmund Kean. Labrillante carriera di Kemble volgeva al termine, quando Kean fece ilsuo debutto al Drury Lane nel gennaio del 1814. Un duplice debut-to nel nome di Shakespeare, in realtà: l’indomani del fortunato in-gresso in scena di Kean nella parte di Shylock, Hazlitt scriveva per il«Morning Chronicle» una critica entusiasta dell’evento9, in quellostile immediato ed esuberante che presto confluirà nei Characters.L’opera è dedicata a Charles Lamb, «as a mark of old friendship

and lasting esteem». Lamb era stato uno dei primi critici a risvegliarel’interesse pubblico per la letteratura teatrale dell’età di Shakespeare.Il teatro dell’epoca, inadeguato per l’immaginazione shakespeariana,favoriva letture personali lontane dalle rappresentazioni. È quel che sitradusse nei Tales from Shakespeare, scritti a quattro mani da CharlesLamb e sua sorella Mary, pubblicati nel 1807, un racconto in prosa de-gli intrecci dei principali drammi shakespeariani, venti storie in tutto,indirizzate ai bambini. Mary si era dedicata alle commedie, rivelandouna profonda comprensione della natura umana e una predisposizio-ne per la forma racconto; suo fratello aveva curato la parte delle tra-gedie, in un’analisi sottile dei loro celebri protagonisti. Nello studio dei testi shakespeariani Lamb non si era preoccupa-

to, come i precedenti editori, della critica del testo e della correzio-ne di interpretazioni incerte e di passaggi oscuri; piuttosto si chiede-va quali fossero state le intenzioni del drammaturgo nel creare tramee personaggi. Anche per Hazlitt le capacità di percezione critica mi-ravano a riconoscere e comprendere la verosimiglianza dei perso-naggi shakespeariani, la loro interazione dinamica, le passioni che lipossiedono e animano. Solo pochi decenni prima Samuel Johnson, per Hazlitt a didactic

reasoner, si era occupato di quei modelli generali che descrivono leconsuetudini del genere umano, in cui le somiglianze prevalgonosulle differenze, il prevedibile sull’imprevedibile, l’esplicito sull’impli-cito, e in quello scarto dei primi sui secondi risiedeva la sua gran-

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Ritratto di un critico

9 W. Hazlitt, «Mr. Kean’s Shylock», in A View of the English Stage (V, 179-81).

dezza di intellettuale di fine Settecento10. La celebre posizione diJohnson in merito ai personaggi shakespeariani, «in the writings ofother poets a character is too often an individual; in those of Shake-speare it is commonly a species»11, non avrebbe potuto essere condi-visa da Hazlitt. Egli cerca una regolarità che è aderenza al vero, manon è in quegli aspetti della natura umana che si ripetono in manie-ra costante, si susseguono con precisione, sono messi in pratica dallamaggior parte delle persone e si incarnano in leggi, linguaggi e isti-tuzioni ormai affermati. Nella Preface ai Characters aveva disapprovato apertamente le opi-

nioni e il metodo analitico di colui che, nella critica shakespeariana,era stato il suo più grande e autorevole predecessore. Non negava dipreferire la lettura critica di Schlegel, nonostante fosse a foreign critic,poiché nei confronti di Shakespeare era stato molto più favorevole diJohnson. Per Hazlitt il critico è «una guida entusiastica in una galle-ria di quadri, o un anfitrione in una biblioteca che toglie dagli scaf-fali i suoi libri e indica i passi favoriti o ricorda incidenti e scene diessi e parla di quando e dove li ha letti»12.L’intento dei Characters è semplice: accompagnare i lettori in una

rapida e avvincente panoramica del canone shakespeariano. Unicoreferente testuale, i passaggi più popolari; unica guida, la voce del-l’autore. Un primo sguardo alla raccolta di saggi restituisce al lettorel’idea che si stia parlando di figure in flesh and blood. Sorprende che iprotagonisti delle rappresentazioni shakespeariane siano descritti co-me esseri viventi e non come proiezioni di un’illusione scenica. Haz-litt è talmente concentrato sulla loro verosimiglianza da convincereil lettore della genuinità delle proprie affermazioni. Al termine diogni capitolo dei Characters si ritorna all’idea della finzione teatralecon una vaga incredulità. Resta l’incertezza: si parlava di attori e in-terpreti, di uomini o del frutto dell’immaginazione di un artista? Il critico shakespeariano percorre impavido i sentieri delle più

impervie dissertazioni. Sa essere convincente anche quando oggetto

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WILLIAM HAZLITT LETTORE DI SHAKESPEARE

10 Cfr. R.W. Uphaus, The Didactic versus the Dramatic Imagination, in William Hazlitt,Michigan State University, Twaine Publishers, Boston 1985, pp. 104-5.

11 S. Johnson, Preface to Shakespeare, in J. Hawkins (ed.), The Works of Samuel John-son, LL. D.: together with his Life, in eleven volumes, London 1787, vol. IX, p. 243.

12 R. Wellek, Storia della critica moderna, Il Mulino, Bologna 1961, vol. II, p. 226.

delle sue riflessioni sono idee astratte, quali la lettura o la pittura, o lapaura e l’odio. Quando prevale la ragione, vi è equilibrio. Il criticointravede già il punto di arrivo della propria indagine e intende rag-giungerlo con passo deciso e piglio sicuro. A volte, invece, riaffiora lasensibilità del pittore e non vi è più nulla della fermezza finora de-scritta. L’autore insegue un ricordo e un’immagine all’improvviso loconduce lontano. Non c’è uniformità nei suoi scritti. I saggi, letti sin-golarmente, non sembrano essere creazioni indipendenti ma fram-menti di un’opera molto più vasta, sfortunatamente mai compiuta.La sua prosa è energica, le idee brillanti, interessante la scelta dei te-mi. In alcuni passaggi la sua scrittura perde in qualità critica, ma nonmanca mai di vivacità e capacità di comunicazione. Hazlitt è incapace di separare poetry e understanding, l’anima del-

l’artista da quella del pensatore, e non ammette compromessi. Le opi-nioni personali prima di tutto. Il suo intento, in ogni occasione, eratrasmettere le emozioni provate nel leggere un romanzo o nell’assi-stere a una rappresentazione, come nel passeggiare in campagna onell’osservare il cielo dalla finestra della sua stanza. Le sue idee, per usare un’immagine di Virginia Woolf13, si erano

formate come stalattiti, goccia dopo goccia, anno dopo anno. Im-possibile scalfirle. Non perdeva occasione per ribadire le proprieconvinzioni, nonostante il mercato letterario esercitasse forti pressio-ni su di lui. Basti pensare a quanto strenuamente, per tutta la vita, di-fese gli ideali della Rivoluzione francese, rimproverando chi, comeWordsworth e Coleridge, li aveva prima abbracciati e poi abbando-nati, per rivolgersi a ben altri orientamenti politici.Rifuggiva le convenzioni. Era un originale. Forse perché parte di

quelle stalattiti era composta dall’eredità che il reverendo WilliamHazlitt, suo padre, gli aveva lasciato: una tempra di combattente, ilculto della libertà, l’educazione alla giustizia e l’amore per l’arte. Tut-to quello che in modo straordinario contribuì a comporre la suaprosa di saggista, giornalista e critico teatrale.

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Ritratto di un critico

13 Cfr. V. Woolf, «William Hazlitt», in Collected Essays, vol. 1, The Hogarth Press,London 1966.

Le traduzioni di Macbeth, Amleto e Lear sono dell’autrice. La traduzione diOtello è di Elisa Fortunato.L’edizione da cui sono citati i testi shakespeariani in traduzione è Il teatrocompleto di William Shakespeare, a cura di Giorgio Melchiori, 9 voll., I Meri-diani, Mondadori, Milano 1976-1991.

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L’occhio del poeta, mosso da una sublime frenesia,si volge dal cielo alla terra, e dalla terra al cielo,e, come l’immaginazione dà corpo alle figuredi cose sconosciute, così la penna del poetale viene modellando, e dà a un aereo nullauna casa in cui vivere ed un nome1.

Macbeth e Lear, Otello e Amleto sono solitamente considerate le quat-tro principali tragedie shakespeariane. Lear si distingue per la pro-fonda intensità della passione; Macbeth per la furia dell’immaginazio-ne e la rapidità dell’azione; Otello per la forza crescente e il potentealternarsi del sentimento; Amleto per lo sviluppo raffinato del pen-siero e delle passioni. Se in ognuna di queste opere la forza del ge-nio è sorprendente, la loro varietà non è da meno. Sono come crea-zioni distinte della stessa mente, indipendenti l’una dall’altra. La loroprecisione e originalità sono in realtà la necessaria conseguenza del-la verità e della natura. Il genio di Shakespeare sembra il solo a pos-sederne le risorse. Egli è lo scrittore di tragedie. I suoi drammi pos-siedono la forza della realtà. Quel che rappresenta sembra parte del-le nostre esperienze, radicato nella memoria come se avessimo co-nosciuto i luoghi, le persone e le cose di cui parla. Macbeth è come ilricordo di un evento soprannaturale e tragico. Ha la severità selvag-gia di un’antica cronaca dotata di tutto quello che l’immaginazionedel poeta avrebbe potuto innestare sulle credenze popolari. Il castel-

Macbeth

1 W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, atto V, sc. I, vv. 12-17.

lo di Macbeth, intorno a cui «l’aria profuma d’amore»2 dove «il ron-done abitatore di templi costruisce il suo nido»3, ha una reale consi-stenza nella mente; le Streghe in persona ci vengono incontro nella«brughiera desolata»4; il «pugnale disegnato nell’aria»5 si muove len-tamente davanti ai nostri occhi; il «buon Duncan»6 e «Banquo coi ca-pelli raggrumati di sangue»7 sono dinanzi a noi; tutto quello che haattraversato la mentre di Macbeth ora attraversa le nostre menti, sen-za perdere neppure un dettaglio. Tutto quel che avrebbe potuto ac-cadere realmente e tutto ciò che è possibile solo immaginare, le co-se dette e quelle fatte, i meccanismi della passione, i sortilegi, tutto civiene mostrato con la medesima verità e nitidezza. Shakespeare pri-meggia nelle scene iniziali dei suoi drammi: quelle di Macbeth sonole più sconvolgenti. È tutto straordinario: l’aspro scenario, gli im-provvisi cambiamenti di ambientazione e personaggi, l’impeto, l’en-tusiasmo delle aspettative. Fin dal primo ingresso delle Streghe e dal-la descrizione che vien fatta dell’incontro con Macbeth,

Che cosa sono questi esseri,così grinzosi e selvaggi all’aspettoche non sembrano abitanti della terra,eppure ci stanno sopra?8

la mente è preparata a tutto quel che seguirà.Allo stesso modo questa tragedia si distingue per l’elevato grado

di immaginazione e per il ritmo incalzante dell’azione; l’uno diven-ta il motore dell’altro. L’opprimente pressione esercitata dagli agentisovrannaturali incita la marea delle passioni umane con una forza duevolte maggiore. Lo stesso Macbeth appare sconvolto dalla violenzadel suo destino come un vascello travolto da una tempesta; barcollacome un ubriaco; vacilla sotto il peso delle proprie intenzioni e de-

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WILLIAM HAZLITT LETTORE DI SHAKESPEARE

2 W. Shakespeare, Macbeth, atto I, sc. VI, vv. 6-7. Dove non indicato diversamente,il riferimento ad atto, scena e versi è al testo di Macbeth.

3 Atto I, sc. VI, v. 5.4 Atto I, sc. III, v. 75.5 Atto III, sc. IV, v. 61.6 Atto III, sc. VI, v. 4.7 Atto IV, sc. I, v. 122.8 Atto I, sc. III, vv. 38-41.

gli avvertimenti ricevuti; deve tenere a bada la condizione in cui sitrova; le premonizioni delle Streghe lo hanno gettato in uno stato disoggezione superstiziosa e di estatica tensione in cui è incalzato dal-l’impazienza di verificare i loro presagi e dal desiderio di squarciare,con mano empia e insanguinata, il velo che nasconde l’incertezza delfuturo. Non è all’altezza della lotta contro il fato e contro la propriacoscienza. Ora «tende ogni facoltà corporea verso questa terribileimpresa»9; in altri momenti il suo cuore dubita ed è atterrito e spa-ventato dal proprio successo. «Il tentativo, senza la riuscita, sarebbe larovina»10. La sua mente è assalita dai pungoli del rimorso ed è pienadi «sollecitazioni preternaturali»11. I suoi discorsi e i suoi soliloquinon sono altro che enigmi oscuri sulla vita umana, privi di soluzio-ne, pronti a intrappolarlo nei loro labirinti. Diffidente nei confrontidella propria risolutezza, nei pensieri è assente e perplesso, nelle azio-ni brusco e disperato. La sua energia sgorga dall’ansia e dall’agitazio-ne della sua mente. Tanto la sua corsa cieca per raggiungere gli og-getti della sua ambizione e della sua vendetta, quanto il suo ritrarsidinanzi a loro, tradisce il tormento dei suoi sentimenti. Questo aspet-to del suo personaggio viene sollecitato in modo mirabile, se consi-derato in relazione a quello di Lady Macbeth, dotato di quelle virilivirtù di forza e fermezza che le permettono di esercitare un ascen-dente sulle incertezze di suo marito. Lady Macbeth coglie senza esi-tazioni l’opportunità di realizzare i loro desideri di grandezza e nonsi distrae dal suo obiettivo finché tutto non sarà perduto. La sua de-terminazione supera persino la sua colpa. La odiamo, è una donnadavvero malvagia, ma in fondo la temiamo prima ancora di riuscirea odiarla. Non suscita in noi disgusto e orrore come Regan e Gone-rill. È crudele perché deve raggiungere un grande scopo; una voltaconcepito un fine sconveniente, neppure una forma femminile dirimpianto sarà in grado di distoglierla, e la ricordiamo molto più perla sconcertante presenza d’animo e per la implacabile caparbietà cheper la durezza di cuore o il bisogno di affetto. L’influenza che la suaaltera determinazione esercita sulla mente di Macbeth è descritta be-ne quando egli esclama

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Macbeth

9 Atto I, sc. VII, vv. 79-80. 10 Atto II, sc. II, vv. 10-11. 11 Atto I, sc. III, v. 129.

Metti al mondo soltanto maschi!La tua indomita tempra non dovrebbe forgiarealtro che uomini12.

Né la fatica di «stringere le corde del suo coraggio»13, il rimpro-vero che gli fa di non «perdersi così miseramente in se stesso»14, lapromessa che «un po’ d’acqua ci purificherà di questo atto»15, mo-strano altro che la sempre più rapida discesa nella depravazione. Lasua ambizione ha i nervi saldi e rinforza con costole d’acciaio «i fian-chi del suo disegno»16; ed ella stessa è tutta tesa nell’esecuzione delsuo nefasto progetto con una fermezza nel delitto pari alla pazienzache, in altre circostanze, probabilmente, avrebbe mostrato dinanzi al-la sofferenza. Il sacrificio deliberato di ogni altra possibilità di otte-nere «il sovrano impero e dominio delle loro notti e dei loro giornifuturi»17 per mezzo dell’assassinio di Duncan è espresso in modo for-midabile nell’invocazione pronunciata all’udire «del suo ingresso fa-tale sotto i suoi spalti»18:

Venite, Spiriti!Che presiedete a pensieri di morte, toglietemi il sesso,e riempitemi tutta, dalla testa ai piedi,della più spietata crudeltà! Rendete denso il mio sangue,fermate l’accesso e il varco alla compassioneaffinchè nessuna compunta visita dei sentimenti naturaliscuota il mio tristo proposito o ponga treguatra questo e l’esecuzione! Venite alle mie mammelle di donna,e mutate il mio latte in fiele, voi, ministri d’assassinio, dovunquenelle vostre sostanze invisibiliattendete ai misfatti della Natura! Vieni, densa Notte,e avvolgiti nel più scuro fumo d’Inferno,affinché il mio coltello acuminato non veda la ferita che fa,

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12 Atto I, sc. VII, vv. 73-75.13 Atto I, sc. VII, v. 60.14 Atto II, sc. II, vv. 71-72. 15 Atto II, sc. II, v. 66. 16 Atto I, sc. VII, v. 26. 17 Atto I, sc. V, vv. 67-68.18 Atto I, sc. V, vv. 38-39.

né il cielo s’affacci attraverso la coltre del buio,per gridare ‘Ferma, ferma!’19

Quando viene a sapere che «Duncan si fermerà qui per la not-te»20 la notizia supera così tanto le sue aspettative da travolgerla e far-le rispondere al messaggero «Sei pazzo!»21: così nell’ascoltare da suomarito il racconto della profezia delle Streghe, consapevole della suainstabilità d’intenti e della propria necessaria presenza per spronarloalla realizzazione della grandezza promessa, esclama

Vieni presto,affinché io possa versare il mio coraggio nel tuo orecchio,e domare col valore della mia linguatutto ciò che ti tiene lontano dal cerchio d’orocon cui il fato e un aiuto metafisicosembrano volerti incoronare22.

Questa esultanza crescente e questo intenso desiderio di vittoria,questa brama incontrollabile dell’attesa che la possiede, questo denso,carnale e sanguigno sfoggio di passione, offrono un contrasto impres-sionante con la malignità fredda, astratta, gratuita e servile delle stre-ghe, strumentali anch’esse nello spingere Macbeth verso il suo desti-no per il puro amore del male, mosse da un piacere disinteressato perla deformità e la crudeltà. Sono streghe maligne, oscure ruffiane diiniquità, maliziose perché incapaci di godimento, affascinate dalla di-struzione, proprio perché esse stesse sono irreali, abortive, imperfette,e diventano sublimi perché indifferenti agli affetti e sprezzanti dellefaccende umane, come accade a Lady Macbeth spinta dalla forza del-la passione! Il suo difetto sembra essere stato un eccesso di quel fortesenso dell’interesse personale e del prestigio familiare, slegato dai sen-timenti comuni di compassione e giustizia, un sentimento tipico del-le epoche e delle civiltà barbariche. Solo una riflessione passeggeracome quella sulla somiglianza del re addormentato con suo padre, latrattiene dall’uccidere Duncan con le proprie mani.

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Macbeth

19 Atto I, sc. V, vv. 39-53. 20 Atto I, sc. V, v. 56.21 Atto I, sc. V, v. 30.22 Atto I, sc. V, vv. 24-29.

Quando parliamo del personaggio di Lady Macbeth, non do-vremmo tralasciare l’interpretazione di Mrs Siddons. È impossibileconcepire qualcosa di più spettacolare. Era qualcosa di sovrannatura-le. Come se un essere superiore fosse sceso dal suo cielo per impres-sionare il mondo con la maestà del suo aspetto. Vi era forza sul suoviso e nel suo petto una passione divina; era la tragedia in persona.Nella scena del dormiveglia i suoi occhi erano aperti ma lo sguardoera spento. Era come se fosse confusa e inconsapevole delle sue azio-ni. Le labbra si muovevano involontariamente – tutti i suoi movi-menti erano involontari e meccanici. Fluttuava sul palco comeun’apparizione. Vederla interpretare quel personaggio sarebbe statoper chiunque un evento straordinario, impossibile da dimenticare.La drammatica bellezza del personaggio di Duncan, in grado di su-

scitare il rispetto e la pietà persino nei suoi assassini, è stata spesso sot-tolineata. È un’immagine a sé. Il discorso in cui Duncan si lamenta diessersi ingannato sul conto del sovrano di Cawdor proprio nell’istan-te in cui esprime infinita fiducia al servizio di Macbeth è un esempiodella capacità dell’autore di dare un effetto impressionante a un pen-siero comune, semplicemente attraverso il modo in cui lo presenta:

Non c’è arte che insegni a scoprire nel volto, la costruzione della mente:era un gentiluomo nel quale avevo ripostoassoluta fiducia.Degnissimo cugino! [rivolgendosi a Macbeth]Proprio ora il peccato della mia ingratitudine pesava su di me23.

Un altro passaggio in cui è evidente come Shakespeare non trala-sci nulla che possa in alcun modo diminuire o aumentare l’intensitàdel suo soggetto, è la conversazione che si svolge tra Banquo e Flean-ce immediatamente prima della scena dell’assassinio di Duncan.

BanquoCom’è la notte, ragazzo?

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23 Atto I, sc. IV, vv. 12-17.

Fleance La luna è tramontata – non ho sentito le ore.

Banquo Tramonta alle dodici.

FleanceCredo che sia più tardi, signore.

Banquo Su, prendi la mia spada. In cielo fanno economia,hanno spento tutte le candele. Prendi anche questo.Una pesante sonnolenza mi grava addosso come piombo,eppure non vorrei dormire. Potenze misericordiose!Frenate in me i pensieri maledetti che la naturascatena nel riposo24.

In modo simile viene resa l’idea dell’incedere oscuro della sera,nell’istante in cui Banquo sta per essere assassinato,

La luce s’oscura, e il corvodirige il volo verso il bosco delle cornacchie […]Ora il viaggiatore attardato sprona più rapidoper guadagnare in tempo l’alloggio25.

Macbeth (com’è noto) è costruito su un principio di contrasto piùforte e più sistematico rispetto a qualunque altro dramma shakespea-riano. Si muove sul ciglio di un precipizio ed è una lotta continua trala vita e la morte. Le azioni sono disperate e le reazioni spaventose. Èun intreccio di estremi feroci, una guerra tra nature opposte in cuinon si sa quale distruggerà l’altra. Non vi è nulla che non abbia unafine o un inizio violenti! Le luci e le ombre sono disposte con sa-pienza; i passaggi dal trionfo alla disperazione, dall’abisso del terrorealla quiete della morte, sono improvvisi e vigorosi; ogni passione hain sé il suo contrario e i pensieri formano un groviglio. L’intero dram-ma è un caos sregolato di cose proibite e strane, dove la terra trema

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24 Atto II, sc. I, vv. 1-9.25 Atto III, sc. II, vv. 50-51 e atto III, sc. III, vv. 6-7.

sotto i nostri piedi, il genio di Shakespeare raggiunge il suo apice esupera gli estremi confini della natura e della passione. È questa la ra-gione di uno stile così brusco e pieno di violente antitesi, dell’agoniae della fatica che pervadono la sua voce e trasformano l’imperfezionein bellezza. «Non ho mai visto un giorno così brutto e così bello»26,&c. «Notizie tanto sgradite e gradite insieme»27, «Le vite degli uomi-ni sono come i fiori che portano sul berretto, muoiono prima anco-ra di ammalarsi»28, «Appari come il fiore sincero, ma sii la serpe chevi si cela sotto»29. La scena davanti al cancello del castello segue l’ap-parizione delle Streghe nella brughiera ed è seguita a sua volta da unassassinio notturno. Duncan viene ucciso in fretta con un inganno in-triso di stregoneria e Macduff è strappato prematuramente dal grem-bo di sua madre per vendicare la sua morte. Macbeth, dopo la mortedi Banquo, invoca la sua presenza con parole stravaganti, «A lui e a tut-ti beviamo»30, quando appare il suo fantasma, implora «Vattene, lasciala mia vista!»31, e quando scompare, egli è «di nuovo se stesso»32. Mac-beth decide di liberarsi di Macduff in modo che «possa dormire mal-grado il tuono»33; e alla notizia incerta della morte di Banquo, inco-raggia sua moglie dicendole «Sii dunque lieta. Prima che il pipistrel-lo abbia compiuto il suo volo attorno ai chiostri, prima che, rispon-dendo all’appello della nera Ecate, lo scarabeo nato nello sterco abbiasuonato col suo ronzio sonnolento la squilla sbadigliante della notte,verrà compiuto un atto di tremenda importanza»34. Nel discorso diLady Macbeth «Se non avesse somigliato a mio padre, mentre dormi-va l’avrei fatto io»35, si mescolano l’assassinio e la pietà filiale, e nell’e-sortare Macbeth a compiere la sua vendetta contro il re indifeso, ipensieri della donna non risparmiano né il sangue dei figli né quellodei padri. La descrizione delle Streghe è piena del medesimo princi-

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26 Atto I, sc. III, v. 37.27 Atto IV, sc. III, v. 138. 28 Atto IV, sc. III, vv. 171-173. 29 Atto I, sc. V, vv. 64-65.30 Atto III, sc. IV, v. 90.31 Atto III, sc. IV, v. 92.32 Atto III, sc. IV, v. 107.33 Atto IV, sc. I, v. 85.34 Atto III, sc. II, vv. 40-44.35 Atto II, sc. II, vv. 12-13.

pio di contraddizione; esse «gioiscono quando i re buoni sanguina-no»36, non appartengono né alla terra né all’aria, ma a entrambe, «Do-vrebbero essere donne, e tuttavia le loro barbe lo impediscono»37 siimpegnano il più possibile per condurre Macbeth al culmine della suaambizione, solo per tradirlo nelle circostanze peggiori e per svelarecon tono di scherno, dopo averlo inondato con tutta la loro arte, ilproprio piacere malefico dinanzi alle sue speranze deluse «Ma perchése ne sta Macbeth così stupito?»38. Potremmo ritrovare ovunqueesempi simili. Le caratteristiche principali del personaggio di Macbeth colpi-

scono di per sé e mostrano quel che a prima vista potrebbe sembra-re solo un rozzo e marcato profilo gotico. Se paragonato ad altri per-sonaggi creati dallo stesso autore, possiamo percepirne la verità asso-luta e la coerenza, attraverso il turbine vorticoso e il rapido corso de-gli eventi. Nonostante le alterne fortune o le tempeste della passio-ne, il personaggio di Macbeth in Shakespeare non perde la propriaidentità, proprio come l’uomo Macbeth non avrebbe perso la sua.Perciò si distingue da Riccardo III più di quanto si possa immagina-re, sebbene questi due personaggi nelle mani di qualsiasi altro poeta,sarebbero stati solo ripetizioni di uno stesso tema, più o meno esa-gerate. Poiché sono entrambi tiranni, usurpatori, assassini, entrambicompetitivi e ambiziosi, entrambi coraggiosi, crudeli, infidi. Riccar-do però è crudele per natura e costituzione. Macbeth lo diventa.Riccardo è deforme nel corpo e nella mente fin dalla nascita ed èper natura incapace di bontà. Macbeth ha in sé il «latte dell’umanabontà»39, è sincero, socievole, generoso. È spinto a commettere il de-litto da un’occasione d’oro, dalle istigazioni di sua moglie e dagli av-vertimenti della profezia. Il fato e un aiuto metafisico cospirano con-tro la sua virtù e la sua lealtà. Al contrario Riccardo non ha bisognodi alcun suggeritore, procede lentamente attraverso una serie di cri-mini fino a raggiungere l’apice della propria ambizione, spinto dal-l’ingovernabile violenza del suo temperamento e da uno sconsidera-to amore per il male. Non si rallegra se non pensando o realizzando

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Macbeth

36 Cfr. Atto I, sc. III, vv. 45-47.37 Atto I, sc. III, vv. 44-45.38 Atto IV, sc. I, v. 125.39 Atto I, sc. V, v. 16.

le sue infamie: Macbeth è terrorizzato al pensiero dell’assassinio diDuncan, che con difficoltà viene spinto a commettere, e sarà pienodi rimorso dopo averlo compiuto. In Riccardo non vi è traccia del-l’umanità più comune, alcun riguardo per i propri congiunti o per iposteri, egli non ha legami con alcuno, è completamente solo. Mac-beth non è privo di sentimenti di compassione, è capace di pietà, inqualche modo sua moglie si prende gioco di lui, considera la perdi-ta degli amici, dell’amore cordiale dei suoi compagni e persino delsuo buon nome, tra le ragioni che lo hanno reso stanco di vivere erimpiange il momento in cui si è impossessato della corona conmezzi ingiusti, poiché non la potrà trasmettere alla sua progenie:

Per la stirpe di Banquo ho macchiato la mia anima,per loro ho assassinato il buon Duncan. […] Per fare re loro, il seme di Banquo re40.

Nell’inquietudine dei suoi pensieri, invidia quelli a cui ha dato lapace eterna. «Duncan è nella sua tomba: dopo l’intermittente febbredella vita dorme tranquillo»41. È vero, più affonda nella colpa, più di-venta disumano, «il terrore è così reso familiare ai suoi pensieri omi-cidi»42 e alla fine anticipa sua moglie nell’audacia e nell’efferatezzadelle sue imprese, mentre lei impazzisce e muore, poiché le manca ilmedesimo impulso ad agire ed è «tormentata da schiere di fantasieche la privano del riposo»43. Macbeth riesce a sfuggire il pensiero deisuoi delitti respingendone le conseguenze, bandisce il rimorso dellamalvagità passata meditando su quella futura. Non è questo il prin-cipio della crudeltà di Riccardo, che assomiglia tanto alla malizia gra-tuita di un demone, quanto alla fragilità della passione umana. Mac-beth è incitato a compiere atti violenti e ritorsioni per necessità; perRiccardo il sangue è un passatempo. Vi sono altri tratti distintivi im-portanti nei due personaggi. Riccardo potrebbe essere consideratoun uomo di mondo, un cospiratore, un furfante incallito, non pensaad altro che ai propri fini e a come raggiungerli. Non come Mac-

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40 Atto III, sc. I, vv. 64-65 e v. 69.41 Atto III, sc. II, vv. 22-23.42 Atto V, sc. V, v. 14. 43 Atto V, sc. III, vv. 38-39.

beth. Le superstizioni dell’epoca, lo stato primitivo della società, leabitudini locali e il paesaggio, tutto contribuisce a dare al suo perso-naggio una natura selvaggia e una nobiltà irreale. A causa della stra-nezza degli eventi che lo avvolgono, è colmo di stupore e paura; eresta sospeso tra il mondo della realtà e quello dell’immaginazione.Vede cose mai svelate ad occhio umano e ode melodie soprannatu-rali. Fuori e dentro la sua mente tutto è scompiglio e confusione; lesue intenzioni vanno in frantumi e gli si ritorcono contro; egli è duevolte schiavo, delle proprie passioni e della propria cattiva sorte. Ilpersonaggio di Riccardo non è frutto né dell’immaginazione né delpathos, ma della pura ostinazione. Nel suo petto non vi è conflitto disentimenti opposti. Le sue visioni lo tormentano solo durante il son-no; non vive, come Macbeth, un sogno ad occhi aperti. Macbeth èforte e virile, eppure è «schiavo di tutti gli influssi del cielo»44. Nonè sicuro di nulla fuorché del presente. Riccardo, nel turbine dei suoiprogetti, non perde mai il controllo di sé e ogni evento diventa stru-mento dei suoi piani futuri. Alla fine dei suoi giorni egli appare so-lo come una bestia presa al laccio: per Macbeth il nostro interessenon viene mai meno completamente; e richiama tutta la nostra com-passione con quella raffinata chiusa di pensosa malinconia:

La mia vitaha raggiunto l’aridità, la foglia gialla;e ciò che dovrebbe accompagnare la vecchiaiaCose come onore, amore, obbedienza, schiere di amici –Io non debbo aspettarmi di averle. Ma in loro vece,maledizioni non dette ad alta voce ma profonde, onori tributati dalla bocca, fiatoche il povero cuore vorrebbe rifiutare ma non osa45.

A nostro parere, qualunque attore può interpretare Riccardo di-gnitosamente; non riusciamo a immaginare nessuno però che possainterpretare correttamente Macbeth, o che assomigli realmente al-l’uomo che ha incontrato le Streghe. Sembra che tutti gli attori chelo hanno interpretato finora siano stati incapaci di rendere credibile

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44 W. Shakespeare, Misura per misura, atto III, sc. I, v. 9. 45 Atto V, sc. III, vv. 22-29.

una simile visione, come se le avessero incontrate semplicemente sul-le assi del palcoscenico del Covent Garden o del Drury Lane e nonnella brughiera di Fores. Le streghe di Macbeth in effetti sono ridico-le su un palco moderno, e dubitiamo che le furie di Eschilo possanoessere rispettate più di loro. Il progresso della società e del sapere in-fluisce sul teatro e nel tempo probabilmente annienterà sia la trage-dia sia la commedia. I piccoli furti di Filch, ne L’opera del mendican-te46, non divertono più come in passato: gli assassini di Lillo47 e i fan-tasmi di Shakespeare diventeranno obsoleti, grazie alle nostre forzedell’ordine e alla filosofia. Alla fine non rimarrà nulla, di buono o dicattivo, da desiderare o da temere, a teatro come nella vita reale. Cisi è già interrogati sull’originalità delle Streghe di Shakespeare e unabuona risposta l’ha data Mr Lamb nelle sue note su ‘Primi esempi dipoesia drammatica’48.«Nonostante possano essere notate alcune somiglianze tra le ma-

lie in Macbeth e gli incantesimi presenti nel dramma (La strega diMiddleton49), che si suppone lo abbia preceduto, tale coincidenzanon priverà Shakespeare della sua originalità. Vi sono delle differen-ze profonde tra le sue Streghe e quelle di Middleton. Queste ultimesono creature a cui può chiedere aiuto un uomo o una donna pron-to a tramare un qualche orribile delitto; le prime generano atti disangue e suscitano negli uomini impulsi malvagi. Dall’istante in cuii loro occhi incontrano per la prima volta quelli di Macbeth, egli èstregato. Quell’incontro influenza il suo destino. Non potrà mai piùrompere l’incantesimo. Le streghe di Middleton possono ferire ilcorpo; quelle di Shakespeare hanno un potere sull’anima. Ecate inMiddleton ha un figlio, uno sciocco buffone: le megere di Shake-speare non hanno figli né genitori. Sono anomalie ripugnanti, di cuinon sappiamo né da dove provengano né dove finiranno. Prive dipassioni umane come sono, sembra che non abbiano neppure lega-

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46 Riferimento a The Beggar’s Opera di John Gay (1685-1732), rappresentata per laprima volta il 29 gennaio 1728.

47 George Lillo (1685-1739), drammaturgo, autore di Fatal Curiosity e George Barn-well.

48 Riferimento a Specimens of English Dramatic Poets who lived about the Time ofShakespeare (1808) di Charles Lamb.

49 Thomas Middleton (1580-1627), drammaturgo.

mi. Appaiono tra tuoni e lampi e scompaiono in una musica eterea.È tutto quel che sappiamo di loro. Ad eccezione di Ecate, non han-no nomi, particolare che accresce il loro mistero. I nomi e alcuni deipoteri che Middleton ha dato alle sue streghe, suscitano il riso. Lestreghe di Shakespeare sono una cosa seria, non possono coesisterecon nulla di ameno. Ma, pur se a un grado minore, le Streghe diMiddleton sono creature raffinate. Anche loro esercitano, in unaqualche misura, un potere sulla mente, provocando scontri, invidie econflitti».

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Macbeth

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La natura complessa dell’uomo e la questione del potere e dell’auto-rità terrena si mescolano nel conflitto tra pubblico e privato che per-corre le grandi tragedie shakespeariane. Così l’amore di Otello perDesdemona collide con la sua mancata dedizione come generale al-lo stato di Venezia, la vicenda personale di Lear è altro, e in più, ri-spetto alla sua colpa nella rinuncia alla responsabilità del potere, ilrapporto insano tra Macbeth e Lady Macbeth si aggiunge all’orroredel regicidio, lo completa e lo complica al tempo stesso. E se pensia-mo ai drammi romani, alle importanti relazioni che legano le figuredi Coriolano e Volumnia, di Antonio e Cleopatra, l’elenco potrebbecontinuare.

Dei trentaquattro saggi che compongono i Characters, il saggiodedicato a Macbeth è il secondo della raccolta. Il primo dedicato auna tragedia. E sembra quasi, fin dalla scelta dei versi di apertura, cheil critico desideri fare un bel respiro prima di immergersi nella com-plessa e densa materia delle principali tragedie shakespeariane. Lenomina tutte, prontamente: Macbeth, Lear, Otello, Amleto. Non per or-dinarle in base a un criterio più o meno determinato, viceversa, perindividuare subito le ragioni che di ciascuna fanno la prima di unacategoria:

Macbeth and Lear, Othello and Hamlet, are usually reckonedShakespear’s four principal tragedies. Lear stands first for theprofound intensity of the passion; Macbeth for the wildness ofthe imagination and the rapidity of the action; Othello for theprogressive interest and powerful alternations of feeling;

La recita delle passioni

Hamlet for the refined development of thought and senti-ment1.

Creazioni indipendenti l’una dall’altra, tutte distinte da una mi-sura di originalità che sì, è certamente frutto del genio shakespearia-no, ma ancor più, e prima, «necessary consequence» dell’ispirazioneche esso trae dalla natura e dalla realtà. Così i mondi rappresentati daidrammi del Bardo sembrano appartenere al nostro passato, scrive ilcritico, richiamando e coinvolgendo il lettore nella prima personaplurale, come ricordi di esperienze realmente vissute, di cui possia-mo dire con certezza i volti, i luoghi e le circostanze.

Ecco il castello di Macbeth, sfiorato dal respiro amoroso del cie-lo, ecco la brughiera desolata, teatro dell’incontro con le streghe, ec-co l’ombra del pugnale disegnato nell’aria muoversi lentamente e vi-brare davanti ai nostri occhi, ecco il buon Duncan, ecco Banquo coni capelli raggrumati di sangue. Non vi è pensiero della mente diMacbeth che non sia stato pensiero della nostra mente, i meccanismidella passione, i sortilegi, tutto ritorna «with the same absolute truthand vividness».

Sin dall’impressionante scena di apertura del dramma, le azioni sisusseguono con un ritmo incalzante, l’inquietante presenza di figu-re sovrannaturali si mescola agli impulsi della passione e induceMacbeth a vacillare sotto il peso delle proprie intenzioni e degli av-vertimenti ricevuti. Il corso naturale degli eventi è compromesso.Egli è impaziente di conoscere il futuro, le premonizioni delle stre-ghe lo rendono inquieto nel desiderio di sapere e di scoprire se, efin dove, il proprio destino è irrevocabilmente segnato. Combattereal tempo stesso contro il fato e contro la propria coscienza è impre-sa ardua, nonostante Macbeth decida, come per uno sforzo consa-pevole, di impiegare «each corporal instrument» nel compimento diquel che lo attende. Inspiegabili presentimenti agitano il suo cuoree la sua mente è assalita dal rimorso. Il soliloquio con cui si apre lascena settima dell’atto primo è un esempio perfetto dell’inquietudi-ne e del disagio di Macbeth. La sequenza di supposizioni all’iniziodelle sue riflessioni e il rifiuto – nella ripetizione di «if» – di ogni ri-

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1 W. Hazlitt, «Macbeth», in Characters of Shakespeare’s Plays (IV, 186).

ferimento diretto all’oggetto delle sue meditazioni, mostra come an-che i suoi tentativi disperati di esprimersi secondo una logica cada-no poi nella trappola dell’incoerenza, in una continuità franta fin dalmomento in cui ha iniziato a considerare la rivelazione fatta dallestreghe.

I discorsi di Macbeth, nelle parole di Hazlitt, sono labirinti dienigmi oscuri, dove le possibilità di soluzione si confondono, i pen-sieri si complicano e le azioni si fanno improvvise e disperate. Agita-zione, ansia, ambizione, desiderio di vendetta, sono tutti conseguen-za del tormento di cui egli è vittima. Un tormento sollecitato e acui-to dal personaggio di Lady Macbeth, dotato di quelle virtù virili diforza e fermezza che mancano in Macbeth, rendendolo incapace diazioni risolutive.

La mascolinità di Macbeth è tema discusso e ricorrente nelle in-terpretazioni proposte sulle scene londinesi tra la fine del Settecentoe i primi dell’Ottocento, e oggetto di riflessione in alcuni saggi pub-blicati nello stesso periodo, a partire da Remarks on Some of the Char -acters of Shakespeare di Thomas Whately, pubblicato nel 1785, pergiungere al saggio di John Philip Kemble Macbeth and King Richardthe Third: An Essay, in Answer to Remarks on Some Characters of Shake-speare, del 1817, una versione ampliata di un pamphlet del 1786 inti-tolato Macbeth Reconsidered.

Whately sosteneva che Macbeth fosse figura vulnerabile, dallamascolinità problematica, caratterizzata da «natural timidity», da «anacquired, though not a constitutional courage». Kemble, al contrario,difendeva l’audacia e la sanguinaria determinazione di Macbeth.Nelle scene di apertura del dramma l’eroe tragico vacilla, nel com-piere l’assassinio di Duncan è incalzato da pensieri delittuosi, ma nel-le scene conclusive, sui campi di battaglia di Dunsidane, egli è solo,in stato d’assedio. Quando Macduff rivela di non essere nato da don-na, il destino è ormai compiuto e Macbeth è condannato. L’ultimaimmagine che il drammaturgo ci affida è quella di un guerriero, co-raggioso e impavido, ed è qui che la mascolinità di Macbeth è infi-ne riscattata da quel tratto di problematicità che aveva percorso l’in-tera tragedia. Persino Whately, così critico nei confronti del perso-naggio di Macbeth, riconosce come in chiusura del dramma

[…] he summons all his fortitude; and, agreeably to the man-liness of character to which he had always formed himself,

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La recita delle passioni

behaves with more temper and spirit during the battle thanhe had before2.

Kemble vestì i panni di Macbeth per più di trent’anni, dal 1785al 1816, e nelle recensioni dell’epoca è spesso sottolineato il modo incui la sua figura statuaria guadagnasse la scena trasmettendo già di persé un profondo senso di dignità e coraggio. Edmund Kean, al con-trario, come Hazlitt sottolineerà in alcuni scritti teatrali, soffriva nel-la parte di Macbeth, poiché

[…] his small stature and incessant activities were the causes,perhaps, of his being generally less imposing than Mr Kem-ble, who threw into the character a more than regal dignity3.

Il 9 novembre 1814 Edmund Kean interpretò Macbeth per laprima volta. Al suo ingresso in scena:

[…] amidst his troops on the bridge, the pit composed almostexclusively of gentlemen, stood on the benches and gave sev-eral hearty and distinct cheers; while the fair tenants of theboxes waved their handkerchiefs in token of a correspondentfeeling4.

Tutti desideravano vederlo recitare quella parte, una delle più dif-ficili e famose tra quelle shakespeariane, per confrontarla con l’inter-pretazione di Kemble, che aveva fatto da modello negli ultimi anni.Il Macbeth di Kean fu forte e potente, ma non così convincente.Hazlitt la definì «dull and colourless» e, ancora, «sketchy», nonostan-te vi fossero i consueti lampi, come nella scena successiva l’assassiniodi Duncan, lodata da tutti i critici e considerata dal critico romanti-co tra le prove migliori del suo attore preferito:

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WILLIAM HAZLITT LETTORE DI SHAKESPEARE

2 T. Whately, Remarks on Some of the Characters of Shakespeare (1785), repr. in J.Adler, Responses to Shakespeare, 8 vols., The History of British Theatre, Rout-ledge/Thoemmes Press, London 1997, vol. III, p. 50.

3 B. Waller Proctor, Life of Edmund Kean, 2 vols., Edward Moxon, London 1835,repr. New York 1969, vol. II, p. 106.

4 G. Playfair, Kean. The Life and Paradox of the Great Actor, Reinhardt&Evans, Lon-don 1950, p. 126.

The hesitation, the bewildered look, the coming to himselfwhen he sees his hands bloody, the manner in which his voiceclung to his throat and choked his utterance, his agony andtears, the force of nature overcome by passion – beggared de-scription. It was a scene no one who saw it can ever effacefrom his memory5.

In una lettera apparsa l’indomani su «The Champion», un anoni-mo spettatore commentava la diversità di interpretazione dei due at-tori, Kemble e Kean, nella scena in cui Lady Macbeth, riferendosi al-la sorte di Duncan, chiede a suo marito «And when goes hence?». Larisposta di Macbeth è «Tomorrow, as he purposes»6. Lo spettatoreraccontava come Kemble la pronunciasse d’un fiato, quasi con indif-ferenza, laddove Kean, con tono enfatico e sguardo esitante, come chiresiste e cede al tempo stesso alla tentazione di rivelare un terribilesegreto, recitasse quel verso con una pausa prima di purposes, primadell’ultima parola della battuta, caricando quell’intenzione, quel pro-posito di Duncan, delle fosche tinte di un presagio.

In altre parole, con una pausa e un accento, dava l’impressione chel’idea di uccidere Duncan fosse già sua intenzione. Un particolare im-portante che, dal punto di vista del pubblico, rende Macbeth padronedel proprio destino e non più pedina dell’ambizione di sua moglie.

Probabilmente la sua interpretazione aveva anche debolezze chei critici non tardarono a sottolineare, ma era degna di una grande star.Kean dominava la scena e spiccava sul resto della compagnia. E cosìMacbeth riscosse lo stesso successo raggiunto da Riccardo III nella sta-gione precedente. Kean lo ripetè ben ventitré volte dinanzi a unpubblico sempre numeroso e sempre entusiasta, al punto di non do-ver pensare a un altro personaggio prima del nuovo anno. La figuraminuta e la bassa statura dell’attore erano rapidamente dimenticatedinanzi alla forza, all’orrore e all’ambizione che mostrava nella suainterpretazione.

Per spiegare il personaggio femminile dominante nella tragedia,Hazlitt si serve delle figure delle due figlie malvagie di Lear: per lo-ro, scrive, proviamo disgusto e orrore. Per Lady Macbeth una strana

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5 W. Hazlitt, «Mr Kean’s Macbeth», in A View of the English Stage (V, 207).6 W. Shakespeare, Macbeth, atto I, sc. V, vv. 58-59.

reverenza, poiché prima di riuscire a odiarla, ne abbiamo timore. Lasua presenza d’animo è sconcertante, la sua caparbietà implacabile.Comprendiamo bene, fin dal principio, che in lei non vi sarà alcunaforma di rimpianto o debolezza e che raggiungerà qualunque finevorrà proporsi, per quanto sconveniente, disonorevole o esagerata-mente ambizioso.

Lady Macbeth crede fermamente che l’impresa di una sola notteassicurerà «sovereign sway and masterdom» per tutte le notti e tutti igiorni a venire, ed è tale la brama di potere, tale la febbrile eccita-zione, che all’inatteso annuncio dell’arrivo del re, rimasta sola, pro-rompe nella spaventosa invocazione degli spiriti che presiedono pen-sieri di morte, citata interamente da Hazlitt per sottolineare la deter-minazione della donna nel sacrificare qualunque altra considerazio-ne al conseguimento dell’unico e principale scopo prefissato.

Le passioni travolgono Lady Macbeth, sembrano impossessarsi ditutte le sue facoltà, offrendo così un paragone interessante tra la ma-lignità sanguigna e intensa della donna e quella fredda e astratta, gra-tuita e servile delle Streghe. Sia l’una che le altre conducono Mac-beth verso il compimento del proprio destino in nome di un pia-cere disinteressato nei confronti del male e della crudeltà. Se le Stre-ghe sono esse stesse irreali, «abortive, half-existences», immuni dallesimpatie o dalle preoccupazioni umane, il personaggio di LadyMacbeth è tutto nella forza delle proprie passioni, una forza primi-tiva e selvaggia, da cui è bandita ogni forma di compassione o digiustizia. Solo in un’occasione, ricorda Hazlitt, Shakespeare sembrasegnare una lieve incrinatura nella figura della protagonista. È l’ini-zio della scena seconda dell’atto secondo, quando la donna avvertequalcosa in grado di trattenerla dal mettere in pratica i propri in-tenti e compiere personalmente l’assassinio: aver intravisto e rico-nosciuto, nel volto del re dormiente, per un solo impercettibileistante, le sembianze di suo padre: «Had he not resembled my fatheras he slept, I had done’t».

Segue il primo passaggio dal testo alle scene. Secondo Hazlitt nelparlare del personaggio di Lady Macbeth è impossibile non conside-rare, «we ought not to pass over», la mirabile interpretazione di MrsSiddons, attrice acclamatissima nel ruolo complesso appena presen-tato. «She was tragedy personified». Una definizione squisitamenteromantica per raccontare l’apice del principio di verosimiglianza del-la rappresentazione teatrale. Nella scena del dormiveglia l’attrice ave-

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va gli occhi aperti, ma era come se la vista fosse ‘spenta’, sembravache le sue labbra si muovessero involontariamente, o come se ognisuo movimento fosse inconsapevole, meccanico.

Il personaggio di Duncan è segnato da una bellezza drammaticache lo rende una figura a sé, una piccola gemma all’interno dello spa-zio tragico dominato dalle figure dei due protagonisti. Egli suscitacompassione persino nei suoi assassini. Tuttavia quel che è più inte-ressante è la duplice risonanza dei versi che pronuncia quando chie-de a Malcolm notizie della condanna di Cawdor e subito dopo, ri-volgendosi a Macbeth, si rammarica di non essere stato in grado dileggere l’infedeltà nel volto del suo suddito. Duncan parla di infe-deltà con Macbeth, che ha già incontrato le Streghe e silenziosa-mente attende riscontri della loro profezia, e, oltre il palco, il lorodialogo è ascoltato da una platea di spettatori che sanno di Macbethe immaginano il destino luttuoso che sta per compiersi. Da qui lapietà per un personaggio che guadagna la scena solo per poche ap-parizioni e, nella sua mitezza, ignora il disegno malvagio del quale sa-rà vittima.

Tutti particolari scelti da Shakespeare per contribuire a creare unaprecisa atmosfera, come l’oscurità evocata nel dialogo tra Banquo eFleance, di poco precedente l’assassinio di Duncan. La luna è tra-montata, è passata la mezzanotte, in cielo hanno spento tutte le can-dele, pensieri pesanti impediscono a Banquo di trovare riposo nelsonno. O ancora, la notte nera invocata da Macbeth, nella scena cheprepara e annuncia la morte di Banquo.

Siamo all’incirca a metà del saggio quando Hazlitt ritorna adun’idea generale del dramma Macbeth e individua «a stronger andmore systematic principle of contrast» come costante e caratteristicadistintiva dell’opera. Come se si fosse sempre sull’orlo di un abisso,in una lotta continua tra la vita e la morte, in un conflitto senza re-gole tra nature opposte e differenti. Tutto ha in sé qualcosa di vio-lento, che sia nelle sue battute iniziali o in quelle conclusive, luci eombre si alternano continuamente, si passa improvvisamente dall’e-saltazione alla disperazione, dalle altezze del terrore alla quiete dellamorte.

Ogni passione porta con sé e introduce il suo contrario, i pensierisi affollano nella mente incapaci di seguire una direzione, uno scopo,un’intenzione. Hazlitt definisce la tragedia un caos ingovernabile e in-controllato di elementi strani e misteriosi, in cui il genio di Shake-

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speare raggiunge il suo apice e si avventura ben oltre i confini piùestremi della natura e della passione – da cui lo stile denso di forti an-titesi, «So fair and foul a day I have not seen», «Such welcome and un-welcome news together», per ricordarne solo alcune tra le più celebri.

Il ritmo imposto dal corso degli eventi non concede tregua. L’ap-parizione delle Streghe è seguita dalla scena dell’arrivo del re di Sco-zia con i suoi compagni presso il castello di Macbeth. E subito giun-ge la notte dell’assassinio, delitto destinato ad essere vendicato da Mac-duff, strappato prematuramente dal grembo di sua madre – come ri-velerà solo nella scena conclusiva della tragedia, sorprendendo Mac-beth e portando a compimento per l’ultima volta il presagio delleStreghe. Ancora, Hazlitt ritorna sulla scena in cui Lady Macbeth guar-da Duncan addormentato per sottolineare la mescolanza tra le sue in-tenzioni delittuose e la devozione filiale, sebbene poco dopo non esi-terà a invogliare Macbeth affinché conduca alla morte il re indifeso.

Il principio di contrasto e di contraddizione che, nella lettura delcritico, percorre l’intero dramma e pone continuamente Macbeth eLady Macbeth in una condizione di profonda antitesi, è presente an-che nella scena immediatamente successiva l’assassinio di Duncan.Nella seconda scena del secondo atto vi è un’immagine che descri-ve bene l’abisso che separa i due personaggi principali: Lady Mac-beth assicura che «a little water clears us of this deed», basterà un po’d’acqua a lavare via i segni della colpa, proprio laddove Macbeth, po-che battute prima, sempre servendosi di una metafora legata all’ac-qua, aveva dichiarato che neppure tutto il grande oceano di Nettu-no sarebbe stato sufficiente a lavare quel sangue dalla sua mano, mache piuttosto avrebbe imporporato – con l’uso ricercatissimo delverbo «incarnadine» – mari innumerevoli. Una visione barocca, l’hadefinita Agostino Lombardo, che «indica, con le sue linee grotteschee fin mostruose, l’enormità del delitto e lo sconvolgimento dell’or-dine naturale che esso comporta»7.

Nel ricordare la caratterizzazione delle Streghe, Hazlitt segue lamedesima linea interpretativa, sottolineando la compresenza degliopposti. Quelle creature che non appartengono né alla terra né alcielo ma ad entrambi, che, come nota Banquo, hanno barbe che ne-

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7 A. Lombardo, Lettura del Macbeth, Neri Pozza Editore, Vicenza 1969, p. 112.

gano la loro femminilità, in realtà conducono Macbeth all’apice del-l’ambizione solo per tradirlo, fingono stupore nel domandarsi «Butwhy stands Macbeth thus amazedly?», ostentano la propria arte fu-nesta dinanzi ai suoi occhi rapiti solo per trarre piacere, infine, dalsuo sgomento.

Il critico dedica quindi la seconda parte del saggio ad un’analisiattenta del personaggio di Macbeth. Le sue caratteristiche principalisi compongono in quel che ad un primo sguardo potrebbe sembra-re solo un deciso e severo profilo gotico. In realtà l’elemento domi-nante nella sua figura è la costanza, egli non perde mai la propriaidentità di personaggio – e di uomo. E qui Hazlitt, in un giro di fra-se, sembra passare dalla finzione drammaturgica alla realtà storica:

By comparing it with other characters of the same author weshall perceive the absolute truth and identity which isobserv ed in the midst of the giddy whirl and rapid career ofevents. Macbeth in Shakespeare no more loses his identity ofcharacter in the fluctuation of fortune or the storm of pas-sion, than Macbeth in himself would have lost the identity ofhis person8.

In realtà non è chiaro il legame tra l’una e l’altra, non è chiaro seHazlitt qui stia facendo riferimento alla vicenda storica che ha ispi-rato il Bardo rinascimentale nella composizione della tragedia, o sestia sottolineando una coerenza rispetto alle fonti, in particolare allecronache di Holinshed, ma è probabile che sia così perché subito do-po vi è un riferimento a Riccardo III e al modo in cui un poeta –che non fosse Shakespeare – li avrebbe caratterizzati:

Thus he is as distinct a being from Richard III as it is possi-ble to imagine, though these two characters, in commonhands, and indeed in the hands ofany other poet, would havebeen a repetition of the same general idea, more or less exag-gerated9.

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8 W. Hazlitt, «Macbeth», in Characters of Shakespeare’s Plays (IV, 192).9 Ibidem.

L’idea del confronto tra il personaggio di Macbeth e quello diRiccardo III rispondeva ad una tradizione di studi sul male già com-piuti da Steevens, Whately e altri studiosi10, un luogo comune aitempi di Hazlitt. Entrambi i personaggi si sono impadroniti del po-tere con il delitto e in entrambi i drammi ispirati alle loro vicendeè sottolineata la funzione di unificazione operata dall’avvento dellanuova dinastia. In Riccardo III tale funzione storica è adempiuta daRichmond, il futuro Enrico VII Tudor, che nella sua persona uniscele due casate di Lancaster e di York, protagoniste della guerra delledue Rose; in Macbeth la visione della processione di re discendentida Banquo annuncia l’unione, nella persona di uno Stuart, dei regnid’Inghilterra e di Scozia. Non solo: rifacendosi alle pagine di Ho-linshed, Shakespeare mette in luce l’importanza del soggiorno in In-ghilterra di Malcolm per la sua formazione di sovrano di Scozia, an-ticipando così idealmente quell’unione delle due corone che si rea-lizzerà di fatto soltanto nel 1603, nella persona di Giacomo I Stuart.

Tuttavia sarebbe profondamente errato fermarsi all’idea di Mac-beth come dramma storico e ricondurlo alle caratteristiche dei chron -icle plays scritti dieci e più anni prima. Con Macbeth si va ben oltrel’indagine degli eventi, per spostare il centro dell’interesse tragicosulla natura umana del sovrano, e il linguaggio pienamente maturodella tragedia, organizzato secondo un serrato tessuto di immagini infunzione vigorosamente dialettica, non è più quello della cronaca, in-teso ad assumere la Storia come pretesto per l’esplorazione di pro-blemi, comportamenti, valori universali.

Il paragone tra Macbeth e Riccardo III, le due terribili e straor-dinarie figure di tiranni create da Shakespeare, è poi approfondito:Macbeth è malvagio perché costretto dagli eventi, Riccardo lo è pernatura e indole. Con un passaggio rapidissimo il lettore ad un trattosi ritrova in una dimensione lontana, altra rispetto alla finzione dram-maturgica. Il critico passa da un personaggio all’altro descrivendonele azioni e i presunti moventi, come se si trattasse di vite vissute enon di storie raccontate o rappresentate.

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10 G. Steevens, On Richard III and Macbeth (1787); T. Whately, Remarks on Some ofthe Characters of Shakespeare, Oxford 1785; J.P. Kemble, Macbeth and Richard III:an Essay in Anwer to Remarks on Some of the Characters of Shakespeare, J. Murray,London 1817.

For both are tyrants, usurpers, murderers, both aspiring andambitious, both corageous, cruel, treacherous. But Richard iscruel from nature and constitution. Macbeth becomes sofrom accidental circumstances11.

Macbeth, virtuoso e fedele, cade in una rete di insidie, di rappor-ti intossicati da elementi naturali e sovrannaturali. Riccardo non habisogno di suggerimenti per compiere delitti, è sostenuto e animatoda una natura violenta e ingovernabile che gli impedisce persino diprovare soddisfazione per i propri misfatti. Quel che conta è avere unorizzonte, nonostante sia limitato alla prospettiva, alla possibilità dicompiere ancora del male. Senza curarsi di discendenze o legami,senza preoccuparsi di seguaci, compagni, amici.

Macbeth non scorge e non può scorgere alcun orizzonte perchéle Streghe, salutando Banquo come padre di una stirpe di re, hannocollocato sul suo capo «a fruitless crown» e gli hanno consegnato «abarren sceptre». Macbeth sa di non poter volgere lo sguardo al futu-ro, e allora prova a rivolgerlo al passato, ma rivede solo i crimini com-messi e prova invidia per coloro che dormono sonni eterni: «Dun-can is in his grave; after life’s fitful fever he sleeps well». Resta solo ilpresente, quello che nel teatro shakespeariano diventa l’eterno pre-sente della rappresentazione, e Macbeth, hic et nunc, qui e ora, sfuggeil pensiero dei crimini commessi rifiutando le loro conseguenze, al-lontana il rimorso per il passato concentrandosi su delitti ancora dacompiere: «He is sure of nothing but the present moment»12.

Macbeth, infine, uccide per necessità, Riccardo per svago. Gli ele-menti in comune sono numerosi ma, in relazione ai due personaggi,assumono significati differenti. È il caso delle visioni notturne, e nonsolo: Riccardo ne è perseguitato durante il sonno, le apparizioni chelo tormentano hanno la voce di un incubo, «Tomorrow in the battlethink on me», gli ripetono coloro che ha ucciso, uno dopo l’altro, sfi-lando dinanzi ai suoi occhi addormentati. Gli occhi di Macbeth inve-ce sono svegli, la dimensione in cui la visione dello spettro di Banquolo sorprende è quella di un sogno ad occhi aperti, in cui il confine trala realtà e l’immaginazione è completamente annullato: «[he] stands in

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11 W. Hazlitt, «Macbeth», in Characters of Shakespeare’s Plays (IV, 192).12 Ivi (IV, 193).

doubt between the world of reality and the world of fancy». La com-parsa del fantasma, nella scena del convito, visibile soltanto a Macbeth,grande invenzione shakespeariana, non è una ripresa dell’elemento so-vrannaturale già presente nelle scene delle streghe. Il fantasma di Ban-quo non appartiene a un altro mondo, è parte della natura e della co-scienza del personaggio Macbeth, come il pugnale che gli si offre pri-ma del delitto, o il sangue sulle mani di Lady Macbeth sonnambula.

Nell’interpretare la reazione di Macbeth all’apparizione dellospettro di Banquo, David Garrick credeva che nelle intenzioni diShakespeare il personaggio tragico non dovesse mostrare un tratto dicodardia. Macbeth prova orrore, sì, nel riconoscere le sembianze diBanquo e nell’accorgersi di essere il solo interessato da tale visione,e tuttavia resta in guardia, facendo appello alle proprie forze:

The first apperance of the spirit overpowers him more thanthe second; but even before it vanishes at first, Macbeth gainsstrenght. ‘If thou canst nod, speak too’ must be spoke withhorror, but with a recovering mind; and in the next speechwith him, he cannot pronounce ‘Avaunt, and quit my sight!’without a stronger exertion of his powers. I certainly [, as yousay,] recollect a degree of resolution, but I never advance aninch; for, notwithstanding my agitation, my feet are immova-ble. My idea is this: Macbeth is absorbed in thought, and struckwith horror of the murder, though but in idea; and it natu-rally gives him a slow, tremulous undertone of voice. Istopped at every word in the line because my intention wasto paint the horror of Macbeth’s mind and keep the voicesuspended a little13.

Ancora, se il personaggio di Riccardo, in conclusione del dram-ma, sembra quasi una bestia selvatica presa al laccio, Macbeth, scriveHazlitt, non smette mai di suscitare il nostro interesse e la nostra in-dulgenza, come nella scena terza dell’atto quinto, nel dichiararsisconfitto e condannato a non conoscere il sapore del conforto e del-l’approvazione di amici e compagni:

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13 P. Fitzgerald, The Life of David Garrick, Simpkin, Marshall, London 1899, p. 259.

I have lived long enough: my way of lifeIs fallen into the sere, the yellow leaf;And that which should accompany old age,As honour, love, obedience, troops of friends,I must not look to have; but, in their stead,Curses, not loud, but deep, mouth-honour, breathWhich the poor heart would fain deny and dare not14.

Macbeth non è un personaggio comune ed è estremamente dif-ficile vestire i suoi panni. Egli ha incontrato le Streghe e ha credutoalle loro profezie. Da quel momento in poi l’ombra di quell’incon-tro fatale segna la sua storia e un buon interprete di Macbeth devefar sentire agli spettatori che in ogni gesto, in ogni verso pronuncia-to, egli ritorna continuamente e silenziosamente alla scena di aper-tura del dramma.

Scrive Hazlitt, non vi è attore che, pur interpretando il ruolo diRiccardo «tolerably well», sia in grado di portare in scena Macbeth«properly». Come se non vi fosse più nulla dello scenario desolantedella brughiera, ma solo le assi del palcoscenico del Covent Gardeno del Drury Lane:

All the actors that we have ever seen, appear as if they hadencountered them on the boards of Covent-garden orDrury-lane, but not on the heath at Fores, and as if they didnot believe what they had seen15.

Hazlitt lamenta le condizioni del teatro contemporaneo, la man-canza di vivacità, di arguzia, di efficacia. Anche le Streghe sembra ab-biano risentito molto delle rappresentazioni moderne, al punto daapparire «ridiculous», senza tuttavia perdere l’originalità ereditata dalgenio shakesperiano, elemento discusso e poi ricondotto alla propriafonte primaria. Si pensava, infatti, che vi fossero dei legami tra i per-sonaggi delle Weïrd Sisters e le figure delle streghe create da ThomasMiddleton, suo contemporaneo, autore di un dramma intitolato ap-punto The Witch. In realtà è noto che vi fu occasione in cui Middle-

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14 W. Shakespeare, Macbeth, atto V, sc. III, vv. 22-28.15 W. Hazlitt, «Macbeth», in Characters of Shakespeare’s Plays (IV, 194).

ton revisionò il testo del Macbeth; nel testo shakespeariano, infatti, visono delle interpolazioni ad opera sua, sia nella quinta scena delquinto atto, sia nella prima scena del quinto atto, versi dei quali eglisi servì quando intorno al 1615 scrisse The Witch.

A tal proposito Hazlitt cita un passo dalle note di Charles Lamba Specimens of Early Dramatic Poetry, in cui il critico, pur notando del-le assonanze tra le malie del Macbeth e gli incantesimi del dramma diMiddleton, riconosce tra le due opere una distanza segnata da «es-sential differences».

Le streghe di Middleton sono creature alle quali chiunque stiatramando un delitto potrebbe rivolgersi per ricorrere al loro potere.Le streghe in Macbeth istigano la cattiveria nel cuore degli uomini epossono governare i loro animi. Dal momento esatto in cui i loro oc-chi incontrano quelli di Macbeth, egli è «spell-bound», vittima delloro incantesimo, e il suo destino è sviato per sempre. In Middletonla strega Ecate ha un figlio, in Shakespeare le streghe sono «foul ano-malies», senza progenitori né progenie. Inoltre solo Ecate ha un no-me, le altre streghe ne sono prive, come ad accrescere il senso di mi-stero che le avvolge.

Infine Lamb sottolinea come le streghe di Middleton, creazioniraffinate, seppur ad un livello inferiore rispetto alle streghe del Mac-beth, avessero in sé qualche tratto persino comico, particolare del tut-to assente in Shakespeare. Le Weïrd Sisters sono qualcosa di molto se-rio. La loro presenza non può coesistere col riso.

Tra gli scritti teatrali di Hazlitt su Macbeth vi è un bell’articolo,pubblicato il 13 novembre 1814 su «The Champion» e poi ripubbli-cato in A View of the English Stage quattro anni più tardi. Hazlitt os-serva come nessuno dei discorsi pensati e scritti da Shakespeare po-trebbe mai essere affidato ad un personaggio che non fosse colui ocolei per il quale è stato studiato, e come la trasposizione, se tentata,tradirebbe subito alcuni tratti caratteristici del passaggio in sé.

«To invent according to nature» è la definizione del genio eShake speare vi si adattava più di qualunque altro scrittore. Si potreb-be dire che egli collaborasse con la Natura, creando un mondo im-maginario tutto suo, che ha tutte le sembianze della realtà, «the ap-pearance and the truth of reality». È compito della poesia, e in real-tà di tutte le opere frutto dell’immaginazione, mostrare la specie at-traverso l’individuo. I drammaturghi francesi, però, rappresentano so-lo le categorie, mai l’individuo: i loro re, i loro eroi e i loro amanti

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sono tutti uguali – e tutti francesi – dunque null’altro e nulla più cheportavoce di determinati luoghi comuni legati ai sentimenti, alle pas-sioni o alla moralità.

In Shakespeare i personaggi non declamano versi al pari di stu-denti, ma parlano e agiscono come uomini, «like men», posti in cir-costanze reali, con «real hearts of flesh and blood beating in theirbos oms». Non ve ne sono due uguali, persino più e meglio di quan-to potrebbe accadere in natura. Quelli che più si assomigliano, sonocomunque differenziati da caratteristiche proprie del principio delpersonaggio nelle sue più oscure ramificazioni, le abitudini, i gesti epersino gli sguardi dell’individuo rappresentato. Così Macbeth, Ric-cardo III, re Enrico VI e Riccardo II – personaggi che nella loro de-scrizione ‘generale’ potrebbero sembrare semplici ripetizioni dellamedesima idea – in realtà sono distinti da tratti ben precisi.

Qui Hazlitt anticipa il confronto che riproporrà nel saggio deiCharacters, sottolineando come, con tratti di grande maestria, Shake-speare ha delineato come possano essere diversi gli effetti dell’ambi-zione e della crudeltà su disposizioni di carattere differenti e in si-tuazioni differenti.

Both are tyrants and usurpers, both violent and ambitious,both cruel and trechearous. […] Richard is cruel from natureand constitution, Macbeth becomes so from accidental cir-cumstances.

Macbeth è istigato da occasioni preziose, da sua moglie e da av-vertimenti profetici – «fate and metaphisical aid» – che cospiranocontro la sua lealtà e la sua virtù. Riccardo non ha bisogno di esserespinto o convinto da qualcuno a compiere delitti ed è appagato giàdalla prospettiva di commetterne ancora, mentre Macbeth si lasciaassalire dall’orrore al solo pensiero dell’assassinio di Duncan e dal ri-morso subito dopo averlo perpetrato. In Riccardo non vi è umanitàe non vi sono legami. Per Riccardo il sangue è un passatempo, Mac-beth è istigato dalla necessità.

Il confronto tra le due figure di malvagi è in realtà funzionale al-la descrizione del modo in cui Edmund Kean interpreta entrambi iruoli. Dal testo alla scena, perché Hazlitt specifica che tale è la di-stinzione che noi ricaviamo dei due personaggi così come è presen-tata in Shakespeare. Invece Kean non li distingue come potrebbe (e

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dovrebbe). Il suo Richard si avvicina di più all’originale di quantofaccia con il suo Macbeth. Gli manca la poesia del personaggio, nonsembra affatto colui che ha incontrato le Weïrd Sisters. Non dovreb-be esserci nulla di teso in Macbeth, nessuna decisione mirata a pro-durre un comportamento. È vero, egli è dotato dell’energia di un’a-nima maschile, ma «subject to all the skyey influences»16.

Egli non è sicuro di nulla. Gioca con la fortuna ed è sconvolto econfuso da enigmi sovrannaturali. L’agitazione della sua mente è co-me il mare in tempesta. O ancora, come un leone al laccio, feroce,impetuoso e ingovernabile. Tornano in mente le parole di Victor Hu-go nel descrivere Macbeth:

Dire: Macbeth c’est l’ambition, c’est ne dire rien. Macbethc’est la faim. Quelle faim? la faim du monstre toujours pos-sible dans l’homme. Certaines âmes ont des dents. N’éveillezpas leur faim. […]Macbeth n’est plus un homme. Il n’est plus qu’une énergieinconsciente se ruant vers le mal. Nulle notion du droit dé-sormais; l’appétit est tout. Le droit transitoire, la royauté, ledroit éternel, l’hospitalité, Macbeth assassine l’un commel’autre. Il fait plus que les tuer, il les ignore. […]Enfin la catastrophe arrive, la forêt de Birnam se met en mar-che; Macbeth a tout enfreint, tout franchi, tout violé, toutbrisé, et cette outrance finit par gagner la nature elle-même;la nature perd la patience, la nature entre en action contreMacbeth; la nature devient âme contre l’homme qui est de-venu force17.

Nel quinto atto in particolare, il più movimentato e convulso,non vi è quel turbine vorticoso di immaginazione, il personaggio ap-picca quei lampi di genio di cui Mr Kean ha dato prova nella con-clusione del suo Riccardo. La scena resta ferma, le parti avrebberopotuto essere perfette in sé, ma non erano ben legate tra loro. Man-cava loro vitalità. Le pause nei discorsi erano troppo lunghe, sembra-va che l’attore stesse studiando la parte, piuttosto che interpretarla,cercando a tutti i costi di porre maggiore enfasi su ogni parola e per-

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WILLIAM HAZLITT LETTORE DI SHAKESPEARE

16 W. Shakespeare, Measure for Measure, atto III, sc. I, v. 9.17 V. Hugo, William Shakespeare, Èditions Flammarion, Paris 2003, pp. 221-2.

dendosi miseramente in se stesso, piuttosto che farsi trasportare dallagrandezza del personaggio. Il testo non è reso in maniera accurata.

In uno dei discorsi conclusivi del dramma, all’inizio della secon-da scena del secondo atto, Kean fallisce. Non sembra essere attraver-sato da quella pensosa malinconia che caratterizza l’interpretazionedegli stessi versi proposta da John Kemble. Il tono di Kemble ha insé qualcosa di retrospettivo, quasi un’eco del passato. Kean apparivatroppo limitato dinanzi alla gravità del personaggio. I suoi movi-menti erano troppo agili e mercuriali, egli combatteva più come unmoderno spadaccino che come un capitano scozzese dell’undicesi-mo secolo. Solo la sua caduta finale è degna di nota, perché cade colvolto in giù, come a voler nascondere la vergogna della propria scon-fitta. Le death-scenes di Riccardo e di Macbeth sono entrambe inter-pretate egregiamente da Kean, egli cade al pari di uno stato in rovi-na, come un re con tutt’intorno le sue insegne regali.

L’articolo si conclude con una nota di Hazlitt a proposito delledue interpretazioni migliori in assoluto di Kean: la terza scena delterzo atto nell’Otello e quella in Macbeth dopo la scena dell’assassinio.La prima è sicuramente lo sforzo più alto della sua arte, pressochéperfetta. In Macbeth, scrive Hazlitt, «He wanted height and dignityof presence, two prominent advantages that Kemble had», e tuttavia«not only the boxes, circles, pit and gallery were full, but the lobbiesand passages were crowded by those satisfied merely to hear Kean’svoice».

Nella scena dell’assassinio egli esercitò tutta la potenza del suo ge-nio per portare in scena il lavorio della mente di Macbeth. Chieder-si se il modo di comportarsi nella scena seconda dell’atto secondo diMacbeth sia quello di un re che commette un omicidio o quello diun uomo che commette un omicidio per diventare re, sarebbe anda-re troppo per il sottile. Come lezione di comune umanità, però, èstraziante. L’esitazione, lo sguardo confuso, il tornare il sé guardandole proprie mani insanguinate, il modo in cui la voce gli si ferma ingola, impedendogli di parlare, l’agonia, le lacrime, la forza della natu-ra superata dalla passione, sono al di là di ogni descrizione – o comerecita il testo inglese «beggared description», sfuggivano a qualunquetentativo di descrizione.

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Knock withinWhence is that knocking?How is’t with me when every noise appals me?What hands are here! Ha – they pluck out mine eyes!Will all great Neptune’s ocean wash this bloodClean from my hand? No, this my hand will ratherThe multitudinous seas incarnadine,Making the green one red.

Knock – Knock18

È il medesimo tormento evocato da De Quincey in quel saggiosuggestivo intitolato On the Knocking at the Gate, dedicato proprio al-la seconda scena del secondo atto, in cui il suono insistente dei colpicontro il portone del castello riporta Macbeth alla spaventosa realtàcome battiti di un cuore che torna a pulsare vita:

But in the murderer there must be raging some great stormof passion – jealousy, ambition, vengeance, hatred – whichwill create a hell within him; and into this hell we are tolook19.

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18 W. Shakespeare, Macbeth, atto II, sc. II, vv. 52-58.19 T. De Quincey, On the Knocking at the Gate in Macbeth, in Collected Writings, 14

vols., ed. by D. Masson, A&C Black, London 1897, vol. X, p. 391.

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È stato detto che la tragedia purifica le emozioni attraverso la pau-ra e la pietà. Ovvero, sostituisce il puro egoismo con l’empatia ver-so personaggi immaginari. Risveglia in noi interesse e curiosità ver-so il genere umano così come è, ci fa andare oltre noi stessi. Elevail grande, il remoto e il possibile a pari livello del piccolo, del vici-no, del reale. Rende l’uomo parte dell’umanità. Domina e attenuala pervicacia del suo temperamento. Gli insegna che ci sono e sem-pre ci sono stati altri come lui, glielo insegna mostrandogli, comeattraverso un vetro, ciò che gli altri hanno provato, pensato e fatto.Rivela gli anfratti del cuore dell’uomo. Non lascia che nulla ci siaindifferente. Stimola la nostra sensibilità tendendo al massimo lepassioni con la forza dell’immaginazione o con la lusinga delle cir-costanze e ci mette in guardia dai loro eccessi fatali mostrandocil’efferatezza del dolore e della crudeltà cui hanno condotto altri. Latragedia crea un equilibrio tra i sentimenti. Ci rende spettatori at-tenti nelle schiere della vita. Ingentilisce il genere umano. È unesercizio di umanità. Lo studio della poesia e delle opere di imma-ginazione è, di norma, parte importante di una buona educazione.Un’inclinazione per le arti liberali è indispensabile alla formazionedell’indole di un gentiluomo. Il solo studio della scienza è freddo emeccanico. Ci aiuta a comprendere ciò che è fuori da noi, mentrelascia i sentimenti inesplorati, o li confonde con i nostri miseri in-teressi dell’oggi. Otello è un esempio di queste considerazioni. Sti-mola la nostra compassione a un grado straordinario. La morale rac-chiusa nel dramma descrive gli affanni umani meglio di qualunquealtra opera shakespeariana. «Va dritta al cuore degli affanni dell’uo-

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mo»1. Certo la passione in Lear è più spaventosa e potente, ma nonha nulla di naturale o comune. Non raggiungiamo lo stesso gradodi partecipazione alle passioni descritte nel Macbeth. L’interesse perAmleto è più distaccato e introspettivo. Quello per Otello è, a untempo, sincero e coinvolgente.In questo dramma il vivido contrasto di caratteri è degno di nota

quasi quanto lo è la profondità delle passioni in esso descritte. Otelloil Moro, la gentile Desdemona, il perfido Iago, il buon Cassio e losciocco Roderigo rappresentano una varietà di personaggi intensa epalpabile come il contrasto di costumi tra le figure in un dipinto. Leloro qualità fuor dal comune impressionano l’occhio della mente alpunto che restano parte di noi anche quando non pensiamo alle loroazioni o ai loro sentimenti2. Questi personaggi e l’immagine che essiimprimono nella nostra mente sono quanto di più vario si possa im-maginare; la distanza tra loro è incolmabile: eppure i confini della co-noscenza e dell’immaginazione che l’autore raggiunge nel dar vita aqueste immense creazioni del suo genio sono più straordinari solodella verità e felicità con cui ha saputo identificare in modo unicoogni personaggio e amalgamare le loro differenti qualità insieme in ununico intreccio. Quale contrasto tra il personaggio di Otello e quellodi Iago: l’idea opposta che essi incarnano è resa ancor più intensa dal-la coerenza perfetta con cui i tratti di entrambi i personaggi sono scol-piti. Il farne uno nero e l’altro bianco, uno senza scrupoli e l’altro co-sì tragico, avrebbe soddisfatto il comune appetito di effetto e appaga-to l’ambizione di un qualunque caratterista. Shakespeare ha distinto idue personaggi cesellando ogni singola sfumatura in modo così abilee attento, come se l’intero successo dell’opera dovesse dipendere solodalla sua creazione. Invece, Desdemona e Emilia non sono pensate l’u-na in contrasto con l’altra. Entrambe sono, a giudicare dalle apparen-ze, personaggi della vita di tutti i giorni, diverse come possono esser-lo donne di diverso rango o condizione. La distanza tra i pensieri e isentimenti dell’una e dell’altra è evidente come quella tra l’incarnatodei loro mariti. Sarebbe impossibile non accorgersene. Il movimento della passione in Otello è del tutto diverso da quel-

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1 Il riferimento è alla dedica dei Saggi di Francis Bacon. 2 Cfr. W. Hazlitt, «Shakespear’s Exact Discrimination of Nearly Similar Charac-ters», in The Round Table (XX, 407).

lo di Macbeth. In Macbeth c’è uno scontro violento tra sentimenticontrastanti, tra l’ambizione e il pungolo della coscienza, dall’inizioalla fine del dramma: in Otello l’oscuro conflitto tra passioni contra-stanti è spaventoso, certo, ma piuttosto breve, e l’interesse scaturiscepiuttosto dalla alterna supremazia delle differenti passioni, il passag-gio totale e repentino dall’amore più appassionato e dalla fiducia piùcieca, all’inferno della gelosia e dell’odio. Non appena la vendettas’impossessa completamente della mente di Otello, non lo abbando-na più, anzi, si fa più salda ogni giorno che passa. La natura del Mo-ro è nobile, priva di sospetti, sensibile e generosa; ma l’indole è san-guigna e, una volta risvegliato dalla coscienza dei suoi errori, non cisarà rimorso o pietà che potrà placarlo fino a che non avrà dato sfo-go a tutta la sua rabbia e disperazione. Ed è proprio nel dar forma al-la sua nobile natura attraverso cambiamenti rapidi ma graduali, nelsuscitare passioni sempre più travolgenti nonostante tutti gli ostaco-li, nel dipingere il consumarsi del conflitto tra amore e odio, tene-rezza e risentimento, gelosia e rimorso, nello svelare la forza e le de-bolezze della natura umana, nel saper coniugare il pensiero più sub-lime e il dolore più profondo, nel far vivere i differenti impulsi cheagitano questo nostro essere mortali e, in fine, riversarli in quel ma-re profondo e infinito di passioni, impetuoso e travolgente, che «scor-re verso la Propontide e non conosce marea»3, è in tutto questo cheShakespeare ha liberato il suo genio e mostrato il suo dominio dellepassioni umane4. L’atto terzo di Otello è un capolavoro, non dell’in-telletto o della passione separati, ma delle due insieme, nella rappre-sentazione dei pensieri del personaggio insieme alla manifestazionedelle sue passioni, è il capolavoro dell’arte di saper tenere insieme ciòche si vede sulla superficie e il sotterraneo fluire dei sentimenti, congli scatti convulsi di un’irrefrenabile agonia, è il capolavoro del po-tere che infligge una tortura e deve, allo stesso tempo, patirla. Nonmostra solo lo scorrere tumultuoso delle passioni dissotterrate dalfondo dell’anima ma persino la più flebile corrente che increspa lasuperficie, risvegliata dall’immaginazione o dal dubbio maliziosa-

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3 W. Shakespeare, Otello, Atto III, sc. III, vv. 452-455. Dove non indicato diversa-mente, il riferimento ad atto, scena e versi è al testo di Otello.

4 Cfr. W. Hazlitt, «The Busy Body», in A View of the English Stage (V, 271).

mente insinuato da Iago. Il graduale avvicinamento alla catastrofe èdescritto magistralmente ad iniziare dal primo appassionato raccon-to del Moro della storia del suo amore, «delle magie e degli incante-simi che ha usato»5, passando per il suo inatteso e romantico succes-so, la soddisfazione nel provare un sentimento così forte, la tenerez-za senza riserve di Desdemona e quei gesti innocenti verso Cassioche accendono il dubbio instillato nella mente del suo coniuge dal-la perfidia di Iago e diventano veleno che lo intossica, fino a cheOtello perde del tutto il controllo e la sua rabbia potrà essere appa-gata solo dal sangue. Subito prima che Iago inizi a mettere in prati-ca il suo piano, Desdemona fa il suo ingresso sulla scena nell’atto diintercedere per Cassio con quella sua gioiosa spensieratezza di ami-ca mescolata alla fiducia nell’amore di Otello.

Ma come?Proprio per Michele Cassio, che ti accompagnavaquando mi facevi la corte, che tante volte ha presole tue difese quando ti rimproveravo,devo insistere tanto perché tu lo riceva? […] Non è una grazia quella che vi chiedo.È come se vi avessi pregato di mettervi i guanti,di nutrirvi bene, di ripararvi dal freddo,di stare, insomma, molto attentoalla vostra salute. Se mai dovessi chiederviqualche cosa che mi desse veramente la provadel vostro amore, […] sarebbe grave e pericolosa6.

La fiducia di Otello, in un primo momento indebolita solo da ve-late allusioni e insinuazioni, si risveglia alla vista di Desdemona,quando egli esclama:

Se mi tradisce, allora il Cielo si fa gioco di se stesso.Non posso crederlo7.

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5 Atto I, sc. III, v. 168.6 Atto III, sc. III, vv. 70-74 e vv. 76-83.7 Atto III, sc. III, vv. 277-278.

Ma di lì a poco, ripiegato sui suoi sospetti e cedendo alla pauradel peggio, la sua gelosia soffocante si fa furia ed egli torna da Iago achiedergli ragione, come bestia trafitta dalla freccia avvelenata delcacciatore. «Eccolo qua»8 e così via. In questo stato di esasperazione,dopo che i primi parossismi del suo dolore e della sua tenerezza glierano già sfuggiti in quella appassionata apostrofe, «E non sentivo ibaci di Cassio sulle sue labbra»9, Iago, con false calunnie e mostran-do alla mente del Moro le immagini più disgustose10, in un attimoscatena la tempesta delle sue passioni contro Desdemona e trascinaOtello in una tremenda agonia di dubbio e paura e in un sospiro egliabbandona tutto il suo amore e le sue speranze.

Ora mi rendo conto della realtà. Ecco, Iago:in un soffio, io disperdo nell’aria il mio folle amore.Così… è svanito!E ora, nera vendetta, esci dalla tua oscura tana.E tu, amore, cedi all’odio tiranno la coronae il trono che avevi nel mio cuore.Gonfiati, petto, delle lingue di serpenti di cui sei pieno!11

Da questo momento i suoi pensieri furibondi «non tornerannomai indietro, non si abbasseranno mai verso un sentimento di viltà»12finché la sua vendetta non sarà certa della sua preda, il doloroso rim-pianto e l’involontario ricordo del passato che attraversano la suamente nel pieno dei suoi oscuri scatti di ira, aggravano la coscienzadei suoi errori ma non infiacchiscono il suo scopo. In vero, lì doveIago gli mostra Cassio con il fazzoletto in mano che si fa beffe (co-sì egli crede) delle sue sventure, l’amarezza insopportabile dei suoisentimenti e quel senso di vergogna così acuto, fanno sì che torni alodare le bellezze di lei e ricada nella sua debolezza, «però, che pec-

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8 Atto III, sc. III, v. 329.9 Atto III, sc. III, v. 340.10 Si veda il passo che inizia con «È da escludere, intanto, la prima ipotesi: anchese fossero lascivi come capre, etc.», atto III, sc. III, vv. 401-402 e segg. Nota diHazlitt.

11 Atto III, sc. III, vv. 443-448.12 Atto III, sc. III, v. 457.

cato Iago! Oh che peccato!»13. Ad ogni modo, questo accesso d’a-more orchestrato da Iago serve solo ad affilare la vendetta e a fargliodiare sempre di più la sua Desdemona. Quando li vediamo parlare,la convinzione della sua colpa e la prova provata della sua doppiezzasembrano eccitare il suo risentimento e il suo odio verso di lei; ep-pure nella scena immediatamente precedente quella della morte dilei, il ricordo del loro amore lo assale in tutta la sua dolcezza e la suaforza ma, appena Desdemona muore, egli all’improvviso dimenticagli errori commessi nella consapevolezza improvvisa e inconsolabiledi averla persa.

Mia moglie! Ma che moglie? Io non ho più moglie!O insopportabile, terribile momento!14

Ciò accade prima che venga a sapere dell’innocenza di lei, ma su-bito dopo il rimorso sarà spaventoso quanto feroce è stata la vendet-ta, e solo la disperazione immobile della morte potrà placarlo. Il suodiscorso di addio, pronunciato prima di togliersi la vita, nel qualeespone al senato le ragioni che l’hanno indotto a uccidere sua mo-glie, fa da controcanto a quel primo discorso in cui egli aveva dato«il resoconto semplice e chiaro del suo amore»15. Una conclusionedegna di un tale inizio. Solo l’indole sincera e generosa di Otello potrebbe aggiungere

qualcosa alla pietà che proviamo per il suo destino così ingiusto.Quando Iago muove i primi passi e inizia a tradire la loro fidata ami-cizia, Otello risponde:

Certo non divento gelosose mi vengono a dire che mia moglie è bella,che è un’ospite cordiale a tavola, che ama la compagnia,che è affabile nel parlare, che sa cantare,danzare e suonare bene. Se una donna è virtuosa,queste doti sono ancora più apprezzabili.E sebbene i miei meriti siano pochi, non per questo

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13 Atto IV, sc. I, v. 196. 14 Atto V, sc. II, vv. 98-99.15 Atto I, sc. III, v. 91.

io potrò sospettare o temere della sua fedeltà.Infatti, essa aveva occhi per vedere, eppure ha scelto me16.

La natura di Otello è confermata meravigliosamente (e con sem-plicità disarmante) da quanto Desdemona stessa dice di lui ad Emi-lia subito dopo aver smarrito il fazzoletto, il primo pegno del loroamore.

Credimi, avrei preferito perdere una borsapiena di scudi: e se il nobile Moronon fosse puro di cuore e privo di sciocche gelosie,basterebbe questo a fargli nascere dei sospetti.

EmiliaPerché, non è geloso?

DesdemonaChi, Otello? Credoche il sole della terra dove è natoabbia prosciugato in lui questi umori17.

In un breve discorso di Emilia si possono leggere i primi segnidell’incostanza delle passioni di cui raramente leggiamo se non inShakespeare. Non appena Otello decide di uccidere sua moglie e ledice di congedare il servo per la notte, lei risponde:

Va bene, mio signore.

EmiliaCome va, ora? Mi pare più sereno18.

Shakespeare in meno di un verso ha racchiuso ciò che alcuni au-tori avrebbero raccontato con un’infinità di parole. Il personaggio di Desdemona è inimitabile sia di per sé, sia nel

suo essere il contraltare dell’infondata gelosia di Otello e della folle

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16 Atto III, sc. III, vv. 183-189.17 Atto III, sc. IV, vv. 25-31.18 Atto IV, sc. III, vv. 10-11.

cospirazione di cui è vittima innocente. La sua bellezza e le sue gra-zie vengono ammirate solo di riflesso; vediamo «il volto di lei attra-verso i suoi pensieri»19, la sua indole prevale continuamente sulla suafigura:

Una ragazza timida,così quieta e tranquilla che arrossivaperfino di se stessa20.

Cassio a un tratto le fa un complimento molto bello. QuandoDesdemona sbarca a Cipro dopo la tempesta, lui esclama trionfal-mente:

La tempesta, le alte onde, i venti che soffiano urlando […]come se avesseroil sentimento della bellezza, hanno rinunciatoalla loro natura implacabile per lasciar passaresalva la divina Desdemona21.

In generale, come accade per la maggior parte dei personaggifemminili di Shakespeare, si perde di vista il suo fascino per volgerelo sguardo alla sua devozione e al suo affetto maritale. «Ella è legataanche alle esigenze della condizione del suo signore»22 e agli «onorie al valore di Otello ha consacrato il suo cuore e la sua felicità»23, af-ferma la stessa Desdemona e segue alla lettera le sue parole. La veri-tà del suo personaggio, in cui timidezza e audacia convivono, è me-ravigliosa. Si può dire che l’eccesso delle sue risoluzioni e la pertina-cia dei suoi sentimenti scaturiscano dalla sua stessa natura. Implicanouna fiducia incondizionata nella purezza delle sue stesse intenzioni,la resa totale dei suoi timori al suo amore e lo stringersi in un nodo(di anima e cuore) al destino di un altro. Eccezion fatta per l’iniziodelle sue passioni, che è eccentrico e caparbio (sebbene anche que-sto potrebbe essere in linea con la sua incapacità di resistere alla sua

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19 Cfr. Atto I, sc. III, v. 250.20 Atto I, sc. III, vv. 94-96.21 Atto II, sc. I, v. 69 e vv. 72-74.22 Atto I, sc. III, vv. 248-249. 23 Atto I, sc. III, vv. 251-252.

indole24), il suo personaggio è tutto nell’avere desideri suoi propri ecome unico suggeritore l’obbedienza. La sua svolta romantica è solola conseguenza di quella parte della sua natura domestica e praticache, invece di seguire Otello in guerra, avrebbe fatto volentieri inmodo che rimanesse «a casa, come una larva in riposo»25, se il suoconsorte fosse potuto restare con lei. Il suo abbandono per amore ela sua angelica mitezza di temperamento non vengono meno nep-pure alla fine. Le scene in cui piange e cerca di spiegarsi l’allontana-mento di Otello da lei sono di una bellezza sublime. Dopo che luil’ha colpita e ha gridato il suo nome, dice:

Mio caro Iago, che cosa devo fareper riconquistare il mio signore? Mio buon amico,andate da lui. Ve lo giuro sulla luce del cielo:io non so proprio come abbia potuto perderlo.Ecco, m’inginocchio e dico: che io non abbia più pacese la mia volontà, con parole, pensieri e azioniha offeso il mio amore; se gli occhi, le orecchiee tutti i miei sensi provarono piacerevedendo un altro uomo; se non amo più Otello, come sempre l’ho amato e sempre l’ameròcon tutta la mia tenerezza, anche se oraegli mi scaccia da sé come una mendicante. La crudeltà può fare molto, ma la sua crudeltàpuò solo distruggermi la vita, non diminuireil mio amore. […]

IagoCalmatevi vi prego. Tutto dipendedal suo stato d’animo. È preoccupato degli affari di Stato.

DesdemonaFosse solo per questo…26

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24 «Iago: Sì, troppo tenera. Otello: Già, è vero», atto IV, sc. I, vv. 194-195. Nota diHazlitt.

25 Atto I, sc. III, vv. 253-254.26 Atto IV, sc. II, vv. 147-160 e vv. 164-166.

La scena con Emilia e la canzone del Salice sono, entrambe, bel-lissime e mostrano la capacità infinita dell’autore di modulare la pas-sione, in tutti i suoi toni e in ogni circostanza.

EmiliaVorrei che non lo aveste mai conosciuto.

DesdemonaMa io no. Di lui amo tutto, e anche l’asprezza, i rimproveri, il malumore, sono per me segni di attenzione e di benevolenza27.

Né gli infondati sospetti di Otello né il tradimento di Iago met-tono Desdemona sotto una luce più dolce o interessante di quantoaveva fatto la conversazione (per metà seria e per metà scherzosa) av-venuta per caso tra lei e Emilia sull’atteggiamento comune delledonne verso i loro mariti. Questo dialogo ha luogo subito prima del-l’ultima scena fatale. Se solo Otello l’avesse sentito, l’intera catastrofesarebbe stata evitata, ma il dramma ne avrebbe risentito. Il personaggio di Iago è uno degli eccessi del genio di Shake-

speare. Alcuni, banalmente, pensano che il suo personaggio sia deltutto irreale perché la sua malvagità non ha motivo d’esistere. Sha-kespeare, che era filosofo raro quanto raro era come poeta, la pensa-va diversamente, sapeva che la bramosia di potere fa parte della na-tura dell’uomo. Lo aveva capito osservando i bambini ruzzare nelfango o uccidere mosche per gioco ed era stata una prova altrettan-to chiara, o forse migliore, di una dimostrazione geometrica28. Iago,infatti, appartiene a quella categoria di personaggi, comuni a Shake-speare e, allo stesso tempo, tipici della sua arte, la cui arguzia è pun-gente e veloce quanto i loro cuori sono duri e crudeli. Iago è di cer-to un esempio estremo di questa categoria, cioè a dire: un uomo ma-lato, del tutto indifferente a qualsivoglia morale (buona o cattiva chesia) o, meglio, con una spiccata preferenza per la seconda, poiché siconiuga più facilmente con la sua inclinazione naturale e dà maggiorardore ai suoi pensieri e scopo alle sue azioni. Il suo destino gli è in-

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27 Atto IV, sc. III, vv. 18-21.28 Cfr. W. Hazlitt, «On Mr Kean’s Iago», in The Round Table (IV, 15).

differente quanto, o quasi, quello altrui, è pronto a correre qualsiasirischio per un vantaggio dubbio e insignificante ed è lui stesso la vit-tima della sua ossessione: una voglia irrefrenabile di azioni pericolo-se e ardite. Il nostro alfiere29 è un filosofo che sa quanto una bugia ingrado di uccidere sia più efficace di una qualunque allitterazione oantitesi; che pensa che un esperimento fatale per la pace di una fa-miglia sia meglio che guardare al microscopio il cuore palpitante diuna pulce, è colui che trama la rovina dei suoi amici come eserciziodi arguzia e pugnala uomini nell’oscurità per non annoiarsi. La suafelicità dipende dal successo della sua cattiveria, la sua quiete dal do-lore che è riuscito a infliggere. È un amante della tragedia nella vitareale e, invece di impiegare la sua immaginazione su personaggi in-ventati o su fatti da tempo dimenticati, egli si incammina sul sentie-ro più audace e terribile, cioè tramare intrighi a casa propria, affi-dando le parti principali ai suoi amici più cari e alle persone a lui piùvicine e fa le prove della sua tragedia con grande scrupolo, sempreattento e determinato. Ve ne daremo solo un esempio o due.Uno dei discorsi tipici del suo personaggio è quello pronunciato

subito dopo il matrimonio di Otello:

RoderigoSe anche questa gli va bene, vuol dire che quel labbrone ha una fortuna sfacciata!

IagoChiamate il padredella ragazza! Scagliatevi contro il Moro;non dategli tregua, avvelenate la sua gioia.Gridate per le strade la sua vergogna.Scatenategli contro i parenti della ragazza;infestate di mosche il clima felice in cui vive!E se nonostante tutto la sua gioia deve rimanere gioia,copritela di tanti fastidi in mododa farle perdere colore30.

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29 Atto I, sc. III, v. 284.30 Atto I, sc. I, vv. 66-73.

Nel passaggio successivo, la sua immaginazione si infervora nellacattiveria che sta tramando, ed esplode selvaggia e impetuosa:

RoderigoEcco la casa di suo padre. Ora lo chiamo io!

IagoSì, ma chiamatelo con grida di paura e di disperazionecome quando, di notte, d’improvvisoscoppia un incendio in una grande città31.

Uno dei suoi argomenti preferiti, sul quale certo non si risparmiae la cui musa ispiratrice è la sua malinconia, è la sproporzione nelconflitto tra Desdemona e il Moro. È un indizio sul personaggio diDesdemona che non si può fare a meno di cogliere. Ne abbiamo unesempio già nella prima scena, quando egli deve far ricorso ad essoper rispondere a Roderigo che, per controbattere alle sue insinua-zioni su Desdemona, aveva detto:

Non posso crederlo; essa è soddisfatta della sua beata condizione disposa.

IagoBeata un corno! Il vino che beve è fatto d’uva. Se fosse stata beatanon avrebbe mai sposato il moro32.

E ancora, più in là, con ardore fin più deciso e conseguenze fata-li, quando pianta le sue insinuazioni come seme nel petto di Otello.

OtelloEppure, come la natura sviata dalle sue leggi…

IagoGià, ecco il punto. Come spiegate il suo ardirenei vostri confronti, e intanto, il suo rifiuto

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31 Atto I, sc. I, vv. 74-77.32 Atto II, sc. I, vv. 247-251.

alle proposte di matrimonio di molti giovanidella sua città, della sua razza e della sua stessa condizione sociale? Etcetera33.

È terribilmente insinuante. Iago stravolge completamente la na-tura di Desdemona. È indubbio che solo il genio di Shakespeare ab-bia saputo preservare tutta la grazia e la profondità della parte e, ad-dirittura, aggiungervi un’eleganza e una dignità, dirette conseguenzedelle circostanze che lei si trova ad affrontare34. L’abituale licenziosi-tà delle battute di Iago non dipende dal piacere che trae da immagi-ni lascive e volgari, ma dal desiderio sfrenato di far venir fuori la par-te peggiore di ognuno per dimostrare di essere un avversario invin-cibile. Non ha neppure una goccia del «latte dell’umana bontà»35. Lasua immaginazione rifiuta qualunque cosa non sia fatta degli ingre-dienti più disgustosi, la sua mente digerisce solo veleno. La virtù e labontà o qualsiasi cosa abbia anche solo un minimo «sapore di salvez-za»36 è nauseabondo e insipido per il suo appetito corrotto; rigettapersino chi crede nella sua integrità, come fosse un affronto alla suavirilità. Per questo, quando Desdemona e Otello si incontrano, Iagoesclama: «Ora siete bene accordati, ma, sulla mia parola, saprò allen-tare io le corde che fanno questa musica»37, l’onestà non gli si addi-ce affatto. Nelle scene in cui cerca di piegare Otello ai suoi piani egliè, in egual misura, cauto, insidioso, oscuro e calcolatore. Nel famosodialogo del terzo atto, quando inizia a mettere in atto il suo disegno,non crederemmo mai che qualcosa nella sua abilità di dissimulazio-ne e finzione possa mai tradirlo.

IagoMio nobile signore –

OtelloChe vuoi, Iago?

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33 Atto III, sc. III, vv. 227-230.34 Cfr. W. Hazlitt, «Mr Kean’s Iago», in A View of the English Stage (V, 217).35 W. Shakespeare, Macbeth, atto I, sc. V, v. 16.36 W. Shakespeare, Amleto, atto III, sc. III, v. 93.37 Atto II, sc. I, vv. 197-199.

IagoQuando facevate la corte alla signora,Michele Cassio sapeva dei vostri incontri?

OtelloCerto; ha sempre saputo tuttofin dal primo giorno; perché me lo domandi?

IagoSolo per chiarire un mio pensiero.Nulla di male.

OtelloQuale pensiero, Iago?

IagoNon credevo che l’avesse conosciuta prima.

OtelloSicuro; e spesso ci faceva da intermediario.

IagoDavvero?

OtelloDavvero, sì, davvero! Che c’è di male? Non lo credi un uomo leale?

IagoLeale, mio signore?

OtelloLeale, sì, leale.

IagoPer quello che ne so, mio signore…

OtelloMa che cosa pensi?

IagoChe cosa penso, signore?

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OtelloPerdio, mi fa l’eco!Temporeggia come se avesse nella mente un’ideamostruosa, troppo orribile per farmela conoscere38.

Le battute d’arresto e le pause, il sotterraneo flusso di cattiveriasotto la maschera dell’amore e dell’onestà, quell’inquieta cautela, lasua fredda impassibilità, se così la si può chiamare, la sua appassiona-ta ipocrisia sottolineata ad ogni verso, raggiungono la perfezione inquella straordinaria esplosione di finta indignazione nel momento incui Otello mette in dubbio la sua sincerità.

Misericordia! Che il Cielo mi perdoni!E siete un uomo, voi? Avete anima e intelligenza?Dio sia con voi. Riprendete pure la caricache mi avete affidato. Povero sciocco che non sono altro!Buono solo a far sembrare colpa la mia onestà! O mondo infame! Prendi nota, prendi nota, o mondo,che è pericoloso essere onesti e leali.Vi ringrazio di questo insegnamento;e d’ora in poi non voglio avere più amici,se dall’amicizia nascono simili pericoli39.

Se Iago è odioso quando lo vediamo all’opera nelle sue macchi-nazioni, all’apice dei suoi sotterfugi, forse lo è ancor di più quandonon ha più niente da fare e riusciamo a vedere tutto il vuoto del suocuore. Quando Otello cade nel deliquio, la sua indifferenza è diabo-lica nella sua perfezione:

IagoCome vi sentite, generale? Avete forse battuto la testa?

OtelloTi prendi gioco di me?

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38 Atto III, sc. III, vv. 92-107.39 Atto III, sc. III, vv. 372-379.

IagoPrendermi gioco di voi? Ma no, per carità!40

Persino se dovesse servire a mettere in risalto la virtù e la gene-rosità di altri personaggi del dramma, una parte simile difficilmentesarebbe tollerata, non fosse altro che per il suo indefesso lavorio e perle sue risorse inesauribili, dettaglio che devia l’attenzione dello spet-tatore (e quella del personaggio) dallo scopo che ha, per soffermarsipiuttosto sui mezzi attraverso cui lo raggiunge. Edmund il Bastardoè un personaggio di questo tipo, posto in circostanze meno eclatan-ti. Zanga41 è solo una sua volgare caricatura.

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40 Atto IV, sc. I, vv. 60-61.41 Protagonista di The Revenge di Edward Young (1683-1765).

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Tra il mese di ottobre del 1946 e il maggio del 1947, Auden tenneun ciclo di lezioni shakespeariane alla New School for Social Re-search di New York. L’evento fu annunciato dalle pagine del «NewYork Times», il poeta e critico letterario avrebbe letto tutte le operedi Shakespeare in ordine cronologico. Si racconta che Auden, fedelea un’idea della critica come «conversazione dal vivo», nel commen-tare i testi non seguisse nulla di più di qualche foglio di appunti. Nonvi sono manoscritti delle sue lezioni shakespeariane, i testi a noigiunti nascono dal confronto tra gli appunti di alcuni suoi studenti.

Il 12 marzo 1947 fu la volta di Otello. Punto di partenza per af-frontare la storia del Moro di Venezia, il confronto tra la tragedia gre-ca e quella shakespeariana. La sostanza tragica del personaggio greco èla hybris, spiegava Auden, non semplicemente l’orgoglio, ma la con-vinzione di essere onnipotente, pari a un dio. E la tragedia consistenella punizione divina di un uomo che così si sente. L’invidia degli deisi ridesta quando un potente – che da loro trae il suo potere – pre-tende di farsi uguale a loro. Gli dei mostrano agli eroi che tale ugua-glianza è impossibile. Nella tragedia shakespeariana, continuava il cri-tico, l’orgoglio è la manifestazione di una mancanza di sicurezza, diun’ansia dovuta a carenza di fede, di una sfida lanciata ai propri limitiin quanto essere umano. L’orgoglio è una forma di disperazione.

Esistono due tipi di disperazione, quella di chi rifiuta di essere sestesso e quella di chi invece accetta di essere se stesso. Gli eroi uffi-ciali delle tragedie di Shakespeare sono uomini passionali che nonvogliono essere se stessi, le loro passioni rappresentano il tentativo dinascondere a se stessi la propria identità. L’altro tipo di disperazioneè quello di Iago, un eroe tragico privo di passione che non vuole ar-rendersi a quello che sa, non chiede di meglio che essere se stesso, si

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conosce bene e rifiuta di cambiare, di collegarsi affettivamente ad al-tri, ostinandosi a restare fuori dalla comunità. Iago ha con gli altri so-lo rapporti negativi.

Tutte le grandi tragedie shakespeariane dibattono in primo luo-go il tema dell’ansia e della sicurezza e in secondo luogo quello del-la libertà e della necessità. Nella tragedia greca la compassione è det-tata dall’ineluttabilità del destino dell’eroe. Nella tragedia shakespea-riana suscitano compassione le scelte compiute dall’eroe, perchéavrebbe potuto scegliere altrimenti.

Nell’Otello sono due i possibili atteggiamenti sbagliati che i per-sonaggi assumono nei confronti degli eventi: o ne eludono il reale si-gnificato o soccombono al loro impatto. Brabanzio avrebbe potutovietare a Desdemona di ascoltare i racconti di Otello, Cassio avreb-be potuto non ubriacarsi, Emilia non avrebbe dovuto dare il fazzo-letto a Iago, Desdemona non avrebbe dovuto necessariamente men-tire dicendo di averlo perso, e così via.

L’opera soffre di una certa contraddittorietà a livello di interessedrammaturgico. Shakespeare iniziò a scrivere una tragedia su un uo-mo in preda alla gelosia. Iago era solo uno strumento, se pure neces-sario. Nel corso della stesura Shakespeare si interessò al problema delmale perseguito in sé per sé e non per tornaconto personale. Tale slit-tamento di interesse fa retrocedere Otello a personaggio secondarioe fa diventare Iago dominante per l’intera opera.

Shylock, Riccardo III, Claudio, Proteo, Oliviero. Nessuno si fidadi loro. Non appena mettono piede sul palco, pensiamo ‘ecco il cat-tivo’. La singolarità di Iago è nella fiducia che riscuote da tutti, per-sonaggio machiavellico in grado di manipolare chi incontra.

Generalmente gli attori che interpretano Iago non convinconoperché lo interpretano come un individuo sinistro, un villain tradi-zionale, al quale nessuno presta fede. Iago invece deve essere sempli-ce e per nulla appariscente, nascosto dietro un aspetto apparente-mente onesto. Allo stesso tempo deve dominare la tragedia con la suaforza di volontà. Inoltre Iago non dice nulla di interessante da unpunto di vista poetico o intellettuale. Diversamente dai monologhidi Amleto, quelli di Iago non rivelano nulla. Per rendere efficaci imonologhi di Iago bisognerebbe recitarli come se fossero di Ariel odi Puck, con un tocco di follia e di allegria dirompente.

Anche il racconto di Hazlitt dell’Otello shakespeariano parte dauna riflessione sulla natura della tragedia. «It has been said», inizia con

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una voce dal passato, Hazlitt non lo dice ma è Aristotele. Nella suaPoetica il filosofo greco scrive che la tragedia purifica i sentimenti tra-mite la paura e la compassione. «That is», come dire, aggiunge subitoil critico, con un movimento rapido, ma si accorge di non poter rac-chiudere in un unico giro di frase i riflessi della catharsis aristotelica.Non basta un solo esempio per spiegare. Sono molte le forme e di-versi i modi attraverso i quali la tragedia esercita il suo potere sull’a-nimo umano. Allontana il nostro egoismo sostituendolo con un prin-cipio di partecipazione, Hazlitt lo definisce «imaginary sympathy», lapossibilità di provare compassione per qualcuno o qualcosa, anche sesolo con l’immaginazione. La tragedia ci permette di interessarci al-l’umanità che è intorno a noi – e sempre la prima persona plurale ri-torna a coinvolgere i lettori –, quel che sembrava grande, lontano epossibile, si fa piccolo, vicino e reale. La tragedia insegna all’uomo unprincipio di appartenenza, mostrandogli, come riflesse in uno spec-chio, le storie di altri uomini che hanno provato emozioni, pensato,agito, prima di lui e come lui. La tragedia crea un equilibrio nei sen-timenti. Scongiura gli eccessi perché rivela le sofferenze alle quali so-no stati condotti coloro che li hanno seguiti. Ci fa spettatori pensosinelle liste dei viventi. Disciplina la nostra umanità.

Ancora qualche nota di carattere generale per poi aprire la via al-l’analisi della tragedia shakesperiana. Continua il critico: lo studiodella poesia e della letteratura – «works of imagination» – è alla basedella buona educazione di un gentiluomo. La scienza è qualcosa dimeccanico, un puro esercizio per la ragione. Ci insegna a osservare eanalizzare quel che è al di fuori di noi, suscita un interesse passegge-ro ma non coinvolge i sentimenti.

Ecco il passaggio atteso. Otello, scrive Hazlitt, è la dimostrazionedi quanto illustrato fin qui. Stimola la nostra «sympathy» ad un gra-do straordinario. Trasmette una morale con un riferimento strettissi-mo alle questioni della vita umana, più di quanto avvenga in qua-lunque altra tragedia shakespeariana. Ritornano in un rapido con-fronto, subito dopo Otello, le altre tre grandi opere tragiche elencatein apertura del saggio su Macbeth, stavolta però a sottolinearne lemancanze. In Lear il tono delle passioni è terribile, soffocante, e diconseguenza meno naturale, meno quotidiano. In Macbeth non vi èun senso di partecipazione altrettanto forte. In Amleto è come se se-guissimo gli eventi da lontano, il nostro interesse è solo ‘riflesso’. In-vece in Otello il nostro coinvolgimento è immediato e profondo.

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L’intensità della passione descritta è quasi paragonabile al con-trasto fra i personaggi: il Moro, la gentile Desdemona, il villain Iago,il buon Cassio, il fool Roderigo, presentano una varietà di caratteritalmente chiara da far pensare alle differenze di costume tra le figu-re di un dipinto. Le loro qualità distintive sono così evidenti all’oc-chio della mente che, pur non pensando alle loro azioni, l’idea del-le loro ‘persone’ è più presente che mai1. Il drammaturgo pone im-mense distanze tra i protagonisti dell’Otello per poi far sì che si in-contrino tutti in un’unica storia, «he has blended their differentqualities together», dove to blend fa pensare a profumi e miscele diessenze odorose.

Iago e Otello sono distinti in modo straordinario. La scelta deicolori, il bianco, il nero, insieme all’idea di rendere l’uno «unprinci-pled», l’altro «unfortunate», sarebbero bastate a soddisfare le comuniambizioni di un caratterista. Shakespeare va molto oltre, arricchisce ipersonaggi di sfumature così precise e sottili da rivelare ad ognisguardo nuovi particolari. È così anche nella caratterizzazione diEmilia e Desdemona. Nonostante non fosse necessario creare tra ledue donne un forte contrasto, le loro menti, i loro pensieri, sono de-scritti in maniera differente, al pari del colore della pelle dei loro ma-riti.

Ancora un paragone: in Macbeth una lotta violenta tra forze con-trarie, tra l’ambizione e i pungoli della coscienza, percorre il dram-ma dal principio alla fine. In Otello l’interesse principale è piuttostonell’alternarsi di passioni differenti. Non vi è conflitto, non vi è com-presenza. Un sentimento segue l’altro. Secondo un principio di so-stituzione, non di antitesi. Dove prima era amore, ora è odio. Dov’e-ra fiducia, ora è sospetto.

Passaggi rapidi e convulsi, dalla tenerezza al risentimento, dallagelosia al rimorso, rivelano al tempo stesso la forza e la debolezzadella natura di Otello e della natura umana, uniscono il pensiero piùsublime all’angoscia del dolore più sottile, muovono i distinti impul-si che agitano le nostre spoglie mortali, fino a mescolare ogni cosa –e ritorna il verbo to blend – in un fluire di passioni che non conosce

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1 Cfr. W. Hazlitt, «Shakespear’s Exact Discrimination of Nearly Similar Charac-ters», in The Round Table (XX, 401).

marea, come Shakespeare ha mostrato con la sua incomparabile mae-stria di poeta e drammaturgo.

Il terzo atto segna il punto d’incontro tra l’attenta caratterizza-zione dei personaggi e l’espressione delle loro passioni, tra apparen-za e realtà, tra la capacità di infliggere torture e la pena di esserne vit-time. È un crescendo di possibilità che sembra non avere confine.

La tenerezza di Desdemona e il suo innocente insistere a favoredi Cassio irritano i sospetti instillati nella mente di suo marito dallaperfidia di Iago. Otello, avvelenato, perde il controllo di sé e la suarabbia potrà essere calmata solo dal sangue. Iago approfitta dello sta-to di disperazione del Moro e con calunnie e immagini sconcertan-ti fa in modo che la tempesta di passioni venga diretta contro De-sdemona e non contro di sé. Tale è il dubbio, tale è la paura, cheOtello cede alle insinuazioni del suo luogotenente e, come in un so-spiro, abbandona tutto il suo amore e tutte le sue speranze nel pro-nunciare i versi:

Now do I see ’tis true. Look here, Iago;All my fond love thus do I blow to heaven.’Tis gone.Arise, black vengeance, from thy hollow cell!Yield up, O love, thy crown and hearted throneTo tyrannous hate! Swell, bosom, with thy fraught,For ’tis of aspics’ tongues!2

Da questo momento in poi Otello sarà incapace di tornare in-dietro. L’idea della vendetta sarà il suo unico obiettivo. Nelle paroledi Shakespeare citate dal critico, la rabbia del protagonista «neverlook back, ne’er ebb to humble love». Involontariamente il Moroinizia a ripercorrere il passato e a rileggerlo nell’ottica del sospetto edel tormento. Tutto conduce all’infedeltà di Desdemona e al com-piersi di un destino luttuoso. È interessante notare, scrive Hazlitt, co-me nel personaggio di Otello, ad un’insostenibile amarezza e ad unestremo senso di vergogna, si aggiunga un inatteso tratto di esitazio-ne. Torna in mente Lady Macbeth dinanzi al re addormentato.

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2 W. Shakespeare, Othello, atto III, sc, III, vv. 443-449.

Iago ha avvelenato i suoi pensieri e ancora Otello esclama: «Butyet the pity of it, Iago! O! Iago, the pity of it, Iago!», come se nonpotesse credere fino in fondo di aver perduto, o di essere ormai con-dannato a perdere la propria donna, la propria sposa. Esitazione chenella seconda scena del quinto atto, immediatamente prima di to-gliersi la vita, esplode nel ricordo dell’amore per Desdemona. Un so-lo verso, indimenticabile. In dieci parole appena, quattro volte ripe-tuta la parola wife – «My wife! my wife! what wife? I have no wife»–, una parabola discendente dalla presenza all’assenza, dall’apparte-nenza all’estraneità.

Otello non è ancora sicuro dell’innocenza di Desdemona, e an-che qui, come già nel terzo atto, nei dialoghi con Iago, forse avreb-be preferito non sapere. Il suo rimorso è terribile, quanto lo è statala sua vendetta. La sua disperazione è fatale. Tra il primo discorso pro-nunciato da Otello e il suo discorso d’addio vi è perfetta corrispon-denza, scrive Hazlitt, la conclusione del dramma è degna del suo ini-zio. Franchezza e generosità della natura del Moro trovano confermanel momento in cui, alla domanda di Emilia a proposito della gelo-sia, Desdemona risponde con un candido «Who he?»; e ancora, sot-tolinea il critico, vi è un verso, o meglio, parte di un verso pronun-ciato da Emilia, in cui Shakespeare ha infuso quel che altri autoriavrebbero diluito «into ten set speeches». È la terza scena del quartoatto, Otello, prima di allontanarsi con Lodovico e il loro seguito, rac-comanda a Desdemona di andare subito a letto e di lasciare libera lasua dama di compagnia. Emilia, rimasta sola con la sua signora, dopoaverle domandato «How goes it now?», aggiunge di aver notato untratto di serenità sul volto del Moro: «He looks gentler than he did».Un tocco da maestro se, ancora una volta, immaginiamo il momen-to in cui simili parole superano le assi del palcoscenico per raggiun-gere il pubblico. Gli spettatori sanno che sta per compiersi un delit-to spaventoso, sanno che Otello avrebbe voluto avvelenare Desde-mona e invece seguirà lo spietato suggerimento di Iago: «Strangle herin her bed, even the bed she hath contaminated», e anche in loroShakespeare crea un istante di esitazione. Chissà cosa ha intravistoEmilia nell’aspetto del Moro per parlarne in quel modo.

Il Moro, che ha il colore della notte, sceglie la notte per toglierela vita, in una corrispondenza precisa tra intenzioni, oggetti, prota-gonisti, perfezione che ritorna nelle parole di Hugo:

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Othello est la nuit. Et étant la nuit, et voulant tuer, qu’est-cequ’il prend pour tuer? Le poison? la massue? la hache? le co-uteau? Non, l’oreiller. Tuer, c’est endormir. Shakespeare lui-même ne s’est peut-être pas rendu compte de ceci. Le créa-teur, quelquefois presque à son insu, obéit à son type, tant cetype est une puissance. Et c’est ainsi que Desdemona, épou-se de l’homme Nuit, meurt étouffée par l’oreiller, qui a eu lepremier baiser et qui a le dernier souffle3.

Hazlitt prosegue tracciando un ritratto di Desdemona, vittima in-nocente di una folle congiura, figura inimitabile, in particolare nelcontrasto con Otello e con la sua infondata gelosia. Le sue grazieesteriori sono ammirate solo indirettamente, il suo carattere predo-mina sulla sua persona. Un carattere che non ha una propria auto-noma volontà, nulla che la spinga al di là della propria obbedienza.La sua rassegnazione e il suo temperamento angelico non la abban-donano neppure nel momento in cui lamenta l’allontanamento el’incomprensibile estraneità del Moro nei suoi confronti. In Desde-mona timidezza e coraggio si fondono nella totale devozione perOtello, espressione di un legame, di un fitto intreccio di sentimentie intenzioni che il critico descrive bene come «a knitting of herselfto the fate of another».

Il dialogo tra Emilia e Desdemona, con cui procede la terza sce-na del quarto atto, racconta in maniera profonda e sincera l’amore diDesdemona per Otello. Scrive Hazlitt, in un’ipotesi singolare, che seil Moro avesse udito per caso lo scambio di battute tra le due don-ne, avrebbe sicuramente evitato la catastrofe, ma altrettanto sicura-mente ne avrebbe sofferto la bellezza tragica del dramma.

Infine Iago. «One of the supererogations of Shakespeare’s genius».Quasi vi fosse un gusto particolare nella scelta del critico di descri-vere, per ultima, la figura più complessa, il personaggio più inquie-tante. Come per concedersi uno spazio più ampio, senza più con-fronti, senza condizionamenti. Tutti hanno avuto la loro parte. Oratocca a Iago.

Hazlitt in prima battuta contesta l’idea che il personaggio di Ia-go possa essere definito «unnatural», mosso da una cattiveria priva di

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3 V. Hugo, Shakespeare, cit., p. 223.

sufficienti ragioni, con un probabile riferimento alla «motiveless ma-lignity» descritta da Coleridge. Shakespeare la pensava diversamente,perché sapeva che vi sono dei sentimenti innati nell’uomo, uno diessi è l’amore per il potere, che è solo un altro nome per descriverel’interesse per il male. Basterebbe osservare dei bambini ruzzare nelfango o uccidere mosche per gioco.

Iago appartiene a una categoria di personaggi che hanno mentitanto acute e vivaci quanto i loro cuori sono duri e incalliti. Certo,nel suo personaggio vi sono caratteristiche portate all’estremo, comese il corso dei suoi pensieri fosse il risultato di una «diseased intel-lectual activity», di qualcosa di insano, che lo conduce alla piena eperfetta indifferenza nei confronti del bene e del male, o meglio, scri-ve Hazlitt, ad una strana e perversa preferenza per il secondo, che piùsi intona alle sue attitudini, alla sua mente, alle sue azioni. Il propriodestino non conta e neppure quello degli altri. E non contano i pro-getti astratti, le pure ipotesi, le eventualità. Conta solo il male inflit-to, deliberato, concreto.

‘Our ancient’ is a philosopher who fancies that a lie that killshas more point in it than an alliteration or an antithesis; whothinks a fatal experiment on the peace of a family a betterthing than watching the palpitations in the heart of a flea ina microscope; who plots the ruin of his friends as an exercisefor his ingenuity, and stabs men in the dark to prevent ennui4.

Seguono alcune citazioni di passaggi in cui Iago, nei dialoghi conRoderigo e Otello, esercita la propria malvagità e la propria astuzia,con parole pronte ad insinuare, insultare, maledire, contraddire. Nel-la terza scena del terzo atto, a un tratto Otello immagina la possibi-lità che la natura non segua le proprie leggi, e Iago prontamente co-glie l’occasione per riversare sull’innocente Desdemona tutta la suasmania di cogliere il lato peggiore di ogni cosa. La virtù, la bontà,non hanno alcun sapore, aggiunge Hazlitt con un’immagine moltoefficace: «his mind digests only poisons».

Anche lo scambio di battute rapidissimo e irritante, di poco pre-cedente, in cui Iago fa l’eco alle domande di Otello, è un esempio

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4 W. Hazlitt, «Othello», in Characters of Shakespeare’s Plays (IV, 207).

perfetto della capacità del luogotenente di assecondare il male, diesporsi alla sua oscura influenza il più a lungo possibile e avere an-cora fiato sufficiente per rispondere con tale veemenza all’indigna-zione del Moro:

O grace! O Heaven forgive me!Are you a man? Have you a soul or sense?God be wi’ you; take mine office. O wretched fool, That lov’st to make thine honesty a vice!Oh monstrous world! Take note, take note, O world!To be direct and honest, is not safe.I thank you for this profit, and from henceI’ll love no friend, since love breeds such offence5.

Lo scambio di battute tra i due protagonisti è geniale. Hazlitt scri-ve che, nonostante si tratti di un passaggio lungo e articolato, la suaforza straordinaria è proprio in «its indefatigable industry and inex-haustible resources», come in un continuo gioco al rialzo, avvincen-te quanto sconsiderato, in grado di affascinare e insieme stregare glispettatori. Difficile trovare un personaggio simile a Iago, conclude ilcritico, solo Edmund il Bastardo sembra assomigliargli, ma Zanga,protagonista di The Revenge di Edmund Young, come vedremo me-glio in seguito, appare solo come una sua caricatura.

John Philip Kemble interpretò Otello per la prima volta sul pal-co del Drury Lane l’8 marzo 1785. L’arrivo di Kemble e di sua so-rella Sarah Siddons sulle scene londinesi segnò un cambiamento si-gnificativo dalla familiarità dello stile di David Garrick ad uno stilepiù rigoroso, impeccabile. Fisicamente Kemble era elegante e com-pito, «the very still-life and statuary of the stage»6, lo definì Hazlitt.La sua specialità erano i nobili Romani, non gli amanti, Coriolanopiuttosto che Romeo. L’imprevedibilità di Otello, eroe e amante altempo stesso, si perdeva nella sua interpretazione, che appariva ine-vitabilmente troppo fredda e misurata rispetto a quello che il perso-naggio avrebbe richiesto.

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5 W. Shakespeare, Othello, atto III, sc. III, vv. 372-379.6 W. Hazlitt, «Mr Kemble’s Sir Giles Overreach», in A View of the English Stage (V,

304).

Kemble e Kean rappresentavano i due opposti di una contesa chedivideva la società in quell’epoca rivoluzionaria. Kemble era alto, sta-tuario, patrizio. Kean era basso, mercuriale, un uomo del popolo.

Kemble was to Kean what as a poet, Racine is to Shake-speare. In giving us the perfection of nature instead of theperfection of art, Mr Kean has displaced a fine thing to sub-stitute a finer7.

Trascorsi quasi trent’anni, il 5 maggio 1814 Kean vestì per la pri-ma volta i panni di Otello. Mai Shakespeare era stato interpretato co-sì bene, il suo spirito era entrato nel cuore dell’attore e si esprimevatramite parole, sguardi, azioni. Così riferì «The Morning Chronicle»:

The tone of his voice, when he delivered the apostrophe, ‘Onow for ever farewell the tranquil mind’, struck the heart andthe imagination like some divine music. The look, the action,the expression of voice with which he accompanied the ex-clamation ‘Not a jot; not a jot’, the reflection ‘I felt not Cas-sio’s kisses on her lips’, his vow of revenge against Cassio, andabandonment of his love for Desdemona, laid open the verytumult and agony of the soul8.

Hazlitt credeva che l’Otello di Kean fosse la più bella interpre-tazione in assoluto, «the finest piece of acting in the world»:

In one part, when he listens in dumb despair to the fiend-like insinuations of Iago, he presented the very face, the mar-ble aspects of Dante’s Count Ugolino. On his fixed eyelids‘horror sat plumed’. In another part, where a glam of hopeor of tenderness returns to subdue the tumult of his passion,his voice broke in faltering accents from his over-chargedbreast. His lips might be said less to utter words than to dis-til drops of blood gushing from his heart. His exclamation onseeing his wife, ‘I cannot think but Desdemona’s honest’, was‘the glorious triumph of exceeding love’ – a thought flashing

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7 «Blackwood’s Magazine», March 1818.8 W. Hazlitt, «Mr Kean’s Othello», in A View of the English Stage (V, 189).

conviction on his mind, and irradiating his countenance withjoy like sudden sunshine. In fact, almost every scene or sen-tence of this extraordinary exhibition is a masterpiece of nat-ural passion. The convulsed motion of the hands, and the in-voluntary swelling of the veins in the forehead, in some ofthe most painful situations, should not only suggest topics ofcritical panegyric, but might furnish studies to the painter orthe sculptor9.

La tragedia ispirata al Moro di Venezia offriva al giovane attoreuna duplice opportunità – secondo un’idea che sarebbe stata condi-visa fin nelle interpretazioni contemporanee del dramma –, la possi-bilità di scelta tra il ruolo del protagonista e quello dell’antagonista.Vi sono testimonianze altrettanto appassionate del modo in cui ilgiovane Kean vestiva i panni di Iago. Scrive Hazlitt che il malvagioluogotenente, nelle mani di Kean diventava:

[…] a gay, light-hearted monster, a careless, cordial, comfort-able villain, ready to ruin a woman’s reputation with a mer-ry jest, or willing to murder a friendly life with a gracefulsword-thrust10.

Sulle pagine di «The Examiner» si legge:

He kills Roderigo, thinking by his death to be all compactand secure; his whole figure hinges at the event; it is, as hesays, the thing which is to make or to mar him quite11.

In genere gli attori delle generazioni precedenti interpretavanoquesta parte della prima scena del quinto atto in modo diverso, col-pivano a morte Roderigo e andavano via, perfettamente a loro agio,con un’aria soddisfatta. Kean andava oltre, «But Kean knew better;he repeated the atrocious thrust till he supposed no life remained inhis victim»12.

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9 W. Hazlitt, «Mr Kean’s Othello», in Dramatic Criticism (XVIII, 263).10 W. Hazlitt, «Mr Kean’s Iago», in A View of the English Stage (V, 190).11 W. Hazlitt, «Mr Kean’s Iago (concluded)», in A View of the English Stage (V, 221).12 Ibidem.

Ancora, consapevole di quanto la vita di Roderigo fosse una que-stione troppo seria per essere lasciata in sospeso, nel buio della nottee immerso nella confusione di presenze sulla scena – Cassio ferito,Graziano, Bianca –, Kean faceva in modo che Iago continuasse a ri-volgere lo sguardo verso il corpo della sua vittima, con un’intensità«that would fain convince itself» della certezza della sua morte. Glipassava vicino in maniera apparentemente disinteressata e invece isuoi occhi fissavano ancora «the motionless limbs», come se si aspet-tasse o temesse di vederli ancora tremare di vita, «his manner cool»,la sua ansia percettibile solo dai suoi sguardi furtivi. «The MorningChronicle» l’indomani definì il suo Iago:

[…] the most faultless of his performances, the most consis-tent and entire; the least overdone of all his parts, though fullof point, spirit, and brilliancy. […] We have already stated itas our opinion, that Mr Kean is not a literal transcriber of hisauthor’s text; he translates his characters with great freedomand ingenuity into a language of his own13.

Nel 1817 fu pubblicato un volumetto interamente dedicato ‘al ta-lento’ di Edmund Kean. L’autore è John William Cole e la lettura chepropone delle interpretazioni del celebre attore, nonostante sia par-ziale e del tutto priva di note di biasimo, risuona di accenti origina-li: «Mr Kean’s performance of Othello is a noble work! (at his firstdelineation of the character in the metropolis)»14.

Racconta Cole che Kean non si distingueva particolarmente neiprimi due atti. Sembrava quasi trattenersi per riservare tutte le proprieenergie per il potente terzo atto, quando prorompeva con la furia diuna tempesta, in modo che ogni cosa cedesse il passo ai suoi colpi tre-mendi. Il modo in cui pronunciava il verso «I found not Cassio’s kis-ses on her lips» era così coinvolgente da non lasciare dubbio alcunoche si stesse assistendo a qualcosa di vero, che tutti fossero testimonidella realtà – che si fosse a Cipro e che Mr Kean fosse Otello!

Il pubblico dimenticava la distanza tra attore e personaggio, di-menticava di trovarsi dinanzi a una scena immaginaria. Era come se

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13 W. Hazlitt, «Mr Kean’s Othello», in A View of the English Stage (V, 189).14 J. Cole, The Talents of Edmund Kean delineated (1817), p. 9.

davvero vi fosse, lì, in carne ed ossa, l’eroe, il marito tradito e insul-tato, pronto a vantarsi nella sua insaziabile vendetta. Sconvolta la par-te più profonda del proprio essere, si tremava insieme a lui. E allostesso modo ci si sentiva delusi quando infine ci si accorgeva che nonvi era ragione alcuna per tutto quel risentimento, che Desdemonaera innocente e suo marito era stato ingannato. Svanito l’effetto ditali emozioni, poco dopo si comprendeva quanto grande fosse statoil talento dell’attore. In Kean, ricorda Cole, vi era molta eleganza nelportamento e un’espressione indimenticabile nei suoi occhi grandi,scuri e penetranti.

L’interpretazione di Otello proposta da Kean mutò durante la suacarriera, ma fu intorno al 1817 – non a caso, l’anno di pubblicazio-ne dei Characters – che essa raggiunse l’ideale lodato dai critici ro-mantici. Hazlitt scrisse: «Anyone who had not seen him in the thirdact of Othello (and seen him near) cannot have an idea of perfecttragic acting»15.

L’importanza di specificare quel near è un riferimento all’amplia-mento del Covent Garden e del Drury Lane dopo gli incendi del1808 e del 1809. Vi furono molte lamentele da parte del pubblico le-gate all’impossibilità di assistere in maniera appropriata alle rappre-sentazioni e dovute alle esagerazioni nello stile che gli attori eranocostretti ad adottare. Tuttavia la necessità di vedere Kean ‘da vicino’ èanche un segnale di un cambiamento nella resa scenica, una nuovaforma di intimità, un’attenzione che non si soffermasse solo sullepassioni di Otello.

L’eroe, l’amante, la rabbia, il pathos, nelle letture critiche del di-ciassettesimo secolo erano elementi distinti e la bravura dell’attore simisurava proprio nel renderli separatamente. Con il passare del tem-po il passaggio dall’uno all’altro ruolo, dall’uno all’altro sentimento,si fa sempre più vago, fino a fondersi in quello che Hazlitt definisce«That noble tide of deep and sustained passion, impetuous, but ma-jestic, which raises our admiration and pity of the lofty-mindedMoor»16.

Lo sviluppo dell’interpretazione di Kean dal 1814 al 1817 illustra

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15 W. Hazlitt, «Mr Booth’s Iago», in A View of the English Stage (V, 357).16 W. Hazlitt, «Mr Kean’s Othello», in A View of the English Stage (V, 189).

bene tale cambiamento. Sulle pagine di «The Times» del 14 maggio1814 vi è una descrizione molto accurata del discorso che Otellopronuncia nella terza scena del terzo atto, iniziando con «What sen-se had I of her stolen hours of lust?»17. Esordiva con calma, lasciandocadere le braccia e rilassandosi in un gesto di assoluto sfinimento.Lentamente le parole affettuose di Desdemona sembravano trasmet-tere un senso di tranquillità alla sua mente. Improvvisamente, al suo-no del nome di Cassio – «I found not Cassio’s kisses on her lips» –,tutta la ferocia della sua natura prorompeva e pronunciava quei ver-si con un disperazione selvaggia. Kean era celebre per simili passag-gi improvvisi. Il pubblico restava in silenzio per un istante, insiemeall’attore sul palco, per rendergli subito dopo un boato di applausi.

Hazlitt riteneva errata tale interpretazione. L’idea di violenza ap-parteneva a personaggi come il moro Zanga, una figura simile aquella di Iago nel dramma di Young The Revenge, un’opera ispirata adOtello ma con i colori dell’eroe e del villain invertiti – «in conformityto our prejudices», sottolinea Hazlitt in maniera interessante. Nellesue prime interpretazioni del Moro, Kean mostra:

All the wild impetuosity of barbarous revenge, the glowingenergy of the untamed children of the sun, whose blooddrinks up the radiance of fiercer skies […] his quivering vis-age, his violent gestures, his hollow pauses, his abrupt transi-tions were all in character18.

Tutto quel «boiling of the blood», secondo Hazlitt, non apparte-neva al Moro nobile e generoso. E difatti Kean si allontanò da una si-mile tradizione e iniziò a colorare il viso di marrone chiaro invece chedi nero, in modo da non coprire del tutto i propri lineamenti. Hazlittcercava un cambiamento nello spirito dell’interpretazione: «Othello istall, but that is nothing; he was black, but that is nothing. But he wasnot fierce, and that is everything»19.

Kean mancava di «imagination, that faculty which contemplatesevents and broods over feelings with a certain calmness and grandeur».

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17 W. Shakespeare, Othello, atto III, sc. III, v. 339 e segg.18 W. Hazlitt, «The Busy Body», in A View of the English Stage (V, 271-2).19 Ibidem.

E Hazlitt non si riferiva alla forza dell’emozione, ma «its sharp, slightangular transitions». Kean era «too wedgy and determined».

Il 20 febbraio 1817 Edmund Kean interpretò Otello insieme aJunius Booth nei panni di Iago. Dalle pagine di «The MorningChronicle», l’indomani, fu subito sottolineata la disparità tra i due at-tori. Iago avrebbe potuto apparire convincente, ma non al fianco diKean. Booth aveva fatto del suo meglio, senza però riuscire a regge-re il confronto con il proprio compagno di scena. Con la sua inter-pretazione «terrific, frightening, and quite unforgettable», Kean loaveva fatto apparire semplicemente punny.

Alla fine di ogni scena faceva inchini, sorrideva, prendeva Boothper mano, come se gli applausi fossero per entrambi. Quando peròricominciava la rappresentazione,

[…] up and down, to and fro he went, pacing about like achafed lion, who had received his fatal hurt but whosestrenght is still undiminished20.

Inquieto e violento come un leone ferito, il Moro è travolto dal-la furia della passione, e ogni parte della sua figura trasmetteva unsenso di pericolo imminente, in particolare lo sguardo «glittering andbloodshot», uno dei tratti più espressivi del giovane attore.

Quella sera Kean recitò come mai aveva fatto prima. Il suo Otel-lo fu straordinario e al tempo stesso implacabile nei confronti di tut-te le altre presenze sulla scena, compreso Booth, tutti spazzati via dal-la forza sovrannaturale della sua interpretazione. Il 27 ottobre 1817dalle pagine di «The Times» Hazlitt annunciò il cambiamento cru-ciale. Piuttosto che «the energy of passion», Kean avrebbe interpre-tato «the agony of soul»21. Uno dei suoi gesti più celebri era solleva-re le mani, con i palmi verso l’alto, e poi lentamente abbassarle sulcapo, come per impedire alla propria testa di scoppiare, «as if to crusha fevered brain, which treatened to burst out into a volcano». Anchenel pronunciare «blood, blood, blood» la voce di Kean era «suppres-sed and muffled».

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20 B. Cornwall, The Life of Edmund Kean, in two volumes, London, Bradbury andEvans 1835, vol. II, p. 414.

21 W. Hazlitt, «Mr. Kean’s Othello», in Dramatic Criticism (XVIII, 263).

Infine vi è un episodio molto particolare e senz’altro degno dinota, tra le numerose e intense interpretazioni di Kean dell’Otello. Fuproprio nei panni del Moro di Venezia, con una messa in scena chelo vide recitare insieme a suo figlio, che concluse la propria carrieradi attore.

Era la sera del 25 marzo 1833 quando Kean fece la sua ultima im-petuosa e sofferta comparsa sulle assi di un palcoscenico. Suo figlioCharles avrebbe recitato insieme a lui, nella parte di Iago. Macreadyscrisse «It is mere quackery», Kean padre era solo un ciarlatano. Tut-tavia quella sera il teatro era pieno e il pubblico attendeva con gran-de emozione che si aprisse il sipario. Quando Edmund Kean arrivòin teatro era pallido e tremava. Fu solo dopo molti bicchieri di brandye dopo aver ascoltato gli incoraggiamenti dei theatre officials che deci-se di avere energie a sufficienza per recitare ancora una volta.

Si cambiò d’abito e colorò di scuro il volto. Era un momentoestremamente drammatico, il pubblico lo aveva atteso con impazien-za. Edmund si inchinò, ancora e ancora. Poi prese per mano suo fi-glio Charles e lo condusse sotto i riflettori. Presentò al pubblico ilsuo erede. «The house broke into a renewed frenzy of applause».Kean padre non potè trattenere le lacrime. Lottò debolmente per iprimi due atti. Non era contento di sé, ma era molto orgoglioso disuo figlio. Il terzo atto iniziò. Aveva avvertito Charles, «Mind that youkeep before me. Don’t get behind me in this act. I don’t know thatI shall be able to kneel; but if I do be sure that you lift me up». Pro-nunciò il discorso dell’addio nella maniera commovente di sempre.

John Vandenhoff, anche lui attore, all’epoca celebre sulle sceneamericane, noto come maggiore rivale di Charles Macready, scrisseche l’interpretazione di Kean non era mai cambiata:

It ran on the same tones and semitones, had the same restsand breaks, the same forte and piano, the same crescendo anddiminuendo, night after night, as if he spoke to a musical tone.And what beautiful, what thrilling music it was! The musicof a broken heart – the cry of a despairing soul!22

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22 B. Matthews and L. Hutton (ed. by), Actors and actresses of Great Britain and theUnited States: from the days of David Garrick to the present time. Kean and Booth andtheir contemporaries, vol. III, Cassell, New York, 1886, p. 25.

Kean aveva sempre caratterizzato in maniera personalissima ognipersonaggio interpretato. Mai, però, come quella sera di marzo, im-medesimarsi nella disperazione di Otello gli riuscì, tristemente, cosìnaturale. E l’addio del Moro dal cuore spezzato segnò il suo defini-tivo addio alle scene.

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Ecco Amleto il Danese, di cui abbiamo letto in gioventù e ancora cisembra di conservare il ricordo; lui che ha pronunciato quel celebremonologo sulla vita, ha dato consigli agli attori e ha pensato che «labella architettura della terra fosse una sterile forma e questo firma-mento stupendo, questo tetto maestoso solcato di fuochi d’oro, nien-t’altro che un pestilenziale ammasso di vapori»1; lui che «non era at-tratto dall’uomo e nemmeno dalla donna»2; lui che ha parlato con ibecchini e filosofeggiato sul teschio di Yorick; il compagno di Ro-sencrantz e Guildenstern a Wittenberg; l’amico di Orazio; l’amantedi Ofelia; lui che era pazzo e fu mandato in Inghilterra; il lento ven-dicatore della morte di suo padre; lui che visse alla corte di Hor-wendillus cinquecento anni prima che noi nascessimo, ma di cui cisembra di conoscere i pensieri come fossero i nostri, perché li abbia-mo letti in Shakespeare.

Amleto è un nome: le sue parole e i suoi discorsi sono solo il frut-to della mente del poeta. E dunque, non sono veri? Sono veri pro-prio come i nostri pensieri. La loro verità è nella mente del lettore.Amleto siamo noi. Il dramma ha in sé una verità profetica che va ol-tre quella storica. Chiunque si sia rabbuiato e intristito per le proprieo per le altrui sventure; chiunque porti con sé dalla nascita un’inso-lita aria riflessiva e creda di essere stato «fin troppo al sole»3; chiun-

Amleto

1 W. Shakespeare, Amleto, Atto II, sc. II, vv. 303-309. Dove non indicato diversa-mente, il riferimento ad atto, scena e versi è al testo di Amleto.

2 Atto II, sc. II, vv. 314-315.3 Atto I, sc. II, v. 67.

que abbia intravisto vapori funesti levarsi dal proprio petto e offu-scare la luce dorata del giorno e creda che il mondo dinanzi a lui nonsia altro che un vuoto privo di significato; chiunque abbia conosciu-to «pungoli d’amor sprezzato, arroganza dall’alto e derisione degl’in-degni sul merito paziente»4; lui che ha sentito la sua mente venir me-no e la tristezza svuotargli il cuore come una malattia; lui che ha vi-sto le proprie speranze deluse e la propria giovinezza sconvolta dal-l’apparizione di strane presenze; lui che non può accettare l’oscurapresenza del male girargli intorno come uno spettro; lui che ha vi-sto le sue capacità di azione paralizzate dal pensiero, lui che sente diessere nulla dinanzi all’infinità dell’universo; lui che, preso dall’ama-rezza del suo animo, è incurante delle conseguenze dei suoi atti e as-siste a una rappresentazione come fosse la migliore opportunità perallontanare ulteriormente i mali della vita tramite una pantomima –ecco il vero Amleto.

Questa tragedia fa così parte di noi che ci riesce difficile parlar-ne. Tuttavia dovremo provarci. Tra i drammi di Shakespeare è quelloa cui pensiamo più spesso, poiché è ricco di riflessioni stupefacentisulla vita umana e poiché il dolore di Amleto diventa, nella sua logi-ca, il resoconto dell’intera umanità. Qualsiasi cosa gli accada, la rife-riamo a noi stessi, perché egli stesso si fa strumento di riflessione ge-nerale. È un grande filosofo; e ciò che lo rende degno di ascolto èche fa una filosofia dei propri sentimenti e della propria esperienza.Non è un semplice pedante. Se Lear mostra i meandri delle passio-ni, Amleto è un esempio perfetto di purezza, originalità e sviluppoimprevedibile del personaggio. Shakespeare è stato il più magnanimodei poeti ed è in questo dramma che lo dimostra in modo partico-lare. Non cerca di attirare l’attenzione: lascia che siano il tempo e lecircostanze a svelare ogni cosa. L’interesse è suscitato senza sforzo, glieventi si susseguono naturalmente, i personaggi pensano, parlano eagiscono proprio come se fossero lasciati completamente a loro stes-si. Non c’è alcuno scopo prestabilito, nessun punto d’arrivo. Le os-servazioni sono suggerite dal procedere della rappresentazione – gliimpeti di passione vanno e vengono come melodie portate dal ven-to. L’intero dramma è un’esatta trascrizione di ciò che sarebbe potu-

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4 Atto III, sc. III, vv. 72-74.

to accadere nel regno di Danimarca, in un passato preciso e lontano,prima che vi giungesse l’eco della modernità, tanto nei costumiquanto nella morale. Essere spettatori di una scena simile, in un’epo-ca simile, aver sentito e visto qualcosa di quel che succedeva, sareb-be già stato interessante a sufficienza. Ma qui siamo più che spetta-tori. Non abbiamo solo «il palco esterno e gli aspetti della sofferen-za»5 ma «abbiamo dentro qualcosa che è al di là d’ogni mostra»6. Leg-giamo i pensieri del cuore, afferriamo le passioni al loro nascere. Al-tri drammaturghi ci offrono parafrasi e raffinate imitazioni della na-tura: invece Shakespeare, insieme alle proprie osservazioni, ci dona iltesto originale, in modo che ognuno possa giudicare da sé. Questo èil suo maggior pregio.

Il personaggio di Amleto è in sé una pura effusione del genio.Non è un personaggio segnato dalla forza di volontà o dalla passio-ne, ma dalla raffinatezza di pensiero e di sentimento. Amleto non hanulla dell’eroe; egli è un giovane principe alle prime armi, pieno divivace entusiasmo e di acuta sensibilità – si fa beffe delle circostanze,si interroga sul caso e disquisisce dei propri sentimenti, costretto dal-la singolarità della propria condizione ad allontanarsi dalle sue incli-nazioni naturali. Sembra incapace di azioni deliberate, è come se unimpulso lo spingesse verso situazioni difficili, senza avere il tempo diriflettere, come nella scena in cui uccide Polonio, o ancora quandoaltera la lettera che Rosencrantz e Guildenstern porteranno in In-ghilterra, in cui è scritta la sua morte. Altre volte, quando più sem-brerebbe indotto ad agire, resta disorientato, indeciso, scettico, si tra-stulla con le proprie intenzioni, finché l’occasione è perduta, e trovasempre qualche scusa per ricadere nell’indolenza dei suoi pensieri. Èil motivo per cui si rifiuta di uccidere il Re mentre prega e, con unpizzico di cattiveria, che in realtà è solo una giustificazione al pro-prio bisogno di una soluzione, rinvia la vendetta a un’occasione piùpropizia, quando sarà coinvolto in un’azione «che non abbia saporedi salvezza»7:

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5 Atto I, sc. II, v. 82. 6 Atto I, sc. II, v. 85.7 Atto III, sc. III, v. 92.

Ora che sta pregando.Lo farò senz’altro. Lo spedisco in Cieloe sono vendicato. Devo rifletterci, però.Un furfante ha ucciso mio padre, ed io, unico figlio di quel padre, in cambio lo mando in Cielo. Questo è fargli un regalonon una vendetta. […]Torna al tuo posto, spada, e sappiche dovrai colpirlo in modo più orribile:quando sarà ubriaco, addormentato o in furia8.

Egli è il principe dei filosofi e poiché non può rendere la propriavendetta perfetta, secondo l’idea più pura che il suo desiderio possaconcepire, la abbandona del tutto. Così esita nel prestar fede ai consi-gli del fantasma, escogita la scena della rappresentazione per avere unaprova più sicura della colpevolezza di suo zio e poi, soddisfatto dellaconferma ai propri sospetti e del successo dell’esperimento, si fermapiuttosto che agire di conseguenza. È tuttavia consapevole della pro-pria debolezza, quasi fosse una colpa, e cerca di farsene una ragione9.

Quale accusa mi fanno le occasioni che spronano la mia lenta vendetta!E che cos’è mai l’uomo se l’impiegodel suo tempo è soltanto nel dormiree nel mangiare? Non più che una bestia.Certo colui che ci creò con largogiudizio, atti a guardare avanti e indietro,non ci largì questo divino donoperché ammuffisse inoperoso. E siaoblio bestiale oppure il vile scrupolodi meditare troppo su un evento(e allora nel pensiero son tre partidi codardia e una sola di saggezza),io sto qui a dire «devo farlo» quandoho causa mezzi forza e volontàper compierlo. Gli esempi che mi esortano

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8 Atto III, sc. III, vv. 73-79 e vv. 88-90.9 Cfr. W. Hazlitt, «Mr Kean’s Hamlet», in A View of the English Stage (V, 185-6).

son grandi come il mondo. Ecco un esercitoforte e costoso, e lo conduce un principedelicato e gentile che si gonfiad’una divina ambizione ed osafar beffe all’invisibile, esponendociò che è mortale ed insicuro a quantola Fortuna, la morte ed il pericoloarrischiano, anche per un guscio d’uovo.Essere grandi non è agitarsi senzagrandi argomenti: è battersi da prodianche per una paglia, se l’onoreè in gioco. Ed io che ho un padre ucciso ed unamadre insozzata (il sangue e la ragionene son travolti) dormo, e a mia vergognaqui ventimila uomini s’accostano,per una fantasia o per uno scherzodella fama, alla tomba come a un letto,per un palmo di terra, oggetto d’unacontesa a queste schiere incomprensibile,per un palmo di terra che nemmenobasta a coprire i morti? Oh no, se il miopensiero è degno, sia tinto di sangue!10

E ancora non fa nulla; e il continuo rimuginare sulla propria de-bolezza è solo un’altra occasione per fermarsi ancora. Non è permancanza di devozione nei confronti di suo padre o per orrore neiconfronti del suo assassinio che Amleto è così dilatorio, ma per quelsuo gusto di temporeggiare riflettendo sull’enormità del crimine eridefinire gli schemi della propria vendetta, piuttosto che affrettarsinel metterli in pratica. La sua passione dominante è pensare, non agi-re: e qualunque possibilità che stimoli tale propensione lo allontanaimmediatamente dalle sue precedenti intenzioni.

La perfezione morale di questo personaggio è stata messa in dis-cussione, crediamo, proprio da coloro che non l’hanno compresa.Amleto è più interessante di chi rispetta le regole: affabile, anche senon privo di difetti. I tratti etici di «quel sofista nobile e liberale»11

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10 Atto IV, sc. IV, vv. 32-66.11 Citazione da Characters of Dramatic Writers (1808) di Charles Lamb.

(come Shakespeare è stato giustamente definito) non mostrano alcu-na grigia austerità morale. I suoi drammi non traggono spunto daThe Whole Duty of Man o da The Academy of Compliments!12 Lo con-fessiamo, ci sorprende la mancanza di sensibilità di chi si sorprendedella mancanza di sensibilità di Amleto. Se il suo comportamento èbrusco, forse dipende dalle abitudini dell’epoca, o piuttosto da un ec-cesso di finezza intellettuale che lo rende inadatto alle regole del vi-vere comune come a compiere la sua vendetta. Si può dire che eglisia soggetto solo al tribunale dei suoi pensieri, troppo interessato almondo astratto della contemplazione per prestare la dovuta atten-zione alle conseguenze concrete delle sue azioni, che appaiono cosìscardinate, fuori dal tempo. Con Ofelia si comporta in modo natu-rale, considerato il suo stato. È solo falsa severità. È l’effetto di unasperanza delusa, di un amaro rimpianto, di un amore sospeso ma nonannullato dalla confusione di quel che lo circonda! Non possiamoperò perdonargli la mancanza di gentilezza nel corteggiarla, non-ostante gli orrori naturali e sovrannaturali cui assiste. Quando «lospettro di suo padre era in armi»13, per il figlio non era il momentodi pensare all’amore. Non poteva sposare Ofelia, né ferirla spiegan-dole il motivo del suo allontanamento, al quale egli stesso non osavapensare. Ci sarebbero voluti anni per giungere a una spiegazionechiara delle sue ragioni. La sua mente era così tormentata che eglinon avrebbe potuto comportarsi altrimenti. La sua condotta noncontraddice ciò che egli afferma quando assiste al funerale di Ofelia:

Amavo Ofelia; nemmeno l’amoredi quarantamila fratelli farebbe tornare il contodel mio amore14.

Nulla potrebbe essere più toccante e più dolce delle parole che laregina dedica a Ofelia gettando fiori sulla sua tomba:

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12 Whole Duty of Man (1659), popolare trattato di etica di autore sconosciuto. Aca-demy of Compliments, or the whole Art of Courtship, being the rarest and most exact wayof wooing a Maid or Widow, by the way of Dialogue or complimental Expression (1655e 1669).

13 Atto I, sc. II, v. 253.14 Atto V, sc. I, vv. 273-275.

Dolci fiori alla dove Ofelia: addio.Io speravo che tu diventassi la sposadel mio Amleto; pensavo che con questiavrei adornato il tuo letto di sposae non già che avrei dovuto spargerli sulla tua tomba15.

Shakespeare era un vero maestro nel mostrare la mutevole naturadel carattere umano, e qui vediamo la Regina, per alcuni aspetti co-sì crudele, per altri non priva di sensibilità e affetto. Ofelia è un per-sonaggio troppo commovente per poterne parlare. O rosa di maggio,o fiore prematuramente appassito! Il suo amore, la sua pazzia, la suamorte, sono descritti con le più sincere note di tenerezza e di pas-sione. Solo Shakespeare avrebbe potuto disegnare un tale personag-gio, e non vi è nulla di simile, se non in qualche antica ballata d’a-more16. Suo fratello Laerte non è molto convincente: è troppo col-lerico e violento e ha un che di spavaldo. Polonio è un personaggioperfetto nel suo genere; non vi è alcun fondamento nelle obiezionialla coerenza del suo ruolo. Si dice che egli si comporti in modosciocco ma parli in modo molto assennato. Non c’è incoerenza inquesto. O ancora, che prima parli in modo saggio e poi in modo as-surdo; che il consiglio dato a Laerte sia molto giudizioso, mentrequello dato al Re e alla Regina a proposito della pazzia di Amleto siadavvero ridicolo. Ma il primo lo dà in virtù di padre, ed è sincero;l’altro lo dà solo in quanto cortigiano, ficcanaso, e di conseguenza èinvadente, ciarliero e impertinente. In breve, Shakespeare è stato ac-cusato di incoerenza sia per quanto riguarda Polonio, sia per altripersonaggi, solo perché ha messo in luce la naturale differenza esi-stente tra le ragioni e le abitudini morali degli uomini, tra l’assurdi-tà delle loro idee e l’assurdità dei loro moventi. Polonio non è uno

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15 Atto V, sc. I, vv. 247-249.16 Nel racconto della morte di Ofelia, un amico ha sottolineato un esempio della

precisione con cui il poeta ha osservato la natura: «C’è un salice che cresce disbieco sul ruscello, / e riflette le sue bianche foglie sull’acqua» (Atto IV, sc. VII,vv. 167-168). L’interno delle foglie del salice, vicine all’acqua, è di un colorebiancastro e dunque il loro riflesso sarà bianco. Nota di Hazlitt. L’amico cui Hazlitt fa riferimento potrebbe essere Charles Lamb (Cfr. J. Zeitlin,Hazlitt on English Literature, Oxford University Press, New York 1913, p. 360).Hazlitt farà propria questa osservazione in Lectures on the English Poets (V, 49).

sciocco, ma egli lo rende tale. La sua insensatezza, nei fatti e nelle pa-role, dipende dall’inadeguatezza delle sue intenzioni.

Non amiamo vedere rappresentati i drammi del nostro autore, emeno di tutti Amleto. Non c’è dramma che soffra altrettanto nell’es-sere portato sulla scena. Amleto stesso sembra impossibile da inter-pretare. Mr Kemble lo interpreta male perché manca di varietà e na-turalezza. Il personaggio di Amleto è fatto di versi cangianti; ha lamutevolezza di «un’onda del mare»17. Mr Kemble lo interpreta co-me un uomo in armi, di fermi propositi, che cammina dritto per lasua strada, il che è tanto lontano dalla grazia innata e dalla pura su-scettibilità del personaggio quanto lo sono i tratti bruschi e gli scat-ti improvvisi che Mr Kean ha introdotto nella sua parte. L’Amletodi Kean è troppo irascibile e sconsiderato, quello di Kemble troppostudiato e formale. Le sue maniere sono troppo forti e determinate.Nelle osservazioni e nelle risposte più banali egli infonde una seve-rità troppo veemente. Non c’è nulla di tutto questo, in Amleto. Am-leto in realtà è assorto nelle sue riflessioni e semplicemente pensa adalta voce. Dunque non bisognerebbe tentare di sottolineare ciò chedice degli altri con uno studiato eccesso di enfasi o di maniera; nonbisogna parlare ai suoi ascoltatori. Nella sua interpretazione dovreb-be esserci qualcosa in più del gentiluomo e dello studioso e menodell’attore. Una pensosa aria di tristezza dovrebbe posarsi sulla suafronte, non un tono costante di grigia mestizia. Egli è pieno di de-bolezze e di malinconie, ma non c’è asprezza nella sua indole. È il piùamabile dei misantropi.

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17 W. Shakespeare, Il racconto d’inverno, atto IV, sc. IV, v. 141.

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«His tragedy seems to be skill, his comedy to be instinct»1. Così scri-veva Samuel Johnson parlando di Shakespeare e individuando, se-condo un preciso contrappunto, nelle sue tragedie il frutto di studi edi esperienza, dove le commedie portavano con sé i tratti di un’in-nata predisposizione del Bardo. Tra le lunghe e dettagliate riflessionisul canone shakespeariano affidate alla sua Preface del 1765, ve ne so-no alcune dedicate al ruolo dello spettatore di una rappresentazioneteatrale. Johnson scriveva che «the drama is credited with all the cre-dit due to a drama, as a just picture of a real original» e che l’unicomodo per trarre piacere dalla rappresentazione di una tragedia è nel-la consapevolezza che lo spettatore ha della finzione alla quale sta as-sistendo. Se davvero egli li credesse reali, non ne trarrebbe più alcunpiacere, ma solo sconcerto e orrore. Johnson negava il principio del-l’immedesimazione, la possibilità che il pubblico si commuovesse otremasse di paura insieme agli attori sul palcoscenico o, ben più gra-ve, insieme ai personaggi rappresentati.

Proprio quella capacità di coinvolgere palchi e platee che neglistessi anni decretava la fortuna sulle scene londinesi di un attore co-me David Garrick. Portando in scena la forza travolgente dei grandieroi tragici shakespeariani, Garrick si faceva autore e interprete diuna vera e propria rivoluzione culturale, intervenendo sui copioni,tagliando o recuperando scene omesse in edizioni precedenti del ca-none e accompagnando al lavoro editoriale un accurato lavoro sullamessa in scena.

Il più amabile dei misantropi

1 J. Hawkins (ed.), The Works of Samuel Johnson, LL. D.: together with his Life, cit.,vol. IX, p. 250.

Memorabile il suo Amleto, interpretato ben novanta volte tra il1741 e il 1776. Solo nel 1763 Garrick pubblica la propria versionedel testo shakespeariano, nella quale, per esempio, Polonio non è piùil tradizionale buffoon ma una spia che annoda intrighi, una figura piùseria e pericolosa e affatto comica. Il cambiamento più significativoe sconvolgente riguarda però gli interventi di sull’atto quinto. Nel1772 Garrick realizzò quella che venne definita «a drastic and shock -ing revision», eliminando la scena dei gravediggers e modificando l’e-pilogo della tragedia in direzione di una improbabile riconciliazionetra Orazio e Laerte, implorata da Amleto ormai in punto di morte.

Nelle prime rappresentazioni di Garrick dell’Amleto «there wasa certain exaggerated warmth and testiness, a tendency to railingwhich he afterwards toned down into a calmer and more meditativehumour». C’erano anche delle pause irregolari che interferivano se-riamente col senso di quello che diceva. All’apparizione del fanta-sma il suo volto esprimeva orrore e, nel rivolgersi allo spettro, la suavoce tremava, come piena di timore. Così, come fu acutamente no-tato, egli recitava anche per il fantasma, e lo rendeva terribile al pub-blico quanto lo era per lui. Dopo aver pronunciato il verso «Angelsand ministers of grace, defend us!», piombava in una tale pausa di si-lente stupore che a Dublino molti pensarono avesse dimenticato laparte! Le orecchie degli spettatori erano così abituate alla sonora de-clamazione che una pausa non dovuta sarebbe apparsa come una sor-presa.

Nelle prime interpretazioni di Amleto sembrò che seguisse l’abi-tudine di altri attori di sguainare la spada contro Orazio che avreb-be voluto impedirgli di seguire lo spettro e, ancora, all’ingresso delfantasma in scena, i due amici cercano di trattenerlo ma lui fa di tut-to per liberarsi dalla loro presa, anche se in realtà sarebbe stato mol-to più naturale restare immobili e intimoriti. Nella scena con Ofeliaè troppo brusco, come se egli dimenticasse di essere stato il suoamante.

Negli anni in cui la carriera di Garrick volgeva al termine, un fi-sico tedesco di nome Lichtenberg, amante dell’Inghilterra, attentoosservatore e abile scrittore, durante uno dei suoi viaggi oltremanicacompì uno studio del grande attore nei passaggi principali della suainterpretazione. Quel che lo colpì in particolare fu il perfetto agio, lalibera interpretazione e la grazia di ogni parte del suo corpo, una gra-zia che Lichtenberg aveva osservato solo nei francesi vissuti nelle

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corti. Quando Garrick faceva il suo ingresso sul palco, senza doverparlare o esprimere col suo volto o con un gesto alcuna emozioneparticolare, tuttavia attirava l’attenzione del pubblico. Tutti gli altri at-tori al confronto sembravano solo dei burattini.

Agli occhi di Lichtenberg Shakespeare appariva come una sortadi comune denominatore nella cultura inglese, con Garrick suo in-terprete2. In una delle sue lettere dall’Inghilterra, egli sottolineavaquanto Garrick fosse rapido nel percepire gli umori del pubblico enel suscitare un applauso o creare un momento di silenzio qualorane avvertisse la mancanza e la necessità.

Now, dear B., you shall see him through my eyes in a fewscenes. I will today take those from Hamlet, where the ghostappears to him. You know him already in these scenes fromMaster Partridge’s excellent description in The Foundling.Mine shall not supersede this, but only explain it3.

Interessante il riferimento a Fielding. Segue una descrizione pun-tuale dei personaggi in scena, dei loro abiti, dei loro gesti, dell’atmo-sfera, una notte fredda e oscura che avvolge ogni cosa nel silenzio piùassoluto, al punto che i volti immobili degli spettatori avrebbero po-tuto sembrare figure dipinte sulle pareti del teatro:

Hamlet appears in a black dress, the only one in the wholecourt, alas! still worn for his poor father, who has been deadscarce a couple of months. Horatio and Marcellus, in uni-form, are with him, and they are awaiting the ghost; Hamletis folded his arms under his cloak and pulled his hat downover his eyes; it is a cold night and just twelve o’clock; thetheatre is darkened, and the whole audience of some thou-sand are as quiet, and their faces as motionless, as though theywere painted on the walls of the theatre; even from the far-thest end of the playhouse one could hear a pin drop4.

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2 M.L. Mare and W.H. Quarrell (translated and annotated by), Lichtenberg’s Visits toEngland as described in His Letters and Diaries, Clarendon Press, Oxford 1938.

3 Letters from England, being articles which appeared in the Deutsches Museum in1776 and 1778, addressed to the Editor, Heinrich Christian Boie, p. 9.

4 Ibidem.

All’apparire del fantasma, l’Amleto di Garrick non ha ancora pro-nunciato neppure una parola, lascia siano le braccia, le mani, l’e-spressione della bocca, nel silenzio, a trasmettere lo stupore mescola-to al terrore:

Suddenly, as Hamlet moves towards the back of the stageslightly to the left and turns his back to the audience, Hora-tio starts and, and saying: ‘Look, my lord, it comes,’ points tothe right, where the ghost has already appeared and standsmotionless, before anyone is aware of him. At these wordsGarrick turns sharply and at the same moment staggers backtwo or three paces with his knees giving way under him; hishat falls to the ground and both his arms, especially the left,are stretched out nearly to their full length, with the hands ashigh as his head, the right arm more bent and the hand low-er, and the fingers apart; his mouth is open: thus he standsrooted to the spot, with legs apart, but no loss of dignity, sup-ported by his friends, who are better acquainted with the ap-parition and fear lest he should collapse. His whole de-meanour is so expressive of terror that it made my flesh creepeven before he began to speak. The almost terror-struck si-lence of the audience, which preceded the appearance andfilled one with a sense of insecurity, probably did much to en-hance this effect5.

Finché egli invoca le potenze del cielo, con voce tremante, in unsoffio di fiato, e in quell’invocazione racchiude tutto quel che la sce-na ancora non aveva descritto, l’incapacità di provare a raccontarel’incursione del sovrannaturale. E ancora Amleto, con gli occhi fissisul fantasma, prova impazienza per la stretta in cui i suoi compagnilo trattengono e sguaina la spada contro di essi e contro chiunquevolesse scoraggiarlo dal seguire lo spettro:

At last he speaks, not at the beginning, but at the end of abreath, with a trembling voice: ‘Angels and ministers of gracedefend us!’ words which supply anything this scene may lackand make it one of the greatest and most terrible which willever be played on any stage. The ghost beckons to him; I wish

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5 Ivi, p. 10.

you could see him, with eyes fixed on the ghost, though heis speaking to his companions, freeing himself from their re-straining hands, as they warn him not to follow and hold himback. But at length, when they have tried his patience too far,he turns his face towards them, tears himself with great vio-lence from their grasp, and draws his sword on them with aswiftness that makes one shudder, saying: ‘By Heaven! I’llmake a ghost of him that lets me.’ That is enough for them6.

Amleto resta in guardia, promette al fantasma di suo padre di se-guirlo finché l’apparizione abbandona la scena. Per un istante anco-ra il Principe di Danimarca rimane immobile, brandendo la spada,poi lentamente inizia a seguire lo spettro, fermandosi ad ogni passo,con i capelli scompigliati dallo spavento, senza più respiro:

Then he stands with his sword upon guard against the spectre,saying: ‘Go on, I’ll follow thee,’ and the ghost goes off thestage. Hamlet still remains motionless, his sword held out so asto make him keep his distance, and at length, when the spec-tator can no longer see the ghost, he begins slowly to followhim, now standing still and then going on, with sword still up-on guard, eyes fixed on the ghost, hair disordered, and out ofbreath, until he too is lost to sight7.

Un boato di applausi accompagna l’uscita di scena di Amleto. Unvero trionfo, per l’attore e per il drammaturgo, scrive Lichtenberg, ta-lenti insuperati:

You can well imagine what loud applause accompanies thisexit. It begins as soon as the ghost goes off the stage and lastsuntil Hamlet also disappears. What an amazing triumph it is.One might think that such applause is one of the first play-houses in the world and from an audience of the greatest sen-sibility would fan into flame every spark of dramatic genius ina spectator. But then one perceives that to act like Garrick andto write like Shakespeare are the effects of very deep-seatedcauses. They are certainly imitated; not they, but rather their

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6 Ibidem.7 Ibidem.

phantom self, created by the imitator according to the meas-ure of his own powers. He often attains to and even surpassesthis phantom, and nevertheless falls far short of the true orig-inal. The house-painter thinks his work as perfect as, ot evenmore so than that of the artist. Not every player who can al-ways command the applause of a couple of hundred people orso is on that account a Garrick; and not every writer who haslearnt the trick of blabbing a few so-called secrets of humannature in archaic prose, outraging language and propriety byhis bombast, in on that account a Shakespeare8.

Amleto può non esser stato il miglior ruolo interpretato da Kem-ble9, ma è sicuramente quello che portò in scena più di frequente. Funei panni di Amleto che si presentò per la prima volta al pubblicolondinese, al Drury Lane Theatre, il 30 settembre 1783. Vent’anni do-po, il 24 settembre 1803, inaugurò la sua carriera al Covent GardenTheatre con lo stesso ruolo. Al di là di un ‘vuoto’ tra il 1789 e il 1795,lo interpretò in ogni stagione londinese. Quando giunse al suo ‘girodi rappresentazioni d’addio’, nel maggio e giugno del 1817, lo ri-propose ben tre volte.

Fin dall’inizio le sue interpretazioni furono controverse. Coloroche erano abituati al mercuriale Garrick, trovarono Kemble troppolento e solenne, «too stately and formal». Dall’altro lato fu accusatodi eccessiva novità poiché introdusse un numero straordinario di‘nuove letture’ e non tutte incontrarono il gusto del pubblico. Egliallontanava la spada dal Fantasma invece di puntarla contro di luimentre lo seguiva fuori dal palco; si inginocchiava quando il Fanta-sma scompariva nella terra; quando Polonio gli chiedeva cosa leg-gesse, l’Amleto di Kemble strappava un foglio e gli rispondeva «Slan-ders, Sir»; ometteva i consigli agli attori, posava la testa sul grembo diOfelia durante the Play scene.

A proposito delle revisioni dei testi teatrali operate da Kemble,Leigh Hunt chiedeva che nel teatro tragico non fossero soppressi,bensì scoperti e rivelati particolari:

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8 Ivi, p. 11.9 Cfr. C.H. Shattuck, John Philip Kemble Promptbooks, 6 vols., published for The

Folger Shakespeare Library, University Press of Virginia, Charlottesville 1974,vol. II.

Something genuine and unconscious, something that moved,looked, and spoke solely under the impulse of the immedi-ate idea, something as natural in his way […] as the man whoenters his room after a walk, takes off his hat, pinches off oneglove and throws into it, gives a pull down to his coat or apull up to his neckcloth, and makes up the fire-place with arub of his hands and a draught of his air through his teeth10.

Quel che è certo è che Kemble aveva studiato il ruolo con gran-de cura. Una volta, quando il suo amico John Taylor lo convinse adapportare alcuni cambiamenti ad un copione, disse «Now, Taylor, Ihave copied the part of Hamlet forty times and you have obliged meto consider and copy it once more»11.

Dalla sua esperienza più che trentennale sono giunte a noi dueopinioni opposte. Una è resa perfettamente da quella dura metaforausata da Hazlitt, per cui «he played it like a man in armour, with adetermined inveteracy of purpose, in one undeviating straight li-ne»12. L’altra ci viene offerta da quel meraviglioso ritratto di Sir Tho-mas Lawrence – un’incisione tratta dal dipinto è oggi conservata nel-l’archivio della National Portrait Gallery di Londra –, in cui Kembleè nella scena del cimitero, «tall, aspiring, ardent, romantically grace-ful»; un Amleto in abiti scuri, come voleva la tradizione, col teschionella mano destra e lo sguardo rivolto verso l’alto, forse verso il cie-lo, con un’aria interrogativa, quasi inquisitoria; come a voler chiede-re ragione di qualcosa o a reclamare giustizia. È uno sguardo deciso,affatto casuale, per nulla distratto. Sia che il dipinto di Sir Thomas La-wrence debba più alla realtà dell’attore o alla sensibilità dell’artista,esso ha fornito un’immagine che ha dominato l’idea popolare diAmleto per almeno un secolo.

Kemble pubblicò le versioni dei suoi copioni nel 1796, nel 1797,e poi nel 1800, 1804, 1808, 1811 e 1814. Per grandi linee Kembleadottò la versione pubblicata nel 1751 dagli editori Knapton e poiripubblicata una dozzina di volte con piccole variazioni, la cui prin-

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10 L.H. and C.W. Houtchens (ed. by), Leigh Hunt’s Dramatic Criticism, New York1949, p. 113.

11 J. Taylor, Records of my Life, J&J Harper, New York 1830, p. 270.12 W. Hazlitt, «Mr Kemble’s Retirement», in A View of the English Stage (V, 377).

cipale caratteristica era una riduzione della durata. La storia di For-tebraccio e delle guerre norvegesi, nonostante i riferimenti nella pri-ma e nell’ultima scena, è omessa. Gran parte dei consigli di Laerte aOfelia, tutti i consigli di Polonio a Laerte e tutta la scena tra Polonioe Reynaldo, circa trentacinque versi della conversazione tra Amletoe Rosencrantz e Guildenstern durante il loro primo incontro, tuttoomesso. The Mousetrap è molto ridotto. Omessa anche la scelta diAmleto di non uccidere il Re mentre prega, come anche circa qua-ranta versi del dialogo tra Amleto e Gertrude. Mancano molti pas-saggi del quarto atto e il soliloquio «How do all occasions do informagainst me». Del quinto atto mancano il racconto di Amleto del viag-gio in mare, l’ingresso di a Lord per portare il messaggio di Osrick emolti dei versi che seguono la morte di Amleto. Nella versione del1804 Kemble ha appuntato persino la somma della durata dei cinqueatti, per un totale di tre ore e diciotto minuti.

Laddove Kemble era di temperamento neoclassico, Kean era ro-mantico, laddove Kemble aveva uno stile regolare, coerente e costan-te, Kean era disordinato e frammentario, e subito si distinse dai pre-cedenti Amleti. Basti pensare al modo in cui prometteva allo spettrodel padre «Though hell itself should gape», con un tono basso e de-ciso, in totale opposizione rispetto a quanto avesse fatto qualunquealtro interprete.

Nel corso del diciottesimo secolo Amleto fu studiato e compresosempre più attraverso la lettura, oltre che tramite le rappresentazioni.Con i romantici vi sarà una cesura netta rispetto al passato, con criti-ci quali Lamb e Hazlitt, entrambi inveterati playgoers, i quali negavanol’adeguatezza del teatro nei confronti dell’immaginazione shakespea-riana così come la si poteva cogliere dalla lettura delle sue opere.

Nella raccolta dei Characters il saggio dedicato alla tragedia delprincipe di Danimarca13 è esemplare. Hazlitt in prima battuta tracciaun ritratto di Amleto elencando i suoi tratti tipici. Ricordate? – sem-bra chiedere ai lettori – Amleto il Danese, colui che pronunciò quelfamoso monologo, che dette consigli agli attori, il compagno di Ro-sencrantz e Guildenstern, l’amico di Orazio, l’amante di Ofelia, ilvendicatore della morte di suo padre!

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13 W. Hazlitt, «Hamlet», in Characters of Shakespeare’s Plays (IV, 232-7).

E subito dopo aver richiamato alla mente dei suoi lettori il celebreAmleto come si fa con una vecchia conoscenza, rivela loro: «Hamlet isa name; his speeches and sayings but the idle coinage of the poet’sbrain», Amleto è solo un nome e i suoi discorsi, le sue azioni, così co-me tutto ciò che lo riguarda, le sue relazioni con Orazio, Ofelia e tut-ti gli altri, sono solo frutto della mente di un poeta, anzi del poeta, nul-la più. Dunque non sono veri, non sono reali? Certo che lo sono, e poiaggiunge una frase bellissima: le parole di Amleto, i suoi discorsi, i suoiragionamenti sono veri quanto sono veri i nostri pensieri.

Che strano. Avrebbe potuto scrivere ‘sono veri come il libro cheavete tra le mani, come la poltrona alla quale siete seduti’. No: «theyare as real as our own thoughts. Their reality is in the reader’s mind».La loro realtà è nella mente del lettore, un altro modo per dire, è illettore che crede siano veri come crede ai propri pensieri. Quasi unaquestione personale, tra lettore e opera. Hazlitt però poi sposta ulte-riormente il piano delle proprie considerazioni e aggiunge un’altrafrase ancora, indimenticabile: «It is we who are Hamlet», Amleto sia-mo noi.

Amleto siamo noi ogni volta che ci sentiamo come lui, tristi, ma-linconici, ogni volta che avvertiamo un senso di disagio, ecco dov’è«il vero Amleto». Il merito non è del lettore, però, che ‘si sente co-me Amleto’, il merito è sempre, naturalmente, di Shakespeare, che la-scia che le riflessioni dell’eroe tragico non restino confinate nellospazio che il suo personaggio occupa all’interno della tragedia, mapossano essere riferibili all’umanità intera. Non solo. Se gli altridrammaturghi offrono solo raffinate parafrasi del ‘libro della natura’,Shakespeare offre il testo originale di quel libro, arricchito, per dipiù, dalle osservazioni del suo genio. «This is a very great advantage».

Da qui, seguendo uno schema comune a quasi tutti i saggi dellaraccolta, dopo alcune osservazioni di carattere generale, Hazlitt pro-cede con un’analisi dei protagonisti del dramma, riprendendo quel-l’idea del personaggio shakespeariano come ‘essere vivente’, capacedi emozioni e pensieri, anticipata proprio nella recensione all’operadi Schlegel14.

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14 W. Hazlitt, «Schlegel on the Drama», in Contributions to the Edimburgh Review(XVI, 57-99).

Si sofferma ancora a lungo su Amleto, sottolineando le occasioniin cui, nel corso della storia, egli è lento, dilatorio, esita nel prestar fe-de ai consigli ricevuti, rimugina sulla propria debolezza. Non è la de-vozione per suo padre e neppure l’orrore per il suo assassinio quelche trattiene Amleto dal compiere un’azione risolutiva, secondoHazlitt. La sua passione dominante è pensare, non agire, e così pro-prio gli elementi che lo inducono a pensare lo allontanano dalla pro-pria intenzione di compiere un’azione.

Quindi, partendo dalle relazioni che legano Amleto agli altri per-sonaggi, Hazlitt descrive Ofelia, «troppo commovente per poterneparlare», un personaggio unico, che solo Shakespeare avrebbe potu-to disegnare con simili note di tenerezza. Suo fratello Laerte, invece,non è affatto convincente, troppo collerico, spavaldo, violento. Polo-nio è perfetto nel suo genere, perché nel caratterizzarlo Shakespearedistingue due ruoli, mostra Polonio nei panni di padre e di cortigia-no e mostra come secondo i ruoli egli si comporti prima in modocoscienzioso e poi ruffiano, pronunciando battute diverse, come di-versi secondo le circostanze, scrive Hazlitt, sono nella realtà i moventidelle azioni compiute quotidianamente dagli uomini.

Peccato che il dramma di Amleto soffra terribilmente la messa inscena, secondo Hazlitt, più di ogni altro tra i drammi del ‘nostro au-tore’. E il critico teatrale lo sapeva bene, perché più volte aveva assi-stito alle sue interpretazioni e più volte, nelle sue recensioni, si erasoffermato in maniera particolare sulla bellezza della tragedia comeopera inimitabile, piuttosto che sulle qualità dei suoi interpreti. Eracome se vi fosse sempre un ‘ma’ a sminuire le loro doti, a segnare illimite irraggiungibile della perfezione di quel personaggio.

In un articolo del marzo 1814, pubblicato su «The MorningChronicle»15, Hazlitt, nel recensire una delle prime interpretazioni diEdmund Kean – il suo preferito – anticipa alcune considerazioni chesvilupperà nel saggio dei Characters a proposito della fortuna dellatragedia shakespeariana in cui è come se i personaggi quasi vivesse-ro di vita propria, «as they would do, if they were left to themselves».Tra i tanti, Amleto probabilmente, scrive Hazlitt, è il più difficile darappresentare, è come se si dovesse interpretare un’ombra o un’onda

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15 W. Hazlitt, «Mr. Kean’s Hamlet», in A View of the English Stage (V, 185-9).

del mare, perché l’interesse suscitato dal personaggio è dovuto ai suoipensieri, non alle sue azioni, come spiegherà poi più dettagliatamen-te nei Characters.

L’annuncio della sua interpretazione in Amleto fu motivo di ecci-tazione generale. C’era una tale confusione che era impossibile sen-tire la musica dell’orchestra, una confusione che continuò anche du-rante la prima scena del dramma, al punto che nessuno udì le paro-le pronunciate dallo spettro durante la sua prima apparizione.

Non appena, però, fu riunita la corte reale della Danimarca, il si-lenzio scese su ogni cosa. Ecco fa il suo ingresso il Principe Amleto,«slow-paced, his countenance expressive of sorrow over-deep forwords, his air full of grief». E poi, poco dopo alla vista del Fantasmadi suo padre,

His surprise on beholding his father’s ghost, his confidence infollowing his steps, the sorrow and reverence mingling in hisvoice when he addressed it, were full of poetry and power. Inthe scene where he broke from his friends to follow this dis-tressed shade, he kept his sword pointing behind him to pre-vent them following him, instead of holding it before him toprotect himself from the spirit, as had formerly been done16.

La novità dell’interpretazione di Kean, come sottolineato dallepagine di «The Examiner», era nel tralasciare tutti i trucchi di scena,i gesti improvvisi e smisurati ai quali il pubblico era ormai abituato,e lasciare che fosse il suo cuore a parlare, non la sua memoria, o al-meno così sembrasse. Lo stile di Kean era persino «too good for thepublic, whose taste has been vitiated by the long-estabilished affec-tations of the school of Kemble».

Kean quella sera di marzo riscosse un grande successo, ma nonportò in scena lo stesso Amleto «whom we read of in our youth, andseem almost to remember in our after-years», scriverà Hazlitt con leparole che riprenderà ad apertura del saggio del 1817. Vi era troppaseverità, troppo impeto nel modo in cui pronunciava le sue battute,anche quando si trattava di semplici osservazioni. Il difetto più evi-

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16 J. Fitzgerald Molloy, The Life and Adventures of Edmund Kean. Tragedian. 1789-1833, Downey&Co. Ltd., London 1897.

dente dell’interpretazione di Kean era nel trasmettere più energia diquanta ne fosse necessaria alla resa di quell’aria pensosa e triste cheaccompagna Amleto sia quando è solo sulla scena, sia quando si ri-volge ad un interlocutore. Amleto è pieno di debolezze e di malin-conie, ma non vi è asprezza nella sua indole, suggerisce Hazlitt.

Segue una descrizione dettagliata ed emozionata delle scene incui Kean mostra il proprio talento, come quando prende sottobrac-cio Rosencrantz e Guildenstern con aria complice, quasi per confi-dare loro un segreto, e invece è pronto ad ingannarli. O ancora, du-rante la prima scena del terzo atto, Amleto ha appena pronunciato ilcelebre monologo del «to be or not to be», quando vede avvicinarsi‘la bella Ofelia’.

«I did love you once», le dice, e nella battuta successiva «I loved younot», poi ancora «believe none of us», non fidarti di nessuno, Ofelia, dinessuno di noi, neppure di me, e poi conclude per due volte le suebattute con un addio e l’ultima battuta che le rivolge con l’invito, pro-nunciato per la terza volta, a chiudersi in convento. Ofelia è sconcer-tata dalle parole di Amleto e invoca le potenze del cielo, Amleto pro-nuncia la sua ultima battuta e si allontana.

A questo punto Hazlitt scrive che Kean attraversa il palco, sta qua-si per uscire di scena, quando, come sopraffatto dall’infelicità di quelche lui sa essere un congedo definitivo, riattraversa la scena – nel si-lenzio, il passo dell’attore che risuona sulle assi di legno del palcosce-nico –, ritorna da Ofelia, prende la mano della fanciulla tra le propriee la bacia, ancora una volta, per l’ultima volta.

«It had an electrical effect on the house», racconta Hazlitt, perchéin quell’unico gesto, in quella possibilità interpretativa, Kean, secon-do il critico, racchiude in maniera esemplare le speranze deluse diAmleto, l’amarezza del suo rimpianto, la necessità di rinunciare all’a-more per Ofelia in nome di quel compito terribile che gli è stato af-fidato, per cui «coloro che si sono già sposati vivano pure, menouno».

La recensione si conclude con una nota sull’attore che interpretail Fantasma, affatto convincente, secondo Hazlitt perché uno spiritonon dovrebbe «gemere o piangere». Neppure il personaggio di Po-lonio nella messa in scena del 14 marzo risulta essere stato interpre-tato in maniera efficace.

Una di quelle sere due attori di una compagnia che in quel perio-do lavorava a Woolwich, Joe Cowen e Robert Keeley, raggiunti dalla

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fama di Kean, si recarono a Londra per assistere finalmente ad una suainterpretazione. Il racconto dell’episodio rende in maniera perfetta l’i-dea della confusione che regnava prima e durante gli spettacoli, l’ina-deguatezza degli spazi, nonché l’entusiasmo che travolgeva gli spetta-tori durante le scene più emozionanti.

Erano dunque le quattro del pomeriggio e i due attori si ritro-varono pressati da una folla accalcata all’ingresso del Drury Lane.

We found ourselves, after a desperate effort, at the back of thepassage which surrounds the pit, from whence I could, bystraining to my utmost height, catch a glimpse of the cornerof the green curtain nearest to the top, but little Bob hadn’teven that satisfaction. There, at any rate, we could not seeKean, nor live to see anything else at the end of a few hours’squeeze such as we were then enduring, and we agreed topay the extra three-and-sixpence and go into the boxes; butas to obtaining a pass check, it was impossible. We had near-ly as much trouble to get out as we had to get in and werecontent to lose our three-and-sixpence apiece, and pay four-teen shillings more for the privilege of standing on a backseat of the upper tier of boxes at the corner next the stage,an excellent point of sight for a perspective view of thecrown of a man’s hat, or a bald spot on the head of a ladywho, seated in the pit, had been obliged to take off her bon-net whether she liked it or not. […] Bruised in body, andsorely afflicted in spirit and pocket, we were just in the moodnot to be easily pleased with anything or anybody17.

Finalmente Edmund Kean fa la sua comparsa sul palco. La primaimpressione non è affatto positiva, al punto che i due attori ammet-tono che avrebbero lasciato volentieri il teatro. Qualcosa però li trat-tiene dall’andar via e li costringe al silenzio dell’ascolto. Basta una so-la parola, basta l’espressione con cui Kean si rivolge allo spettro chia-mandolo father, per far dimenticare la pessima qualità delle prime trescene e consacrare la bravura del grande attore:

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17 Ivi, p. 137.

When Kean came on I was astonished. I was prepared to see asmall man; but diminished by the unusual distance and hisblack dress, and a mental comparison with Kemble’s princelyperson, he appeared a perfect pigmy; his voice, unlike any I hadever heard before, perhaps from its very strangeness, was mostobjectionable, and I turned to Keely, and at once pronouncedhim, a most decided humbug; and if I could have got out then, Ishould have said so to everybody, because I honestly thoughtso; and if afterwards I had been convinced of his enormous ge-nius, I might have persisted in my denunciation, rather thanconfess my incapacity at the first glance to comprehend thesublimity of Shakespeare and Nature being upon such familiarterms. But I was obliged to remain, and compelled to be silent;so invoking patience, and placing my hand on a young lady’sshoulder for support, I quietly gazed on through three tediousscenes – for all the actors seemed worse than usual – till itcame to the dialogue with the ghost, and at the line«I’ll call thee Hamlet – king – father»,I was converted. I resigned the support of the lady and em-ployed both hands in paying the usual tribute to godlike tal-ent. Father is not a pretty word to look at, but it is beautifulto hear when lisped by little children, or spoken by EdmundKean in Hamlet18.

Anche i personaggi dei romanzi, come gli spettatori nella vitareale, a volte hanno l’opportunità di incontrare Amleto. A volte an-che loro vanno a teatro e assistono ad una rappresentazione deldramma; a volte sono coinvolti nella produzione della sua messa inscena; altre volte ancora leggono il suo testo, lo discutono o in qual-che modo alludono alle sue caratteristiche.

I romanzieri, d’altro canto, riscrivono la storia del Principe di Da-nimarca e la adattano al proprio tempo e alle proprie intenzioni. Im-maginano prologhi ed epiloghi. Forse incoraggiati e spinti dal celebreto be or not to be di Amleto, lo considerano uno specchio nel quale ri-flettere qualunque possibile aspetto di «the very age and body of thetime». Spesso donano ai lettori, in maniera esplicita o implicita, inter-pretazioni del dramma originali e ricercate.

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18 Ivi, pp. 137-8.

Così il testo drammatico trova la sua espressione anche nella for-ma romanzo. Una messa in scena dell’Amleto interpretato da Gar-rick ci viene raccontata da Fielding nel capitolo quinto del libro se-dicesimo del suo Tom Jones (1749). Tom va a teatro con Mr Partrid-ge per assistere ad Amleto. Partridge non condivide il modo in cui èinterpretato il protagonista e confessa di preferire lo stile più artifi-cioso e solenne dell’attore che veste i panni del Re: «Anybody maysee he is an actor». L’idea che Fielding si sia ispirato ad una reale per-formance di David Garrick è avvalorata da alcune recensioni19 riguar-danti la scena dell’incontro con il fantasma. Proprio come nelle let-tere di Lichtenberg, viene fatto un riferimento all’esclamazione diPartridge «If that little man there upon the stage is not frightened, Inever saw any man frightened in my life». Che buffo pensare a deicritici che accettano suggerimenti dal personaggio di un romanzo.

As soon as the play, which was Hamlet Prince of Denmark,began, Partridge was all attention, nor did he break silence tillthe entrance of the ghost; upon which he asked Jones, ‘Whatman that was in the strange dress; something,’ said he, ‘likewhat I have seen in a picture. Sure it is not armour, is it?’Jones answered, ‘That is the ghost.’ To which Partridge repliedwith a smile, ‘Persuade me to that, sir, if you can. Though Ican’t say I ever actually saw a ghost in my life, yet I am cer-tain I should know one, if I saw him, better than that comesto. No, no, sir, ghosts don’t appear in such dresses as that, nei-ther.’ In this mistake, which caused much laughter in theneighbourhood of Partridge, he was suffered to continue, tillthe scene between the ghost and Hamlet, when Partridgegave that credit to Mr Garrick, which he had denied toJones, and fell into so violent a trembling, that his kneesknocked against each other. Jones asked him what was thematter, and whether he was afraid of the warrior upon thestage? ‘O la! sir,’ said he, ‘I perceive now it is what you toldme. I am not afraid of anything; for I know it is but a play.And if it was really a ghost, it could do one no harm at such

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19 Cfr. A.B. Dawson, Shakespeare in Performance: ‘Hamlet’, Manchester UniversityPress, Manchester 1995, p. 38, e R. Hapgood (ed. by), Hamlet, Shakespeare in Pro-duction, Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 15.

a distance, and in so much company; and yet if I was fright-ened, I am not the only person.’ ‘Why, who,’ cries Jones, ‘dostthou take to be such a coward here besides thyself?’ ‘Nay, youmay call me coward if you will; but if that little man thereupon the stage is not frightened, I never saw any man fright-ened in my life. Ay, ay: go along with you: Ay, to be sure!Who’s fool then? Will you? Lud have mercy upon such fool-hardiness! – Whatever happens, it is good enough for you. –Follow you? I’d follow the devil as soon. Nay, perhaps it is thedevil – for they say he can put on what likeness he pleases. –Oh! here he is again. – No farther! No, you have gone farenough already; farther than I’d have gone for all the king’sdominions.’ Jones offered to speak, but Partridge cried ‘Hush,hush! dear sir, don’t you hear him?’ And during the wholespeech of the ghost, he sat with his eyes fixed partly on theghost and partly on Hamlet, and with his mouth open; thesame passions which succeeded each other in Hamlet, suc-ceeding likewise in him20.

Un secolo dopo, in pieno Ottocento, sarà la penna del maestroCharles Dickens a raccontare ancora una volta, in modo molto di-vertente, una rappresentazione della storia del Principe di Danimar-ca. È il noto capitolo trentunesimo di Great Expectations (1861). Pipe il suo amico Herbert Pocket vanno a teatro per assistere all’esila-rante interpretazione del più che ambizioso Mr Wopsle:

On our arrival in Denmark, we found the king and queen ofthat country elevated in two arm-chairs on a kitchen-table,holding a Court. The whole of the Danish nobility were inattendance; consisting of a noble boy in the wash-leatherboots of a gigantic ancestor, a venerable Peer with a dirty facewho seemed to have risen from the people late in life, andthe Danish chivalry with a comb in its hair and a pair ofwhite silk legs, and presenting on the whole a feminine ap-pearance. My gifted townsman stood gloomily apart, withfolded arms, and I could have wished that his curls and fore-head had been more probable.

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20 H. Fielding, The History of Tom Jones, Part II, in The Works of Henry Fielding, 10vols., ed. by L. Stephen, Routledge/Thoemmes Press, London 1997 (reprint ofthe 1882 edition), vol. II, pp. 401-2.

Several curious little circumstances transpired as the actionproceeded. The late king of the country not only appeared tohave been troubled with a cough at the time of his decease,but to have taken it with him to the tomb, and to havebrought it back. The royal phantom also carried a ghostlymanuscript round its truncheon, to which it had the appear-ance of occasionally referring, and that, too, with an air ofanxiety and a tendency to lose the place of reference whichwere suggestive of a state of mortality. It was this, I conceive,which led to the Shade’s being advised by the gallery to ‘turnover!’ - a recommendation which it took extremely ill. It waslikewise to be noted of this majestic spirit that whereas it al-ways appeared with an air of having been out a long time andwalked an immense distance, it perceptibly came from aclosely contiguous wall. This occasioned its terrors to be re-ceived derisively. The Queen of Denmark, a very buxom la-dy, though no doubt historically brazen, was considered bythe public to have too much brass about her; her chin beingattached to her diadem by a broad band of that metal (as ifshe had a gorgeous toothache), her waist being encircled byanother, and each of her arms by another, so that she wasopenly mentioned as ‘the kettledrum.’ The noble boy in theancestral boots, was inconsistent; representing himself, as itwere in one breath, as an able seaman, a strolling actor, agrave-digger, a clergyman, and a person of the utmost im-portance at a Court fencing-match, on the authority ofwhose practised eye and nice discrimination the finest strokeswere judged. This gradually led to a want of toleration forhim, and even - on his being detected in holy orders, and de-clining to perform the funeral service - to the general indig-nation taking the form of nuts. Lastly, Ophelia was a prey tosuch slow musical madness, that when, in course of time, shehad taken off her white muslin scarf, folded it up, and buriedit, a sulky man who had been long cooling his impatient noseagainst an iron bar in the front row of the gallery, growled,‘Now the baby’s put to bed let’s have supper!’ Which, to saythe least of it, was out of keeping.Upon my unfortunate townsman all these incidents accumu-lated with playful effect. Whenever that undecided Princehad to ask a question or state a doubt, the public helped himout with it. As for example; on the question whether ‘twasnobler in the mind to suffer, some roared yes, and some no,

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and some inclining to both opinions said ‘toss up for it;’ andquite a Debating Society arose. When he asked what shouldsuch fellows as he do crawling between earth and heaven, hewas encouraged with loud cries of ‘Hear, hear!’ When he ap-peared with his stocking disordered (its disorder expressed,according to usage, by one very neat fold in the top, which Isuppose to be always got up with a flat iron), a conversationtook place in the gallery respecting the paleness of his leg,and whether it was occasioned by the turn the ghost had giv-en him. On his taking the recorders – very like a little blackflute that had just been played in the orchestra and handedout at the door – he was called upon unanimously for RuleBritannia. When he recommended the player not to saw theair thus, the sulky man said, ‘And don’t you do it, neither;you’re a deal worse than him!’ And I grieve to add that pealsof laughter greeted Mr. Wopsle on every one of these occa-sions.But his greatest trials were in the churchyard: which had theappearance of a primeval forest, with a kind of small ecclesi-astical wash-house on one side, and a turnpike gate on theother. Mr. Wopsle in a comprehensive black cloak, being de-scried entering at the turnpike, the gravedigger was admon-ished in a friendly way, ‘Look out! Here’s the undertaker a-coming, to see how you’re a-getting on with your work!’ Ibelieve it is well known in a constitutional country that Mr.Wopsle could not possibly have returned the skull, after mor-alizing over it, without dusting his fingers on a white napkintaken from his breast; but even that innocent and indispensa-ble action did not pass without the comment ‘Wai-ter!’ Thearrival of the body for interment (in an empty black boxwith the lid tumbling open), was the signal for a general joywhich was much enhanced by the discovery, among thebearers, of an individual obnoxious to identification. The joyattended Mr. Wopsle through his struggle with Laertes on thebrink of the orchestra and the grave, and slackened no moreuntil he had tumbled the king off the kitchen-table, and haddied by inches from the ankles upward21.

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21 C. Dickens, Great Expectations, Oxford University Press, London 1998, pp. 239-41.

Anche in questo caso pare che il romanziere abbia tratto ispira-zione da una rappresentazione22 in cui il ruolo di Amleto era inte-pretato dall’attore francese Charles Albert Fechter, che comparve sul-le scene londinesi per la prima volta nel marzo del 1861. Quindicigiorni prima che l’episodio fosse raccontato sulle pagine del setti-manale diretto da Dickens «All the Year Round».

In fondo, poco più di vent’anni prima, Dickens l’aveva già rico-nosciuto, e senza l’accattivante ironia del racconto di Pip. Il teatro ot-tocentesco non sapeva più portare in scena la forza e la bellezza concui la tragedia del giovane Amleto era stata concepita dal suo auto-re. Dalle pagine di Nicholas Nickleby (1838-39), lo scrittore vittoria-no dichiarava ormai scomparsa la speranza di trovare un attore ingrado di interpretare, con la dovuta grazia e la dovuta maestria, il pri-smatico Principe di Danimarca:

‘What man is there, now living, who can present before us allthose changing and prismatic colours with which the char-acter of Hamlet is invested?’ exclaimed Mrs. Curdle.‘What man indeed – upon the stage,’ said Mr. Curdle, with asmall reservation in favour of himself. ‘Hamlet! Pooh!Ridiculous! Hamlet is gone, perfectly gone’23.

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22 A. Welsh, Hamlet in His Modern Guises, Princeton, New Jersey 2001, p. 107.23 C. Dickens, The Life and Adventures of Nicholas Nickleby, Oxford University Press,

London 1998, p. 311.

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Preferiremmo sorvolare su questo dramma e non dir nulla. Tuttoquel che riusciremmo a dire non sarebbe all’altezza del tema; e nep-pure di quel che noi stessi potremmo immaginare. Provare a descri-vere il dramma in sé o i suoi effetti sulla mente è pura presunzione:tuttavia qualcosa dovremo dirla. È dunque il migliore tra i suoidrammi, poiché è quello in cui Shakespeare fa davvero sul serio. Quiè completamente avvinto nella rete della sua stessa immaginazione.La passione che ha scelto come soggetto è quella che più di ogni al-tra affonda le sue radici nel cuore dell’uomo; quella con il legamepiù difficile da sciogliere; quella che, una volta sradicata, altera deltutto la struttura del dramma. Ecco quel che nessuno all’infuori diShakespeare avrebbe potuto mostrarci: la profondità della naturaumana, la forza della passione, il continuo conflitto tra gli elementidel nostro essere, la piena fiducia nella pietà filiale, la vorticosa anar-chia e lo scompiglio dei pensieri nel sentire questo sostegno venirmeno, il contrasto tra le fondamenta regolari e solide dell’affetto na-turale e i movimenti rapidi e irregolari dell’immaginazione, im-provvisamente strappata dai suoi luoghi abituali nell’anima. Questovediamo. La mente di Lear, vacillando sotto il peso degli affetti e imovimenti precipitosi della passione, è come una possente imbarca-zione sconvolta dai venti e da onde impetuose e tuttavia pronta a ca-valcare la tempesta, grazie all’ancora fissa sul fondo del mare; è co-me una scogliera colpita dalla forza incessante di un vortice di schiu-ma, o come un immenso promontorio scosso dall’impeto di un ter-remoto.

Lo stesso personaggio di Lear è pensato espressamente per que-sto scopo. È l’unico terreno su cui una storia simile avrebbe potuto

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essere costruita in modo così vero ed efficace. È la sua fretta impru-dente, la violenta impulsività, il suo esser cieco a tutto fuorché ai det-tami delle proprie passioni o dei propri affetti, la causa di tutte le suesfortune, quel che esaspera la sua impazienza e aumenta la pietà cheproviamo per lui. Il ruolo interpretato da Cordelia è straordinaria-mente bello: la storia è quasi tutta iscritta nelle sue prime battute. Ve-diamo subito il precipizio sul quale il povero anziano re è stato spin-to dall’ingenuità della sua richiesta, vediamo la semplicità indiscretadell’amore di Cordelia (che ha sicuramente in sé un po’ dell’ostina-zione di suo padre) e l’ipocrisia delle pretese delle sue sorelle. Forsela prima esplosione di quella nobile ondata di passione che percorretutto il dramma è nella protesta di Kent al suo sovrano, dinanzi al-l’ingiustizia della sentenza nei confronti della figlia più piccola –«Tanto vale che Kent sia villano, se Lear è pazzo!»1. La sobrietà viri-le con cui si difende dal disappunto del re imprudente è pari alla di-gnità con cui accetta la rovina del suo signore. La vera natura delledue sorelle maggiori, Regan e Gonerill (sono così odiose che dete-stiamo persino ripetere i loro nomi) si manifesta nella risposta chedanno a Cordelia quando le invita a comportarsi bene con il padre– «Non vi compete prescriverci il nostro dovere»2 – odiano ricevereconsigli perché sono determinate a compiere il male e pretendonodi fare il bene. Il tocco finale dell’antipatia dei loro personaggi è laloro premeditata ipocrisia. La mancanza di questa odiosa qualità èl’unico conforto nel personaggio di Edmund il bastardo, dettaglioche a volte ci riconcilia con lui. Non corriamo il rischio di esagera-re le sue colpe, poiché egli per primo vi rinuncia e ammette di esse-re un «semplice criminale»3. Non vi è altro da dire. La sua profondaonestà in questo è ammirevole. Un suo discorso ne vale milioni. Suopadre Gloster4, che egli ha appena ingannato con una storia falsa se-condo cui suo fratello Edgar cospira contro la sua vita, attribuisce ilsuo comportamento innaturale e la strana depravazione dei tempi al-le ultime eclissi di sole e di luna. Edmund, che è nascosto, quando

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1 W. Shakespeare, Re Lear, Atto I, sc. I, vv. 146-147. Dove non indicato diversa-mente, il riferimento ad atto, scena e versi è al testo di Re Lear.

2 Atto I, sc. I, v. 277.3 Atto V, sc, III, v. 99. 4 In Hazlitt la grafia di Gloucester è Gloster.

l’altro si allontana, afferma – «È questa la suprema stupidità del mon-do, che quando ci sta male la fortuna – spesso perchè l’abbiamo trop-po ingozzata – attribuiamo la colpa delle nostre disgrazie al sole, al-la luna e alle stelle, come se noi fossimo canaglie per necessità, stupi-di per coercizione celeste, furfanti, ladri e traditori per prevaricazio-ne delle sfere, ubriachi, mentitori e adulteri per obbedienza coatta al-l’influsso dei pianeti; e ogni nostra malvagità è dovuta a imposizionedegli dei. Mirabile scappatoia per l’uomo puttaniero, imputare i suoiistinti da capro a una qualche costellazione. Mio padre si è accoppia-to con mia madre sotto la coda del Drago, e la mia natività è stata nelsegno dell’Orsa Maggiore, ragion per cui sono violento e lascivo.Piaghe di dio, sarei stato quel che sono anche se l’astro più vergina-le del firmamento avesse strizzato l’occhio alla mia bastardaggine»5.Il personaggio nel suo insieme e la naturale spontaneità della sua in-famia contrastano con la malignità cupa e rancorosa di Regan e Go-nerill; il legame con quel che accade nella trama secondaria, in cui lapersecuzione di Gloster da parte di uno dei suoi figli e l’ingratitudi-ne dell’altro fanno da controparte agli errori e alle sfortune di Lear– la doppia relazione con le due sorelle e il contributo nel provoca-re la catastrofe finale, tutto è gestito con un’abilità e una forza fuoridal comune.

Nel rappresentare la logica della passione, Shakespeare raggiungeil suo apice, come giustamente è stato detto, nel terzo atto di Otelloe nei primi tre di Lear: quelli che racchiudono gli esempi migliori siadelle passioni dei singoli sia degli effetti straordinari generati dalle di-verse circostanze e dall’indole di chi parla. Vediamo il sentimentofluire e rifluire, fermarsi e ripartire in attacchi febbrili, opporre resi-stenza, recuperare vigore nelle pause, approfittare di ogni parola o ge-sto passeggeri, respingere rapido ogni insinuazione, vediamo l’animanelle sue alterne aperture e chiusure, e tutto «l’abbagliante recintodella controversia»6 in un combattimento fatale con armi avvelena-te, in cui ogni colpo al cuore è mortale. In Otello abbiamo visto co-me l’ignara franchezza e le passioni impetuose del Moro siano sfrut-tate ed esasperate dall’astuta destrezza di Iago. Quel che in Lear au-

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5 Atto I, sc. II, vv. 122-138.6 Riferimento a J. Milton, Comus (1634), «Gay rethoric that hath so well been

taught her dazzling fence» (vv. 790-791).

menta la compassione del lettore e l’incontenibile tormento nel cuo-re dolente del re, è la terrificante indifferenza delle sue figlie insiemeal loro egoismo calcolato, freddo e ostinato. Le intense passioni delpadre sembrano affilate sui loro cuori di pietra. Il contrasto sarebbetroppo doloroso, troppo forte il colpo, se non vi fosse l’intervento delMatto a interrompere tempestivo, con la sua leggerezza, l’incedere diun sentimento impossibile da sopportare, e a ridare vigore al cuoreindurito da un’emozione così forte. L’immaginazione è lieta di tro-vare ristoro tra i commenti per metà seri e per metà comici del Mat-to, come la mente in ansia per un’operazione chirurgica si lascia an-dare a battute di spirito. Solo nella figura grottesca del Matto, tipicadell’epoca barbarica, avrebbe potuto risiedere l’elemento tragico del-la storia. Anche da un altro punto di vista la sua presenza è indispen-sabile, poiché mentre ci distrae da un disgusto così intenso, riesce aportare il pathos al suo apice, semplicemente mostrando la commo-vente debolezza dell’anziano re e le sue irreparabili conseguenze.Lear può ben «bussare alla porta che ha lasciato entrare la sua follia»7,dopo che, come dice il Matto, «ha trasformato le sue figlie in sue ma-dri»8. Nel terzo atto il suo personaggio scompare per permettere aEdgar di fare il suo ingresso come ‘povero Tom’, particolare che bensi intona con la furia crescente degli eventi; e nulla potrebbe suscita-re maggiore interesse della differenza tra la pazzia reale di Lear equella presunta di Edgar, in contrasto con l’affinità nel dolore provo-cata dalla perdita degli affetti naturali. La maestria – se non vogliamodire arte – di Shakespeare, oltre che nel rispetto delle regole, risiedenella sua conoscenza dei legami tra le passioni e i loro effetti sullamente, e anticipa e supera tutti gli sforzi fatti dall’arte più raffinatama non ispirata da alcun genio.

Un esempio perfetto della potenza drammatica di Lear è nel pri-mo dialogo tra il re e sua figlia, quando il suo temperamento sangui-gno, se non fosse per le parole di uno dei suoi cavalieri, gli fa igno-rare le accuse premeditate contro di lui. Torna dalla caccia con il suoseguito e la sua consueta impazienza erompe fin dalle prime parole,«Non fatemi aspettare il pranzo neppure un attimo. Su andate a pre-

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7 Atto I, sc. IV, v. 271. 8 Atto I, sc. IV, vv. 169-170.

pararlo»9. Quindi incontra il fedele Kent sotto mentite spoglie e loprende al suo servizio; la prima prova della fedeltà del suo servo è nelfar inciampare Oswald, l’invadente maggiordomo, figura spregevoleper tutto il dramma. Ecco il dialogo che segue l’ingresso di Gonerill:

LearAllora figlia, che ci sta a fare quel cipiglio in capo? Da un po’ di tempo siete troppo accigliata.

MattoEri pure bellino quando non avevi bisogno di curarti del suo cipiglio.Adesso sei uno zero senza cifre davanti. Sono meglio io di te, adesso: iosono un matto, tu non sei nulla. [A Gonerill] Sì, certamente, terrò a ba-da la lingua. Me lo comanda la faccia vostra, anche se voi non dite nul-la. Zitto, ohibò,chi neppur una crosta si serbò,stanco di tutto, ne vorrà poi un po’.Quello lì è un baccello sgusciato.

GonerillNon soltanto, signore, codesto vostro matto patentato,ma altri del vostro seguito insolentecon critiche e litigi ogni momentosi abbandonano a risse oscene e insopportabili. Signore,credevo che col rendervi informato a chiare noteavrei ricevuto soddisfazione; ma mi viene il timore,per quel che avete detto e fatto or ora,che voi proteggiate questo comportamento, anzi lo promuoviate col vostro avallo; se questo è il caso, la colpanon può andare impunita, né la punizione rinviata.Quest’ultima, pel rispetto dovuto all’integrità dello stato,avrebbe conseguenze che in altre circostanze potrebbero sembrare offesa vergognosa verso di voi, ma la necessità la farà definireprocedura corretta e razionale.

MattoPerché lo sapete, zietto,

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9 Atto I, sc. IV, v. 8.

il passero ha nutrito il cuculo per tanto,che infine i cuculetti se lo sono mangiato.Col che la candela si spense e si è rimasti al buio.

LearSiete voi nostra figlia?

GonerillSu signore,vorrei che faceste uso della vostra saggezza,di cui vi so dotato, e rinunziastea queste esibizioni, che negli ultimi tempivi rendono diverso da quello che voi siete.

MattoAnche l’asino lo sa quando è il carro che tira il cavallo.Arrì Giannina, ti voglio bene!

LearChi mi conosce di voi? Questo qui non è Lear.Vi pare che Lear cammini così, parli così? Dove ha gli occhi? Forse è rimbecillito, e i suoi sensisono in letargo – Ah, è sveglio? Non è vero.Chi sa dirmi chi sono? L’ombra di Lear.Vorrei proprio saperlo; perché questi emblemi di regalità, la conoscenza e la ragione vorrebbero farmi credere a torto che io abbia avuto delle figlie. Come vi chiamate, bella signora?

GonerillCodesto vaneggiare, signore, è della stessa rismadelle altre vostre nuove trovate. Vi supplicodi non fraintendere i miei propositi; come è vero che sieteun vecchio venerabile, dovreste essere savio.Qui voi tenete cento cavalieri e scudieri,persone turbolente, debosciate e sfrontate,tanto che questa nostra corte, contagiata dalle loro maniere,sembra ormai una locanda malfamata; sbracataggine e lasciviala rendono più simile a una taverna o a un bordelloche non ad una reggia. È una vergogna che invocaprovvedimenti immediati. Lasciatevi dunque indurre da colei

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che, altrimenti, saprà far sue le cose che ora chiede in grazia,a ridurre di un poco il vostro seguito,e coloro che restano alle vostre dipendenzesiano uomini quali si convengono alla vostra vecchiaiain grado di conoscere se stessi e voi.

LearTenebre e demòni!Sellate i miei cavalli! Convocate il mio seguito!Bastarda degenere, ti toglierò il disturbo.Ancora mi rimane una figlia.

GonerillVoi picchiate i miei uomini, e la vostra marmaglia turbolentatratta da servitori persone migliori di loro.[Entra il duca di Albany]

LearGuai a chi si pente troppo tardi! – Siete qui, signore?E siete voi a saperlo? Parlate, signore! – Preparate i cavalli.Ingratitudine, demonio dal cuore di marmo,più orrido, quando ti manifesti in una figlia,di un mostro marino!

AlbanyVi prego, signore, abbiate pazienza.

LearNibbio maledetto, tu menti!Il mio seguito è composto di uomini scelti e di merito,che conoscono perfettamente il loro doveree rispettano con estremo scrupolol’onore del loro nome. Oh, com’era piccola la colpache mi parve in Cordelia tanto orrenda, da svellere,come arnese di tortura, l’intera struttura del mio esseredal centro cui era fissata, da scacciare ogni affetto dal mio cuoresostituendovi fiele. O Lear, Lear, Lear,bussa alla porta che ha lasciato entrare la tua follia,e ne ha fatto uscire tutto il tuo senno. Andate, andate, voi che siete con me.

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AlbanyMio signore, quant’è vero che non so che cosav’abbia fatto adirare, io non ne ho colpa.

LearPuò darsi signore.Ascolta, Natura, ascolta! Dea venerata, ascolta!Se mai intendesti rendere quest’essere fecondo,revoca il tuo proposito, riversale nell’uterola sterilità, prosciuga in leigli organi della generazione, sì che dal suo corpo degenerenon scaturisca un figlio ad onorarla. O se proprio non puònon generare, fa sì che suo figliosia composto di umor maligno e viva soltantoper infliggerle torture snaturate.Che le copra di rughe la giovane fronte,le scavi solchi nelle guance a forzadi lacrime, volga in dileggio e in disprezzole sue pene e le sue gioie di madre, così che sappiaquanto l’avere un figlio ingrato sia dolore più acutodel morso del serpente. Andiamo, andiamo! [Esce]

AlbanyO dei che veneriamo, a che cosa è dovuto questo sfogo?

GonerillNon preoccuparti troppo di saperne di più;lascia che sfoghi i suoi umori come vuolela demenza senile.[Rientra Lear]

LearCome, cinquanta dei miei cavalieri in un sol colpo?Entro quindici giorni?

AlbanyChe cosa accade mio signore?

LearTe lo dirò: vita e morte! Mi vergognoche tu abbia il potere di scuotere così

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la mia virilità, che queste lacrime cocenti scaturite a forzati rendano degna di loro. Nebbie e bufere ti colgano!La maledizione di un padre apra squarci insondabiliin tutti i sensi tuoi! – vecchi occhi illusi,se seguitate a piangere per questo, vi strapperòe getterò con l’acqua che versatea temperare calce. Siamo dunque a questo punto?E così sia. Ho ancora un’altra figliaChe, ne sono certo, è gentile e premurosa.Quando lei sentirà quel che mi hai fatto, con le unghieti straccerà quella faccia da lupa. Scoprirai che sapròriacquistare l’aspetto cui tu crediche io abbia rinunziato per sempre. Vedrai.[Escono] 10

Sicuramente un ottimo dialogo: non sorprende che, intuendo inanticipo le sue conseguenze, Lear subito dopo affermi «Non fatemidiventare matto, matto no, cieli pietosi!»11: ma per quanto raffinato siaquesto scoppio di rabbia e indignazione dovuto al primo colpo sfer-rato alle sue speranze e attese, non è nulla in confronto agli effettidella sua duplice delusione e ai ripetuti sforzi di capire a chi di loropossa affidarsi per trovare conforto, quando entrambe le figlie si ri-bellano alla sua età e alla sua debolezza. È con una certa difficoltà cheLear riesce a parlare con sua figlia Regan e con suo marito nel ca-stello di Gloster. D’accordo con Gonerill, i due hanno lasciato la lo-ro casa allo scopo di sfuggirgli. I suoi timori sulle prime sono au-mentati da questa circostanza e quando Gloster, di cui sono ospiti, faappello al temperamento ardente del Duca di Cornovaglia comescusa perché non siano importunati una seconda volta, Lear esclama:

Vendetta, peste, morte e dannazione!Collerica? La tempra? Ah, Gloster,io voglio parlare al Duca di Cornovaglia e a sua moglie12.

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10 Atto I, sc. IV, vv. 187-310.11 Atto I, sc. V, v. 45.12 Atto II, sc. IV, vv. 93-95.

In seguito, forse non sentendosi bene lui per primo, sembra rico-noscere l’idea che anche essi non stiano bene, ma quando poi ricor-da che hanno mandato il suo messaggero (Kent) alla gogna, tutti isuoi sospetti riaffiorano e insiste nel volerli rivedere.

Entrano Cornovaglia, Regan, Gloucester e servitori

LearBuon giorno a tutti e due.

CornovagliaSaluti a Vostra Grazia.[Kent viene liberato dai ceppi]

ReganSono lieta di vedere Vostra Altezza.

LearRegan, ti credo. E ho ragione di crederlo.Se tu non fossi lieta di vedermi, io mi vedrei costrettoa divorziare dalla tomba di tua madre, perché racchiudeun’adultera. [a Kent] Sei libero? Di questodiscorreremo poi. – Regan, carissima,tua sorella è un’infame. O Regan, mi ha legato al pettol’ingratitudine dal rostro aguzzo come un avvoltoio – non riesco quasi a parlare – non potrai crederecon che gusto perverso… O Regan!

ReganVi prego, mio signore, state calmo. Io preferisco credere che voinon siate tanto in grado di valutarne i meriti, piuttosto che pensareche lei abbia mancato ai suoi doveri.

LearRipeti, che vuol dire?

ReganNon posso credere che mia sorella sia menomamentevenuta meno all’obbligo suo. Se, signore, ha cercatodi frenare gli eccessi dei vostri seguaci,le ragioni eran tali e il fine così buonoda esonerarla da qualsiasi biasimo.

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LearLa mia maledizione la colpisca

ReganSiete vecchio, signore.La natura è in voi al limite del suo dominio. Dovrestelasciare che vi guidi e vi consiglichi è in grado di discernere la vostra condizionemeglio che non possiate farlo voi. Perciò vi pregodi ritornare da nostra sorella;ditele che le avete fatto torto.

LearPer chiederle perdono?Guarda che bella scena per tutta la famiglia:‘Cara figliola, confesso che son vecchio:i vecchi sono inutili; vi supplico in ginocchio,fatemi la carità di un letto, di un vestito, di un po’ di cibo’.

ReganBasta, mio buon signore! Questa è un’esibizione indecorosa.Tornate da mia sorella.

LearMai e poi mai, Regan.Mi ha privato di metà del mio seguito, mi ha guardatocon occhio ostile, mi ha ferito al cuorecon la sua lingua, come una vipera. Tuttele vendette che il cielo tiene in serbocadano sul suo capo ingrato! Voi, esalazioni infette,deformate le membra dei suoi figli non nati!

CornovagliaVergogna, signore, vergogna!

LearVoi, fulmini forcuti, avventate le vostre fiamme accecantinei suoi occhi sprezzanti! Voi, vapori che il solerisucchia alle paludi, contagiatela sua bellezza, coprendola di piaghe!

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Regan Benedetti iddii!Lo stesso augurerete a me, quando vi prenderà l’umore collerico.

LearNo Regan, non avrai la mia maledizione.La tua natura mansueta non può rendertiinumana. Gli occhi di tua sorella sono feroci; i tuoiconfortano, non fulminano. Non è da te lesinareSu quel che chiedo, decimare il mio seguito.Usar parole amare, ridurre le mie prerogative,e chiudere la porta a catenaccioper non lasciarmi entrare. Tu conoscigli affetti della natura, i legami dei figli,i rapporti di cortesia, i doveri della gratitudine.Non hai dimenticato la metà del mio regnoche ti ho concesso in dote.

ReganMio buon signore, veniamo al punto.

LearChi ha messo in ceppi il mio servo?[squillo di tromba fuori scena]

CornovagliaChe tromba è quella?

ReganLa conosco, è di mia sorella. Ciò conferma la letterache ne annunciava la venuta. È arrivata la vostra signora?

LearCostui è il miserabile la cui boria d’accattorisiede nel favore volubile di colei che segue.Fuori di qui, lacchè, che non ti veda più!

CornovagliaChe intende Vostra Grazia?

LearChi ha messo in ceppi il mio servitore? Regan, spero davveroche tu non lo sapessi.

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Chi arriva, o cieli!Se amate i vecchi, se il vostro mite imperoriconosce obbedienza, se siete vecchi anche voi,fate vostra la causa! Prendete le mie parti!Non ti vergogni di guardar questa barbae tu, Regan, consenti di toccarle la mano?

GonerillE perché non la mano, signore? Cosa ho fatto di male?Non tutto è male quel che un dissennato ritiene tale,o è chiamato così dall’idiozia senile?

LearO petto mio,sei troppo forte, come fai a resistere? – Chi ha messo in ceppi il mio servo?

CornovagliaIo, signore; ma il suo comportamentoNon meritava neppure tanto onore.

LearVoi, siete stato voi?

ReganVi prego, padre, voi siete debole; rendetevene conto.Se fino allo scadere del mese stabilitoritornerete a stare da mia sorella, congedandometà del vostro seguito, poi verrete da me.Son lontana da casa e non ho i mezzinecessari per darvi degna ospitalità.

LearRitornare da lei, congedando cinquanta cavalieri!No; rinnego piuttosto qualsiasi tetto e accetto di affrontarela violenza del cielo, di tener compagniaal lupo e al gufo, di sentir l’aspro morsodel bisogno! Ritornare da lei! Tanto varrebbeinginocchiarmi davanti al trono di quel focoso Re di Franciache ha accolto senza dote la nostra ultima nata,e mendicare da lui una pensione da scudiero per prolungareun’ignobile vita. Ritornare da lei!

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Convincimi piuttosto a far da schiavo e da bestia da somaper questo detestabile mozzo di stalla.

Gonerill Come preferite, signore.

LearTi prego, figlia, non farmi impazzire.Io toglierò il disturbo, figlia mia. Addio,non c’incontreremo più, non ci vedremo.Eppure sei mia carne, mio sangue, sei mia figlia – O meglio, una cancrena nella carne che sono costrettoa riconoscere per mia. Tu sei un bubbone, un ascessopurulento, o una pustola rigonfiadel mio sangue corrotto. Ma non ti rimprovero.l’infamia venga quando vuole: io non l’invoco,non chiedo al dio del tuono di scagliare i suoi fulmini,né ti denuncio a Giove, il giudice supremo.Pentiti, quando puoi, migliora con tuo comodo,posso essere paziente, posso stare con Regan,io ed i miei cento cavalieri.

ReganNon esattamente.Non vi attendevo ancora, né sono preparataper farvi l’accoglienza che vi spetta.Date ascolto, signore, a mia sorella;chi guardi con criterio la vostra indignazione appassionatadovrà pur riconoscere che siete vecchio, e allora…Ma lei sa quel che fa.

LearE ti pare ben detto?

ReganOserei confermarlo, signore. Cinquanta cavalieri!Non vi sembra abbastanza? A che servono di più?Anzi, perché cinquanta, dato che sia il costo che il rischiomilitano contro un tal numero? Sotto uno stesso tettocome possono tante persone agli ordini di due padroni diversistarsene in pace? È difficile, impossibile, quasi.

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GonerillPerché mai, mio signore, non vi fate serviredai dipendenti della sua casa, o dai miei?

ReganPerché no, mio signore? Così se commettessero mancanzecontro di voi, potremmo redarguirli. Se volete venirea star con me, ora che vedo il rischio, vi domandodi portarne soltanto venticinque; per piùnon avrò posto, né potrò accettarli.

LearVi ho dato tutto…

ReganEd era ora.

LearVi ho creato mie tutrici, depositarie dei miei beni,a condizione di mantenere un seguitodi tanti cavalieri. Dovrei adesso venireda te con venticinque soltanto? Regan, tu dici questo?

ReganE lo ripeto, mio signore. Non di più, se venite da me.

LearI mostri peggiori paion belli a confrontocon altri più mostruosi. Il non essere pessimo è un titolo di lode. Verrò con te: [a Gonerill]cinquanta vale due volte venticinque;perciò il tuo affetto è il doppio del suo.

Gonerill Sentite, mio signore;che bisogno avete di venticinque, o di dieci, o di cinquecon voi, in una casa ove due volte tantihanno ordine di servirvi?

ReganChe bisogno avete sia pur d’uno soltanto?

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Lear

LearNon cavillate sul ‘bisogno’! Gl’infimi mendicantinella loro miseria hanno qualcosa di superfluo.Si si concede alla natura nulla più dello stretto indispensabilela vita dell’uomo vale meno di quella della bestia.Tu sei una gentildonna; se tutta l’eleganza consistessenell’andar caldi, la natura non avrebbe bisognodi codesti tuoi abiti sontuosi, che non ti tengon caldo.Quanto ai veri bisogni… o cieli, datemi la pazienza,di pazienza ho bisogno! Dei, mi vedete qui, povero vecchiocarico di dolori quanto d’anni,reso infelice dagli uni e dagli altri;se siete voi ad aizzare i cuori di queste figlie contro il loro padre,non fatevi gioco di me al puntoda indurmi a sopportare docilmente;ispiratemi un nobile furore; non lasciate che le armi delle donne,gocce d’acqua, contaminino le mie guance d’uomo.No,megere snaturate, io su entrambe farò le mie vendettetali che il mondo intero… farò cose…quali siano ancora non lo so, ma spargerannoterrore sulla terra. Voi credete ch’io stia per piangere.No, non piangerò. Avrei ragione di piangere; ma questo cuore si frantumeràin centomila schegge prima ch’iopianga. O Matto mio, io diventerò pazzo!13

Se in un altro autore ci fosse qualcosa di simile a un tale struggi-mento del cuore, a un tale senso di fragilità, a un’espressione cosìprofonda di tutto quello a cui si possa pensare o che si possa prova-re nelle circostanze più strazianti, ne saremmo lieti; ma purtroppo èun autore che non ci è ancora capitato di leggere.

La scena della tempesta, quella in cui egli è completamente espo-sto alla furia degli elementi, è sì terribile e spettacolare, ma non cosìbuona; le scene con Mad Tom, Kent e Gloster, invece, sono all’altez-za di quella appena citata. L’esclamazione di Lear «Vedete, persino icagnolini – Terza, Bianchetta, Cocchina – vedete, abbaiano contro di

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13 Atto II, sc. IV, vv. 124-283.

me!»14 nella scena della presunta prova delle sue figlie, il suo impar-tire gli ordini, «Si faccia l’anatomia di Regan, per vedere che cosacresce intorno al cuore»15, e il suo pensiero nel vedere la miseria diEdgar, «Null’altro al mondo se non figlie ingrate avrebbe potutocondurlo a questo»16, sono in uno stile drammatico che utilizza le ri-sorse estreme dell’immaginazione per mostrare le pulsioni più pro-fonde del cuore, dettaglio tipico di Shakespeare. Uno stile e uno spi-rito che ritroviamo nel suo interrompere il Matto che gli domanda,«Un matto è un gentiluomo o è un borghese»17, rispondendo «È unre, è un re!»18.

La parte che Gloster interpreta indirettamente nelle scene in cuila sua generosità lo porta a soccorrere Lear e a non tollerare la cru-deltà delle sue figlie, proprio nel momento in cui lui stesso, feritodalla presunta ingratitudine di suo figlio, è tentato di ucciderlo, è unostraordinario controcanto alla vicenda di Lear. L’intreccio dei fili del-la storia è davvero una meraviglia dal punto di vista artistico, quantoil corso impetuoso e mutevole delle passioni lo è in natura. Tra gliesempi migliori: l’incontro di Edgar con l’anziano padre cieco; l’in-ganno con cui finge di condurlo sulla cima della scogliera di Dover– «Su venite, signore; siamo arrivati»19 – per impedire che egli, in unsolo istante, metta fine alla sua vita e alle sue sventure; l’incontro conil perfido Oswald che poi ucciderà e, infine, il ritrovamento della let-tera che Gonerill invia a suo fratello, elemento che conduce alla ca-tastrofe finale e porta la Giustizia «a chiudere il cerchio»20 sui colpe-voli. La confusione e la rapida successione degli eventi nelle ultimescene è sorprendente. Ma l’incontro tra Lear e Cordelia è sicura-mente la parte più commovente di tutte. Ha in sé la libertà della poe-sia e la verità della natura. Il racconto del modo in cui accoglie la no-tizia del trattamento ingiusto da parte di suo padre, i rimproveri in-volontari nei confronti delle sue sorelle «Vergogna, donne, vergo-

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Lear

14 Atto III, sc. VI, vv. 61-62.15 Atto III, sc. VI, vv. 75-76.16 Atto III, sc. IV, vv. 68-69. 17 Atto III, sc. VI, vv. 9-10.18 Atto III, sc. VI, v. 11.19 Atto IV, sc. VI, v. 11.20 Atto V, sc. III, v. 173.

gna»21, l’esitazione di Lear nel vedere sua figlia, l’immagine dello sta-to di abbandono in cui si è ridotto «Ahimè, è proprio lui! L’hannoveduto or ora, furioso come il mare in tempesta, che cantava a vocespiegata»22, servono solo a prepararci e a nutrire le nostre aspettativesul seguito della storia, aspettative che trovano conferma nella scenain cui, grazie alle tenere cure di Cordelia, il re si rianima e si ricor-da di lei.

CordeliaCome sta il mio regale signore? Come sta Vostra Maestà?

LearMi fate torto a tirarmi fuori dalla tomba.Tu sei un’anima beata, ma io sono legatoa una ruota di fuoco, sì che le mie lacrimescottano come piombo fuso.

CordeliaMi conoscete, signore?

LearSei uno spirito, lo so. Dove sei morto?

CordeliaÈ ancora molto, molto lontano dal segno.

DottoreÈ appena desto. Lasciatelo stare un poco.

LearDove son stato? Dove sono? Un giorno luminoso?Sono molto confuso. Morirei di pietàvedendo un altro in questo stato. Non so che cosa dire.Non giurerei che queste son le mie mani. Vediamo.Sento questa puntura di spillo. Potessi esser sicurodella mia condizione.

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WILLIAM HAZLITT LETTORE DI SHAKESPEARE

21 Atto IV, sc. III, v. 27. 22 Atto IV, sc. IV, vv. 1-2.

CordeliaGuardatemi, signore,e levate la mano a benedirmi.No, signore, non dovete inginocchiarvi.

LearVi prego,non prendetemi in giro. Io sono un vecchio molto pazzo e sciocco,sopra gli ottanta, né più né meno,e, a dirlo chiaro e tondo,temo di non aver più il cervello a posto.Mi pare che dovrei conoscer voi e conoscere quest’uomo;eppure ho qualche dubbio; soprattutto perché non soche luogo è questo; e per quanti sforzi faccia,non ricordo questi abiti; e non so neppuredove io sia stato alloggiato la notte scorsa. Non ridete di me,perché, quanto è vero che sono uomo, credo che questa signorasia mia figlia Cordelia.

CordeliaSono proprio io, sono io23.

Una bellezza struggente quasi quanto quella della scena in cui siconsolano l’un l’altra, dopo il trionfo dei loro nemici, e sono con-dotti in prigione.

CordeliaNon siamo i primi a soffrire il peggiocon le migliori intenzioni. Sono avvilitaper te, un re conculcato; quanto a me, saprei far fronteal cipiglio dell’ipocrita sorte. –Dunque non vedremo queste figlie e sorelle?

LearNo, no, no, no; vieni andiamo in prigione.Noi due soli canteremo come uccelli in gabbia;quando tu chiederai la mia benedizione, io m’inginocchieròper chiederti perdono; e vivremo così, e pregando, e cantando

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Lear

23 Atto IV, sc. VII, vv. 44-70.

e raccontandoci antiche favole, e ridendodelle farfalle variopinte; e sentiremo quei poveri furfantiparlare della corte; e si discorrerà con loro,di chi perde e chi vince, di chi è dentro e chi è fuori;e assumeremo su di noi il mistero delle cosecome se fossimo spie degli dei; e fra le mura di una prigionevedremo consumarsi branchi e conventicole di potenti,come alte e basse maree sotto la luna.

EdmundPortateli via.

LearSui sacrifici come i nostri, Cordelia mia,gli dei stessi gettano incenso24.

Gli eventi conclusivi sono tristi, dolorosamente tristi, ma hanno unastraordinaria forza drammatica. Il senso di oppressione è alleviato dalprofondo interesse che proviamo per le sfortune altrui e dalle riflessio-ni che ne scaturiscono. Cordelia viene impiccata in prigione perché larevoca dell’ordine di Edmund il bastardo giunge troppo tardi, e Learmuore con il cuore spezzato, gemendo sul corpo di sua figlia.

LearE il mio povero matto è impiccato. Niente, niente, niente vita!Perché un cane, un cavallo, un topo hanno vita,e tu neppure un soffio? Tu non tornerai più;mai più, mai più, mai più, mai più, mai più.Vi prego slacciate questo bottone. Grazie, signore25.

Egli muore e riconosciamo la profonda verità di quel che diceKent:

Non turbatene lo spirito. Oh, lasciate che passi.È odioso procurargli la tortura sulla ruotadura del mondo26.

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24 Atto V, sc. III, vv. 3-21.25 Atto V, sc. III, vv. 304-308.26 Atto V, sc. III, vv. 312-314.

Eppure era stato trovato un lieto fine per questo dramma, conl’approvazione del Dottor Johnson e il dissenso di Schlegel. Un’au-torità migliore di entrambe, quando si parli di temi in cui siano co-involti poesia e sentimento, ha dato ragione a Shakespeare in alcunenote sulla messa in scena di Lear, con cui concluderemo questo arti-colo.

«Il Lear di Shakespeare non può essere rappresentato. Il terribilemarchingegno con cui viene simulata la tempesta che egli attraversaè inadeguato a rendere gli orrori degli elementi naturali quanto losarebbe qualunque attore nell’interpretare Lear. La grandezza di Learnon è nella dimensione fisica ma in quella intellettuale; le esplosionidella sua passione sono violente come quelle di un vulcano: sonotempeste che rimescolano fino in fondo e rivelano le immense ric-chezze di quel vasto mare che è la sua mente. È la sua mente, infat-ti, che viene messa a nudo. Questo involucro di carne e ossa è trop-po insignificante per essere oggetto di riflessione; Lear stesso sembranon tenerne conto. Se sul palco non vediamo altro che infermità fi-siche e debolezza, o l’impotenza della rabbia, quando lo leggiamo,non vediamo Lear ma siamo Lear; siamo nella sua mente, sostenutida una nobiltà che sconcerta la malvagità delle figlie e la furia delletempeste. Nell’aberrazione della sua mente scopriamo la potenza diuna logica senza regole, slegata da quella della vita quotidiana, ma ingrado di contrastare con la sua forza, a suo piacere, la corruzione egli abusi dell’umanità, come vento che travolge col suo soffio. Cosahanno a che fare gli sguardi o i toni di voce con quella sublime iden-tità tra la sua età e quella dei cieli, se mentre li rimprovera di esserestati complici delle sue figlie, li apostrofa ‘Siete vecchi anche voi!’27.Che gesto potrebbe fare? Che voce potrebbe usare in questa scenaper dire queste cose? Ma il dramma va oltre ogni artificio, come mo-strano le sue riduzioni: è troppo difficile e freddo: dovrebbe averedelle scene d’amore e un lieto fine. Non basta che Cordelia sia unafiglia, dovrebbe distinguersi anche come amante. Tate ha infilato ilsuo uncino nelle narici di questo Leviatano, in modo che Garrick ei suoi seguaci, i protagonisti della scena, ne fossero coinvolti più fa-cilmente. Un lieto fine! Come se dopo il vero martirio che Lear ha

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Lear

27 Atto II, sc. IV, v. 188.

dovuto sopportare – dopo la violenza contro i suoi sentimenti, ungiusto congedo dal palco della vita non fosse la cosa più decorosa perlui. Se fosse destinato a vivere felice e a saper sopportare ancora il pe-so di questo mondo, perché tutto questo trambusto preparatorio,perché tormentarci con tutta questa inutile compassione? Come se ilpiacere infantile di riavere i suoi abiti dorati e il suo scettro potesseindurlo a reinterpretare quella condizione impropria, come se allasua età e con la sua esperienza tutto fosse ancora possibile, trannemorire»28.

Ecco i quattro aspetti che ci hanno colpito nella lettura di Lear:1. La poesia è uno studio interessante perché interessante è tutto

quel che c’è nella vita dell’uomo. Chiunque quindi disprezzi lapoesia, disprezza se stesso e l’umanità.

2. Il linguaggio della poesia è superiore al linguaggio della pittura;perché i nostri ricordi più duraturi fanno riferimento alle emo-zioni, non ai volti.

3. La più grande forza del genio si manifesta nel descrivere le piùgrandi passioni: poiché il potere dell’immaginazione, nelle crea-zioni artistiche, deve essere in proporzione alla forza della naturache ne è il soggetto.

4. Il piacere e il dolore nella tragedia si compensano: perché quan-to più crudele è il male rappresentato, tanto più è grande il no-stro bisogno del bene; la pena che proviamo per la sofferenzaumana si disperde in quella crescente marea di passione che la tra-gedia suscita e che travolge il cuore.

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28 Vedi un articolo intitolato Theatralia, nel secondo volume del Reflector, di CharlesLamb. Nota di Hazlitt. C. Lamb, Theatralia, No. 1. On Garrick and Acting; and the Plays of Shakespeare, con-sidered with reference to their fitness for the Stage Representation, in «The Reflector»,No. IV (1811), cfr. Id., Miscellaneous Prose, Lucas, 1912, p. 124.

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Lear ha intimidito molti critici e anche William Hazlitt confessa disentirsi a disagio al suo cospetto. Preferirebbe restare in silenzio, nondire nulla, passare oltre. La voce del critico è così sincera da non la-sciare spazio a fraintendimenti. Sarebbe meglio non parlarne perchéle parole non basterebbero. Si finirebbe per allontanarsi dal soggettodel dramma e forse anche dall’idea che noi stessi abbiamo dei suoiprotagonisti e delle loro storie. Come se fosse impossibile giungereal cuore di quella materia incandescente che solo Shakespeare ha sa-puto avvicinare e plasmare. «Yet we must say something», continuaHazlitt, quasi in un sospiro. E se proprio dobbiamo dir qualcosa, «Itis then the best of all Shakespear’s plays, for it is the one in which hewas the most in earnest»1.Hazlitt racconta ai suoi lettori che Shakespeare stavolta fa sul se-

rio, più che in qualunque altra occasione. Raggiunge profondità im-pensabili, descrive una passione che non conosce confini e al tempostesso mostra gli effetti spaventosi provocati dal tentativo di annullar-la. Le forze della natura e la lotta tra gli elementi del nostro essere, lafiducia nella pietà filiale e il tumulto dei pensieri nel sentire vacilla-re un tale conforto, il contrasto tra le fondamenta più solide dei sen-timenti umani e le scosse rapide e irregolari inflitte loro dall’imma-ginazione. «This is what Shakesperare has given, and what nobodyelse but he could give. So we believe».La figura del protagonista è l’unica intorno alla quale il dramma-

Oltre l’artificio

1 W. Hazlitt, «Lear», in Characters of Shakespeare’s Plays (IV, 257).

turgo avrebbe potuto costruire una storia simile. Lear segue solo idettami della propria passione e il suo essere così imprudente e im-petuoso è la causa tanto delle sue sventure e della sua insofferenzanell’affrontarle, quanto della nostra compassione per lui.Nella scena di apertura del dramma la reazione appassionata di

Kent è esempio perfetto dell’umore che percorre l’intera tragedia,così come nelle prime parole pronunciate da Cordelia è riflessa l’im-magine della scelleratezza di suo padre, della semplicità e purezza delproprio amore e della insincerità delle richieste delle due sorellemaggiori. Regan e Gonerill, il critico le congeda entrambe in pochebattute, dichiarando di non voler neppure ripetere i loro nomi, taleè la loro ipocrisia nel pretendere di compiere il bene perpetrando ilmale. Non così per Edmund, figlio illegittimo del Conte di Gloucester,

che guadagna la nostra attenzione, nonostante le colpe commesse,perché profondamente sincero. Al padre che scorge nell’influsso ne-gativo dei pianeti la causa delle proprie sfortune, Edmund ribatte conparole dirette e pungenti, citate dal critico dalla prima all’ultima:

This is the excellent foppery of the world, that when we aresick in fortune – often the surfeits of our own behaviour –we make guilty of our disasters the sun, the moon, and stars:as if we were villains on necessity; fools by heavenly compul-sion; knaves, thieves, and treacherous by spherical predomi-nance; drunkards, liars, and adulterers by an enforced obedi-ence of planetary influence; and all that we are evil in, by adivine thrusting on. An admirable evasion of whore-masterman, to lay his goatish disposition on the charge of a star! Myfather compounded with my mother under the Dragon’s tail,and my nativity was under Ursa Major: so that it follows, Iam rough and lecherous. Tut! I should have been what I am,had the maidenliest star in the firmament twinkled on mybastardising2.

Proprio nel paragone con l’iniquità genuina di Edmund, le duesorelle malvagie appaiono ancor più astiose e cupe. E nell’intreccio

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WILLIAM HAZLITT LETTORE DI SHAKESPEARE

2 W. Shakespeare, King Lear, atto I, sc. II, vv. 122-137.

tra la trama principale e quella secondaria, l’una fa da controparte al-l’altra, in particolare nel disegnare la figura del re che non sa distin-guere il giusto dall’ingiusto nei propri figli.

Re Lear rappresentava per Hazlitt un apice di poesia tragica e unasorta di pietra di paragone tramite la quale giudicare tutta la produ-zione e l’arte shakespeariana. Il critico si concentra sulla forza emo-tiva del dramma, considerando i suoi primi tre atti insieme al terzoatto di Otello, come ‘capolavori di Shakespeare nella logica delle pas-sioni’. Tale ‘logica’ include il contrasto, il controllo dell’espressionedelle emozioni, il ritmo e il coinvolgimento del lettore. In entrambii casi il fluire e rifluire dei sentimenti segna e condiziona parole eazioni, in un duello fatale con armi avvelenate, in cui ogni ferita puòessere quella decisiva.In Otello abbiamo potuto osservare l’abile destrezza di Iago nel-

l’esasperare il Moro inconsapevole e appassionato. In Lear quel cheaccresce il senso di partecipazione del lettore e riempie di angosciail cuore del Re è la pietrificante indifferenza di Regan e Gonerill.Un sentimento troppo intenso e doloroso per poter essere sopporta-to a lungo. Ecco che Shakespeare crea la figura del fool e gli affida ilcompito di riportare in vita un cuore condannato a indurirsi nelladisperazione e nell’abbandono. Anche gli spettatori, commenta il cri-tico, provano un senso di sollievo nell’incontrare il fool e nell’ascol-tare i suoi «half-comic, half-serious comments». Un personaggio in-dispensabile nel disegno complessivo della tragedia, fa il suo ingressoin scena proprio durante il terzo atto e permette così un’altra im-portante apparizione, quella di Edgar nei panni di Mad Tom. La fol-lia presunta di Edgar fa da controcanto a quella reale di Lear e anco-ra una volta il genio innato e la straordinaria maestria del dramma-turgo mostrano la pochezza del rispetto delle regole.Un particolare che distingue il saggio su Lear da quelli dedicati

alle altre tre grandi tragedie è la presenza di lunghe citazioni. Il cri-tico riporta interi dialoghi, decine e decine di versi, senza interval-larli, come di consueto, con considerazioni personali. Davvero man-cano le parole e allora meglio far parlare il testo da sé. La soluzionemigliore in assoluto. Leggiamo dunque lo scambio di battute tra Leare Gonerill, compreso l’arrivo di Albany, quarta scena del primo atto,e il rapido commento di Hazlitt è: «This is certainly fine». Segue la citazione del dialogo con Regan e Cornwall e la quarta

scena del secondo atto è ripresa quasi per intero. Anche qui il criti-

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Oltre l’artificio

co aggiunge poche parole, fedele alle riserve dichiarate nell’incipit delsaggio e all’assoluta ammirazione per Shakespeare:

If there is anything in any author like this yearning of theheart, these throes of tenderness, this profound expression ofall that can be thought and felt in the most heart-rendind sit-uations, we are glad of it; but it is in some author that wehave not read3.

La scena della tempesta, secondo Hazlitt, non è efficace quanto losono alcuni passaggi del terzo atto, come l’inizio della sesta scena, incui Lear, al fool che domanda «whether a madman be a gentleman ora yeoman», ribatte esclamando «A king, a king». Nell’incontro traEdgar e Gloucester ormai cieco e anziano, il modo in cui il figlioconduce il padre sulle scogliere di Dover, solo con un racconto diparole e di passi accompagnati, è commovente. Anche il ritrovarsi diLear e Cordelia non lascia spazio a note e interpretazioni. Il criticoinserisce nel testo del saggio sia la settima scena del quarto atto chel’intenso momento rappresentato dalla terza scena del quinto atto.I passaggi conclusivi della tragedia sono segnati da una tristezza

estrema, forse eccessiva. Cordelia viene uccisa per un ordine revoca-to troppo tardi, mentre Lear muore con una maledizione sulle lab-bra, «A plague upon you, murderers, traitors all!» e il cuore folle didisperazione per la perdita dell’unica figlia sincera. Nell’ultima bat-tuta che pronuncia, ripete never cinque volte, cinque volte fa risuo-nare l’impossibilità di un ritorno e con essa il proprio addio.Il saggio si conclude con una nota sul finale di Lear. Hazlitt, in un

rapidissimo giro di frase, ricorda, senza nominarlo, il lieto fine propo-sto da Nahum Tate nella sua rivisitazione del dramma, approvata daSamuel Johnson e condannata da Schlegel. Una versione sopravvissu-ta dal 1681 al 1823, per ben centoquarantadue anni. Segue un’altralunga citazione, un passaggio da uno scritto teatrale di Lamb, voce au-torevole nel lamentare l’inadeguatezza di un finale non tragico e nonsolo. Per Lamb il limite più grande del Re Lear non è nell’inadeguatotalento degli attori, non è nell’uso di macchine sceniche per simularela tempesta o nell’attenzione degli spettatori. Il limite più grande con-

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3 W. Hazlitt, «Lear», in Characters of Shakespeare’s Plays (IV, 268).

siste nella scelta di rappresentarlo. Lamb rinnega la possibilità che Leartrovi forma e consistenza nella messa in scena, negando dunque ilprincipio primo di un testo teatrale, e dichiara con determinazione ildramma shakespeariano e in modo particolare la caratterizzazione delsuo protagonista, superiori alle potenzialità del teatro.Infine, in appendice alle parole di Lamb vi è un elenco. Quattro

punti numerati. Corrispondono alle sottolineature di John Keats nel-la propria copia dei Characters.

1. That poetry is an interesting study, for this reason, that itrelates to whatever is most interesting in human life.Whoever therefore has a contempt for poetry, has a con-tempt for himself and humanity.

2. That the language of poetry is superior to the languageof painting; because the strongest of our recollections re-late to feelings, not to faces.

3. That the greatest strength of genius is shewn in describ-ing the strongest passions: for the power of the imagina-tion, in works of invention, must be in proportion to theforce of the natural impressions, which are the subject ofthem.

4. That the circumstance which balances the pleasureagainst the pain in tragedy is, that in proportion to thegreatness of the evil, is our sense and desire of the oppo-site good excited; and that our sympathy with actual suf-fering is lost in the strong impulse given to our natural af-fections, and carried away with the swelling tide of pas-sion, that gushes from and relieves the heart.

«The Lear of Shakespeare cannot be acted» dichiara CharlesLamb trovando l’approvazione di Hazlitt, ma prima che dalle plateerisuonasse un tale ammonimento furono alterne le sorti seguite dal-la tragedia shakespeariana sulle scene londinesi. In una biografia di David Garrick vi sono delle note interpreta-

tive legate alla quarta scena del primo atto, il momento in cui Learsi inginocchia e invoca la maledizione della Natura:

You fall precipitately on your knees, extend your arms, setyour teeth, and with a savage distraction in your look, trem-

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Oltre l’artificio

bling in all your limbs, and your eyes pointed to Heaven (thewhole expressing a fullness of rage and revenge), you begin‘Hear, Nature, dear goddess’, with broken, eager, inward ut-terance, and from thence rising in every line in loudness andrapidity of voice, till you come to ‘And feel how sharper thana serpent’s tooth’ &c. Then you are struck at once with yourdaughters’ ingratitude; and bursting into tears, with a mostsorrowful tone of voice, you say ‘Go, go, my people!’4

Anche l’interpretazione della follia di Lear è degna di nota. Len-ti movimenti del capo, lo sguardo fisso, l’espressione del volto di chivorrebbe dire e già comunica molto più di quello che infine riusci-rà ad affidare alle parole, e ancora dolore, miseria, l’incapacità di dis-togliere il pensiero dalla malvagità inflitta dalle proprie figlie mag-giori:

In the mad scenes there were no starts, no striving or vio-lence, his gestures were slow and feeble, hopeless misery wasin his face; he moved his head in the most deliberate man-ner; his eyes were fixed: or if they turn to anyone, he made apause, and fixed his look on the person, after a little delay; hisface at the same time telling what he was going to say beforehe had uttered a word. Through the whole character he wasan impersonation of woe and misery, and a total alienationfrom any idea but that of his unkind daughters5.

Kemble portò in scena Re Lear per la prima volta il 21 gennaio1788 al Drury Lane Theatre, con sua sorella, Mrs Siddons, nel ruo-lo di Cordelia e lo ripetè cinque volte durante l’inverno e la pri-mavera successivi. Il copione che usò fu la versione del 1681 di Na-hum Tate modificata da Garrick, il quale aveva reintrodotto in granparte il linguaggio shakespeariano, laddove Kemble ritornò a ser-virsi del linguaggio di Tate. In seguito il dramma fu tolto dal reper-torio per ordine della famiglia reale poiché la pazzia di re GiorgioIII era stata definita incurabile. È la ragione per cui nel suo «roundof farewell performances» del 1817 Kemble non potè includere il

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4 P. Fitzgerald, The Life of David Garrick, Simpkin, Marshall, London 1899, p. 251.5 Ivi, p. 254.

ruolo di Lear. Solo nelle sue primissime interpretazioni fu convin-cente, sebbene Sir Walter Scott lo reputò inferiore a Garrick, «Hewas too elaborately aged, and quenched with infirmity the insanefire of the injured father»6. Osservando il Re Lear di Kemble, anche Leigh Hunt dichiarò ina-

deguata l’estrema precisione dell’interpretazione classica del grandeattore. La pazzia non può essere «always stiff, always precise» e dunquel’unico risultato possibile sarà quello di riconoscere sulla scena non unuomo folle di dolore, ma solo una statua, immobile e impassibile nel-la sua espressione malinconica. Nelle parole del critico «He is alwaysstiff, always precise, and he will never, as long as he lives, be able to actanything mad unless it be a melancholy mad statue»7. Il dramma, dunque, sia negli anni di Garrick, sia in quelli di Kem-

ble, seguiva per grandi linee la versione di Tate, nella quale mancava ilfool e nella conclusione si rivelava la storia d’amore tra Edgar e Cor-delia. Certo, è necessario fare uno sforzo d’immaginazione per ricor-dare che nel Settecento Lear non si concludeva con una scena all’a-perto, con Lear che portava in scena il corpo senza vita di Cordelia.Piuttosto nell’Ottocento l’ultima scena veniva recitata all’interno

di una prigione, dove Lear viene trovato addormentato «on a pile ofstraw», così come recita la didascalia iniziale della scena, con la testasul grembo di Cordelia. Lear si desta, uccide i ruffians giunti per as-sassinarlo, viene salvato da Edgar, conferisce il titolo di regina a Cor-delia – «Winds catch the sound, and bear it on your rosy wings toheav’n, Cordelia is a queen» – e la dà in sposa ad Edgar. Subito do-po Lear conduce Cordelia al centro della scena, Edgar la raggiungerapidamente ed entrambi si inginocchiano ai piedi del Re.In un copione del 1815, revisionato da John Kemble, la quinta

scena del quinto atto è così presentata:

A Prison.King Lear discovered asleep on a truss of straw, with his head on Cordelia’s lap.

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6 J. Boaden, Memoirs of the Life of John Philip Kemble, London 1825, pp. 378-9.7 L.H. and C.W. Houtchens (ed.), Leigh Hunt’s Dramatic Criticism, New York 1949,

p. 20.

Lear Cordelia then shall be a queen, mark that!Cordelia shall be queen; winds catch the soundAnd bear it on your rosy wings to heaven,Cordelia is a queen!

Negli ultimi versi del dramma, secondo una versione di Tate ri-scritta da John Philip Kemble, le battute conclusive sono affidate alRe, espressione di un congedo che, nell’augurio di un tempo di con-templazione e di quiete, sembra ricordare quello di Prospero:

GloucesterNow, gentle gods, give Gloster his discharge!

LearNo, Gloster, thou hast some business yet for life;Thou, Kent, and I, retired to some close cell,Will gently pass our short reserves of timeIn calm reflexion on our sev’ral fortunes,Cheer’d with relation of the prosperous reignOf this celestial pair: thus our remainsShall in an ever course of though be past,Enjoy the present hour, nor fear the last.[Exeunt omnes]

Il 20 gennaio 1820 muore re Giorgio III e si riprende a rappre-sentare King Lear. Si racconta che per studiare il personaggio, Kean sirecò nei lunatic asylums di St. Luke e Bethlehem, in modo da poterosservare gli effetti della pazzia prima di portarli in scena. In quel periodo King Lear veniva ancora rappresentato nella ver-

sione alterata di Nahum Tate. Betterton, Garrick e Kemble aveva-no interpretato quella versione, in cui Edgar diviene lo sposo diCordelia e nell’ultima scena (rivisitata) del dramma, il re, che recu-pera il senno e il proprio regno, dà loro la propria benedizione nu-ziale.Kean all’inizio seguì questa versione, ma il suo manager Robert

William Elliston ne scrisse un’altra in cui quanto di più melodram-matico sarebbe stato portato in scena. Tuttavia pare che durante lascena della tempesta Elliston decise di usare troppe macchine sceni-che, una trovata che la prima sera provocò solo una gran confusione.

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Prima di interpretare la tragedia, Kean chiese un periodo di soli-tudine per perfezionare la parte. Poi andò ad Hastings, dove ognigiorno si recava sulla spiaggia, in una zona solitaria, e andava su e giùrecitando i versi di Lear. Il suo desiderio era riuscire a far sembrareche le proprie parole fossero rivolte solo «to empty air». Quando finalmente il suo Lear fece il proprio ingresso in teatro,

egli interpretò la pazzia del re con grande precisione, agitava le ma-ni come se fossero slegate dai propri sensi, come se non fossero abi-tuate ad alcun controllo e ad alcuna volontà. Era impossibile regge-re il suo sguardo perso nel vuoto, la luce ardente che brillava nei suoiocchi lontani. Il 24 aprile 1820 Kean interpretò Re Lear al Drury Lane. E tut-

tavia la sua interpretazione non fu acclamata a gran voce. In realtà fuuna grande interpretazione, ma in quel momento sembrò di granlunga inferiore al suo Riccardo e al suo Otello. Anche Hazlitt che,consapevole dell’effetto tremendo che David Garrick aveva provoca-to in quel ruolo, si aspettava di essere travolto dall’interpretazione diKean e ne fu deluso:

To call it a decided failure would be saying what we do notthink; to call it a splendid success would be saying so no less.Mr Kean did not appear to us to set his back fairly to his task,or to trust implicitly to the author, but to be trying experi-ments upon the audience, and waiting to see the result. Wenever saw this daring actor wanting confidence before, buthe seemed to cower and hesitate before the public eye in thepresent instance, and to be looking out for the effect of whathe did, while he was doing it8.

Non soprende che Hazlitt sottolinei il carattere di sperimentazio-ne dell’interpretazione di Kean, poiché Re Lear tra i drammi shake-speariani era forse quello che più aveva subito modifiche e rimaneg-giamenti e la stessa versione di cui si servirono attori del calibro diGarrick, Kemble e infine Kean risentiva ancora di tali ‘anomalie’ e ren-deva Kean, stranamente, quasi esitante dinanzi al pubblico. Hazlitt fudeluso dall’interpretazione di Kean dell’adattamento di Tate. In una

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8 W. Hazlitt, «Mr Kean’s Lear», in Dramatic Criticism (XVIII, 332).

delle sue recensioni il critico ritorna alle parole di Charles Lamb e, nelsoffermarsi su alcuni errori interpretativi di Kean, afferma che proba-bilmente non vi è attore vivente in grado di portare in scena Lear:

Kean’s performance as Lear is altogheter inferior to hisOthel lo. […] There are pieces of ancient granite that turn theedge of any modern chisel: so perhaps the genius of no liv-ing actor can be expected to cope with Lear9.

Interessante l’uso del verbo to cope, nell’abbracciare sia l’idea dell’es-sere all’altezza sia quella di affrontare qualcosa e sopportarne il peso.In un lungo e articolato saggio teatrale10 pubblicato su «The Lon-

don Magazine» nel giugno del 1820, Hazlitt traccia una storia dellerappresentazioni del dramma, partendo dall’impressione che il Leardi Garrick provocò nel Dottor Johnson. Ricorda Hazlitt che l’inter-pretazione di Garrick fu «so terrific and overwhelming» che il criti-co si augurò di non assistere mai più ad una simile messa in scena. Econ quel suo tono personalissimo e ironico Hazlitt subito aggiungeche anche dinanzi al Lear di Kean ci si augura «never again», la ra-gione però è contraria, non l’intensità, piuttosto la sua mancanza. Per sottolineare la bravura di Garrick, Hazlitt ricorda una rappre-

sentazione di Lear. Durante la scena in cui il re si inginocchia e pro-nuncia la maledizione nei confronti di sua figlia, gli spettatori sedutiin prima fila, in platea, si alzarono per osservare Garrick più da vici-no e ascoltarlo meglio. Gli spettatori della seconda fila che, al pari diquelli della prima, non volevano perdere nulla di quel momento co-sì intenso, fecero lo stesso. Così quelli della terza fila, della quarta e ditutte le altre, finché tutta la platea, come per un tacito accordo, si ri-trovò in piedi a seguire l’intera scena e tali erano la concentrazionee la partecipazione del pubblico che tutto avvenne nel silenzio piùassoluto, al punto che «you might have heard a pin drop».Non da meno le interpretazioni di Kemble, di cui sono giunte

autorevoli testimonianze, nonostante i copioni rivisitati e l’idea dellieto fine. Kean non regge il confronto con i suoi predecessori, masenza andare troppo indietro nel tempo, sembra non reggerlo nep-

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9 Ivi (XVIII, 333).10 W. Hazlitt, «The Drama No. VI», in Dramatic Criticism (XVIII, 331-40).

pure con i personaggi tragici shakespeariani interpretati fino a quelmomento. Uno per tutti, Otello. Hazlitt crede che Kean sia perfetto nel rendere le passioni che as-

salgono il Moro di Venezia. Crede anche, però, che la fortuna dellasua interpretazione sia legata alla presenza di una sola causa scate-nante. Otello è vittima della propria gelosia, un sentimento che, co-me un fiume in piena, lo tormenta e prevale su ogni altro fino a con-durlo all’ipotesi e alla realizzazione della propria vendetta. La disperazione di Lear non dipende da un unico elemento, egli

è come un naufrago, senza possibilità di approdo, senza alcuna spe-ranza o alcun faro all’orizzonte. Le ferite di Lear non conoscono ri-medio, scrive Hazlitt, aggiungono orrore all’orrore e lasciano la men-te impotente, incapace di trovare vie d’uscita. Lear abbandonato dal-la ragione, dalla fortuna, dalle forze, vacilla ma non si arrende, perchésostenuto dagli affetti e dalle corde che ancora risuonano nel suocuore.Kean appariva troppo violento all’inizio del dramma e troppo de-

bole nei suoi passaggi conclusivi, come se non riuscisse a gestire ilpersonaggio nella sua completezza, «he did not pierce the solid sub-stance, nor move the entire mass». O ancora, vi sono momenti in cuiegli sembra assente, come in uno stato di sospensione dalle passioni,e altri in cui sembra persino esitare, incerto dell’esito della propriainterpretazione. In altre parole, Edmund Kean disattende le aspetta-tive del pubblico perché non esprime al meglio le proprie qualità elascia credere che davvero Lear sia troppo complesso per trovare ade-guata espressione sulle scene teatrali di quegli anni.Ritornando ancora una volta alle parole di Charles Lamb, se «the

greatness of Lear is not in corporal dimension, but in intellectual»,per giungere al cuore, al senso più profondo della tragedia shake-speariana, può essere importante cercare altre strade, i cui limiti ab-biano un carattere compensativo rispetto a quelli presentati dal tea-tro. Quel che il teatro non riesce a raccontare o racconta in manie-ra imperfetta, lo si inizia a cercare nei copioni, lontano dalla confu-sione delle rappresentazioni. La lettura diventa appunto scelta alternativa, possibilità attraver-

so la quale recuperare la qualità originaria dei testi shakespeariani,nelle forme e nei contenuti che il teatro, in quanto forma di in-trattenimento, era diventato ormai incapace di rappresentare. Nonsi tratta di una sconfitta, di dichiarare il degrado di un genere e dei

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suoi mezzi espressivi: è piuttosto la presa d’atto di un cambiamen-to di sensibilità nel pubblico. A distanza di duecento anni il pubbli-co non è più lo stesso, pur restando immutato il potenziale espres-sivo dei drammi shakespeariani. Il pubblico borghese va a teatro perdistrarsi, ecco perché la componente visiva viene curata più dell’e-lemento drammatico e le tragedie depurate delle loro scene piùviolente. Ripensando al Re Lear privato della figura del fool e ricondotto a

un lieto fine, il caso della versione di Tate è emblematico, ma è soloil primo di una lunga serie. Così Leigh Hunt, dalle pagine del «The-atrical Examiner»:

The tragedy of King Lear was performed on Wednesday lastas it was altered by Tate, who was altered by Coleman, whowas altered by Garrick.Almost every fine play of Shakespeare has it’s genealogy ofemendation. Our great bard, whom everybody calls ‘the di-vine and the matchless’, is indeed so inimitable that every-body thinks himself capable of mending him11.

Dovranno passare altri trent’anni perché Lear ritrovi il suo fool. Ilmerito fu di William Charles Macready, il quale si impegnò a talpunto nella gestione del Covent Garden Theatre da promuovere unritorno alla serietà di intenti nel rappresentare Shakespeare e resti-tuire ai testi shakespeariani la loro qualità originaria. La nuova ver-sione, abbreviata ma assolutamente fedele all’originale, fu salutata conemozione ed entusiasmo da Charles Lamb:

What we ventured to anticipate when Mr Macready assumedthe management of Covent Garden Theatre, has been everyway realized. But the last of his well directed efforts to vin-dicate the higher objects and uses of the drama, has provedthe most brilliant and the most succesful. He has restored tothe stage Shakespeare’s true Lear, banished from it, by impu-dent ignorance, for upwards of a hundred and fifty years12.

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11 L. Hunt, «Theatrical Examiner» n. 18 (1808).12 C. Lamb, The Restoration of Shakespeare’s ‘Lear’ to the Stage, in «Theatrical Exam-

iner», vol. 6, n. 5 (February 1838).

Non è un caso che sia proprio Lamb a festeggiare il ritorno sul-le scene del ‘vero’ Lear: l’adattamento di Tate era stato uno dei moti-vi che lo aveva indotto a scrivere il celebre saggio sulla tragedia sha-kespeariana, al quale sono affidate le sue più importanti considera-zioni a proposito del teatro e della lettura. Nel disegno complessivodella tragedia la morte di Lear è conseguenza naturale e necessariadegli eventi che si susseguono dalla prima all’ultima scena del dram-ma. L’idea di cancellarla, di normalizzare a tutti i costi qualcosa chefin dalle battute di esordio ha presentato tradimenti, infedeltà, inte-ressi smodati e incomprensioni, è una nota stonata laddove tutto fapresagire una chiusura in minore.Nella lunga storia delle riletture shakespeariane, vi è un’altra vo-

ce che pone l’accento sulla ‘giustizia poetica’ del finale tragico delKing Lear. Con rara sensibilità, Victor Hugo racconta l’incontro con-clusivo tra Lear e Cordelia. Non c’è parola che esprima la perdita di un figlio per un genito-

re, Hugo scrive orphelin, invertendo i ruoli, perché colei che dal pa-dre aveva ricevuto la vita, ora gliela restituisce. Se tendendo le brac-cia Lear non può più raggiungere la dolce Cordelia, allora non vi èpiù ragione per continuare a vivere:

Cordelia approche. – Me reconnaissez-vous, sire? – Vous êtes unesprit, je le sais, répond le vieillard, avec la clairvoyance sub-lime de l’égarement. À partir de ce moment, l’adorable allai-tement commence. Cordelia se met à nourrir cette vieilleâme désespérée qui se mourait d’inanition dans la haine.Cordelia nourrit Lear d’amour, et le courage revient; elle lenourrit de respect, et le sourire revient; elle le nourrit d’e-spérance, et la confiance revient; elle le nourrit de sagesse, etla raison revient. Lear, convalescent, remonte, et, de degré endegré, retrouve la vie. L’enfant redevient un vieillard, le vieil-lard redevient un homme. Et le voilà heureux, ce misérable.C’est sur cet épanouissement que fond la catastrophe. Hélas,il y a des traîtres, il y a des parjures, il y a des meurtriers. Cor-delia meurt. Rien de plus navrant. Le vieillard s’étonne, il necomprend plus, et, embrassant ce cadavre, il expire. Il meurtsur cette morte. Ce désespoir suprême lui est épargné de re-ster derrière elle parmi les vivants, pauvre ombre, tâtant laplace de son cœur vidé et cherchant son âme emportée par

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ce doux être qui est parti. Ô Dieu, ceux qui vous aimez, vousne les laissez pas survivre.Demeurer après l’envolement de l’ange, être le père orphelinde son enfant, être l’œil qui n’a plus la lumière, être le cœursinistre qui n’a plus la joie, étendre les mains par momentsdans l’obscurité, et tâcher de ressaisir quelqu’un qui était là,où donc est-elle? se sentir oublié dans le départ, avoir perdusa raison d’être ici-bas, être désormais un homme qui va etvient devant un sépulcre; pas reçu, pas admis; c’est une som-bre destinée. Tu as bien fait, poète, de tuer ce vieillard13.

Sovvertito il corso naturale degli eventi, l’equilibrio ritorna in unpunto d’incontro, pur doloroso e triste. Anche il lettore modernopotrebbe concludere con Hugo «hai fatto bene, Poeta». Come se nonvi fosse mai dettaglio lasciato al caso tra i versi del Bardo che tuttosapeva confondere e ricomporre in misteriose e perfette armonie.

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13 V. Hugo, Shakespeare, cit., p. 226.

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